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Le evoluzioni del pensiero psicologico

Strutturalismo, comportamentismo e psicologia della Gestalt

Come siamo arrivati ad una certa concezione di organizzazione e di persona all’interno dell’organizzazione (detta
“risorsa umana”)?
L’utilizzo del termine “risorsa” ci fa capire che si è sviluppata una certa idea di uomo all’interno dell’organizzazione
che ha trovato la sua espressione massima nella seconda Rivoluzione Industriale, quando il modello organizzativo
dominante è diventato quello Taylor Fordista. Quindi, produzione industriale di massa con una procedura ancora
più specifica dei compiti affidati all’operatore. L’idea di fondo di Taylor era di efficientismo organizzativo, ma
anche di una riforma sociale. Lavorare ad un’organizzazione scientifica del lavoro avrebbe permesso di liberare
l’operatore dall’arbitro del capo. Questa concezione progressista la troveremo sempre nell’evoluzione
dell’organizzazione, con tutte le ambiguità del caso, perché ad un certo punto la centralità della persona per un suo
diritto potrebbe entrare in conflitto con quello che è l’interesse dell’imprenditore.
Non a caso, nella seconda metà del ‘800, una delle risposte più significative all’affermazione di questa concezione
organizzativa è stato l’intervento di Marx, il quale scrive una economia in cui gli interessi (o “classi”) sono
inevitabilmente conflittuali. Nell’ambito dell’organizzazione, l’impostazione marxista ha fatto da contro altare
all’impostazione Taylor Fordista.
Dagli anni ‘50 del secolo scorso in poi, le relazioni sindacali sono state centrate sull’idea che ci fosse un conflitto
inevitabile tra gli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro. Questa idea oggi non è trascurabile.
L’evoluzione del pensiero dalla fine del XIX secolo in poi si intreccia con un altro dominio, a cui verrà dato il nome di
“Psicologia” che prende il via nella seconda metà del ‘800 e riguarda il funzionamento interno dell’essere umano e il
rapporto tra questo funzionamento e il suo comportamento.
Cosa cambia nella seconda metà del XIX secolo? Cambia il metodo, cioè si inizia a pensare che anche all’ambito
interno dell’essere umano si potesse applicare il metodo delle scienze naturali. Charles Darwin apre una prospettiva
nuova nel tentativo di comprendere la natura dell’uomo. C. Darwin, che era un biologo, iniziò a fare delle
osservazioni sistematiche (metodo base delle scienze naturali) accorgendosi che l’idea diffusa nel pensiero comune
fino a quel periodo (ovvero che il “racconto della creazione” dovesse essere inteso in senso letterale) non era tanto
corretta. Scopre l’esistenza dell’evoluzione, cioè il cammino che ha portato gli esseri viventi a modificarsi nel tempo.
L’evoluzionismo quindi si trasforma da una teoria in ambito biologico in una concezione filosofica dell’umanità.
La psicologia come scienza dell’anima entra in crisi. Nel 1879 Wilhelm Wundt fonda a Lipsia il laboratorio di
psicologia sperimentale, perché oltre all’osservazione sistematica, le scienze naturali hanno come fondamento
metodologico anche l’esperimento. Per Wundt l’osservazione sistematica si può fare attraverso il metodo
introspettivo: analisi dettagliata delle sensazioni e delle emozioni associate a un'esperienza specifica. L'obiettivo
sarebbe di descrivere le percezioni, le emozioni e i pensieri che emergono durante questo processo, consentendo a
Wundt di esaminare gli elementi più elementari della coscienza umana.
Questo metodo venne criticato da più fronti:
1. Gestaltismo (da “gestalt”, che significa forma): la percezione si può ingannare facilmente. Non posso conoscere
la realtà semplicemente scomponendola nei suoi elementi, perché la realtà è una forma, è un qualcosa che ha
significato a seconda di come la interpreto. “Il tutto è di più della somma delle parti”.
2. Comportamentismo: considerava la coscienza e i processi mentali difficili da misurare oggettivamente. Gli
psicologi comportamentisti sostenevano che la psicologia dovesse concentrarsi solo su comportamenti osservabili
e misurabili, piuttosto che su processi interni difficili da definire in modo coerente. Il comportamentismo ha
enfatizzato l'importanza dell'osservazione diretta del comportamento esterno, rifiutando l'uso di introspezione
affermando che non era scientifica e mancava di validità e affidabilità.
• Burrhus F. Skinner: esponente del comportamentismo radicale che, contrariamente all'approccio introspettivo,
ha enfatizzato l'importanza degli stimoli ambientali e delle risposte comportamentali osservabili. Egli ha
introdotto il concetto di rinforzo, sostenendo che i comportamenti seguiti da conseguenze positive sono più
propensi a ripetersi. La sua visione meccanicistica del comportamento umano ha tuttavia suscitato critiche,
poiché ignora gli aspetti cognitivi e interni della mente.
• John Watson: sostiene che la mente è una “black box” perciò non è possibile conoscerla perché non si vede.

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3. Taylor Fordismo: viene associato ad un approccio meccanicistico e standardizzato al lavoro, in contrasto con
l'approccio più introspettivo di Wundt alla comprensione dell'individuo e dei processi mentali. La critica
principale potrebbe derivare dalla riduzione dell'individuo a una macchina efficiente e ripetitiva, escludendo
aspetti complessi della mente e dell'esperienza umana.

La psicologia cognitiva

Il passaggio dal comportamentismo al cognitivismo nella storia della psicologia rappresenta un cambiamento
significativo nelle prospettive teoriche e nell'approccio allo studio della mente umana.
Il comportamentismo si concentrava sullo studio del comportamento osservabile, escludendo aspetti interni della
mente. Tuttavia, durante gli anni '50 e '60, emersero insoddisfazioni riguardo a questa visione restrittiva della
psicologia.
Il cognitivismo emerse come risposta a queste limitazioni, focalizzandosi sullo studio dei processi mentali interni,
come memoria, pensiero e risoluzione dei problemi. Tra l’input e l’output c’è un percorso misterioso che cambia la
situazione, questa cosa si chiama “elaborazione”. Come nei computer, nella mente umana c’è un processo di
“Human Information Processing”: input e output sono gli stessi, quello che cambia è il software. Il cognitivismo ha
ampliato il campo della psicologia, portando alla nascita di sottocampi come la psicologia cognitiva, che si occupa
dello studio dei processi mentali.
C’entra con il tema del lavoro? Si, molto. I lavori di gruppo, la collaborazione o il conflitto sono dinamiche
totalmente centrate sulla nostra modalità di conoscenza della realtà.

La psicoanalisi
La psicoanalisi è nata grazie al lavoro di Sigmund Freud che sviluppò questa teoria e approccio terapeutico alla fine
del XIX. Uno dei percorsi che portarono alla creazione della psicoanalisi fu l'esplorazione di Freud nell'uso
dell'ipnosi. Inizialmente, Freud utilizzò l'ipnosi come un metodo per trattare pazienti con disturbi psicologici.
Tuttavia, successivamente si allontanò dall'ipnosi, sviluppando la tecnica dell'associazione libera e la teoria del
complesso edipico. L'associazione libera coinvolgeva i pazienti che parlavano liberamente senza censurare i propri
pensieri, permettendo a Freud di esplorare i processi mentali inconsci. Quindi, mentre l'ipnosi ha influenzato
inizialmente le indagini di Freud, la psicoanalisi si è evoluta in un approccio unico, incentrato sull'indagine degli
aspetti inconsci della mente umana attraverso il dialogo e l'interpretazione simbolica.
I tre capisaldi del pensiero Freudiano sono:
1. Esistenza dell’inconscio: c’è una parte nella nostra mente che noi non conosciamo, perché è inaccettabile.
Questo ha molto a che fare con il sesso e con la morte: non posso accettare di avere delle pulsioni lipidiche e
distruttive; perciò, le seppellisco in una parte remota dove però continuano ad esserci e quando non riesco più a
gestirle, si rompe tutto.
2. Pulsioni: ci sono due coppie di pulsioni fondamentali che sono piacere-dolore (il nostro agire è finalizzato
all’ottenimento del piacere e all’evitamento del dolore) e vita-morte (l’essere umano è fatto per dare la vita, ma
spesso esercita il suo potere dando la morte).
3. Struttura della psiche: la mente ha una struttura evolutiva: alla nascita il bambino è esclusivamente energia
pulsionale, col progredire della sua crescita attraversa alcune fasi che permettono all’Io di strutturarsi secondo una
modalità socialmente accettabile, sviluppando al contempo una coscienza morale che terrà a freno le pulsioni
inconsce ingovernabili.
La civiltà richiede la rinuncia a certi impulsi istintivi, perché questo conflitto tra il desiderio individuale e le norme
sociali può portare a un "malcontento". Freud esplora come la cultura e la società siano modellate dalla necessità di
controllare gli impulsi umani, portando a una complessa interazione tra l'individuo e la civiltà.

Le neuroscienze
L'obiettivo delle neuroscienze è approfondire la comprensione del cervello e del sistema nervoso per contribuire a
trattare disturbi neurologici e psichiatrici, migliorare la salute mentale e comprendere meglio la natura dei processi
cognitivi e del comportamento umano.

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La psicologia positiva
La psicologia positiva è un ramo della psicologia che si concentra sullo studio e sulla promozione degli aspetti
positivi della vita umana. A differenza di molte altre tradizioni psicologiche che si concentrano su disturbi mentali o
problematiche, la psicologia positiva cerca di comprendere e favorire la felicità, il benessere e le qualità che portano
a una vita appagante. La psicologia positiva mira a fornire strumenti pratici e strategie per migliorare la qualità della
vita e promuovere uno stato di benessere psicologico.

Il lavoro: storia, organizzazione, psicologia

Che cos’è la psicologia e perché è utile nell’HR Management?


In ogni organizzazione sono presenti due dimensioni differenti: la struttura e gli ingranaggi. L’organizzazione, da
questo punto di vista, è una macchina con l’anima. Per farla funzionare al massimo, dobbiamo avere in mente come
funzionano le risorse che la caratterizzano e quindi le persone.
Alcuni elementi che provengono dallo sviluppo della psicologia negli ultimi 150 anni sono:

1. Elementi di razionalità e irrazionalità: c’è una dimensione della persona che non risponde alle regole della
logica, ma ha a che fare con le emozioni, gli istinti e le pulsioni.

2. I nostri comportamenti derivano da come noi conosciamo, percepiamo e interpretiamo la realtà. La psicologia
cognitiva ci dice quali sono i meccanismi attraverso cui l’essere umano conosce la realtà in cui si muove. Sono
stati individuati dei meccanismi di semplificazione della conoscenza della realtà, le euristiche, che ci
consentono di abbreviare i tempi di conoscenza e di massimizzare l’efficienza. Il problema di queste scorciatoie
di pensiero è che sono soggette ad errori. La realtà così come da noi è conosciuta, soffre di deficit interpretativi
per due motivi:
• Ci sono così tante cose che per la nostra mente è impossibile tenerle tutte sotto controllo. Ciò fa sì che
rinunciamo a una parte delle informazioni presenti nella realtà per velocizzare il nostro comportamento. Per fare
questo, facciamo ricorso a delle euristiche che portano con sé il rischio di sbagliare.
• Ci sono una serie di stimoli che vengono elaborati così velocemente da non avere la necessità di una riflessione,
perché si sono organizzati in percorsi che li trasformano in un automatismo.

3. Mi muovo nella realtà anche in relazione all’idea che ho di me. Conoscere sé stessi è necessario per l’azione (ex.
se mi affidano un compito che non credo di saper svolgere, il mio impegno sarà maggiore).

4. Le organizzazioni sono sistemi di relazione che permettono di trasferire le informazioni tra i diversi membri in
modo da costruire un qualcosa che risponde agli scopi dell’organizzazione stessa (ex. metafora della macchina:
gli ingranaggi per far funzionare la macchina devono girare. Anche nell’ambito organizzativo la conoscenza del
funzionamento delle persone ci permette da un lato di far funzionare al meglio gli ingranaggi, dall’altro rimuovere
gli ostacoli a questo movimento).

Quali sono i contributi che porta la psicologia nell’ambito delle risorse umane?
1. Motivare
2. Sviluppare competenze: è necessario sapere, saper fare e saper essere. Le organizzazioni chiedono aiuto alla
psicologia per sviluppare e mantenere le competenze delle proprie risorse umane.
3. Scegliere: chi guida deve continuamente prendere delle decisioni e operare delle scelte. Come facciamo a
prendere le decisioni più corrette? È utile conoscere quali sono le principali strategie che gli esseri umani mettono
in campo nei confronti della loro relazione con l’ambiente, ma anche quali sono i rischi che si possono presentare.
4. Guidare
5. Facilitare le relazioni: le organizzazioni chiedono aiuto alla psicologia per comprendere le dinamiche di
relazione e per ottimizzarle.

Per sviluppare la competenza nell’ambito di gestione delle risorse umane, è necessario fare una premessa di metodo,
relativa a qual’è l’idea di persona che proponiamo all’interno del nostro percorso formativo. Questo per due motivi:
1. Il metodo viene costruito sulle caratteristiche dell’oggetto. Se l’oggetto sono le persone, dobbiamo avere un’idea
di quali siano le loro caratteristiche per costruire i metodi più efficaci allo scopo di aiutarle.
2. L’antropologia si occupa di dire cos’è l’uomo e assume attributi differenti a seconda degli strumenti che utilizza.

Quali sono le linee proposte rispetto alla visione dell’uomo?


1. L’uomo è un soggetto comunitario: la natura relazionale dell’uomo si esprime anche nei contesti di lavoro.
Perciò, l’organizzazione ha una dimensione meccanica, ma anche una dimensione comunitaria.

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2. L’uomo è un soggetto che naturalmente è portato a occuparsi degli altri uomini: da quando nasce a quando
muore ha la necessità di essere curato.
3. Dato che l’organizzazione porta in sé non solo la dimensione meccanica, ma anche quella comunitaria, è un
luogo in cui è necessario curare le persone.
Queste tre premesse ci portano a ipotizzare che la responsabilità della funzione aziendale HR sia la cura delle persone
che lavorano.
Quando parliamo di HR Management ci riferiamo a due cose diverse:
1. Parte dell’attività manageriale che riguarda le persone (ex. sono il capo di un gruppo di lavoro, quindi mi sono
state affidate un gruppo di persone da gestire);
2. Funzione aziendale che si occupa degli aspetti di funzionamento delle risorse umane all’interno dell’azienda.
Le aree di interesse sono le stesse, c’è una differenza: nella prima accezione la gestione delle risorse umane è un ruolo
cooperativo (gestisco le HR perché sono lo strumento attraverso cui arrivo al mio obiettivo); nella seconda accezione,
invece, la funzione delle HR ha un ruolo consulenziale (il direttore del personale non è il responsabile delle persone,
ma di come funzionano le persone all’interno di quell’azienda). In un terzo caso, il direttore del personale di
un’azienda è il capo delle persone che lavorano nel personale.

