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COMUNICAZIONE E CULTURA
LEONE, MAZZARA, SARRICA
4 La prospettiva cognitiva
Alla metà degli anni 50 prende corpo quello che è diventato negli ultimi decenni
l'orientamento prevalente della psicologia, vale a dire l'approccio cognitivo. Il
punto di partenza è l'idea che il comportamento dell'individuo possa essere
efficacemente interpretato solo partendo dalla comprensione dei processi di
funzionamento della mente umana.
Il problema fondamentale, per la comprensione del comportamento umano, è
dunque quello della conoscenza del mondo: ci si rapporta infatti agli elementi del
mondo esterno non solo e non tanto in relazione alle loro caratteristiche
oggettive, quanto piuttosto in relazione al modo in cui tali caratteristiche sono
percepite, memorizzate, messe in rapporto tra loro e rielaborate in una
rappresentazione del mondo, la quale costituisce di fatto il reale ambiente nel
quale la nostra azione si svolge.
L'aspetto caratterizzante dell'approccio cognitivo consiste nell'aver concentrato
l'attenzione sulle specificità operative dei processi mentali, le quali sarebbero
fondate in ultima analisi sulla necessità di realizzare il massimo risultato con il
minimo sforzo, economizzando il più possibile le risorse cognitive disponibili, che
pur essendo tutt'altro che trascurabili, risultano tuttavia insufficienti rispetto alla
quantità di informazioni in arrivo.
Sul versante specifico della psicologia sociale l'approccio cognitivo si è tradotto nel
vasto settore della cognizione sociale, che si occupa in particolare delle modalità
con le quali si realizza la conoscenza degli altri e del mondo in genere. Hanno
assunto così importanza notevole alcune tematiche che, rielaborando alla luce di
questo approccio una serie di spunti classici della disciplina, costituiscono una
parte significativa della psicologia sociale attuale (tema importante: percezione di
persone).
Gli stereotipi, sono intesi come insiemi strutturati e tendenzialmente stabili di
aspettative e credenze nei confronti delle persone in funzione del gruppo sociale
al quale appartengono; le attribuzioni causali, ci orientano nel giudicare gli eventi
come dovuti a cause interne, relative alle caratteristiche e alle scelte delle persone
che agiscono, oppure a cause esterne, relative alle condizioni nelle quali l'azione si
svolge; gli schemi, sono intesi come forme predefinite di strutturazione della
conoscenza, che ci guidano nella raccolta e nell'elaborazione delle informazioni,
con precise aspettative circa le relazioni spaziali, temporali e funzionali tra i diversi
elementi di conoscenza che stiamo acquisendo; le euristiche di giudizio, che si
configurano come scorciatoie di pensiero che ci consentono di arrivare alla
soluzione di problemi in modo rapido e soddisfacenti pur in assenza di dati e di
risorse sufficienti per un'elaborazione completa.
5 la prospettiva gestaltista
Nei primi decenni del 900 si sono andati affermando diversi approcci teorici che in
modo diverso e complementare hanno rappresentato proposte di attuazione in
ambito psicologico dell'ideale conoscitivo di derivazione positivista. Due aspetti
hanno caratterizzato i primi sviluppi della psicologia. Il primo è l'idea che si possa
avere, tanto della realtà esterna quanto del mondo psicologico interno, una
conoscenza diretta e completa, corrispondente alle caratteristiche oggettive di
queste realtà. Il secondo è che tale conoscenza può avvenire in maniera ottimale
solo scomponendo le realtà complesse in unità più semplici, tali da poter essere
studiate in modo approfondito e con metodi sperimentali, con la convinzione che
le caratteristiche delle entità complessive che si studiano (processi mentali,
motivazioni, bisogni, comportamenti) derivino da una sommatoria delle
caratteristiche e delle modalità di funzionamento dei loro elementi costitutivi. Il
movimento gestaltista si è affermato in un primo tempo con gli studi sulla
percezione, estendendo poi la sua influenza a tutti gli ambiti di ricerca e restando
in proficua quanto problematica relazione con l'orientamento cognitivista. L'idea
di fondo è che la conoscenza, tanto degli oggetti fisici quanto degli eventi
psicologici, delle persone o dei fatti sociali, non avviene per sommatoria di
elementi, bensì come percezione di un tutto unitario, le cui caratteristiche e
proprietà non possono derivarsi dalle caratteristiche dei singoli elementi, bensì dal
modo in cui gli stessi sono organizzati.
Nei confronti della conoscenza, i gestaltisti sostennero una posizione di tipo
fenomenologico.
Da questo punto di vista la posizione gestaltista può considerarsi come diretta
antecedente di quella opzione costruzionista che tanta parte ha nel dibattito
contemporaneo sulla natura della psicologia sociale.
Intorno a queste idee si sviluppò a Berlino, nelle prime decadi del 900, un
movimento molto attivo e coeso, che verso la metà degli anni 20 fu costretto a
lasciare la Germania per motivi di persecuzione razziale rifugiandosi negli USA,
questo fu fondamentale per gli sviluppi successivi del paradigma gestaltista.
Il New Look
Se la Gestalt si sofferma sulle conformazioni degli stimoli, l'approccio ecologico
indica il ruolo della capacità, apprendimento e motivazioni individuali ma sempre
considerando le informazioni presenti nell'ambiente come qualità intrinseche
degli oggetti stessi.
Altri approcci come il New Look (capofila Jerome Bruner) riconoscono all'individuo
un ruolo ancora più attivo.
La rappresentazione degli stimoli sensoriali è controllata da processi di ordine
superiore. In altre parole, le intenzioni, i valori, la cultura, non solo guidano
l'esplorazione del mondo ma determinano la forma delle percezioni.
