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PSICOLOGIA SOCIALE

Lezione 1
OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO
• Saper dare una definizione di psicologia sociale
• Distinguere i livelli di analisi della psicologia sociale e delle discipline affini
• Comprendere il contributo delle altre discipline psicologiche nello sviluppo della
psicologia sociale
• Delineare la storia della psicologia sociale, dalle sue origini ai giorni nostri

Capitolo 1
L’ABC della psicologia sociale
Il compito principale della psicologia sociale è cercare di predire:
(Affect, le emozioni) come si sentiranno,
(Behavior, il comportamento) come si comporteranno,
(Cognition, la cognizione) cosa penseranno degli esseri umani in un dato contesto
sociale.
L’interesse della disciplina è dunque posto sull’intersezione tra la dimensione individuale e
quella sociale.
Ogni volta che consideriamo un’emozione, un pensiero, o un comportamento di una persona ci
possiamo chiedere quanta parte di esso sia legata a variabili strettamente personali (specifiche,
dunque, dell’individuo in questione) e quanto a variabili situazionali (legate al contesto, comune a
più persone) e sociale (legato alle interazioni tra gli individui).
⇒In questo senso, la psicologia sociale è stata definita come:
L’indagine scientifica del modo in cui emozioni, pensieri e comportamenti degli individui sono
influenzati dalla presenza reale, immaginata, o implicita di altri esseri umani. [Allport 1954].
Non esiste processo psicologico che non sia in alcun modo influenzato dall’esistenza di altri esseri
umani. Possiamo pensare alla nostra memoria, al linguaggio, alla percezione (basti pensare a come
percepiamo la svastica, un antico simbolo religioso che solo nel secolo scorso è stato adottato da
Partito nazionalsocialista tedesco), al ragionamento, alla personalità e agli stereotipi e pregiudizi.
La psicologia stessa sembra avere una natura intrinsecamente sociale.
Tornando alla definizione. Quando Gordon Allport parla di presenza «reale, immaginata o implicita»
si riferisce a tre principali modalità con le quali gli altri ci influenzano.
1) La prima modalità, reale oppure oggettiva, fa riferimento alla presenza fisica di un’altra
persona: non ci comportiamo allo stesso modo quando siamo in presenza di un’altra persona
e quando siamo soli nella nostra stanza.

2) Non è necessario che ci sia presenza fisica per essere influenzati dagli altri, la presenza
immaginata fa riferimento alla nostra capacità di pensare agli altri anche quando questi non
sono fisicamente di fronte a noi.

3) Infine, la presenza implicita fa riferimento al concetto di norme sociali. Ci fermiamo al


semaforo rosso anche se non c’è un’autorità pronta a multarci, perché abbiamo interiorizzato
una specifica norma sociale che regola il comportamento stradale. Gettiamo il sacco dei
rifiuti negli appositi cassonetti anche se nessuno ci sta osservando e giudicando, perché
abbiamo bene in mente una norma sociale che regola il senso civico.
La definizione di Allport costituisce un’ottima base, che potremmo aggiornare rispetto ad almeno
due dimensioni. La prima riguarda il fatto che non è solo la presenza degli altri a influenzarci, ma
anche la loro assenza. L’essere esclusi e isolati socialmente influenza profondamente le persone.
L’altro possibile aggiornamento riguarda il virtuale, ossia l’influenza degli altri che avviene, ormai
sempre più frequentemente, in contesti e modalità online.
Pertanto, partendo da Allport potremmo affermare che la psicologia sociale è
L’indagine scientifica del modo in cui emozioni, pensieri e comportamenti degli individui sono
influenzati dalla presenza – o assenza – fisica, immaginata, implicita o virtuale di altri esseri umani.
Uno dei focus principali delle discipline psicologiche (in generale) riguarda lo scarto tra una realtà
«oggettiva» e la percezione «soggettiva» che di essa ne hanno gli esseri umani.
La ricerca sperimentale in psicologia nasce insieme allo studio empirico delle illusioni ottiche. Di
fronte a queste immagini, la mente percepisce qualcosa non è presente, oppure percepisce in modo
sbagliato qualcosa che nella realtà è diverso.

Le illusioni ottiche testimoniano come la mente umana non si limiti a recepire la realtà in modo
a essa fedele, ma che la rielabori attivamente per produrre rappresentazioni dotate di significato
che possono arrivare a essere anche molto distanti dalla realtà «oggettiva» stessa (nella fig.
1.1, il triangolo bianco al centro non esiste).
Più che una finestra sul reale, la mente potrebbe essere immaginata come un caleidoscopio
che nel ruotare può rappresentare a vari livelli e in varie forme il mondo, naturale e sociale, che
ci sta di fronte.

Potremmo quindi, dire che la psicologia sociale è lo studio di come la differenza tra la realtà
«oggettiva» e la percezione «soggettiva» delle persone è determinata dall’influenza degli altri.
Quelle linee che vedo disegnate davanti a me hanno la stessa lunghezza anche se le persone che mi hanno
preceduto sostengono pubblicamente il contrario? Il grido della donna che ho sentito sulle scale viene da una
vittima di violenza o da una coppia che sta scherzando? Il ragazzo nero che vedo avvicinarsi a una signora
anziana, vuole aiutarla ad attraversare la strada o è intenzionato a scipparla?

⇒Il nostro modo di percepire queste realtà sarà influenzato dalle esperienze passate, dai valori che
ci sono stati trasmessi, dagli stereotipi e pregiudizi che abbiamo assorbito nelle case in cui siamo
cresciuti e dal comportamento altrui in quelle stesse situazioni. Ecco perché la realtà, e in particolare
la realtà sociale, si presta a essere percepita in modi molteplici a seconda di come si sentono, pensano
o si comportano gli altri che ci circondano.
Mente sociale⇒ come un caleidoscopio costruito insieme agli altri.

Lezione 2
LA PSICOLOGIA SOCIALE È UNA SCIENZA?
Uno degli elementi di maggiore complessità delle discipline psicologiche, a partire dalla psicologia
sociale, è che l’oggetto di studio (l’essere umano) e il soggetto che studia (un essere umano)
coincidono.
Questa sovrapposizione tra oggetto e soggetto di studio aumenta non di poco il grado di
complessità della disciplina. Mentre una qualsiasi altra disciplina scientifica ha le due cose ben
divise.

Una delle principali conseguenze, come ben esposto nel cap.2, è che pressoché tutti gli esseri
umani posseggono delle teorie sul funzionamento della mente e del comportamento umano in
interazione con gli altri.
In effetti, se guardiamo al senso comune, troviamo molte massime che ci aiutano a navigare nel
mondo sociale, interpretare gli eventi passati oppure tentare di prevedere come andranno le cose.
Potremmo ad esempio porci la seguente domanda: «Per poter portare a termine un compito in modo efficace,
è meglio essere in tanti o pochi?». Se ci rivolgiamo al senso comune troviamo che «Chi fa da sé fa per tre»
ma anche che «L’unione fa la forza». Le due affermazioni vanno in direzione opposta, senza peraltro
specificare in quali condizioni potrebbe valere l’una o l’altra.

La psicologia sociale ha studiato in modo empirico gli effetti di inerzia e facilitazione


sociale (vedi cap. 4), identificando le condizioni in cui la presenza di altre persone inibisce e quelle
in cui facilita la prestazione dei singoli individui.
Tuttavia, il non aver mai letto un testo di psicologia sociale non fermerà certo la pressochè totalità
della popolazione umana dal continuare a ritenere di possedere le teorie «giuste» sul funzionamento
del comportamento dei loro simili.
Anzi, maggiore è l’ignoranza sulle questioni psicologiche e maggiore sarà il grado di sicurezza
mostrata nel sostenere le tesi più disparate. Questa tesi è fondata sul lavoro di due psicologi sociali,
David Dunning e Justin Kruger.
Effetto Dunning-Kruger: meno sappiamo di una data materia e più saremo convinti
delle nostre opinioni (è vero anche il contrario, più conosciamo una materia e maggior sarà la
nostra consapevolezza dei limiti del nostro sapere).

È un effetto paradossale, ma che rende bene la distanza tra le credenze del senso comune e lo
studio scientifico.
Ciò che definisce una disciplina in quanto scienza non dipende da quello che si ricerca (l’oggetto di
studio) ma come lo si fa (il metodo).
La psicologia sociale, al pari di altre discipline, utilizza un metodo scientifico o metodo
sperimentale.
La psicologia sociale tra le discipline sociali e psicologiche
La psicologia sociale si caratterizza per le costanti intersezioni e influenze con altre discipline,
appartenenti sia all’ambito della psicologia che delle scienze sociali.
Se questa peculiarità rappresenta uno degli aspetti più affascinanti della psicologia sociale, essa
può portare a una certa difficoltà a identificare le giuste specificità di questa disciplina rispetto alle
altre scienze sociali e psicologiche.
Psicologia sociale e sociologia: convergenze e divergenze
La linea di demarcazione tra la psicologia sociale e la sociologia risulta infatti alla maggior parte
delle persone particolarmente sfumata.
I punti in comune:
• sono entrambe scienze sociali che studiano gli individui all’interno dei gruppi e società dove
vivono.
• psicologi sociali e sociologi si occupano spesso degli stessi fenomeni sociali, come ad
esempio l’esclusione sociale dei gruppi di minoranza o le disuguaglianze sociali.
Differenza principale:
• il focus di analisi di questi fenomeni.
La psicologia sociale, in quanto disciplina psicologica, fonda la sua analisi a livello dell’individuo
(livello micro): indaga cioè come i pensieri, le emozioni e i comportamenti della persona influenzino
e, soprattutto, siano influenzati dai gruppi sociali o dalla società di appartenenza.
VS
La sociologia invece si pone a un livello di analisi più generale (livello macro): parte cioè dallo
studio della società umana e dei gruppi che la compongono, andando a indagare la loro formazione,
struttura e possibili cambiamenti.
⇒ Per provare a concretizzare questi diversi livelli d’indagine, si pensi alle disuguaglianze sociali,
uno dei fenomeni recentemente più studiati dagli psicologi sociali e dai sociologi (oltre che dagli
economisti): il focus d’indagine principale della psicologia sociale riguarda i processi psicologici
individuali, ovviamente influenzati socialmente, che permettono il mantenimento e perpetuarsi di
queste disuguaglianze (per un riferimento teorico vedi la teoria della giustificazione del
sistema, cap. 4).
La sociologia, invece, si focalizza principalmente su come le disuguaglianze sociali portino a un
cambiamento nella struttura della società e dei diversi elementi che la compongono, andando ad
esempio a investigare gli effetti di queste disuguaglianze sull’aumento della criminalità o povertà in
determinati contesti.
Idealmente, un costante dialogo e scambio di conoscenze tra la psicologia sociale e la sociologia
dovrebbe essere una priorità per gli studiosi: l’integrazione delle due prospettive d’analisi può infatti
portare a una più esaustiva comprensione dei fenomeni sociali studiati.
Tuttavia, l’iperspecializzazione che contraddistingue gran parte delle scienze, assieme ai diversi
metodi d’indagine solitamente utilizzati dalla psicologia e sociologia, ostacolano forse troppo spesso
il dialogo tra gli studiosi di questi campi.

Quanto detto sino a ora può riferirsi anche al rapporto tra la psicologia sociale e l’antropologia,
intesa come lo studio della cultura umana e, in particolare, dei valori e pratiche che caratterizzano
determinate comunità.
Anche in questo caso, l’analisi di questa disciplina si pone a un livello più generale. Ma similmente a
prima, i comportamenti sociali degli individui studiati dalla psicologia sociale non possono essere
compresi appieno senza avere una chiara idea del contesto culturale entro cui questi avvengono.
La psicologia sociale e le altre psicologie: intersezioni e distinzioni
Per riuscire a comprendere ancor meglio la psicologia sociale, è necessario approfondire come essa
si rapporti con le altre discipline psicologiche.
Nel corso della sua storia, questa branca della psicologia è probabilmente quella che ha attinto
maggiormente da approcci, conoscenze e strumenti provenienti dalle altre psicologie. Al riguardo, gli
esempi sono innumerevoli.
• Rapporto tra la psicologia sociale e la psicologia cognitiva, lo studio cioè della cognizione
dell’essere umano e, dunque, di tutti i processi che regolano la sua cognizione dell’ambiente
esterno (ad esempio, l’attenzione, la memoria o la percezione). I modelli teorici e le evidenze
empiriche di quest’ambito della psicologia sono stati anzitutto determinanti per lo sviluppo
della cognizione sociale.
Negli ultimi decenni gli assunti e i paradigmi usati dalla psicologia cognitiva hanno dato
grande impulso allo sviluppo delle misure implicite, strumenti usati dagli psicologi sociali per
rilevare i pensieri o le emozioni in modo indiretto e spesso al di fuori della loro
consapevolezza.

• Gli anni Novanta (decade of the brain) hanno segnato un forte avvicinamento tra la
psicologia sociale e la neuropsicologia, che studia la relazione tra i processi neurobiologici
e quelli cognitivi e comportamentali degli esseri umani.
Attualmente, l’obiettivo delle neuroscienze sociali di studiare i meccanismi e le origini
neurali di fenomeni studiati dalla psicologia sociale. Es. la formazione delle prime impressioni, di
stereotipi o pregiudizi, ricorrendo a strumenti comunemente utilizzati dalle neuroscienze
(l’elettroencefalogramma).

• Tra le diverse branche della psicologia, la psicologia della personalità è probabilmente il


parente più stretto della psicologia sociale.
Uno dei primi tentativi di spiegare il pregiudizio (uno fra i temi più studiati dalla psicologia sociale) è
stato avanzato da Theodor W. Adorno, il filosofo e pensatore tedesco che ricondusse le origini di
questo fenomeno a particolari tratti di personalità dell’individuo (la cosiddetta personalità
autoritaria [Adorno et al. 1950]).

Questa tradizionale vicinanza è determinata dalla forte complementarità di queste due discipline:
⇒la psicologia della personalità infatti «guarda dentro» gli individui, focalizzandosi sulle loro
caratteristiche di personalità (o tratti individuali) e i processi psicologici più interiori;
⇒la psicologia sociale «guarda all’esterno» degli individui, studiando quindi l’impatto dei fattori
sociali sui processi psicologici individuali.
Esempio: indagare le ragioni di episodi di bullismo in un determinato contesto scolastico.

• Lo psicologo della personalità principalmente si focalizzerà (ed agirà) sulle caratteristiche di


personalità del «bullo» (ad esempio, scarse capacità empatiche) e della vittima di bullismo (ad
esempio, bassi livelli di autostima).
• Lo psicologo sociale baserà l’esamina del caso sui fattori sociali e contestuali che determinano questi
episodi, quali ad esempio le norme sociali instaurate nel gruppo classe o il ruolo più o meno passivo
dei compagni «spettatori» di questi eventi.
Ovviamente, un quadro chiaro ed esaustivo del fenomeno si può ottenere soltanto integrando questi
due livelli di analisi, considerando dunque sia i fattori individuali che sociali che caratterizzano la
situazione.
Bene sottolineare che nella spiegazione di diversi fenomeni sociali (ad esempio, l’obbedienza
all’autorità, cap. 4 ), apparirà chiaro come la psicologia sociale assegni al contesto e ai fattori sociali
un ruolo predominante rispetto alle caratteristiche di personalità degli attori coinvolti.
Ciò non significa che, la psicologia sociale non tiene conto della «soggettività» delle persone e delle
loro differenze individuali, che inevitabilmente esistono in qualsiasi dei fenomeni trattati. Ma la
disciplina si propone comunque di studiare gli effetti dei fattori sociali su processi psicologici
«generali» e «normali» delle persone, che dunque emergono al di là di differenze individuali.
Ciò implica due questioni:
1. la necessità degli psicologi sociali di tenere sotto controllo le differenze individuali degli
individui: COINVOLGERE TANTE PERSONE+ASSEGNAZIONE CASUALEfondante = criterioper
la ricerca sociale

2. Considerare nella maggior parte dei casi le caratteristiche di personalità e le differenze


individuali a esso associate come variabili moderatrici, fattori che possono amplificare o
diminuire gli effetti dei processi psicologici generali indagati.

Ad esempio, la psicologia sociale considera il pregiudizio, almeno nelle sue origini, un fenomeno
sociale «ordinario», che riguarda tutti gli individui. Tuttavia, sottolinea come particolari tratti di
personalità svolgano un ruolo cruciale nel predire la propensione delle persone a esprimere alti o
bassi livelli di pregiudizio verso un ampio numero di gruppi sociali.
Il focus della psicologia sociale su processi psicologici «ordinari» degli individui è anche il criterio
principale che la distingue dalla psicologia clinica, che invece studia i processi psicologici
disfunzionali o patologici delle persone, e le relative modalità di trattamento. Seppur queste due
psicologie possano sembrare distanti tra loro, molte delle teorie proposte dalla psicologia sociale
sono state applicate in ambito clinico per una migliore comprensione e prevenzione dei disturbi
comportamentali delle persone in specifici contesti sociali.
Lezione 3

Origine, evoluzione e futuro della psicologia sociale


Le origini della psicologia sociale
È stato difficile individuare una data di origine precisa della psicologia sociale, questo poiché non si
è riusciti a decidere un criterio, condiviso dalla comunità scientifica di riferimento, che consentisse di
definire in modo univoco tale inizio.
1864: prima volta in cui è stato utilizzato il termine «psicologia sociale» in ambito scientifico⇾ filosofo
e politologo Carlo Cattaneo.
Pubblicò un articolo nella rivista «Il Politecnico», in cui citò tale termine esponendo la teoria delle
«menti associate», secondo cui le nuove idee determinanti per il progresso di una società emergono
soltanto attraverso l’interazione tra le «menti individuali».

1908: data di pubblicazione dei primi manuali della disciplina: An introduction to social psychology,
dello psicologo britannico McDougall, e Social psychology, del sociologo statunitense Ross.
Tuttavia, i contenuti e i temi trattati sono parecchio distanti da quelli considerati nel presente manuale
e poco legati dunque a una concezione moderna della psicologia sociale.

La gran parte dei manuali introduttivi alla psicologia sociale concorda nel far risalire le origini di
questa disciplina al 1897, anno in cui Norman Triplett, fece il primo esperimento di psicologia
sociale.
⇒Il ricercatore, appassionato di corse ciclistiche, partì da una metodica registrazione dei tempi di
gara ottenuti da diversi ciclisti dell’epoca, osservando come di media questi avessero delle
prestazioni migliori quando competevano con altri ciclisti rispetto a quando correvano da soli contro
il cronometro.
Partendo da questa osservazione, decise di condurre un esperimento nel suo laboratorio con
l’obiettivo di dimostrare che la presenza di altre persone porta di per sé a un miglioramento delle
prestazioni del singolo nell’esecuzione di compiti semplici e ben appresi.
Dimostrazione indiretta dell’effetto di facilitazione sociale, un fenomeno molto studiato da diversi
ricercatori a partire dalla seconda metà del secolo scorso (vedi cap. 4).
N.B Esperimento competition machine

L’evoluzione della psicologia sociale


Anni Venti e Trenta= la psicologia sociale si afferma come vera e propria disciplina, almeno nel
contesto statunitense.
 Condotti innumerevoli studi di stampo psicosociale: gran parte di questi si proponevano di
studiare gli atteggiamenti delle persone, tema questo che rivestì un’importanza cruciale per
la psicologia sociale di quegli anni e per molti decenni successivi.
 Primi tentativi di misurazione degli atteggiamenti attraverso scale di misura quantitative e il
celebre studio condotto sul campo di LaPiere [1934] (vedi cap. 4), che per primo mise in
discussione l’effettivo potere predittivo degli atteggiamenti sui conseguenti comportamenti.
 Negli anni Trenta furono anche condotti ingegnosi studi di laboratorio, come quello basato
sull’effetto illusorio dell’autocinesi [Sherif 1936] per esplorare come si formano le norme
sociali e gli atteggiamenti degli individui attraverso l’interazione con gli altri.
Studi che furono di grande ispirazione per uno dei più consistenti e importanti ambiti di
ricerca della psicologia sociale, l’influenza sociale.
⇒In realtà, la fonte ispiratrice più grande (e drammatica) per l’avvio di questo filone di ricerca fu la
Seconda guerra mondiale e, in particolare, l’avvento e l’instaurazione del regime nazionalsocialista.
Gli studiosi psicosociali si trovarono a dover rispondere a rilevanti domande:
• Come è stato possibile che tali dittature abbiano avuto un così alto consenso popolare, nonostante le
drammatiche efferatezze che hanno compiuto?

Significative risposte a queste domande sono state fornite dalle ricerche sul conformismo di
Solomon Asch [1951] e sull’obbedienza all’autorità di Stanley Milgram [1961], due tra gli studiosi
più importanti dell’intera disciplina.
Anni Sessanta e Settanta= la psicologia sociale si afferma anche in Europa come disciplina
psicologica.
• Significativo contributo fu fornito dello psicologo rumeno-francese Serge Moscovici e dai suoi
studi sull’influenza sociale delle minoranze, che rappresentarono un innovativo punto di
vista rispetto a ciò che era stato mostrato fino ad allora sull’influenza sociale;
• Un’altra figura che influenzò profondamente lo sviluppo della psicologia sociale europea fu
Henri Tajfel, che grazie ai suoi studi sulla categorizzazione sociale (vedi cap. 3) e sui gruppi
minimi (vedi cap. 10) pose le basi teoriche per la comprensione di fenomeni che rivestono
tuttora una primaria importanza per la psicologia sociale, quali stereotipi e pregiudizi.
Tema era già familiare grazie al libro dello psicologo americano Gordon Allport The nature of
prejudice [1954] ⇾ una delle opere più influenti dell’intera storia della disciplina.
• L’antisemitismo della prima metà del Novecento portò anche a una significativa migrazione di
importanti studiosi ebrei dal contesto europeo a quello americano. Tra questi Kurt Lewin con
la sua teoria di campo [Lewin 1935].
Ogni individuo è costantemente immerso in un campo di forze che agiscono contemporaneamente e
in direzioni talvolta opposte, come una sorta di campo elettromagnetico. Quindi, per comprendere
qualsiasi comportamento umano, è necessario analizzare lo «spazio di vita» della persona e le sue
forze endogene (ad esempio, la sua cognizione e le sue motivazioni) in stretta connessione con le
forze esogene, intese come tutte le influenze che provengono dall’ambiente sociale esterno entro
cui la persona interagisce.
Tale visione dell’individuo e del suo modo di agire rappresentò – e rappresenta tuttora – un
importante riferimento interpretativo di gran parte dei fenomeni sociali che vengono studiati da
questa disciplina.
Anni Settanta e Ottanta = momento d’incontro psicologia sociale - psicologia cognitiva con
conseguenza un crescente interesse nello studio empirico dei processi cognitivi «di base».
Anni Novanta= significativo sviluppo⇾ prospettiva evoluzionistica e quella delle neuroscienze hanno
avuto – e stanno avendo – un’importante influenza nella comprensione del comportamento sociale
degli individui.
Negli ultimi decenni, gli ambiti di studio della psicologia sociale si sono espansi e diversificati,
includendo temi come: l’esclusione sociale, l’aggressività, l’altruismo e i comportamenti prosociali
Attualmente si stanno affermando ulteriori ambiti di ricerca: la psicologia ambientale, la psicologia
politica, ecc…

«Psicologia sociale 2030»: le direzioni future


La psicologia sociale sta vivendo una profonda crisi interna, fatta di aspri dibattiti tra i ricercatori.
Questo in quanto è emersa una percentuale sorprendentemente alta di risultati riportati nelle riviste
scientifiche del settore poco attendibile, non viene cioè replicata in studi simili successivi (crisi della
replicabilità).
Necessario lo sviluppo di studi empirici con:
• impianti metodologici + solidi;
• campioni di + ampi;
• tecniche statistiche +raffinate.
Sempre da un punto di vista metodologico, questa disciplina si sta attualmente interrogando circa
l’effettiva rappresentatività dei campioni di partecipanti considerati in gran parte dei suoi studi.
Il 96% delle ricerche pubblicate nelle migliori riviste di ambito psicologico (psicologia sociale
compresa) si sono sempre avvalse di partecipanti cosiddetti WEIRD, rappresentativi soltanto del
12% dell’intera popolazione mondiale.

Campioni provenienti da Con un livello di Industrializzate Benestanti con sistemi democratici


società occidentali scolarizzazione (Industrialized) (Rich) (Democratics).
(Western) alto (Educated)
Concretamente questo campione è costituito studenti universitari, campione «privilegiato» vista la
loro facilità di reperimento e coinvolgimento. Tuttavia, la sovra rappresentazione di questa
popolazione pone una significativa questione circa la validità esterna dei risultati trovati: abbassa la
probabilità che gli eventuali effetti trovati siano poi generalizzabili a un’ampia fascia della popolazione.

Si sta provando ad invertire questa tendenza, cercando sempre più di condurre studi capaci di
coinvolgere partecipanti non-WEIRD, provenienti ad esempio da contesti geografici e culturali
diversi, o da fasce di popolazione fino ad ora poco rappresentate.
Un ulteriore aspetto su cui si stanno ultimamente interrogando gli psicologi sociali riguarda
la stabilità nel tempo dei processi psicosociali studiati. È essenziale riuscire ad assumere per gran
parte dei fenomeni sociali studiati una prospettiva più storicizzata.
È chiaro che in un immediato futuro le interazioni sociali degli individui, oggetto d’indagine principale
di questa disciplina, avranno luogo sempre più in contesti virtuali rispetto a contesti reali, oppure
avverranno con agenti sociali non umani (ad esempio, i social robots).
Capitolo 2
FARE RICERCA IN PSICOLOGIA SOCIALE
OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO
• Comprendere cosa sono teorie, ipotesi e variabili
• Comprendere i livelli dell’indagine empirica
• Conoscere i principali metodi di raccolta dei dati
• Conoscere le questioni legate alle repliche nella ricerca psicologica

Le teorie scientifiche
Le teorie scientifiche si propongono di: spiegare e prevedere dei fenomeni in modo sistematico,
proponendo una serie di affermazioni che specificano le relazioni, anche in termini causali, tra
concetti e variabili relative al fenomeno di interesse [Kerlinger 1964].
Corbetta [1999] individua una serie di elementi essenziali per definire una teoria scientifica.
1. Una teoria= insieme di proposizioni organizzate sulla base di regole logiche. Ciò implica, tra
le altre cose, che le proposizioni non si contraddicano reciprocamente.

2. La teoria scientifica è collocata a un elevato livello di astrazione e generalità.

3. La teoria deriva da una serie di osservazioni empiriche che rivelano una certa regolarità nel
fenomeno di studio e tramite ulteriori osservazioni empiriche sarà poi vagliata.
I risultati potranno poi falsificare la teoria, oppure confermare le sue previsioni (quadro 2.1).

4. Una teoria scientifica è in grado di generare previsioni e spiegazioni che trascendono, grazie
all’elevato livello di astrazione, il contesto in cui è stata creata. Questo è possibile anche
grazie al fatto che la struttura logica che organizza le proposizioni permette di derivare nuove
proposizioni basandosi su quelle precedenti
Esiste la realtà oggettiva e possiamo conoscerla?
Visione hard e tradizionale della scienza: il mondo è governato da leggi e meccanismi naturali che possono
essere conosciuti appieno tramite la ricerca scientifica.
È quindi possibile verificare un’ipotesi confrontandola con fatti oggettivi indipendenti dalle teorie e dal
ricercatore. Il metodo sperimentale è quello ideale perché permette di comprendere le cause dei fenomeni e
quindi le leggi che le regolano. La risposta alla domanda «la realtà esiste?» è quindi un netto sì: la realtà
esiste e può essere conosciuta e spiegata in modo preciso e oggettivo.

Posizione soft: l’idea che, sebbene esista una realtà esterna, essa possa essere conosciuta solo in modo
imperfetto e probabilistico. Il ricercatore tende a una conoscenza oggettiva, ma è consapevole che i risultati
che ottiene riflettono una visione probabile e non la realtà in sé. In questa prospettiva acquisisce ancora
maggior rilievo il ruolo della comunità scientifica che, tramite il confronto basato su criteri condivisi, stabilisce
quali ipotesi siano più probabili e quali meno. In questa prospettiva, altri metodi di ricerca oltre l’esperimento
trovano maggiore spazio e valore.

Ipotesi, variabili dipendenti e indipendenti


Teoria = insieme organizzato di proposizioni.
Le proposizioni possono essere di diversi tipi, la + interessante è l’ipotesi= un’affermazione che
mette in relazione due o più concetti.
Le ipotesi spesso prendono la forma del se-allora: «Se X allora, con una certa probabilità Y». In
questo caso l’ipotesi associa i concetti X e Y. Ad esempio, «Se le persone hanno alta popolarità (X)
allora, con molta probabilità, tenderanno a escludere altre persone (Y)».
Questo tipo di ipotesi è anche detta ipotesi concettuale, e ha una portata + limitata e - generale
rispetto alla teoria che la include.
Essa, tuttavia, è formulata ancora a un livello troppo astratto per poter essere sottoposta al vaglio
empirico. La possibilità di verificare empiricamente un’ipotesi è un requisito fondamentale del
processo scientifico e distingue i campi di studio empirici da quelli non empirici.
o A questo scopo è necessario che l’ipotesi venga operazionalizzata = i concetti che
compongono l’ipotesi devono essere associati ad eventi osservabili e quantificabili.
Ciò è possibile tramite definizioni operative dei concetti che trasformeranno l’ipotesi concettuale in
un’ipotesi operativa.
Quando un concetto viene operazionalizzato, esso si trasforma in variabile=un’entità empiricamente
rilevabile che può assumere diversi valori.
Quando l’ipotesi prevede un nesso di causa-effetto tra le due variabili:
• variabile indipendente: variabile a cui viene assegnato il ruolo di causa (perché non
dipende da altre variabili es. età, sesso…),
• variabile dipendente: variabile su cui si vuole verificarne l’effetto (influenzata dalla
indipendente).
Aspetto critico della ricerca scientifica, soprattutto nelle scienze sociali e nella psicologia in
particolare, è proprio il processo di operazionalizzazione.
Un concetto infatti può essere oggetto di molteplici definizioni operative e tra queste il ricercatore
dovrebbe scegliere secondo un principio di parsimonia e semplicità.
In altri termini, bisognerebbe individuare la definizione operativa più vicina e sovrapponibile con il concetto che
si vuole esaminare.

Bisogna quindi essere molto cauti rispetto a questi passaggi, così come rispetto alle conclusioni che
si traggono dalle ricerche, tenendo bene a mente che le osservazioni empiriche possono sostenere
direttamente solo l’ipotesi operativa, ma non necessariamente quella concettuale.

2.2 I passaggi fondamentali del metodo scientifico:

1. Formulazione delle ipotesi. Dopo aver scelto o essere stati indirizzato verso un certo tema di
ricerca, è importante formulare ipotesi chiare e testabili.

2. Scelta tra diversi approcci di ricerca.

3. La raccolta dei dati vera e propria. Questo può richiedere un tempo e uno sforzo variabile tra
un’ora e qualche decennio.

4. Analisi dei dati e nella formulazione delle conclusioni. Questo passaggio richiede una serie di
competenze statistiche che permettano, anche in questo caso probabilisticamente, di
giungere a delle conclusioni che aumentano o diminuiscono la nostra fiducia nella teoria che
ha generato l’ipotesi.

5. Condivisione dei risultati con la comunità scientifica. Questo vuol dire stilare un report che
può avere la forma di un libro, un articolo, una tesi o altro. Va detto che in molti casi, per
varie ragioni, si tende soprattutto a condividere i risultati che sostengono le teorie e non
quelli che le falsificano. Recentemente, in psicologia, questo approccio sta cambiando.

I livelli di indagine empirica


Come scritto nel punto 3 è necessario decidere qual è lo scopo di una ricerca e quindi il livello
dell’indagine empirica a cui attestarsi. Esistono tre opzioni:
a) indagine descrittiva;
b) indagine correlazionale;
c) indagine sperimentale.
Premessa: questi tre livelli di indagine caratterizzano sia le scienze fisiche che le sociali e raramente
una ricerca si colloca esclusivamente a uno solo di questi livelli. Più spesso, soprattutto in psicologia
sociale, è comune imbattersi in impianti di ricerca «misti» che combinano due livelli di indagine, ad
esempio indagini «descrittive-correlazionali» o «correlazionali-sperimentali».
a) INDAGINE DESCRITTIVA
Le indagini descrittive possono essere svolte attraverso l’osservazione (raccolta dei dati attraverso
la vista e in generale i propri sensi, dei questionari e delle ricerche d’archivio).
Generalmente si possono avere delle ricerche descrittive di buona qualità in due casi piuttosto
diversi:
• Rilevazioni molto approfondite su pochi casi. Ad esempio, si intervista in profondità tutti i coinvolti
in un paio di episodi di esclusione capitati nell’ultima settimana nella sua classe .

• Poche domande a un campione più ampio e rappresentativo possibile. In questo caso, nel
cercare di stabilire quanto è frequente l’esclusione sociale si prepara un set di 5 domande da far
compilare a 1.000 studenti italiani delle superiori su tutto il territorio nazionale. Ne emergerebbe una
descrizione forse non particolarmente ricca e approfondita, ma in grado di rappresentare una
situazione a un livello più generale.

Le indagini descrittive possono costituire il primo approccio a un’area di ricerca, e possono aiutare
ad arrivare a definizioni operative dei concetti più precise. Ma spesso la psicologia sociale,
soprattutto di matrice quantitativa, si pone come obiettivo conoscitivo quello di: andare oltre la mera
descrizione dei fenomeni, e punta invece alla spiegazione dei processi sottostanti un fenomeno e
quindi alla possibilità di prevedere i fenomeni stessi.
Per questi obiettivi è necessario pensare a indagini correlazioni e sperimentali.
b) INDAGINE CORRELAZIONALE
L’ indagine correlazionale ⇒ scopo di studiare come ciò che accade a livello comportamentale
(ovvero cognitivo o emotivo) è in relazione con altri fattori e condizioni (dimensioni, variabili).
Vantaggi: praticità e flessibilità.
Possono essere indagate contemporaneamente le correlazioni tra molte variabili rilevate attraverso
misure diverse.

Questo rende le ricerche correlazionali relativamente semplici da condurre e talora anche in grado di
fornire risultati più affidabili rispetto a quelli ottenuti dagli esperimenti (par. 2.3), che tendono spesso
a coinvolgere campioni più piccoli, e perciò meno rappresentativi.

Svantaggi:
o L’esistenza di una correlazione non costituisce una prova sull’esistenza o sulla direzione di
un nesso causa-effetto tra le variabili che si stanno considerando.

Es. Sappiamo, grazie a molte ricerche, che le persone sposate riportano maggiore felicità rispetto a
quelle non sposate [Seligman 2002]. Si potrebbe concludere quindi che mediamente (non per tutti
ovviamente!) il matrimonio sia una fonte causale di felicità nella vita. Questo è un errore tanto grave in
termini di validità delle conclusioni che si traggono, quanto facile da commettere, perché gli esseri
umani sono generalmente abituati a ragionare in termini di relazioni causali tra variabili (scienziato
ingenuo). C’è infatti un’altra direzione causale alternativa, che ha altrettanto senso, come che le
persone infelici siano meno propense a sposarsi o meno attraenti per gli altri e quindi più
probabilmente single. È impossibile stabilire quale delle due spiegazioni sia giusta senza cambiare
tipo di indagine.

o Altro problema associato a quello della direzione della causalità è quello della
cosiddetta variabile interveniente. La relazione tra le variabili X e Y può essere dovuta a
una terza variabile K che le determini entrambe.

Immaginiamo, ad esempio, che esista una robusta correlazione tra la vendita di gelati e di occhiali da
sole. Quale potrebbe essere il fattore che spiega questa correlazione? Molti lettori avranno
immediatamente pensato all’arrivo dell’estate o a una giornata calda e assolata. In effetti questa è la
spiegazione più probabile. Il clima (variabile K) spiega sia l’aumento delle vendite di gelati (X) che di
occhiali (Y). Ogni altra conclusione basata sulla relazione tra X e Y potrebbe quindi essere sbagliata.
La qualità delle ricerche correlazionali è strettamente legata alla qualità delle misure che vengono
utilizzate, oltre che a un buon campionamento, cioè il reclutamento di partecipanti che rappresentino
al meglio la popolazione a cui si vogliono generalizzare i risultati ottenuti.
Si intende per «buona misura» una precisa e valida buona operazionalizzazione di un concetto più
astratto.
Ad esempio, cos’è l’estroversione? Come si operazionalizza in una misura self-report? (vedi par.
3.1). Tanto più le domande utilizzate garantiscono precisione nella misura e tanto più saranno in
grado di riflettere il vero concetto di estroversione come inteso dal ricercatore, tanto più la misura
sarà valida.
c) L’INDAGINE SPERIMENTALE
Cosa caratterizza l’indagine sperimentale e la differenzia rispetto agli altri tipi di indagine?
Fiske indica 3 caratteristiche fondamentali.

1. Manipolazione sperimentale, ossia la creazione di due o più condizioni sperimentali che


riflettono i diversi livelli della variabile indipendente.
Nel più semplice degli esperimenti si avrà: la condizione sperimentale in cui i partecipanti
sono sottoposti a un certo tipo di trattamento e il gruppo di controllo in cui questo
trattamento è assente.

2. Controllo, strettamente legato alla presenza di una


manipolazione. Infatti, affinché si possa essere
ragionevolmente certi che l’unico elemento che varia
tra le due condizioni sperimentali sia solo quello
intenzionalmente manipolato, il ricercatore deve poter
esercitare un livello di controllo estremamente
elevato sul contesto sperimentale.
Idealmente, il controllo dovrebbe essere tale da
creare una condizione totalmente isolata, in cui
nessun elemento possa interferire con i due gruppi, e
l’unica differenza che può condizionare i risultati sia
la presenza o assenza del trattamento o intervento
sperimentale.

3. Randomizzazione, l’assegnazione casuale dei partecipanti alle condizioni degli esperimenti,


permette di «isolare» i gruppi studiati rendendoli simili per tutte le influenze esterne
indesiderate.
Assegnando a caso un numero sufficiente di persone alle condizioni sperimentali, si
otterranno gruppi (probabilisticamente) equivalenti perché le caratteristiche personali, fisiche,
psicologiche, sociali, saranno ugualmente distribuite nei gruppi.
L’unica differenza fra i gruppi sarà la condizione sperimentale determinata dalla
manipolazione.

Breve comparazione tra indagini sperimentali e correlazionali che sono i due tipi di indagine
attualmente più comuni in psicologia sociale
L’esperimento è un tipo di indagine molto più controllata, che non hai quasi mai fini esplorativi ma si
propone di testare un numero ridotto di ipotesi specifiche.

Il disegno correlazionale, coinvolgendo molte più variabili, permette di testare più ipotesi, anche in
via esplorativa, ma non permette di trarre conclusioni sui nessi causali. Inoltre, non prevede
l’assegnazione casuale e, nella maggioranza dei casi, può svolgersi al di fuori del laboratorio.

2.4. Esperimenti sul campo e in laboratorio


Laboratorio= PRO facilita il controllo e rende più semplice operare la randomizzazione.
CONTRO artificialità del contesto.
Esperimenti sul campo= posizione intermedia tra i due poli di questo dilemma.
Si svolge in ambienti naturalistici, dove si cerca di manipolare la variabile indipendente, ma si
rinuncia alla randomizzazione.
Il risultato è un quasi-esperimento, vale a dire uno studio sperimentale dove i gruppi osservati non
sono stati creati tramite la randomizzazione. Tuttavia, in molti casi questi studi forniscono
informazioni preziose che non si sarebbero potute ottenere attraverso degli esperimenti.

3. I metodi di raccolta dei dati


I dati sono «costruiti» dal ricercatore, che compie alcune azioni al fine di ottenere un’evidenza
empirica che permetta di sottoporre a test la propria ipotesi concettuale. La «costruzione» dei dati
avviene quindi anche attraverso il delicato processo dell’operazionalizzazione.
Per tutti i tipi di indagine già descritti, molte sono le possibilità di raccolta dati esistenti in psicologia
sociale.
È utile comprendere alcune dimensioni generali su cui possono variare le misure adottate dai
ricercatori:
1. La fonte della registrazione o dell’osservazione, che può essere il partecipante stesso
alla ricerca o un’altra persona, come ad esempio il ricercatore, o una terza parte.

2. Il grado di intrusività di una misura.


Misure poco intrusive= limitano la consapevolezza del partecipante di essere oggetto di
indagine da parte dei ricercatori. Ciò per evitare che il partecipante alteri intenzionalmente le
proprie risposte per trasmettere un’immagine positiva di sé, ad esempio.