Lineamenti di antropologia organizzativa

L’organizzazione come comunità di persone che lavorano


Nelle relazioni tra gli uomini è intrinseca una dimensione di legame, e il legame per sua natura è faticoso: porta con sé
delle reciproche obbligazioni. Tuttavia, dall’altra parte il legame porta ad un vantaggio: lavorando insieme è possibile
raggiungere obiettivi altrimenti non perseguibili individualmente.
La prospettiva di considerare un'organizzazione come una comunità di persone che lavorano riflette un approccio più
orientato verso il lato umano e sociale dell'ambiente lavorativo. In questa visione:
1. Comunità: indica un senso di appartenenza e condivisione di valori tra i membri dell'organizzazione. Ciò può
favorire un clima di fiducia, collaborazione e supporto reciproco.
2. Persone: mette in primo piano l'importanza degli individui all'interno dell'organizzazione, che portano talenti,
prospettive e contributi unici.
3. Lavoro: diventa un elemento che unisce la comunità, con un focus non solo sugli obiettivi aziendali, ma anche
sulle esperienze individuali e collettive nello svolgere compiti e raggiungere risultati.

L'origine delle organizzazioni può essere fatta risalire all’ambito militare. L'organizzazione come la conosciamo oggi
deve molto ai principi sviluppati in contesti militari, dove la necessità di coordinare attività complesse e risorse ha
stimolato la creazione di strutture organizzative efficienti.
In questo modello di organizzazione, la disciplina e l’uniformità sono degli elementi fondamentali. Il meglio
dell’organizzazione militare in ambito civile è il Taylor-Fordismo, in cui ognuno ha il suo compito e c’è un solo
modo giusto per fare le cose (ex. per ottimizzare il processo ti addestro per garantire il risultato, esattamente come un
soldato viene addestrato a smontare e rimontare un fucile). La persona sparisce e quello che si evidenzia è il ruolo
ricoperto.
Il contrario del soldato (e della vita organizzativa) è l’artista, che fa ed esprime quello che sente. Prima della
Rivoluzione Industriale si era affermata la figura dell’artigiano. Quest’ultimo è una figura interessante perché esprime
la propria creatività attraverso un sistema organizzativo. Vi è una dialettica tra arte e tecnica, tra regola e innovazione.
La contrapposizione tra individualità e organizzazione è pretestuosa, perché una buona organizzazione dovrebbe
poter permettere all’individuo di esprimersi.
Il problema però è che le organizzazioni moderne non sono figlie della concezione artigianale del lavoro, ma della
Rivoluzione Industriale. Ciò significa che danno maggiore peso alla visione meccanica dell’organizzazione rispetto
al valore individuale. Vi è un primato della razionalità, in quanto l’uomo viene concepito come servo della
macchina.
Per depotenziare il peso di questa visione meccanica, facciamo riferimento:
• a Freud, il quale si accorge che l’essere umano cerca nella collettività un rifugio perché da un lato gli dà
sicurezza, dall’altro lo porta a perdere individualità (→ nell’organizzazione il fenomeno si identifica come
corporate identity: sono legato alla mia organizzazione non solo da un rapporto contrattuale ma anche da un
rapporto emotivo).
• allo psicologo americano Elton Mayo, che viene chiamato da una grossa azienda in cui si costruivano quadri
elettrici perché c’erano differenze di produzione tra i diversi reparti (a parità di strumenti, numero di addetti
e organizzazione del lavoro).
Dopo un certo periodo di osservazione sul campo, Mayo si rende conto che l’essere osservati modifica la
prestazione. Inizia quindi un’attività di dialogo con le persone che lavorano, scoprendo che il fatto di avere
qualcuno che si interessa al lavoro che fa, provoca un aumento di motivazione e di impegno nelle persone

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coinvolte. A questa scoperta viene attribuita la nascita del “fattore umano” nelle organizzazioni, ossia
dinamiche legate ai meccanismi interni che stanno alla base del funzionamento delle diverse persone. Un
bravo capo non solo programma il lavoro nel modo migliore, ma si dimostra anche interessato delle sue
persone.

Leggere un’organizzazione a livello sistemico, dunque, significa andare a vedere come questi particolari “ingranaggi”,
ovvero gli esseri umani al suo interno, si incastrano l’un l’altro e comprendere come aiutare la macchina a farli girare
al meglio, senza produrre eccessiva usura e utilizzando ogni possibile moltiplicatore di forze.
Ecco perché si parla di “macchine con l’anima”: la macchina costituisce la metafora più diffusa per descrivere
l’organizzazione che rimanda ad un paradigma di razionalità. Tuttavia, grazie ai contributi della psicoanalisi e della
teoria dei sistemi e del paradigma ecologico (influenza tra individuo e ambiente), la razionalità viene meno.
La macchina diventa un sistema complesso, che lavora al conseguimento di obiettivi chiari e condivisi dove al suo
interno troviamo gli esseri umani.
Il concetto di anima segue due accezioni: da un lato intesa come individui che la compongono, dall’altro come
principio vitale, energia che anima l’agire umano.

La dimensione comunitaria
1. Aristotele: definisce la comunità come il luogo in cui gli uomini si uniscono per il perseguimento di uno scopo
comune. Essa non è un dato di partenza, ma un primo risultato. Posso concepire la mia appartenenza
all’organizzazione come l’appartenenza a un luogo che contribuisco a generare, oppure posso concepire
l’appartenenza a un’organizzazione come “bisogna pur campare” e quindi “bisogna obbedire agli ordini”. La
visione di “uomo animale politico e sociale” è alla base di questa concezione comunitaria dell’organizzazione.
2. Thomas Hobbes: l’uomo è lupo degli altri uomini. Siccome l’uomo lasciato libero è esclusivamente interessato a
perseguire il proprio interesse, c’è bisogno di un’istanza regolatrice superiore che gli impedisca di nuocere agli
altri.
3. Ferdinand Tönnies: ogni convivenza confidenziale, intima ed esclusiva viene intesa come vita in comunità; la
società è invece il pubblico, è il mondo.

Chi ha ragione? Da un lato, se si vuole costruire un’organizzazione di tipo comunitario, si dovrà stimolare la
tensione dell’uomo a costruire, realizzare ed assumersi la responsabilità. Dall’altro, le organizzazioni hanno necessità
di dotarsi di sistemi di regole che permettono di massimizzare l’istanza generativa. Le regole hanno una funzione di
massimizzazione dei risultati e di protezione dalle possibili ingerenze (i competitori del mondo aziendale).

La dimensione comunitaria e della cura


Verso la fine del 1800, Ferdinand Tönnies ha evidenziato come nell’esperienza di relazione organizzata dagli esseri
umani si potessero collocare due differenti tipologie:
1. Comunità: ogni convivenza confidenziale, intima ed esclusiva (ex. la famiglia).
2. Società: è il pubblico, il mondo.
Il legame che regge la comunità è un legame organico, basato su relazioni non esclusivamente di natura giuridica.
Secondo McMillan e Chavis, il senso di comunità è la certezza che i membri hanno di appartenere e di essere
importanti gli uni per gli altri e per il gruppo e una fiducia condivisa nella possibilità di soddisfare i propri bisogni
come conseguenza del loro essere insieme.
Due bisogni molto importanti alla base del senso di comunità:
1. Bisogno di generatività: bisogno di costruire, di perseguire un’oscura dopo comune e di costruire un bene
comune. Era la visione di Aristotele rispetto alla natura politica dell’essere umano.
2. Bisogno di cura: la cura è un’esperienza reciproca e vicendevole.

Spesso all’interno delle organizzazioni fugge la rilevanza dei processi di cura delle persone, assistendo così ad un
contradditorio tra “la rilevanza del capitale umano nell’impresa” e “l’effettiva cura del proprio investimento su questo
capitale”.
I motivi sono almeno 2:
- la manutenzione e la cura delle persone risulta più difficile rispetto a quella della tecnologia
- un ruolo importante è giocato dall’implicita fiducia delle persone nella loro capacità di auto-cura.
Una buona organizzazione è un luogo in cui le risorse possono dare il meglio di sé; ciò richiede che le risorse siano
aiutare a farlo → in questo si trova il senso della cura.

Come si può esprimere il bisogno di cura all’interno della società organizzativa? Spesso abbiamo un’idea della cura
che discende da una concezione medica del curare, ossia l’atto attraverso cui si guarisce una persona affetta da una
certa malattia. In realtà, la cura va ben oltre l’atto medico. Bisogna adottare un approccio promozionale: promuovere

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la salute dell’organizzazione e il benessere delle persone che ci agiscono (→ empowerment delle risorse umane). È
una prospettiva eudemonia = con lo scopo di perseguire la felicità dei lavoratori.
La cura è una istanza di base nelle relazioni personali (ex. il primo atto di cura è quello della mamma nei confronti
del bambino appena nato).
Quali esperienze di cura possiamo inserire?
1. Assistenza
2. Accompagnamento-compagnia
3. Guida
4. Sostegno psicologico, sperimentale e materiale

Nell’esperienza umana, tutte queste attività hanno un fondamento comune: mi prendo cura di qualcuno-qualcosa che
mi interessa. L’interesse non è solo un interesse utilitaristico, ma è anche relazionale (mi prendo cura di qualcuno con
cui ho un legame di tipo affettivo). Questa dimensione affettiva è fondamentale nel prendersi cura e nell’appartenere a
una comunità. Tanto è vero che, nell’esperienza comunitaria, quando questa relazione affettiva viene violata non si
interrompe il contratto, ma la violazione si carica certamente di vissuti emotivi (ex. il tradimento, l’abbandono).
Negli esseri umani, l’esigenza di cura non cessa mai, perché abbiamo bisogno di essere curati anche dopo che siamo
diventati autonomi (a differenza dei mammiferi non umani). Dal punto di vista esistenziale, è la più evidente
impossibilità di raggiungere l’indipendenza. L’indipendenza non esiste, perché la natura relazionale fa sì che,
quando noi siamo indipendenti (tronchiamo la relazione con l’altro), questo non provoca sviluppo, ma sofferenza.

Gli elementi fondamentali della cura organizzativa sono 4:


1. Cura della motivazione: lavorare sulla motivazione non significa motivare gli altri, ma lavorare sul perché (ex.
perché devo lavorare?).
2. Cura della relazione: non è soltanto far funzionare bene i legami, ma riguarda anche la cura del conflitto. Il
conflitto rappresenta un elemento di crisi (rottura), nella rottura c’è sicuramente una possibilità che questo porti
ad un passaggio evolutivo. Il conflitto trasformativo ha una necessità di gestione riparativa e non retributiva
(come la vendetta) attraverso il riconoscimento dell’altro come vittima;
3. Cura della competenza: perché per lavorare essere capaci. C’è un legame tra competenza e relazione perché, se
sei incapace finisci per farti odiare.
4. Cura della fatica: lavorare stanca, se non fai fatica non è lavoro.

Dunque, un’organizzazione che voglia prendersi cura delle proprie persone dovrà occuparsi delle loro competenze in
un continuo processo di innovazione del know-how. Inoltre, la relazione tra competenza, compito e responsabilità
è cruciale per il successo organizzativo. Quando le competenze sono in linea con i compiti assegnati e le responsabilità
sono chiare, si crea un ambiente in cui le persone possono contribuire in modo significativo al raggiungimento degli
obiettivi dell'organizzazione. Una gestione oculata di queste tre dimensioni favorisce l'efficienza e la produttività.
La responsabilità ha dunque tre “genitori”:
1. Competenza: è fondamentale per assumersi responsabilità in modo efficace. Essere competenti garantisce che
una persona sia in grado di gestire le sfide associate al proprio ruolo.
2. Norma: una comprensione chiara delle norme aiuta a definire ciò che è accettabile e atteso. Assumersi la
responsabilità implica conformarsi alle norme stabilite e contribuire al conseguimento degli obiettivi
organizzativi.
3. Utilità: la competenza e il rispetto delle norme portano a un'utilità tangibile per l'organizzazione. Quando le
persone assumono responsabilità in modo competente e in linea con le norme, ciò contribuisce all'efficienza, alla
produttività e al successo complessivo dell'organizzazione.

La cura della motivazione al lavoro


Motivare i lavoratori può essere una sfida a causa della soggettività delle motivazioni individuali. Le persone hanno
motivazioni diverse basate su esperienze personali, valori, e obiettivi. Anche se la motivazione è soggettiva, adottare
un approccio personalizzato può contribuire a creare un ambiente di lavoro motivante.
La motivazione sta alla base dell’agire umano. Ogni teoria psicologica è una teoria della motivazione perché uno
dei fini della psicologia è spiegare il funzionamento dell’uomo. Ci sono due grandi psicologie che provano a costruire
una teoria solida che spieghi le dinamiche alla base dei comportamenti umani: la psicanalisi e il comportamentismo.

La motivazione nella psicoanalisi


Freud organizza la propria teoria dell’uomo attorno a tre questioni fondamentali:

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1. Esistenza dell’inconscio: c’è una parte di noi in cui risiedono dinamiche non razionali estremamente potenti.
Rispetto alla teoria dell’inconscio, la motivazione fondamentale è il piacere e l’evitamento del dolore.
2. Pulsioni: siamo spinti da pulsioni opposte, in conflitto tra loro, libido e destrudo, istinto di vita e istinto di morte.
Dal punto di vista motivazionale, spiegano sia i comportamenti che sono tesi alla costruzione, sia quelli
apparentemente inconciliabili, tesi alla guerra e al conflitto. La spiegazione che la psicoanalisi offre di questa
apparente conflittualità sta nella teoria degli istinti: dentro di noi albergano istinti contrapposti perciò tutta la vita
è una continua mediazione tra la prevalenza dell’uno e dell’altro istinto.
3. L’organizzazione della mente: secondo Freud la nostra mente è organizzata su tre istanze psichiche (Io, Es e
Super Io). Sono le componenti costitutive della personalità. Esse devono essere in equilibrio affinché il
funzionamento della mente sia ottimale e non cada nella patologia. Nella teoria freudiana, la patologia è collegata
al fatto che una persona abbia avuto un evento traumatico che ha provocato una fissazione in uno stadio di
sviluppo.
L’io è l’espressione cosciente del noi che si sviluppa a seguito delle diverse tappe evolutive nell’infanzia; l’es è la
sede dell’inconscio; il super io è l’istanza normativa.
Uno dei grandi contributi della psicanalisi è quello di spiegare in quale modo di sviluppi la coscienza morale degli
esseri umani: è legata alla costituzione del super io, che svolge questa funzione regolatoria e che durante
l’evoluzione dei fanciulli nasce a seguito dell’introiezione della figura genitoriale, e in particolar modo della
figura paterna → complesso di Edipo.
È importante sottolineare che, nel periodo storico in cui la psicanalisi si sviluppa, la dimensione normativa era
decisamente ancorata al genere maschile, il padre rappresentava il capo, il detentore del potere pubblico. Quindi
l’introiezione di questa figura fa si che si costituisca un sistema morale a cui tendenzialmente l’individuo si
attiene nel corso della sua vita adulta.