Sempre secondo il New Look, la percezione è pienamente psicologica, intendendo
con questo il pieno primato del percorso top- down rispetto ai dati sensoriali. La
percezione ha anche, ma non solo, la funzione di rappresentare il mondo;
percepire serve a controllare la regolarità del contesto sociale, ma anche a
difendersi da alcuni aspetti di sé non piacevoli, “non vedendo” certe cose e
“vedendone” altre (esperimento sulla percezione della grandezza delle monete tra
bambini di famiglie agiate o no, le monete di maggior valore venivano
sovrastimate da tutti, ma specialmente dai bambini delle famiglie povere
importanza sociale della percezione).
Il Sè
Il tema della conoscenza si complica quando oggetto e soggetto coincidono, cioè
quando l'essere umano s'interroga circa la propria identità.
Da un lato autori come Lewin guardano al Sè come a un insieme dinamico, una
Gestalt caratterizzata da forze in interazione tra loro; questo approccio si interseca
quindi con il tema dei bisogni e delle motivazioni, e con lo sviluppo del Sè nella
prima infanzia. Una seconda corrente di studi, di impostazione cognitivista, si
concentra sulle informazioni che ciascuno ha raccolto circa se stesso e sui processi
sottostanti. Una terza corrente, interazionista simbolica, pone in evidenza il
continuo fluire delle esperienze e l'interazione tra ciò che sentiamo e ciò che gli
altri dicono che noi siamo, questa terza prospettiva ci proietta verso il tema della
negoziazione dei significati e verso gli sviluppi narrativi e culturali della psicologia
sociale.
Il sé come schema.
Gli approcci cognitivisti, affrontano l'analisi del Sè ponendo in primo piano la
dimensione di conoscenza a discapito degli aspetti motivazionali, affettivi, di
personalità e dinamici in senso lato.
Quello che per la Gestalt era l'Io fenomenico viene reinterpretato come Sè
ecologico e Sè interpersonale.
Il Sè ecologico include la percezione di noi stessi e delle nostre azioni in relazione
all'ambiente.
Il Sè interpersonale riguarda la consapevolezza delle interazioni con le altre
persone, la percezione dell'azione congiunta tra un Sè e un Altro da sé in cui
entrambi gli attori partecipano come entità distinte e in interazione tra loro. Dal Sè
intrapersonale si sviluppa poi la consapevolezza che l'Altro da Sè non solo
interagisce con le nostre azioni ma è dotato a sua volta di intenzioni, obiettivi,
emozioni.
Il Sè si comporterebbe cioè da conoscitore di se stesso, osservandosi e acquisendo
nuove informazioni circa le capacità, le preferenze, le scelte effettuate. Nel corso
del tempo queste cognizioni si strutturerebbero secondo una organizzazione
gerarchica per cui avremmo conoscenze sovraordinate e più specifiche,
conoscenze più centrali e più difficili da modificare e conoscenze più periferiche e
secondarie. Ovviamente ciascuno ha organizzazioni differenti in base alle proprie
esperienze.
Se la metafora della Gestalt era un campo organizzato e cangiante, in questo caso
sembra più appropriata una visione del Sè strutturata secondo una rete di
conoscenze in cui i diversi nodi rappresentano elementi cognitivi, più o meno
centrali e più o meno solidamente associati tra loro.
Secondo questo schema potremmo attenderci che le nuove esperienze siano
elaborate in modo più dettagliato e con maggior attenzione se riguardano
dimensioni rilevanti per il se.
Esperimento di Markus.
L'autrice distingue tra persone schematiche o aschematiche a seconda
dell'importanza che una particolare dimensione riveste per la definizione del sé;
sia gli indipendenti che i remissivi sono considerati schematici, per la dimensione
“Indipendenza/dipendenza”.
Una volta individuate le dimensioni centrali per il sé e distinti i soggetti schematici
e aschematici, l'autrice presenta una serie di aggettivi ad intervalli regolari su uno
schermo e osserva i tempi di reazione impiegati dai partecipanti per dichiarare,
premendo un pulsante, se ciascun aggettivo li descrive o meno. I risultati
mostrano che gli schematici sono più pronti a riconoscere aggettivi coerenti con la
dimensione rilevante per il sé rispetto ad aggettivi non rilevanti.
Per gli aschematici non si osservano invece differenze nei tempi di reazione.
Oltre ad avere caratteristiche comuni agli altri schemi, il Sè ha un ruolo centrale e
pervasivo nell'acquisizione di tutte le conoscenze e nella mediazione di tutte le
esperienze.
Il Sè è quindi caratterizzato da elementi peculiari:
maggiore accessibilità: gli schemi sono molto utilizzati;
organizzazione intorno a stati interni: gli schemi strutturati includendo
anche informazioni non osservabili;
maggior intensità emotiva: il grado di intensità affettiva è maggiore per le
informazioni legate al Sè rispetto a quelle riferite agli altri.
Atteggiamenti e comportamenti
Abbiamo visto come gli atteggiamenti siano legati ai comportamenti. Eppure gli
studenti dell'Università di Lovanio, pur esprimendo atteggiamenti favorevoli, non
si mobilitarono effettivamente a sostegno delle posizioni espresse. Le teorie degli
atteggiamenti ci suggeriscono di cercare una prima spiegazione del mancato
comportamento nelle norme soggettive, nel controllo percepito sulle proprie
azioni o nella percezione di scarsa efficacia delle azioni intraprese.
La prima evidenza che il rapporta tra atteggiamenti e comportamenti non è
semplicemente di natura causale è fatta risalire allo studio di LaPiere. Egli si recò
con una coppia di cinesi (nel periodo in cui negli USA c'era un forte pregiudizio
verso gli orientali) presso 251 alberghi. Di tutti gli esercizi commerciali solo un
gestore si rifiutò di accettare la coppia di cinesi. In una seconda fase a distanza di
mesi, LaPiere raccolse tramite un questionario postale inviato agli stessi esercizi la
disponibilità ad accogliere una coppia di cinesi, nel 90% dei casi i rispondenti
dichiararono di non accettare membri della razza cinese.