3. La distanza della misura dal comportamento concreto che si intende analizzare può
variare molto a seconda del metodo di raccolta adottato. Alcune misure rilevano direttamente
il comportamento oggetto di studio. Altre misure si limitano a rilevare l’intenzione di
comportarsi in un certo modo
3.1 I self-report
Self-report= tutte le misure che si basano sulla testimonianza diretta del partecipante alla ricerca.
(questionario).

Tramite i self-report si possono indagare una grande varietà di costrutti psicologici, anche piuttosto
astratti, come ad esempio valori, personalità, motivazioni, emozioni, atteggiamenti, stati mentali.

Le misure self-report sono particolarmente semplici ed economiche da implementare e


somministrare e permettono di indagare i processi psicologi che sottendono a un certo
comportamento. (metodo + utilizzato in psicologia sociale).

I limiti principali dei self-report: metodiche particolarmente intrusive e distanti dall’effettivo


comportamento delle persone. L’intrusività le rende inadatte a indagare temi particolarmente delicati
in termini di immagine sociale. (Es. abuso di droghe)

Importante limitare l’uso dei self-report nella misura di stati o caratteristiche di cui le persone
possano essere facilmente consapevoli. (Molto utile però per misurare gli atteggiamenti)
3.2. Archivio e tracce
Le ricerche d’archivio si basano su dati raccolti precedentemente per scopi indipendenti da quelli
dell’attuale ricerca. Le fonti da cui attingere dati possono essere numerosissime: quotidiani, riviste,
archivi storici…
Le tracce: osservando le tracce fisiche dei comportamenti attuati è possibile quantificare tali
comportamenti nel tempo e nello spazio.
(Es. valutando il grado di usura delle sedie di un’aula universitaria, si possono trarre delle conclusioni su dove
le persone preferiscono sedersi).
Sia nel caso delle tracce che dei dati di archivio, i partecipanti non sanno di essere stati oggetto di
una specifica ricerca⇒ Misure particolarmente poco intrusive.
Infine, in particolar modo le ricerche di archivio, permettono di confrontare i cambiamenti nel
comportamento sociale su un arco temporale piuttosto lungo. Tuttavia, molto spesso i ricercatori si
devono accontentare di operazionalizzazioni di fortuna, che possono essere quindi piuttosto distanti
da quello che si vuole effettivamente misurare.
3.3. L’osservazione
Osservare e annotare ciò che la gente fa è spesso un ottimo modo di conoscere un fenomeno,
soprattutto quando si hanno poche informazioni a disposizione.
Tramite l’osservazione si accede direttamente al comportamento, ma la presenza del ricercatore in
un certo contesto potrebbe alterarlo rendendolo poco rappresentativo di quello che avviene in realtà.

3.4. Le misure psicofisiologiche


Le misure psicofisiologiche possono essere distinte tra:
• misure periferiche, cioè centrate sull’attività del sistema nervoso autonomo e periferico
(elettromiografia, attività elettrodermica, misure cardiovascolari, dilatazione pupillare)
• misure dirette dell’attività cerebrale (elettroencefalogramma e risonanza magnetica funzionale)
3.5. Le misure implicite
Misure implicite= misure che valutano i pensieri e i sentimenti delle persone senza chiederglielo in
modo diretto.
Lo scopo di queste misure è di accedere a dei contenuti che sono difficilmente accessibili tramite
introspezione.Tipicamente, le misure implicite si basano sui tempi di risposta delle persone a
determinati stimoli e sugli effetti di facilitazione o interferenza cognitiva.
I partecipanti a cui vengono somministrate misure implicite sono consapevoli di essere oggetti di
studio e di dover fornire delle risposte; ma, come nel caso delle misure psicofisiologiche, queste
risposte sono difficili da controllare e, quindi, facilmente alterabili intenzionalmente.
Misure adatte per studiare temi che possono essere oggetto di distorsione intenzionale da parte dei
rispondenti, o che sono difficilmente accessibili in modo del tutto consapevole.

4. La questione della replicabilità nella ricerca


2005= Pubblicazione da parte di un noto epidemiologo [Ioannidis] di un lavoro dall’inquietante titolo
«Perché la maggior parte dei risultati di ricerca pubblicati sono falsi».
Nel lavoro, Ioannidis dimostrava come la prevalenza di studi basati su piccoli campioni, su effetti di
grandezza modesta, e in cui vi è un’alta flessibilità nelle scelte metodologiche e statistiche
determinasse un’occorrenza di «falsi positivi» (cioè la rilevazione di un effetto in realtà non esistente
nella popolazione) molto elevata. Non risultò difficile constatare che molti dei suddetti fattori di
rischio rappresentavano caratteristiche frequenti nei disegni di ricerca psicologico-sociali.
2011= Scandalo falsificazione dei dati di un noto psicologo sociale, e in seguito alla pubblicazione in
una prestigiosa rivista scientifica di un articolo [Bem 2011] con ben nove esperimenti in cui si
«dimostravano» le capacità di premonizione. Era stata riportata solo una selezione dei risultati
ottenuti che andasse ad a favore della sua ipotesi.
2015= Furono pubblicati i risultati di un ambizioso programma di replica indipendente di 100 studi
psicologici tratti da riviste scientifiche di prestigio [Open Science Collaboration 2015]. Dei 100 lavori
«solo» il 36% ottenne risultati statisticamente significativi nelle repliche; inoltre, l’ampiezza degli
effetti riscontrata nelle repliche era di circa la metà di quanto riportato negli studi originali.
⇒Alcuni psicologi sociali hanno vissuto la cosiddetta crisi della replicabilità come uno stato
d’assedio, altri hanno invece considerato questa crisi come un’opportunità per comprendere meglio
quali fossero le aree di possibile miglioramento di questo campo di studi.
Cosa possiamo imparare dalla cosiddetta crisi della replicabilità in psicologia sociale?
▪ Una logica più esplorativa che consideri la ricerca sperimentale come una via per mostrare
la plausibilità dei meccanismi indagati in alcuni contesti, e non necessariamente il ruolo di
«legge naturale» di tali meccanismi.
▪ Una volta acquisito quel tanto di umiltà che permette di interpretare la ricerca come
esplorazione piuttosto che come scoperta di fatti e leggi di natura, pare utile accettare
l’intrinseca variabilità dei fenomeni di natura psicologica, vista la loro dinamicità⇒
«eterogeneità degli effetti» =la grandezza della relazione fra due variabili non è fissa nella
popolazione.

▪ Distinzione tra evidenza (i fatti costituiscono prove) e retorica (i fatti servono da complemento
discorsivo di un ragionamento concettuale) dei risultati empirici.

Capitolo 4
L’INFLUENZA SOCIALE
OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO
• Conoscere la distinzione tra influenza informativa e influenza normativa
• Conoscere il fenomeno del conformismo
• Comprendere il bisogno di appartenenza alla base dell’influenza maggioritaria
• Comprendere le dinamiche e gli esiti dell’influenza minoritaria
• Comprendere le dinamiche dell’obbedienza all’autorità
• Conoscere i fattori che facilitano oppure ostacolano l’obbedienza all’autorità
Che cos’è l’influenza sociale
La definizione precedentemente data da Gordon Allport, illustra in modo emblematico quanto il tema
dell’influenza sociale sia centrale nella disciplina, tanto che Allport arriva a definire l’intera psicologia
sociale come lo studio dei processi di influenza.
La storia degli studi e delle ricerche sul tema dell’influenza può essere definita come la storia
psicosociale del cosiddetto secolo breve, il Novecento. Gli anni dal 1914 al 1991, furono un periodo di
grandi catastrofi umane e disastrosi fallimenti (dalle guerre mondiali al fascismo e a tutti i nazionalismi),
ma anche un’epoca di grandi conquiste sociali e civili.
Sono proprio questi eventi sociali enormi ad aver dato avvio a molte delle ricerche che presenteremo in
questo capitolo. Gli studi sull’influenza della maggioranza e sull’influenza dell’autorità senza dubbio
raccontano un contesto culturale e scientifico che stava provando a comprendere il dramma della Shoah.
Gli studi sull’influenza delle minoranze attive nasceranno negli anni Settanta del secolo scorso in un
contesto culturale diverso, di grande fermento culturale in cui si assisterà in diversi paesi del mondo al
fiorire di movimenti di gruppi senza potere impegnati a combattere per i propri diritti e a rendere più
giusto il mondo.
▪ L’influenza sociale non è di per sé né un bene né un male; è un normale processo psicosociale
che può trasformarsi, a seconda dei casi, in uno strumento di sopruso e di violenza o in veicolo di
coesistenza, trasformazione e innovazione sociale.

▪ Classificazione proposta da Deutsch e Gerard nel 1955:


l’influenza informativa e l’influenza normativa.

Il primo tipo di influenza entra in gioco quando ci troviamo Nel secondo tipo di influenza, le persone
in una condizione di incertezza e siamo per questo conformano le proprie idee e/o il proprio
propensi a fare affidamento sugli altri, a considerare comportamento alle aspettative altrui.
un’informazione proveniente da un’altra persona o
gruppo di individui come una prova di verità.

Cosa rende diversi i due processi?


In entrambi i casi c’è un’adesione alle idee e/o al comportamento altrui ma i bisogni motivazionali
che sono alla base di questa adesione sono diversi: mentre l’influenza informativa entra in azione
quando un individuo prova il desiderio di essere nel giusto e pensa che gli altri possano aiutarlo a
soddisfare questo desiderio, l’influenza normativa agisce soprattutto tramite la pressione sociale e si
fonda sul desiderio di evitare l’esclusione sociale (vedi cap. 9) e ottenere il massimo vantaggio dal
rapporto con gli altri.
Un’altra utile distinzione è quella tra fonte passiva e fonte attiva di influenza sociale. [Geen 1989]
A distinguere i due tipi di fonte è il grado di intenzionalità delle stesse nell’esercitare un’influenza su
qualcuno.
⇒ Una fonte attiva, per indurre il bersaglio ad agire o a pensare in un certo modo, deve esercitare
una forma, diretta o indiretta, di pressione.
Il fenomeno del conformismo
La semplice presenza degli altri può facilitare comportamenti e ragionamenti, un fenomeno noto
come facilitazione sociale.

Esperimento di Triplet: la semplice presenza di altri può migliorare le performance individuali.

Aveva notato che i campioni di alcune discipline sportive, come per esempio il ciclismo, avevano
prestazioni generalmente migliori quando partecipavano a una gara, dove quindi erano in
competizione con altri o avevano un pubblico davanti, rispetto a quando si allenavano da soli. Si
chiese dunque se la sola presenza degli altri fosse sufficiente a migliorare le performance
individuali.
Per verificare la sua ipotesi, l’autore coinvolse un campione di bambini in età scolare, a cui assegnò
un compito molto semplice: avvolgere più rapidamente possibile delle lenze da pesca intorno ai
rocchetti. I bambini venivano invitati ad avvolgere le lenze individualmente oppure in gruppo,
insieme agli altri. Ebbene, le operazioni di avvolgimenti risultavano più rapide e accurate quando i
bambini svolgevano il compito in presenza degli altri.

La letteratura ha evidenziato tuttavia anche il fenomeno opposto: nei compiti semplici come
avvolgere un mulinello da pesca, l’eccitazione fisiologica fa emergere le risposte dominanti e
migliora le prestazioni. Nei compiti più complessi come memorizzare una serie di informazioni, la
risposta richiede più tempo e dunque non è dominante. Per questo motivo, l’eccitazione fisiologica
peggiora le prestazioni.

Casi in cui la presenza degli altri ha invece un potere inibitorio.

Inerzia sociale: calo di motivazione e di impegno che si verifica quando le persone sono coinvolte
in un’attività collettiva – o, comunque, si trovano insieme ad altri – rispetto a quando le stesse
persone agiscono individualmente.

Sulla base di ripetuti risultati sperimentali Latané e Darley hanno sostenuto che uno dei fattori
responsabili della mancanza di iniziativa in situazioni collettive, definito apatia degli astanti, è un
meccanismo d’influenza sociale (effetto spettatore). Paradossalmente, è proprio il fatto che a
un’emergenza assistono molte persone una delle cause della mancata assistenza.
Nelle situazioni che sono poco chiare e in cui si è incerti sul comportamento da tenere, il
comportamento degli altri condiziona la nostra interpretazione della situazione e il nostro
comportamento; questo fenomeno, noto come ignoranza pluralistica, può esser fatto rientrare
nella categoria di influenza informativa prima descritta.

Ciascuno degli astanti è indotto dall’apparente mancanza di coinvolgimento degli altri a sottovalutare
la gravità della situazione e a pensare che non si tratti realmente di un’emergenza. Quando invece
la situazione è percepita dagli individui come grave in modo inequivocabile, può subentrare un altro
meccanismo, la diffusione di responsabilità.

Ancora una volta è il numero degli astanti a provocare questo fenomeno: se numerose persone
sono testimoni di un determinato episodio, il senso di responsabilità individuale nel porvi rimedio
tende a calare molto sensibilmente e ciascuna delle persone sente meno necessario soccorrere chi
è in difficoltà. Pertanto (se non subentra la paura per la propria incolumità) è più facile che una
persona intervenga in aiuto di un’altra quando è l’unica a poterlo fare che non quando altri sono
coinvolti.
2.2 Conformismo, norme sociali e bisogno di accuratezza: gli studi di Sherif
Quando pensiamo al concetto di norma di solito tendiamo a pensare a una legge. Le norme però sono
qualcosa di molto più ampio e non coincidono solo con le norme formali ma anche con le norme informali
che possono regolare in modo molto stringente la vita delle persone a livello sociale.
Ma come si sviluppano queste norme?
Sherif [1936], mise a punto presso il laboratorio di psicologia
della Columbia University di New York dove si era trasferito,
una serie di esperimenti considerati fra gli studi classici della
psicologia sociale.
Voleva riprodurre in laboratorio quelle situazioni di incertezza
e di ambiguità che tante volte caratterizzano la nostra vita
quotidiana e in cui siamo chiamati a esprimere il nostro parere
o a prendere delle decisioni.
In che modo evocare in laboratorio sia una situazione di ambiguità decisionale che una situazione
autenticamente di gruppo?
Per costruire una situazione ambigua, lo studioso sfruttò in modo originale e creativo l’illusione
ottica del cosiddetto effetto autocinetico.
un’illusione ottica che consiste nel percepire un punto luminoso fisso,
in un ambiente completamente buio, come invece in movimento a
causa dei rapidi e normali movimenti oculari, i movimenti saccadici,
che supportano la funzione visiva.

In altre parole, i partecipanti mostrarono un’accettazione privata della norma di gruppo. Uno studio
successivo di Rohrer e colleghi [1954] mostrò addirittura, attraverso un approccio longitudinale, che le
persone si conformavano ancora alla stima del gruppo quando partecipavano a sessioni individuali a
distanza di un anno. Questi risultati suggeriscono che le persone si affidavano l’una all’altra per definire
la realtà e arrivavano ad accettare privatamente la stima del gruppo.
Tale fenomeno, tipico delle situazioni in cui non esiste un accordo maggioritario rispetto a un’unica
risposta considerata esatta, venne definito normalizzazione ed è un effetto squisitamente sociale.
Spesso l’influenza reciproca tra i membri di un gruppo conduce a valutazioni o decisioni collettive che,
anche se non esattamente intermedie, sono pur sempre un compromesso tra le posizioni iniziali dei
singoli individui. sia di ordine motivazionale
Tale compromesso può essere spiegato sulla base di fattori: sia cognitivo
Motivazionale, gli individui mettono in atto un sistema di concessioni reciproche, cercano di adattarsi
gli uni agli altri perché hanno interesse a instaurare e mantenere un rapporto soddisfacente.
Cognitivamente, la posizione assunta dagli altri costituisce uno degli elementi che vengono presi in
considerazione prima di esprimere una determinata posizione, un’informazione di cui la persona
tiene conto.
Questi fattori informazionali sono particolarmente importanti nelle situazioni dominate dall’incertezza,
come quella creata da Sherif nei suoi esperimenti. Vi sono casi, tuttavia, in cui l’influenza interattiva non
porta a una convergenza moderata ma a uno spostamento delle persone verso una posizione più
estrema, a una convergenza polarizzata. Ad esempio, alcuni autori hanno osservato la tendenza degli
individui ad assumere decisioni più rischiose quando sono in un gruppo rispetto a quando sono da soli:
tale fenomeno, è definito spostamento del rischio.
2.3 Conformismo, pressione della maggioranza e bisogno di appartenenza: gli studi di Asch
In una situazione di incertezza, se modelliamo il nostro comportamento usando le valutazioni di un
gruppo, come punto di riferimento per il nostro giudizio, stiamo facendo una scelta che possiamo definire
più che ragionevole. È vero stiamo facendo pur sempre una scommessa, ci stiamo assumendo dei rischi
e il gruppo potrebbe sbagliare.
Tuttavia, in una situazione di incertezza come quella creata da Sherif, fidarsi del gruppo ha un valore
adattivo. Ma qual è il nostro comportamento quando il gruppo in cui ci troviamo esprime un giudizio che è
senza dubbio sbagliato, un giudizio che va contro quello che i nostri stessi occhi ci dicono guardando la
realtà?
È proprio a questa domanda che Asch ha provato a rispondere ponendosi l’obiettivo di «studiare le
condizioni sociali e personali che inducono l’individuo a resistere o a conformarsi alle pressioni del
gruppo quando tale gruppo esprime un parere contrario all’evidenza percettiva».
Asch utilizzò la stessa procedura-base in molti esperimenti. Un singolo individuo doveva svolgere
all’interno di un gruppo un compito semplice, ovvero individuare quale, fra tre linee rette di differente
dimensione, fosse uguale a un’altra linea presa come campione.
Compito semplice solo che il gruppo si esprimeva in modo compatto e coerente dando la risposta
sbagliata a quella che sembrava una domanda banale.
Nel primo esperimento ai partecipanti fu richiesto di effettuare 18 valutazioni. La lunghezza delle rette,
tutte verticali, variava da 5 a 22 centimetri e, in media, la differenza tra la linea campione e le linee
«sbagliate» era di 2 centimetri e mezzo. Pertanto, individuare la linea giusta era un compito che non
presentava alcuna difficoltà.
I partecipanti, tutti studenti universitari di sesso maschile, furono riuniti in gruppi che generalmente erano
di otto persone. A ciascuno di loro fu richiesto di dire a voce alta il numero che identificava la linea
prescelta.
All’interno di ogni gruppo era presente 1 soggetto critico (inconsapevole), mentre le altre persone erano
collaboratori del ricercatore e dovevano rispondere in modo unanime dando, secondo un ordine
concordato in precedenza, dodici risposte palesemente errate. Per 12 volte, quindi, il soggetto ignaro di
tutto, che era il penultimo a dover parlare, si trovava esposto a una maggioranza che esprimeva un
giudizio concorde che era contrario all’evidenza percettiva. Nel gruppo di controllo non esistevano
collaboratori e pertanto tutti i partecipanti si esprimevano liberamente.
I risultati mostrarono che, mentre nel gruppo di controllo (gruppo dove non c’erano complici dello
sperimentatore) i giudizi errati erano stati pochissimi, nei gruppi sperimentali le valutazioni erronee della
1
maggioranza avevano influenzato circa 3 dei giudizi dei partecipanti (il 32% delle risposte complessive).

La ricerca mise anche in luce forti differenze individuali:


- circa un quarto dei partecipanti aveva risposto sempre in modo indipendente,
- mentre un terzo aveva seguito l’opinione della maggioranza nella metà, o più, delle prove.
Anche se l’indipendenza aveva di gran lunga prevalso tra i partecipanti negli esperimenti di Asch
(68% delle risposte), colpì il fatto che un alto numero di individui avevano ceduto almeno una volta
di fronte a una maggioranza che esprimeva un giudizio contrastante con i propri dati sensoriali.
Qualche anno dopo i primi esperimenti di Asch, un ricercatore americano, Richard Crutchfield,
mise a punto una diversa tecnica per lo studio del conformismo, tecnica che non solo consentiva
un risparmio di energie e di tempo ma che aveva anche come obiettivo quello di:
Testare se i risultati di Asch potessero essere replicati pure quando il gruppo non era fisicamente presente.

I partecipanti venivano fatti sedere in cabine individuali affiancate – in modo che non potessero vedersi
tra loro – e dovevano esprimere, il loro giudizio su uno stimolo che veniva proiettato, per mezzo di
diapositive, sul muro di fronte. Non era consentito parlare e le singole cabine erano fornite di
strumentazioni luminose che permettevano a ogni persona di conoscere l’opinione degli altri. A
ciascun individuo veniva fatto credere di essere l’ultimo a dover effettuare la valutazione; in realtà i
giudizi erronei degli altri, che comparivano sul pannello luminoso di ciascuno, erano segnali inviati
dallo sperimentatore ed erano uguali per tutti. Così non era più necessario ricorrere a collaboratori
e, soprattutto, tutti i partecipanti venivano contemporaneamente esposti all’influenza della
maggioranza.
La ricerca di Crutchfield confermò la robustezza del fenomeno rilevato da Asch. Nonostante ai
partecipanti fosse stata impedita l’interazione faccia a faccia, il
conformismo apparve chiaramente anche con questo metodo e non solo
rispetto a compiti percettivi, ma anche quando gli item riguardavano
opinioni e atteggiamenti.
2.4. I motivi del conformismo
Quali sono i motivi che spingono le persone ad aderire a una maggioranza? Possiamo individuare
tre principali motivazioni.
1. Quando gli individui pensano di essere meno esperti della maggioranza o quando il compito
è ambiguo è più probabile che avvenga l’accettazione della posizione maggioritaria così
come la persistenza di questa accettazione nel tempo.
Per comprendere quanto detto, è importante avere chiaro che cosa ci accade da un punto di vista
cognitivo se esposti a una maggioranza: quando interagiamo con una maggioranza che presenta un
punto di vista contrario o comunque molto diverso dal nostro, è probabile che si attivi in noi la
necessità di comprendere perché è presente quella discrepanza [Moscovici]. Se non riusciamo a
trovare una spiegazione soddisfacente a sostegno del nostro punto di vista, tenderemo a far
prevalere il punto di vista della maggioranza anche perché siamo motivati a stare nel giusto e
socialmente si presume che la maggioranza abbia ragione (euristica del consenso).È plausibile
però anche un altro scenario: non siamo in alcun modo convinti della posizione della maggioranza
ma, ciò nonostante, scegliamo comunque di adottarne – almeno in pubblico e/o momentaneamente
– la posizione. Cosa guida la nostra decisione in questo caso? L’interesse a evitare di dare
un’immagine negativa di noi stessi mostrandoci come persone stupide o incompetenti.

2. Bisogno di proteggere o rafforzare l’immagine e la stima di sé.

3. Bisogno di appartenenza. La tendenza a conformarsi sembra emergere non tanto da


un’attrazione nei confronti della maggioranza quanto piuttosto dal timore della sua
disapprovazione o di un’esclusione.
Il non conformarsi alle norme di un gruppo può causare come sanzione proprio l’esclusione sociale
della persona deviante e questa esclusione è percepita come legittima e accettabile dal gruppo
perché ne tutela le norme. Essere esclusi genera numerose conseguenze negative a livello
psicologico e comportamentale ed è per questo che le persone temono fortemente l’esclusione
mettendo in atto comportamenti più o meno intenzionali per contrastare le emozioni negative
associate all’esclusione. Lakin, Chartrand e Arkin hanno, ad esempio, trovato che quando ci
sentiamo esclusi tendiamo a imitare inconsapevolmente il comportamento non verbale di chi ci ha
escluso, uniformandoci con il nostro comportamento.
3.1. Gli studi di Moscovici e l’ipotesi della conversione
Fino alla prima metà degli anni Settanta del secolo scorso, la psicologia sociale di area
nordamericana, dedicò grande attenzione allo studio dei processi di influenza: da un lato
il conformismo, ossia la forza persuasiva che la maggioranza può avere sui singoli individui e
dall’altro l’influenza – intesa in senso unidirezionale – dell’autorità.

Una minoranza per essere efficace deve mostrare una coerenza


sincronica e diacronica: sempre compatta e coerente, mantenendo una
posizione salda nel tempo. Pertanto, lo stile di comportamento assunto
da una minoranza costituisce il fattore cruciale della sua influenza.

Il prevalere dell’influenza indiretta o nascosta sull’adesione manifesta è stata


definita conversione [Moscovici].
Moscovici ha sostenuto che mentre una maggioranza produce soprattutto conformità pubblica
(adesione pubblica senza accettazione privata), una minoranza attiva e consistente induce
comunemente proprio questo effetto di conversione.
L’influenza della minoranza può avvenire in vari modi:
▪ In tempi ritardati (rispetto al messaggio minoritario);
▪ In modo trasposto (rispetto a un tema focale);
▪ Privatamente (in assenza della fonte di influenza);
▪ Effetto modellante (modelling effect): adottare il comportamento della minoranza,
applicandolo in contesti diversi o a temi differenti rispetto al messaggio minoritario.
Ci sono altri due fattori che possono facilitare oppure ostacolare l’influenza della minoranza:
▪ il contesto normativo
▪ la presenza di un/una leader
Per contesto normativo si intende ciò che in un determinato momento storico e in una determinata
società è considerato giusto in termini di idee e comportamenti.
Paicheler ha ipotizzato che le minoranze ottengano effetti persuasivi maggiori quando sostengono
posizioni che sono in linea con il cambiamento dello spirito del tempo, del contesto normativo di
riferimento.
Un altro fattore che sembra rafforzare l’influenza minoritaria è costituito dalla presenza, nel gruppo
minoritario, di un/una leader. In uno studio di Papastamou è stato fatto leggere ai partecipanti un
documento attribuito, a seconda della condizione, o al leader di una minoranza o a una minoranza
unanime ma senza leader: quando il documento era attribuito al leader, il suo impatto è risultato
considerevolmente più forte.

3.2. Minoranze, cambiamento e stabilità sociale


Le minoranze sociali possono non solo promuovere il cambiamento sociale ma anche ostacolarlo.
I gruppi sociali minoritari che detengono il potere hanno tutto l’interesse a difendere la propria
posizione di vantaggio.
Un dispositivo molto potente di conservazione delle gerarchie sociali sono i miti di legittimazione.
Mito di legittimazione meritocratico: i gruppi egemoni hanno più potere e ricchezza per via del
loro impegno e dei loro meriti. I gruppi di basso status hanno meno potere e ricchezza a causa del
loro scarso impegno e dei loro demeriti.
In questo scenario, non è intuitivo comprendere come e perché i gruppi svantaggiati, di basso status
e privi di potere concorrano a preservare lo status quo senza provare a sovvertirlo.
La teoria della giustificazione del sistema di John Jost risulta illuminante per comprendere perché
questo accada. Per Jost le gerarchie presentano un vantaggio di legittimità per il semplice fatto che
producono differenziali di potere. Esse, una volta formatesi e consolidatesi, tendono ad
Le persone sono motivate a giustificare e razionalizzare il modo in cui le cose accadono nella loro
esistenza così che il vigente sistema sociale, economico, e politico tende a essere percepito
come giusto e legittimo.
autoperpetuarsi attraverso processi di giustificazione ideologica bottom-up, rendendo molto più
complessi i tentativi di modificare l’ordine sociale esistente.

Ma perché una minoranza svantaggiata difende la legittimità del sistema che la danneggia? Per
comprendere questo punto, è necessario chiarire come la tendenza a giustificare il sistema abbia
una funzione psicologica palliativa di diminuire lo stress e le emozioni negative e relative alla
realtà sociale nella quale si vive quotidianamente.
In realtà, ai vantaggi a breve termine della giustificazione del sistema, si affiancano i costi a lungo
termine di questa strategia che sono molto alti per la qualità della vita delle persone. Questa
funzione palliativa della giustificazione del sistema implica, inoltre, una tendenza a partecipare meno
a forme di protesta collettiva o altre forme di azione collettiva volte a modificare e/o sovvertire
lo status quo.
La storia dell’umanità, sostiene Jost, è una storia di conservazione e non di rivoluzioni ed è per
questo motivo che ricordiamo le rivoluzioni in modo così vivido, perché sono sostanzialmente
un’eccezione alla regola.
4. L’obbedienza all’autorità
L’obbedienza all’autorità può ricordarci il conformismo alla maggioranza rilevato da Asch: in
entrambi i casi, infatti, troviamo delle persone che cedono in modo manifesto alla pressione della
fonte.
Pur essendo apparentemente simili, è importante distinguere questi due fenomeni
DIFFERENZE tra OBBEDIENZA ALL’AUTORITÀ E CONFORMISMO:
o Nel conformismo la pressione è in gran parte implicita vs l’obbedienza costituisce una
risposta a comandi espliciti.

o La struttura del sistema sociale e di potere presa in esame: il conformismo comporta il


cedimento di una persona a un gruppo che può avere il suo stesso status, un gruppo di pari,
e che non ha particolari prerogative per regolarne il comportamento vs l’obbedienza
comporta una struttura gerarchica, una disuguaglianza sociale tra fonte e bersaglio: abbiamo
in questo caso una persona di status superiore che intima a una di status inferiore di
comportarsi secondo i propri dettami.

o Mentre il conformismo al gruppo comporta che la persona segua quello che fanno gli altri
(tutti dunque assumono un comportamento o atteggiamento simile) vs l’obbedienza
riguarda un’azione che la fonte di influenza può evitare di compiere e che, molto più spesso,
viene richiesta solo al bersaglio.

o Chi obbedisce all’autorità è in genere pronto a riconoscerlo, le persone che cedono alla
pressione del gruppo difficilmente ammettono o si rendono conto di averne subìto l’influenza.
Ma perché obbedire a un’autorità è ritenuto socialmente così importante fin dalla notte dei tempi?
Al di là del timore delle punizioni se si disobbedisce (aspetto tutt’altro che secondario), possiamo dire che
in virtù dell’obbedienza a un’autorità chi, ad esempio, ha meno esperienza, è più giovane o meno
competente presta ascolto a chi ha più esperienza, è più anziano, ne sa di più. Pertanto, questa
forma di obbedienza può essere il tramite per il rispetto delle norme sociali, consentendo il buon
funzionamento di un sistema sociale.
Quando l’obbedienza si manifesta come rispetto di norme giuste è una risorsa, ma cosa accade se
le norme e gli ordini dell’autorità riguardano azioni immorali e socialmente riprovevoli?
Nel 1961, in Israele si è celebrato il processo ad Adolf Eichmann, gerarca nazista con un ruolo di
spicco nel genocidio degli ebrei. Il processo a Eichmann non solo fu il primo processo per crimini
contro l’umanità a svolgersi in Israele, un luogo dalla forte valenza simbolica, ma anche il primo
processo a essere trasmesso in televisione. L’opinione pubblica mondiale restò incredula di fronte
alle immagini di quel processo: Eichmann, non appariva come un mostro spietato e crudele. Era un
uomo comune, dall’aspetto mite e dimesso che si alzava diligentemente in piedi dalla sua sedia ogni
volta che il giudice gli ponevano delle domande. Un’altra cosa ancora più sconvolgente per il tempo,
fu che per tutta la durata del processo Eichmann si difese affermando che stava semplicemente
eseguendo degli ordini, riceveva degli ordini e in virtù del suo giuramento li eseguiva.
Sarà proprio nello stesso anno che un giovane psicologo di 26 anni e ricercatore di Yale, Stanley
Milgram, proverà a dimostrare in laboratorio che i comportamenti di obbedienza distruttiva, così
come gli orribili genocidi e le stragi perpetrate nei confronti di alcuni gruppi sociali, non sono
necessariamente il frutto di perversione e sadismo individuale ma possono essere diffusi e indotti
dalla struttura di un particolare contesto sociale.
4.1. Gli studi di Milgram
VEDI SUL LIBRO:

Descrizione esperimento
4.1.1. Fattori che facilitano oppure ostacolano l’obbedienza
Interessato a comprendere quali fossero le condizioni che favorivano o piuttosto ostacolavano
l’obbedienza distruttiva all’autorità, Milgram condusse altri 17 esperimenti, coinvolgendo oltre 600
partecipanti, basati fondamentalmente sullo stesso paradigma di quello prima illustrato ma
introducendo via via diverse varianti. Sulla base dei risultati da lui ottenuti, possiamo descrivere una
serie di fattori situazionali che possono incoraggiare o impedire l’obbedienza all’autorità [Milgram
1974]. Vediamo di seguito i principali:
• Vicinanza dell’autorità e grado di sorveglianza. Nell’esperimento standard lo
sperimentatore era a pochi metri dal soggetto ingenuo, quindi l’ordine veniva impartito in
presenza. In una variante, invece, egli lasciava il laboratorio e impartiva i suoi ordini per
telefono. In questa condizione, solo nove persone su quaranta sono risultate sempre
obbedienti (il livello d’obbedienza è quindi calato dal 65 al 20,5%).
• Legittimità dell’autorità. Milgram aveva rilevato che quando, in assenza dello
sperimentatore, un altro «partecipante» aveva assunto il ruolo dell’autorità si era verificata
una significativa riduzione dell’obbedienza: solo 4 persone su venti avevano inflitto il
massimo shock all’allievo. Tale risultato fu attribuito al fatto che un ordine proveniente da una
persona di status equivalente non era preso altrettanto seriamente e non era considerato
altrettanto legittimo di un ordine proveniente da uno sperimentatore di status superiore.
• Incongruenze nella struttura sociale. Segnali incongruenti tendono a ridurre la pressione
dell’autorità. Negli esperimenti di Milgram nessun partecipante è arrivato a infliggere
all’allievo la scossa finale quando:
o a) lo sperimentatore ha chiesto all’insegnante di fermarsi mentre la vittima lo incitava
a proseguire;
o b) lo sperimentatore ha assunto egli stesso il ruolo di allievo/vittima e ha richiesto di
interrompere l’esperimento;
o c) il partecipante ha ricevuto ordini contrastanti (interrompere/continuare) provenienti
da due diversi sperimentatori.126
• Presenza di dissidenti. In sintonia con quanto rilevato a proposito della conformità alla
maggioranza, una o più persone che si rifiutano di obbedire agli ordini agiscono come
sostegno sociale per la persona e ne rafforzano le capacità trasgressive.
• Vicinanza della vittima del crimine. L’importanza di questo fattore è stata studiata da
Milgram in diverse varianti dell’esperimento-chiave. Egli constatò che, se l’allievo/vittima si
fosse trovato nella stessa stanza dell’insegnante, l’obbedienza avrebbe calato al 40% e che
il contatto fisico provocava un calo ulteriore (30%). La distanza permette a chi deve compiere
un atto aggressivo di non vedere le sue vittime come singole persone ma di considerarle solo
nel loro insieme, come «fronte avverso» da distruggere, il cosiddetto fenomeno
della deumanizzazione.
• Responsabilità personale. Più è chiara la responsabilità personale e più la persona tenderà
a evitare azioni criminose, mentre il sentirsi sollevato dalla responsabilità dei propri atti
facilita l’obbedienza.
Il peso dei fattori situazionali nell’obbedienza è stato in parte ridimensionato. Una rassegna della
ricerca condotta sull’argomento [Blass] ha messo in luce che non è possibile predire la
sottomissione all’autorità considerandi solo fattori situazionali, ma è necessario considerare anche
variabili disposizionali quali certi tratti di personalità (la fiducia negli altri o la tendenza disposizionale
a provare empatia nei confronti degli altri). Tuttavia, nelle conclusioni del suo volume sull’argomento,
Milgram ha affermato che, pur non essendo riuscito a individuarle, era sicuro che alla base
dell’obbedienza e della disobbedienza vi fossero differenze nella struttura della personalità. Questo
non gli impedì di aggiungere che «spesso non è tanto il tipo di persona, quanto il tipo di situazione in cui
una persona si trova a determinare in che modo agirà» [Milgram 1974, 205].

4.1.2. Lo studio di Milgram a distanza di più di mezzo secolo: quali conferme e quali criticità?
Dato l’enorme clamore dei risultati ottenuti, gli studi condotti da Milgram sono stati più volte
sottoposti a ulteriori verifiche con tutte le difficoltà relative ai problemi etici e alla tutela dei
partecipanti.
CONFERME:
⇒ Jerry Burger in uno studio del 2009 ha sottoposto a un tentativo di replica lo studio di
Milgram aggirando parzialmente il problema della scarica letale, chiedendo ai suoi
partecipanti di non andare oltre la scarica dei 150 volt. Perché proprio 150 volt? Dall’analisi
dei risultati di Milgram, Burger constatò che il 79% dei partecipanti che aveva superato il
livello di 150 volt (livello in cui emergeva per la prima volta in modo netto la finta sofferenza del finto
studente), aveva poi proseguito verso il livello massimo di shock letale di 450 volt. Burger
ipotizzò in sintesi che il livello di 150 volt potesse essere considerato una sorta di punto di
non ritorno e lo considerò per questo come voltaggio massimo.
Cosa è emerso dai risultati di Burger? Anche nella sua replica, a distanza di quasi cinquant’anni dal
lavoro di Milgram, una proporzione altrettanto elevata di persone (70%) era disposta ad arrivare alla
scarica dei 150 volt. Resta però un punto non affatto trascurabile, ovvero che i partecipanti di Burger
a cui era stato detto «non hai scelta, devi continuare», hanno scelto comunque di disobbedire e
nessuno ha raggiunto il livello di 150 volt (questo dato è in continuità con le considerazioni di Gibson
che riporteremo più avanti).
CRITICITÀ:
Oltre alle numerose repliche, gli studi di Milgram sono stati scrutinati, nel corso di questi
cinquant’anni, fin nel minimo dettaglio per testarne l’effettiva validità dei risultati ottenuti a partire dal
rigore metodologico con cui sono stati condotti.
⇒ Analisi di archivio condotte da Russell e colleghi hanno ad esempio problematizzato la scelta
di non apporre nell’apparecchiatura delle finte scosse elettriche l’etichetta «letale» in
prossimità della levetta che infliggeva la scossa da 450 volt inserendo invece l’etichetta XXX,
di cui abbiamo già parlato. Critica=non è stato reso chiaro il significato di pericolo letale,
camuffandolo con una tripla X in modo più ambiguo e meno allarmante.
⇒ Da un punto di vista etico sono emersi relativamente al fatto che l’ambiente sperimentale
costruito da Milgram fosse molto più stressante di quanto lo stesso non avesse dichiarato:
basti pensare che alcuni partecipanti ricevettero il debriefing dell’esperimento, venendo
informati sul fatto che l’allievo era in realtà un collaboratore di Milgram, soltanto un anno
dopo [Perry 2013].