Possiamo iniziare a riconoscere alcuni elementi importanti della teoria motivazionale psicanalitica:
1. Le motivazioni non sono tutte razionali: ci sono delle motivazioni dell’agire umano che trovano origine in
dinamiche profonde, inconsce, istintive
2. C’è un’istanza regolativa, il super io, che determina il fatto che certi comportamenti sono da noi considerati
accettabili socialmente e quindi siano vissuti positivamente
3. Esisterebbero due principi motivazionali di base: principio del piacere (tendiamo a fare ciò che ci procura piacere);
principio del dolore (cerchiamo di evitare quei comportamenti che potrebbero dare adito a delle conseguenze
spiacevoli)

Riflessologia e comportamentismo
La riflessologia si basa sull’idea che esistano riflessi che corrispondano a organi specifici, con l’obiettivo di
promuovere il benessere.
L'esperimento di Pavlov con i cani è uno dei pilastri della teoria comportamentale. Pavlov ha notato che i cani
iniziavano a salivare non solo quando venivano presentati con il cibo, ma anche quando venivano esposti a segnali
precedenti associati al cibo, come il suono di una campana. In altre parole, i cani avevano imparato a associare il
suono della campana con il cibo attraverso l'esperienza. Questo processo di associazione è noto come
condizionamento classico, e l'esperimento di Pavlov è diventato un esempio chiave per comprendere come si
formano le risposte comportamentali attraverso l'associazione di stimoli.
Il riflesso condizionato illustra come gli organismi apprendano ad associare stimoli e risposte, contribuendo così alla
formazione e alla modificazione dei comportamenti attraverso l'esperienza.

Questo però non vale anche per gli esseri umani. Skinner parla di condizionamento operante: il comportamento è
determinato dalle conseguenze che seguono. In un contesto di condizionamento operante, ci sono due tipi di
conseguenze che possono influenzare il comportamento:
1. Rinforzi positivi: per aumentare la probabilità che il comportamento si ripeta.
2. Rinforzi negativi: per diminuire la probabilità che un comportamento si ripeta.

La psicologia umanista
La gerarchia dei bisogni di Maslow suggerisce che le persone sono motivate a soddisfare una serie di bisogni,
organizzati gerarchicamente. La struttura è spesso rappresentata come una piramide con cinque livelli:
1. Bisogni fisiologici: questi sono i bisogni di base per la sopravvivenza, come cibo, acqua, sonno e riproduzione.
2. Bisogni di sicurezza: una volta soddisfatti i bisogni fisiologici, le persone cercano sicurezza e stabilità, inclusi
aspetti come la sicurezza finanziaria e la stabilità dell'ambiente.
3. Bisogni sociali o di appartenenza: dopo i bisogni di base, le persone cercano connessione sociale, amore e
appartenenza, che possono soddisfarsi attraverso le relazioni interpersonali.

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4. Bisogni di stima: una volta soddisfatti i bisogni sociali, le persone cercano rispetto, autostima e riconoscimento
da parte degli altri.
5. Bisogni di realizzazione personale: questo è il livello più alto e coinvolge il desiderio di raggiungere il proprio
potenziale, perseguendo obiettivi personali e professionali.

La teoria suggerisce che le persone tendono a muoversi attraverso questi livelli in sequenza, cercando di soddisfare i
bisogni di un livello prima di passare a quelli del livello successivo.

Sostenere la motivazione estrinseca


Nonostante sappiamo che i fattori esterni e le motivazioni estrinseche siano più deboli rispetto ai fattori interni e alle
motivazioni intrinseche, e che premi e punizioni sono meno potenti nella loro efficacia motivazionale, non possiamo
trascurare il fatto che nei sistemi organizzativi la motivazione estrinseca è quella che presenta la maggior quantità di
applicazioni. È innegabile che nelle aziende la retribuzione gioca un ruolo primario nell’incentivazione delle condotte
positive. Ci sono due grandi sistemi di incentivazione: il cottimo e l’MBO.
• Cottimo: modalità di retribuzione del lavoro proporzionale alla quantità di prodotto realizzato. Il termine si
diffonde alla fine del XV secolo, ma è soprattutto con la rivoluzione industriale con l’affermarsi del modello
organizzativo Taylor-fordista che trova la sua applicazione.
In termini razionali si tratta di uno strumento retributivo ideale: perfetta corrispondenza tra l’opera realizzata e
il compenso ottenuto
• MBO o gestione degli obiettivi: metodologia di gestione delle risorse umane basata sul raggiungimento di
obiettivi che possono essere individuali o collettivi.
A differenza del cottimo permette di tener conto di una più ampia gamma di fattori concorrenti al successo
della prestazione, dato che gli obiettivi assegnati possono non coincidere con quanto prodotto, ma possono
andare oltre il coinvolgimento. L’importante che si tratti di obiettivi chiari, ben definiti.
La criticità del MBO è data appunto dalla misurabilità, sia relativa agli obiettivi assegnati, sia alla valutazione
del contributo personale nel loro raggiungimento.

I presupposti organizzativi della retribuzione come strumento di incentivazione e sostegno della motivazione
Per certi versi la retribuzione è un elemento che viene dato per scontato e il lavoratore si rende conto della sua
rilevanza non tanto quando c’è, ma quando si riduce la o viene a mancare.
Le organizzazioni ricorrono abitualmente a strumenti incentivati per sostenere la motivazione delle proprie persone,
dall’altro lato è incomprensibile l’enfasi che totalizzante che gli viene attribuita.
Secondo Douglas McGregor, docente della Sloan School of Management del MIT, la gran parte della teoria della
pratica organizzativa assume che i lavoratori tendono per natura a rendere al di sotto delle attese aziendali, adottando
un atteggiamento di minimo sforzo per il massimo del risultato possibile, cercando peraltro di utilizzare le criticità
dell’organizzazione per realizzare comportamenti opportunistici.
Secondo tale ipotesi la responsabilità sarebbe sfuggita come la peste dai lavoratori, che eviterebbero anche eccessive
identificazioni con aziende. A tale ipotesi che McGregor chiamò “teoria X”, egli la contrapponeva una teoria Y
secondo cui le persone tenderebbero ad assumersi spontaneamente la responsabilità nei confronti della propria azienda
e del proprio lavoro, avendo per natura un atteggiamento di lealtà e impegno.
I sistemi incentivanti di natura economica a quale delle due teorie si riferiscono? Risultano più facilmente ispirate
alla teoria X, dato che, se le persone fossero responsabili verso il proprio lavoro e verso gli obiettivi affidati loro dalla
azienda, non ci sarebbe la necessità di rinforzare i loro comportamenti introducendo meccanismi premiali.
Tuttavia, McGregor era convinto che le due teorie potessero convivere nella stessa organizzazione.
Nel dover considerare la rilevanza gli strumenti motivazionali estrinseci, dovremmo anche pensare ad una loro
integrazione con fattori che con la maggior decisione possibile si spostino dal fuori al dentro. Così aumenteremmo
l'efficacia dei sistemi incentivati andando a inserirli in un contesto più ampio di relazioni organizzative basate sulla
fiducia.
La soddisfazione dei lavoratori, essendo legata alla retribuzione, sarà consentita dal raggiungimento degli obiettivi
aziendali a patto che questi godano dell'opportunità di raggiungere gli obiettivi e che tale raggiungimento sia valutato
correttamente.

Secondo Adams, i lavoratori cercano nella propria organizzazione un’equità, che deriverebbe dal confronto tra il
contributo portato e il risultato ottenuto.
La nozione di equità percepita e la conseguente teoria dell’ingiustizia organizzativa ci portano a dover considerare due
ulteriori elementi che potranno rendere più efficace la nostra azione di rinforzo della motivazione estrinseca:
1. La valutazione delle prestazioni
2. La comunicazione del merito

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La valutazione delle prestazioni non è l’unica valutazione del capitale umano che un’organizzazione attua al proprio
interno, oltre ad essa c’è la valutazione delle competenze e del potenziale e anche la valutazione del clima.
Ogni valutazione è un processo caratterizzato da due momenti distinti, quello della misura che appartiene alla
dimensione dell'oggetto in valutazione e quello del giudizio.
Nel caso della valutazione delle prestazioni possiamo indicarne due:
1. Gli obiettivi raggiunti
2. I comportamenti agiti per raggiungerli

Attraverso questi due momenti, quello in cui si decidono gli obiettivi da raggiungere per la posizione e quello in cui si
definiscono i comportamenti organizzativi attesi, saremo in grado di conoscere gli obiettivi e comportamenti. Si
tratterà ora di comunicarlo al collaboratore → la modalità più efficace è senz'altro rappresentata dal colloquio,
strumento fondamentale per la gestione delle risorse umane.
Gli obiettivi devono essere comunicati il più possibile seguendo le indicazioni date dall’acronimo smart. Dovranno
essere:
• Specifici e non generali
• Misurabili
• Sfidanti ma realistici
• Tempificabili

È buona norma inoltre dire le ragioni degli obiettivi assegnati e chiedere un feedback a riguardo.
Comunque sia la valutazione della prestazione è una responsabilità primaria del people manager, rispetto alla quale è
sempre necessario sviluppare una competenza attraverso una formazione delicata, in quanto il punto non è valutare ma
il punto è farlo in modo che si possa sostenere la motivazione altrui.

Lo spazio della motivazione intrinseca e come fattore di benessere


Per lungo tempo il paradigma dominante è stato quello comportamentalista, secondo cui la motivazione intrinseca era
impossibile: nel processo stimolo-risposta, la motivazione era rappresentata esclusivamente da un rinforzo esterno, che
attraverso l’apprendimento, poteva essere interiorizzato dal soggetto fino a diventare un riflesso.
La teoria dell'autodeterminazione (self-determination theory) è una prospettiva psicologica che si concentra sulle
motivazioni intrinseche delle persone e sul loro desiderio di autonomia. Formulata da Edward Deci e Richard Ryan,
questa teoria propone che l'autonomia, la competenza e la relazione sociale siano fondamentali per il benessere
psicologico e per la motivazione intrinseca. I tre bisogni di base secondo questa teoria sono:
1. Autonomia: desiderio di protagonisti attivi delle proprie azioni e di agire in armonia con i propri valori e
interessi.
2. Competenza: desiderio di determinare il peso delle proprie azioni e di controllarne lo svolgimento.
3. Relazione: desiderio di connettersi con gli altri, di sentirsi compresi e di appartenere.

La teoria dell'autodeterminazione sostiene che, quando questi bisogni sono soddisfatti, le persone sperimentano una
motivazione intrinseca, che è una forma di motivazione che deriva dalla propria volontà e interesse piuttosto che da
ricompense esterne. Per questo, lavorare sulla motivazione intrinseca è più difficile (quella estrinseca segue un criterio
lineare e razionale, basato sulla retribuzione).
Il lavoro di ricerca ha portato al consolidarsi di diverse convinzioni: lo sviluppo e le azioni ottimali sono connaturali
all’uomo, ma non automatiche. Per questo devono essere alimentate dall’ambiente circostante.

Sul fronte dell’organizzazione, questa relazione è stata esplorata da Herzberg, inventore della teoria di igiene e
motivazione. Il fulcro della teoria risiede della diade soddisfazione-insoddisfazione, che sono considerate due
dimensioni parallele su cui si dovrà intervenire con approcci e strumenti diversi. A questo proposito Herzberg parla di:
- fattori igienici, collegati al contesto ambientale e alla retribuzione: non sono direttamente motivanti, ma quando
mancano provoca insoddisfazione → riduce il malcontento ma non portano motivazione.
- fattori motivazionali, al contrario, sono tali perché, quando vengono rispettati producono benessere → modificano la
natura stessa del lavoro, rendendolo stimolante e gratificante (ex: raggiungimento di risultati, responsabilità).

La Positive Organizational Scholarship (POS) è un campo di studio che si concentra sull'analisi e la promozione del
benessere nelle organizzazioni. Questo approccio è basato sull'idea che comprendere e coltivare gli elementi positivi
in un contesto organizzativo può portare a risultati migliori per le persone e per l'organizzazione nel suo complesso.
Gli studiosi di POS esaminano temi come il benessere organizzativo, la leadership positiva, la resilienza,
l'innovazione, e la creazione di un ambiente lavorativo che favorisca la soddisfazione e l'eccellenza.
In questo campo di studi ritroviamo l’Appreciative Inquiry (AI), ossia uno strumento e un modello di intervento che
si propone di coinvolgere le parti interessate in cambiamenti autodeterminati. L’attenzione viene focalizzata su ciò che

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funziona e su ciò a cui le persone tengono.
Nel suo utilizzo sul campo, l’AI si sviluppa in un percorso caratterizzato da quattro fasi:
1. Discover: scopriamo i processi ottimali presenti nell’organizzazione.
2. Dream: come estenderli, svilupparli.
3. Design: progettare azioni di sviluppo.
4. Destiny: esecuzione del progetto.

Sostenere la motivazione al lavoro


I motivi che spingono l’uomo a lavorare sono:
- la necessità = focus sui bisogni primari
- la realizzazione di sé = focus sul riconoscimento
- il desiderio di generare qualcosa = focus sulla generatività.
Sono tre tipologie di motivazione che albergano in modo trasversale e contemporaneo dentro ciascuno di noi.
Tuttavia, lo sviluppo organizzativo del XX secolo si afferma come il momento dell’empowerment, che si lega con il
desiderio di generatività.

Modelli organizzativi differenti hanno prodotto gli strumenti per sostenere la motivazione al lavoro, ad esempio:
1. Scientific management: ha sviluppato strumenti fondati sugli incentivi economici e sul sistema premio-
punizione.
2. Human relations movement: ha lavorato sul colloquio capo-collaboratore e sul miglioramento del clima
organizzativo.
3. Empowerment organizzativo: ha lavorato sulla delega e responsabilizzazione dei collaboratori.
Gran parte del lavoro “motivazionale” risulta fondato su uno di questi strumenti. La motivazione è per sua natura
sempre personale, legata cioè alla storia e alle caratteristiche del singolo soggetto che agisce.
Come faccio a motivare i collaboratori?
Il tema non è motivare i collaboratori, ma sostenere la motivazione al lavoro.
Per rispondere a questa domanda, è importante andare a riconoscere i fattori che
influenzano la motivazione al lavoro.
In questo sistema di cerchi concentrici, concorrono 3 famiglie di fattori:
1. Fattori esterni: di rinforzo.
2. Fattori interni: legati alle caratteristiche soggettive che ogni persona
presenta.
3. Fattori di clima: relativi alla relazione tra il soggetto e l’ambiente in cui
svolge la propria azione.

Quali sono le componenti di questi elementi?


Sostegno “interno” alla motivazione al lavoro:
1. Interesse e amore per l’oggetto: mi piace ciò che faccio. Quando riusciamo
in un lavoro il cui oggetto è particolarmente interessante, siamo più capaci di
impegnarci e di sopportare la fatica (componente ineliminabile di ogni
lavoro).
2. Il senso del dovere: devo farlo. Da dove viene? Ci sono ipotesi differenti. Certamente, la lettura psicoanalitica del
Super-Io ha molto a che fare con il senso del dovere: noi pensiamo che il senso del dovere sia risultato di una
certa educazione (ex. quando ci troviamo davanti ad una persona che ne sembra priva, viene molto facile dare la
colpa di questo alla sua educazione).
• C’è un elemento culturale che si inserisce nella concezione di dovere che è l’affermazione sempre maggiore di
una cultura dei diritti. L’appello al senso del dovere, se in un contesto in cui la potenza di questo fattore è
molto diminuita, rischia di essere un’esortazione senza alcun valore pratico.
3. Responsabilità e competenza: sono capace di fare ciò che faccio. Una persona competente è più motivata.

Sostegno “esterno” alla motivazione al lavoro:


1. Incentivi e sanzioni: nell’ambito lavorativo, la retribuzione (forma più normale di incentivo) è collegata alla
responsabilità e alla competenza. Frequentemente, la responsabilità è intesa in senso gerarchico (la carriera).
Oggi, a fronte del fatto che le organizzazioni tendono ad essere molto piatte nella loro struttura,
2. retribuzione equivale a competenza: tanto più possiedo competenze chiave per il business aziendale (Core
Competence), tanto più valgo. Tuttavia, la mancanza di assunzione di responsabilità è la principale causa di
sanzione nei luoghi di lavoro.