Questa ricerca sottolinea su un piano empirico la discrepanza tra atteggiamenti e
comportamenti. Inconciliabilità che portò ad una revisione della relazione
atteggiamento-comportamento.
In particolare, si sottolinea la necessità di indagare atteggiamenti e comportamenti
a uno stesso livello di complessità; 4 sono le dimensioni la cui corrispondenza deve
essere attentamente considerata: azione, bersaglio, contesto, tempo. Nel caso di
LaPiere si può osservare che è diverso chiedere l'atteggiamento nei confronti dei
cinesi, e misurare il comportamento di accettazione di una coppia di cinese, ben
vestita accompagnata da un professore statunitense.
Tra gli autori che hanno contribuito alla costruzione di modelli spiccano Fishben e
Ajzen, in particolare per il successo della Teoria dell'azione ragionata, che è basata
sul modello aspettativa per valore.
La teoria introduce l'intenzione comportamentale come snodo fondamentale tra
atteggiamenti e comportamenti. Secondo questo modello, gli atteggiamenti verso
un dato comportamento sono determinati dal prodotto tra credenze individuali
circa le conseguenze di un dato comportamento e valutazioni delle conseguenze
del comportamento stesso. La teoria dell'azione ragionata è però lacunosa in
alcuni punti; In primis, essa non tiene conto della percezione di controllo da parte
dell'individuo. Per ovviare a tale lacuna Ajzen sviluppa la teoria iniziale dando vita
alla teoria del comportamento pianificato, in cui sia l'intenzione che l'azione sono
influenzate direttamente dalla percezione di avere risorse e opportunità tali da
poter mettere effettivamente in atto un comportamento.
Un secondo limite della teoria è che essa richiederebbe un forte dispendio di
energie cognitive per ogni comportamento. La “via ragionata” verrebbe presa in
considerazione solo quando le persone hanno motivazioni o opportunità
sufficienti per impegnare le proprie risorse cognitive, altrimenti i comportamenti
sarebbero messi in atto sulla base degli atteggiamenti salienti e accessibili, che
hanno cioè un associazione forte con l'oggetto.
Un terzo limite della teoria è di non prendere in considerazione dettagliatamente
comportamenti passati, motivazioni, mezzi e tipologie di conseguenze del
comportamento.
Un quarto punto critico riguarda la capacità che gli esseri umani hanno di imparare
dai comportamenti qualcosa di nuovo circa se stessi. Le azioni che svolgiamo,
infatti, al di là delle conseguenze che possono avere, sono una fonte di
informazione circa chi siamo e cosa vogliamo. Questo punto è stato messo in
evidenza dalla Teoria della dissonanza cognitiva. La teoria suggerisce che laddove
non sono possibili alternative, possiamo cambiare il nostro atteggiamento in
iniziale; una situazione di squilibrio (so che quel cibo fa male, ma ho fatto una
scorpacciata di quel cibo) viene denominata dissonanza cognitiva.
Per risolverla, non potendo tornare indietro nel tempo, raccogliamo nuove
informazioni dall'ambiente, cerchiamo giustificazioni alla nostra condotta o,
appunto, cambiano l'atteggiamento iniziale.
Le critiche costruzioniste più profonda è al critica portata dalle scuole nate dalle
svolte retoriche, costruzioniste e discorsive. Sono diversi approcci, am comune a
tutti è la prevalenza data alla dimensione sociale su quella individuale e al
significato sul processo. Ritornando alle definizioni iniziali, ricordando quindi che
l'atteggiamento è un costrutto teorico, gli autori propongono di abbandonare
l'idea che tali oggetti “esistano veramente” e sottolineano piuttosto la centralità di
comprendere i significati attraverso cui gli oggetti prendono forma e le funzioni
che tali significati svolgono nel qui e ora. Gli atteggiamenti, quindi non si
manifestano nel discorso ma sono nel discorso e nella relazione all'interno della
quale vengono formulati.
ESEMPIO Questo legame può essere chiarito dalla classica ricerca di Jodlet sulla
malattia mentale (1989). l'autrice conduce una dettagliata analisi etnografica di
una comunità rurale francese in cui vivono dei malati mentali. La comunità,
forzata a prendere posizione su questa presenza, fronteggia la malattia mentale
sviluppando complesse rappresentazioni sociali: i malati sono assimilati ai
perdigiorno e vagabondi. Gli abitanti sviluppano un sistema che permetta di
gestire le interazioni sociali e che salvaguardi l'immagine del Sè, differenziandola
dall'Altro e dal Diverso.
Sviluppi della teoria
La Teoria delle rappresentazioni sociali si è venuta a strutturare come corpus ben
definito ma al tempo stesso in continuo contatto con altri ambiti in divenire della
psicologia sociale, in particolare interloquendo con la social cognition e con i più
recenti approcci discorsivi. Tra tutti gli sviluppi teorici due scuole hanno svolto un
ruolo fondamentale: la cosiddetta Scuola di Ginevra e quella di Aix-en-Provence.
La prima si concentra sopratutto sul rapporto tra rappresentazioni e ambiente
sociale, la seconda ha approfondito la configurazione delle rappresentazioni
stesse.
L'approccio socio- dinamico, sviluppatosi a Ginevra, sottolinea la dimensione
sociale delle rappresentazioni riconoscendo nell'ancoraggio non solo un processo
cognitivo ma soprattutto un posizionamento all'interno di relazioni sociali.
Condividere una rappresentazione o assumere una posizione specifica nel campo
rappresentazionale non è estraneo alla rete di relazioni interpersonali e
intergruppi in cui siamo inseriti
Questa prospettiva si basa su alcuni assunti:
le rappresentazioni sociali si organizzano secondo dimensioni di varia
natura;
all'interno di una conoscenza condivisa, le differenti posizioni dei singoli
sono organizzate;
le differenze sono ancorate in base a variabili psicologiche, psico- sociali,
sociologiche.