⇒ Altri studiosi hanno recuperato il materiale presente negli archivi dell’Università di Yale e
nello specifico Stephen Gibson [2019] ha focalizzato la sua attenzione sulle 140 registrazioni
audio delle sessioni sperimentali degli esperimenti di Milgram, rileggendo in un’ottica diversa
le conclusioni raggiunte da Milgram stesso. Come abbiamo già illustrato,
l’operazionalizzazione dell’autorità era avvenuta nello studio mettendo a disposizione dello
sperimentatore quattro esortazioni standardizzate con cui lo stesso ordinava ai partecipanti
di continuare a somministrare scosse elettriche alla vittima ogni volta che commetteva un
errore nel test. Gibson, dall’esame delle trascrizioni delle registrazioni audio degli
esperimenti, ha riscontrato che quando lo sperimentatore formulava i suoi ordini, i
partecipanti non avevano difficoltà a disobbedirgli.
In sintesi, i partecipanti andati «fino in fondo» nell’esperimento, in realtà erano quelli che non
avevano avuto alcun bisogno di ricevere ordini. Questo che cosa ci dice dunque?
Forse che gli esperimenti non riguardano l’obbedienza, o forse come lo stesso Gibson osserva, che
non possiamo attenerci a una definizione ristretta di obbedienza – come una forma di influenza elicitata
da risposte a comandi/ordini diretti – per comprendere cosa è accaduto nei laboratori di Yale. Gibson
sostiene che e realmente è accaduto è che i partecipanti sono stati influenzati dalla situazione nel
suo complesso: l’imponente apparato sperimentale, la credibilità di un’università prestigiosa come
Yale, la complessità dell’esperimento, le norme sociali, la gradualità del compito, l’ambiguità del
setting, e altro ancora. Insomma, non erano necessari ordini perché era già il contesto sperimentale
a fare il suo lavoro.
Del resto, lo stesso Milgram riscontrò un tasso di obbedienza minore rispetto alla scossa letale
(sebbene sempre alto, ovvero il 48%) quando trasferì l’apparato sperimentale dalla prestigiosa
Università di Yale alla finta sede di un centro di ricerca privato in Connecticut, la Research Associate
of Bridgeport.
Ma ancora, se pensiamo all’obbedienza della legge, in realtà non pensiamo (o almeno non
pensiamo solo) a questa obbedienza come al rispondere ai comandi di un ufficiale di polizia.
L’obbedienza, infatti, è qualcosa di complesso, è un processo tramite cui arriviamo a rispettare le
convenzioni sociali, e l’autorità può corrispondere a una struttura sociale e non a una singola
persona gerarchicamente superiore a noi.
⇒ Un’ulteriore lettura interessante è quella fornita da Haslam e Reicher [2017] i quali
nell’articolo 50 years of «obedience to authority»: From blind conformity to engaged
followership discutono in modo critico il modo in cui i manuali di psicologia sociale hanno
raccontato nel tempo l’esperimento di Milgram, appiattendosi su un’unica narrativa dello
stesso dando prova in qualche modo di conformismo scientifico.
Fra i molti punti discussi da questi autori, particolarmente interessante è il modo in cui
problematizzano la rilevanza del lavoro di Milgram nell’analisi della tirannia a livello globale e nello
specifico nella comprensione della tragedia della Shoah. Spesso le conclusioni scientifiche del
lavoro di Milgram sono state fatte convergere con quelle della filosofa Hanna Arendt [1963] circa la
Shoah.
Nel suo lavoro, Arendt sosterrà la spaventosa banalità del male proprio a partire dal processo in cui
era imputato Eichmann e dall’osservazione di quest’uomo grigio e dimesso che dichiarò di aver
commesso delle azioni spietate e crudeli contro gli ebrei come se stesse assolvendo a un qualsiasi
compito burocratico. La lettura che è prevalsa a lungo è stata quella dei nazisti e in generale delle
persone che hanno perpetrato violenza in modo sistematico come automi senza volontà che
seguono gli ordini dei superiori ma questo tipo di spiegazione del comportamento umano non rende
giustizia alla complessità delle motivazioni che spingono le persone a comportarsi in modo non
etico. Spesso le persone che compiono azioni criminali percepiscono sé stesse come persone
virtuose che perseguono il bene comune, aderendo a una visione distorta ma, in ogni caso,
potentemente autoassolutoria delle proprie malefatte ridefinendo in modo strategico ciò che è giusto
e ciò che è sbagliato.
La letteratura sul perché le persone si comportano in modo non etico mostra che l’identità
morale è una componente fondamentale della nostra identità e che ognuno di noi ha il bisogno
fondamentale di sentirsi una brava persona, una persona onesta. Per questa ragione la cosiddetta
dissonanza etica derivante dal fatto che i nostri comportamenti ci restituiscono un’immagine di noi
stessi non corrispondente a quella che vorremmo produce una serie di meccanismi di
autoassoluzione e giustificazione per ridefinire quei comportamenti come corretti.
Per concludere, in apertura di questo capitolo abbiamo osservato come Gordon Allport, uno dei
padri fondatori della psicologia sociale, considerasse talmente importanti i processi di influenza da
porli al centro della disciplina stessa. Nel corso del capitolo, abbiamo tentato di dimostrare come
questi processi siano molteplici e variegati, superando l’originaria tendenza a considerare l’influenza
come un processo unidirezionale dalla maggioranza verso il singolo che avesse come unico esito
possibile quello del conformismo. Per riprendere la concettualizzazione di Moscovici, ciascuno di
noi, nella vita di tutti i giorni, è contemporaneamente fonte e bersaglio di numerosi processi di
influenza che si intersecano tra di loro, il cui esito è dunque la risultante di un’interazione tra
caratteristiche individuali e aspetti contestuali. Nella loro complessità, insieme a tanti altri processi
descritti in questo manuale, anche i processi di influenza contribuiscono alla comprensione, alla
gestione e alla previsione della vita degli individui nei gruppi e nei diversi contesti sociali.
Capitolo 3
COGNIZIONE SOCIALE
OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO
• Conoscere i modelli e i principi di base della cognizione sociale
• Comprendere la relazione tra lo schema di sé e i processi di percezione sociale
• Comprendere come sviluppiamo un giudizio sociale e lo aggiorniamo
• Conoscere il processo di inferenza corrispondente
• Comprendere il processo di categorizzazione sociale
• Definire gli stereotipi sociali e capirne gli effetti

Cognizione + sociale: un arricchimento reciproco


1.1. Verso una definizione
La cognizione sociale:
• Analizza l’individuo immerso nel contesto sociale alle prese con la raccolta, l’elaborazione e
l’interpretazione di informazioni.

• Studia le strutture e i processi che permettono alle persone di pensare e dare un senso a sé
stesse, agli altri – intesi sia come singoli individui che come membri di categorie – e alle
situazioni sociali [Fiske e Taylor 2013].

Parliamo di cognizione perché questo paradigma si focalizza su alcuni processi cognitivi come
l’attenzione, la memoria, il ragionamento e l’inferenza, l’elaborazione di informazioni, la
categorizzazione. Alcuni di questi sono deliberati, cognitivamente dispendiosi e soggetti al nostro
controllo; altri sono automatici, rapidi e inconsapevoli; alcuni ci portano anche a fare gravi errori.
Qualche lettore a questo punto penserà che lo studio della psicologia generale e cognitiva sia
sufficiente. Tuttavia, la cognizione di cui ci occuperemo è anche intrinsecamente sociale e richiede
un approfondimento specifico per diversi motivi:
 i processi analizzati indagano la percezione e l’elaborazione del giudizio in merito ad altri
agenti sociali;
 sono profondamente influenzati dal contesto sociale in cui avvengono;
 forgiano il nostro comportamento nei confronti di altri esseri umani (o agenti non umani
percepiti come tali, vedi quadro 3.4).
I nostri simili non sono stimoli ambientali come altri (ad esempio, semplici oggetti come un tavolo o una sedia)
e
I nostri processi mentali, quando trattiamo informazioni relative al mondo sociale, sono differenti da
quelli che utilizziamo quando abbiamo a che fare con stimoli non sociali.

In particolare, il processo di elaborazione delle informazioni sulle persone è spesso molto più
complesso e incerto di quello sugli oggetti ed è influenzato da alcune motivazioni che non sono
certo presenti nella percezione di stimoli non sociali (come favorire sé stessi e il proprio gruppo di
appartenenza).

Questa considerazione sottolinea un altro punto importante: sebbene agli albori della disciplina non
sia sempre stato evidente, la cognizione sociale non si occupa esclusivamente di processi cognitivi
ma anche di fattori motivazionali, di risposte emotive e comportamentali, oltre che della loro
interazione. Oggi, dialoga in modo sempre più stretto con le neuroscienze cognitive (vedi cap. 14),
con la psicologia culturale, con la linguistica.

La cognizione sociale non si occupa di un tema specifico ma rappresenta una prospettiva teorica
che può arricchire la nostra comprensione di processi differenti a diversi livelli di analisi:
la cognizione sociale si è occupata di investigare come le persone percepiscono sé stesse, gli altri
individui durante le interazioni interpersonali, le categorie sociali.
1.2 Per capire la cognizione sociale: i principi e i costrutti
Gli esseri umani sono soggetti ad alcuni principi di elaborazione cognitiva che potremmo riassumere
con due affermazioni: «siamo pigri» e «siamo conservatori».
a) Accessibilità= principio che regola i nostri processi cognitivi in relazione alla sfera sociale (e
non solo), + le informazioni sono accessibili e + esercitano un’influenza sulla nostra vita
mentale, sul nostro modo di percepire gli altri e di interpretare la realtà sociale.
Un’informazione è accessibile perché è in grado di attirare la nostra attenzione in virtù della sua
salienza o della sua rarità oppure perché è particolarmente presente nella nostra memoria.
Ovviamente l’accessibilità di un’informazione è in relazione al contesto in cui ci troviamo.
Oltre agli effetti del contesto, inoltre, esistono dei dati che per noi sono sempre importanti perché
attengono al nostro modo di vedere noi stessi e il mondo, ai nostri atteggiamenti e ai nostri valori e
che, di conseguenza, sono cronicamente accessibili (ad esempio, se sono un ambientalista militante noterò
subito se una persona beve dalla borraccia o da una bottiglia di plastica perché per me il rispetto dell’ambiente è centrale
nella percezione e definizione di me e dell’altro).

b) Profondità di elaborazione delle informazioni = gli individui, quando possono, tendono a


risparmiare energie cognitive e ad affidarsi a un’elaborazione superficiale e il più possibile
rapida delle informazioni, a utilizzare processi automatici e non controllati, come ad esempio
le euristiche (quadro 3.2).
Le persone intraprendono dei percorsi di elaborazione più profondi, controllati e dispendiosi
cognitivamente quando le loro aspettative e i loro schemi pregressi vengono contraddetti oppure
quando hanno particolari motivazioni a farlo.
c) Gli individui tendono al conservatorismo= propensione a conservare le proprie idee, le
proprie ipotesi sociali, le prime impressioni sugli altri e gli schemi pregressi (come gli stereotipi).
Falsificare le ipotesi di lavoro, infatti, getta la persona in uno stato di incertezza particolarmente
spiacevole e difficile da gestire, oppure la costringe a rinunciare a delle credenze vantaggiose per il
Sé o per il proprio gruppo. Per questo motivo, è difficile modificare il giudizio sociale che abbiamo
elaborato sugli altri o il contenuto degli stereotipi sociali: per farlo, generalmente servono molte
informazioni, dati diagnostici e metodi idonei.
⇒ In aggiunta ai principi di elaborazione cognitiva qui descritti, la cognizione sociale si è da sempre
occupata anche di fattori motivazionali e dell’interazione tra processi cognitivi e motivazionali.
I principi motivazionali possono essere suddivisi in principi direzionali e non direzionali [Kruglanski]
Principi motivazionali direzionali sono quelli che interagiscono con i processi cognitivi per portare
l’esito del percorso verso una conclusione desiderata. All’interno di questa classe troviamo, in
particolare, la spinta e la propensione degli esseri umani a valorizzare sé stessi, cose e persone
connesse al proprio Sé, a mantenere un’affiliazione solida con il proprio gruppo di appartenenza e a
favorirlo, spesso a discapito di altre categorie sociali (vedi anche la teoria dell’identità sociale, cap. 10).
Principi motivazionali non direzionali, anche detti «epistemici», determinati cioè dall’inarrestabile
propensione degli esseri umani verso il raggiungimento di un senso di padronanza del proprio
mondo. Questa motivazione non è direzionale perché non è rivolta a una conclusione specifica per
difendere un’immagine positiva di sé o del proprio gruppo ma al tentativo, più generale, di
comprendere gli eventi, di fornire una spiegazione e di fare delle previsioni il più possibile attendibili.
Oltre ai fattori cognitivi e a quelli motivazionali, per comprendere i modelli elaborati all’interno della
cognizione sociale è necessario fare riferimento al dialogo continuo tra diverse tipologie di processi.
In particolare, la cognizione sociale può essere spiegata facendo riferimento a due classi di
processi:
Processi controllati: sono attivati e terminati consapevolmente, richiedono una quantità
considerevole di risorse cognitive e svolgono le loro funzioni sotto il controllo volontario
dell’individuo;
Processi automatici: al contrario, tipicamente si attivano in modo non intenzionale e non sono
consapevoli, richiedono una quantità ridotta di risorse cognitive, non possono essere interrotti
volontariamente, generano impressioni che potremmo definire intuitive.
Fa parte di questa categoria, tra gli altri, l’effetto priming che è un processo per cui l’esposizione a
uno stimolo – anche per un tempo brevissimo o in modo subliminale – influenza la risposta
dell’individuo in momenti successivi.
processi bottom-up
⇒ In cognizione sociale vengono distinti:
processi top-down

PROCESSO INDUTTIVO BOTTOM-UP:


La percezione e l’elaborazione del giudizio sociale può, in alcuni casi, non essere guidato da ipotesi
pregresse ma dalle informazioni sugli altri e dai loro comportamenti direttamente osservabili dal
soggetto percipiente nel contesto. Questi processi, dal basso verso l’alto, sono molto utili quando la
persona si trova in un contesto nuovo o di fronte ad altri che non conosce e non può, di
conseguenza, basarsi su ipotesi prestabilite.

PROCESSO TOP-DOWN:
La varietà e la quantità di informazioni presenti nel nostro contesto sociale sono talmente elevate
che gli individui devono necessariamente operare una selezione. Questo filtro avviene grazie a
strutture cognitive interne, definite schemi, formate sulla base di evidenze, conoscenze ed
esperienze passate e che permettono all’individuo di processare i dati in ingresso con maggiore
efficienza. Generalmente gli schemi operano in modo rapido e al di fuori della consapevolezza e
influenzano la direzione dell’attenzione, la memoria, l’interpretazione di eventi ambigui, le inferenze
su nessi causali o su elementi che non sono direttamente osservabili. Quando la percezione
sociale è guidata da schemi siamo di fronte a un processo dall’alto verso il basso (top-down).

Vivere in balia dei dati del momento e, quindi, basarsi unicamente su processi di tipo bottom-up è
cognitivamente troppo dispendioso per noi esseri umani: fortunatamente possiamo contare su
schemi che rendono i nostri processi molto più efficienti e rendono possibile la nostra vita in un
contesto sociale estremamente complesso e cangiante. D’altra parte, la possibilità di utilizzare
percorsi bottom-up ci permette di non riservare agli altri unicamente risposte stereotipate: siamo in
grado di analizzare le evidenze empiriche a nostra disposizione, modulare le nostre risposte rispetto
a situazioni specifiche e talvolta, grazie a queste, modificare anche i nostri schemi.
RECAP
Processo Top Down: percezione sociale guidata da schemi, rappresentazioni cognitive e conoscenze presenti in memoria
(filtri con cui guardiamo il mondo)
Processo Bottom up: parte dal basso, dall’osservazione accurata e dall’analisi della situazione sociale.

Quadro 3.2 Le scorciatoie del pensiero: le euristiche

Fine degli anni Settanta= lo studio della psicologia del pensiero inizia a essere profondamente
influenzata dal filone di studi sui biases cognitivi (errori sistematici, distorsioni) e sulle euristiche.
Bias di conferma: un tipo di bias cognitivo che comporta il favorire di informazioni che confermano
le tue convinzioni o pregiudizi precedentemente esistenti.
Euristiche: scorciatoie di pensiero, delle strategie nella risoluzione di problemi che si affidano
all’intuito e allo stato temporaneo delle circostanze più che a processi controllati. Sebbene il loro uso
sia estremamente efficiente e adattivo rispetto alle richieste ambientali, esso porta talvolta a esiti
non accurati o a veri e propri errori nel giudizio sociale.
Analizziamo alcune euristiche di interesse per la cognizione sociale:

L’euristica della rappresentatività


Gli individui utilizzano scorciatoie di pensiero quando devono fare inferenze sulla probabilità che un
certo evento o esemplare appartenga a una categoria data.
Nell’esperimento del «giudizio sociale», il compito assegnato ai partecipanti consisteva nello stabilire se la
descrizione di un individuo, estratta a caso tra 100 profili, corrispondesse a quella di un ingegnere oppure di
un avvocato. Alla metà del campione veniva detto che, dell’insieme di 100 profili, 30 erano relativi a ingegneri
e 70 ad avvocati; alla restante metà che 70 erano ingegneri e 30 avvocati. Veniva poi estratto un profilo che
descriveva il target come un uomo moderato e ambizioso, dedito a hobby come il bricolage. I risultati mostrano
come la maggior parte dei partecipanti considerino l’uomo un ingegnere, senza significative differenze tra i
due gruppi sperimentali. È chiaro, dunque, che le risposte vengono fornite sulla base della somiglianza tra la
descrizione e gli stereotipi generali applicabili alla categoria professionale in questione (sulla presunta
«rappresentatività» del profilo) e non sono influenzate dalla conoscenza della proporzione di ingegneri nel
campione (probabilità di base).
L’euristica dell’ancoraggio
Euristica dell’ancoraggio e dell’accomodamento: scorciatoia mentale con cui le persone utilizzano o
un numero / valore o un’impressione personale come punto di partenza per formulare la loro
risposta [Tversky e Kahneman 1974]. Le nostre esperienze fungono da ancoraggio per le nostre
generalizzazioni.
Un gruppo di persone doveva stimare in percentuale quanti degli stati che fanno parte delle Nazioni Unite
sono africani. Ad alcuni, con una specie di ruota della fortuna truccata, veniva mostrato il numero 10, e ad altri
il numero 65. La percentuale stimata da chi vedeva il numero 10 (in media 25%) era sempre inferiore a quella
stimata da chi vedeva il 65 (in media 45%).

L’euristica della disponibilità


Anche la memoria può interferire con il ragionamento: le persone tendono a giudicare più frequente
o più probabile un certo evento o un dato esemplare sulla base della facilità con cui vengono alla
mente eventi simili. (Le persone sovrastimano la possibilità di morire su un’areo, perché un evento traumatico colpisce
maggiormente la tua memoria). Perciò eventi che si sono verificati più spesso nella vita di un individuo o
che lo hanno impressionato maggiormente saranno giudicati come più probabili di quanto siano in
realtà.
L’insensibilità alla grandezza del campione (o fallacia dello scommettitore)
Il modello matematico-statistico vede nella legge dei grandi numeri uno dei suoi fondamenti teorici
più importanti. Gli studi hanno messo in evidenza come gli individui non riescano a tener presente
gli assunti della legge dei grandi numeri nel corso del ragionamento probabilistico.
Ragionare secondo una «legge dei piccoli numeri» ci può indurre in gravi fallacie nei processi di
inferenza sociale; ad esempio, ci porta a credere che le caratteristiche che osserviamo in un piccolo
gruppo di persone siano generalizzabili a tutta la loro categoria sociale.

“Conosci te stesso”: pensare sé stessi, pensare gli altri


La cognizione sociale non è un argomento ma è un approccio, una cornice teorica entro cui
possiamo investigare diversi processi che si collocano anche a livelli differenti di analisi. Il primo di
questi livelli riguarda noi stessi, il nostro sé.
È evidente come la relazione tra la percezione del sé e la percezione degli altri sia molto stretta e
bidirezionale. Capire come vediamo e pensiamo a noi stessi ci aiuta a comprendere come ci
comportiamo nel nostro contesto sociale, come vediamo gli altri; viceversa, la percezione degli altri
forgia inevitabilmente anche la percezione di noi stessi. Vediamo come.
2.1 Gli schemi di sé e la percezione sociale
Noi non abbiamo schemi solo relativi agli altri, ai ruoli e alle categorie sociali ma abbiamo anche
degli schemi – i più salienti e accessibili di tutti – di noi stessi.
Per supportare l’elaborazione di questa grande mole di evidenze empiriche è necessario l’utilizzo di
strutture dedicate.
Schemi di sé = strutture di conoscenza, generalizzazioni cognitive derivate da esperienze passate
che organizzano in memoria e ordinano tutte le rappresentazioni che una persona ha dei propri
attributi, rappresentazioni e ruoli sociali [Markus].
I tratti centrali nello schema di sé possono essere studiati chiedendo alla persona di rispondere alla
semplice domanda «Chi sono io?» per molte volte (twenty statement test), limitando il numero di
tratti da utilizzare o introducendo un limite temporale per la risposta. È anche rilevante notare che le
persone non hanno a disposizione uno schema monolitico di sé stesse, ma più schemi relativi a
dimensioni diverse e sufficientemente flessibili da rispondere a specificità contestuali: così, lo
schema di sé che guiderà la nostra autopercezione in un contesto lavorativo è differente da quello
attivato in famiglia o con gli amici, durante il tempo libero.
Queste strutture non sono solo dei magazzini di informazioni su di noi presenti in memoria ma
svolgono diverse funzioni:
1. Facilitano l’elaborazione delle informazioni riguardo al Sé in domini specifici e regolano le
funzioni esecutive (working self-concept);
2. Favoriscono il ricordo di informazioni e di episodi che ci hanno coinvolto;
3. Guidano il nostro comportamento futuro;
4. Ci permettono di mantenere una visione di noi stessi coerente e di resistere al processo di
falsificazione.
Esperimento Markus: vedi libro.
Lo schema di sé non condiziona solo l’elaborazione di informazioni che riguarda la propria persona
ma funge da priming cronico, influenzando così la percezione sociale.
Se siete cresciuti in una famiglia in cui la moralità è la dimensione dominante, probabilmente tratti come «sincerità»
e «onestà» saranno centrali nel vostro schema. Così, quando vi troverete a contatto con un’altra persona e dovrete
giudicarla, sarete innanzitutto interessati a scoprire se è morale più che se è simpatica o intelligente. Inoltre, sarete
particolarmente colpiti da alcuni suoi comportamenti in grado di suggerire il suo livello di rettitudine.

Il vostro schema di sé sarà la lente con cui osserverete il vostro mondo sociale.
Quando pensiamo a persone a noi care e a noi vicine tendiamo a sovrapporre la loro
rappresentazione alla rappresentazione del nostro sé in un processo di integrazione (che in
letteratura viene definito come including others in the self).
Esperimento Aron e colleghi chiesero a un gruppo di partecipanti sposati di valutare sé stessi e il
proprio coniuge su una lista di tratti.
PRIMA FASE: Distinguere un gruppo di caratteristiche comuni ai due partner e un gruppo di
caratteristiche distintive (tipiche dell’uno ma non dell’altro componente della coppia).
SECONDA FASE: in laboratorio, ai partecipanti è stata presentata una sequenza di tratti al
computer ed è stato chiesto loro di classificare ciascun aggettivo sulla base di una
distinzione me/non me, premendo il più velocemente possibile il tasto corrispondente della tastiera.
I risultati: partecipanti + rapidi e hanno commesso - errori di classificazione quando i tratti da
classificare erano comuni, (appartenevano sia a loro che al loro coniuge).
Questo succede perché l’altra persona è stata inclusa nel sé e, di conseguenza, lo schema di sé e
dell’altro a noi caro sono stati integrati e sovrapposti: trovarsi di fronte a un attributo che caratterizza
solo me e non l’altro o solo l’altro e non me, di conseguenza, crea confusione, porta a un ritardo
nella risposta e massimizza la probabilità di errore.
È come quando in uno Stroop task dobbiamo riconoscere il colore di una scritta: facciamo più fatica e più errori quando
vediamo la scritta verde in rosso (stimolo incongruente) che la scritta rosso in rosso (stimolo congruente).
2.2. La relazione tra la percezione del sé e la percezione degli altri

Effetto del falso consenso= Utilizzare lo schema di sé come punto di riferimento egocentrico per
definire gli altri. La tendenza inappropriata a pensare che gli altri la pensino come noi, si comportino
come noi, decidano come noi, abbiano i nostri valori e le nostre aspirazioni.
Per dimostrare l’esistenza di questo bias, in una serie di studi, Ross, Greene e House hanno chiesto
ai partecipanti posti di fronte a scenari fittizi di prendere delle decisioni ma anche di esprimere delle
preferenze («ti piace il pane integrale»), dei problemi personali («difficoltà a controllare gli impulsi»), di
descrivere alcune attività quotidiane («andare a messa») e delle aspettative per il futuro («sposarsi entro i
30 anni»).

Inoltre, ai partecipanti si chiedeva di stimare la percentuale di persone, tra i loro pari, aventi la loro
stessa opinione o preferenza.
I risultati degli studi hanno sistematicamente rivelato che le persone tendono a sovrastimare la
percentuale di persone che la pensano e si comportano come loro, indipendentemente dalle scelte e
dalle preferenze espresse.
È come se una persona che vota a destra e una che vota a sinistra pensino entrambe che la
maggior parte della popolazione abbia la loro opinione politica: i conti non tornano (questo effetto nei
tempi odierni è amplificato da fenomeni – come quello dell’echo chamber – che caratterizzano l’interazione attraverso
i social media).

Per questi motivi, proprio perché tendiamo a un bias egocentrico nella cognizione sociale, studiare
lo schema di sé ci fornirà molte informazioni circa il come percepiamo gli altri attori sociali.
Ma gli individui tendono a vedere tutti gli altri simili a sé stessi?
La letteratura che si è occupata di categorizzazione sociale e di bias intergruppo ha mostrato che
le persone tendono a proiettare le caratteristiche del sé, in modo specifico, sul proprio gruppo di
appartenenza (ingroup) più che su un gruppo diverso dal proprio (outgroup).
Attraverso questi processi di social projection o di self-anchoring, l’immagine dell’ingroup viene
«ancorata» alla rappresentazione del sé sino a diventarne una copia.
Inoltre, siccome le persone tendono a rappresentarsi in modo favorevole, questa proiezione al
gruppo di caratteristiche proprie fa sì che l’ingroup assuma connotazioni positive. E questo processo
ha delle conseguenze rilevanti nella percezione delle categorie sociali e nella nostra risposta
comportamentale nei confronti dei loro membri (ad esempio, favoritismo nei confronti dei membri
dell’ingroup).
Relazione bidirezionale: non solo lo schema di sé influenza il modo in cui rappresentiamo gli altri
agenti sociali ma anche l’immagine delle persone per noi significative e dei gruppi a cui
apparteniamo influenza la percezione che abbiamo di noi stessi.
Teoria dell’identità sociale: un elemento fondamentale è il concetto di identità sociale, ovvero
l’idea che una parte dell’identità individuale venga definita sulla base dell’appartenenza a un gruppo
sociale.
Ciascuno di noi si definisce sulla base della propria nazionalità, del proprio genere, del proprio
orientamento sessuale e politico… Secondo questa prospettiva teorica, proprio perché le
caratteristiche dell’ingroup definiscono chi siamo, gli individui cercano di favorire il proprio gruppo e
di valorizzarlo al fine ultimo di mantenere un’immagine positiva del sé e un’elevata autostima.
C’è la tendenza ad attribuire a sé stessi le caratteristiche tipiche di quel gruppo, attraverso un
processo definito di autostereotipizzazione. Gli stereotipi, quindi, che servono a definire come
sono i membri delle categorie sociali e che guidano la cognizione sociale, esercitano un’importante
influenza anche nella percezione di sé stessi.
Così, come le persone per noi significative vengono incorporate nel nostro sé, anche le
rappresentazioni di gruppi per noi importanti vengono integrate.
3. La formazione delle impressioni e il loro (difficile) aggiornamento

Formazione di un’impressione= un processo di organizzazione in una struttura coerente di


conoscenze delle informazioni relative a un individuo, derivate sia da un’esperienza diretta o da un
accesso diretto ai dati sia attraverso inferenze legate al processo di tipo top-down. È sicuramente
uno dei processi centrali nello studio della cognizione sociale e ha un altissimo valore adattivo: la
persona che ho di fronte ha intenzioni malevole o benevole.
La formazione di impressioni ha, inoltre, una grande influenza sulla nostra risposta comportamentale
nei confronti degli altri attori sociali per cui cerchiamo di evitare – e a volte danneggiare – chi non ci
piace; cerchiamo di avvicinarci, di interagire e di connetterci socialmente con chi ci piace. Il valore
adattivo dei meccanismi della percezione sociale spiega perché molti dei processi cognitivi a essa
sottesi siano rapidi, automatici e in larga misura inconsapevoli.
La formazione delle impressioni a partire dal volto.
Indagare gli effetti che l’aspetto delle persone ed elementi superficiali immediatamente osservabili
(come la comunicazione non verbale, la postura) hanno sulla formazione di impressioni e sul
giudizio sociale.

Effetto alone=si attribuiscono caratteristiche positive (come l’intelligenza, la simpatia) a partire dalla
bellezza e dall’avvenenza delle persone, in assenza di altre informazioni rilevanti. Anche l’altezza
viene associata a tratti positivi come alto potere e alto status.
In particolare, i volti degli altri sono la nostra fonte primaria di informazione per identificare le
persone e comprenderne gli stati mentali e le emozioni. Per questo motivo, la ricerca nell’ambito
della cognizione sociale si è occupata di analizzare come attribuiamo (sbagliando nella maggior parte dei
casi) alcune caratteristiche a dei target sociali a partire proprio dalle
caratteristiche osservabili delle loro facce, nelle primissime fasi della
percezione sociale

Inferenza di tratti sociali sulla base delle caratteristiche del volto. A


sinistra le facce a cui viene scarsamente attribuito il tratto, a destra i volti
fortemente associati alla caratteristica sociale.

Oosterhof e Todorov hanno dimostrato che dopo solo 100 ms di esposizione ai


volti, gli individui attribuiscono al target le caratteristiche sociali associate e, ad
esempio, decidono se la persona di fronte a loro è morale o immorale,
competente e incompetente. Chiaramente questa precocissima impressione,
seppur basata su elementi molto superficiali, può avere una grande influenza
sul processo di elaborazione del giudizio successivo.
Numerosi processi cognitivi sono influenzati dall’effetto d’ordine per cui i primi e gli ultimi item di un
elenco sono più salienti e ricordati meglio. In questa prospettiva, le informazioni iniziali ricevute
generano una prima impressione sul target sociale, positiva (A) o negativa (B), in grado di guidare il
processo successivo e di portare alla reinterpretazione del valore dei tratti proposti in un secondo
momento.
Ad esempio, nella condizione A, dopo aver appreso che la persona da giudicare è intelligente, il tratto
«testardo» può essere interpretato come «determinato a raggiungere gli obiettivi» e diventare meno negativo.

Se sappiamo che un target sociale è intelligente (++) ma


disordinato (–), svilupperemo su questi un giudizio
moderatamente positivo (+).

A ogni tratto l’individuo associa una valenza e un peso cognitivo (ad esempio, intelligente è molto
positivo, zelante moderatamente positivo, disordinato moderatamente negativo e bugiardo molto
negativo) e può, quindi, arrivare a formare un’impressione globale su un’altra persona combinando
«algebricamente» i suoi tratti.
3.2. Colmare le lacune: le inferenze sociali
I modelli fin qui descritti analizzano cosa succede quando si hanno a disposizione delle informazioni
sulle altre persone, sia perché ci sono state fornite da terzi sia perché sono state ottenute
direttamente durante l’interazione interpersonale. Tuttavia, esistono numerosi casi in cui i dati a
nostra disposizione sono limitati e la nostra rappresentazione relativa al target sociale risulta
profondamente lacunosa. Noi ovviamente non ci accontentiamo di un sapere parziale (spinti da una
forte motivazione a comprendere il nostro universo sociale) e colmiamo queste lacune attraverso
delle inferenze, cioè ci basiamo sulle caratteristiche che conosciamo di chi ci sta di fronte e le
arricchiamo, talvolta indebitamente, sulla base dei nostri schemi e delle nostre conoscenze
pregresse relative al mondo sociale.
Teorie implicite di personalità [Schneider]: schemi presenti nella nostra mente in cui alcuni tratti
sono associati ad altri con minore o maggiore forza. Queste associazioni possono fondarsi su base
semantica (ad esempio, «cauto» può essere associato a «timido») oppure su base valutativa (tratti positivi e tratti
negativi tendono a essere associati tra loro come, ad esempio, estroversione-generosità ed egoismo-avarizia).

Esperimento Rosenberg, Nelson e Vivekananthan: fra i primi a studiare l’associazione psicologica


tra tratti presentando a un gruppo di partecipanti una lista di 64 caratteristiche, sia positive (dotato/a)
sia negative (stupido/a), appartenenti a diverse dimensioni. I partecipanti coinvolti nello studio
dovevano liberamente pensare a diverse categorie di persone (ad esempio, amici, parenti, figure
pubbliche) e raggruppare i tratti che, a loro parere, potevano essere associati a queste classi;
successivamente dovevano valutare tutti i tratti presenti nella lista su tre scale: buono-cattivo; duro-
morbido; attivo-passivo.
Sulla base dei dati raccolti, gli autori hanno mostrato due risultati rilevanti:
1. i tratti analizzati possono essere collocati nello spazio definito da due dimensioni principali, la
desiderabilità sociale e la desiderabilità intellettuale, che ritroveremo sotto altri nomi (calore e
competenza; agency e communion) anche in altri modelli che si sono occupati di definire le
dimensioni fondamentali della percezione sociale sia di individui che di gruppi;
2. i tratti tendono a organizzarsi in gruppi, per cui caratteristiche vicine tra loro (ad esempio,
superficiale, inaffidabile, irresponsabile) saranno quelle più associate psicologicamente dagli
individui.
È importante sottolineare che gli schemi relativi alla personalità sono teorie ingenue, delle credenze
socialmente condivise, e non hanno nulla a che vedere con le teorie scientifiche della personalità
che studiano in modo accurato l’associazione fra tratti. Nonostante le inferenze sul target guidate da
questi schemi ci possano indurre a commettere degli errori nella valutazione delle altre persone,
essi sono estremamente utili perché ci permettono di arricchire le nostre impressioni con un minimo
sforzo.
Come nascono questi schemi? Dalla nostra cultura d’appartenenza, dalle nostre esperienze («ho
amici creativi che non sono per nulla passionali ed eccentrici») oltre che dalla percezione di noi
stessi («non sono per nulla passionale ed eccentrica ma sono molto creativa».
3.3. Dimmi cosa fai e ti dirò chi sei: le inferenze comportamento-tratto
Nel nostro contesto sociale noi non abbiamo mai accesso ai tratti delle persone perché essi non
sono direttamente percepibili e misurabili: ciò a cui siamo esposti durante le nostre innumerevoli
interazioni sociali quotidiane sono i comportamenti degli altri.
Di conseguenza, ciò che facciamo continuamente è cercare di capire le caratteristiche di chi ci sta
attorno partendo dall’osservazione delle azioni compiute, ovvero mettiamo in atto ciò che in
cognizione sociale viene definita un’inferenza corrispondente:

CAUSAZIONE PERSONALE
CAUSAZIONE IMPERSONALE
Il soggetto ha messo in atto un certo
Una persona ha messo in atto un certo
comportamento perché la situazione comportamento perché è dotato di un tratto
l’ha portata ad agire in quel modo di personalità che corrisponde e giustifica
la sua azione

Queste due categorie di variabili che possono spiegare il comportamento non hanno però lo stesso
peso.
Nel mondo occidentale, agli occhi del percipiente è la persona che si impone come elemento
causale saliente, mentre il ruolo dei fattori situazionali viene sottostimato. Quando osservano
un’azione, le persone commettono quindi un:

Sebbene sia stato appena detto che gli individui utilizzano più frequentemente fattori situazionali per
spiegare le proprie azioni quando sono loro stessi gli attori, non sempre è così: le persone tendono
a fare attribuzione interna in caso di successo e di esiti positivi del comportamento («Ho preso trenta
all’esame perché sono preparato/a e capace») e attribuzione situazionale in caso di esiti negativi («Sono
stato/a bocciato/a all’esame perché il test era troppo difficile»). Utilizzare una causazione impersonale ed
esterna in caso di fallimento è ovviamente una strategia difensiva che permette di non attribuire a sé
stessi le cause dell’insuccesso.
3.4. La prima impressione è quella che conta? Il conservatorismo e il processo di
aggiornamento delle impressioni
Come ricordato nel primo paragrafo, gli esseri umani nei loro processi di elaborazione tendono a
essere pigri e conservatori, ovvero sono scarsamente propensi a modificare le proprie idee sugli altri
una volta che ne hanno, soprattutto se questo richiede una ricerca e un’elaborazione di nuovi dati.
Questo bias di conferma nella formazione di impressioni opera attraverso:
1. la quantità e il tipo di informazioni che la persona ricerca per giudicare il target – una volta
che ci siamo formati un’impressione o un’opinione su un altro individuo o su un gruppo,
andremo a caccia di prove che suffraghino la nostra conclusione oppure limiteremo la ricerca
di nuovi dati;
2. l’interpretazione, il ricordo e il giudizio sulle nuove informazioni ricevute – saremo ciechi alle
informazioni falsificanti, sopravvaluteremo le evidenze empiriche che confermano le nostre
idee e interpreteremo a nostro favore quelle ambigue;
3. la risposta comportamentale – le ipotesi iniziali guideranno il nostro comportamento e le
nostre interazioni sociali con il target, in modo tale da rafforzare ulteriormente la nostra
opinione.
Questa marcata tendenza al conservatorismo è problematica almeno per due motivi:
• Le nostre prime impressioni non si basano sempre su elementi solidi ma anche su processi
estremamente superficiali ed euristiche. Quando facciamo riferimento a impressioni o
credenze formatesi in passato, non sempre ricordiamo il processo da cui tali impressioni
sono state generate: così poco importa che le ipotesi sugli altri si basino su elementi solidi
piuttosto che su veri e propri biases.

• Un problema di ordine. Quando si è parlato delle prime teorie sull’integrazione delle


informazioni [Asch; Anderson], è stato sottolineato come la sequenza delle informazioni che
riceviamo sull’altro sia in grado di forgiare il giudizio sociale: la formazione di impressioni è
fortemente influenzata dalle prime evidenze empiriche. Tuttavia, nella vita quotidiana,
riceviamo informazioni sui target sociali in ordine spesso casuale e non certo in ordine di
importanza e di diagnosticità.
Come dimostrato da numerosi studi, quando cerchiamo informazioni sugli altri ci focalizziamo
sull’ipotesi di lavoro e non sull’ipotesi alternativa (cioè mettiamo in atto quello che in letteratura viene
definito positive-testing).
Esperimento Snyder e Swann mostrano proprio questo: dopo aver diviso casualmente il gruppo di
partecipanti in intervistatori e intervistati, fornirono alla metà degli intervistatori una breve definizione
di estroversione (ad esempio, «Gli estroversi sono generalmente aperti, socievoli, energici, loquaci, entusiasti…») e
l’istruzione di verificare l’eventuale presenza di questo tratto nell’intervistato; all’altra metà degli
intervistatori, invece, diedero un a definizione di introversione («Gli introversi sono generalmente timidi,
riservati, taciturni, ritirati…») e l’istruzione di verificarne la presenza nell’intervistato. I colloqui tra
intervistatori e intervistati vennero registrati.
I risultati mostrarono che, in linea con l’ipotesi, gli intervistatori durante il colloquio usarono un
numero maggiore di domande coerenti con la loro ipotesi di
lavoro piuttosto che con l’ipotesi opposta o domande non
connesse ai tratti nominati:
⇒chi aveva ricevuto il compito di verificare l’estroversione del
proprio partner di interazione usò significativamente più
domande centrate sull’apertura e la socievolezza; viceversa,
chi aveva ricevuto il compito di verificare l’introversione del
target usò più domande volte a testarne il livello di chiusura e
il ritiro sociale.
Un punto importante è che quando le registrazioni vennero analizzate da dei giudici in cieco, ignari
della condizione sperimentale a cui era stata assegnato l’intervistatore, questi giudicarono
significativamente più introverse le persone intervistate in condizione di introversione e più
estroverse le persone intervistate in condizione di estroversione.
Com’è possibile vista l’assegnazione casuale dei partecipanti alle due condizioni sperimentali?
È emersa quella che gli autori definiscono una «conferma comportamentale»: quando partiamo
dall’ipotesi che il nostro interlocutore sia più o meno aperto, scegliamo delle domande e ci poniamo
nei suoi confronti in modo coerente con le nostre ipotesi di partenza. Queste domande e
questo atteggiamento sono in grado di generare nel nostro partner d’interazione delle risposte e
delle azioni che sono congruenti con le nostre aspettative, le confermano, le reificano. Questo
fenomeno è noto anche come profezia che si autoavvera.
La tendenza al conservatorismo si manifesta anche sul modo in cui gli individui utilizzano ed
elaborano le evidenze empiriche a loro disposizione.
Le correlazioni illusorie emergono quando ci illudiamo che esista un’associazione tra due eventi in
realtà inesistente o, al contrario, non notiamo un’associazione esistente [Chapman e Chapman].
∴ Le correlazioni illusorie possono essere indotte da aspettative pregresse dell’individuo: quando la
persona ha una teoria implicita sull’associazione tra due eventi tenderà a percepire illusoriamente
covariazioni tra gli stessi.
∴ Le correlazioni illusorie sono generate anche da processi cognitivi e, nello specifico, da
meccanismi di focalizzazione che portano gli individui a prestare attenzione solo ad alcune
informazioni e a formulare il giudizio finale solo sulla base dei casi presi in considerazione. (es:
segni zodiacali)
Come già notato dalle prime ricerche sulle correlazioni illusorie, le persone tendono soprattutto ad
associare tra loro eventi che sono rari o distintivi. Questi tipi di associazione enfatizzano i
meccanismi alla base della correlazione illusoria e possono influenzare non solo la nostra fiducia
nell’oroscopo ma anche l’utilizzo degli stereotipi sociali e delle false credenze sui gruppi minoritari.
Secondo quanto mostrato da Hamilton e Gifford [1976], la correlazione illusoria tra «essere membro
di un gruppo minoritario» (C1) e «mettere in atto un comportamento negativo» (C2) promossa, ad
esempio, dall’aspettativa che «gli immigrati sono delinquenti» può essere generata da un fenomeno
di focalizzazione sulla cella A che, come nel caso precedente, ci porta a trascurare gli esempi di
italiani che rubano e uccidono e di persone immigrate che si comportano in modo onesto. Tuttavia,
questa associazione è anche accentuata dal fatto che le due caratteristiche sono entrambe rare: un
comportamento negativo è più raro di uno positivo e appartenere a un gruppo minoritario (essere
immigrato) è più raro di appartenere a un gruppo maggioritario (essere autoctono).
Tra le altre strategie a nostra disposizione per mantenere inalterata la nostra prima impressione
sugli altri vi è anche quella del discredito: le informazioni che non sono in linea con le nostre ipotesi
iniziali vengono considerate meno rilevanti e attendibili.
Se da una parte questi processi hanno un alto valore adattivo perché ci permettono di mantenere
stabili le nostre teorie ingenue sul mondo e di non gettarci continuamente nello sconforto di
un’incertezza difficile da gestire, è pur vero che l’inerzia e il conservatorismo non ci permettono di
utilizzare in modo adeguato tutte le informazioni a nostra disposizione portandoci verso gravi errori
di giudizio. Nonostante questi chiari limiti, fortunatamente gli individui sono in grado, in alcune
situazioni, di modificare le proprie ipotesi iniziali e le prime impressioni sugli altri.
La formazione di impressioni è, infatti, un processo dinamico che richiede un aggiornamento
continuo. Questo processo di cambiamento è utile, a volte necessario, per aggiornare le proprie
conoscenze e adattarsi alle trasformazioni del mondo sociale intorno a noi.
Ma quand’è che usiamo le informazioni incongruenti nel processo di aggiornamento?
4. «(Loro) sono tutti uguali»: la categorizzazione sociale e gli stereotipi
La categorizzazione sociale

La categorizzazione sociale porta a delle distorsioni percettive che si traducono in un’accentuazione


delle differenze tra gli esemplari che appartengono a categorie diverse (principio di accentuazione
intercategoriale) e in una riduzione delle differenze tra gli esemplari che appartengono alla stessa
categoria (principio di assimilazione intracategoriale).