Sostegno «trasversale» alla motivazione al lavoro:

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1. Quantità e quantità delle informazioni: un'azienda che equilibra una quantità appropriata di informazioni con la
loro qualità contribuisce a mantenere un ambiente di lavoro motivante, in cui i dipendenti si sentono informati,
apprezzati e ispirati a contribuire al successo aziendale.
2. Qualità delle relazioni: mentre l’informazione riguarda lo scambio di contenuti, la relazione implica un legame.
Tanto più ho delle relazioni di buona qualità nel lavoro, tanto più vado a lavorare volentieri.
3. Senso di comunità: si manifesta quando i membri di un'organizzazione si sentono collegati da un obiettivo
comune, condividono valori e collaborano in un ambiente in cui c'è fiducia reciproca. Questo senso di
appartenenza può promuovere una cultura collaborativa, stimolare la motivazione e migliorare il benessere
complessivo dei dipendenti.

Il cerchio si chiude, perché il senso del dovere deriva dal sentirsi parte di una comunità. Tre considerazioni:
1. Tutti noi, in qualche modo, siamo influenzati da questi elementi che influenzano il nostro modo di comportarci
nell’ambito lavorativo.
2. Se devo lavorare sul sostegno alla motivazione dovrò mettere in atto delle azioni che prevedono il presidio di
questi elementi.
3. Dimensione soggettiva e personale della motivazione: i fattori influenzano tutti noi, ma non in modo uguale.

Si parla, dunque, di un sistema motivazionale essendoci un reciproco rapporto circolare tra questi elementi. Ciò è
importante perché ci impedisce di concentrarci su un unico modello di motivazione e ci impone di lavorare
contemporaneamente su più fronti.
Gli strumenti a sostegno della motivazione sono definiti come delle azioni relative ad un people management orientato
all’empowerment dei collaboratori.
Tali azioni sono: apprendimento, comunicazione, valutazione → ACtiVe.

Che accade se incrociamo queste tre aree tipiche di competenze dei manager con le diverse famiglie di fattori
motivazionali? Possiamo ricavare una matrice che ci permette di descrivere come possiamo usare le attività normali di
people management per sostenere la motivazione dei propri collaboratori.
Un’organizzazione che si ponga l’obiettivo di sostenere la motivazione delle proprie persone è dunque
un’organizzazione che ne promuove il potenziale, aumentando così il gusto di lavorare ed il benessere che ne
consegue.

La motivazione generativa
In ambito lavorativo non si parla di desiderio di lavorare, piuttosto di bisogno.
- il bisogno rappresenta una condizione ineluttabile dell’uomo, caratterizzata dalla mancanza di qualcosa
- il desiderio è l’esperienza di mancanza che spinge all’agire.
Per questo, alla base della visione motivazione vi è una dialettica tra bisogno e desiderio.
Una delle motivazioni che spinge l’uomo al lavoro è il bisogno di generare qualcosa di nuovo grazie al lavoro svolto.
Il processo di generazione nasce sempre dal desiderio che ciò accada. È fondamentale, dunque, sostenere e
sviluppare il desiderio anche nei contesti organizzativi.
Bisogna quindi: allenare il desiderio e sostenere la desideranza nel lavoro.

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La cura della competenza

Per lavorare è necessario essere competenti: dobbiamo sapere (come e cosa fare), saper fare ma anche saper essere
(esercitare correttamente il ruolo attribuito e comportarsi in modo adeguato al contesto → avere ed essere
responsabili).
Le comunità organizzative sono luoghi in cui le competenze si acquisiscono e si rafforzano. Questo è il tema della
Learning Organization (LO):
- una LO è un’organizzazione capace di imparare, in continua evoluzione
- una LO valorizza l’apprendimento dei membri che comporta lo sviluppo di sé stessa
- nella LO, la formazione è uno strumento primario per lo sviluppo che viene realizzata soprattutto attraverso canali
informali.
Rispetto alla cura delle persone, la cultura della LO porta con sé due conseguenze fondamentali:
1. L’apprendimento non è solo uno strumento che consente di adattarsi, ma anche fattore di sviluppo e innovazione
2. L’errore può essere fonte di apprendimento e quindi non va demonizzato, ma compreso e rielaborato in senso
positivo.

Cosa significa “competente”: un po’ di etimologia


Il termine "Competere” (da cum e petere: "chiedere, dirigersi a") significa: mirare ad un obiettivo comune, nonché
finire insieme, incontrarsi, corrispondere, coincidere e gareggiare. Le competenze sono una risorsa organizzativa
fondamentale, oltre che ingrediente principale del capitale umano di un’impresa.
1. Competenza e pertinenza: una persona competente è in grado di applicare le sue abilità in modo pertinente,
adattandole alle esigenze specifiche della situazione. La competenza fornisce la base, mentre la pertinenza
assicura che queste competenze siano applicate in modo mirato e significativo.
2. Competenza e competizione: la competenza fornisce la base per affrontare la competizione, ma è importante
gestirla in modo che sia costruttiva, promuovendo lo sviluppo individuale e contribuendo al successo collettivo.
3. Competenza e giurisdizione: il fatto che ci sia un’autorità.

Competenza e responsabilità sono legati, perché uno dei presupposti della responsabilità è che io competente
relativamente al contenuto che riguarda la domanda che viene posta

1. Competenza come perimetro di responsabilità: in un’organizzazione le persone fanno ciò che devono perché si
sentono obbligate, hanno interiorizzato una norma morale che è il senso del dovere.
Un discorso diverso va fatto per la responsabilità. Parlare di responsabilità implica da un lato avere una domanda
a cui rispondere, dall’altro una dinamica di riconoscimento reciproco tra chi domanda e chi risponde e, quindi,
una reciproca stima. Nelle organizzazioni, lo sviluppo del senso di responsabilità può essere facilitato a livello
individuale dal processo di delega, a livello collettivo da un ambiente che stimoli appartenenza e partecipazione.
Il potere della responsabilità risulta più stabile nel tempo rispetto a quello del dovere.
NB: la delega non dovrebbe mai essere generica, ma rivolta ad una persona sola (prevedendo la definizione della
job description e la comunicazione esplicita). Il rischio altrimenti sarebbe di provocare una
deresponsabilizzazione e una perdita di motivazione.
2. Competenza come capacità operativa: sono competente in quanto sono in grado di.
Tradizionalmente una buona organizzazione prevede che non ci siano sovrapposizione e l’ottimizzazione delle
risorse disponibili.
Questo porta a una differenziazione tra organizzazioni meccaniche e organiche: nelle prime la divisione del lavoro
è un requisito obbligato dalla forte standardizzazione; nelle seconde è richiesta un’elevata flessibilità e
un’assunzione di responsabilità individuale.
Cambiano quindi le competenze richieste: nelle organizzazioni meccaniche si richiedono competenze relative alla
necessità di produzione; in quelle organiche si richiedono metacompetenze (= soft skills).
3. Competenza come fattore motivazionale (e il suo nesso con la responsabilità): quando ci sentiamo in grado di
fare qualche cosa, siamo anche più motivati a farlo vedere (ex. entriamo spesso in competizione per far vedere la
nostra competenza).

Socrate credeva che la saggezza fosse collegata alla consapevolezza delle proprie ignoranze e che l'apprendimento
dovesse avvenire attraverso il processo di interrogazione e riflessione critica.
Secondo il comportamentismo, l’apprendimento è visto come un cambiamento osservabile nel comportamento in
risposta agli stimoli dell’ambiente. Questa prospettiva si concentra principalmente sui comportamenti esternamente
osservabili, ignorando processi mentali interni.

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Oggi si parla di “Life Long Learning” (o “apprendimento permanente”): promuove l'idea che l'apprendimento non
dovrebbe limitarsi al periodo formale di istruzione, ma dovrebbe essere un impegno costante in tutte le fasi della vita.
L'obiettivo è sviluppare competenze, acquisire nuove informazioni e adattarsi ai cambiamenti nel mondo,
contribuendo così allo sviluppo personale e alla partecipazione attiva nella società.
In una logica tradizionale, potremmo distinguere la vita dell’uomo in diverse fasi:
1. Infanzia: si imparano le cose essenziali della sopravvivenza.
2. Fanciullezza: il sistema di conoscenza si struttura durante periodo scolastico.
3. Adultità: si va a lavorare applicando ciò che si è imparato prima.

L’idea del Life Long Learning, invece, è che l’apprendimento sia un processo continuo. Di qui il grande contributo
della Gestalt, secondo cui l’apprendimento non è semplice acquisizione di contenuti, ma richiede una continua
ristrutturazione di questi contenuti.
Questo processo, secondo i Gestaltisti, entra anche nell’apprendimento: un apprendimento c’è quando riesco a vedere
un significato differente tra gli elementi che ho acquisito.
Per ciò che concerne l’apprendimento possiamo rifarci anche agli studi di Kohler sulle scimmie antropoidi, studi in
cui lo studioso introdusse il concetto di insight (intuire nel senso di “vedere dentro”) e con esso quello di carattere
discontinuo dell’apprendimento.
Il collegamento con l'apprendimento sta nell'osservazione di come le scimmie affrontano nuove situazioni, apprendano
attraverso la sperimentazione e dimostrino capacità cognitive che vanno oltre il semplice condizionamento.
Secondo Kohler, questo confuta l’idea comportamentista che l’apprendimento sia puro risultati di stimolo e risposta.

Come si diventa competenti?


1. Provando ad applicare qualcosa che abbiamo studiato e ci hanno insegnato.
2. Individuando diverse modalità di utilizzo di quanto abbiamo imparato. Queste diverse modalità di utilizzo
diventano a loro volta delle competenze, cioè qualcosa che apprendiamo.
Tanto più le persone sono competenti, tanto più saranno motivate a mettere in campo la loro competenza per
raggiungere l’obiettivo.

Definizioni di competenza e modelli collegati


L'acquisizione di competenze, la loro manutenzione loro potenziamento richiede un modello a cui riferirsi che viene
articolato su tre fasi:
1. Fase di individuazione: dall’analisi della mission, della vision e delle strategie aziendali si ricaveranno le
competenze necessarie a permettere all’azienda di raggiungere gli obiettivi di business.
2. Fase di definizione dei comportamenti: le competenze individuate dovranno essere tradotte in
comportamenti osservabili. Questo permetterà anche di definire e condividere ciò che ci si attende dai diversi
ruoli organizzativi.
3. Fase di mappatura: a partire dall’organigramma aziendale e dalla job description delle posizioni stesse
andranno definiti i comportamenti agiti e le capacità necessarie per ciascuna attività.

L’output sarà quindi una mappa delle competenze che identifica i diversi ruoli aziendali e che potrà essere utilizzata
per costruire un sistema integrato di gestione delle risorse umane. Le competenze mappate costituiscono la base per
poter valutare, formare e sviluppare.
La mappatura fatta dalle competenze, a partire da quelle core, sarà ciò che ci permette di avere un termine di paragone
con la nostra valutazione di competenze, attribuire un peso e permetterci di prendere decisioni ragionevoli circa le
migliori strategie di gestione del nostro capitale umano.

Le competenze potenziali e la loro valutazione


Competenze potenziali = l'insieme delle competenze e delle caratteristiche che si ipotizza siano a disposizione di un
individuo ma che non hanno avuto le possibilità di essere manifestate e quindi non ci sono ancora potuto osservare.
Nelle organizzazioni di lavoro lo strumento più diffuso di valutazione del potenziale senza dubbio l'intuito del capo.
Ma aldilà di questa ingenua convinzione lo strumento definitivo della valutazione del potenziale è oggi rappresentato
dall'assessment Center. Oggi l'assessment Center è una metodologia di valutazione complessa e integrata in cui vi
sono:
• Test psicologici: finalizzati a individuare le caratteristiche cognitive e di personalità
• Esercitazioni: hanno l’obiettivo di verificare le modalità di risposta del candidato di fronte a situazioni simili a
quelle che affronterà
• Colloqui: per verificare le informazioni raccolte attraverso i test e le esercitazioni.

La sua complessità rende l’assessment center uno strumento costoso, anche per la quantità di prove e strumenti

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introdotti. Questo perché la valutazione delle risorse umane chiama in campo la soggettività, che è sicuramente una
risorsa ma rappresenta anche un rischio. Per questo è utile dotare i valutatori di strumenti il più possibile standardizzati

Più recentemente si è andata ad affermare una metodologia che si propone di intervenire contemporaneamente sia sul
processo valutativo sia sul processo di sviluppo, il development Center. Nel development Center gli elementi
principali sono due:
• Il feedback: rappresenta la possibilità di paragone tra percezioni personali del candidato e un osservatore esterno
• L’autovalutazione: riporta nell'assessment la centralità del valutato.

Competenze innate, competenze apprese


La questione che ci interessa è se ogni competenza può essere acquisita e come si può acquisire.
Se seguiamo la prospettiva comportamentista, alla nascita la nostra mente è una tabula rasa vuota di contenuti e
solamente l'esperienza riuscirà a fornirci tali contenuti.
Tuttavia, è ragionevole pensare che esista una relazione circolare tra ciò che è originariamente presente dentro di noi e
quanto invece assumiamo dall'esterno, così come possiamo facilmente affermare che il dentro il fuori si influenzino
vicendevolmente e quanto acquisito vada a integrarsi con ciò che già possediamo, modificandolo in una nuova Gestalt
(forma).

Un presupposto per un corretto sistema premiante: il processo di valutazione delle prestazioni


Una distinzione fondamentale viene fatta tra il concetto di motivazione intrinseca, non sempre o pienamente
consapevole alla coscienza del soggetto, e motivazione estrinseca, quella che il soggetto dichiara verbalmente.
Prima, il principio alla base della produzione era il cottimo, per cui ti pagavo quello che producevi (rapporto diretto
tra produzione e prestazione). Oggi, lo sviluppo del diritto del lavoro impedisce questo, tanto è vero che dobbiamo
inventarci dei meccanismi per premiare la prestazione. I principali sistemi incentivanti sono basati sulla
prestazione (ex. sono un commerciale di un’azienda e ho la mia retribuzione a prescindere che venda o non venda, ma
ho anche un sistema premiante che aggiunge parte di retribuzione se raggiungo determinati traguardi).
La contrattazione è un sistema di obbligazioni reciproche che serve a regolare il rapporto tra le parti, stabilendo in
maniera precisa i diritti e i doveri di ciascuna. La scelta è stata quella di negare il contratto in quanto tale,
demandando ad una contrattazione di secondo livello il riconoscimento di altri elementi parte della retribuzione.
La valutazione delle prestazioni è importante per garantire l'equità organizzativa, ma può presentare alcuni
problemi se non è gestita adeguatamente.
Oggi si pensa che sia utile valutare non tanto le prestazioni, quanto le competenze delle persone che lavorano. La
valutazione delle competenze è un processo che mira a valutare le abilità, le conoscenze e le capacità di un individuo
rispetto ai requisiti del suo ruolo valutativo. Per garantire un processo equo e efficace di valutazione delle competenze,
è importante avere criteri di valutazione chiari, coinvolgere i dipendenti nel processo e fornire feedback costruttivi.
Secondo lo psicologo David McClelland, le competenze sono caratteristiche personali che possono essere sviluppate
e apprese nel corso del tempo attraverso l’esperienza, la formazione e il feedback.
Nella sua concezione è una competenza qualunque caratteristica personale che, anche da sola, riesca a generare una
buona prestazione lavorativa → conoscenze, capacità, motivazioni, personalità etc.