Scopo della ricerca in ambito delle rappresentazioni sociali diviene identificare i
contenuti della rappresentazione, rintracciare i principi organizzatori lungo cui si
struttura il campo della stessa e identificare le posizioni che gruppi di persone
hanno in merito ad un determinato oggetto. In tal modo la dinamica delle
rappresentazioni i inserisce nella dinamica delle relazioni sociali.
In questa prospettiva, è stato sviluppato un ampio programma di ricerca sulle
rappresentazioni sociali dei diritti umani all'interno del quale una ricerca condotta
nella ex-Jugoslavia, ha mostrato che l'esperienza diretta di episodi di
vittimizzazione e l'appartenere a una comunità che ha subito questo genere di
violenze hanno un ruolo differente nel favorire il sostegno verso i principi espressi
nella Dichiarazione dei diritti umani.
L'approccio strutturalista alle rappresentazioni sociali si sofferma principalmente
sulla struttura delle rappresentazioni e sulle relazioni interne tra contenuti,
avvicinandosi agli approcci cognitivisti. Secondo l'approccio strutturalista la
rappresentazione sociale è un insieme di elementi cognitivi che si riferiscono a un
oggetto o a un tema socialmente rilevante.
Obiettivo, è quindi identificare i cognemi e le loro relazioni reciproche; secondo
l'approccio strutturalistea è possibile identificare due zone in qualsiasi
rappresentazione sociale: nucleo e periferia.
Il nucleo è la zona centrale della rappresentazione, quella che contiene gli
elementi fondamentali che donano significato all'oggetto rappresentato. Il nucleo
assolve 3 funzioni principali: stabilizzatrice cioè dona coerenza alla
rappresentazione, generatrice cioè dona significato alla componenti della
rappresentazione, organizzatrice cioè connette e collega in un tutto dotato di
senso il contenuto della rappresentazione. Il nucleo costituisce il nocciolo della
rappresentazione, il suo cuore, ed è necessario e sufficiente cambiarne le
componenti o intaccarne le relazioni per determinare il cambiamento dell'intera
rappresentazione sociale.
La periferia è invece la zona di frontiera della rappresentazione. Si tratta della
parte della rappresentazione sociale che cambia più in fretta. La periferia consente
di includere nuovi elementi, o escludere elementi non più adatti alle mutate
condizioni del contesto. In una parola la periferia assorbe le novità, conferendo
alla rappresentazione la flessibilità necessaria a fronteggiare i cambiamenti del
mondo.
Le rappresentazioni sociali sociali mantengono la capacità di adattarsi a situazioni
nuove e cangianti senza obbligare le persone a riorganizzare quotidianamente il
proprio sistema di pensiero. I congemi possono far parte di rappresentazioni
diverse, come elementi inclusi in diversi sottoinsiemi, e possono quindi essere la
chiave attraverso cui si strutturano gruppi di rappresentazioni più complesse. (Una
ricerca sulle rappresentazioni sociali di pace e guerra, mostra come queste non si
escludano a vicenda, dal momento che gli elementi inclusi nei nuclei delle due
rappresentazioni non sono in una relazione di antinomia.
Capitolo 4 - L'incontro tra persone
Le relazioni intime
La riflessione sulle relazioni interpersonali richiede di comprendere in primo luogo
le caratteristiche che distinguono le relazioni intime dalle molte altre forme di
relazione con gli altri che possono verificarsi nella vita quotidiana. L'aspetto
specifico che rende queste relazioni diverse da tutte le altre è il loro alto livello
d'interdipendenza, che diviene evidente se esaminiamo le attività congiunte
compiute dalle persone nel corso della loro vita quotidiana.
In confronto alle altre specie, la specie umana si distingue per lo stato di
incompleta impotenza dei suoi piccoli alla nascita, e per il percorso molto lungo
che porta il nuovo nato all'autonomia. Non solo il semplice abbandono di un
neonato ne causa la morte, ma questa condizione costituisce una grave pericolo
per i bambini nel corso di molti anni a venire.
In effetti, nella sua riflessione sulla condizione umana, Hannah Arendt ha proposto
che la condizione di base che meglio la definisce sia appunto la vulnerabilità alla
presenza o all'assenza dei propri simili, avanzando l'ipotesi che proprio tale
condizione di fragilità intesa in termini fisici e corporei, configuri una condizione
umana dov'è la relazione all'altro a contare, ossia lasci venire in primo piano
un'ontologia del legame e della dipendenza.
Il tipo di prime relazioni che il bambino ha con le figure che lo accudiscono guida
anche in larghissima parte le modalità di strutturazione delle relazioni future.
Aspetto esplorato da Bowlby, che notò che i bambini che esploravano con più
intraprendenza l'ambiente in cui si trovavano erano quelli che potevano contare
sulla presenza della madre come su una base sicura, verso cui ritornare se per caso
si fossero fatti un po' male oppure si fossero spaventati. Partendo da queste
primissime osservazioni, l’autore giunse a formulare una teoria che prevede che il
bambino sia biologicmaente programmato per emettere in caso di bisogno dei
segnali specie- specifici di richiamo alla madre. A questi richiami la madre sarebbe
biologicamente indirizzata a rispondere, accorrendo in aiuto (instaurando una
relazione, destinata a perdurare per tutta la vita, definita relazione di
attaccamento).
L'approccio matematico
Considera la comunicazione nei termini di una trasmissione di informazioni. Si
concentra sul contenuto che viene passato da una mente all'altra mente, in modi
che possono essere studiati in quest'approccio anche attraverso la simulazione di
tali processi nel passaggio di files da un computer all'altro. La forma digitale
dell'informazione è alla base della concezione matematica della comunicazione.
Nel modello matematico, la comunicazione è infatti considerata dal punto di vista
del problema di come un'informazione digitale viene trasferita da una fonte a un
destinatario.