Una chiara dimostrazione del fenomeno è stata fornita in uno studio condotto da Tajfel e Wilkes in
cui gli studiosi presentarono a degli studenti una serie di otto linee rette che si differenziavano tra
loro in modo costante (5%). Le linee venivano presentate a ciascun partecipante una alla volta, in un
ordine casuale e per più volte. Tuttavia, per i partecipanti assegnati alla condizione sperimentale le
quattro linee più corte erano sempre etichettate con la lettera A, quelle più lunghe con la lettera B. In
questo modo, si rendeva saliente all’insaputa dei ragazzi la categorizzazione in linee corte (A) e in
linee lunghe (B). Invece, nella condizione di controllo le linee venivano presentate senza alcuna
etichetta. Al termine della presentazione, veniva chiesto a tutti i partecipanti di stimare la lunghezza
di ciascuna linea. Nella condizione sperimentale gli autori osservarono un risultato sorprendente: la
salienza della categorizzazione in linee corte A e linee lunghe B portò i partecipanti a esagerare le
differenze tra i due gruppi di linee. Tale effetto si riscontrava tra le due linee di confine (la linea più
lunga tra le A e quella più corta delle B), in cui la differenza percepita era addirittura il doppio rispetto
alla differenza reale.
Lo stesso fenomeno emerge anche quando percepiamo e ragioniamo su caratteristiche sociali che
non sono discrete ma variano lungo un continuum, come il colore della pelle o il peso corporeo.
Anche se non sarebbe possibile stabilire dei confini netti, noi tutti dividiamo gli esseri umani in
insiemi mutualmente escludentesi e utilizziamo delle etichette per contraddistinguerli (magri e obesi;
persone nere e persone bianche).
Quando, oltre al confine tra una categoria e l’altra aggiungiamo anche un’etichetta, otteniamo degli
effetti additivi che enfatizzano ulteriormente la percezione di somiglianza tra i membri di una stessa
categoria (magri-magri, grassi-grassi) e di differenze tra membri di categorie diverse (magri-grassi).
Tuttavia, il fenomeno di assimilazione intracategoriale non ha la stessa forza quando percepiamo
un ingroup, ovvero una categoria che ci include, o un outgroup.
Avete mai notato che le persone caucasiche tendono a percepire le persone asiatiche tutte simili tra
loro?
Effetto di omogeneità dell’outgroup [Judd e Park]= tendenza a percepire i membri
dell’outgroup come più omogenei sia in termini di caratteristiche fisiche che di personalità rispetto ai
membri dell’ingroup che sono più differenziati tra loro.
Ragioni:
• le persone hanno molte più occasioni di osservare e interagire con membri
dell’ingroup rispetto a quelli dell’outgroup e, quindi, hanno molte più informazioni e una
rappresentazione più differenziata e continuamente aggiornata della propria categoria;
• gli individui prendono in carico e organizzano le informazioni relative ai singoli individui
(operazione più dispendiosa cognitivamente) quando questi appartengono all’ingroup ma
non all’outgroup.
È chiaro come l’effetto di omogeneità prepari un terreno fertile per lo sviluppo di stereotipi e
pregiudizi: l’accentuazione delle somiglianze entro il gruppo facilita questi fenomeni basati su
processi di generalizzazione, in cui si applicano in modo indistinto a tutti i membri del gruppo
caratteristiche o valutazioni negative.

Nel processo di autocategorizzazione esistono vari livelli di astrazione (immaginiamo dei cerchi
concentrici): il livello interpersonale, quello intergruppale sino ad arrivare al livello più elevato e più
inclusivo, quello interspecie. Così, ad esempio, al crescere del livello posso definirmi milanese,
lombarda, italiana, europea… essere umano. Sulla base del livello di categorizzazione che adotterò,
cambieranno le persone definibili come membri dell’ingroup o dell’outgroup: se mi definisco
milanese, un bresciano sarà membro dell’outgroup; se mi definisco lombarda, lo sarà un molisano
mentre un bresciano diventerà componente della mia stessa categoria sociale; se mi definisco
europea, sentirò estraneo 92un americano ma non un finlandese.
L’autocategorizzazione, inoltre, non è costante: gli individui possono definire loro stessi in un
momento come appartenenti a una categoria e, il momento successivo, come appartenenti a una
categoria differente. Secondo Turner e colleghi l’accesso a una certa categoria dipenderebbe da:
1. L’accesso comparativo prevede che la categorizzazione sia guidata dalla salienza degli
stimoli presenti in un determinato contesto, in uno specifico arco temporale. Più
precisamente, per il principio del metacontrasto, un insieme di stimoli viene maggiormente
percepito come un’entità quando il livello di discrepanza al proprio interno è minore della
discrepanza tra quell’insieme e altri all’interno del contesto comparativo.
Es. Siete una donna, è mezzanotte e salite sull’autobus per tornare a casa; oltre a voi, sul mezzo vi è
un’altra donna, probabilmente indiana, mentre tutti gli altri passeggeri sono uomini. In quella
situazione, la categoria di genere diventerà saliente per definire voi e gli altri perché è quella che
spiega meglio la discrepanza tra gli stimoli presenti nella situazione: questo vi porterà a percepire la
donna indiana simile a voi e a ignorare la differente provenienza. Ma immaginate ora di salire sullo
stesso autobus alla stessa ora e di notare che siete l’unica autoctona: gli altri passeggeri sono donne
e uomini nordafricani, asiatici, sudamericani. In questo secondo caso, la categoria che sicuramente
utilizzerete per definire voi stessa è quella etnica e non più quella di genere e la percezione di
somiglianza/discrepanza muterà.
2. L’accesso normativo, invece, prevede che utilizzare una categoria piuttosto che un’altra
allo scopo di autodefinirsi non dipenda solo dal contesto ma sia anche influenzata da
preferenze specifiche e stabili del soggetto percipiente. In particolare, l’accesso a una
categoria è favorito quando essa risulta in accordo con il sistema di credenze dell’individuo e
con le norme socialmente elaborate. Per cui, se siete delle femministe militanti,
probabilmente l’accesso alla categoria di genere sarà privilegiato; se siete razzisti e contrari
all’immigrazione nel paese, probabilmente quello che noterete appena saliti sull’autobus sarà
il gruppo etnico di appartenenza vostro e degli altri passeggeri.
Evidentemente promuovere il livello interspecie risolverebbe molti problemi riguardanti le relazioni
intergruppo perché tutte le persone sarebbero incluse in un’unica categoria sociale, quella degli
«esseri umani», e saremmo portati a valorizzare le somiglianze tra tutti i suoi membri piuttosto che
le loro differenze.
Tuttavia, è un processo cognitivo altamente adattivo, perché permette agli individui di
semplificare enormemente il contesto sociale in cui sono immersi e di rispondere prontamente agli
stimoli da esso provenienti.
Proprio per questa sua cruciale funzione, è un processo automatico che si attiva in modo rapido e
al di fuori del nostro controllo, guidando i processi di elaborazione successivi di tipo top-down.
Tuttavia, in alcuni casi, siamo anche disposti a scomodare delle risorse cognitive per capire meglio
chi ci sta di fronte (usare processi bottom-up). Questo avviene quando la categorizzazione
automatica non è in grado di aiutarci nel contesto o quando abbiamo bisogno di analizzare l’altro in
modo più approfondito. Ad esempio, quando si deve scegliere un nuovo collaboratore, è necessario
raccogliere informazioni il più possibile esaustive si di lei/lui (come il titolo di studio, esperienze
lavorative pregresse) e non ci si può di certo fermare al fatto che sia uomo o donna.
Infine, va sottolineato che nessuna persona – noi compresi – appartiene a un’unica categoria
sociale ma a diversi gruppi simultaneamente. Ad esempio, pensiamo a Giuseppe, un uomo, di
sinistra, architetto, italiano, bianco, omosessuale, fan dei Metallica. Quando si attiva un criterio di
categorizzazione, piuttosto che un altro, cambiano i confini dell’ingroup, dell’outgroup e le
caratteristiche salienti attribuite al target. Se pensiamo, dunque, a Giuseppe come architetto e uomo
ce lo rappresenteremo in modo molto diverso rispetto a quando lo pensiamo di sinistra e fan dei
Metallica. Eppure è sempre lui.
Perché allora scegliamo un criterio di categorizzazione rispetto a un altro? I modelli di
categorizzazione multipla [Macrae e Bodenhausen] prevedono che, nelle primissime fasi della
categorizzazione sociale, i diversi criteri si attivino simultaneamente ed entrino in una sorta di
«competizione per la dominanza».
Il criterio di categorizzazione vincitore – e che guiderà la percezione sociale – dipenderà da:
• la sua salienza in un certo contesto (se Giuseppe è l’unico italiano in mezzo a persone
straniere, la categoria nazionale dominerà);
• la rilevanza per gli scopi (se devo ristrutturare casa, la categoria professionale avrà la
meglio);
• l’accessibilità cronica (se siamo dei militanti politici, l’orientamento politico di Giuseppe sarà
per noi cruciale nel definirlo).
4.2. Gli stereotipi sociali
Come esposto sopra, la categorizzazione sociale è un processo di segmentazione del contesto
sociale che ci porta a vedere tutti i membri di quella categoria come uguali uno all’altro.
Ma in che modo li percepiamo?
Gli stereotipi sono definiti in base a 3 caratteristiche.
⇒ La valenza: i tratti distintivi dei diversi gruppi sociali inglobati negli stereotipi sono sia positivi
che negativi. Gli italiani, ad esempio, sono rappresentati sia come socievoli e di buon gusto
sia come disorganizzati e inaffidabili. Ma è indubbio che alcuni gruppi – i più stigmatizzati
nella nostra società – sono definiti da stereotipi più negativi mentre nello schema relativo
all’ingroup (soprattutto se l’ingroup è un gruppo maggioritario) prevalgono generalmente
stereotipi positivi.

⇒ La polarizzazione dei tratti presenti nello schema: i tratti «freddi» e «schivi» sono entrambi
negativi e ricadono entrambi sulla dimensione del calore; tuttavia, la prima caratteristica e più
estrema e più polarizzata della seconda.

⇒ Un indice di dispersione: la stima ingenua di varianza di alcuni tratti nella popolazione può
essere alta o bassa: se pensiamo che la varianza di un tratto sia alta, significa che pensiamo
che il gruppo sia caratterizzato da uno stereotipo ma che il gruppo sia molto eterogeneo al
suo interno rispetto a quella caratteristica (gli italiani sono disorganizzati ma c’è molta
eterogeneità tra i nostri connazionali); se la stima di varianza è bassa, al contrario,
ipotizziamo che tutti i membri di quella categoria, o quasi, posseggano quel tratto e che il
gruppo al suo interno sia omogeneo.
Ma come si formano gli stereotipi sociali?

4.2.1 Apprendimento sociale e contesto culturale


La diffusione degli stereotipi a livello culturale e la condivisione di questi schemi all’interno del nostro
gruppo sociale genera una forte omogeneità e la possibilità di condividere con altre persone la
stessa rappresentazione delle categorie sociali. Tempo fa circolava questa barzelletta: «Il paradiso è
un poliziotto inglese, un cuoco francese, un tecnico tedesco, un amante italiano, il tutto organizzato
dagli svizzeri. Mentre l’inferno è un cuoco inglese, un tecnico francese, un poliziotto tedesco, un
amante svizzero… e l’organizzazione affidata agli italiani». Anche se non ne condividiamo il
contenuto, tutti noi capiamo il motto di spirito. E lo comprendiamo perché siamo cresciuti nello
stesso contesto culturale in cui circolano gli schemi citati.
STEREOTIPI ≠ PREGIUDIZI
Gli stereotipi, proprio perché diffusi e condivisi da tutti i membri di una comunità, si distinguono dal
pregiudizio che, prevede, invece, un’accettazione degli stereotipi negativi associati ai gruppi sociali
minoritari e/o stigmatizzati.
Per dimostrare che lo stereotipo costituisce sì la base cognitiva del pregiudizio ma che il pregiudizio
non è lo stereotipo:
- Devine somministrò una scala di razzismo a un gruppo di partecipanti americani bianchi e lo
divise, sulla base delle risposte, in due sottogruppi composti da individui ad alto e basso
pregiudizio.

- Successivamente, con la tecnica del priming subliminale, l’autrice presentò a tutti i


partecipanti una lista di parole. Le parole (come nero, povero, pigro, atletico) erano associate
stereotipicamente nell’80% (vs. il 20%) dei casi al gruppo degli afroamericani.

- Le parole comparivano molto rapidamente sullo schermo e i partecipanti dovevano solo dire
se erano posizionate a destra o a sinistra. Successivamente, venne presentato loro uno
scenario fittizio su un personaggio, Donald, che i partecipanti dovevano giudicare.
Risultati: le persone esposte nella prima fase a caratteristiche associate ai neri nell’80% dei casi
tendevano a giudicare Donald come più ostile (tratto stereotipico negativo sugli afroamericani)
rispetto a coloro che erano stati esposti a questi termini solo nel 20% dei casi. Il risultato non
sorprende ed è in linea con molti altri studi sugli effetti priming (vedi quadro 3.5). Il risultato rilevante
negli studi condotti dall’autrice, però, è che l’effetto era identico nelle persone con bassi e alti livelli
di pregiudizio verso gli afroamericani.
Conclusione= gli stereotipi si attivano e agiscono automaticamente, in modo rapido e non controllato
in tutti, sia nelle persone che hanno alto pregiudizio nei confronti del gruppo target sia nelle persone
con basso pregiudizio. Per questo motivo, gli stereotipi sono così deleteri per la nostra vita sociale.
Fortunatamente, però, quando hanno risorse cognitive sufficienti, gli individui con basso pregiudizio
riescono a monitorare questi schemi e a sopprimerne, almeno parzialmente, l’effetto.

4.2.2 Osservazione ed esperienze dirette


La formazione degli stereotipi è anche legata all’osservazione del comportamento dei membri di
specifiche categorie sociali che ci portano a fare un’inferenza corrispondente dal comportamento
al tratto e a generalizzarlo poi all’intera categoria.
Le persone sono soggette a un errore fondamentale di attribuzione e alla sottostima dei fattori
situazionali alla base delle azioni: perciò, sfugge all’osservazione il fatto che il comportamento possa
essere determinato dalla condizione sociale del gruppo, dal ruolo svolto all’interno della società, e
non dalla sua natura o essenza.
Se analizziamo i tratti stereotipici associati alle categorie sociali più stigmatizzate e marginalizzate
nel corso della storia in contesti culturali dissimili, troveremo delle straordinarie somiglianze. Ad
esempio, se si pensa agli stereotipi associati agli italiani immigrati in USA negli anni Cinquanta, si
noterà che questi non sono dissimili da quelli che oggi noi attribuiamo alle persone immigrate
nordafricane nel nostro paese. Questo fenomeno fa sì che, quando cambiano le condizioni sociali e
le funzioni di alcuni gruppi all’interno dell’arena sociale, si modifichino anche gli stereotipi.
Inoltre, gli stereotipi sociali si possono formare – e quindi anche trasformare – sulla base di
esperienze personali dirette con i membri di una certa categoria sociale. L’interazione con
individui che appartengono a certi gruppi ci forniscono, infatti, delle informazioni (positive e negative)
che possono poi essere generalizzate all’intera categoria.
Uno degli aspetti più problematici degli stereotipi sociali, così come di altri fenomeni e biases che
influenzano la nostra percezione sociale, è che non si limitano a rappresentare in modo falsato la
realtà ma la influenzano e la forgiano, reificando delle rappresentazioni.
Abbiamo già visto nel paragrafo 3 come le nostre prime opinioni e ipotesi sugli altri siano in grado di
agire come profezie che si autoavverano. La stessa cosa accade per gli stereotipi. I membri del
gruppo maggioritario agiscono nei confronti del gruppo minoritario guidati da credenze che
influenzano profondamente il comportamento.
Pensate di fare un colloquio di selezione con una persona che mostra una disabilità. Probabilmente
avrete con questo individuo un atteggiamento di imbarazzo e porrete delle domande guidati dai
vostri stereotipi su questa categoria sociale: l’intervistato/a non potrà non essere condizionato dal
vostro atteggiamento e, probabilmente, risponderà in linea con le vostre aspettative. Inoltre, come
ricordato quando abbiamo parlato dello schema di sé e del processo di autostereotipizzazione,
molti degli stereotipi riferiti ai gruppi ai quali apparteniamo vengono da noi assunti come nostre
caratteristiche personali forgiando le nostre azioni, le nostre scelte e limitando le nostre opportunità.
Ad esempio, gli stereotipi di genere portano le ragazze a credere di essere meno competenti in
matematica: nel nostro paese in cui il gender gap e il livello di sessismo è ancora elevato, la
percentuale di donne iscritte a facoltà scientifiche è decisamente inferiore rispetto ad altre realtà
sociali.
Capitolo 5

GLI ATTEGGIAMENTI
OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO
• Conoscere la definizione e la struttura degli atteggiamenti
• Comprendere la distinzione tra atteggiamenti automatici e atteggiamenti controllati
• Comprendere il legame tra atteggiamento e comportamento
• Conoscere la teoria dell’azione ragionata e del comportamento pianificato
• Comprendere come cambiano gli atteggiamenti automatici e controllati
1. Definire gli atteggiamenti
Atteggiamento= valutazione relativamente durevole di un oggetto, una persona, un evento, o una
situazione [Eagly e Chaiken 1993].
Atteggiamento ≠ Comportamento
«Comportamento»: utilizzato per riferirsi alle reazioni o azioni osservabili di una persona (ad
esempio, parlare, camminare
«Atteggiamento»: utilizzato per fare riferimento a valutazioni soggettive, che non sono osservabili, a
meno che non siano comunicate attraverso il linguaggio (ad esempio, «Mi piace leggere»).

1.1. Imparare l’ABC degli atteggiamenti


Una delle concezioni tradizionali considera l’atteggiamento come formato da tre componenti:
(Affective component) una reazione affettiva;
(Behavioural component) una disposizione comportamentale;
(Cognitive component) un insieme di credenze cognitive.

Il modello tripartito (Rosenberge & Hovland)

Come potete osservare, anche in questa concezione tradizionale dell’atteggiamento la valutazione e


il comportamento non sono del tutto distinti, tanto da essere concepiti come due componenti dello
stesso concetto (l’atteggiamento). Di fatto, anche se i due concetti sono distinguibili per gli psicologi
sociali, come abbiamo sottolineato nel paragrafo precedente, essi sono spesso associati, almeno
per due ragioni.
1. Gli atteggiamenti possono essere precursori del comportamento.

2. Talvolta le persone esprimono i propri atteggiamenti o valutazioni attraverso il comportamento, ad


esempio dichiarando se sono o meno favorevoli nei confronti di un certo oggetto di atteggiamento.
1.2. Atteggiamenti automatici e controllati
Più recentemente, la ricerca si è interessata alla distinzione tra due tipologie di atteggiamenti, quelli
espliciti e quelli impliciti [Greenwald e Banaji 1995].

Come si formano gli atteggiamenti?

2.1. Formazione automatica degli atteggiamenti


CONDIZIONAMENTO CLASSICO

Processo di apprendimento nel quale uno stimolo neutro (stimolo condizionato) viene ripetutamente
associato a uno stimolo in grado di suscitare una reazione affettiva positiva o negativa (stimolo
incondizionato). In seguito all’associazione ripetuta, la valenza positiva o negativa dello
stimolo incondizionato viene associata allo stimolo che inizialmente era neutro [Pavlov, 1906].
CONDIZIONAMENTO OPERANTE

Un comportamento viene rinforzato se è seguito da un premio o ricompensa e indebolito se


seguito da una punizione [Skinner, 1938]
MERA ESPOSIZIONE

L’esposizione ripetuta a uno stimolo determina un atteggiamento più favorevole nei suoi confronti
[Zajonc, 1968].
2.2. La formazione consapevole degli atteggiamenti
Le persone possono formarsi atteggiamenti in modo consapevole, attraverso un’attenta
riflessione su argomenti, oggetti, comportamenti che ritengono importanti.
Il principale approccio teorico che spiega la formazione consapevole degli atteggiamenti è
l’approccio funzionale:
Indaga le ragioni per cui le persone sviluppano degli atteggiamenti.
Secondo tale approccio gli atteggiamenti si formano perché svolgono delle funzioni
psicologiche e soddisfano dei bisogni psicologici.
Nello specifico, Katz [1960] ha proposto quattro funzioni degli atteggiamenti:

3. Gli atteggiamenti prevedono il comportamento?


Per lungo tempo l’atteggiamento è stato considerato un valido predittore del comportamento.
L’idea che i nostri atteggiamenti determinino i nostri comportamenti è piuttosto intuitiva; se sono
una persona che ha atteggiamenti positivi nei confronti delle persone straniere, allora dovrei
aspettarmi di mettere in atto comportamenti non discriminatori nei loro confronti.
Tuttavia…
NB: Negli anni ‘30, il sociologo francese LaPiere dimostra che la relazione tra atteggiamenti e
comportamenti non è così diretta e lineare.
Esperimento:

La relazione tra atteggiamento e comportamento NON È COSÌ DIRETTA E LINEARE come potrebbe
sembrare.
3.1. I fattori che determinano il legame tra atteggiamento-comportamento

3.2. La teoria dell’azione ragionata e la teoria del comportamento pianificato


Per spiegare il legame tra atteggiamenti e comportamenti, Ajzen e Fishbein hanno proposto
la teoria dell’azione ragionata secondo cui:

Il principale antecedente del comportamento sono le intenzioni comportamentali, ovvero i


propositi di attuare un determinato comportamento. Le intenzioni comportamentali sono a loro
volta determinate dall’atteggiamento verso il comportamento e dalle norme soggettive.

Nella teoria dell’azione ragionata:


l’atteggiamento è = l’insieme di credenze riguardo le conseguenze del comportamento e il
valore associato a tali conseguenze, mentre
le norme soggettive sono = le percezioni e le credenze riguardo a come gli altri significativi
(ad esempio, familiari, amici, colleghi) giudicano il comportamento.

Per semplificare i concetti della teoria dell’azione ragionata, prendiamo ad esempio le determinanti
del comportamento di allacciare le cinture di sicurezza in auto:

La teoria dell’azione ragionata parte dalla concezione dell’individuo come essere razionale che si
forma, attraverso ragionamenti e analisi, intenzioni comportamentali che poi mette in atto, ed è
applicabile a comportamenti la cui attuabilità dipende unicamente dalla volontà personale.
Molti comportamenti però non sono realizzabili nonostante le intenzioni. Ad esempio, una persona
potrebbe avere un atteggiamento negativo verso il comportamento di fumare, percepire che gli altri
disapprovano il comportamento di fumare e quindi avere l’intenzione comportamentale di smettere
di fumare, ma non farcela comunque a smettere.
Per spiegare comportamenti difficili da realizzare, Ajzen ha proposto la teoria del comportamento
pianificato, un’estensione della teoria dell’azione ragionata che include un ulteriore predittore delle
intenzioni comportamentali e del comportamento, ovvero il controllo comportamentale percepito.

la percezione di essere in grado di mettere in atto il comportamento


Secondo la teoria del comportamento pianificato, il controllo comportamentale percepito influenza:

• la formazione delle intenzioni (ad esempio, percepire di essere in grado di smettere di fumare
contribuirà a formare intenzioni di smettere di fumare)

• il comportamento, il quale verrà attuato solo se la persona si percepisce in grado di attuarlo


(ad esempio, un individuo smetterà di fumare solo se si sente in grado di farlo, a prescindere
da atteggiamenti, norme e intenzioni).

Ricerche empiriche hanno ampiamente dimostrato l’efficacia della teoria del comportamento
pianificato nel predire comportamenti ecologici, comportamenti di voto, e comportamenti salutari,
come ad esempio seguire diete equilibrate e fare sport regolarmente, oppure smettere di fumare o di
bere alcol. Tuttavia, nonostante il suo forte potere esplicativo, questa teoria riesce a spiegare solo
comportamenti controllati e deliberati, e non è invece in grado di prevedere comportamenti
automatici.
3.3. Atteggiamenti automatici, atteggiamenti controllati e comportamenti
Data la doppia natura, automatica e controllata, degli atteggiamenti è importante capire come
queste due facce della medaglia agiscano nel guidare il comportamento umano.
Fazio ha indagato gli effetti degli atteggiamenti automatici e deliberati sulla condotta umana.
I processi automatici dovrebbero guidare il comportamento senza necessità di consapevolezza:
in questo contesto, l’attivazione automatica dell’atteggiamento alla presenza del target influenza
come il target stesso viene percepito.
Quindi, una volta attivato, l’atteggiamento guida il comportamento in maniera automatica, ossia
in assenza di consapevolezza, senza che la persona se ne renda conto. Ad esempio, se mi trovo di
fronte a un leone affamato, si attiverà automaticamente l’associazione tra l’animale e il concetto di
pericolosità generando, di conseguenza, un comportamento istintivo di fuga con l’obiettivo di evitare
la minaccia alla sopravvivenza.
Dall’altro lato, nel caso dell’attivazione dei processi controllati, l’individuo mette in atto un’analisi
costi/benefici nell’intraprendere un determinato comportamento, valutando, di conseguenza, le
diverse alternative a disposizione.
Le teorie dell’azione ragionata e del comportamento pianificato (vedi par. precedente) sono esempi di teorie
che esaminano la relazione tra atteggiamenti controllati e comportamento.

A differenza dei processi automatici, quelli controllati necessitano di uno sforzo cognitivo per essere
messi in atto, vale a dire che gli individui devono avere sia la motivazione sia le risorse cognitive (ad
esempio, possibilità di concentrarsi, tempo a disposizione per mettere in atto il comportamento) per
innescare gli atteggiamenti deliberati.
Una terza alternativa, che in realtà include la maggior parte delle situazioni, è rappresentata dai
processi misti= il comportamento è una risultante dell’azione combinata di atteggiamenti spontanei
e controllati: pensiamo ad esempio al desiderio di mangiare una fetta di torta (atteggiamento automatico) e la
motivazione a perdere peso (atteggiamento controllato).
4. Il cambiamento degli atteggiamenti
Gli individui manifestano sia atteggiamenti automatici che atteggiamenti controllati. Secondo la
ricerca più recente [Gawronski e Bodenhausen 2006], questi due tipi di atteggiamenti
sono caratterizzati da 2 processi distinti di elaborazione delle informazioni:
Gli atteggiamenti controllati si basano sui ⇒ processi di pensiero consapevoli e razionali, nei
quali le informazioni vengono elaborate in modo sistematico.
Gli atteggiamenti automatici, invece, si basano su ⇒ processi di tipo associativo.
Nella nostra memoria a lungo termine, i concetti sono associati ad altri concetti e ad attributi
di tipo valutativo (ad esempio, piacevole o spiacevole), come in una rete.
I concetti, gli attributi e i legami associativi che li collegano formano delle reti di associazioni
mentali. Quando siamo esposti a uno stimolo, questo viene processato automaticamente,
ovvero attiva una determinata rete associativa.
Ad esempio, vedere una persona anziana camminare può attivare l’associazione «persona anziana-
lenta», mentre vedere una persona anziana parlare a un bambino può attivare l’associazione
«persona anziana-saggia». In questi due esempi, lo stimolo (cioè la persona anziana) ha attivato
due pattern associativi diversi.
Il cambiamento degli atteggiamenti avviene attraverso cambiamenti nel sistema di pensiero
automatico, nel sistema di pensiero controllato o in entrambi. I due sistemi di pensiero, infatti,
possono influenzarsi reciprocamente per generare cambiamento, nel senso che la modifica delle
valutazioni controllate si può riflettere sulla modifica delle valutazioni automatiche e viceversa.
4.1. Modificare gli atteggiamenti automatici
4.1.1. Il cambiamento della struttura associativa
Uno dei modi per cambiare l’atteggiamento automatico è attraverso la modifica della struttura
della rete associativa. In particolare, la ripetuta associazione di un oggetto a uno stimolo (positivo
o negativo) porta a modificare la valutazione dell’oggetto, attraverso il processo del
condizionamento classico.
Karpinski e Hilton [2001] hanno condotto un esperimento in cui ai partecipanti, studenti universitari, veniva
richiesto di completare in una prima fase un implicit association test che rilevava il loro atteggiamento
implicito verso le categorie «giovani» e «anziani». In un secondo momento, i partecipanti svolgevano un
presunto compito di memoria, che in realtà aveva l’obiettivo di modificare le loro associazioni mentali. In
questo compito, in una condizione sperimentale le parole «giovani» e «anziani» erano ripetutamente associate
a parole negative e positive, rispettivamente. In un’altra condizione, le associazioni erano invertite («giovani»
era associato ripetutamente a parole positive e «anziani» a parole negative). I risultati mostrarono che
l’atteggiamento negativo implicito dei partecipanti verso gli anziani si riduceva, rispetto alla misurazione
iniziale, per coloro che erano stati ripetutamente esposti alla parola anziani associata a parole positive.

4.1.2. Il cambiamento del pattern di attivazione


Anche agire sui pattern di attivazione della rete associativa può portare alla modifica
dell’atteggiamento automatico.
Questo accade quando l’oggetto di atteggiamento è rappresentato in memoria con associazioni
diverse a seconda del contesto, ossia quando sono presenti discrepanze nella valutazione
dell’oggetto che dipendono dalla situazione. Ad esempio, l’atteggiamento nei confronti del junk food, cibo
gustoso (componente positiva) ma dannoso per la salute (componente negativa), può variare a seconda che
l’individuo si trovi nella situazione di dovere consumare un pasto economico al volo oppure a un convegno
sull’alimentazione sana.

I cambiamenti dei pattern di attivazione presuppongono che: a) l’oggetto di atteggiamento sia già
rappresentato in memoria in modi diversi e b) che la presenza di indizi di contesto attivi uno
specifico pattern. A differenza del cambiamento della struttura associativa, non si modificano i
legami tra concetto e attributo, ma solo quale associazione viene attivata a un dato momento.
4.2. Modificare gli atteggiamenti controllati
Il cambiamento degli atteggiamenti controllati dipende:

• dai cambiamenti nelle associazioni valutative


• dai cambiamenti che avvengono a livello dei processi di tipo controllato.
Riguardo a questi ultimi, essi possono dipendere:
a) da un’incongruenza tra due cognizioni (dissonanza cognitiva) o
b) dall’acquisizione di nuove credenze fornite, ad esempio, da una comunicazione persuasiva.

4.2.1. Il cambiamento delle associazioni automatiche


Il cambiamento delle associazioni automatiche si riflette sul cambiamento degli atteggiamenti
controllati, poiché il sistema di pensiero controllato o consapevole trae gli elementi di informazione
che elabora in modo sistematico e razionale dal sistema di pensiero automatico (cioè, dalla memoria
a lungo termine). Se la struttura di un’associazione in memoria cambia (cambiamento della struttura
associativa) o se a un dato momento è più rilevante un certo tipo di associazione rispetto a un’altra
(cambiamento del pattern associativo), saranno diversi gli elementi di informazione a disposizione
del sistema controllato. Di conseguenza, quest’ultimo giungerà all’elaborazione di un atteggiamento
esplicito diverso.
4.2.2. Cambiare gli atteggiamenti controllati attraverso la dissonanza
La favola di Esopo ‘La volpe e l’uva’ narra di una volpe affamata che cercava di raggiungere dei
grappoli d’uva che erano troppo in alto per lei. Non riuscendo a raggiungerli, la volpe se ne andò,
dicendo tra sé e sé «Sono acerbi». Come spiegare il cambiamento di atteggiamento della volpe
verso l’uva?
Teoria della dissonanza cognitiva [Festingere]= Quando una persona esperisce dissonanza
cognitiva sarà motivata a cambiare una delle cognizioni per ripristinare lo stato di equilibrio.
Partendo dal bisogno di coerenza degli esseri umani, Festingere ha proposto il concetto di
dissonanza cognitiva, ovvero lo stato di attivazione e tensione psicologica determinato dalla
percezione di un’incoerenza tra proprie cognizioni, come ad esempio tra propri atteggiamenti e
consapevolezza dei propri comportamenti.
Nel caso di una dissonanza tra un atteggiamento e un comportamento, è più probabile che le
persone cambino i propri atteggiamenti piuttosto che i comportamenti, per due motivi principali:
1. la dissonanza generalmente si riferisce a comportamenti passati che non sono quindi
modificabili;
2. per il principio del minimo sforzo, cambiare gli atteggiamenti è più semplice che cambiare i
comportamenti.
La teoria della dissonanza cognitiva propone che lo stato di dissonanza si manifesti principalmente
per comportamenti messi in atto di propria volontà, senza costrizione. Infatti, per un comportamento
verso cui non si ha libera scelta o di fronte a una minaccia, gli individui potranno trovare una
giustificazione esterna nella mancanza di libera scelta e nella minaccia, senza provare dissonanza.
Inoltre, la dissonanza viene provata principalmente nel caso di incoerenza tra comportamenti e
atteggiamenti forti e importanti.
Di seguito esamineremo i tre principali paradigmi della dissonanza cognitiva e alcuni esperimenti
classici che mostrano come le persone giungano a modificare l’atteggiamento per risolvere la
dissonanza.
Nell’esempio tratto da La volpe e l’uva, la volpe non poteva modificare il proprio comportamento
(l’uva era troppo in alto per lei) e quindi ha modificato l’atteggiamento verso l’uva, svalutandola.
Esperimento di Festingere Carlsmith[1959]
PARADIGMI DELLA DISSONANZA COGNITIVA
1. GIUSTIFICAZIONE INSUFFICIENTE

2. GIUSITIFICAZIONE DELLO SFORZO

Esperimento di Axsome Cooper [1985]


Gli autori ipotizzarono che le partecipanti nella condizione «alto sforzo» si sarebbero impegnate a
fondo nella perdita di peso (tramite comportamenti esterni a quelli messi in atto in laboratorio,
come seguire una dieta equilibrata e fare esercizio fisico), per evitare possibili stati di dissonanza
derivati dall’aver compiuto grandi sforzi senza aver ottenuto il risultato desiderato.
3. DISSONANZA POST-DECISIONALE

4.2.3. Cambiare gli atteggiamenti controllati attraverso la persuasione


La dissonanza cognitiva può indurre un cambiamento di atteggiamento agendo sul bisogno di
coerenza cognitiva che guida i processi di pensiero controllati. Le persone riscontrano un’incoerenza
tra i propri comportamenti e atteggiamenti e finiscono con il modificare questi ultimi.
Nella persuasione, invece, una fonte intende modificare gli atteggiamenti di un destinatario
(individuo o gruppo) attraverso un messaggio o una comunicazione.
Ricordiamo che per elaborare le informazioni le persone hanno a disposizione due tipi di processi di
pensiero: un processo controllato, consapevole e razionale e un processo automatico o
inconsapevole. Quest’ultimo è più veloce del percorso controllato e non richiede l’utilizzo di risorse
cognitive, ma non elabora le informazioni in modo sistematico, bensì utilizza euristiche di pensiero.
Entrambi gli approcci stabiliscono che:

• in condizioni di bassa elaborazione cognitiva ⇒ atteggiamenti influenzati non tanto da


contenuto/qualità delle argomentazioni, quanto da indici periferici (percorso periferico o
euristico di elaborazione);

• in condizioni di alta elaborazione cognitiva ⇒ atteggiamenti maggiormente influenzati dalla


qualità delle argomentazioni (percorso centrale o sistematico): le argomentazioni forti
produrranno persuasione (e quindi, cambiamento dell’atteggiamento), le argomentazioni
deboli al contrario non modificheranno gli atteggiamenti.
Ma quali sono gli indici periferici (o euristici) che utilizziamo in condizioni di scarsa elaborazione del
messaggio? La ricerca empirica ne ha identificati diversi. Se la fonte è attraente, simile a noi o
percepita come credibile è più probabile che abbia successo nel persuaderci. Anche il numero di
argomentazioni contenute in un messaggio può influenzare l’esito del processo di
elaborazione euristica.
Condizioni che spingeranno i destinatari di un messaggio persuasivo a intraprendere il percorso
centrale (elaborazione sistematica) o il percorso periferico (elaborazione euristica).
1. Rilevanza personale del messaggio; più un messaggio è importante per noi, più è
probabile che esamineremo la qualità delle argomentazioni in esso contenute.

2. Dsponibilità di risorse cognitive: quando le risorse a nostra disposizione sono ridotte o


quando il messaggio è troppo complesso o difficile per noi, è più probabile che
intraprenderemo il percorso periferico o elaborazione euristica.

3. Tempo a disposizione: quando un messaggio viene comunicato velocemente, vi è


meno possibilità di riflettere sulle argomentazioni in esso contenute.

4. Il nostro bagaglio di conoscenze o informazioni disponibili sull’argomento può


influenzare il tipo di elaborazione: se le informazioni che noi abbiamo circa
quell’argomento sono insufficienti o lacunose, allora è più probabile che elaboreremo
il messaggio attraverso il percorso periferico/euristico.

5. Variabili di differenza individuale, come il bisogno di cognizione e il bisogno di


chiusura cognitiva.

Le persone con alto bisogno di cognizione tendono a intraprendere e apprezzare attività che
richiedono sforzo intellettuale e compiti cognitivamente complessi [Cacioppo e Petty 1982], e
potrebbero quindi essere più motivate a seguire il percorso centrale o elaborazione sistematica. Al
contrario, le persone con elevato bisogno di chiusura cognitiva preferiscono avere una risposta alle
loro domande o a un problema molto velocemente ed evitare di rimanere in uno stato di incertezza
[Kruglanski e Webster 1996], e per questo saranno poco inclini a intraprendere il percorso centrale o
l’elaborazione sistematica rispetto alle persone con livelli meno elevati di chiusura cognitiva.