Il modello Iceberg: i bisogni di base che guidano i nostri comportamenti


Il modello iceberg rappresenta la mente umana, dove la parte sommersa rappresenta l'inconscio o il subconscio,
mentre la parte sopra la superficie rappresenta la coscienza.
1. Parte visibile: rappresenta ciò che è evidente, ossia i comportamenti, le
azioni e le parole di una persona.
2. Parte sommersa: rappresenta gli aspetti invisibili, come le emozioni, le
convinzioni, le motivazioni e le esperienze passate, che possono
influenzare i comportamenti ma spesso non sono immediatamente
visibili.

In generale, il modello iceberg evidenzia l'importanza di approfondire la


comprensione oltre ciò che è immediatamente osservabile, riconoscendo che
ciò che è evidente è solo una parte di un quadro più ampio.

Le competenze distintive (Core Competencies)


Le competenze distintive di un'impresa sono le capacità e le risorse uniche
che le conferiscono un vantaggio competitivo sulle altre nel mercato. Sono

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elementi che contribuiscono alla creazione di valore e differenziano l'impresa dai suoi concorrenti. La competenza
distintiva:
1. Produce valore
2. È rara
3. Non è facilmente imitabile
4. Non è facilmente sostituibile

L’obiettivo è individuare quanto i lavoratori contribuiscano alle competenze distintive dell'azienda e identificare i
migliori performer all'interno di questa prospettiva può aiutare a ottimizzare le risorse umane e massimizzare il
vantaggio competitivo dell'impresa. Questo processo può coinvolgere valutazioni delle competenze, sviluppo del
personale e strategie di gestione delle risorse umane mirate.
Come si valutano le competenze? La valutazione delle competenze non è semplice, a differenza della valutazione
della prestazione che prevede la misurazione dell’esito. Da un lato abbiamo la necessità di andare a vedere le
competenze che contano in azienda, dall’altro capire quali sono le più importanti rispetto al ruolo che la persona
svolge nel proprio lavoro.

Valutare le persone in azienda


La valutazione delle persone in azienda è un processo cruciale per misurare le performance individuali, identificare
punti di forza e aree di miglioramento. Questo può avvenire attraverso revisioni periodiche delle prestazioni, feedback
continuo, valutazioni delle competenze e obiettivi chiari. In questo sistema, le conoscenze e le capacità sono la punta
dell’iceberg.
Spesso si valuta la prestazione “qui e ora” per comprendere come i dipendenti stanno contribuendo attualmente al
successo dell’azienda. Integrare la prospettiva a breve termine con una visione a lungo termine aiuta a garantire che le
azioni quotidiane siano allineate con gli obiettivi strategici complessivi.
La valutazione delle prestazioni spesso coinvolge due componenti fondamentali:
1. Misura: quantificazione oggettiva delle performance attraverso indicatori, dati numerici o risultati misurabili.
2. Assegnazione di valore: implica l'interpretazione di queste misurazioni per determinare il contributo complessivo
e il valore aggiunto di un dipendente all'organizzazione.

Un buon sistema di valutazione dev’essere costituito da:


1. Determinazione dell’oggetto di valutazione: cosa si vuole valutare e perché.
2. Misurazione:
• Scegliere gli strumenti di misurazione (il metodo dipende dall’oggetto)
• Utilizzare gli strumenti mediante procedure corrette
• Registrare i risultati
• Leggere i risultati
3. Valutazione, che dipende da:
• Confronto dei risultati ottenuti con determinati parametri
• Interpretazione del confronto, cioè l’espressione di un giudizio

La valutazione delle competenze è cruciale per giudicare l'adeguatezza e il potenziale di crescita di un dipendente.
Questo processo coinvolge l'analisi delle competenze chiave richieste per il ruolo attuale e per possibili avanzamenti
di carriera. Valutare l'adeguatezza delle competenze attuali e identificare il potenziale per sviluppare nuove
competenze aiuta a creare piani di sviluppo personalizzati, garantendo che i dipendenti siano pronti a fronteggiare
sfide future e a contribuire in modo significativo all'organizzazione (ex. nel processo di selezione, quello che interessa
è la valutazione del potenziale. Non conosciamo la persona, però dobbiamo decidere se sarà in grado di assumere un
determinato ruolo all’interno dell’organizzazione).

Come si fa a valutare le competenze delle persone?


Ci sono alcune componenti della competenza, come le capacità e le conoscenze, che possono essere indagate con una
certa precisione. La combinazione tra conoscenze e capacità, ma soprattutto la loro possibilità di essere applicate al
compito affidato, è un tema considerevole. È quindi importante dotarsi di metodi che ci consentano di svolgere questa
attività valutativa nella maniera più utile possibile.
Il processo di valutazione delle competenze in azienda si compone di:
1. Scelta delle competenze da valutare: identificare le competenze chiave da valutare. Queste possono essere
competenze centrali (core), che conferiscono un vantaggio competitivo all'azienda, e soft skills, che sono
competenze trasversali.
2. Scelta degli indicatori: cioè comportamenti osservabili o caratteristiche rilevabili, che ci consentiranno di
valutare se una persona possiede o meno una specifica competenza. Ad esempio, come possiamo riconoscere se
qualcuno è abile nelle relazioni interpersonali?

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3. Scelta degli strumenti di misura e criteri di valutazione: definizione degli strumenti che useremo per misurare
le competenze e stabiliamo i criteri di valutazione che ci aiuteranno a interpretare i risultati.
4. Valutazione: qui avviene la fase di misurazione effettiva. Misuriamo le competenze e attribuiamo loro un
significato, confrontando i risultati con i criteri precedentemente stabiliti.
5. Restituzione, feedback: Forniamo feedback alla persona valutata. Questo non solo offre opportunità di
miglioramento, ma è anche importante eticamente perché contribuisce a mantenere una buona relazione
comunicando chiaramente il giudizio che l'altro ha nei suoi confronti.

Una metodologia di valutazione “rapida” delle competenze


1. Costruzione di un gruppo “esperto”: possiede competenze tecnico-operative, valori aziendali, leadership e le
competenze strategiche legate all’azienda, al business e al mercato. Tanto più nel mio gruppo ci saranno
rappresentate in maniera efficace queste 4 dimensioni, tanto più avrò la possibilità di avere una valutazione ampia
di queste competenze.
2. Condivisione delle aree di valutazione:
• Area delle competenze tecnico-operative (legate al ruolo)
• Area dei valori aziendali (precedentemente definiti)
• Area della leadership (potenziale)
• Area delle competenze strategiche (core, legate al contesto, legate all’innovazione)
3. Definizione degli items
4. Definizione della scala di valutazione: deve riguardare quello che è possibile osservare
5. Sperimentazione sul campo
6. Condivisioni delle analisi
7. Ritiratura dello strumento

Il processo di valutazione in azienda ha uno scopo pratico, mirando a prendere decisioni concrete piuttosto che a
condurre una ricerca scientifica sulle competenze dell'azienda. La chiarezza è fondamentale, poiché valutazioni
ambigue complicano il processo decisionale. Dal punto di vista applicativo, forzare la valutazione è considerato più
efficace, costringendo il valutatore a prendere una posizione definita e assumersi responsabilità. La valutazione è, in
ultima analisi, un processo sociale; quindi, è consigliabile utilizzare strumenti metodologici tipici della ricerca sociale
per garantire una valutazione accurata e informata.

Imparare «il» e «sul» lavoro


È importante costruire un sistema efficace di facilitazione dell'apprendimento nel contesto lavorativo. Il tradizionale
modello di formazione, spesso simile a quello scolastico, può generare ansia e non preparare adeguatamente alle sfide
del mondo del lavoro. Imparare a lavorare implica non solo acquisire competenze tecniche operative, alcune delle
quali sono comuni a tutti i lavori, ma anche sviluppare la competenza legata all'immagine di sé come lavoratore.
La nostra generazione può affrontare difficoltà nel comprendere l'importanza di elementi come il rispetto delle regole,
la formalità e l'orario nel mondo del lavoro. La competenza legata all'immagine di sé come lavoratore è cruciale, e
molte persone possono sentirsi sopraffatte dalla responsabilità soprattutto nelle prime settimane di lavoro, quando
manca un'adeguata percezione di sé come lavoratori.
L'apprendimento, pertanto, non riguarda solo il "saper fare" ma anche il "saper essere". Si tratta di un processo che
coinvolge un cambiamento nell'identità e spesso è associato all'adultità, intesa non solo come un fatto anagrafico, ma
anche come un concetto legato all'immagine di sé e alla percezione sociale.

Apprendere per sviluppare, apprendere per mantenere


L’apprendimento è:
✓ Una competenza di base dell’essere umano: gli uomini imparano soprattutto per adattarsi all’ambiente.
✓ Uno strumento di facilitazione del cambiamento: l’apprendimento serve per superare la resistenza al
cambiamento e aprirsi a nuove possibilità = aumentare e potenziare le competenze.

La cura del talento


I talenti aziendali si riferiscono a persone che, possedendo abilità particolari ed essendo state capaci di svilupparle e
rafforzarle, le impegnano in attività per loro interessanti su cui ritengono importante investire.
Data la rilevanza strategica del talento in azienda, bisogna garantire ai talenti una cura particolare.
Collings e Mellahi (2009), nella loro descrizione del talent management, forniscono alcune indicazioni su come
bisogna procedere per curare il talento all'interno di un'organizzazione:
1. Identificare con sistematicità le posizioni chiave che contribuiscono in maniera specifica al vantaggio competitivo
dell'organizzazione;

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2. Sviluppare un pool di talenti con prestazioni elevate e/o alto potenziale che possono occupare le posizioni chiave
precedentemente individuate;
3. Sviluppare un'architettura differenziata delle risorse umane, che sia in grado di facilitare l'occupazione di queste
posizioni con risorse competenti e assicurare il loro continuo impegno per l'organizzazione.

Lavorare sui talenti, quindi, richiede una nuova concezione di organizzazione dove la centralità organizzativa è data
dalla libertà e non dalla limitazione.

Facilitare e sostenere l’apprendimento sul lavoro


La formazione all’interno delle organizzazioni di lavoro è un processo che riguarda l’apprendimento.
La formazione:
✓ È un intervento finalizzato e organizzato, che aumenta l’efficienza e l’efficacia dell’apprendimento
✓ Evidenzia il rapporto individuo-gruppo, in quanto nella formazione sul lavoro spesso il gruppo è di per sé un
oggetto di apprendimento (→ molta formazione aziendale riguarda proprio le dinamiche di gruppo)
✓ È un apprendimento consapevole, che aumenta l’ingaggio e la responsabilità esercitata.

La formazione al servizio dell’apprendimento serve a facilitarlo, cioè ottimizzare attraverso metodi e tecniche
specifiche i processi di apprendimento degli adulti che lavorano.
Se scelgo come modalità formativa l'addestramento, l'obiettivo implicito è quello di ridurre lo spazio decisionale in
modo da ridurre il rischio che può derivare dall'assumere decisioni sbagliate. Se invece dovrò operare in contesti
fluidi, con un elevato livello di opzioni e variabili, ricorrere a modelli di apprendimento "chiusi" risulterà
disfunzionale.

L’andragogia, ovvero lo specifico dell’apprendimento degli adulti


L'andragogia è la disciplina che studia l'apprendimento e l'educazione degli adulti. Malcom Knowles sostiene che per
poter imparare bisogna “fare spazio” lavorando sulle relazioni tra gli oggetti.
Vengono formulate 4 ipotesi sulla specificità dell’apprendimento degli adulti rispetto a quello dei fanciulli:
1. Diversità del concetto di Sé: l’adulto è autonomo e indipendente, mentre il bambino è dipendente dall’adulto.
2. Diversità nel ruolo dell’esperienza: nell’adulto vi è necessità di integrazione con quanto già sperimentato e
posseduto.
3. Disponibilità ad apprendere: per l’adulto vi è necessità di avere una motivazione applicativa, l’apprendimento è
mirato e circoscritto a ciò di cui avverte utilità.
4. Orientamento all’apprendimento: l’adulto impara per problemi, quindi è orientato ad apprendere ciò che
impara nel concreto.

Lo stile d’apprendimento
David Kolb ricava la definizione di apprendimento come processo: l'individuo si forma attraverso il processo di
scoperta del sapere e non soltanto attraverso il suo contenuto, è quindi fondamentale il percorso con cui si giunge a
una conoscenza e non solo il risultato a cui si giunge.
Secondo Kolb, l’apprendimento si articola in 4 fasi cicliche:
1. Esperienza concreta: sperimentare personalmente e discutere l’esperienza vissuta, enfatizzando gli aspetti
emozionali e l’intuizione.
2. Osservazione riflessiva: osservare, riflettere e interpretare le sensazioni e i comportamenti emersi durante
l’esperienza.
3. Concettualizzazione astratta: produrre e schematizzare concetti e abilità estendendoli a situazioni esterne, sia
lavorative sia personali, enfatizzando la logica e la generalizzazione.
4. Sperimentazione attiva: verificare le conoscenze e competenze acquisite in situazioni nuove, focalizzandosi sul
cambiamento e sull’evoluzione.

Identificare il proprio stile di apprendimento consente di comprendere la modalità più efficacie di imparare.
4 stili:
1. Divergente: rizzato dal sentire dal guardare, la persona che ha uno stile di apprendimento divergente mostra
interessi culturali diversificati e attenzione ai sentimenti propri e altrui
2. Assimilatore: la persona che ha uno stile di apprendimento assimilativo è caratterizzato dal guardare e dal
pensare mostra capacità logico razionali risulta orientato alla ricerca e all'elaborazione teorica

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3. Convergente: lo stile convergente è caratterizzato da pensiero e azione. Le persone con questo stile
presentano un forte controllo emotivo e lo scarso interesse alle relazioni umane, sono molto interessate alle
soluzioni di problemi pratici e realizzativi
4. Adattatore: lo stile adattativo è proprio delle persone curiose innovatrici. Sanno adattarsi bene alle
circostanze e le loro capacità di relazioni sono buone.

I modelli di apprendimento che sottostanno alla scelta di costruire una certa sequenza di contenuti e metodologie
didattica per una determinata azione formativa possono essere riferiti a due approcci:
• Deduttivo: di derivazione comportamentista → è fondato su di una concezione dell’apprendimento per ricezione.
Tale modello si applica attraverso lezioni per trasferire informazioni, esercitazione per verificare l’apprendimento e
riepilogo finale
• Induttivo: si fonda su una concezione dell’apprendimento “per ricerca”. Non partendo da un’esposizione di
contenuti, ma sollecitando la partecipazione attiva dei soggetti. Tale metodo prevede: l’esercitazione di verifica sulle
conoscenze possedute da cui ricavare l’input di nuovi contenuti; lezioni sui contenuti emersi dagli input; problema
emerso o simulazione di tali contenuti.