Le fasi della comunicazione sono descritte dal modello, considerando il fatto che
la fonte dell'informazione usa un'emittente (voce) che tramite un codice (lingua
italiana) comunica con il destinatario tramite un canale (telefono). Il ricevente può
perdere la precisione di queste informazioni in ognuno di questi passaggi:
problemi sul canale, sul codice o sul suo modo di ricezione. Accanto alle perdite
nei vari passaggi esiste un problema più generale, che il modello descrive come
rumore, intendendo con questo termine le molte possibilità di distorsione
dell'informazione che sono sempre pronte a intervenire durante il passaggio dalla
fonte al ricevente. In questo modello già si adombra un aspetto che diventerà
centrale per lo studio psico-sociale della comunicazione, cioè l'impossibilità di
concepire il passaggio delle informazioni in termini meccanici, come un puro
“travaso” da una mente all'altra, e l'assunzione di base che ogni trasferimento di
informazione implica sempre una sua distorsione. Altro rilevante aspetto implicito
è quello dell'interpretazione, cioè della capacità del ricevente di mettere in
rapporto i segni della comunicazione emessi dalla fonte con i significati che i segni
stessi sono in grado di trasmettere.
L'approccio semiotico, mentre nell'approccio informatico le attività di codifica della
fonte e di decodifica del destinatario sono ridotte a una funzione semiautomatica,
assicurata dal semplice possesso congiunto di un medesimo codice, nell'approccio
semiotico esse divengono il centro della riflessione teorica, che si propone
esplorarle in tutta la loro complessità. L'approccio semiotico guarda invece alla
mente come alla capacità umana di interrogarsi sui segni di cui è costellata la
propria vita quotidiana.
L'approccio atematico, rappresenta la mente servendosi delle sue simulazioni
funzionali, mentre l'approccio semiotico guarda alla mente come alla capacità
umana di interrogarsi sui segni di cui è costellata la propria vita quotidiana.
Nell'approccio semiotico l'interrogativo principale è, comprendere come la mente
umana possa scoprire l'aspetto familiare del simbolo, cioè il suo far riferimento a
un significato che la persona può ricostruire perché non le è mai del tutto
estraneo. La scelta di un termine anziché un altro (esempio la parola
compassionevole) si basa sulla convinzione che questo simbolo sia mediato, per
chi parla ma anche per chi ascolta, da una referenza positiva; tuttavia nella nostra
cultura lo stesso termine può avere anche una referenza negativa. In questo senso,
il termine può portare a percorsi di significazione molto diversi da interpretante a
interpretate: percorsi di significazione che possono anche cambiare nei diversi
momenti storici e culturali.
Gli aspetti divergenti contenuti nella possibile referenza di uno stesso termine
possono dunque causare una forte differenza tra l'intenzione comunicativa che
muove chi lo usa e l'effetto ottenuto su chi ascolta. Lo scarto inevitabile tra l'uso di
una parola da parte di chi parla e i processi di referenza di chi ascolta porta a
comprendere che la comunicazione contiene sempre molto di più di ciò che viene
detto; nei suoi processi di referenza, chi ascolta va sempre al di là
dell'informazione data, usando i segni che provengono dalla fonte come indizi che
possono condurre a significati a volte anche molto diversi tra loro.
Il modo più importante di disambiguare la complessità della comunicazione, intesa
come il tentativo del ricevente di comprendere il significato degli indizi forniti dalla
fonte, è la messa in relazione del rapporto tra testo (quello che viene comunicato)
e contesto (situazione in cui si comunica). Il significato della stessa sequenza è
diverso, perchè con la conoscenza del contesto noi siamo in grado di comprendere
il tipo di azione che si va svolgendo durante la comunicazione.
L'approccio pragmatico allo studio della comunicazione pone al centro della sua
attenzione il rapporto fra testo e contesto, come modo di cogliere la maniera in cui
un dire esprime un fare. Considerata da questo punto di vista ogni comunicazione
può essere considerata come un'azione, che si svolge su tre livelli distinti: - atto
locutorio; - atto illocutorio; - atto perlocutorio.
Per comprendere pienamente l'azione svolta da un testo comunicativo bisogna
essere in grado di metterla in relazione con il contesto in cui si svolge. Una parte
importante dell'esperienza umana di apprendimento delle competenze risiede nel
tentativo di familiarizzarsi con i diversi contesti: cosa che può avvenire nel miglior
modo possibile in quelle situazioni in cui la persona è esposta a un medesimo
contesto e gli indizi tipici di questo contesto si ripetono con regolarità.
La riflessione del rapporto fra testo e contesto porta a notare che solo certi
contesti consentono alla comunicazione di divenire una cooperazione, così come
previsto da alcuni modelli sul tipo ideale di relazione che dovrebbe instaurarsi tra
chi parla e chi ascolta per massimizzare la comprensione reciproca. In questo tipo
ideale chi comunica dovrebbe seguire alcune massime: di quantità (numero giusto
di informazioni), di qualità (dire solo ciò che sia pensa sia vero), di modo (chiari e
ordinati), di pertinenza (dire quello che riguarda il tema pertinente).
L'approccio psicologico cerca di considerare più in profondità come la
comunicazione esprima non solo uno scambio di contenuti ma anche il tipo di
relazione in cui si trovano coloro che comunicano.
Il modello sviluppato dalla Scuola di Palo Alto dice che ogni comunicazione
esprima a un tempo uno specifico messaggio, e il tipo di posizione (dominante o
dominata) in cui si trovano le persone coinvolte in questo scambio. Alla duplice
proposta espressa dalla comunicazione dell'uno, l'altro può rispondere sia
convergendo, sia divergendo da chi ha comunicato. Si può così creare una
complementarietà o una simmetria tra le persone coinvolte nello scambio.
In entrambi i contesti (richiesta bicchiere d'acqua tra mamma e figlio e tra
carcerato e carceriere), non cambia dunque la relazione di complementarità che
lega le due persone considerate, anche se cambia la finalità della posizione di
potere di B su A che, nel caso della prigione, ha lo scopo di controllare l'altro e non
di averne cura.