La comunicazione persuasiva viene implementa in diversi ambiti, dalla comunicazione pubblicitaria


a quella politica. Un ambito di particolare rilievo è costituito dalle campagne informative volte a
promuovere comportamenti più salutari. In questo tipo di comunicazione persuasiva, talvolta
vengono adottati messaggi che mettono in risalto le conseguenze negative che possono derivare
dall’adottare alcuni comportamenti (ad esempio, fumare, bere alcolici, non praticare attività fisica). In
alcuni casi, questi messaggi possono essere appositamente costruiti per attivare un senso di
minaccia nei destinatari, con l’obiettivo di farli riflettere sulle conseguenze dei propri comportamenti.
Tuttavia, non sempre i messaggi minacciosi ottengono i risultati sperati. Nel quadro 5.1, viene
illustrato un esempio di ricerca che aiuta a comprendere perché i messaggi minacciosi possono non
essere efficaci per alcuni tipi di persone.
La ricerca [Liberman e Chaiken 1992] ha mostrato che la minaccia viene ritenuta meno credibile
proprio dai destinatari per i quali è più rilevante. Questo sembra non dipendere tanto dal fatto che si
distoglie l’attenzione dal messaggio, quanto dal fatto che il messaggio viene elaborato in modo
distorto, al fine di proteggersi.
Capitolo 6
Il SÉ: autoregolazione, motivazione ed emozioni
OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO
• Definire il Sé come costrutto sociale e descriverne le funzioni
• Descrivere i meccanismi motivazionali del Sé e fornire esempi di risvolti applicativi
• Esaminare i principi e l’orientamento mindfulness-based come costrutto della psicologia del

• Delineare in che modo la relazione con gli altri è un mezzo per conoscerci

Le origini e le funzioni del Sé: William James e George Herbert Mead


I primi studi inerenti al concetto di Sé si devono a due studiosi vissuti: William James e George
Herbert Mead.

Secondo questi due autori il Sé riveste un duplice aspetto:

Il Sé come soggetto, Il Sé come oggetto,


che agisce e produce conoscenza che può essere conosciuto e controllato.

James [1890] con i suoi studi sul Sé consiste nel pone l’accento sugli aspetti affettivi di tale entità.
Sé = struttura fortemente mutevole, che conferisce all’uomo la capacità di usare simboli volti a
interpretare la realtà che lo circonda e tali simboli assumono significato per l’individuo proprio in virtù
del valore affettivo che egli vi attribuisce.
James rintraccia la chiave di volta della formazione della propria identità nell’identificazione emotiva
che la persona sviluppa con le sue qualità.
Ad esempio, quando una persona con spiccate doti relazionali inizia a sperimentare emozioni
piacevoli nel ricevere dei feedback positivi rispetto a tali doti, questa persona inizierà un processo di
identificazione emotiva verso queste qualità, che sarà volto a costruire la sua identità personale.
Come esito finale di questo processo, ne risulterà che l’identità sarà arricchita dalla consapevolezza
delle proprie qualità.
Il contributo di George Herbert Mead consiste nell’aver sviluppato una teoria in grado di: legare il
Sé all’interazione sociale, oltre che all’acquisizione delle capacità di usare simboli e quindi allo
sviluppo del linguaggio.
Mead affermava che il gioco assume un ruolo fondamentale nello sviluppo del Sé

Attraverso di esso il bambino inizia ad assumere la


prospettiva dell’altro e questo gli permette di vedere sé
stesso dal punto di vista altrui.

Ultima tappa dello sviluppo del Sé = quando il bambino inizia ad accedere a giochi che includono
regole, ha la possibilità di sviluppare una prospettiva che Mead chiama «altro generalizzato», che
gli permette di vedere sé stesso come individuo calato in un tessuto sociale, con una moltitudine di
attori di cui lui stesso fa parte.
1.2. Il lavoro del Sé
Il Sé ⇒ concetto piuttosto difficile da definire.
⇒complicato anche identificare un’area nel cervello dove poterlo collocare.
Meglio evitare di identificarlo in un’area cerebrale specifica ma piuttosto considerarlo come un
sistema di gestione delle varie funzioni mentali, una sovrastruttura che orchestra e orienta il
nostro agire.
La moderna concettualizzazione del cervello come organo altamente integrato e dinamico ha
influenzato i ricercatori a considerare

Sé = risultato dell’integrazione dell’attività dinamica di grandi network neurali piuttosto che il


risultato dell’attivazione di singole strutture cerebrali.

Recentemente è stato identificato uno specifico network cerebrale che è coinvolto in diversi aspetti
associati al Sé.
In tale network due aree cerebrali principali svolgono un ruolo determinate nei processi
autoreferenziali: corteccia prefrontale anteriore mediale
corteccia cingolata posteriore

Per dare una prima idea pragmatica di ciò che è il nostro Sé, pensiamo alla nostra consapevolezza
su cosa è nostro e cosa non lo è. Ci permette di definire importanti categorie (ad esempio
mio vs. suo), per orientarci attraverso il mondo, permettendoci di prendere decisioni e di mettere in
atto determinanti comportamenti.
Possiamo avere una conoscenza migliore del Sè attraverso la comprensione di ciò che esso fa. Le
funzioni principali del Sé possono essere individuate attraverso tre aree:
In ciascuna fase del ciclo di vita, le funzioni del Sé appena descritte influenzeranno il nostro modo di
rapportarci ai cambiamenti nella relazione con sé stessi e con gli altri. Le funzioni del Sé
acquisiscono particolare rilievo nel nostro processo di invecchiamento, quando a partire da una
certa età il successo o il fallimento nel fronteggiare gli eventi dipenderebbe essenzialmente dalla
capacità personale di ridefinizione di sé (vedi quadro 6.2).
2. I meccanismi motivazionali del Sé
2.1. Autoefficacia percepita: fattore adattivo e di promozione del Sé
Il concetto di agenticità del Sé trova piena espressione nella teoria motivazionale che Albert
Bandura postulò sotto l’etichetta di autoefficacia percepita.
Introduce il concetto di mente proattiva= la mente umana è capace di esercitare ed
estendere il proprio controllo oltre che su sé stessa anche sull’ambiente circostante.
Tale concettualizzazione, per la prima volta, inizia a lasciar intravedere la mente non solo come un
apparato reattivo agli stimoli ambientali ma, piuttosto, come un apparato proattivo, cioè capace di
produrre cambiamento (vedi fig. 6.1).

FIG. 6.1. Modello sociocognitivo della reciprocità triadica di Bandura.

Questo quadro teorico trae spunto dall’idea secondo cui:


Comportamento è frutto dell’interazione tra fattori di personalità e ambientali e si potrebbe dire che
nel sentimento di autoefficacia il Sé è pienamente consapevole di tale interazione.
Questa consapevolezza sviluppa l’agenticità del Sé, poiché gli permette di armonizzare al meglio le
proprie abilità in funzione del contesto nel quale si trova ad agire.
Tutto questo porta a considerare l’individuo La consapevolezza del Sé = mezzo attraverso cui
come “agente del proprio destino” e ⇾ poter esprimere le proprie potenzialità, soddisfare i
propri bisogni e tendere verso l’autorealizzazione
personale.

Costrutto dell’autoefficacia percepita: sentimento di cui gli individui fanno esperienza quando
acquisiscono consapevolezza di «potercela fare» e cioè che sono all’altezza di una situazione
specifica.
Esso rappresenta un modo di porsi con la realtà, in cui il Sé è rappresentato come agente in grado
di «poter riuscire…, poter fare…», che deriva dall’esperienza e attraverso di essa può essere
rafforzato.

Un valore aggiunto di questo costrutto consta nel fatto che l’autoefficacia può essere rafforzata con
l’esperienza e migliorata attraverso dei feedback volti a incrementare quel senso di efficacia che
l’individuo può sperimentare nel padroneggiare le situazioni in cui si trova.
Un esempio attuale di autoefficacia nell’era digitale può essere quello delle App che ci danno costantemente un riscontro
su quanto camminiamo quotidianamente. Il rendersi conto di potercela fare a raggiungere 10.000 passi al giorno è esso
stesso un incentivo a raggiungere sempre più spesso tale obiettivo.

Infine, l’autoefficacia percepita è un costrutto dipendente dal dominio in cui si esplica, ossia è
focalizzata su una determinata situazione in cui l’individuo fa esperienza della sua possibilità di
«potercela fare», quindi di conseguenza di padroneggiare tale situazione specifica (ad esempio, una
determinata attività fisica). Il raggiungimento degli obiettivi preposti e l’emozione piacevole scaturente
dall’aver ottenuto un esito positivo, rafforzano il senso di autoefficacia e ne permettono la potenziale
estensione ad altri domini affini, in cui l’individuo vede l’applicabilità di ciò che ha precedentemente
appreso.
Tuttavia, solo la consapevolezza, che scaturisce da una buona conoscenza di sé, può consentire
tale trasferibilità rafforzando il senso di autoefficacia personale.
Spesso questa passa anche attraverso il confronto con gli altri. Infatti, sperimentare di aver
successo dove altri non riescono, supporta la propria autoefficacia percepita. Per chi ha un buon
senso di autoefficacia, non riuscire dove altri riescono diventa occasione per stimolare la propria
motivazione al successo. Al contrario, per chi ha una bassa autoefficacia potrebbe essere
demotivante vedere qualcuno che riesce dove egli fallisce e da qui ne scaturisce la necessità di
instillare il sentimento di efficacia percepita sin dall’infanzia attraverso interventi psicologici
progettati ad hoc.
Nel prossimo paragrafo vedremo come il Sé tende alla propria autoregolazione attraverso dei
meccanismi che spingono la sua condotta verso il raggiungimento di specifici obiettivi, oppure
tendono all’evitamento di potenziali fallimenti.
2.2. Discrepanze del Sé, teoria dei foci regolatori e fit regolatorio
Teoria sulle discrepanze del Sé Higgins
Il Sé è strutturato in tre diversi schemi:
• SÉ REALE = riferito a come realmente siamo
• SÉ IDEALE = riferito a ciò che vorremmo essere
• SÉ NORMATIVO = relativo a come pensiamo che dovremmo essere

Teoria dei foci regolatori


Il Sé può dar luogo alle proprie funzioni attraverso 2 modi differenti di approccio agli stati finali
desiderati:
1. un sistema di promozione che fa riferimento al Sé ideale

2. un sistema di prevenzione che fa riferimento al Sé normativo

FOCUS DI FOCUS DI
PROMOZIONE PREVENZIONE
•Massimizzare gli esiti •Minimizzare gli esiti
positivi; negativi;
•Speranza e conquista; •Responsabilità e
•Paura di perdere doveri;
opportunità (errore di •Paura di commettere
omissione). errori (errore di
commissione)

Tali sistemi rappresentano degli orientamenti abituali che le persone sviluppano sin dall’infanzia
nell’esperienza di accudimento con i genitori.
Un focus di promozione ⇒ approccio educativo in cui l’affetto non è utilizzato come mezzo
per disincentivare condotte sbagliate
Un focus di prevenzione⇒ bambini continuamente incoraggiati a stare attenti ai pericoli e
l’affetto nei loro confronti veniva usato come un mezzo per disciplinarli.
Gli studi sul focus regolatorio gettarono luce sulla comprensione di un altro sistema di regolazione
del Sé, denominato da Higgins:
fit regolatorio = principio secondo cui le situazioni nelle quali l’orientamento abituale della persona
(promozione vs. prevenzione) dà luogo a delle performance migliori, se il compito viene prospettato
in termini di promozione oppure prevenzione coerenti con il proprio orientamento abituale.
Ad esempio, Shah, Higgins e Friedman [1998] trovarono che persone con un focus di promozione
risolvevano più facilmente anagrammi se questi venivano presentati col colore verde per
guadagnare punti (condizione di ambizione), rispetto a quando venivano presentati con il rosso per
evitare di perdere punti (condizione di vigilanza). Tale tendenza si invertiva nelle persone con un
focus di prevenzione.
Da qui l’idea che il Sé esplichi al meglio le proprie funzioni quando l’orientamento cronico abituale è
in linea con le caratteristiche del compito (condizione di fit regolatorio); mentre tali funzioni risultano
inficiate quando vi è un disallineamento fra queste istanze, creando così una condizione
definita misfit.

2.3. Mindfulness: attenzione, autoconsapevolezza e prospettiva non-giudicante


La mindfulness è una strategia di regolazione emotiva, intesa come un costrutto psicologico volto
a favorire la comprensione del comportamento intra e interpersonale.
[Jon Kabat-Zinn] La mindfulness significa prestare attenzione: (a) con INTENZIONE, (b) al
MOMENTO PRESENTE (c) in modo NON GIUDICANTE.
⇒ È un modo di coltivare una piena consapevolezza dell’esperienza nel qui e ora piuttosto che nel là
e allora, caratterizzanti le dimensioni del futuro e del passato.
Uno stato transitorio di mindfulness può essere raggiunto attraverso specifici training e pratiche di
meditazione volte a incrementare l’attenzione e conseguentemente la consapevolezza sui propri
processi mentali, considerati come precursori dell’azione. Tale approccio meditativo plasma i modelli
attraverso i quali ciascun individuo elabora le informazioni e interpreta l’espressione fenomenologica
della realtà.
James sosteneva che la mente non rappresenta un mero «oggetto» ma piuttosto un «processo» con
degli attributi quali:
a) l’«essere personale», in quanto ogni pensiero appartiene a un individuo specifico,
b) l’«essere mutevole», in quanto nessuno stato si ripete allo stesso modo,
c) la «continuità», intesa come scorrevolezza nel flusso di pensiero
d) la «selettività» rispetto agli oggetti su cui la mente è principalmente focalizzata.
Appare evidente che l’attenzione volontaria suscitata attraverso pratiche meditative, come
la mindfulness, rappresenta uno strumento rilevante in grado di mantenere alcuni contenuti mentali
all’interno della sfera della coscienza. Questo processo attentivo volto a trattenere ma soprattutto a
osservare alcuni stati mentali come se fossero guardati da un osservatore esterno, permette di
incrementare la consapevolezza dei nostri processi mentali e di conseguenza, aumentare la propria
consapevolezza del Sé.
L’autosservazione e la presenza mentale, caratterizzanti la pratica meditativa mindfulness, sono
strumenti necessari a interrompere gli automatismi tipici della nostra vita quotidiana, in cui
continuamente ci perdiamo in fantasie, ricordi e progettualità futura nell’affannoso tentativo di
eludere il presente, rischiando così di non riuscire a vivere il momento.
L’autosservazione, in quanto proprietà della consapevolezza, porta alla capacità di vedere contenuti
e processi mentali da una determinata distanza. Tale distanza serve ad assumere
un atteggiamento equanime nei confronti di tali contenuti mentali permettendo all’individuo di «non
reagire» a ciò che vede ma, piuttosto, di esserne semplicemente consapevole. Solo una volta giunti
al di sopra della soglia di coscienza, il Sé potrà tenerne conto nello svolgimento delle proprie
funzioni. In questo atteggiamento equanime si gioca un’ulteriore caratteristica della mindfulness e
cioè la «prospettiva non-giudicante».
Scopo della «prospettiva non-giudicante» ⇒ poter osservare i propri processi mentali senza avere la
necessità di sopprimerli, risparmiando un ingente impegno di risorse cognitive e, soprattutto, nella
capacità di accettarli arricchendone l’esperienza fenomenica del mondo esteriore. La
consapevolezza che un determinato processo oppure contenuto mentale, sebbene intriso di
affettività negativa, possa essere accolto senza distruggerci, permette all’individuo di accettare
l’ineluttabilità di alcuni eventi, come la separazione e il lutto, nei confronti dei quali si esprime tutta la
limitatezza della sfera di azione umana.
3. Le emozioni coscienti del Sé
3.1. Emozioni di autovalutazione e confronto sociale
Le emozioni coscienti del Sé sono quelle emozioni che permettendoci di essere consapevoli di noi
stessi e del modo in cui ci confrontiamo e relazioniamo con gli altri, guidano il nostro sistema di
regolazione del sé.
Questo avviene attraverso un sistema di feedback che queste emozioni veicolano quando ci
relazioniamo con le altre persone.
Ad esempio, un bambino sentendosi in colpa nel vedere un compagno piangere perché non gli ha ceduto
parte della sua merenda, inizia a fare esperienza dell’importanza dell’altruismo. L’emozione associata a
questo evento rende saliente l’esperienza, fissandola nella memoria, e tale esperienza dovrebbe regolare la
condotta, supportando un comportamento altruistico in futuro.

Tali emozioni, da una parte, incrementano la consapevolezza del Sé portando alla coscienza le
conseguenze delle nostre azioni e dall’altra, mettendo in evidenza il valore che attribuiamo a ciò che
abbiamo (gelosia) oppure vorremmo avere (invidia).
Quest’ultimo meccanismo è particolarmente sottile nella regolazione del Sé, poiché è proprio
attraverso il confronto sociale tra quello che abbiamo e quello che vorremmo avere che regoliamo
le nostre azioni volte a difendere oppure guadagnare qualcosa. Sulla base di queste caratteristiche
possiamo identificare due macrocategorie che racchiudono tali emozioni:
• La prima categoria è riferita alle emozioni di autovalutazione
come colpa, rammarico, vergogna, imbarazzo, arroganza e orgoglio

• la seconda categoria è riferita a quelle emozioni tipiche del confronto sociale, come
l’invidia e la gelosia.
Le emozioni coscienti del Sé sono anche definite «cognition dependent», ossia si basano su delle
abilità cognitive che emergono all’incirca dopo i due anni di vita e ne permettono la piena
espressione solo dopo questa fase dello sviluppo.
Dal punto di vista sociale queste emozioni si evolvono attraverso le relazioni con gli altri e ne
regolano a loro volta la gestione delle relazioni interpersonali.
Una funzione delle emozioni coscienti del Sé può essere identificata proprio nel loro scopo di creare
e nutrire legami sociali e acquisire uno status sociale.

Dallo sviluppo del concetto di Sé emergono due altri traguardi cognitivi:


• l’autovalutazione
• il confronto sociale
L’autovalutazione si sviluppa dopo i due anni di età e in tale fase gli individui hanno la possibilità di
giudicare sé stessi attraverso il confronto con le norme e standard insegnati dai genitori e apprese
dalla società. È quindi attraverso le emozioni (orgoglio oppure colpa) attribuite ai loro comportamenti
che i bambini iniziano a capire cosa è giusto oppure sbagliato. Durante l’adolescenza, i ragazzi
valutano dimensioni come, ad esempio, la loro attrattiva, intelligenza, ricchezza e per fare ciò
utilizzano dei processi di confronto sociale che per l’appunto possono dar luogo a emozioni come
l’invidia per qualcosa che non si ha ma si desidera avere (ad esempio, la ricchezza) e la gelosia per
qualcosa che sia ha e si teme di perdere a causa di una terza persona (ad esempio, l’amore).

A differenza dell’invidia, la
gelosia coinvolge tre «attori»

Un’emozione di confronto sociale speculare all’invidia e attualmente studiata dalla psicologia


sociale è la SCHADENFREUDE, termine tedesco che indica un sentimento di piacere che si esperisce
quando si assiste a insuccessi altrui, soprattutto quando questi occupano posizioni di status sociale
più alto rispetto al nostro.
4. Il Sé attraverso Noi
4.1. Perché guardiamo gli altri? Intuizioni della teoria del confronto sociale
Come la funzione di autoconoscenza del Sé si interseca con il confronto interpersonale per regolare
la nostra condotta?
Gli esseri umani riescono ad autovalutarsi e trarre fonte di ispirazione per nuovi obiettivi proprio
attraverso il confronto con i loro simili. Tale confronto può dar luogo a sentimenti con una valenza
positiva oppure negativa ed è proprio nel tentativo di ripristinare oppure mantenere un umore
positivo, che si gioca la «partita» descritta in questo paragrafo.
Sembrerebbe paradossale ma noi riusciamo a valutare le nostre performance, quasi
esclusivamente, attraverso il confronto sociale.
Gli altri rappresentano il nostro standard di riferimento e tale confronto è il metro che noi utilizziamo
per capire quanto distanti siamo dai nostri obiettivi e conseguentemente regoliamo la nostra
condotta in funzione di tale distanza.
Leon Festinger è stato uno dei primi psicologi sociali a interrogarsi su questo fenomeno e intuire che
esso rappresenta un mezzo per supportare la nostra autostima, oltre che per migliorarsi e avere una
conoscenza più accurata di Sé.
Teoria del confronto sociale

Riassumendo: confronto sociale tre funzioni:


a) autovalutazione volta ad approfondire la conoscenza di Sé,
b) autopotenziamento volto a motivare le azioni di miglioramento del proprio Sé
c) autoprotezione, volta ad accettare i limiti e supportare la nostra autostima.
Quest’ultima funzione risulta particolarmente rilevante perché, come vedremo più ampiamente
nel capitolo 10, regola anche la nostra identità sociale derivante dall’appartenenza a gruppi sociali
per noi significativi.
Capitolo 7
L’aggressività
OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO
• Definire il costrutto di aggressività
• Individuare gli antecedenti individuali dell’aggressività
• Individuare gli antecedenti situazionali e sociali dell’aggressività
• Apprendere le principali teorie sociali sull’aggressività
• Approfondire gli effetti dei media sul comportamento aggressivo

1. Che cos’è l’aggressività?


1.1. La definizione di aggressività
Dove affondando le radici dell’aggressività?
Nel pensiero classico, all’aggressività veniva attribuita una valenza positiva, era sinonimo di
coraggio in battaglia. Nelle concettualizzazioni medievali, l’aggressività veniva associata all’ira.
Durante il periodo illuminista, il filosofo Thomas Hobbes suggeriva che nuocere al prossimo
rappresentasse una peculiarità intrinseca dell’essere umano, riassunta nella famosa
espressione homo homini lupus.
In psicologia sociale aggressività umana = qualunque comportamento intenzionalmente rivolto
verso un altro individuo con l’obiettivo di provocare dolore fisico o psicologico.
 L’atto aggressivo comporta INTENZIONALITÀ
 Il perpetratore è CONSAPEVOLE che la propria condotta nuocerà alla vittima

Pur essendo intenzionale, un comportamento aggressivo non implica che l’intenzione sia sempre
uguale. Infatti, in letteratura si distingue fra: Aggressività ostile
Aggressività strumentale

Aggressività ≠ Violenza, NON sono sinonimi.


L’aggressività umana è un qualunque comportamento intenzionalmente rivolto verso un altro
individuo con l’obiettivo di provocare dolore fisico o psicologico.
La violenza è una forma di aggressività che ha come obiettivo quello di provocare un dolore
estremo alla vittima.
Tutte le forme di violenza sono aggressive ma non tutte le forme di aggressività sono violente
[Anderson e Bushman, 2002].
Le teorie che cercano di spiegare il comportamento aggressivo possono essere distinte in:
1.2. Le teorie evoluzionistiche e biologiche
Secondo un orientamento evoluzionistico, le persone sono geneticamente predisposte a essere
aggressive.
Questa impostazione nasce dalle ricerche di Konrad Lorenz, padre della moderna etologia,
disciplina che studia le componenti innate del comportamento delle varie specie animali. In
quest’ottica, le condotte aggressive consentirebbero la sopravvivenza genetica: i maschi
combattono fra di loro per assicurarsi la possibilità di accoppiarsi e trasmettere alla prossima
generazione il proprio corredo genetico, oppure cacciano le prede per garantire la sopravvivenza
della prole.
Pertanto, i comportamenti aggressivi sono funzionali alla sopravvivenza individuale ed al
mantenimento della specie.
Nel corso degli ultimi decenni l’approccio evoluzionistico è stato però messo in discussione per
diverse ragioni; a differenza degli animali, infatti, gli esseri umani hanno a disposizione una varietà
molto ampia di risposte alla minaccia oltre all’aggressività. Ad esempio, è possibile rispondere a una
minaccia attraverso il dialogo.
A questo proposito, il contesto sociale e le influenze culturali diventano dimensioni cruciali per
comprendere fino in fondo i meccanismi che innescano – o che prevengono – i comportamenti
aggressivi.
2.1. Gli antecedenti individuali: i tratti di personalità e le differenze individuali
I tratti di personalità= tutte quelle caratteristiche che definiscono la nostra persona e che difficilmente
variano nel tempo, influenzano in modo stabile i comportamenti aggressivi.
Tra le cornici teoriche che cercano di descrivere le differenti personalità, quella maggiormente in
grado di spiegare la variabilità individuale è sicuramente il Big Five personality model.
Secondo questo modello, vi sono cinque grandi dimensioni che permettono di descrivere le diversità
tra gli individui:
1. Estroversione, ovvero la tendenza alla socialità,
2. Amicalità, riferita alla quantità e alla qualità delle relazioni interpersonali positive intraprese,
3. Coscienziosità, che rappresenta l’autodisciplina e la scrupolosità,
4. Nevroticismo, ovvero la tendenza a essere emotivamente instabili e insicuri e
5. Apertura alle esperienze, che descrive la disposizione a ricercare stimoli culturali e
intellettuali esterni al proprio contesto abituale.

Fra questi cinque tratti, il predittore più efficace del comportamento aggressivo è l’amicalità
In psicologia sociale l'amicalità, definita anche gradevolezza, è uno dei tratti fondamentali della
personalità secondo il modello teorico dei Big Five. Tale tratto riflette le differenze individuali in
dimensioni come la cooperazione con gli altri e l'armonia sociale, e si manifesta con caratteristiche
comportamentali individuali come gentilezza, simpatia, collaboratività, cordialità e premurosità.
Le persone che ottengono un punteggio elevato in questa dimensione sono empatiche e altruiste,
mentre un punteggio basso di amicalitàsi traduce in comportamenti egoistici e mancanza di empatia.
Coloro che ottengono un punteggio molto basso in questa dimensione mostrano segni di
comportamento riferibili alla cosiddetta triade oscura, come la manipolazione e la competitività.

Anche la coscienziosità tende a essere negativamente correlata all’aggressività.


Il nevroticismo è invece positivamente correlato al comportamento aggressivo.
La relazione fra l’estroversione e l’aggressività è ancora poco chiara,
mentre l’apertura alle esperienze sembra non influenzare in alcun modo il comportamento
aggressivo.
L’autostima e il narcisimo in relazione all’aggressività
Vi sono prove di come l’autostima possa influenzare l’aggressività.
Tradizionalmente si riteneva che bassi livelli di autostima rappresentassero uno dei fattori individuali
maggiormente associati ai comportamenti aggressivi. Tuttavia, una revisione interdisciplinare che ha
considerato studi nell’ambito del comportamento aggressivo, della criminalità e della violenza, ha
contraddetto questa visione, suggerendo al contrario che siano proprio gli individui con alti livelli di
autostima a porre in atto più frequentemente comportamenti aggressivi [Baumeister, Smart e
Boden].
Secondo tale visione, le persone con alta autostima tendono con maggior probabilità a non sentirsi
in colpa quando si comportano in modo aggressivo verso un’altra persona; inoltre, esternazioni
aggressive sembrano essere la loro risposta più comune nel momento in cui il senso di superiorità
viene minacciato, contraddetto o messo in discussione. Allo stesso tempo, è sbagliato vedere il
comportamento aggressivo delle persone con alta autostima come il risultato della sola minaccia
all’elevata considerazione che hanno di loro stessi.
Infatti, i ricercatori hanno iniziato a considerare l’autostima come una categoria eterogenea di tratti
piuttosto che un costrutto monolitico, sottoponendo ad analisi anche altre dimensioni a essa
riconducibili, come il narcisismo.
Tratto di personalità generalmente definito come la tendenza a considerare sé stessi, le proprie
qualità fisiche e intellettuali, come oggetti degni di un atteggiamento di compiaciuta ammirazione;
esso può portare a manie di grandezza e a una scarsa capacità di provare empatia verso gli altri
[Bushman e Baumeister].
Le ricerche condotte negli ultimi vent’anni mostrano che il narcisismo è associato all’aggressività e
alla violenza, soprattutto quando il narcisista incontra qualcuno che mette in discussione la visione
che egli ha di sé stesso.
Le differenze di genere in relazione all’aggressività
Per lungo tempo si è ritenuto che i maschi fossero più aggressivi delle femmine e che questa
circostanza fosse riconducibile ai diversi livelli di testosterone che caratterizzano i due sessi.
Tuttavia, alcuni decenni fa, questa concezione è stata messa in discussione, soprattutto quando si è
iniziato a esplorare l’aggressività nelle sue diverse forme.
Diversi autori hanno infatti identificato tre diversi stili di comportamento aggressivo:
• l’aggressività fisica
• l’aggressività indiretta
• l’aggressività verbale
L’aggressività indiretta = l’intenzione di danneggiare psicologicamente e/o socialmente la vittima,
spesso attaccandola in modo sottile, attraverso pettegolezzi maligni o escludendola dalle relazioni
sociali all’interno del gruppo di appartenenza.
Gli uomini ricorrano più frequentemente all’aggressività di tipo fisico, mentre le donne a
quella indiretta. Non risultano invece sostanziali differenze di genere rispetto all’aggressività
verbale.
Una metanalisi recente ha parzialmente confermato tale assunzione: Card e colleghi [2008] hanno
passato in rassegna 148 studi sulle differenze di genere relative all’aggressività in bambini e
adolescenti trovando una differenza marcata nei livelli di aggressività diretta fra i due sessi (i maschi
riportano maggiore aggressività fisica delle femmine) e una lieve differenza a favore delle ragazze
per quanto riguarda l’aggressività indiretta. Questi studi mettono in luce come la condotta
aggressiva vari rispetto al genere in termini di espressione, piuttosto che in termini di frequenza.
L’uso di sostanze stupefacenti e di alcolici
Le droghe con effetto stimolante (cocaina, crack, metanfetamine e marijuana sintetica) sono quelle
maggiormente associate a comportamenti aggressivi. Questi tipi di sostanze agiscono sul sistema
nervoso centrale provocando talvolta allucinazioni e paranoia che, riducendo l’attività dei
centri nervosi che controllano l’inibizione, possono portare a risposte aggressive.
Anche il consumo di alcool aumenta la probabilità di reazioni aggressive poiché riduce la capacità
degli individui di interpretare in modo appropriato gli stimoli provenienti dall’ambiente.
2.2. Gli antecedenti situazionali e sociali

La sopravvivenza in condizioni climatiche che variano durante l’anno abbia portato allo sviluppo di una
capacità di pianificazione a lungo termine delle risorse (ad esempio, pianificare anno per anno le semine e i
raccolti) e a una maggiore capacità di autocontrollo (ad esempio, mantenere ogni anno una parte del raccolto
come scorta). Di conseguenza, nel corso di molte generazioni, questa necessità potrebbe aver portato a un
adattamento culturale, favorendo determinate culture a concentrarsi maggiormente sul futuro piuttosto che sul
presente.

2.2.2. Disinibizione e deindividuazione


Capita talvolta di assistere a manifestazioni aggressive da parte di persone che in altri contesti
agirebbero in maniera diversa.

Disinibizione = comportamenti impulsivi, frutto di una disattivazione delle abituali norme sociali e
del venir meno delle forme di controllo apprese che solitamente regolano la vita sociale di una
comunità.

Una delle prime teorie che ha cercato di comprendere quali fossero i meccanismi della disinibizione
è la teoria del comportamento sociale di Gustave Le Bon, che coniò il concetto di deindividuazione.
Secondo Le Bon, gli individui di un gruppo coeso, costituente una folla, tendono a perdere l’identità
personale, la consapevolezza, il senso di responsabilità, alimentando in questo modo la comparsa
di comportamenti antisociali. In sostanza, quando un individuo si trova in mezzo a una folla, tende a
non sentirsi più come un individuo, quanto un membro del gruppo, ritenendosi «uno dei tanti» e
sentendosi relativamente protetto dal senso dell’anonimato.
Tale assunzione però è stata messa in discussione dal social identity model of deindividuation
effects (SIDE model) [Reicher, Spears e Postmes 1995].
Secondo gli autori la deindividuazione non trae origine dalla perdita del controllo di sé, bensì da un
processo di rafforzamento del senso di appartenenza dell’individuo al proprio gruppo, attraverso il
quale il singolo rafforza la percezione di sé non come individuo ma come elemento integrante del
gruppo in cui si trova a far parte.
Il SIDE model enfatizza il contesto sociale in cui avviene l’interazione: in un contesto di gruppo,
quando gli individui pensano di agire in maniera anonima, è l’identità sociale saliente in quel preciso
contesto che guiderà il comportamento del singolo, che agirà seguendo le norme del gruppo.
Pertanto, ripensando a una folla, se l’identità sociale del gruppo è particolarmente saliente e il
gruppo è disposto ad agire in maniera violenta, è probabile che il singolo individuo agisca
aggressivamente in funzione di questa appartenenza piuttosto che sulla base di credenze e valori
individuali.
Invece, se l’identità sociale del gruppo non è saliente o le norme del gruppo non legittimano
comportamenti aggressivi, la persona, anche se deindividuata, non metterà in atto comportamenti
aggressivi.
L’esperimento del carcere di Stanford, deindividuazione e violenza
Partendo dalle prime osservazioni sulla deindividuazione, Philip Zimbardo e colleghi cercarono di
capire se: i comportamenti aggressivi che si manifestano in relazione alla deindividuazione fossero
dovuti a specifiche caratteristiche di personalità o se fossero invece derivanti dalla situazione
specifica dell’agire in gruppo.

L’esperimento di Zimbardo ha avuto esiti drammatici; va sottolineato come siano state sollevate
critiche sia sulle controverse procedure sperimentali impiegate sia sull’eticità stessa
dell’esperimento.
Lo scopo degli autori era riprodurre il contesto di una realtà carceraria, altamente influenzato
dall’elevato livello di brutalità e depersonalizzazione indotta dalla ricostruzione. Pertanto, i risultati
riportati non possono essere generalizzati ad altre situazioni. Infine, va sottolineato che il
reclutamento dei partecipanti era avvenuto attraverso un annuncio che proponeva di partecipare a
uno studio psicologico sulla vita carceraria, e questo potrebbe aver portato a una autoselezione dei
partecipanti.
Influenze culturali
L’aggressività è un comportamento che viene influenzato anche dagli aspetti culturali.
Alcuni studi etnografici suggeriscono che gli ambienti culturali esercitano una grande influenza
sull’espressione del comportamento aggressivo umano.
Le società con bassi livelli di crimini violenti⇒ sono quelle che adottano norme, istituzioni e
meccanismi per affrontare i conflitti secondo principi non violenti. Tuttavia, le culture non sono
statiche e nel corso del tempo possono mutare, orientando gli individui verso norme legate o meno
all’aggressività.
Le cause sono molteplici, comprese le influenze provenienti da fonti quali i valori appresi, la
socializzazione, l’organizzazione sociale, l’economia e l’ecologia.
Un esempio della dinamicità delle culture è stato offerto da Nisbett e Cohen [1996], i quali si erano
dedicati allo studio delle differenze culturali relative all’aggressività negli Stati Uniti alla fine del
secolo scorso.
Questi studiosi si sono basati su alcuni dati statistici, che mostravano in modo piuttosto chiaro come
i tassi di crimini violenti erano molto più elevati negli stati del sud-ovest rispetto agli stati del nord.
I due ricercatori hanno interpretato le differenze fra nord e sud in termini culturali ed economici:

• Gli abitanti del sud-ovest discendevano principalmente dai primi coloni europei, dediti
principalmente all’allevamento di bestiame.
• I cittadini del nord invece erano tradizionalmente agricoltori.

I primi coloni delle zone del sud-ovest dovettero adattarsi al rischio di furto del bestiame e diedero
origine alla cosiddetta cultura dell’onore, che rappresenta un insieme di norme secondo le quali gli
individui si sentono in dovere di proteggere la propria reputazione rispondendo a insulti, affronti e
minacce spesso attraverso l’uso della violenza e stigmatizzano la non adesione alle stesse norme
da parte dei membri del proprio gruppo di appartenenza.

Lo sviluppo di queste norme e dei valori associati all’aggressività è stato riscontrato non solo negli Stati Uniti meridionali,
ma anche in diverse parti del Medio Oriente e nei quartieri delle città controllati da bande e associazioni criminali. Rispetto
al contesto italiano, è stata dimostrato lo sviluppo di una cultura dell’onore legato a comportamenti aggressivi all’interno
delle organizzazioni mafiose siciliane.

Se sicuramente la frequenza di crimini o atti aggressivi verso altri individui è influenzata dalle norme
sociali che caratterizzano una determinata cultura in quel momento storico, è importante
sottolineare come recenti indagini suggeriscano che, a livello mondiale, i crimini violenti sono in
diminuzione rispetto alla crescita della popolazione e rispetto a epoche storiche precedenti.
Secondo lo psicologo e linguista Steven Pinker, il tasso di omicidi sta diminuendo regolarmente nel
corso dei secoli e, in epoca moderna, è 50 volte meno probabile morire di morte violenta che
durante il Medioevo. Sistemi di gestione del potere democratici e una società maggiormente
strutturata hanno ridotto la violenza e, con la diminuzione del rischio di aggressioni, gli individui
hanno imparato a ridurre l’utilizzo dell’aggressività come risposta. Tuttavia, quello che emerge è che
sia l’aggressività violenta a essere diminuita sensibilmente nel corso dei secoli, mentre nuove forme
di aggressività (come l’aggressività online) sono emerse.
3. Teorie sociali dell’aggressività
1) TEORIA DELLA FRUSTRAZIONE-AGGRESSIVITÀ
In determinate situazioni, come in seguito a un insuccesso, può accadere che le persone assumano
comportamenti aggressivi. Partendo da tale osservazione, alla fine degli anni Trenta del secolo
scorso, Dollard e colleghi [1939] proposero l’ipotesi della frustrazione-aggressività.
Frustrazione= stato in cui un individuo si viene a trovare quando la soddisfazione dei suoi bisogni o
desideri viene ostacolata in maniera permanente o temporanea.
Tale ipotesi è importante perché è la prima che
prende le distanze dalle concezioni di
aggressività come fattore disposizionale.
MA…
Le frustrazioni non sempre portano alla messa in
atto di comportamenti aggressivi e alcuni
comportamenti aggressivi vengono messi in atto
senza che vi sia un precedente stato di
frustrazione.

2) TEORIA DEL SEGNALE-STIMOLO


Il modello neoassociazionista proposto da Berkowitz rappresenta un importante avanzamento
rispetto all’ipotesi della frustrazione-aggressività.
Secondo la teoria del segnale-stimolo, la frustrazione determina uno stato interno di attivazione
emotiva che crea le condizioni per agire aggressivamente, ma che non inevitabilmente si traduce in
comportamento aggressivo. A questo proposito Berkowitz, negli esperimenti sugli «indizi
aggressivi», rilevò come l’aumento dei livelli di aggressività era maggiore se nell’ambiente erano
presenti stimoli associati alla violenza.
Secondo Berkowitz, se nel campo visivo di una persona è presente un oggetto che richiama
aggressività, esso catturerà l’attenzione selettiva dell’osservatore che avrà non solo difficoltà a
ricordare altri dettagli ma sarà maggiormente predisposto all’uso della violenza.
L’effetto facilitatore che traduce uno stato interno di preparazione all’aggressività in effettivo
comportamento aggressivo è noto in letteratura come «effetto arma»
Possibili spiegazioni: vedere un’arma da fuoco può favorire l’accessibilità di pensieri e script
aggressivi a essa associati attraverso un processo di diffusione e attivazione. Una maggiore
accessibilità di pensieri ostili può facilitare il comportamento aggressivo.
3) TEORIA DEL TRASFERIMENTO DELL’ECCITAZIONE
Zillman elabora la teoria del trasferimento dell’eccitazione, che sostiene che l’eccitazione
psicologica ha un ruolo nell’interpretazione cognitiva delle condotte aggressive.
Secondo l’autore, l’eccitazione psicologica derivante da un’esperienza viene dissipata dalle persone
molto lentamente e un evento che ha attivato psicologicamente una persona può influenzarne il
comportamento in una situazione successiva, anche non collegata al primo evento. Questo
processo viene chiamato dislocazione dell’emozione.
In altre parole, se due eventi particolarmente rilevanti sono separati da un breve lasso di tempo,
l’eccitazione psicologica derivante dal primo evento può essere erroneamente attribuita al secondo.
Se il secondo evento coinvolge emozioni quali collera o rabbia, allora l’attivazione psicologica non
ancora dissipata del primo evento può trasferirsi all’interpretazione del secondo, rendendo le
persone ancora più inclini a reagire aggressivamente.
4) LA TEORIA DELL’APPRENDIMENTO SOCIALE
Il nostro comportamento viene fortemente influenzato dalla realtà sociale in cui viviamo. Osserviamo
e valutiamo continuamente il comportamento altrui per adeguarci a esso, ma anche per imparare
come comportarci. In questa prospettiva, anche l’aggressività può essere intesa come una
particolare forma di comportamento sociale, che viene acquisita e mantenuta come qualsiasi altro
comportamento sociale.
Albert Bandura, uno dei primi studiosi ad occuparsi dell’apprendimento del comportamento rispetto
all’ambiente sociale circostante, elaborò la cosiddetta teoria dell’apprendimento sociale.
Tale teoria ha una forte matrice cognitiva e parte da una visione olistica delle abilità cognitive delle
persone in relazione alle influenze sociali, sottolineando che le aspettative proprie e altrui esercitano
un’influenza molto forte sui comportamenti, sulla valutazione di effetti e risultati e sui processi di
apprendimento del comportamento.
La teoria di Bandura suggerisce che se i comportamenti venissero appresi soltanto attraverso
l’esperienza diretta, il loro apprendimento sarebbe un processo molto lungo e soprattutto limitato ai
soli contesti entro i quali l’individuo ha avuto esperienze. Secondo Bandura, proprio per queste
ragioni, la maggior parte dei comportamenti umani vengono appresi «indirettamente», osservando il
comportamento di altri in contesti differenti.
Ad esempio, se un fratello minore osserva un fratello maggiore che viene ricompensato per un
particolare comportamento, è più probabile che anche egli imparerà a comportarsi secondo il
modello comportamentale offerto dal fratello maggiore.
Ne consegue che ciò che gli individui apprendono per osservazione può servire da guida per le
azioni future in situazioni simili a quelle osservate.