Il lavoro come luogo di apprendimento

In questo disegno, viene descritto schematicamente il lavoro inteso come luogo di apprendimento, identificando 4
diversi modi di apprendere e di fare formazione nelle organizzazioni di lavoro:
1. Apprendimento non organizzato/learning organization: non è pensato, non ce lo insegna nessuno. Si apprende
dall’esperienza professionale fatta e che, a sua volta, apprende e si sviluppa attraverso l’esperienza dei propri
membri (→ imparo imitando)
2. Addestramento (dalla parte dell’organizzazione): è la forma più tradizionale di formazione. Addestrare
significa insegnare a qualcuno una competenza operativa.
3. Adattamento/apprendimento imitativo: l’imitazione e l’addestramento servono per imparare la modalità più
efficace per adattarsi all’ambiente.
4. Apprendimento generativo/self-development: serve per affrontare quello che ancora non c’è (ex. passare da una
visione di sé come studente, a una visione di sé come lavoratore). L’apprendimento generativo organizzato si fa
attraverso la formazione manageriale, cioè sulle competenze trasversali.

1. L’apprendimento come risorsa per sviluppare le competenze


2. Apprendimento degli adulti
3. Apprendimento del e sul lavoro
4. Ambienti di apprendimento (le scuole, la learning organization): luogo in cui l’apprendimento è alla base dello
sviluppo stesso dell’organizzazione. Le caratteristiche principali della learning organization sono l’accesso facile
e diffuso alle risorse di conoscenza e un sistema di lavoro di tipo collaborativo (si lavora tutti insieme).

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La cura delle relazioni

La relazione, una questione vecchia come l’uomo…


Tre grandi filoni:
1. Motivazione
2. Competenza
3. Relazioni

Il modello di riferimento chiamato “comunità organizzativa” ci rimanda alla centralità della dinamica relazionale. Ci
sono quattro personaggi che utilizziamo come paradigmi di alcune questioni centrali nella dinamica relazionale:
1. Aristotele: la polis (città-stato) rappresenta la forma più completa di organizzazione politica, in cui i cittadini
partecipano attivamente al governo per il bene comune. Aristotele è figlio di una concezione democratica del
potere.
Il senso di comunità però si andrà ad infrangere con l’affermazione degli Stati nazionali e l’imporsi della
rivoluzione industriale. La soggettività annega in una massa indistinta, la classe operaia, e si va ad indebolire il
senso di comunità.
2. Thomas Hobbes: l'uomo nello stato di natura è descritto come egoista, competitivo e guidato dal desiderio di
autoperservazione. Hobbes teorizza che gli individui, in assenza di un'autorità centrale, vivrebbero in un costante
stato di guerra "di tutti contro tutti". Il contratto sociale, secondo Hobbes, è necessario per porre fine a questa
condizione, trasferendo l'autorità a un sovrano per garantire l'ordine e la sicurezza. Hobbes è figlio di una
concezione monarchica del potere.

L'approccio aristotelico valorizza la responsabilità verso la comunità, mentre l'approccio hobbesiano evidenzia il lato
individualista e competitivo del comportamento umano. Si sottolinea che entrambi gli aspetti, costruttivi e egoistici,
sono presenti nell'essere umano. La domanda chiave è quale di queste dimensioni si desidera coltivare: l'affermazione
individuale o la costruzione comune. La scelta influenzerà la natura dell'organizzazione che si costruisce, orientandola
verso la competizione o la collaborazione come valore centrale.

3. Sigmund Freud: la società nasce per consentire agli uomini di vivere nella maggior sicurezza possibile, devono
essere rispettate delle regole di comportamento che fanno sì che le pulsioni individuali siano tenute sotto
controllo. La libido viene indirizzata verso le strutture sociali come la famiglia.
4. Ferdinand Tönnies: distingue tra due tipi di organizzazione sociale: la Gemeinschaft, che si riferisce a comunità
basate su legami di sangue, affinità e tradizione; e la Gesellschaft, che indica società più moderne caratterizzate
da relazioni contrattuali, razionalità e interazioni impersonali. Questa distinzione riflette le differenze tra legami
sociali più organici e basati sulla fiducia (comunità) e quelli più meccanici e basati sugli interessi individuali
(società).

Usare la categoria comunitaria di Tönnies per leggere le organizzazioni ci deve interessare, perché mettere il fuoco sul
fatto che la dimensione relazionale sia una dimensione primaria dell’essere umano e che nella comunità la relazione
trova la sua cura, ci permette di mettere al centro non tanto l’individuo, ma la persona (soggetto della relazione). La
logica si sposta da una prevalenza della combinazione (“One win, one lose”), a una dinamica di cooperazione (“Win
win”). L’organizzazione, quindi, serve a contenere le dinamiche disfunzionali (ex. predatorie, opportunistiche e
utilitaristiche) e orientare le dinamiche generative.

L’interdipendenza come concetto chiave nella comunità organizzativa


Il processo relazionale è fondamentale per l'idea di comunità, evidenziando l'interdipendenza come espressione di
legami tra individui nell'ambito organizzativo. Si afferma che l'interdipendenza è inevitabile, poiché la struttura
dell'individuo è intrinsecamente legata a dipendenze reciproche all'interno di un contesto specifico. Il testo sottolinea
che il concetto di dipendenza entra in conflitto con quello di indipendenza e che, dal punto di vista psicologico,
l'indipendenza è irrealizzabile a causa delle connessioni presenti in un dato campo.
Nell'ambito organizzativo, lavorare sull'interdipendenza richiede attenzioni specifiche riguardo ai dispositivi che
possono favorire l'evoluzione delle relazioni in questa direzione.
Tre elementi che consentono di sviluppare l’interdipendenza a livello organizzativo:
1. Riconoscimento reciproco dei propri diritti.
2. Riconoscimento reciproco della legittimità dei propri obiettivi.
3. Adozione di politiche condivise e coordinate.

Mentre l'interdipendenza promuove la collaborazione e la connessione tra le persone nell'organizzazione, la


dipendenza può implicare una relazione più asimmetrica in cui una parte si affida all'altra per determinati aspetti o

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risorse. Entrambi gli elementi possono coesistere in un ambiente organizzativo, con livelli variabili di reciproca
dipendenza e interdipendenza.
C’è un livello di dipendenza che è necessario alla sopravvivenza (ex. un bambino appena nato è dipendente e fuori da
questa relazione di dipendenza morirebbe). La dipendenza in una comunità può essere un fattore complesso. Dipende
dal tipo di dipendenza e dal contesto. Una dipendenza positiva, come la collaborazione e il supporto reciproco, può
rafforzare una comunità. Tuttavia, dipendenze negative, come comportamenti distruttivi o dipendenza da sostanze,
possono avere impatti dannosi.
Quindi, il primo punto di partenza per la realizzazione dell’interdipendenza è la consapevolezza del fatto che,
all’interno di una macchina, tutte le parti sono essenziali.

L'interdipendenza nei gruppi di lavoro permette di accettare la differenza: è solo la consapevolezza di dipendere
reciprocamente che permette di assumere la necessità di un altro diverso da te per generare qualcosa di nuovo.
L'interdipendenza positiva assume particolare rilevanza anche nell'apprendimento cooperativo: percezione di essere
collegati con altri in un modo tale che nessuno può avere successo senza il gruppo.

Equità e giustizia organizzativa


Rispetto al tema di facilitazione delle relazioni organizzative, l'equità e la giustizia organizzativa possono fungere da
potenti fattori motivazionali per i dipendenti. Quando le persone percepiscono che vengono trattate in modo giusto
ed equo sul luogo di lavoro, sono più propense a essere motivate a dare il massimo. La sensazione di equità nei
processi decisionali, nelle opportunità di carriera e nelle ricompense può alimentare un senso di impegno e
appartenenza all'organizzazione.

Il “sentirsi oggetto di un comportamento giusto” è legato a tre dimensioni:


1. Giustizia distributiva: riguarda la distribuzione equa delle risorse, benefici e opportunità all'interno di un
sistema. In ambito organizzativo, si traduce nella gestione equa delle ricompense, delle promozioni e delle
opportunità di sviluppo tra i membri del personale. Una corretta giustizia distributiva contribuisce a creare un
clima in cui i dipendenti percepiscono che le ricompense sono assegnate in modo equo in base al merito e agli
sforzi.
2. Giustizia procedurale: la procedura come garanzia della massima giustizia.
3. Giustizia interazionale: la qualità del trattamento ricevuto e il suo nesso con un sentimento di giustizia.
Collegato a questo tema della giustizia, ci sono modi molto diversi di intendere il compito di governo di
un’organizzazione. Il capo autocratico garantisce il potere e questo talvolta può essere vantaggioso perché se è un
capo riconosciuto, le persone sono contente. L’azienda è da un lato una comunità, dall’altro una società, ossia un
collettivo regolato da contratti che sono finalizzati al raggiungimento di determinati obiettivi e, proprio per la
maggiore efficienza dell’autocrazia rispetto alla democrazia, quasi sempre le organizzazioni tendono ad attivare
dei modelli di tipo autocratico. Una differenza la può fare, appunto, come funziona l’interazione: tanto più sono
coinvolto nel processo organizzativo, tanto più mi è facile seguire ciò che mi viene detto comprendendone il
senso.

N.B.: La condivisione come strumento di promozione della giustizia. Parlare di condivisone in un’azienda implica
parlare di cosa significa condividere e come si fa, ma anche cosa è importante condividere. Ci sono tre elementi di
condivisione necessari in un’azienda:
1. Lavoro: tanto più si è capaci di lavorare insieme, tanto più l’azienda funziona bene. Per lavorare bene, è
necessaria la capacità di collaborare e una visione in cui la collaborazione è un valore. Quindi, a monte c’è una
scelta di un modello culturale di riferimento ed è il motivo per cui la prima cosa che va condivisa in
un’organizzazione è la mission e la vision.
2. Mission di un'azienda: rappresenta la sua ragion d'essere e il suo scopo fondamentale. Comprende solitamente la
dichiarazione di intenti, i valori fondamentali e la visione a lungo termine dell'azienda. Essenzialmente, definisce
la direzione strategica e il contributo che l'azienda si impegna a portare nel mercato o nella società. Serve come
guida per le decisioni aziendali e per stabilire un quadro coerente per gli obiettivi e le attività dell'azienda.
3. Vision di un’azienda: dipinge un quadro di ciò che l'azienda spera di raggiungere nel lungo periodo, spesso
includendo la realizzazione di obiettivi significativi. La vision fornisce una guida ispiratrice per i dipendenti e
aiuta a stabilire una direzione chiara per lo sviluppo e la crescita dell'azienda nel tempo.

Ogni buona azienda dovrebbe fare in modo che le proprie persone condividano la missione e la visione. Per farlo, è
necessario che qualcuno glielo spieghi e attuare interventi di aggiornamento sulle modifiche che potrebbero esserci nel
tempo (ex. se cambiano gli obiettivi cambiano anche le competenze che mi servono). Quindi, la condivisione
dovrebbe essere un processo permanente: tanto più l’azienda mette in campo delle iniziative di condivisione, tanto
più facilita le persone a sentirsi parte dell’organizzazione. Questo implica una riflessione da tutte e due le parti: una
nuova campagna centrata su competenze assenti all’interno dell’azienda, dal punto di vista psicologico comporta il

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fatto che uno possa iniziare a sentirsi inutile. Quindi, devo riuscire a mantenere una ragione di appartenenza, sennò la
persona prende le distanze.
La percezione di giustizia non è una dinamica oggettiva e statica, perché cambia anche in relazione al contesto. “Ci
sono dei casi in cui nelle aziende si attuano dei comportamenti individuali discrezionali non direttamente o
esplicitamente riconosciuti dal sistema formale di compenso, ma che nel complesso fanno funzionare bene
l’organizzazione” (ex. se aiuto una collega in difficoltà, l’obiettivo viene raggiungo, anche se non è stato il capo che
mi ha detto di aiutarla).
In altre parole, i comportamenti individuali discrezionali si riferiscono alle azioni e alle decisioni personali prese da un
individuo che non sono strettamente vincolate da regole o procedure.
• Esiste un legame tra i comportamenti individuali discrezionali e la cittadinanza organizzativa che si basa sulla
volontà degli individui di contribuire al benessere e al successo dell'organizzazione. Comportamenti discrezionali
positivi, come il volontariato, possono favorire un clima organizzativo positivo, promuovendo un senso di
appartenenza verso l'organizzazione, caratteristica della cittadinanza organizzativa. La cittadinanza attiva è
l’espressione di una pro-attività a prescindere dal proprio compito ed è interessante perché si riconosce che c’è un
compito comune a tutti.
Questi comportamenti individuali discrezionali vale la pena di stimolarli oppure no? Sì, se l’organizzazione viene
concepita come una comunità in cui i soggetti sono interdipendenti. Possiamo rinforzare questa attenzione
attraverso una definizione della nostra identità e i valori ad essa legati (ex. se un’azienda dice che si fonda sul rispetto
e sulla trasparenza senza imporlo con modi più “autoritari”, lo fa perché c’è un elemento di valore che è coesistente
alla norma. In questo modo costruisce una cultura inclusiva senza ricorrere alla sanzione).
Per evitare che i valori rimangano solo sulla carta, devo costruire dei dispositivi (ex. quelli che riguardano le politiche
di vendita) in cui sia possibile sperimentare il fatto che sono davvero dei valori.
Lo strumento principale che aggrega la comunità attorno a questi valori è la “Convention”, la quale offre
un'opportunità per la comunicazione diretta e la collaborazione all'interno dell'ambito aziendale.

Comunicare per essere in relazione


Cosa è la relazione e come funziona?
La relazione è un collegamento tra due o più persone. La relazione è intrinsecamente faticosa perché porta con sé una
contraddizione nei termini: è una necessità esistenziale, ma al tempo stesso è anche una sfida al desiderio di libertà che
abbiamo tutti. Il legame ha la finalità di favorire il passaggio di informazioni. Un legame che non favorisce lo
scambio è patologico (c’è uno che domina e l’altro che è dominato).
Le informazioni non sono degli oggetti, ma riguardano innanzitutto il soggetto che è legato: nel legame posso dire chi
sono, pur essendo impegnativo perché all’altro potrei non piacergli.
La comunicazione è lo strumento della relazione: lo scambio è ciò che ne permette la relazione di non essere
qualcosa di statico, ma di costruire qualcosa di nuovo. Essa coinvolge mittente, messaggio, canale e destinatario. Il
mittente invia un messaggio tramite un canale al destinatario, che interpreta il messaggio.
La comunicazione è un processo circolare perché vi è un continuo scambio di messaggi tra mittente e destinatario.
Dopo aver ricevuto un messaggio, il destinatario può fornire feedback, avviando così un nuovo ciclo di
comunicazione. Questo modello evidenzia la natura dinamica e interattiva della comunicazione.
Lo scambio, che è circolare, non riguarda soltanto le informazioni sull’oggetto, ma anche quelle sul rapporto che c’è
tra i soggetti.
Nella comunicazione umana, modalità e contenuto tendono a sovrapporsi: la gestualità, l'espressione facciale e il tono
vocale possono influenzare il modo in cui il contenuto è interpretato, creando una sovrapposizione tra come qualcosa
viene detto e cosa viene effettivamente comunicato.