La situazione di simmetria avviene invece quando c'è un contrasto nella
definizione dell'equilibrio di potere espressa nella comunicazione. Si prenda una
vecchia coppia che ripete nuovamente la stessa discussione senza fine; anche se la
sequenza è caratterizzata sempre dal caso che nessuno dei due cede, la
conversazione va letta in maniera diversa, a seconda di dove venga posto il punto
di inizio del circolo vizioso della litigata.
Il modello della scuola di Palo Alto, considerando la comunicazione come una serie
di sequenze circolari, definisce l'interpunzione, cioè l'individuazione di un
determinato passaggio come punto di inizio di una sequenza, come un atto che si
pone a un livello superiore di potere; chi decide dell'interpunzione di una
sequenza comunica sulla comunicazione (meta comunicazione), cioè commenta e
spiega la comunicazione stessa; ad esempio nel caso della discussione ripetuta, la
simmetria non riguarda tanto il contenuto quanto il fatto che nessuno voglia
cedere all'altro il potere di parlare sulla loro comunicazione, scegliendo
un'interpunzione che cambi il senso di tutta la sequenza comunicativa.
A partire da queste posizioni teoriche, al scuola di Palo Alto ha sviluppato una
descrizione della comunicazione che permette di cogliere in che modo alcune
sequenze comunicative, siano non solo inefficaci ma anche pericolose per il
benessere stesso delle persone coinvolte.
Il caso più esemplari di queste situazioni comunicative patologiche è
rappresentato dal doppio legame (double blind), cioè da quella situazione in cui
una persona è sottoposta a un'ingiunzione paradossale cui non può comunque
adempiere, qualsiasi scelta compia, e non può sfuggire a tale ingiunzione perché
essa avviene all'interno di una relazione con l'altro che non può essere né rescissa,
perché la persona dipende da tale relazione, né commentata con una meta
comunicazione, perché la persona non possiede il livello di potere sufficiente per
farlo (esempio in classe fidanzata-fidanzato che lui vuole invitare amico lei vuole
andare a cena).
Tuttavia la definizione di comunicazione che questa scuola propone è così ampia
da comprendere al suo interno ogni tipo di scambio che possa essere interpretato
come segnale comunicativo da chi vi si trova coinvolto, fino a sostenere che la
semplice presenza di due persone in uno stesso ambiente sia sempre
comunicazione, dato che è impossibile sottrarsi all'interpretazione dell'altro.
A questo approccio omni-comprensivo si oppone una definizione più circoscritta,
che vede la comunicazione come la forma di interazione interpersonale che cerca
di trasmettere intenzionalmente un messaggio all'altro, e che non può arrivare al
suo effetto se l'altro non si pone intenzionalmente in ascolto. Ogni comunicazione
modifica la relazione tra i suoi protagonisti, nel bene o nel male, infatti è dunque
tramite la prevedibilità e regolarità degli scambi comunicativi intenzionalmente
costruttivi che le relazioni tra le persone si approfondiscono e portano a un'intesa
sempre più sintonica e creativa, che cambia e si rinnova; ma è ancora a causa della
ripetizione di comunicazioni intenzionalmente distruttive che le relazioni
interpersonali si sclerotizzando in circoli viziosi drammatici e si logorano ed
indeboliscono.
Capitolo 6 - Le relazioni nei gruppi
Le norme
Le norme indicano quali comportamenti e atteggiamenti attendersi da tutti i
membri di uno specifico gruppo. Le norme possono essere considerate come
l'insieme delle aspettative condivise che è possibile nutrire nei confronti dei
membri di un determinato gruppo.
Oltre a definire l'uniformità, le norme definiscono il grado di devianza prevista.
Le norme prevedono il comportamento da attuare nei confronti del deviante
(sanzione), includendo in linea di massima una serie di tentativi volti al recupero,
quindi ostracizzazione ed infine espulsione dal gruppo. Chi devia dal
comportamento, inizialmente, riceve un numero maggiore di comunicazioni da
parte degli altri membri, destinate rapidamente a crollare o perchè il
comportamento rientra nella norma o perchè il soggetto viene escluso.
Le norme sono funzionali al raggiungimento degli obiettivi del gruppo, poiché
regolano i comportamenti dei suoi membri, al mantenimento del gruppo stesso e
alla definizione di una realtà coerente in cui i membri si muovono.
Elemento fondamentale che caratterizza le norme è che nascono dall'interazione e
si evolvono con l'evolvere del gruppo stesso, rimanendo in un equilibrio dinamico
tra cambiamento e conservazione. Una volta introiettate sotto forma di valori,
esse sono in grado di guidare il comportamenti individuale anche quando siano
assenti coercizioni o sanzioni dirette.
Esemplare è l'esperimento di Sherif sul movimento autocinetico. Sherif organizza
un esperimento basato sull'effetto autocinetico, un effetto ottico per cui un
puntino luminoso fisso, proiettato su una parete all'interno di una stanza
completamente scura, viene percepito in leggero movimento. Viene chiesto ai
partecipanti di stimare l'ampiezza di un movimento percepito ma inesistente.
Nella prima condizione la stima avviene individualmente, nella seconda condizione
la stima avviene dapprima individualmente e quindi in gruppo, nella terza la stima
del movimento avviene dapprima in gruppo e quindi in isolamento.
In assenza di un punto di riferimento oggettivo le persone tendono a definire una
propria scala e un proprio punto di riferimento come nella condizione individuale,
si definisce una norma personale, alla quale ci si attiene nelle successive prove per
definire l'ampiezza dell'oscillazione. - Nella condizione di gruppo i partecipanti
fanno riferimento gli uni agli altri, fino a definire un quadro di riferimento, una
norma comune a tutto il gruppo. In particolare nella seconda condizione
sperimentale si osserva che tale norma non è equivalente alla media delle norme
individuali precedentemente sviluppate ma è un nuovo valore che nasce
dall'interazione. Nella terza condizione sperimentale si osserva che la norma
stabilita in gruppo fornisce un punto di riferimento anche quando gli individui si
trovano, successivamente, da soli.