Il comportamento aggressivo dei bambini può essere modellato, cioè appreso per imitazione.
5) LA TEORIA DEGLI SCRIPT
Huesmann, similmente alla teoria dell’apprendimento sociale, sostiene che l’osservazione del
comportamento violento porti l’individuo ad assimilare degli script comportamentali aggressivi.
Secondo la teoria degli script, gli script sono intesi come una sorta di «copione» che viene appreso
e seguito per semplificare e interpretare comportamenti e situazioni sociali complessi che si ripetono
con frequenza. Essi sono fondamentali nella fase dello sviluppo poiché permettono la formazione di
aspettative e di capire il corso degli eventi, semplificando la lettura della realtà sociale.
Una volta che lo script è assimilato, può essere richiamato e utilizzato per guidare il
comportamento in situazioni successive.
Il ricorso costante a determinati script crea collegamenti aggiuntivi con altri concetti collegati in
memoria e il richiamo frequente rafforza i legami che questi hanno in memoria con i concetti
che li attivano.
Rispetto al comportamento aggressivo, quando un bambino associa costantemente l’immagine di
una pistola come strumento di risoluzione di un conflitto fra due individui, così come proposto
spesso da serie televisive e videogiochi, è molto probabile che renderà
questo script comportamentale più saliente e lo generalizzerà anche ad altri contesti.
La teoria degli script è particolarmente rilevante nello spiegare come i comportamenti aggressivi
vengono appresi producendo risposte comportamentali automatiche.
La teoria dell’apprendimento sociale e la successiva teoria degli script sono attualmente
considerate fra le teorie più rilevanti nel panorama della psicologia sociale, capace di offrire una
spiegazione di come abbia origine il comportamento aggressivo, soprattutto quando si parla di
mass media. È infatti attraverso i media che siamo in grado di apprendere molte risposte
comportamentali in situazioni di cui non abbiamo avuto esperienza diretta.
6) IL GENERAL AGRESSION MODEL

4. I media e l’aggressività
Spesso non ci rendiamo conto di quanto i media influenzino il nostro modo di pensare e di agire.
Viviamo infatti in un’era in cui i mezzi di comunicazione sono ai massimi storici di pervasività.
Esiste quindi una relazione fra l’apprendimento della violenza attraverso i media e il comportamento
aggressivo?
I ricercatori che si occupano degli effetti dei media sono ormai concordi nel sostenere che
l’esposizione alla violenza televisiva promuova atteggiamenti favorevoli rispetto ai comportamenti
aggressivi nella vita reale [Krahe et al. 2011].
A questo proposito, Bandura suggerisce che la violenza veicolata attraverso la televisione (ma lo
stesso meccanismo avviene per qualunque canale mediatico) tenda a falsare la percezione che le
persone hanno del comportamento aggressivo attraverso il meccanismo
della desensibilizzazione alle scene violente: gli individui tendono cioè ad avere una ridotta
percezione delle conseguenze di un gesto aggressivo, ma anche una minore propensione ad agire
in favore di una vittima quando si verifica un’aggressione.
La ricerca sugli effetti dell’esposizione a lungo termine a contenuti televisivi violenti ha inoltre rivelato
che le persone possono sviluppare atteggiamenti e credenze relative alla realtà sociale
corrispondenti al mondo che viene presentato attraverso film e serie televisive.
Oltre alle conseguenze dell’esposizione a scene violente in televisione, diverse ricerche mostrano
che anche canzoni con testi dai contenuti violenti favoriscono pensieri ed emozioni collegate
all’aggressività. Secondo Anderson, Carnagey e Eubanks questo effetto è direttamente legato alla
violenza nei testi.
⇒ In cinque esperimenti i ricercatori hanno esaminato gli effetti di diverse tracce musicali sui
comportamenti delle persone, dimostrando che coloro che avevano ascoltato una canzone dai testi
violenti si mostravano più ostili rispetto a coloro ai quali erano state fatte ascoltare canzoni simili (in
termini di melodia, timbro vocale e arrangiamento), ma con testi non violenti.
Complessivamente, questi effetti sono facilmente interpretabili secondo la cornice teorica del GAM:
la visione di una serie televisiva dai contenuti violenti o l’ascolto di una canzone dai testi violenti
rappresentano dei fattori prossimali di tipo situazionale, che elicitano strutture di conoscenza
e script cognitivi legati all’aggressività. Questi, interagendo con i fattori di differenza individuale,
attivano uno stato interno rappresentato da emozioni, risposte cognitive e attivazione psicologica
che, a loro volta, possono portare alla nascita di pensieri e comportamenti aggressivi.
4.2. Videogiochi e aggressività
Tra i cosiddetti new media, i videogiochi sono quelli che hanno destato maggiori preoccupazioni fra
gli studiosi dell’aggressività.
Più del 75% dei videogiochi presenti sul mercato presenta infatti scene violente, comportamenti
aggressivi e condotte antisociali, oltre a offrire un’ampia varietà di armi con le quali uccidere non
solo i nemici, ma anche pedoni, donne e bambini.
Rispetto i media tradizionali, i videogiochi presentano delle caratteristiche che li rendono peculiari
rispetto all’aggressività:
(1) il comportamento violento viene premiato;
(2) il giocatore è parte attiva del gioco;
(3) il giocatore sperimenta nuove identità.
Questi aspetti hanno portato gli psicologi sociali che si occupano dell’influenza dei media a
interrogarsi sui possibili effetti derivanti dall’utilizzo dei videogiochi rispetto al comportamento.
Bushman e Anderson [2001] sostengono che l’esposizione ripetuta ai videogiochi violenti causa
una desensibilizzazione alla violenza che influenza le risposte cognitive e affettive dell’individuo
alterando le capacità di valutazione di atti violenti nel mondo reale attraverso:
• Minore percezione di gravità dell’atto violento;
• Minore empatia nei confronti della vittima;
• Diminuzione degli atteggiamenti di condanna della violenza;
• Maggiore propensione a giustificare la violenza come qualcosa di normativo.
Videogiochi violenti e immorali: gli effetti sui comportamenti disonesti

In linea con la teoria dell’apprendimento sociale, i videogame moderni sono in grado di influenzare
negativamente non solo l’aggressività, ma anche una varietà di comportamenti che possono
essere appresi attraverso la realtà ricreata nei videogiochi.

4.3. Social media e aggressività


Ogni giorno milioni di persone pubblicano i propri commenti attraverso i social media e spesso
questi commenti esprimono critiche e indignazione. In molti casi rappresentano vere e proprie
manifestazioni di aggressività verbale rivolte verso personaggi pubblici come politici o popstar e
variano da espressioni di disgusto e disprezzo fino a calunnie, insulti e odio.
Una delle motivazioni principali che porta alla nascita di manifestazione aggressive online può
essere attribuibile all’anonimato di cui si gode sulla rete. Questo aspetto può essere facilmente
interpretato considerando la teoria della deindividuazione; infatti, quando le persone lasciano
commenti su un sito web non sono fisicamente presenti e molte piattaforme online consentono agli
utenti di commentare senza rivelare informazioni personali.
Tuttavia, descrivere il comportamento aggressivo online considerando solo l’anonimato come
spiegazione sarebbe riduttivo, soprattutto nell’era dei social network. Secondo recenti studi, le
norme e l’influenza sociale esercitata da altri utenti online rappresentano una determinante dell’uso
aggressivo del linguaggio nella comunicazione online. Rösner e Krämer
Capitolo 11
La psicologia sociale nell’era digitale
OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO
• Conoscere i fattori che favoriscono l’uso della tecnologia
• Conoscere i fenomeni psicosociali associati alle tecnologie digitali
• Conoscere i modelli teorici che descrivono l’interazione tra esseri umani e tecnologia
• Comprendere come i temi classici della psicologia sociale trovino applicazione nel
mondo delle relazioni online

Nel corso del tempo, tecnologie quali internet, smartphone e social media sono cresciuti in termini
di diffusione e utilizzo a livello mondiale.
Il successo di queste tecnologie è da attribuire principalmente alle loro potenzialità virtualmente
infinite e al fatto che rispondono ai bisogni degli utenti in modo semplice, immediato, veloce e
indipendente dal contesto in cui l’individuo si trova.
A oggi, nel mondo si passano mediamente 7 ore al giorno
usando internet, metà delle quali utilizzando un dispositivo
mobile come lo smartphone, e più di 2 ore vengono
dedicate ai social network, quali Facebook e WhatsApp.
Questi dati impressionanti hanno catalizzato l’attenzione
della psicologia che si è domandata quali fossero i motivi
di un utilizzo così massiccio e quali le conseguenze
sull’individuo e sulla società.
ESPERIMENTO
Rispetto a queste ultime, Jean M. Twenge e colleghi [2018] hanno condotto un ampio studio in cui,
tra il 1991 e il 2016, hanno misurato il benessere psicologico di più di un milione di adolescenti
statunitensi.
Dopo il 2012 hanno visto un crollo sostanziale che non può essere attribuibile a un decremento dello
status socioeconomico. Secondo gli autori questo cambiamento è dovuto allo screen time

tempo che gli adolescenti trascorrono utilizzando


internet, smartphone, TV e videogiochi

Adolescenti più impegnati in attività che non coinvolgono l’uso della tecnologia hanno mostrato un
benessere psicologico più elevato.
Nonostante i dati raccolti non permettessero di stabilire nessi causali (vedi cap. 2) tra l’uso della
tecnologia e il benessere, questi risultati sembrano veicolare un messaggio allarmante: il mondo
digitale apporti più danni che benefici.
Per discriminare quanto i social network abbiano l’effettiva capacità di influenzare il benessere
psicologico, Hall e colleghi [2019] hanno condotto uno studio longitudinale della durata di un mese.
PROCEDURA: I ricercatori hanno suddiviso i partecipanti in cinque condizioni sperimentali. Nella
condizione di controllo ai partecipanti non veniva fatta alcuna richiesta, mentre nelle altre quattro
condizioni veniva chiesto loro di astenersi dall’utilizzo dei social network per una, due, tre o quattro
settimane.
L’utilizzo dei social network veniva monitorato in maniera oggettiva dai ricercatori e ogni giorno, ai
partecipanti veniva chiesto di compilare un diario che serviva a monitorare le loro attività giornaliere
e a misurare alcuni parametri, ovvero la percezione di solitudine, il benessere emotivo e la qualità
della giornata appena trascorsa.
RISULTATI E DISCUSSIONE: L’astinenza dai social network non ha avuto alcuna influenza sulle
variabili psicologiche, così come nessun effetto è stato registrato a seconda della durata del periodo
di astinenza.
Nonostante alcuni limiti, primo fra tutti il numero di partecipanti coinvolti che era relativamente
ridotto, questo studio pone l’attenzione su una questione importante che è ancora priva di una
risposta definitiva, cioè se vi sia una relazione effettiva tra uso dei social network e benessere
psicosociale.
Nonostante stiano emergendo dati contrastanti, ad oggi buona parte della letteratura psicologica
sugli effetti del digitale si è interessata al sovrautilizzo della tecnologia mostrandone gli aspetti
negativi.
Ma perché le persone trascorrono così tanto tempo a utilizzare dispositivi tecnologici?
1. L’iperconnessione
I fattori che favoriscono l’uso della tecnologia:

Notifiche, like e messaggi, sono stimoli


gratificanti perché ci danno informazioni
rispetto a qualcosa che ci interessa, ci fanno
sentire considerati e apprezzati dagli altri, e sono
intrinsecamente randomici in quanto non
sappiamo quando li riceveremo.

Il fatto che
queste gratificazioni arrivino
in modo casuale accresce il
tempo che trascorriamo sui
social network e la frequenza
con cui vi accediamo.

Oltre a questi fattori legati al design, la tecnologia ha anche enormi potenzialità poiché è in grado
di venire incontro a bisogni che altrimenti non troverebbero soddisfazione o, comunque, non in
modo così rapido e semplice.
Secondo una prospettiva evoluzionistica, la socialità umana deriva da un bisogno fondamentale
che tutti noi abbiamo e cerchiamo di soddisfare, e che ci aiuta a sopravvivere: il bisogno di
appartenenza ⇒ la necessità di sviluppare e mantenere connessioni sociali con gli altri membri
della nostra specie.
Ma cosa hanno a che fare il bisogno di appartenenza e la tecnologia moderna?
Pancani e Riva [2019] utilizzano il bisogno di connessione come chiave di lettura per spiegare il
successo delle tecnologie digitali e il loro utilizzo massivo.
La «fame» costante di
connessioni sociali che ci
caratterizza può essere vista
come il motore che sta alla
base dello sviluppo delle
tecnologie digitali e del loro
sempre crescente utilizzo.

1.1. La paura di non essere connessi


Buona parte delle nostre interazioni con le altre persone passa dalla rete. Tramite i social network,
quali Facebook e WhatsApp, comunichiamo con gli altri e restiamo aggiornati sulle vicende
quotidiane dei nostri contatti.
Se da un lato la tecnologia accresce le opportunità di interazione, dall’altro, quando questa
abbondanza di stimoli sociali viene a mancare (ad esempio, siamo in una zona in cui il segnale è assente), può
avere un impatto negativo sul benessere psicologico dell’individuo.
2. Le teorie psicosociali sull’utilizzo della tecnologia
La letteratura psicologica ha sviluppato una serie di teorie con l’intento di spiegare il complesso
rapporto che regola l’interazione tra esseri umani e tecnologia.

Il contributo di Griffiths ha avuto un ruolo fondamentale nel fornire un impianto teorico conosciuto
(quello della dipendenza da sostanze) come chiave di lettura per descrivere e interpretare un
fenomeno nuovo e ancora da esplorare, cioè il sovrautilizzo della tecnologia.
Se da un lato il termine «dipendenza» può apparire appropriato per descrivere il fenomeno
dell’utilizzo eccessivo di diverse tecnologie, compresi fattori di rischio e conseguenze, dall’altro sono
ancora molti i punti che rimangono da chiarire. Gentile, Coyne e Bricolo [2013] hanno sistematizzato
il dibattito scientifico intorno a questo tema, evidenziando le questioni che restano tuttora aperte e
che necessitano di risposte precise prima di poter definire questi fenomeni come dipendenze
comportamentali. Es: non c’è chiarezza su eziologia, diagnosi, decorso e cura.
Queste problematiche hanno condotto la ricerca psicologica sull’uso della tecnologia a concentrarsi
anche su altri aspetti che vanno al di là del concetto di dipendenza.

All’interno di questo quadro teorico, si sono diramati una serie di filoni di ricerca relativi a tecnologie
specifiche, come internet addiction, gamingaddictione smartphone addiction.
Pathway Model of Problematic Smartphone Use [Billieuxet al., 2015]
Teoria che ipotizza tre percorsi che conducono all’uso problematico dello smartphone (PSU)
1. Excessive reassurance pathway–PSU deriva dalla necessità di mantenere le relazioni e
ottenere dagli altri rassicurazione e conforto
Fattori di rischio: bassa autostima, attaccamento insicuro, instabilità emotiva e ansia
2. Impulsive pathway–PSU causato da scarso autocontrollo e bisogno di soddisfazione
immediata dei bisogni
Fattori di rischio: scarso autocontrollo, aggressività, personalità antisociale
3. Extraversion pathway–PSU causato dal forte desiderio di comunicazione e interazione con
gli altri che spinge a utilizzare eccessivamente i social media
Fattori di rischio: alta estroversione, sensati on seeking e sensibilità alle ricompense
Effetti positivi simili si possono ritrovare anche su vasta scala, come nel caso del lockdown dovuto
alla pandemia da COVID-19
Il distanziamento fisico ha obbligato milioni di persone ad isolarsi in casa, riducendo enormemente
i contatti faccia a faccia
In questo contesto, videochiamate e social network hanno avuto un ruolo fondamentale nel far
sentire le persone vicine tra loro, riducendo gli effetti negativi dell'isolamento sociale forzato e
influenzandone positivamente il benessere psicosociale.

TECNOLOGIA E SOCIALITÀ [Waytze & Gray, 2018]


La socialità= capacità di rispondere positivamente agli stati mentali altrui, dunque implica una
comprensione profonda della mente dell’altro, dei suoi pensieri, emozioni, credenze, intenzioni e
desideri.
3. Social media e dinamiche relazionali
SOCIAL MEDIA= tecnologie web che offrono la possibilità di produrre, condividere e
collaborare a contenuti online generati dagli utenti e che implicano un elemento di socialità
[Kusse & Griffiths, 2017]
3.1. Differenze individuali e uso dei social network
Nell’indagine sulle dinamiche relazionali online, una questione centrale è capire se:
esistono delle caratteristiche disposizionali in grado di condurre a un maggiore o minore
uso dei social network e delle loro specifiche funzionalità?
A questo proposito, sono state condotte due metanalisi [Liu e Campbell 2017; Liu e Baumeister 2016]
che hanno analizzato le evidenze emerse da degli studi riguardanti:

L’associazione tra l’uso dei social network e le seguenti caratteristiche disposizionali: Big Five
personality model [nevroticismo, estroversione, amicalità, apertura mentale e coscienziosità, il
narcisismo e la solitudine]
3.2. Presentazione di sé, self-diclosure e confronto sociale
La psicologia sociale ha indigato come DINAMICHE INTERPERSONALI avvengano sui social
media. Quando incontriamo qualcuno per la prima volta, generalmente vogliamo che questa
persona si formi una buona opinione su di noi e per questo ci mostriamo e ci comportiamo in modo
da fare buona impressione.

Se la self-disclosure è comunemente intesa come l’espressione verbale e intenzionale degli aspetti


del sé, sui social media la sua definizione si amplia anche alla comunicazione non verbale,
passando attraverso altri stimoli, come ad esempio immagini, video e altri contenuti multimediali
associati all’utente che li pubblica. Infatti, ogni post che viene pubblicato sui social media veicola
informazioni sul sé, sul tipo di persona che si è o che si vuole dare l’impressione di essere.
Kim e Dindia [2011] hanno condotto una revisione della letteratura su presentazione di sé e self-
disclosure, mostrando come esistano visioni alternative rispetto al modo in cui questi fenomeni si
manifestano online e offline.

Secondo Kim e Dindia, le attuali evidenze empiriche non permettono di trarre conclusioni in merito a
quale ipotesi sia maggiormente valida, cioè se i social media (in particolare, i social network)
favoriscano o meno la self-disclosure, suggerendo che ulteriori studi siano necessari per dirimere la
questione. Infatti, se alcune caratteristiche della comunicazione online come l’anonimato possono
favorire la rivelazione di aspetti di sé, altre, quali un minor controllo sull’audience che può
visualizzare le proprie informazioni o la possibilità di ricevere feedback pubblici negativi, possono
sfavorirla. Gli autori, però, mettono in risalto le potenzialità della comunicazione online, soprattutto
quelle delle immagini.
Le immagini e le foto degli utenti, infatti, veicolano numerose informazioni e sono un forte stimolo
al confronto sociale, cioè forniscono una base per confrontarsi con gli altri, mezzo questo cruciale
per acquisire maggiori informazioni circa noi stessi (vedi cap. 6).
A questo proposito, Fox e Vendemia [2016] hanno condotto uno studio sulla pubblicazione di foto
sui social network e su come queste siano elementi fondamentali del confronto sociale online.
I RISULTATI mostrano che una percezione positiva della
propria immagine corporea e una maggior tendenza a
confrontare il proprio corpo con quello altrui porterebbero le
persone a pubblicare più foto di sé stesse sui social network.

Lo studio mette in luce anche possibili differenze tra uomini e donne.


In confronto agli uomini, le donne che si percepiscono - attraenti e che sono + inclini al confronto
sociale, sono anche più propense a modificare le proprie foto e proverebbero più emozioni negative
quando esposte a foto di utenti che considerano più attraenti di loro.
Dinamiche riconducibili all’autoggettivazione= interiorizzazione di standard di bellezza definiti da
una società che dà eccessiva importanza all’aspetto fisico femminile.
In questo contesto, modificare le proprie foto potrebbe essere funzionale a un aumento della propria
autostima, ad accrescere la possibilità di ricevere commenti o reazioni positive dagli altri.
Allo stesso tempo, la pressione sociale riguardante l’apparenza fisica potrebbe rendere le donne più
vulnerabili e sensibili al cosiddetto confronto sociale verso l’alto, cioè al confronto con donne che
ritengono più attraenti di loro, influenzando negativamente il proprio stato d’animo.
Quest’ultima dinamica verrebbe ulteriormente rafforzata dal fatto che commenti e reazioni sui social
network sono spesso pubblici e forniscono un parametro «oggettivo» nella valutazione delle foto
altrui e nel confrontarle con le proprie. Tuttavia, gli effetti di genere appena descritti sono piuttosto
modesti e non si esclude che dinamiche simili possano verificarsi anche negli uomini.
L’influenza sociale sui social network
Giudizi, atteggiamenti, credenze e comportamenti non sono solo il frutto di pensieri e volontà di una
persona, ma anche di processi di influenza che altre persone esercitano su di essa (vedi cap. 4).
Come nella vita offline, questi processi di influenza sociale possono verificarsi anche sui social
network, in quanto piattaforme sulle quali gli individui interagiscono tra loro e possono condizionarsi
vicendevolmente.
In una ricerca condotta da Guadagno e colleghi [2013], ad esempio, è stata indagata l’intenzione di
condividere alcuni video in base al loro contenuto emotivo e alla fonte che li aveva pubblicati. I video
che evocavano emozioni positive (video divertenti o che suscitavano tenerezza) avevano una
maggiore probabilità di essere condivisi rispetto a video che evocavano emozioni negative (rabbia e
disgusto) o che non ne evocavano alcuna.
Il risultato più interessante, tuttavia, riguarda l’effetto che la fonte del video ha avuto sull’intenzione
di condivisione. I video aggressivi venivano ritenuti più interessanti se provenivano da persone che
frequentavano una università rivale anziché il proprio ateneo, e questo faceva aumentare
l’intenzione di condividerli. Per cui un video connotato negativamente proveniente
dall’outgroup viene trovato più interessante perché rafforza lo stereotipo denigratorio nei confronti
dello stesso. La condivisione, quindi, potrebbe influenzare altri membri dell’ingroup in due modi: da
un lato, rinforzando i loro pregiudizi nei confronti dell’outgroup, dall’altro accrescendo la coesione
all’interno dell’ingroup.
I processi di influenza sociale non passano soltanto dalla condivisione di materiale, ma anche dalle
reazioni ai contenuti pubblicati sui social network. Alcune ricerche, infatti, hanno mostrato che i
commenti di altri utenti hanno un effetto sulla valutazione di un certo contenuto e sulla credibilità
della fonte che l’ha pubblicato.
Sulla base di questi presupposti, Winter, Brückner e Krämer [2015] hanno condotto uno studio con
l’intento di indagare l’influenza sociale dovuta a like e commenti nella percezione di una notizia
pubblicata su Facebook da una prestigiosa testata giornalistica. La notizia consisteva nell’intervista
a un professore di economia che sosteneva la legalizzazione della marijuana per introdurre un
maggior controllo sul suo utilizzo.
⇒ Contrariamente alle ipotesi dei ricercatori, l’atteggiamento che i lettori avevano
rispetto alla notizia non cambiava a seconda del numero di like, ovvero non si osservavano
fenomeni di adeguamento alla maggioranza quali il conformismo.
L’atteggiamento verso la legalizzazione della marijuana, tuttavia, cambiava a seconda dei commenti
degli utenti.
In particolare, chi leggeva commenti argomentativi contrari (cioè che facevano riferimento a punti rilevanti per
il tema) alla tesi dell’economista sviluppava un atteggiamento più negativo verso la legalizzazione
rispetto a chi non vedeva alcun commento al di sotto della notizia; in misura minore, questa
tendenza è stata osservata anche per commenti contrari, ma soggettivi, cioè espressioni di una
opinione personale.
I commenti positivi sia argomentativi che soggettivi, invece, facevano sviluppare un atteggiamento
più positivo rispetto ai commenti negativi. Dunque, l’atteggiamento nei confronti di una notizia
giornalistica pubblicata sui social network non è determinato soltanto dalla notizia in sé, ma anche
dall’influenza che i commenti di altri utenti esercitano sulla formazione dell’opinione dei lettori.
3.3. Aggressività e comportamenti antisociali online
Aggressività Online –Anche le condotte antisociali trovano sfogo in rete e sui social media

Questi sono solo alcuni tra i maggiori esempi di crimini attuati in rete, ma esistono anche pratiche
antisociali online che si trasformano in reati solo in alcuni casi estremi, ma che non per questo
vanno sottovalutate, in quanto arrecano comunque un danno alle loro vittime.
Trolling= Utilizzo malevolo di internet caratterizzato da tentativi deliberati di un utente di creare
conflitto e disagio attraverso messaggi provocatori e/o minacciosi rivolti a una o più persone
all’interno di una comunità online.
La tipologia di troll più nota è probabilmente quella degli haters, individui che si scatenano contro la
vittima con insulti e messaggi pubblici di odio, spesso a sfondo discriminatorio.
Gli haters possono avere obiettivi molto diversi, che vanno dalla vendetta personale, al cercare di far
emergere quella che loro ritengono la vera natura della vittima attraverso provocazioni dirette, al
semplice divertimento personale.
Esistono molti altri tipi di Troll oltre agli haters, ma condividono alcune CARATTERISTICHE COMUNI
•Ingannano gli utenti fingendo di condividerne i valori per insinuarsi in un gruppo online
•Aggressività (insulti, messaggi di odio) volti a provocare conflitto
•Volontà di attirare l’attenzione su di sé

Studi recenti hanno mostrato come il comportamento antisociale dei troll su Facebook e Tinder sia
associato a psicopatia e sadismo, tratti di personalità dalla forte connotazione negativa.
Un altro fenomeno antisociale è quello del cyberbullismo= qualsiasi comportamento effettuato
tramite l’uso della tecnologia che mira a infliggere disagio e dolore tramite comunicazioni ostili e
messaggi aggressivi ripetuti nel tempo.

Riguarda soprattutto i più giovani e può avere ripercussioni molto dannose sulle vittime, quali
l’isolamento sociale, la depressione o il suicidio.
4. Fenomeni emergenti: esclusione sociale e tecnologia
Non soltanto le dinamiche relazionali offline possono essere ritrovate nelle relazioni online, ma la
tecnologia può anche influenzare le relazioni offline. Esempi di ciò si possono ritrovare in alcuni
fenomeni emergenti riconducibili al tema dell’esclusione sociale.
4.1. Il phubbing
Quante volte vi è successo di iniziare una conversazione con una persona che, a un certo punto,
smette di prestarvi attenzione perché comincia a guardare il suo cellulare? E quante volte lo avete
fatto voi? Questo comportamento prende il nome di phubbing (combinazione di phone e snubbing)
e viene definito come l’atto di ignorare qualcuno in un contesto sociale per prestare attenzione al
proprio cellulare.
Il phubbing è una pratica assai comune che si è diffusa rapidamente attraverso un processo base
dell’interazione umana, la reciprocità.
Secondo Chotpitayasunondh e Douglas [2016]) infatti, ignorare qualcuno a causa del proprio
cellulare è un comportamento che si presta a essere imitato dall’ignorato, che a sua volta distoglierà
l’attenzione (intenzionalmente o meno) dall’interlocutore.
Questo meccanismo accresce l’accettabilità del phubbing come pratica comune, facendolo
percepire come un comportamento normale o, addirittura, normativo. Il phubbing, quindi, si
trasformerebbe in una sorta di nuova norma sociale che caratterizza le interazioni tra le persone.
Numerose ricerche mostrano che il phubbing ha una serie di effetti negativi sia sulle persone che lo
subiscono, sia sulla relazione che le lega a chi lo mette in atto.

L’interferenza dello smartphone nelle relazioni


Alcuni interessanti esperimenti hanno mostrato che, nonostante gli smartphone possano metterci in
contatto potenzialmente con chiunque superando le barriere spaziotemporali, allo stesso tempo
possono minare il nostro senso di connessione offline e le nostre abilità nel relazionarci con chi ci
sta intorno.
Kushlev, Proulx e Dunn [2017] hanno chiesto ad alcuni studenti di trovare un edificio a loro
sconosciuto all’interno del campus universitario che frequentavano.
A metà del campione è stato chiesto di eseguire il compito aiutandosi con il proprio smartphone,
mentre all’altra metà è stato proibito.
Dopo il compito, ai partecipanti veniva chiesto di compilare un questionario per valutare la difficoltà
del compito stesso, indicare il numero di persone a cui avevano chiesto aiuto e misurare il loro
senso di connessione con gli altri.
RISULTATI: coloro che avevano usato lo smartphone hanno trovato l’edificio più facilmente, mentre
gli altri hanno avuto qualche difficoltà in più. Ciononostante, i partecipanti che non potevano usare lo
smartphone hanno eseguito il compito chiedendo informazioni alle persone nel campus, cosa che li
ha fatti sentire più connessi agli altri rispetto a chi aveva usato lo smartphone.
In un’altra ricerca, Kushlev e colleghi [2019] hanno chiesto a coppie di studenti che non si
conoscevano di compilare un questionario.
Prima della compilazione, tuttavia, gli studenti venivano fatti attendere per dieci minuti in una stanza,
registrandone i comportamenti con due videocamere. A metà delle coppie è stato permesso di
portare il proprio smartphone dentro la stanza, all’altra metà è stato proibito.
Nella condizione senza smartphone, i partecipanti producevano un numero maggiore di sorrisi rivolti
a chi si trovavano di fronte e sorridevano per una quantità di tempo superiore rispetto a coloro che si
trovavano nell’altra condizione. Inoltre, la probabilità di interazione tra i partecipanti era circa 8 volte
superiore nella condizione senza smartphone rispetto a quella con smartphone.
Complessivamente, queste ricerche sottolineano come lo smartphone possa ridurre comportamenti
di approccio, quali l’interazione faccia a faccia con altre persone e il sorriso, e come questo possa
far sentire le persone meno connesse socialmente.
4.2. Ghosting e orbiting
L’ostracismo si può ritrovare anche in alcune pratiche di rottura dei rapporti che sono state
influenzate dall’avvento della tecnologia. Parliamo di ghosting e orbiting, due fenomeni simili ma
distinti.
Ghosting = chiusura unilaterale di un rapporto romantico o amicale secondo cui una persona (che
chiameremo disengager) cessa improvvisamente qualsiasi comunicazione con il partner, senza dare
alcuna spiegazione del proprio comportamento. In altre parole, il disengager comincia a ignorare il
partner, sparendo dalla sua vita e non rispondendo più a nessun contatto diretto o richiesta di
chiarimento, neanche quelli che avvengono tramite supporti tecnologici (ad esempio, chiamate)
Secondo LeFebvre [2017] questo comportamento lascia la vittima in una situazione di incertezza e
ambiguità dovuta alla mancanza di elementi che spieghino la rottura del rapporto. Oltre
al distress psicologico e all’affettività negativa causate dalla fine improvvisa della relazione, la
necessità di trovare una spiegazione potrebbe portare la vittima di ghosting a incolpare sé stessa
per ciò che è accaduto al fine di ridurre la propria incertezza.
Tale fine potrebbe essere perseguito anche guardando i profili social del disengager, osservando
cosa fa e come si comporta per trovare una motivazione dell’accaduto. Il disengager, infatti, rimane
spesso visibile su queste piattaforme agli occhi della vittima e ciò può avere ulteriori ripercussioni
negative su di essa e ostacolare una chiusura definitiva della relazione.
Quest’ultimo punto è importante nella distinzione tra ghosting e orbiting.
Infatti, l’orbiting può essere considerato una forma alternativa di ghosting che è caratterizzata da
una dinamica in più.
Il disengager sparisce improvvisamente e senza dare spiegazioni, evitando qualsiasi forma di
contatto diretto, ma mantiene (o riprende dopo un certo lasso di tempo) qualche forma di interazione
online con la vittima. Dopo la rottura, infatti, il disengager continua a interagire in modo minimo e
unilaterale con la vittima e quest’ultima è consapevole di questo comportamento. Ad esempio,
il disengager potrebbe visualizzare i post e le storie della vittima su social network che rendono
accessibile questa informazione all’autore (la vittima) e, magari, mettere dei like occasionali ad
alcuni suoi post. Nonostante questo comportamento, il disengager continua a evitare contatti diretti
con la vittima, online oppure offline che siano.

La situazione che si crea è ancora più ambigua di quella che si osserva nel ghosting, in quanto la
rottura della relazione è in contraddizione con il comportamento online del disengager. Inoltre, tale
comportamento rende ancora più difficile una chiusura completa della relazione da parte della
vittima che può interpretare visualizzazioni e like come un ripensamento del disengager, un tentativo
di riallacciare i rapporti, cosa che può promuovere false speranze.
Ad oggi, la ricerca sul ghosting è solo agli inizi, mentre non esistono ancora studi scientifici che
indaghino l’orbiting. Questi fenomeni, dunque, rimangono largamente inesplorati e necessitano di
maggiore attenzione da parte della psicologia per comprenderne cause, dinamiche ed effetti, sia
sulla vittima che sul disengager.
Capitolo 8

La prosocialità
OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO
• Conoscere le principali teorie del comportamento prosociale
• Comprendere il ruolo delle norme sociali nell’orientare i comportamenti
• Comprendere la differenza tra motivazioni egoistiche (calcolo costi-benefici) e altruistiche
(empatia) all’aiuto
• Comprendere il ruolo dei fattori situazionali nella messa in atto di comportamenti prosociali

Con comportamento prosociale si intende una gamma di attività che hanno l’obiettivo di portare
un beneficio ad un’altra persona o gruppo [Batson].
Il comportamento prosociale può prevedere dei vantaggi per chi mette in atto il comportamento,
ma il vantaggio personale NON è il fine del comportamento prosociale.

MOSCOVICI [1997] distingue tra:


• Altruismo PARTECIPATIVO,
finalizzato a sostenere il legame
di coloro che appartengono alla
comunità;
• Altruismo FIDUCIARIO,
finalizzato a sostenere
un’interazione tra le persone e
ridurre la distanza tra loro;
• Altruismo NORMATIVO, in cui il
beneficiario è definito da norme
presenti in una società o in una
data cultura.

Diversi autori e diversi approcci hanno cercato di fornire una risposta al perché si presti aiuto.

Oltre la psicologia evoluzionistica: la teoria dello scambio sociale


Quando ci troviamo di fronte a una situazione in cui qualcuno ha bisogno di aiuto, possiamo
accorgerci che a volte effettuiamo un «calcolo» per valutare se può o meno essere conveniente
intervenire.
Questa visione economica delle relazioni viene spiegata da Emerson grazie alla teoria dello
scambio sociale: quando una persona si trova nella condizione di dover scegliere se aiutare
qualcuno, effettua un calcolo costi-benefici.
L’obiettivo sarà quello di massimizzare i profitti e minimizzare i costi.
Ad esempio: la scelta di entrare attivamente a far parte di un’associazione di volontariato. Da un lato
(costi) questo impegno ci richiederà di investire diverse ore alla settimana del nostro tempo e una
parte delle nostre energie, dall’altro (benefici) ci permetterà di conoscere nuove persone e l’aiutare
qualcuno in difficoltà ci gratificherà.
Una persona sceglierà di aiutare solo nel momento in cui i benefici saranno superiori ai costi.
⇒ Tante volte, però, non scegliamo di attuare un comportamento prosociale come esito di una
valutazione rispetto a quanto ci convegna o meno agire, ma semplicemente perché dobbiamo farlo.
O meglio: perché dovremmo farlo.
Noi tutti siamo inseriti in un mondo sociale che è organizzato grazie a norme sociali, che
apprendiamo nel corso del processo di socializzazione e che hanno lo scopo di indicare i
comportamenti appropriati in specifiche situazioni.
Alcune di queste norme, che prescrivono se e come dovremmo aiutare il prossimo, sono
definite norme prosociali
Diversi ricercatori hanno sostenuto, criticando la teoria dello scambio sociale, che non si possano
ridurre le relazioni sociali a un semplice calcolo individuale costi-benefici e che ci siano altre norme
collettivamente condivise.

Diverse prospettive hanno cercato di comprendere perché le persone mettono in atto comportamenti
prosociali, da un punto di vista della teoria evoluzionistica, dello scambio sociale e delle norme
prosociali. Queste prospettive non sono necessariamente in alternativa o in contraddizione tra loro,
ma offrono spiegazioni concorrenti e coesistenti del comportamento prosociale.
Applicazione selettiva della norma di responsabilità sociale
LA CREDENZA IN UN MONDO GIUSTO (Lerner, 1980)
Nel corso del processo di socializzazione le persone sviluppano un’idea di giustizia fondata sul
concetto di MERITO: l’idea che per ottenere ciò che si desidera bisogna meritarselo.
Le persone ottengono ciò che meritano, e meritano quello che ottengono. Questa credenza risponde
a un complesso di esigenze psicologiche:
- soddisfa il bisogno di controllo (attribuzione di causalità interna)
- rafforza la motivazione al successo (need for achievement)
La credenza in un mondo giusto può alterare la nostra percezione di un evento come emergenza,
inducendoci a percepirlo come qualcosa che è causato (e meritato) dalla vittima.
2. Le motivazioni del comportamento prosociale
Cosa ci induce a compiere atti prosociali?
Per rispondere a un tale interrogativo è necessario considerare il binomio egoismo-altruismo e
analizzare le motivazioni che spingono le persone a offrire soccorso.
2.1. Le motivazioni egoistiche: riduzione dell’arousal e sollievo da stati d’animo negativi
Le motivazioni egoistiche sono essenzialmente riconducibili a tre grandi famiglie [Batson]:
La ricerca di vantaggi, di tipo materiale, sociale, o personale. Attraverso il processo di
socializzazione, infatti, le persone apprendono che aiutare gli altri è un comportamento
premiato e premiante, che porta con sé delle forme di ricompensa sociale e personale, per
esempio ricevere l’approvazione degli altri significativi, o sentirsi gratificati per l’aiuto
prestato.

L’evitamento di sanzioni, anche in questo caso di tipo materiale, sociale o personale: non
rischiare di essere denunciati o disapprovati dagli altri per non aver prestato aiuto, non
sentirsi delle brutte persone. Gli individui, infatti, sono consapevoli che esiste una norma
sociale secondo la quale si deve prestare aiuto a chi ne ha bisogno, e temono,
trasgredendola, di andare incontro a conseguenze negative.

Infine, la riduzione dello stato di tensione interno, vale a dire il bisogno di non sentirsi a
disagio, in colpa, o non adeguati alla situazione quando si è esposti alla sofferenza e allo
stato di bisogno altrui. In questo caso il comportamento di aiuto è motivato principalmente dal
bisogno di ridurre uno stato di attivazione spiacevole, che porta a mettere in atto quel
comportamento che più efficacemente, e con minori costi per il benefattore, riduce tale
attivazione: può essere l’aiuto, ma anche la fuga, o la distrazione.

Il terzo tipo di motivazione sopra richiamato è, infatti, al centro del modello attivazione: costi-
benefici (arousal: cost-reward model) [Piliavin et al.], il quale spiega l’offerta d’aiuto proprio
attraverso questo meccanismo.
Nello specifico, il modello identifica due fattori, distinti ma interdipendenti, che influenzano il
comportamento prosociale:
1. L’arousal (l’attivazione del sistema nervoso centrale) in risposta al bisogno altrui, è
fondamentalmente una risposta emotiva e può essere considerata l’elemento motivazionale
centrale.
2. Processo cognitivo di valutazione dei costi-benefici associati al prestare o non prestare aiuto.
Molte delle variabili situazionali, sociali e di personalità che stimolano l’arousal influenzano
anche i costi percepiti. Il grado di attivazione è direttamente correlato alla gravità e
all’evidenza dell’emergenza, così come alla vicinanza e al coinvolgimento emotivo che
l’osservatore sperimenta rispetto alla persona in stato di difficoltà. Poiché l’arousal diventa
più sgradevole al crescere dell’intensità, l’osservatore è motivato a ridurlo, e risponderà alla
situazione nel modo più efficiente, ovvero quello che implica minori costi.
L’effetto “sentirsi bene”: Una persona che sperimenta un UMORE POSITIVO è più disponibile ad
aiutare il prossimo, sia perché quando si sta bene si vede il mondo in una luce più positiva, sia
perché compiere una buona azione è un ottimo sistema per prolungare uno stato d’animo
positivo

Modello del sollievo da stati d’animo negativi [Cialdini et al.]