La pragmatica della comunicazione umana (Paul Watzlawick)


La pragmatica della comunicazione umana esplora come le persone interpretano e producono significati
comunicativi considerando il contesto, le intenzioni dell'emittente, le aspettative culturali e sociali, nonché i
riferimenti condivisi. Si tratta di comprendere come il linguaggio viene utilizzato in pratica per ottenere scopi specifici
all'interno di una data situazione comunicativa.
La teoria della comunicazione umana di Paul Watzlawick individua cinque assiomi della comunicazione:
1. Impossibilità di non comunicare: le persone comunicano costantemente, anche quando cercano di evitare la
comunicazione.
2. Livelli di comunicazione: la comunicazione può essere di due tipi: livello di contenuto (ciò che viene detto) e
livello di relazione (come il messaggio dovrebbe essere interpretato).
3. Punteggiatura: la punteggiatura si riferisce a come le persone strutturano e interpretano sequenze di eventi,
attribuendo causa ed effetto.
4. Digitalicità e analogicità: la comunicazione può essere digitale (basata su parole) o analogica (gesti, espressioni
facciali), e entrambe contribuiscono al significato complessivo.

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5. Simmetria e complementarità: le relazioni possono essere simmetriche (pari potere) o complementari (poteri
diversi), e queste dinamiche influenzano la comunicazione.

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martedì 28 novembre 2023

Criticità ed elementi di successo nel comunicare


Il contesto rumoroso indica che durante la comunicazione, ci sono sempre elementi che interferiscono con la
chiarezza del messaggio. Questo "rumore" può essere causato da vari fattori. Per affrontare questa sfida è impossibile
eliminare completamente il rumore, ma si possono adottare misure per ridurne gli effetti. Ad esempio, amplificare il
messaggio o introdurre una certa ridondanza possono essere strategie utilizzate per rendere il messaggio più
comprensibile nonostante il rumore presente.
È importante anche l’autorevolezza del comunicatore, poiché questa influisce sulla credibilità del messaggio. Nel
contesto organizzativo, vengono presentati quattro elementi che possono influenzare la percezione del comunicatore:
1. Competenza
2. Reputazione
3. Commitment (impegno)
4. Sponsorship (sponsorizzazione).
Questi elementi contribuiscono a stabilire la credibilità del comunicatore, e quindi, l'efficacia del messaggio
trasmesso, specialmente in un contesto lavorativo.

L’efficacia della comunicazione dipende da due elementi:


1. Contenuto (cosa dico): il contenuto è prevalentemente fatto di componenti cognitivo- razionali, di cui si ha una
percezione consapevole.
2. Relazione (come lo dico): la relazione è prevalentemente espressa da componenti emotivo-irrazionali, che si
percepiscono spesso in modo inconsapevole.
L'efficacia nella comunicazione si concentra sull'abilità di trasmettere il messaggio in modo chiaro e comprensibile,
raggiungendo gli obiettivi desiderati. L'efficienza, d'altra parte, riguarda il raggiungimento di tali obiettivi con un
utilizzo ottimale delle risorse, come tempo e sforzi. La chiave della comunicazione efficace è la comprensione di ciò
che viene recepito dall'interlocutore. Non basta solo esprimere un concetto; è fondamentale che il messaggio sia
recepito e compreso nel modo desiderato. Quindi, la valutazione dell'efficacia della comunicazione si basa sulla
risposta e sulla comprensione ottenute, non solo sulla trasmissione delle parole.

L’ascolto
La comunicazione è un processo bidirezionale in cui l'ascolto gioca un ruolo cruciale. La capacità di comprendere e
interpretare il messaggio ricevuto contribuisce significativamente all'efficacia complessiva della comunicazione. Sia il
parlare che l'ascoltare sono elementi fondamentali per una comunicazione completa e efficace.
In molte organizzazioni, la mancanza di pratiche di ascolto può essere attribuita a diversi fattori, tra cui:
1. Struttura gerarchica con una leadership verticale, che può limitare la libera circolazione delle informazioni.
2. Pregiudizi e bias nella condivisione delle idee, che possono ostacolare un dialogo aperto e inclusivo.
Superare queste sfide richiede sforzi per promuovere una cultura organizzativa che valorizzi l'ascolto attivo e
favorisca la diversità di prospettive.

Incrementare l'ascolto organizzativo può avvenire attraverso diversi approcci:


1. Aumentare i momenti di condivisione, come convention, meeting e colloqui, per favorire un dialogo continuo.
2. Sviluppare competenze di ascolto tra i membri dell'organizzazione, incoraggiando la pratica di riflessione e
comprensione.
3. Creare un ambiente che valorizzi l'apertura e l'inclusività, incoraggiando i dipendenti a condividere idee senza
timori.
4. Implementare sistemi di feedback e valutazione per raccogliere opinioni e migliorare costantemente i processi di
comunicazione interna.

Quattro regole per una «buona» comunicazione


1. Comprendere prima di concludere: Evita conclusioni affrettate, poiché la vera comprensione richiede tempo e
riflessione.
2. Considerare i punti di vista: La prospettiva da cui osservi influenza ciò che vedi; apriti a diverse prospettive per
una visione più completa.

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3. Immedesimarsi: Per comprendere gli altri, ipotizza che abbiano ragione e chiedi spiegazioni per capire le loro
prospettive e motivazioni.
4. Riconoscere il peso delle emozioni: Le emozioni sono strumenti conoscitivi cruciali; accettale, non temerle, e
interpreta il loro linguaggio relazionale e analogico.

Fare comunicazione in azienda: il colloquio

Il colloquio in azienda: cosa


Collòquio s. m. [dal lat. colloquium, der. di collŏqui «parlare insieme», comp. di con- e loqui «parlare»].
1. Abboccamento, conversazione tra due persone o più (ma sempre poche), di solito su argomenti di qualche
importanza.
2. Esame orale, in forma di conversazione, diretto ad accertare la cultura generale o la preparazione specifica del
candidato, e le sue attitudini.

Il colloquio in ambiente aziendale riflette una relazione asimmetrica tra gli interlocutori, come tra capo e
collaboratore, e dovrebbe essere orientato al raggiungimento dei suoi obiettivi. Il primo scopo principale è facilitare lo
scambio informativo, incoraggiando la bidirezionalità della comunicazione. Inoltre, si evidenziano tre scopi
principali della comunicazione durante un colloquio:
1. Scambiare informazioni: A e B portano informazioni diverse, le condividono nel colloquio, e entrambi escono
con una combinazione di entrambi i set di informazioni.
2. Confermare informazioni: si tratta di rafforzare e confermare le informazioni già presenti, come nel caso di
gerarchie aziendali.
3. Generare nuove informazioni: L a comunicazione durante il colloquio non si limita a una semplice sommatoria
delle informazioni di A e B. Invece, può portare a un processo di creazione di nuove informazioni (c) che si
aggiungono alle informazioni iniziali. Questo tipo di comunicazione generativa spesso conduce a cambiamenti
praticabili, poiché non si tratta solo di sostituire informazioni esistenti, ma di aggiungere nuove prospettive e
conoscenze al contesto del colloquio.

Il colloquio di feedback
Il feedback è un diritto del lavoratore poiché consente di comprendere ciò che non ha funzionato e fornisce
un'opportunità per migliorare. L'impegno, considerato sia come costo che come investimento, sottolinea che il
lavoratore ha il diritto di conoscere il risultato del proprio sforzo.
Un buon feedback permette di migliorare la qualità dell’informazione e di stabilire relazioni generative. Per
intraprendere un percorso positivo è utile avere informazioni sulla strada, posso però anche avere informazioni errate.
Il feedback può quindi favorire il «potere personale» o diminuirlo.

Per condurre un colloquio efficace, fai attenzione a:


1. Allo scopo:
• Favorisci uno scambio piuttosto che essere autoreferenziale o unidirezionale.
• Definisci chiaramente l'obiettivo e come verificare il cambiamento che intendi provocare.
2. All'ambiente:
• Considera il contesto circostante e gli eventi prima e dopo il colloquio.
• Mantieni la flessibilità, formulando ipotesi e adattandoti continuamente alla dinamica.
3. All'interlocutore:
• Sintonizzati emotivamente ed empaticamente con l'altro, cercando di comprendere il suo punto di vista.
• Pratica l'immedesimazione, anticipando l'effetto che le tue parole possono avere sull'altro.
4. Agli effetti:
• Riconosci che la comunicazione è un processo relazionale che può influenzare reciprocamente i partecipanti.
• Tieni presente che ogni colloquio ha un impatto e cerca di guidare il processo con un'ipotesi sulla direzione del
cambiamento.

mercoledì 29 novembre 2023

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Dare un buon feedback
La tabella confronta le caratteristiche che ha un buon feedback, rispetto ad uno non ottimale. Le categorie che
vengono
considerate
sono quelle
della

comprensibilità, della correttezza e dell’utilità.


1. Comprensibilità
• Buon feedback: chiarezza nella comunicazione, istruzioni specifiche e comprensibili. Evita ambiguità e fornisce
dettagli utili.
• Feedback non ottimale: ambiguo, vago o poco chiaro. Potrebbe mancare di informazioni specifiche, rendendo
difficile per il destinatario capire cosa fare o migliorare.
2. Correttezza
• Buon Feedback: fatti accurati, informazioni corrette e pertinenti. Basato su dati reali o osservazioni concrete.
• Feedback non ottimale: contiene informazioni inesatte. Può portare a fraintendimenti o a indicazioni sbagliate.
3. Utilità
• Buon Feedback: offre suggerimenti pratici e costruttivi per il miglioramento. Indica chiaramente cosa può essere
fatto per ottenere risultati migliori.
• Feedback non ottimale: manca di consigli utili o fornisce critiche senza indicare soluzioni o miglioramenti
specifici.

Fare comunicazione in azienda: gestire le riunioni

La comunicazione in un contesto di gruppo: la riunione


Nell’ambito della comunicazione organizzativa, lo strumento prevalentemente usato è la riunione. La riunione è un
evento collettivo di comunicazione sincrona, in cui circolano informazioni per finalità che possono essere diverse:
1. Condividere informazioni: diffusione di conoscenze rilevanti.
2. Prendere decisioni: deliberazione e scelta di azioni o direzioni.
3. Valutare/verificare iniziative/azioni svolte o in via di svolgimento: esame delle attività in corso per assicurare
coerenza e successo.

Esiste un tipo di riunione intermedia tra quelle decisionali e informative, finalizzata a valutare le conseguenze di una
decisione presa o a determinare come implementarla. In questo contesto, la riunione coinvolge la partecipazione
simultanea di diverse persone, creando un contesto di comunicazione in tempo reale. Questo permette lo scambio
immediato di informazioni e opinioni tra i partecipanti. Di fatto nel corso della riunione i partecipanti si costituiscono
come un gruppo di lavoro, per questo i driver di una buona riunione sono:
1. I risultati da raggiungere.
2. Le dinamiche che possono facilitare o ostacolare il raggiungimento dei risultati.

Pianificare e organizzare una riunione


Qual è lo scopo? A seconda dell’obiettivo pianificherò la riunione in modo diverso.
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1. Se l’obiettivo è la condivisione importante una pianificazione corretta della presentazione, la garanzia di poter
richiedere approfondimenti, una verifica di quanto trasferito.
2. Se l’obiettivo è la presa di decisioni importante fornire gli elementi informativi necessari (magari prima) e un
metodo condiviso di presa di decisione.
3. Se l’obiettivo è la verifica/valutazione importante è condividere uno strumento valutativo.

Cosa fare prima?


1. Inviare ordine del giorno/scaletta della riunione, in cui sia chiaro l’obiettivo e i tempi.
2. Inviare eventuale materiale informativo utile.
3. L’importanza del realismo (tempi e modalità).

Condurre una riunione


Le riunioni in presenza coinvolgono spese significative, quindi è cruciale assicurarsi che siano ben pianificate e che
apportino un valore tangibile. Se ne vale la pena, chi conduce ha interesse che il tempo venga utilizzato al massimo.
L'obiettivo di una riunione è sensato quando è necessario condividere contemporaneamente informazioni con un
gruppo di persone e ricevere un feedback immediato.

Il conduttore assume un ruolo chiave:


1. Presidiare il trasferimento delle informazioni: assicurarsi che le informazioni siano trasmesse chiaramente e in
modo comprensibile a tutti i partecipanti.
2. Presidiare le dinamiche di gruppo: facilitare la partecipazione di tutti, gestendo le dinamiche di gruppo per
favorire un ambiente collaborativo e inclusivo.
3. Presidiare il rispetto dei tempi: mantenere il controllo sui tempi per evitare di andare oltre quanto pianificato,
assicurando un utilizzo efficiente del tempo di tutti i partecipanti.
4. Ricapitolare quanto emergente: riepilogare quanto emerso durante la riunione per garantire che le informazioni
siano state effettivamente condivise e comprese da tutti i presenti.
In questo modo, il conduttore svolge un ruolo fondamentale nell'assicurare che la riunione sia produttiva, coinvolgente
e rispetti gli obiettivi prefissati.

Smartworking e riunioni
Le attuali condizioni ci portano sempre più frequentemente a svolgere riunioni in remoto, utilizzando uno dei tanti
strumenti di call conference disponibili. I vantaggi sono così tanti che è difficile pensare che si possa tornare
totalmente indietro. Partecipare a una riunione presenta sfide, come l'instabilità di connessione e la difficoltà nel
feedback in tempo reale. La gestione accurata del moderatore è cruciale per mantenere i tempi, coinvolgere i
partecipanti e evitare dispersione. La partecipazione può essere importante per la collaborazione efficace e la
condivisione di informazioni rilevanti.

martedì 5 dicembre

I gruppi di lavoro

Il gruppo come entità dinamica


La centralità dei gruppi nella vita umana è evidente fin dalla nascita, con il processo di socializzazione e formazione
dell'identità adulta. Questa pervasività ha catturato l'attenzione delle scienze sociali sin dal XIX secolo. Le teorie di
Le Bon sottolineano che essere parte di un gruppo può portare a processi caratterizzati dalla perdita di responsabilità
individuale, imitazione reciproca e predominanza di fattori emotivi, trasformando la mente individuale in una mente
collettiva.

Gli studi successivi, come quelli di Lewin negli anni '30, hanno approfondito la comprensione del clima di gruppo in
relazione a diverse forme di leadership, contribuendo all'analisi psicologica con un approccio metodologico rigoroso.

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Secondo Lewin, un gruppo può essere considerato un’entità dinamica in quanto le forze sociali e le dinamiche interne
influenzano costantemente la sua struttura e il comportamento dei membri. Nella comprensione di una dinamica in
movimento, la relazione tra i singoli elementi diventa cruciale. Lewin sottolineava l'importanza di esaminare le forze
sociali e le interazioni tra gli individui per comprendere appieno il comportamento di un gruppo o un'organizzazione.
Analizzando le relazioni, si ottiene una prospettiva più completa sulla dinamica in evoluzione e si possono identificare
le influenze chiave che modellano il sistema nel tempo.
1. Totalità del gruppo: il concetto di gruppo va oltre la mera sommatoria di membri, considerandolo come un'entità
completa e unificata.
2. Dinamicità del gruppo: il gruppo è interpretato non come una realtà statica, ma come un centro di forze, tensioni
e conflitti in costante cambiamento. Questa prospettiva è in linea con la Teoria del Campo.
3. Indipendenza e interdipendenza: la chiave non è la similarità tra i membri, ma la consapevolezza
dell'interdipendenza. Le azioni di un individuo influenzano gli altri, creando un costante riequilibrio nel gruppo
(es. l'entrata o l'uscita di un membro).
4. Equilibrio dinamico: nonostante la dinamicità intrinseca, ogni gruppo mostra una tendenza verso l'equilibrio.
Ciò implica un costante contrasto tra le forze che spingono alla disgregazione e quelle che favoriscono
l'integrazione del gruppo.