Le norme emergono dall'interazione, in particolare in situazioni di incertezza, e
una volta definite, esse forniscono un punto di ancoraggio fondamentale cui legare
successive valutazioni, scelte, comportamenti compiuti anche a livello individuale,
anche se non tutti gli individui esercitano lo stesso potere nella definizione delle
norme.
La leadership
La leadership è un fenomeno universale, riscontrabile in qualsiasi gruppo e ambito
culturale; differenti sono le modalità attraverso cui si manifesta.
Nella leadership è possibile distinguere almeno 4 direzioni fondamentali di
indagine: gli approcci personologici (1), che si sono soffermati sulle caratteristiche
del leader cercando di identificare elementi peculiari e tratti di personalità che
contraddistinguono il leader differenziandolo dalle persone comuni; i modelli che
hanno affrontato la leadership come processo (2), cercando di identificare diversi
stili di leadership e le conseguenze che essi hanno sul gruppo; i contigency models
(3), che tentano di identificare diversi stili siano più o meno efficaci a seconda del
variare delle situazioni contingenti; i modelli transazionali (4), che pongono in
primo piano il rapporto tra leader e seguaci e le funzioni trasformative e
motivazionali svolte da chi guida il gruppo.
Il leader è caratterizzato da uno status superiore agli altri membri del gruppo,
gode di maggior fiducia in se stesso, motivazione al raggiungimento degli obiettivi,
stabilità emotiva, credibilità, competenza, ecc. Più in generale i leader avrebbero
un quid definibile come carisma. Nonostate i lunghi elenchi di personalità,
l'approccio basta sul grande uomo (1), cioè sulle caratteristiche personali non ha
riscontrato successo. Ultimamente, si è fatta strada l'idea che sia possibile
identificare alcuni tratti di personalità predittivi dell'emergere e del successo della
leadership, tra i quali: estroversione, coscienziosità, apertura alle novità.
Se gli approcci personologici (1) sono di indubbio interesse e vicinanza alla
psicologia del senso comune, essi sono viziati; in particolare non chiariscono il
modo in cui determinate caratteristiche di personalità si manifesterebbero
nell'interazione quotidiana e se alcune caratteristiche facciano di quella persona
un leader o un leader apprendere quelle caratteristiche.
Una seconda direzione di indagine si sofferma sugli stili di leadership e sugli effetti
che essi hanno sul gruppo.
ESPERIMENTO. Gli studiosi di Lewin, organizzavano gruppi di lavoro di bambini
(nella costruzione di amschere di cartapesta) ed ognuno di questo gruppo era
guidato da un leader che rispecchiava u modo diverso di “imporre” una
leadership: autocratico, democratico, laissez- faire. I risultati sostengono che sia
possibile svolgere il ruolo di leader in modo differente e al tempo stesso indicano
che gli effetti sul gruppo non sono affatto trascurabili.
Il gruppo di bambini guidato dal leader laissez- faire mostrava la performance
peggiore, non erano in grado di produrre maschere ed il clima del gruppo era
pessimo. I risultati ottenuti dal leader autocratico erano ambivalenti: il gruppo
mostrava un altro grado di produttività, ma il clima tra i bambini non era ottimale;
essi mostravano dipendenza e scarsa soddisfazione, non assumevano iniziative
individuali e anzi interrompevano la produzione in assenza di un controllo
continuo da parte del leader. La leadership democratica, nella interpretazione
fornita dagli autori, era da preferire poiché garantiva non solo un'adeguata
produttività sul piano quantitativo, ma anche una buona qualità di maschere. I
bambini erano inoltre autonomi, soddisfatti e interessati a continuare al meglio il
compito.
Sebbene la ricerca di Lewin mostri numerosi limiti essa è fondamentale per due
motivi: in primis sposta il focus dell'attenzione dal leader al rapporto tra leader e
gruppo; quindi suggerisce di studiare non la leadership ma le leadership.
Più rilevante è la distinzione proposta da Bales e Slater tra due stili fondamentali di
leadership: centrato sul compito (task-oriented) e centrato sulle relazioni
(relationship-oriented).
Lo stile centrato sul compito si caratterizza per un interesse primario rivolto al
raggiungimento degli obiettivi del gruppo, all'organizzazione funzionale dei ruoli e
alla distribuzione delle mansioni al fine di massimizzare la produttività. Il leader in
questo caso è valutato in funzione della propria competenza e della capacità
organizzativa.
Un leader che adotta lo stile centrato sulle relazioni pone in primo piano il
benessere dei membri del gruppo, si concentra sul mantenimento dell'armonia e
si preoccupa di fornire sostegno emotivo agli altri membri del gruppo.
Elemento interessante di questo approccio è che esso prevede la possibilità che in
gruppo ci siano leader differenti, caratterizzati da stili differenti ed in grado di
assicurare: produttività e clima del gruppo disteso.
Fielder propone di descrivere ciascuna situazione, in particolare quella lavorativa,
in funzione di tre dimensioni fondamentali:
qualità delle relazioni, ovvero il grado di accettazione del leader da parte
dei membri del gruppo;
struttura del compito, ovvero il grado di definizione degli obiettivi da
raggiungere e delle procedure da seguire;
potere del leader, ovvero quanto il leader sia in grado di imporre le
proprie decisioni, possa cioè esercitare la propria influenza non solo
convincendo gli altri, ma anche minacciandoli attraverso delle effettive
punizioni o blandendoli attraverso il potere di gestire delle ricompense
appetibili.