Le persone si comportano altruisticamente al fine di RIDURRE UNO STATO D’ANIMO NEGATIVO
indotto dall’esposizione a una condizione di difficoltà o di danno altrui. Se hanno a disposizione altri
mezzi per migliorare il proprio stato NON metteranno in atto una risposta prosociale.

2.2. Le motivazioni altruistiche: il ruolo dell’empatia


Esiste, tuttavia, un’altra e differente visione secondo la quale l’aiuto si fonda su una motivazione
genuinamente altruistica, realmente orientata a procurare del bene all’altro.
L’azione prosociale può anche, indirettamente, implicare un beneficio per sé, ma per essere
altruistica dev’essere focalizzata sul beneficio procurato all’altro.
La principale fonte della motivazione altruistica risiede nell’empatia.
L’empatia è stata definita in psicologia in due modi:
L’idea che la risposta empatica sia associata al comportamento d’aiuto è alla radice dell’ipotesi
empatia-altruismo [Batson et al.]
Secondo cui l’empatia sollecita una motivazione diretta ad alleviare la sofferenza di chi si
trova in difficoltà. Maggiore è la risposta empatica, più è altruistica la motivazione ad aiutare.
L’ipotesi empatia-altruismo non nega che il raggiungimento dell’obiettivo altruistico possa
consentire a chi aiuta di ottenere vantaggi, evitare punizioni, e ridurre l’eccitazione avversa. Afferma
che questi benefici in sé non sono l’obiettivo finale dell’aiuto indotto dall’empatia; sono conseguenze
collaterali, non pianificate, della motivazione altruistica.

La risposta empatica alla base dell’aiuto ha notevoli implicazioni sul piano sociale, in particolare se
si assume un’ottica di intervento che abbia come obiettivo una società giusta e responsabile.
Batson e colleghi [1997] hanno dimostrato che la risposta empatica verso un membro di un gruppo
stigmatizzato può estendersi e generalizzarsi al gruppo di appartenenza, migliorando
l’atteggiamento generale nei confronti di categorie sociali che sono oggetto di pregiudizio. Nello
studio citato è stata indotta empatia nei confronti di una giovane donna affetta da AIDS (esperimento 1)
e di un senzatetto (esperimento 2).
I partecipanti, dopo aver ascoltato un’intervista durante la quale i due soggetti in questione
raccontavano la propria storia, si mostravano più propensi ad avere un atteggiamento più positivo
anche verso la categoria di appartenenza (rispettivamente, persone affette da AIDS e senzatetto),
oltre che verso i due individui di cui avevano ascoltato la storia. Soprattutto, questo atteggiamento
positivo non variava significativamente a seconda del fatto che la persona verso cui era stata indotta
l’empatia fosse considerata più o meno responsabile della propria condizione.
Va però precisato come gli studi di Batson non debbano indurci a considerare l’empatia una
panacea per tutti i mali, una chiave universale in grado di apportare invariabilmente benefici alla
società. Alcuni autori, infatti, dedicando uno sguardo più ampio al fenomeno, hanno messo in
evidenza come esista un lato oscuro dell’empatia [Bloom; Breithaupt], ovvero come il sentimento
empatico possa indurci ad avere una visione individualistica e di breve termine di un problema
(centrato sulla specifica situazione di uno specifico individuo), o a mettere in atto comportamenti
che, se da un lato veicolano solidarietà e sostegno ad alcuni, al contempo alimentano sentimenti
aggressivi nei confronti di altri, come nel caso di conflitti sociali in cui si empatizzi per una delle parti.
Queste letture, pur non sottraendo validità agli studi di Batson, ci consentono di problematizzare la
dinamica empatia-prosocialità alla luce del più ampio contesto sociale entro cui si attualizza.
3. L’influenza della situazione sul comportamento prosociale
Quanto la situazione in cui ci troviamo ci può aiutare o inibire all’aiuto?
Un famoso articolo di Latané e Rodin [1969] si apre con un vecchio aforisma «There is safety in
numbers». L’idea di base è che se si è circondati da molte persone, allora… si è al sicuro!
Il caso di cronaca di Kitty Genovese sembra però smentire questo detto. Catherine Susan
Genovese, comunemente nota come Kitty Genovese, era una giovane donna ventottenne di New
York. Il suo nome è salito agli onori della cronaca per un evento tragico che la vide coinvolta. Kitty
Genovese, rientrando dal lavoro verso le tre e venti del mattino il 13 marzo 1964, venne assassinata
da un uomo chiamato Winston Moseley. Il suo assassinio si compì in due momenti.
Il «New York Times» (NYT) raccontò che Moseley la aggredì una prima volta, ma interrotto da alcuni
rumori perse la presa su Kitty che, gridando, riuscì a divincolarsi. La giovane era seriamente ferita e
cercò di arrancare verso casa, ma poco dopo venne raggiunta nuovamente dal suo aggressore, che
portò a compimento l’omicidio. Il NYT scrisse che la donna aveva chiesto aiuto e che qualche vicino
l’aveva udita, ma che dei 38 testimoni che avevano assistito al tragico evento nessuno aveva
chiamato immediatamente la polizia o era sceso a prestare soccorso.
Questo evento, descritto dalla cronaca come un esempio di «apatia sociale» o di
«deumanizzazione da urbanizzazione», poteva concludersi diversamente alla luce di alcune
teorizzazioni da lì a poco diffuse dai sostenitori delle determinanti situazionali all’aiuto in situazioni di
emergenza.
Il triste fatto di cronaca di Kitty Genovese destò, infatti, l’interesse di Bibb Latané che, da lì a breve,
avrebbe testato empiricamente alcune ipotesi di ricerca insieme a Daniel Batson e John Darley.
Che cosa, della situazione nella quale si era trovata Kitty, aveva portato a tale tragico epilogo?
Il caso, che rappresenta uno tra gli esempi di cronaca più studiati dai ricercatori, è stato però
recentemente riletto in chiave critica da Kassin [2017], che ne ha problematizzato l’interpretazione
evidenziando delle imprecisioni nel racconto dell’evento. Kassin sostiene, infatti, che non si sia
riportato fedelmente l’episodio, omettendo di riferire come in realtà numerosi vicini avessero cercato
di aiutare la vittima chiamando la polizia. Il caso di Kitty Genovese non sarebbe, quindi, un esempio
di «apatia sociale» ma di falsa testimonianza e mancato riesame delle prove.

VARIABILE DIPENDENTE: l’intervallo di tempo che intercorre tra il momento in cui i partecipanti si
accorgono del fumo e quello in cui lasciano la stanza per segnalare quanto sta accadendo
RISULTATI:

• Nella condizione I, in cui i partecipanti erano soli nella stanza, il 75% delle persone si alzò in
breve tempo dalla sedia, si avvicinò alla presa d’aria e segnalò la presenza di fumo.
• Nella condizione II, in cui i partecipanti si trovavano nella stanza assieme ai complici dello
sperimentatore, solo 1 partecipante su 10 si mosse per riportare all’esterno quanto stava
accadendo.
• Nella condizione III, in cui i partecipanti si trovavano nella stanza assieme ad altri due
partecipanti ignari della situazione, solo nel 38% degli otto gruppi assegnati a questa condizione
si verificò che almeno 1 soggetto si attivasse per segnalare il fumo.
VARIABILE DIPENDENTE: l’intervallo di tempo che intercorre tra il momento in cui i partecipanti si
rendono conto del problema e quello in cui lasciano la stanza per chiedere aiuto.

Questi ultimi risultati sono stati interpretati sia in base ai processi di influenza sociale, e in
particolare i possibili effetti dell’inibizione sociale (o da pubblico), sia attraverso il processo
della diffusione di responsabilità.
Questi gli studi hanno permesso di rileggere alcuni episodi di violenza come quello accaduto a Kitty
Genovese. In sintesi, nelle situazioni di emergenza può ingenerarsi un effetto
spettatore (bystander effect), ossia un effetto in virtù del quale una persona non fornisce aiuto
perché la situazione in cui si trova presenta delle caratteristiche che inibiscono la risposta d’aiuto. In
particolare, dai diversi esperimenti condotti emerge che gli spettatori sono meno propensi a
intervenire in presenza di altri spettatori, in particolare se questi sono estranei e inattivi rispetto
all’evento osservato.
3.2. Ignoranza pluralistica, diffusione di responsabilità e inibizione da pubblico
I risultati degli esperimenti sull’effetto spettatore hanno permesso a Latané e Darley [1970] di
descrivere un modello di processo dell’intervento in situazioni di emergenza che ha la struttura di
un albero decisionale. L’idea di base è che in una situazione di emergenza le persone devono
prendere una serie di decisioni, e solo una particolare combinazione di scelte porterà a prestare
soccorso.
4. Come favorire il comportamento prosociale
Quali sono le leve psicosociali che possono incentivare il comportamento prosociale?
⇒ Promuovere nelle persone l’osservazione di ciò che sta accadendo attorno a loro: le
persone, spesso prese dalla propria vita frenetica, prestano poca attenzione ai segnali e ai
contesti in cui si trovano. È necessario sensibilizzarle a riconoscere le emergenze al fine di
ridurre l’ambiguità delle situazioni.

⇒ Assumere la responsabilità dell’aiuto: più si è, maggiore la probabilità che la responsabilità


di aiuto venga diffusa tra gli spettatori presenti. Se le persone fossero a conoscenza del
fenomeno della diffusione di responsabilità la consapevolezza dell’importanza di assumersi
la responsabilità diventerebbe più evidente.

⇒ Prepararsi a intervenire: sapere chi contattare, come denunciare o come agire aumenta le
probabilità che il soccorso alla vittima venga effettivamente prestato.

⇒ Rafforzamento della capacità della risposta empatica: quando le persone comprendono


meglio gli altri, la loro sofferenza e le loro esperienze, allora è più probabile che si sforzino di
aiutare.

Capitolo 9
Appartenenza ed esclusione sociale
OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO
• Comprendere le origini del bisogno di appartenenza
• Conoscere le teorie fondamentali sull’esclusione sociale
• Conoscere le conseguenze psicologiche dell’esclusione
• Identificare le strategie per contrastare l’esclusione sociale

Nella sua Politica Aristotele (IV secolo a.C.) scrisse che «gli esseri umani per natura sono esseri
sociali». A oltre due millenni di distanza, la natura sociale della nostra specie è diventata l’oggetto di
studio scientifico delle scienze psicologiche. L’idea che avere connessioni sociali positive e durature
sia di fondamentale importanza per la salute fisica e mentale delle persone sembra antica quanto la
psicologia stessa.
Autori fondamentali quali James [1890], Freud [1930], Maslow [1968], Deci e Ryan [1985],
Baumeister e Leary [1995], tra gli altri, hanno sostenuto che le connessioni sociali e le relazioni
interpersonali sono un aspetto cruciale della psicologia umana.
È solo alla fine del secolo scorso che due professori statunitensi, Roy Baumeister e Mark Leary,
pubblicano un articolo teorico che avrebbe dato il via all’indagine sistematica – dal punto di vista
teorico ed empirico – del bisogno di appartenenza.
Il lavoro di Baumeister e Leary ruota intorno all’
ipotesi di appartenenza= Gli esseri umani possiedono una spinta fondamentale a formare e
mantenere almeno una QUANTITÀ MINIMA di relazioni interpersonali che siano DURATURE,
POSITIVE (o perlomeno non negative) e SIGNIFICATIVE.
Questa ipotesi, all’apparenza semplice, trova la sua originalità non tanto nell’idea generale che gli
esseri umani abbiano un impulso verso l’affiliazione; ma nella documentazione della potenza di
questa spinta e motivazione.
L’ipotesi è basata su due criteri fondamentali che devono essere raggiunti perché il bisogno di
appartenenza possa essere soddisfatto:

• Criterio qualitativo: le interazioni devono essere durevoli e non negative.

• Criterio quantitativo: riguarda la frequenza delle interazioni sociali e il fatto che le


fonti di affiliazione devono essere più di una.

Secondo gli autori, il bisogno di appartenenza è fondamentale, nella misura in cui non è
secondario ad alcun altro bisogno umano e non deriva da altri.
BISOGNO ≠DESIDERIO
La mancata soddisfazione di un bisogno, a differenza di quanto accade con un desiderio, produce
conseguenze immediate che coinvolgono tutte le dimensioni di una persona, inclusa salute e
speranza di vita.
I bisogni umani sono caratterizzati da…
SOSTITUZIONE: in assenza di un determinato stimolo, uno stimolo diverso ma con proprietà
simili può fungere da sostituto (ad esempio, tendenza ad affiliarsi a gruppi estremisti delle persone
socialmente escluse).
SAZIETA: l’appagamento di un bisogno a un certo punto raggiunge un livello di soddisfazione tale
per cui l’individuo ne ha a sufficienza

Ma da dove si origina questa potenza del bisogno di appartenenza per gli esseri umani?
Secondo diversi autori, è un lascito che arriva dai nostri antenati. Per la prospettiva
evoluzionistica, in un contesto di vita come quello di centomila anni fa, esisteva uno svantaggio
chiave nelle possibilità di sopravvivenza e riproduzione dell’essere umano isolato nei confronti di
coloro che vivevano all’interno di gruppi sociali. All’interno dei gruppi gli individui potevano
cooperare per procacciarsi il cibo, difendersi dai predatori, e crescere i piccoli che come noto
richiedono un tempo molto lungo per raggiungere l’autonomia.
Nel gruppo, infine, c’erano buone possibilità di trovare partner per la riproduzione e dunque rendere
possibile la trasmissione del proprio patrimonio genetico. Tutti questi compiti erano estremamente
più difficili, se non impossibili, per l’individuo isolato. Per questo, è stato ipotizzato che nel corso del
cammino evolutivo della nostra specie si siano selezionati una serie di meccanismi psicologici
finalizzati a spingere l’individuo costantemente a cercare, mantenere e riparare le sue connessioni
sociali.
Il dolore sociale
Quando pensiamo al dolore, solitamente pensiamo a qualcosa di negativo, che preferiremmo
sempre e comunque evitare. Il dolore fa male, appunto. Tuttavia, senza dolore, gli organismi
complessi non riuscirebbero a sopravvivere a lungo. Per capire meglio quest’assunzione pensiamo
all’analgesia «congenita», una sindrome molto rara in cui la capacità di percepire dolore fisico è
assente fin dalla nascita. I bambini che ne soffrono non hanno alcuna possibilità di riconoscere i
pericoli, come il contatto della loro mano con un metallo rovente, il cadere di continuo dalla giostra al
parco giochi, fino ad arrivare a masticarsi la lingua. Questi bambini possono rimanere giorni con un
osso rotto prima che qualcuno se ne accorga.
Negli anni Settanta del secolo scorso, quello che sarebbe diventato un celebre neuroscienziato,
Jaak Panksepp, il primo a usare il termine affective neuroscience, ha un’intuizione. Somministrando
degli oppiacei a dei cani nel corso di un esperimento si rende conto che questi non reagiscono più
con dei vocalizzi all’isolamento sociale, mentre continuano a protestare quando hanno fame o sete.
Panksepp immagina che l’oppiaceo, noto antidolorifico fisico, possa in qualche modo interferire
anche sulla sensibilità sociale di questi animali. Questa intuizione è stata poi ripresa nei primi anni
Duemila da Naomi Eisenberger.
Fu lei (insieme a suo marito Matthew Lieberman e Kipling D. Williams) a mettere per prima in uno
scanner della risonanza magnetica funzionale delle persone durante il paradigma Cyberball.
I risultati di questa sperimentazione hanno suggerito che le aree che si attivavano durante
l’esclusione sociale erano in parte sovrapposte alle aree note per il loro coinvolgimento nel
processamento del dolore fisico, tra cui la corteccia prefrontale ventrolaterale destra e la corteccia
cingolata anteriore.
Il lavoro derivato da questo esperimento, pubblicato sulla prestigiosa rivista «Science», ha dato il via
a un filone di studi volti a indagare le similarità (e, successivamente, differenze) tra la percezione del
dolore fisico e sociale negli esseri umani.
Tra i risultati più degni di nota emersi negli anni seguenti, la correlazione tra la sensibilità al dolore
fisico e a quello sociale (ossia, gli individui più sensibili a una tipologia di dolore sono anche più
sensibili all’altro), e la possibilità che un comune analgesico (paracetamolo) possa avere effetti
anche sulla capacità di percepire dolore sociale.
In anni recenti, alcuni autori hanno messo in forte discussione l’ipotesi dell’esistenza di un substrato
neurofisiologico comune tra dolore fisico e sociale. Il campo d’indagine neuroscientifico rimane
comunque aperto mentre sembrano esserci evidenze solide sulla similarità tra dolore sociale e
dolore fisico per quanto riguarda le conseguenze psicologiche, quali un ridotto senso di
appartenenza, una ridotta autostima, un minor senso di controllo e la percezione di un’esistenza
meno significativa.

1.1. Quattro modi per soddisfare il bisogno di appartenenza


2. Le minacce al bisogno di appartenenza
Se l’appartenenza è un bisogno psicologico fondamentale, le minacce alla soddisfazione di questo
bisogno devono produrre una varietà di effetti negativi che, come anticipato, arrivano a coinvolgere
tutte le dimensioni della persona, inclusi pensieri, emozioni e comportamenti. Tali minacce fanno
riferimento a varie forme di disconnessione o separazione sociale.
[Riva e Eck 2016] hanno proposto una definizione semplice, che mette al centro il tema
dell’esclusione sociale.
Esclusione sociale= l’esperienza di essere tenuti separati dagli altri dal punto di vista fisico (ad
esempio, isolamento sociale) o emotivo (ad esempio, essere ignorati).
[Questa definizione esclude le forme di separazione sociale che non sono sotto il controllo degli attori sociali]

La definizione di esclusione sociale comprende una varietà di fenomeni che possono essere
classificati in 2 categorie:
3. I modelli teorici sull’esclusione sociale
Nel corso degli ultimi decenni, gli studiosi hanno proposto alcuni modelli teorici che cercano di
spiegare gli antecedenti e le conseguenze dell’esclusione sociale.
Tra i più rilevanti troviamo:
social monitoring system [Pickett e Gardner 2005],
il temporal need-threat model [Williams 2009]
il multimotive model [Smart, Richman e Leary 2009].

1) Social monitoring system


Si focalizza sull’attenzione sociale che segue alla percezione di esclusione.
L’idea di fondo di questo modello è che gli esseri umani possiedono un sistema di monitoraggio
sociale che può attivarsi in automatico in un dato momento e contesto.
Una volta attivato, il sistema motiva l’individuo a monitorare e seguire i segnali sociali (parole,
sguardi, gesti) che le altre persone emettono per migliorare le possibilità di re-inclusione (ed evitare
le possibilità di ulteriore ostracismo e rifiuto). Il principale effetto dell’attivazione di questo sistema è
l’ipersensibilità verso gli stimoli di natura sociale (ad esempio, volti e sguardi).

Perché sia funzionale, il sistema


Quando l’inclusione sociale è A RISCHIO, gli
deve attivarsi solo in date
individui sono più bravi a individuare volti
circostanze, ovvero quando
sorridenti (rispetto a volti negativi o neutri) e
l’inclusione sociale è a rischio.
sguardi diretti (rispetto a sguardi evitanti).
perchè
Quando la nostra inclusione sociale è
a rischio, abbiamo bisogno di
dedicare ancora più risorse cognitive
del solito per leggere l’ambiente
sociale che ci circonda e decidere
chi può essere una buona fonte di
affiliazione e chi no.
Lo studio che più di tutti esemplifica il funzionamento del social monitoring system è quello di
Bernstein e colleghi [2008]. Nel loro lavoro, gli autori si sono riferiti a due tipologie di sorriso.

2) Il temporal need-threat model


Questo modello mette al centro la dimensione temporale, lo svolgersi di una catena di eventi nel
tempo.
Il percorso inizia con l’individuazione (detection) dell’ostracismo. Secondo l’autore, gli esseri umani
nascono con una capacità innata di percepire anche forme minime e ambigue di ostracismo
Rendersi conto dell’esclusione è il primo passo per poter mettere in atto azioni volte a ottenere la re-
inclusione nel gruppo oppure attivare la ricerca di nuove connessioni sociali. Una persona incapace
di percepire l’esclusione sociale rischia di trovarsi socialmente isolata senza avere avuto la
possibilità di rendersene conto e quindi di fare qualcosa a riguardo (ad esempio, conformarsi
maggiormente alle norme sociali di un gruppo).
È importante evidenziare che quando ci si
riferisce alla detection dell’ostracismo non si fa
rifermento a un processo consapevole. Al
contrario, è una percezione di tipo automatico,
legata al monitoraggio costante che la nostra
mente attua sul mondo sociale (indipendente da
processi controllati), e che solo in fasi successive
arriva alla consapevolezza di una persona.
Se la detection è il punto di partenza nel modello, il primo stadio che ne segue è chiamato reflexive
stage. In questo stadio l’individuo esperisce gli impatti psicologici immediati dell’esclusione. Il primo
tra questi è il cosiddetto dolore sociale = l’esperienza emotiva di spiacevolezza derivante dalla
percezione della distanza psicologica effettiva o potenziale da altri vicini o un gruppo sociale.
Così come il dolore fisico è cruciale nello spingere un individuo a salvaguardare il proprio corpo
fisico, il dolore sociale motiva l’individuo a salvaguardare le sue connessioni sociali.
Il secondo gruppo di risposte associate a questo stadio riguardano altri tipi di emozioni negative:
quali la tristezza, l’ansia e la rabbia.
Infine, questo stadio è caratterizzato dalla percezione di minaccia alla soddisfazione di quattro
bisogni psicologici fondamentali, che comprendono
a. il bisogno di appartenenza,
b. l’autostima,
c. il bisogno di controllo e
d. il percepire la propria esistenza come significativa.
Dolore sociale, emozioni di tristezza, ansia e rabbia, e la minaccia alla soddisfazione dei quattro
bisogni fondamentali costituiscono quindi la costellazione delle reazioni psicologiche a un episodio
di ostracismo. Secondo Williams, queste reazioni non sono accentuate o mitigate da particolari
fattori individuali o situazionali: semplicemente vengono esperite dall’individuo in modo automatico
come reazione immediata a qualsiasi episodio di ostracismo.
Il terzo stadio è chiamato reflective stage e qui l’individuo valuta l’episodio di ostracismo attraverso
attribuzioni causali, attuando strategie cognitive e comportamentali riparative volte a fortificare e
ripristinare i bisogni minacciati.
Dopo le reazioni emotive automatiche, in questo stadio entrano in gioco processi mentali
consapevoli. L’individuo ha modo di riflettere sull’episodio di ostracismo, sulla fonte, sul contesto, e
sulle implicazioni e questo avrà un profondo impatto sull’intensità delle emozioni provate e
soprattutto sulla loro durata. Essere ignorate da un commesso (forse distratto?) in un grande
magazzino non ha le stesse implicazioni che avrebbe l’essere ignorate dalla nostra migliore amica.
Questo modello teorico ci dice che in entrambi i casi l’impatto immediato sarà di spiacevolezza, ma
anche che nella fase successiva le reazioni divergeranno.
Nei tipici paradigmi che vengono utilizzati in psicologia sociale per studiare gli effetti dell’esclusione,
si rilevano impatti immediati, ma dopo pochi minuti si trova anche che la maggior parte delle
persone sono tornate ai livelli psicologici (in termini di emozioni e soddisfazione dei bisogni di base)
di partenza. Secondo la teoria, questo avviene perché le persone, dopo una prima fase automatica
di reazione negativa, possono riflettere e pensare che tutto sommato quello che è successo (ad
esempio, un feedback negativo da parte di un complice dello sperimentatore, o il non aver ricevuto
la palla da altri giocatori online) non ha molta importanza. La velocità di questo recupero è legata a
molti fattori, sia individuali che situazionali.
⇒ Un esempio di fattori individuali è l’ansia sociale disposizionale. Individui con più alti livelli di ansia
sociale tendono a impiegare più tempo per recuperare anche da episodi minimali di ostracismo.
⇒ Un esempio di fattori situazionali intervenienti è la distrazione. Un individuo che subisce un singolo
episodio di ostracismo e viene distratto subito dopo da un nuovo stimolo (ad esempio, un compito
cognitivo, o un video online), recupera più rapidamente rispetto a chi non ha subito la distrazione.

Questo perché l’esclusione tende a indurre il rimuginio, una forma di pensiero ciclico fissata
sull’episodio di esclusione e sulle possibili motivazioni alla base. In questo senso, la distrazione è un
buon antidoto al rimuginio.
Secondo il modello di Williams, le reazioni all’esclusione non si limitano al livello psicologico o
emotivo ma stimolano anche la messa in atto di comportamenti specifici:
aumento della suscettibilità al conformismo (per esempio mi vesto come gli altri),
alla persuasione (acconsento a una richiesta che mi viene fatta) o
all’obbedienza (obbedisco a un ordine dato da un’autorità).
Se l’ostracismo permane e si prolunga nel tempo (per settimane, mesi o perfino anni) la vittima non
ha modo di recuperare dei livelli adeguati che soddisfino il suo bisogno di appartenenza. Questa
condizione rappresenta l’ultimo stadio del modello, chiamato il resignation stage.
In questa condizione, secondo Williams, sopraggiunge una condizione cronica di rassegnazione
psicologica.
Un bisogno di appartenenza per troppo tempo insoddisfatto conduce all’alienazione, al sentire che non
c’è posto per noi nel mondo.

Un bisogno di autostima cronicamente minacciato può portare a sviluppare sintomi depressivi, sulla
base di una percezione di sé stabilmente svalutante.

La mancanza di controllo prolungata nel tempo rischia di tradursi in un senso di impotenza stabile e
pervasivo (non c’è modo per cui io possa cambiare la mia vita).

Infine, sentirsi non-esistenti agli occhi degli altri a lungo andare può condurre a una mancanza di
speranza verso il futuro.

3) Il multimotive model
Prende in considerazione TRE RISPOSTE COMPORTAMENTALI che possono seguire gli episodi
di esclusione sociale: prosocialità, antisocialità ed evitamento.

• PROSOCIALITÀ= Ricerca di supporto e accettazione sociale che passa attraverso un


aumento dei comportamenti di conformismo e suscettibilità sociale. (non inteso come
finalizzato a portare un beneficio a un’altra persona)

• ANTISOCIALITÀ= Qualunque comportamento intenzionalmente rivolto verso un individuo al


fine di provocare dolore. (Aggressività)

• EVITAMENTO= Comprende forme di auto-esclusione o auto-isolamento, in cui una


persona evita i contatti con altre persone, spesso per proteggersi dal dolore che ulteriori
esperienze di rifiuto e separazione potrebbero causare.
Le persone arrivano a queste diverse risposte comportamentali sulla base di alcuni fattori legati
all’interpretazione dell’esclusione sociale:
1. COSTI associati alla perdita della relazione;
2. POSSIBILITÀ di relazioni ALTERNATIVE;
3. ASPETTATIVE di poter RIPARARE la relazione;
4. VALORE dato alla relazione che si è persa;
5. CRONICITÀ e PERVASIVITÀ dell’esclusione;
6. GRADO di INGIUSTIZIA PERCEPITO circa l’esclusione sociale.

1) Costi associati alla perdita della relazione


Quando l’esclusione sociale deriva da una fonte sulla quale l’individuo ha investito molto (in
termini di tempo, risorse, energie, impegno, denaro, etc.) il costo psicologico è molto elevato e la
vittima cerca di riparare la relazione interrotta.
Se il rifiuto sociale deriva da una fonte su cui non si è investito molto, la vittima può dirigersi
semplicemente verso la ricerca di fonti di affiliazioni alternative.

2) Possibilità di relazioni alternative


Quando le persone sono in grado di ricercare nuove fonti di affiliazione, si assiste a una riduzione
dei comportamenti proattivi di ricerca di supporto e affiliazione e un aumento dei
comportamenti di evitamento.
Quando le persone NON sono in grado di ricercare nuove fonti di affiliazione, vengono messi in atto
tentativi e sforzi di riparare la relazione.
3) Aspettative di poter riparare la relazione
Ritenere che vi sia la possibilità di riparare la relazione porta l’individuo a conformarsi,
cooperare e obbedire di più.
Quando la riparazione della relazione è percepita come improbabile, i comportamenti prosociali
non vengono messi in atto e al loro posto predominano le risposte antisociali.

4) Valore dato alla relazione che si è persa


L’esclusione derivata da una fonte di valore motiva l’individuo a mettere in atto risposte
prosociali.
Diversamente, quando il valore della fonte di esclusione sociale è basso, l’individuo sarà più incline
ai comportamenti antisociali e di evitamento.

5) Cronicità e pervasività dell’esclusione


Quando l’esclusione sociale è cronica e pervasiva, l’evitamento e il ritiro sociale sembrano
essere la risposta dominante. In questo modo, l’individuo, così esposto alle minacce sociali, cerca di
proteggersi dal ricevere ulteriori minacce

6) Grado di ingiustizia percepito circa l’esclusione sociale


Maggiore la percezione di ingiustizia, maggiori saranno le probabilità di mettere in atto
comportamenti antisociali, volti a fare del male alla fonte di esclusione.
Rifiuto e ostracismo vengono, nella maggior parte dei casi, percepiti come ingiusti da parte delle
vittime.

4. Le conseguenze dell’esclusione sociale

L’esclusione sociale:
•Attiva una vasta gamma di emozioni negative e spesso queste insieme al dolore sociale,
coesistono insieme nell’esperienza delle vittime;
•Influenza l’elaborazione cognitiva di stimoli non sociali e complessi;
•Rifiuto sociale e ostracismo inducono rimuginio, e questo riduce la capacità della persona di
pensare e ragionare lucidamente su altro;
•Quando l’esperienza di esclusione è prolungata, essere esclusi aumenta il rischio di depressione e
pensieri suicidari;
•Rende le persone più vulnerabili all’influenza sociale;
•Compromette la speranza di vita degli esseri umani.
Come affrontare l’esclusione sociale
Capitolo 12
La psicologia ambientale
OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO
• Conoscere di cosa si occupa la psicologia ambientale
• Comprendere i fattori sociopsicologici che sono implicati nelle nostre relazioni con gli
ambienti
• Comprendere i fattori sociopsicologici che orientano le nostre scelte ambientalmente
(in)sostenibili

La psicologia ambientale si sviluppa a partire dalla seconda metà dello scorso secolo negli Stati
Uniti e in alcuni paesi europei.
Come sostenuto da Susan Clayton la psicologia ambientale enfatizza tre temi sostanzialmente
trascurati dalle altre aree della psicologia:
a. La necessità di comprendere i comportamenti delle persone negli specifici contesti fisico-
spaziali dove essi si manifestano.

b. Il riconoscimento della relazione di influenza reciproca tra le persone e gli ambienti.

c. Il bisogno di interdisciplinarità, in quanto gli oggetti di studio della psicologia ambientale


favoriscono la collaborazione con professionisti di diversi settori.
La crescente consapevolezza di quanto i problemi ambientali siano causati dall’attività umana ha
favorito uno sviluppo rilevante dell’interesse per l’individuazione degli antecedenti dei
comportamenti proambientali; in riferimento soprattutto a come promuovere il cambiamento
comportamentale, sostituendo routine comportamentali ambientalmente negative (ad esempio, l’uso
dell’automobile da soli) con degli equivalenti ambientalmente più sostenibili.
1.2. Uno sguardo storico: dalle richieste della progettazione architettonico-urbanistica alle
nuove sfide della psicologia della sostenibilità
A partire dagli anni Cinquanta dello scorso secolo, sia negli Stati Uniti che in alcuni paesi europei (in
particolare Gran Bretagna e Svezia), le scuole di architettura e gli studi di progettazione fanno
emergere una domanda di consulenza alle scienze sociali e psicologiche da parte di architetti e
urbanisti.
Questa collaborazione segna la nascita, alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, di un nuovo
campo di studi, denominato «psicologia ambientale», il cui interesse è lo «studio del
comportamento e del benessere umano in relazione all’ambiente sociofisico».
Il terreno di incontro tra scienze sociopsicologiche e scienze della progettazione è ben
rappresentato dal lavoro dell’urbanista Kevin Lynch, il quale con il suo volume The image of the city,
pubblicato nel 1960, propose un approccio innovativo alla pianificazione urbana. Secondo Lynch, le
immagini del luogo possedute dagli abitanti dovrebbero costituire il punto di partenza e di riferimento
delle decisioni progettuali. Tali immagini sono concepite come una combinazione di elementi
fisicospaziali e sociopsicologici, in quanto gli ambienti possono essere descritti sia in termini di
immaginabilità fisica, che di immaginabilità sociale, ovvero la capacità di evocare significati condivisi
dagli utilizzatori di un determinato luogo.
Tra i contesti di studio della nascente psicologia ambientale, un posto rilevante è occupato
dall’ospedale psichiatrico, anche per le implicazioni legate allo sviluppo di questo ambito
disciplinare. Infatti, proprio in relazione a questo tipo di luogo, lo psichiatra Humphrey Osmond –
noto anche per essere stato il primo a coniare il termine «psichedelico» – fa una distinzione, in uno
scritto del 1957, tra assetti spaziali «sociofughi» – che scoraggiano l’interazione sociale – e
«sociopeti» – che invece incoraggiano l’interazione sociale.
I processi e le risposte psicologico-comportamentali alle proprietà fisicospaziali degli ambienti
costruiti rappresentano gli oggetti di interesse della psicologia ambientale fin dai suoi albori, tanto
che un’altra denominazione di questo campo di studi, piuttosto in auge negli anni Sessanta e
Settanta dello scorso secolo, è quella di «psicologia architettonica».
Più di recente, a partire dagli anni Ottanta dello scorso secolo, si assiste allo sviluppo dell’attenzione
verso gli effetti degli ambienti naturali – con particolare riferimento al paradigma
della restorativeness – e, soprattutto, al crescente interesse per la spiegazione dei comportamenti
proambientali o sostenibili [Bonnes e Bonaiuto 2002]. I repentini cambiamenti climatici e il loro
devastante impatto sull’ecosistema planetario rappresentano infatti uno dei maggiori temi mediatici
degli ultimi anni, come testimoniato dalle varie conferenze sul clima tenutesi negli ultimi anni
organizzate dall’ONU e dalla nascita di movimenti per la salvaguardia del pianeta. Dato che questi
fenomeni ambientali e i loro effetti sono prevalentemente influenzati dalle attività umane, lo sforzo
dei ricercatori è quello di comprendere quali dimensioni sociopsicologiche giocano un ruolo – e sotto
quali condizioni – nella predizione dei comportamenti sostenibili.
2.1. Come conosciamo e interpretiamo gli ambienti
La guida all’esplorazione di un ambiente e la selezione di quali informazioni raccogliere
avviene attraverso l’attivazione di SCHEMI preesistenti nella nostra mente [Neisser].
Gli schemi si modificano sulla base delle informazioni raccolte in un processo dinamico in cui
tali schemi sono al contempo origine e conseguenza delle nostre conoscenze.
Gli schemi ambientali sono costituiti:

Gli elementi presenti in un dato ambiente possono attivare uno schema relativo a quell’ambiente
di diversi tipi:

2.2. Come ci orientiamo negli ambienti


Perché non abbiamo alcun problema a raggiungere da dove ci troviamo (ad esempio, la nostra
abitazione o il nostro posto di lavoro) una certa caffetteria o birreria nel nostro quartiere, mentre
abbiamo bisogno del navigatore se il locale è situato in un quartiere che conosciamo poco?
La differenza sta nel fatto che nel primo caso possediamo in memoria una rappresentazione delle
informazioni spaziali relative al luogo, vale a dire una mappa cognitiva di esso.
Un esempio classico del contenuto di una mappa cognitiva è stato fornito dall’urbanista Kevin
Lynch nel già menzionato volume The image of the city [1960], dove viene sottolineata
l’importanza della leggibilità di un ambiente, ovvero la rappresentazione mentale dello spazio
basata sull’esperienza vissuta nell’ambiente fisico.
Sulla base di dati ricavati da disegni e descrizioni verbali, Lynch individua 5 elementi utili
all’individuo nella sua rappresentazione della città:

I margini che separano Aree delimitate da


I percorsi che possono uno spazio da un altro Punti essenziali per
margini e
essere seguiti durante (ad es. siepi e muri). il comportamento
contraddistinte da
lo svolgimento di attività spaziale, come i Elementi fisici
qualche caratteristica,
spaziali (ad es. strade). punti di svolta. facilmente
come piazze e parchi.
identificabili (ad
es. monumenti).

Siamo dunque in grado di orientarci senza difficoltà all’interno di un ambiente, ad esempio un


settore specifico di una città? Il compito potrebbe essere complesso e si riferisce al:
Wayfinding= la capacità di orientarsi dinamicamente in un determinato spazio e scegliere la via
migliore per raggiungere la propria destinazione.
Questa capacità ha a che fare con il possesso di conoscenza in merito a dove si è, a dove si vuole
arrivare, al seguire la via migliore, a identificare la destinazione una volta arrivati e al saper tornare
indietro.
2.3. Come valutiamo la qualità degli ambienti
In termini generali, esistono due tipi di valutazione ambientale:

la valutazione «tecnica» la valutazione «ingenua»


(definita anche «oggettiva» o (definita «soggettiva» o «basata
«esperta») sull’osservatore»)

Valutazioni che utilizzano Valutazioni fornite dalle persone


strumentazioni elettroniche e che occupano o utilizzano un dato
meccaniche, o altri parametri luogo, riflettendo una misura
oggettivabili, per rilevare e esperienziale della qualità
misurare la qualità di un ambientale.
determinato elemento ambientale
o unità territoriale.

Il filone di ricerca sulla valutazione ambientale «ingenua» si è focalizzato sulla individuazione e


misurazione di indicatori di qualità ambientale percepita [PEQIs]
Indicatori che riguardano la qualità degli aspetti urbanistici,
socio-relazionali, funzionali, contestuali.
La focalizzazione sull’ambiente residenziale ha da sempre caratterizzato la psicologia ambientale,
tanto che alcuni dei principali costrutti sviluppati e studiati da questo campo disciplinare
riguardano proprio questo tipo di ambiente:

L’ATTACCAMENTO AL LUOGO
Il costrutto di attaccamento al luogo prende le mosse dalla concezione classica della teoria
dell’attaccamento della Ainsworth e di Bowlby – riferita al legame con la figura genitoriale
(tipicamente materna)
L’attaccamento al luogo riguarda il legame affettivo che
individui, gruppi e comunità sviluppano nei confronti dei loro
luoghi quotidiani (soprattutto l’ambiente di residenza, il più studiato).

Analogamente a quanto avviene per l’attaccamento a una persona cara, l’attaccamento al luogo si
caratterizza per la ricerca di vicinanza, l’unicità e l’insostituibilità del luogo e il senso di perdita
in caso di allontanamento [Giuliani 2003].
L’attaccamento residenziale è tipicamente più forte in anziani e bambini, lungo-residenti, residenti in
comunità piccole e coloro i quali hanno una scarsa mobilità urbana.
L’allontanamento dal proprio luogo può provocare una PERCEZIONE DI ROTTURA del legame di
attaccamento, con possibili conseguenze traumatiche a livello individuale e interpersonale.
L’attaccamento al luogo è emerso come un predittore del benessere generale, dell’autostima, della
soddisfazione residenziale e della conduzione di comportamenti e stili di vita proambientali.
IDENTITA DI LUOGO
Il costrutto di identità di luogo è stato proposto da Proshansky, Fabian e Kaminoff, che l’hanno
definita come= una sottostruttura dell’identità del sé costituita da cognizioni relative all’ambiente
fisico dove l’individuo vive.
Altre definizioni hanno sottolineato il ruolo del senso di appartenenza ai luoghi, derivante
dall’interazione con essi, che concorre alla definizione e alla descrizione di noi stessi.
Ad ogni modo, se l’attaccamento al luogo coglie soprattutto la componente affettiva del nostro
legame coi luoghi, nell’identità di luogo sono invece enfatizzati gli aspetti sociocognitivi di tale
legame.
Un altro filone di ricerca ha invece considerato l’identità di luogo in termini di identità del luogo o
«identificazione del luogo» [Bonnes, Carrus e Passafaro], focalizzandosi sul luogo in sé e su quelle
caratteristiche fisicospaziali che gli conferiscono una identità distintiva.
L’identità di luogo può essere concepita anche come identità sociale «localizzata», in quanto il
senso di appartenenza a gruppi sociali che sono ancorati a un dato luogo può promuovere lo
sviluppo di una identificazione positiva con il luogo stesso.