Razionalità e irrazionalità nel gruppo


Wilfred Bion, psicoanalista, ha esaminato il modo in cui la razionalità e l'irrazionalità possono manifestarsi all'interno
dei gruppi attraverso il concetto di "funzione di pensiero di gruppo". Secondo Bion, i gruppi possono sperimentare sia
la razionalità che l'irrazionalità in relazione al processo decisionale e alla gestione delle emozioni.
1. Dimensione razionale/operativa: quando la funzione di pensiero di gruppo è attiva, i membri del gruppo sono in
grado di affrontare in modo razionale i problemi, discutere apertamente le idee e lavorare insieme in modo
collaborativo verso obiettivi comuni. La razionalità si manifesta quando il gruppo può utilizzare il pensiero
critico per affrontare le sfide in modo strutturato.
2. Dimensione inconscia/affettiva: al contrario, quando la funzione di pensiero di gruppo è ostacolata, possono
emergere dinamiche irrazionali. Questo può includere la negazione della realtà, la formazione di difese di
gruppo e la tendenza a evitare i compiti difficili. L'irrazionalità può ostacolare la capacità del gruppo di affrontare
i problemi in modo efficace.

Gli assunti di base che evidenziano le dinamiche emozionali e relazionali che possono emergere nei gruppi sono:
1. Dipendenza: i membri del gruppo cercano di dipendere da un leader o un'autorità superiore per risolvere i
problemi del gruppo.
2. Attacco-fuga: il gruppo percepisce un nemico esterno e reagisce con un'attitudine di attacco o fuga per
preservare l'autoconservazione del gruppo. Nella teoria di Bion, potrebbe essere associato alla "funzione di
attacco-fuga", che indica la tendenza del gruppo a sfogare tensioni o conflitti attraverso l'aggressione o il distacco.
3. Accoppiamento: richiama l'idea di connessione o relazione stretta all'interno del gruppo. L'accoppiamento
potrebbe riferirsi alle dinamiche interpersonali, alla formazione di legami stretti o a una sorta di "accoppiamento
emotivo" all'interno del gruppo.
L’attività del gruppo di lavoro è ostacolata, deviata e talvolta favorita da certe attività mentali che hanno in comune
l’attribuzione di forti tendenze emotive. Queste attività, a prima vista caotiche, acquistano via via una certa
strutturazione.

Il gruppo di lavoro
Il gruppo di lavoro è un gruppo particolare. Il gruppo di lavoro è diverso dal gruppo: il gruppo di lavoro è una pluralità
in integrazione, il gruppo è una pluralità in interazione.
1. Nell’interazione si sviluppa la coesione: emergono uguaglianze che consentono ai membri di riconoscere il
gruppo stesso come proprio.
2. Il passaggio successivo all’interazione è l’interdipendenza, cioè l’acquisizione della consapevolezza dei membri
di dipendere gli uni dagli altri.
3. L’interdipendenza è il tramite vincolante del gruppo di lavoro verso l’integrazione: la differenza è ricchezza e
non ostacolo.

Quattro caratteristiche:
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1. Totalità: il gruppo è visto come un'entità completa e interconnessa, in cui ogni parte contribuisce alla totalità del
gruppo. In altre parole, il gruppo è più della semplice somma delle sue parti; è un sistema integrato in cui ogni
elemento ha un impatto sull'intero.
2. Di rapporti circolari: le relazioni all'interno del gruppo sono circolari e interconnesse. Ciò implica che le
interazioni tra i membri influenzano reciprocamente le dinamiche del gruppo. È una visione sistemica delle
relazioni all'interno del contesto di gruppo.
3. Fondato su un contratto: la partecipazione al gruppo è regolamentata o basata su un accordo o contratto
implicito o esplicito. Gli individui nel gruppo hanno ruoli definiti o aspettative reciproche, che possono essere
considerati come parte di un "contratto sociale" all'interno del gruppo.
4. Con un conduttore: l'inclusione di un conduttore indica la presenza di una figura guida o un leader all'interno del
gruppo. Questa figura è responsabile di facilitare le interazioni, guidare il processo decisionale o fornire una
direzione al gruppo.

In generale, queste caratteristiche riflettono aspetti della struttura, delle relazioni e della leadership all'interno di un
gruppo sociale. Il contratto di lavoro tra gruppo e conduttore stabilisce le regole che guidano sia l’organizzazione
generale del gruppo sia i metodi specifici utilizzati per raggiungere gli obiettivi:
1. Regole organizzative: riguardano la struttura e l'organizzazione del gruppo. Possono includere la definizione dei
ruoli dei membri, le procedure decisionali, le aspettative di partecipazione e qualsiasi altro aspetto che riguarda la
gestione complessiva del gruppo. Le regole organizzative forniscono la struttura di base all'interno della quale il
gruppo opera.
2. Regole metodologiche: riguardano gli approcci e i metodi utilizzati dal gruppo per affrontare compiti o problemi
specifici. Possono includere le procedure di lavoro, gli strumenti utilizzati, le modalità di comunicazione e
qualsiasi altra direttiva relativa al processo di raggiungimento degli obiettivi del gruppo. Le regole metodologiche
influenzano il modo in cui il gruppo affronta le sfide e svolge il lavoro assegnato.

Il concetto di gruppo di lavoro è centrale nelle organizzazioni. Questi gruppi sono caratterizzati dall'obiettivo comune
dei membri di collaborare per svolgere un compito e produrre risultati. Le organizzazioni, in effetti, consistono
principalmente in insiemi di gruppi, alcuni formalizzati nella struttura organizzativa (reparti, uffici), altri con
caratteristiche meno formali e non necessariamente allineati alla struttura formale (gruppi di progetto, comitati, task
force), e infine, gruppi informali come amici e famiglie.

Nel contesto lavorativo, parlare di gruppi implica non solo discutere delle caratteristiche dei gruppi ma anche dei loro
obiettivi. I gruppi di lavoro funzionali non solo mirano al raggiungimento di risultati, ma anche allo sviluppo del
potenziale individuale dei membri e alla promozione del loro benessere.

Tra i gruppi di lavoro, si distinguono due categorie:


1. Gruppi empowered: caratterizzati da un elevato livello di empowerment, sono in grado di assumersi
responsabilità, spesso presenti nelle direzioni aziendali. Tipicamente, hanno la responsabilità di tutte le attività di
un intero processo, compresi gli aspetti gestionali, e dispongono di tecnologia adeguata e innovativa.
2. Gruppi empowering: capacità di facilitare il processo di empowerment dei propri membri, promuovendo lo
sviluppo del senso di potere individuale. È importante notare che un gruppo empowered non è necessariamente
empowering, poiché potrebbe diventare un ambiente competitivo incapace di accogliere membri che all'inizio
potrebbero non soddisfare gli standard. Per diventare sia empowered che empowering, un gruppo deve svilupparsi
come un'alleanza di forze. Il gruppo deve essere in grado di favorire tale sviluppo, considerando le caratteristiche
personali di chi vi partecipa.

Team building e gruppo dei forti


Il gruppo dei forti favorisce lo sviluppo individuale senza generare competizione tra i membri, basandosi sull'idea
che ciascun membro contribuisca con risorse personali per migliorare il gruppo. Questo paradigma si discosta dalla
tradizionale visione gerarchica, richiedendo motivazione e una gestione capace di affrontare la complessità
emergente.

Per costruire e sviluppare gruppi che rispondano a questo paradigma, si consiglia un approccio al team building
orientato all'empowerment. Questo coinvolge attività mirate allo sviluppo di competenze organizzative, creando un

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senso di identità e appartenenza per aumentare l'engagement. L'applicazione del modello di self-empowerment alle
dinamiche di gruppo ha portato a definire un modello specifico chiamato "positive team building".

In termini metaforici, il modello proposto è assimilato ai cavalieri della tavola rotonda, individui con responsabilità
specifiche e competenze che collaborano con il loro leader per affrontare le sfide comuni. Gli obiettivi del team
building in questa prospettiva includono lo sviluppo di un team generativo che sia un luogo di potenziamento
individuale, apertura a nuove possibilità all'interno dell'organizzazione e condivisione di responsabilità.

Gli obiettivi specifici di un positive team building possono riguardare:


1. Potenziamento di un team di direzione.
2. Incremento delle capacità interfunzionali dei membri del team.
3. Sviluppo del self-empowerment dei membri, parallelamente al miglioramento delle loro capacità di lavorare in
team.

Nella visione di team generativo, si enfatizza la sinergia e il reciproco riconoscimento tra i membri, mentre il leader
svolge un ruolo chiave nel manifestare fiducia attraverso segnali positivi e nel gestire eventuali preoccupazioni
personali. Questo approccio considera l'organizzazione come un sistema di gruppi interagenti, adattandosi alle sfide
esterne ed interne.

Far funzionare bene un gruppo di lavoro - Competizione e collaborazione


La competizione non è negativa, ma diventa dannosa quando mira a distruggere l'altro. Nella competizione è possibile
apprendere dall'altro, inizialmente imitandolo e successivamente superando l'imitazione attraverso un contributo
innovativo. Tuttavia, si avverte anche del rischio di annientamento, quando il desiderio di primeggiare si traduce non
in un valore aggiunto, ma nella distruzione del valore portato dall'altro.

Nel contesto aziendale, la competizione può portare a sottovalutare o negare la competizione viziosa, associata a
patologie organizzative come il bullismo. La cooperazione, pur essendo considerata idealista, è indicata come un
elemento cruciale, contrastando l'esigenza di lavorare insieme con la necessità di risorse competitive.

Collaborazione e competizione dovrebbero coesistere. In un ambiente cooperativo, la competizione non sarà


particolarmente premiata, mentre saranno valorizzate le azioni che dimostrano la partecipazione individuale al
risultato comune. Sviluppare una cultura di collaborazione parallela a quella della competizione può favorire la
partecipazione dei lavoratori e l'assunzione di responsabilità. Al contrario, concentrarsi solo sulla competizione può
portare alla de-responsabilizzazione e all'isolamento di coloro che non emergono. Nei contesti organizzativi, il team
emerge come lo strumento chiave per promuovere la collaborazione, con l'abilità di collaborare identificata come
fondamentale per garantire il funzionamento efficace del team.

I punti importanti di un gruppo di lavoro sono tre:


1. Comunicazione: le persone devono comunicare bene.
2. Appartenenza: le persone devono condividere il fatto che appartengono a un gruppo.
3. Scopo: le persone devono condividere almeno uno scopo.

Ciascuno di questi tre punti ha alcune implicazioni:


1. Comunicare bene vuol dire parlare la stessa lingua ed è difficile quando arriva un nuovo membro nel gruppo.
L’elemento che facilita questo è l’immedesimazione: sono tanto più in grado di comunicare bene quanto più
provo a pormi nella prospettiva dell’altro.
2. Insieme si possono raggiungere dei risultati che separatamente non si riescono a raggiungere.
3. Un buon gruppo di lavoro produce un risultato di un certo tipo perché c’è una collettività che si muove per
raggiungerlo.

Per costruire un gruppo di lavoro efficace, quattro o sono i punti a cui prestare attenzione:
1. Contratto: un buon gruppo di lavoro si fonda sul fatto che è chiaro il sistema delle aspettative reciproche, che
cosa dobbiamo fare, come dobbiamo farlo. Inoltre, garantisce una non eccessiva contraddizione tra gli obiettivi
personali e quelli del gruppo.
2. Ascolto attivo: permette di non valutare immediatamente con i propri strumenti interpretativi.
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3. Valorizzazione: riconoscere e apprezzare le competenze e le contribuzioni di ciascun membro del gruppo,
favorendo un clima di collaborazione e fiducia reciproca.
4. Dinamiche circolari della comunicazione: un gruppo funziona bene se chi lo conduce si ricorda che le
dinamiche di comunicazione sono sempre circolari.

Brainstorming e “lateral thinking”


Possono essere strumenti preziosi per stimolare la creatività e affrontare le sfide in modo innovativo. L’importante è
creare un ambiente in cui i membri si sentano incoraggiati a contribuire in modo aspetto e creativo, sfruttando sia la
diversità delle idee (brainstorming) sia l’approccio innovativo (lateral thinking).
1. Brainstorming: è particolarmente efficace quando un gruppo deve generare rapidamente molte idee su un
determinato argomento o risolvere un problema complesso. In un ambiente di lavoro di gruppo, questo può
favorire la partecipazione attiva di tutti i membri, incoraggiando una varietà di prospettive e idee. È utile
stabilire un ambiente aperto, in cui le persone si sentano libere di condividere liberamente le proprie idee senza
paura di giudizio. Successivamente, le idee possono essere valutate e sviluppate in modo più dettagliato. Alcuni
elementi fondamentali:
• Nessuna censura: i partecipanti possono esprimersi in totale libertà. Si possono usare strumenti che facilitino
l’emergere di pensieri liberi, ad esempio le libere associazioni.
• Mappe mentali: quanto emerso viene riportato su fogli o lavagne, in un secondo tempo si vanno a individuare
collegamenti.
2. Lateral thinking: può essere particolarmente utile quando si affrontano problemi complessi o quando è
necessario un approccio creativo e fuori dagli schemi. Nel lavoro di gruppo, il lateral thinking può stimolare la
discussione su possibili soluzioni innovative, incoraggiando i membri a pensare in modo non convenzionale e ad
esplorare vie creative. Questo approccio può rompere schemi mentali consolidati e portare a soluzioni originali.

mercoledì 6 dicembre

Il conflitto

Quali fattori determinano i conflitti


Machiavelli affronta il tema del conflitto nella sua opera "Il Principe" consigliando ai governanti di essere abili nella
gestione delle situazioni conflittuali. Raccomanda l'uso della forza quando necessario, ma anche la sagacia
diplomatica per mantenere il potere. Il suo realismo politico si concentra sulla pragmatica gestione dei conflitti per il
mantenimento della stabilità e del controllo.

I fattori che determinano i conflitti sono:


1. Interesse: le divergenze di interessi.
2. Diversità: la percezione dell’altro come potenzialmente ostile.
3. Mancato riconoscimento: la mancanza di sentirsi amati.
4. Ansia e paura
5. Provocazione e la sua escalation: la provocazione può innescare conflitti che poi si intensificano.
6. Apprendimento sociale: le dinamiche sociali apprese influenzano il modo in cui affrontiamo i conflitti.

Prevenire o disinnescare l’escalation


L'assenza di conflitto può derivare da una mera evitazione anziché da una gestione consapevole. La gestione
costruttiva dei conflitti può portare a una crescita e a una comprensione reciproca. Quindi, mentre l'evitare il conflitto
può causare problemi a lungo termine, la gestione efficace può contribuire a relazioni più solide e alla risoluzione di
problemi:
1. Alcuni principi di “buona” comunicazione: conferma, scambio e generatività.
2. Simmetria e complementarietà nel comunicare.

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La pace è un valore?
Il conflitto può emergere in qualsiasi gruppo, ma gestirlo in modo costruttivo è cruciale per la crescita. Comprendere
le diverse prospettive, promuovere il dialogo aperto e cercare soluzioni collaborative può trasformare il conflitto in
un'opportunità di apprendimento.

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