2.5. Gli ambienti come fonti di rigenerazione: il paradigma della restorativeness


Pensate a quanto possa essere per noi stressante stare per svariati minuti in un ingorgo di traffico
mentre guidiamo la nostra auto, oppure passare in quel punto mentre siamo a piedi, percependo
l’alto tasso di inquinamento dell’aria oltre a un gran rumore. Al contrario, pensate a quando siete
dentro un parco, magari a primavera, quando c’è un’esplosione di odori e di colori proveniente dalla
natura rigogliosa. È stato dimostrato come la seconda situazione possa contribuire a ridurre o
cancellare gli effetti della prima.
[Joye e van den Berg] Paradigma della restorativeness = la capacità rigenerante di un luogo,
verificata soprattutto per l’esperienza degli ambienti naturali.
Tra le evidenze empiriche più note sulla restorativeness degli ambienti naturali è da menzionare lo
studio di Ulrich del 1984, il cui disegno di ricerca prevedeva due gruppi appaiati di pazienti operati di
colecistectomia nello stesso ospedale.
L’unica variabile discriminante tra i due gruppi era la visuale sull’esterno dalle loro stanze di
degenza, che per un gruppo consisteva in un muro di mattoni di un edificio, mentre per l’altro gruppo
riguardava un’area verde costituita da alberi. Confrontando le cartelle cliniche dei degenti ricoverati
in stanze con vista sul verde e di quelli con vista sul muro, è emerso che i primi hanno assunto
meno antidolorifici, sono stati dimessi prima e hanno ricevuto valutazioni più positive dagli infermieri.
Un ulteriore studio condotto da Ulrich e colleghi nel 1991 ha fornito evidenza empirica alla teoria del
recupero dallo stress:

Un’altra teoria di riferimento per questo filone di ricerca, che, come la precedente, attribuisce un
significato adattivo all’effetto di rigenerazione degli ambienti naturali, pone invece l’accento sugli
aspetti cognitivi della restorativeness, centrandosi sui pattern di attenzione.
Tale cornice teorica, rappresentata dalla teoria della rigenerazione dell’attenzione (attention
restoration theory, ART) proposta dai coniugi Kaplan nel 1989, postula infatti che la rigenerazione
riguardi una specifica capacità cognitiva, vale a dire l’attenzione diretta che intenzionalmente noi
poniamo per comprendere le informazioni che provengono dal contesto durante la nostra routine
quotidiana (ad esempio, mentre seguiamo una lezione universitaria oppure leggiamo un
documento).
L’attenzione diretta, soprattutto se prolungata, provoca un affaticamento del meccanismo cognitivo,
fino a causarne il suo esaurimento.
Secondo l’ART, il recupero di questo tipo di attenzione avverrebbe attraverso la sollecitazione di un
altro tipo di attenzione, l’attenzione involontaria, che è una risposta automatica favorita
dall’esperienza di fascinazione (fascination), anch’essa tipica del contatto con la natura. Infatti, se
pensiamo di nuovo alle sensazioni che abbiamo provato passeggiando in un parco a primavera, è
probabile che la nostra attenzione sia stata involontariamente catturata da immagini, suoni e odori,
capaci di rilassarci e, secondo l’ART, di farci ricaricare la capacità di attenzione diretta.
L’ART postula l’esistenza di quattro componenti della restorativeness:
o «fascinazione» (fascination), che riguarda la capacità di un ambiente di attrarre l’attenzione
senza sforzo cognitivo;
o l’«essere altrove» (being away), vale a dire il sentirsi lontano dalla routine e dagli obblighi
quotidiani;
o la «compatibilità» (compatibility), che riguarda la congruenza tra i desideri dell’individuo e le
proprietà dell’ambiente;
o lo «scopo» (extent), che ha a che fare con la percezione di coerenza dell’ambiente in
relazione con i propri fini.

RISULTATI: l’esposizione ad ambienti naturali (vs. urbani) favorisce il miglioramento degli indici
fisiologici monitorati dall’inizio alla fine dell’esperimento.
Gli studi confermano gli effetti rigenerativi del contatto con la natura.
•La natura è in grado di favorire anche comportamenti altruistici. Ad esempio, sembra che la
probabilità di segnalare ad un’altra persona che le è caduto un guanto sia maggiore dopo aver
passato un lasso di tempo in un parco [Gueguen e Stefan, 2014];
•La restorativeness influenza, seppur indirettamente, la relazione tra mindfulness e
comportamenti proambientali;
•La presenza di spazi verdi in un luogo promuove il benessere psicologico, l’attività fisica e la
salute psico-fisica delle persone.
3.1. La sfida più complessa: come convincere le persone a cambiare le loro abitudini
insostenibili
Tra i fattori sociopsicologici che orientano le nostre scelte ambientali un ruolo importante è
rivestito dalle ABITUDINI.
L’abitudine riduce l’elaborazione del processo decisionale e converte le azioni future in
comportamenti automatici, permettendo di economizzare le risorse cognitive.

Tale pattern è supportato da un copione (script) cognitivo, che contiene informazioni relative a come
e dove mettere in atto un dato comportamento in modo appropriato data la situazione.
Quando stiamo mettendo in atto un comportamento abituale, possiamo impegnare la nostra mente
per pensare ad altre cose. Per questo motivo, è molto difficile modificare le proprie abitudini.
Quali fattori favoriscono il cambiamento comportamentale e sostengono il consolidamento di
nuove abitudini?
•Evidenziare le conseguenze negative del comportamento attuale e le conseguenze
positive di comportamenti alternativi;
•Promozione di valori proambientali;
•Norme sociali.

3.2. Perché agiamo in modo (in)sostenibile: quando siamo orientati prevalentemente da noi
stessi
Fra le teorie che hanno tentato di identificare le determinanti dei comportamenti (in)sostenibili ce ne
sono alcune basate sulla modellistica aspettativa-valore, vale a dire sulle credenze relative alle
conseguenze dell’azione stessa e al valore attribuito a tali conseguenze, come la teoria del
comportamento pianificato di Ajzen.

Questa teoria ha mostrato di predire una gamma di comportamenti, tra cui quelli proambientali,
soprattutto nei casi in cui le nostre azioni si originano da un’accurata analisi ragionata di pro e
contro, mentre questo non accade per altri tipi di azioni, come quelle abitudinarie che abbiamo visto
prima.
Molti studi hanno dunque utilizzato per spiegare i comportamenti proambientali modelli estesi di
questa teoria, comprendente ad esempio, tra gli altri, proprio il comportamento passato, l’identità,
le norme sociali, le emozioni.
Tuttavia, sono state elaborate altre teorie più legate alle motivazioni connesse al rispetto del proprio
sistema di valori e della propria visione del mondo, come la teoria valore-credenza-norma di Paul
Stern e colleghi.
Rokeach ha definito un valore = convincimento permanente per cui un particolare stile di vita o una
finalità dell’esistenza è preferibile rispetto ad altri stili e finalità.
Essi variano per importanza e priorità e dunque la nostra specifica azione avverrà sulla base del
valore considerato in quel caso più rilevante, mostrando la sua capacità di influenzare intenzioni e
comportamenti proambientali.
Nonostante, infatti, il sistema valoriale sia fondamentalmente stabile, può avvenire un riordinamento
al suo interno, solitamente in seguito all’esperienza personale o all’influenza sociale.
Schwartz ha sviluppato successivamente una tassonomia basata su dieci tipi motivazionali di valori
universali, rintracciabili nelle diverse culture di tutto il mondo: [autodeterminazione, stimolazione,
edonismo, successo, potere, sicurezza, tradizione, conformità, benevolenza e universalismo].
Questi valori possono essere collocati lungo due dimensioni bipolari:
o «importanza di sé/trascendenza da sé», che riflette la distinzione fra valori egoistici e valori
altruistici;
o «apertura al cambiamento/conservazione», che riflette la distinzione tra l’apprezzamento
verso i cambiamenti che possono verificarsi e la volontà di mantenere lo status quo.
In seguito, alcuni studiosi (partendo da Stern) hanno distinto, all’interno dei valori altruistici, quelli
orientati verso le altre persone da quelli orientati alla preservazione dell’ambiente e della natura,
definiti come valori «biosferici».
Vari studi hanno dimostrato come i valori biosferici siano un importante predittore dei comportamenti
proambientali. Nonostante lo influenzino principalmente in maniera indiretta, tramite atteggiamenti,
credenze e norme (vedi cap. 5).
A tale proposito, i comportamenti proambientali presuppongono una forte dose di moralità e
coscienziosità quando vengono messi in atto e, dunque, strettamente connesso al costrutto di
valore, troviamo quello di norma personale (o morale) ⇒ che riguarda le aspettative sul sé,
secondo cui una persona che ha interiorizzato una serie di valori sia portata a rispettare le norme
morali che risultano essere collegate a quegli stessi valori.
Alcuni studiosi intendono le norme personali come norme sociali interiorizzate, che ci guidano
nell’azione distinguendola in giusta o sbagliata, favorendo la comparsa di sentimenti di colpa
quando le disattendiamo o di orgoglio quando le siamo coerenti.
Basandosi sulla teoria dell’attivazione delle norme di Schwartz, volta a predire i comportamenti
altruistici, Paul Stern ha proposto la teoria valore-credenza-norma, per spiegare invece i
comportamenti proambientali.
Tale teoria postula che i valori influenzino il comportamento proambientale attraverso una sequenza
il cui punto di partenza è il possesso di valori altruistico-biosferici, i quali, attraverso un set di
credenze (visione del mondo ecologica, consapevolezza delle conseguenze di un dato
comportamento e attribuzione della responsabilità a sé stessi di poter cambiare le cose),
porterebbero a rendere saliente la norma personale, vale a dire il sentimento di obbligo morale di
attuare quel dato comportamento [Bonnes, Carrus e Passafaro 2006].
3.3. Perché agiamo in modo (in)sostenibile: quando siamo orientati prevalentemente dagli
altri
Immaginate di trovarvi fermi a un semaforo e, nonostante il rosso, di osservare i pedoni accanto a voi
attraversare la strada. Voi cosa fate?

Le norme sociali sono un fattore molto importante nel predire la messa in atto di comportamenti
proambientali [Cialdini, Reno e Kallgren].

Reno, Cialdini e Kallgren dimostrarono sperimentalmente quanto:


le norme descrittive siano capaci di influenzare il comportamento nel contesto in cui vengono
attivate, mentre
le norme ingiuntive appaiono influenti anche in contesti diversi da quello di attivazione.
Sembra infatti che le norme descrittive agiscano comunicando il comportamento appropriato nel
determinato luogo in cui vengono proposte e, di conseguenza, il loro potere si ridurrebbe
drasticamente quando l’individuo si sposta in un luogo differente.
Le norme ingiuntive, viceversa, hanno una valenza trans-situazionale, poiché riguarderebbero la
percezione delle condotte approvate all’interno di una determinata cultura.
Per quanto riguarda la congruenza fra i due tipi di norme, non sempre questa è presente: basti
pensare al comportamento di littering (gettare rifiuti per terra), in cui vi è un’incongruenza fra ciò che
dovrebbe essere fatto (norma ingiuntiva) e ciò che realmente fanno gli altri (norma descrittiva).

Quando un determinato comportamento è indesiderabile non è conveniente evidenziare il fatto che


molte persone lo mettono in atto (norma descrittiva) poiché l’effetto può essere quello di
incrementarlo ulteriormente. L’azione controproducente delle norme descrittive è stata definita
anche come effetto boomerang [Schultz et al.], in quanto le norme descrittive tendono a far
convergere i valori di un certo comportamento, sia esso favorevole o sfavorevole all’ambiente, verso
la media.
Ad esempio, se in un parco la maggior parte delle persone butta i rifiuti in terra e non nei cestini, un eventuale pannello
informativo da parte dell’Ente Parco in merito al fatto che i rifiuti vadano gettati negli appositi cestini (norma ingiuntiva)
potrebbe essere controproducente, se il terreno è pieno di rifiuti, in quanto le persone inferirebbero che la maggior parte
degli altri usano gettare i rifiuti in terra (norma descrittiva).

Se norme ingiuntive e descrittive sono ancorate a uno specifico luogo si parla di norme locali.
3.4. Sviluppi recenti e nuove sfide
Tra i temi che stanno ricevendo crescente attenzione vi è il cambiamento climatico.

Dunque, l’uso dell’uno o dell’altro termine nella comunicazione può costituire una cornice che
orienta le risposte emotive e cognitive (ad esempio, il livello di gravità attribuito al fenomeno) delle
persone, costituendo in tal modo una spinta oppure un ostacolo per la messa in atto di
comportamenti che limitino il nostro impatto ambientale.
Riguardo alla natura delle risposte psicologiche al cambiamento climatico, è utile distinguere tra:

Un elemento recentemente preso in considerazione come potenziale ostacolo alla messa in atto di
comportamenti proambientali è la distanza psicologica.

Riferita a quanto un oggetto di atteggiamento è percepito vicino o lontano dal proprio sé in


termini di, ad esempio, distanza spaziale, temporale, sociale o ipotetica.
Elemento portante della construal-level theory di Trope e Liberman

Un fenomeno come il cambiamento climatico può essere percepito come lontano dal sé in termini
temporali («riguarda altre generazioni»), spaziali(«riguarda altri paesi»), sociali(«riguarda gente
molto diversa da me») o ipotetici («non è ancora stato dimostrato che il fenomeno sia in atto»).

Anche queste credenze possono dunque essere legate a come un messaggio relativo al fenomeno
viene «incorniciato» e comunicato.
Capitolo 13
La psicologia politica
OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO
• Definire l’ideologia politica e comprenderne le basi psicologiche
• Comprendere le origini di tali differenze
• Comprendere gli elementi su cui si basa la percezione dei leader politici
• Comprendere le funzioni e gli effetti della comunicazione politica sugli atteggiamenti degli
elettori

La psicologia politica è un campo fiorente e relativamente recente di indagine nell’ambito della


ricerca scientifica in psicologia sociale, che si propone di comprendere le basi psicologiche, le radici
e le conseguenze del comportamento politico.
La psicologia politica affonda le proprie radici in parte nella psicologia e in parte nelle scienze
politiche, nella sociologia e nell’economia presentandosi, quindi, come ponte tra le diverse discipline
in un’ottica interdisciplinare.
Da un lato la psicologia sociale propone una serie di metodologie e di modelli teorici che ben
possono aiutare e comprendere alcuni fenomeni che riguardano più strettamente la sfera politica;
dall’altro, l’ambito della politica offre alla psicologia sociale un setting ottimale in cui studiare da un
punto di vista applicativo alcuni dei processi cognitivi di base relativi alle interazioni sociali.
Vedi sul libro: QUADRO 13.1. Nuove ideologie: i correlati psicosociali del populismo
1. L’ideologia politica sotto la lente della psicologia sociale cognitiva
Ma che cosa intendiamo per ideologia? Si tratta di uno dei termini più controversi delle scienze
sociali, utilizzato in diverse discipline, come le scienze politiche, la sociologia ma anche la
psicologia.
In ambito psicologico:

rappresenta, quindi, anche


un importante elemento di
identificazione sociale

Nella seconda metà del secolo scorso, si è iniziato a parlare di «fine delle ideologie», a causa di una
mancanza di sostanziali differenze in termini di proposte politiche e di contenuto filosofico fra partiti
di destra e di sinistra [Catellani e Sensales 2011].
Nondimeno, la ricerca scientifica che ruota attorno a questo argomento è stata sempre molto ricca e
oggi, grazie forse anche a nuovi strumenti di indagine, assistiamo a un rinnovato e vivo interesse
nell’esplorazione delle radici profonde dell’ideologia, tanto che John Jost, uno degli autori della
psicologia sociale che maggiormente si è occupato di questo argomento, ha parlato di «fine della
fine delle ideologie» [Jost 2006]. Questa paventata fine sembrerebbe, quindi essere in realtà l’inizio
di un nuovo approccio nello studio di quest’argomento: un approccio più scientifico allo scopo di
capire i correlati e l’origine dell’ideologia.
1.1. L’ideologia politica nella quotidianità, oltre la sfera politica: alcune differenze tra
conservatori e progressisti/liberali
I primi studi hanno indagato le differenze nei profili di personalità.
Se prendiamo in considerazione, ad esempio, il Big Five personality model sembrano esserci due
tratti che emergono correlati all’ideologia politica:

Per le altre tre dimensioni del Big Five, ovvero per i tratti di estroversione, gradevolezza e
nevroticismo, non si osservano invece correlazioni con l’ideologia [Carney et al.]. Tuttavia, questi
dati emergono utilizzando delle misure self-report, che non sempre sono del tutto affidabili.
Per questo motivo, in uno dei primi lavori che ha cercato di esplorare con misure innovative i
correlati dell’ideologia, Carney e colleghi hanno indagato se questi tratti di personalità si riflettano
anche nella vita quotidiana, come ad esempio nella comunicazione non verbale, nello stile
comunicativo e persino nel modo di organizzare i propri ambienti di vita, privati e di lavoro.

È emerso che le stanze dei progressisti/liberali appaiono più colorate e meno tradizionali, poco
ordinate e con una maggiore presenza di elementi legati al viaggio, alla musica e alla lettura (tutti
elementi che possono essere ricondotti all’apertura mentale). Al contrario, i conservatori hanno
solitamente degli ambienti di vita più ordinati, con oggetti decorativi tradizionali e una maggiore
presenza di elementi che aiutano nell’organizzazione, come calendari, raccoglitori e cestini.

Ampia parte della ricerca scientifica si è, inoltre, focalizzata sulle reazioni automatiche nei confronti
delle informazioni con valenza negativa, indagando nello specifico i processi attentivi, le risposte
neurali e fisiologiche, così come le possibili conseguenze nella formazione di atteggiamenti nei
confronti delle minoranze o nell’esplorazione del mondo.
Da questi studi emerge costantemente un negativity bias da parte dei conservatori

tendenza sistematica a prestare un’attenzione selettiva focalizzata sugli


stimoli negativi rispetto agli stimoli positivi.
Dagli studi emergono anche delle differenze anche da un punto di vista fisiologico

Quest’associazione viene spiegata attraverso due vie:

• In riferimento al sistema immunitario comportamentale (l’emozione del disgusto avrebbe la


funzione di facilitare il riconoscimento e il conseguente evitamento di possibili elementi
patogeni prima che entrino in contatto con il proprio corpo). Persone che hanno questo
sistema particolarmente attivo sono quindi caratterizzate da una maggiore sensibilità rispetto
ai potenziali rischi e sembrano adottare in misura maggiore visioni del mondo più
conservatrici come una strategia evolutiva per evitare dei possibili rischi.

• In riferimento alla moralità e nello specifico alla teoria dei fondamenti morali.
Secondo la moral foundations theory, i conservatori valorizzerebbero maggiormente rispetto
ai progressisti/liberali il fondamento chiamato purity, legato alla purezza del corpo e quindi al
pericolo delle possibili contaminazioni [Graham et al. 2011].

Più in generale, secondo la MFT, la moralità di un individuo poggia su cinque pilastri fondamentali:
⇒ CARE
⇒ FAIRNESS
⇒ PURITY
⇒ AUTHORITY
⇒ INGROUP

1.2. Modelli teorici: perché ci sono tali differenze?


Le differenze tra le persone che aderiscono a un’ideologia politica rispetto ad un’altra convergono su
due nuclei principali:

Sostegno vs. Rifiuto del cambiamento Accettazione vs. Rifiuto della disuguaglianza
I conservatori appaiono caratterizzati da atteggiamenti di maggiore accettazione delle
disuguaglianze (teoria della giustificazione del sistema, cap. 4) e da un maggiore attaccamento
alla tradizione con conseguente rifiuto del cambiamento; al contrario, i progressisti/liberali sembrano
accettare meno le disuguaglianze e appaiono più aperti al cambiamento, riuscendo meglio a
tollerare le situazioni incerte e ambigue.
Ma quali sono le motivazioni che stanno alla base di tali diversità? Quali sono i processi?
Negli ultimi due decenni in psicologia sociale si sono affermati due modelli teorici di carattere
cognitivo-motivazionale che hanno cercato di spiegare da un punto di vista psicologico tali
differenze.
• MODELLO DUALE DELL’IDEOLOGIA E DEL PREGIUDIZIO [Dukitte Sibley];
• IDEOLOGIA POLITICA COME COGNIZIONE SOCIALE MOTIVATA [Jost, Federico e
Napier.]
Il modello duale dell’ideologia e del pregiudizio (dual process motivational model of ideology
and prejudice, DPM) proposto da Duckitt e Sibley considera l’ideologia politica come costituita da
due dimensioni indipendenti tra loro:
l’autoritarismo di destra l’orientamento alla dominanza
(right-wing authoritarianism) sociale (SDO).

Come visto nel capitolo 10, questi due orientamenti individuali sembrano predire in modo
sostanziale i diversi livelli di pregiudizio espresso dalle persone verso un ampio numero
di outgroup (ad esempio, le minoranze etniche). Nell’ambito della psicologia politica, l’indagine
sulla struttura degli atteggiamenti e dei valori sociopolitici e socioculturali ha spesso evidenziato
l’esistenza di queste due dimensioni relativamente ortogonali. Il DPM mira a spiegare come, oltre
al pregiudizio, anche l’orientamento politico sia l’anello finale di una catena di relazioni causali che
ha origine nelle dimensioni di personalità, nelle motivazioni e negli atteggiamenti sociali

Secondo questo modello, determinati tratti di personalità, insieme a determinate pratiche di


socializzazione, così come di esposizione a certi contesti ambientali, possono essere all’origine di
una certa «visione del mondo» da parte di una persona.

Questa visione del mondo può essere di due tipi:


1. visione del mondo come pericoloso, considerata un antecedente dell’RWA;
2. visione del mondo come una giungla competitiva, considerata un antecedente
dell’SDO.

Queste due visioni del mondo sono, quindi, alla base di scopi motivazionali e credenze propri di
RWA e SDO, che a loro volta possono aiutare a spiegare particolari tipi di atteggiamenti positivi o
negativi nei confronti del proprio ingroup o dell’outgroup, fino ad arrivare a spiegare forme di
pregiudizio verso determinati gruppi sociali.
Il secondo modello che viene preso in considerazione è quello proposto da John Jost, che descrive
l’ideologia politica come cognizione sociale motivata= funzionale all’individuo per rispondere a
determinati bisogni e motivazioni.
Jost, Federico e Napier parlano di bisogni epistemici esistenziali e relazionali:

L’ideologia politica può ridurre le percezioni soggettive di INCERTEZZA mettendo a disposizione


credenze stabili e chiare e fornendo un sistema di riferimento per orientarsi nella quotidianità
[motivazioni epistemiche];
L’ideologia politica può ridurre le percezioni soggettive di MINACCIA E PAURA di diversa natura,
come, ad esempio, minacce di tipo culturale, sociale ed economico [motivazioni esistenziali];
L’ideologia politica può rispondere al BISOGNO DI AFFILIAZIONE degli individui e permette di
stabilire relazioni interpersonali, solidarietà con gli altri e offrire una realtà condivisa [motivazioni
relazionali/affettive].
Per questo i conservatori valutano il conformismo, la tradizione, la fedeltà al proprio gruppo di
appartenenza più positivamente dei progressisti/liberali, in quanto nutrono un bisogno maggiore di
ottenere una visione condivisa della realtà. In conclusione, quindi, l’ideologia politica conservatrice
sembra rispondere a questi tre bisogni offrendo alle persone certezza, sicurezza e solidarietà.
Tutte queste motivazioni si basano su differenze individuali ma possono essere anche innescate da
fattori situazionali. Alcuni studi sperimentali hanno dimostrato che manipolando la salienza della
mortalità (cioè chiedendo ai partecipanti di pensare alla propria morte) o la salienza del terrorismo,
le opinioni politiche delle persone e le loro preferenze tendono a spostarsi verso il conservatorismo,
a causa di un aumento dei bisogni esistenziali.
1.3. Origine e sviluppo dell’ideologia
Due fonti principali influenzano lo sviluppo dell’ideologia:
a) Fattori genetici;
b) Fattori legati all’ambiente condiviso di socializzazione;
A) Fattori genetici
A sostegno dell’importanza della componente genetica sono stati condotti degli studi interessanti
coinvolgendo gemelli omozigoti e dizigoti, cioè gemelli con una componente genetica condivisa
maggiore o minore. Sono stati indagati i loro pensieri riguardo alcune tematiche sociali e culturali e
sono emerse delle correlazioni maggiori tra i gemelli omozigoti [Alford, Funk e Hibbing 2005].
Ci sono anche dei dati riguardo le strutture cerebrali, come ad esempio l’amigdala destra che
appare essere di dimensioni maggiori nei conservatori rispetto ai progressisti/liberali. Interessante
sottolineare che tale regione è primariamente coinvolta nelle risposte fisiologiche e comportamentali
alla paura e si collega quindi a quanto visto in relazione al negativity bias. È utile, tuttavia,
sottolineare che si tratta di studi correlazionali, che non sono quindi in grado di indicare la relazione
causale tra le variabili studiate.
Per rispondere a queste domande è quindi molto importante adottare anche un approccio
longitudinale, come nello studio condotto presso l’Università di Berkeley in California [Block e Block]

Tuttavia, anche questo tipo di studi presenta diverse criticità e non riesce a indicare in modo chiaro
e univoco quali fattori siano coinvolti nello sviluppo che predicono poi determinate ideologie
politiche.
B) Fattori legati all’ambiente condiviso di socializzazione
Per quanto riguarda l’ambiente condiviso di socializzazione, la maggior parte della ricerca si è ad
oggi focalizzata principalmente sull’ambiente familiare, concentrandosi soprattutto sulle somiglianze
tra genitori e figli.
Queste ricerche hanno coinvolto prevalentemente giovani adulti o adolescenti (come figli), partendo
dall’ipotesi che l’orientamento sociopolitico di una persona si manifesti e si cristallizzi solamente a
quell’età. Studi longitudinali confermano forti correlazioni tra genitori e figli.
Un aspetto particolarmente interessante e recente della ricerca in questo settore è l’indagine di
queste relazioni già in bambini di tenera età, allo scopo di capire anche quando si manifestano certe
tendenze o preferenze che possono essere quindi considerate come dei precursori dell’ideologia
politica di una persona. Se pensiamo che certe differenze tra conservatori e progressisti/liberali
emergono nella quotidianità, è facile pensare che anche bambini molto piccoli siano particolarmente
esposti a particolari tipi di preferenze e atteggiamenti da parte dei loro genitori. Si può, quindi,
ipotizzare che anche prima di una vera e propria condivisione verbale di certi contenuti, nell’ambito
familiare ci possa essere una sorta di socializzazione politica, che avviene attraverso il canale
comunicativo non verbale. Alla luce di questa consapevolezza, recentemente sono stati condotti
degli studi che hanno preso in considerazione bambini in età prescolare e i rispettivi genitori,
suggerendo come già in età prescolare si possano riscontrare nei bambini diversi bisogni epistemici
esistenziali, relazionali, ma anche diversi livelli di sensibilità alla convenzionalità e allo status degli
adulti in funzione dei livelli di SDO e RWA dei genitori [Guidetti, Carraro e Castelli 2017].
Tutti questi dati mostrano in generale che le differenze psicosociali e neurali associate alle opinioni
politiche dei genitori possono essere rilevate in tenera età, molto prima dello sviluppo di credenze
politiche sofisticate, suggerendo quindi che una predisposizione psicologica ad abbracciare alcune
opinioni politiche sia già presente in età prescolare. Tuttavia, è importante sottolineare nuovamente
come questi siano dati ottenuti da studi correlazionali, che potrebbero riflettere sia elementi reali di
socializzazione, sia somiglianze che emergono per una componente genetica condivisa all’interno
dell’ambiente familiare.
2. La percezione dei leader politici
Per un elettore, scegliere quale partito o candidato votare dovrebbe rappresentare un compito
estremamente complesso.
Raramente però, la scelta di voto è il prodotto di un ragionamento così approfondito e articolato;
tendono piuttosto ad operare la loro scelta di voto focalizzandosi su alcuni criteri e
tralasciandone altri, ritenuti poco rilevanti o troppo complessi.
A partire dagli anni Ottanta un numero crescente di ricerche ha indagato empiricamente uno di
questi criteri, ovvero l’impressione che gli elettori si fanno dei candidati.
La ricerca sulle scelte elettorali (di matrice principalmente politologica e sociologica), fino agli anni
Ottanta si era interessata soprattutto delle caratteristiche socioeconomiche degli elettori (ad
esempio, ceto sociale, professione, provenienza geografica) e della dimensione ideologica ed
economica del voto. L’idea prevalente era, infatti, che la maggior parte degli elettori scegliesse chi
votare orientandosi in base alle grandi divisioni ideologiche e sociali.
Una ricerca di Miller, Wattenberg e Malanchuk [1986] prese in esame i dati raccolti da una serie
storica di rilevazioni elettorali condotte dall’Università del Michigan in occasione delle elezioni
presidenziali americane tra il 1952 e il 1984. All’interno di queste rilevazioni, insieme a numerose
domande sulle opinioni dei partecipanti riguardo i principali temi politici ed economici erano presenti
anche alcune domande aperte nelle quali veniva chiesto loro di fornire un commento sui candidati
alla presidenza.
Analizzando queste risposte aperte, è emerso che gli elettori sembravano essere interessati
soprattutto a chi erano i candidati, al loro background personale e alle loro caratteristiche di
personalità, piuttosto che alla loro appartenenza politica.
Questa tendenza era pressoché costante, con qualche fluttuazione, lungo tutto l’arco temporale
preso in analisi (32 anni e 9 elezioni presidenziali). Tale interesse, inoltre, non era limitato agli
elettori meno istruiti e informati, ma era presente in misura simile anche tra quelli con più alto titolo
di studio e maggiormente interessati alla politica. Questa ricerca e molte ricerche successive, hanno
quindi dimostrato che gli elettori fanno spesso ricorso all’euristica del candidato, utilizzandola
come semplice scorciatoia per risolvere un problema altrimenti complesso come la scelta di voto.
Come si formano, tuttavia, le impressioni degli elettori sui politici?
Raramente i cittadini possono incontrare faccia a faccia i candidati e avere una conversazione con
loro, come accade invece quando ci si forma un’impressione su un conoscente o un collega di
lavoro.
La ricerca sulla percezione sociale suggerisce che le persone osservano il comportamento degli
altri e inferiscono da esso un giudizio basato su poche dimensioni principali (vedi cap. 3).
La percezione dei politici, avvenendo «a distanza» tramite la comunicazione politica, tende a essere
ancora più semplificata e a concentrarsi sugli elementi percettivi e comportamentali che sono
funzionali a inferire quello che può esserci utile conoscere su di loro.
Molte ricerche hanno cercato di capire quale aspetto possa essere più importante agli occhi degli
elettori e in grado di predire il successo elettorale dei candidati.

La stessa procedura è stata utilizzata per esperimenti analoghi in diversi paesi, inclusa l’Italia
[Castelli et al. 2009], con diversi contesti politici e sistemi elettorali e i risultati hanno generalmente
confermato quelli americani, mostrando così che le impressioni sulla competenza dei candidati
basate sui pochi indizi forniti dal loro aspetto fisico erano un affidabile predittore del successo dei
candidati stessi alle elezioni.

Questi risultati non significano, ovviamente, che l’aspetto fisico e la percezione di competenza siano
l’unico elemento che conta nelle valutazioni di tutti gli elettori. Nei contesti elettorali reali gli elettori
hanno a disposizione molte più informazioni sui candidati di quante ne possa veicolare una singola
foto e i loro giudizi sono influenzati da molti più elementi sia di tipo politico (i loro partiti di
appartenenza, la loro posizione sui temi politici più rilevanti), sia di tipo comunicativo (la copertura
da parte dei mezzi di comunicazione tradizionali e dei social media, quello che gli altri politici, i
giornalisti e i cittadini dicono di loro).
Un fattore rilevante nel peso attribuito alle diverse dimensioni della valutazione dei candidati sembra
essere inoltre l’orientamento ideologico degli elettori. Alcune ricerche hanno mostrato, infatti, che tra
gli elettori di destra la dimensione della leadership è considerata più rilevante nel giudizio sui
candidati, mentre tra gli elettori di sinistra sono le dimensioni della socievolezza e della moralità a
essere ritenute più importanti [Caprara et al. 2007].
Secondo gli autori, questa differenza potrebbe ricalcare le differenze di personalità degli elettori con
i rispettivi orientamenti politici: in altre parole, gli elettori cercherebbero candidati che
li rappresentano non solo in termini di valori, orientamenti e atteggiamenti sui temi politici, ma anche
a livello di tratti di personalità.
3. La comunicazione politica e i suoi effetti
Un altro tema particolarmente studiato nell’ambito della psicologia politica è quello della
comunicazione e più nello specifico della comunicazione negativa, cioè il ricorso da parte di partiti
e candidati a messaggi volti a screditare e mettere in cattiva luce i propri avversari [Lau, Sigelman e
Rovner 2007].
Questo tipo di messaggi è stato studiato inizialmente soprattutto nel contesto americano, dove è
molto comune che i candidati costruiscano vere e proprie campagne per attaccare i candidati rivali
(vedi libro: QUADRO 13.2. Campagne negative famose).
Diverse ricerche hanno però mostrato che anche in altri paesi i messaggi negativi sono assai
frequenti nel discorso politico, anche se in maniera meno evidente e «istituzionale». Negli ultimi anni
poi le nuove tecnologie e i social network hanno dato ulteriore impulso a questo tipo di
comunicazione, rendendo le campagne politiche ancora più negative e polarizzate.
Data la crescente frequenza e rilevanza delle campagne negative, un quesito che la psicologia
politica si è posta è: quanto questi attacchi siano efficaci?
Le ricerche su questo argomento, tuttavia, hanno fornito risultati spesso contrastanti, mostrando che
a volte i messaggi negativi riescono a cogliere nel segno e mettere in seria difficoltà i politici
attaccati, altre volte, invece, non ottengono tali risultati e altre volte ancora possono addirittura
rivelarsi controproducenti e danneggiare il giudizio degli elettori sulla fonte dell’attacco stesso
[ibidem]. Tale discrepanza nei risultati ha spinto a considerare diversi fattori di tipo cognitivo e
comunicativo che possono entrare in gioco nel determinare il successo di una campagna negativa.

L’uso che le persone fanno delle informazioni che ricevono dalla comunicazione politica è l’altro
fattore principale che può favorire o limitare l’efficacia degli attacchi politici.

• Gli elettori, infatti, non recepiscono passivamente quello che viene loro detto dai politici e
sui politici, ma sono solitamente in grado di stabilire che peso dare alle informazioni che
ricevono.
• Gli elettori, inoltre, possono anche fare inferenze disposizionali sulla fonte di un attacco, per
esempio percependola come aggressiva, scorretta o inaffidabile.
Il risultato finale di questo doppio processo di «pesatura» delle informazioni negative sul politico
attaccato e di interpretazione dell’intenzione comunicativa del politico che attacca può essere quello
che è stato definito effetto backlash [Carraro, Garwonski e Castelli 2010], cioè un sostanziale
danno all’immagine della fonte dell’attacco, in quanto il suo contenuto si ritorce contro la fonte che lo
ha pronunciato.
Questo pericolo naturalmente non sfugge ai politici, che a volte cercano di delegare ad altri questo
compito, oppure di attaccare gli avversari in modo indiretto, dando l’impressione di fare un
ragionamento obiettivo e neutrale. Alcune ricerche hanno mostrato che gli attacchi così dissimulati
possono talvolta passare relativamente inosservati e, quindi, avere una maggiore probabilità di
danneggiare la reputazione del destinatario e minore effetto boomerang per la fonte.
Alcune strategie efficaci: mescolare commenti negativi a commenti positivi, oppure nel presentare le
critiche in forma ipotetica, come innocenti considerazioni su come le cose sarebbero potute andare
meglio se solo il politico attaccato si fosse comportato in un altro modo [Catellani e Bertolotti 2015].
Campagne negative 2.0: le fake news
Lo sviluppo di internet e dei social network ha creato molte nuove opportunità per la comunicazione
politica, fornendo anche nuovi strumenti a chi si occupa di creare campagne negative.
Uno strumento molto efficace per attaccare gli avversari politici (e molto pericoloso per la
democrazia) sono le fake news= notizie inesatte, scorrette e spesso completamente inventate che
vengono diffuse online al fine di disinformare il pubblico.

Rispetto alla tradizionale propaganda politica e agli attacchi diffusi sui mezzi di comunicazione come
giornali, radio e TV, le fake news sfruttano la condivisione dei singoli utenti che le leggono e le
condividono con i propri amici e conoscenti su Facebook, Twitter e gli altri social network.
Diffondendosi in questo modo «virale» le fake news possono raggiungere un gran numero di
persone prima di essere intercettate e riconosciute come notizie inesatte o vere e proprie bufale. A
quel punto però solo una parte degli utenti che le avevano lette possono essere raggiunti dalla
smentita.

Aspetto interessante dal punto di vista psicologico, non è detto che le persone cambino idea: è
molto difficile cambiare un atteggiamento una volta che si è formato! Una ricerca americana
[Thorson 2016] ha analizzato questo fenomeno, detto effetto di persistenza, nell’ambito delle fake
news politiche.

L’effetto di persistenza delle fake news sembra essere associato anche al


bias di conferma: quando una notizia conferma le nostre opinioni negative
su qualcuno, siamo facilmente disposti a crederci e, soprattutto,
difficilmente disposti a cambiare idea anche quando la notizia si rivela
falsa.
La ricerca psicologica ha individuato alcune strategie difensive utilizzate dai politici per:
(a) ridimensionare la gravità di un evento
(b) gestire a proprio favore l’attribuzione di responsabilità dell’evento.
3.3. La comunicazione sui temi politici e gli effetti di framing
Anche se a volte può sembrare così, la comunicazione politica non è limitata a quello che i politici
dicono di sé stessi e dei propri colleghi, ma riguarda anche molti altri temi che attraversano il
dibattito pubblico e sui quali gli elettori cercano una corrispondenza tra le proprie visioni, credenze e
valori e le proposte dei partiti e dei candidati.

Come succede per la formazione e gestione delle impressioni sui candidati, il modo in cui eventi e
proposte vengono presentati nel dibattito politico può avere notevoli effetti sulle decisioni degli
elettori riguardo a quale partito votare, o se sostenere o meno una proposta.
Un aspetto molto studiato di questo processo nell’ambito della comunicazione politica è
il framing delle notizie e dei messaggi.
Inserimento di una notizia, un fatto, o una proposta politica all’interno di una cornice di riferimento (detta in
inglese appunto frame) che ne delimita e allo stesso tempo definisce il significato.

La stessa informazione, inserita in frames diversi, può assumere connotazioni e significati diversi,
poiché il contesto nel quale viene presentata porta le persone a dare più o meno peso ad alcuni
aspetti rispetto ad altri e a intrepretarli secondo gli schemi suggeriti dal frame di riferimento.
Attraverso il framing i politici, i partiti e i mezzi di comunicazione forniscono così al pubblico delle
chiavi di lettura, solitamente funzionali alla propria posizione sul tema.
A partire dai risultati di ricerche condotte in ambiti come quello della decisione economica e della
promozione della salute, è poi emerso che la formulazione positiva o negativa dei messaggi può
influenzare in modo sostanziale il modo in cui le persone valutano gli scenari che vengono loro
presentati.
Alcune persone sembrano essere più facilmente persuase dalla prima formulazione e quindi
da frames positivi, di guadagno o di approccio. Altre persone, invece, sono più facilmente convinte
dalla seconda formulazione, cioè da frames negativi, di perdita o di evitamento. L’efficacia di queste
due tipologie di comunicazione dipende infatti dalla corrispondenza tra il frame usato nei messaggi e
alcune caratteristiche personali del pubblico, un effetto conosciuto come regulatory fit.

Le persone con focus regolatorio prevalentemente di promozione sono più


facilmente persuase da messaggi con frame positivo; le persone con focus regolatorio
di prevenzione, sono più facilmente persuase da messaggi con frame negativi.

Una ricerca di Mannetti e colleghi [2013] ha analizzato l’effetto persuasivo della corrispondenza tra
il framing di due messaggi su temi politici di una certa rilevanza, come ad esempio l’energia
nucleare e il focus regolatorio di promozione o prevenzione dei partecipanti.

Attraverso un frame efficace le proposte dei candidati e dei partiti possono essere adattate agli
orientamenti dei diversi elettori, rendendole così più appetibili.

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