Il modello di Fielder prevede diverse possibilità di interazione tra i due stili
fondamentali, il modello suggerisce che uno stile centrato sulle relazioni sia
preferibile quando il compito è poco strutturato ed il leader è riconosciuto, ma
non può contare su un alto livello di potere; viceversa, uno stile centrato sul
compito è più efficace quando il compito è molto strutturato ed il leader si trova in
una condizione di potere, sia quando la situazione è particolarmente difficile.
Gli studi più recenti sulla leadership spostano l'attenzione sul rapporto tra leader e
followers. Hollander sottolinea come a differenza del potere, la leadership si
manifesti attraverso una attività persuasiva liberamente agita. Riconosce
finalmente, un ruolo attivo ai seguaci, dalle cui valutazioni deriva il credito di cui il
leader gode. Tale vantaggio è frutto di un attento esame da parte dei membri del
gruppo; tale valutazione ricopre 4 dimensioni fondamentali:
adesione normativa, il leader deve mostrare un certo grado di
accettazione delle norme sviluppate dal gruppo;
competenza, il leader deve dimostrare capacità in relazione al
raggiungimento degli obiettivi rilevanti per il gruppo;
legittimità, il leader deve essere percepito come legittimo da parte dei
seguaci;
identificazione, valutazione su quanto il leader si identifichi con il gruppo
stesso e quanto sia percepito esemplare delle caratteristiche identitarie
del gruppo.
La leadership così definita non è quindi un tratto stabile, ma un ruolo variabile
all'interno del gruppo e i leader riconosciuti come tali sono chiamati a rispondere
alle diverse richieste del gruppo per mantenere il proprio status.
I leader svologno una fondamentale funzione di promozione del cambiamento
guidando il gruppo nel tempo, questa funzione delicata è colta dai modelli della
leadership trasformativa. La leadership trasformativa si manifesta, secondo Bass,
attraverso 4 dimensioni fondamentali:
influenza idealizzata (il leader è in grado di mettere in pratica
comportamenti ammirevoli e coerenti con la visione di gruppo, fino a
suscitare identificazione);
motivazione ispiratrice (il leader è in grado di motivare i membri del
gruppo al raggiungimento di mete comuni);
stimolazione intellettuale (il leader si propone come guida in grado di
incoraggiare l'indipendenza e la creatività dei seguaci);
considerazione individualizzata (il leader mostra le capacità di rivolgere
adeguata attenzione ai bisogni individuali dei seguaci).
Gruoupthink
Il fenomeno del gruopthink rientra nella più ampia serie di processi invocati per
rispondere alla fondamentale domanda se il gruppo sia più efficace rispetto agli
individui nella presa di decisioni e nella risoluzione di problemi. L'efficienza
delle soluzioni elaborate in gruppo dipende dalla forma della rete di
comunicazione interna e dalla tipologia del problema.
Nella metafora della rete, oggi pervasiva, i nodi rappresentano i
comportamenti del gruppo e i legami rappresentano i canali di comunicazione
tra i membri. Le reti si distinguono sulla base di due indici quantitativi
fondamentali:
distanza (numero minimo di legami che occorre attraversare per andare
da A a B);
centralità (indica il numero di comunicazioni che passano tramite un nodo
della rete).
I componenti di una rete di comunicazione di forma differente sono
caratterizzati da diversi indici di distanza e centralità (DISEGNA GRAFICI PAG
169); l'individuo (fig. a) è centrale poiché tutte le comunicazioni devono
attraversarlo e dista solo un passaggio dagli altri nodi della rete, si può
facilmente identificare il quadrato come leader della rete centralizzata di tipo
(a); più complesso è identificare questo ruolo nelle altre reti.
Nell'esempio (b) la distanza è massima tra A e B, ma la distanza tra gli elementi è
variabile, e l'elemento che gode di maggior centralità è il nodo alla base della
biforcazione; nell'esempio decentralizzato a cerchio (d), tutti i nodi godono di
indici di centralità e distanza eguali.
Quale tra queste è più efficiente nel trovare la soluzione ad un compito?
ESPERIMENTO Per rispondere a questa domanda, in una serie di esperimenti,
Leavitt invitava dei partecipanti, in genere in un numero di 5, attorno a un tavolo
costruito in modo da variare, muovendo dei tramezzi, i canali di comunicazione
aperti o chiusi e quindi la forma della rete. Ogni cartoncino dei partecipanti aveva
6 simboli: alcuni erano comuni tra i partecipanti, ma solo uno era presente su
tutti i cartoncini distribuiti. Compito del gruppo era identificare il simbolo
presente su tutti i cartoncini. I risultati indicano che le reti centralizzate, come la
ruota (a), si dimostrano più efficienti rispetto a quelle decentralizzate: chi è in
posizione centrale può facilmente raccogliere le informazioni tra tutti i membri,
confrontarle fra loro e indicare la soluzione corretta.
Se si prendono in considerazione altri indici, le reti decentralizzate si mostrano
più interessanti. Se nelle reti centralizzate il leader mostra una soddisfazione e
un morale più alto, in quelle decentralizzate tutti gli individui si dimostrano più
soddisfatti del proprio contributo alla decisione del gruppo. Le reti centralizzate,
prevedono in genere un numero minore di comunicazioni ma un maggior
impegno cognitivo da parte di un singolo elemento che è chiamato a coordinare
tutte le informazioni; questo fa sì che esse siano più adatte a compiti semplici in
cui un singolo individuo può gestire l'intera informazione necessaria alla
soluzione del problema. Reti decentralizzate sono invece da preferire di fronte a
compiti più complessi o meno strutturati, in cui la circolazione della
comunicazione e la condivisione delle informazioni tra più persone è essenziale
per definire il problema e per affrontarne le diverse sfaccettature.
Proprio partendo da queste considerazione Jani propone di identificare un forma
particolare di processo decisione: il groupthink, ovvero una sindrome del
processo decisionale in cui i membri di un gruppo tralasciano la ricerca e la
valutazione di soluzioni alternative e potenzialmente preferibili giungendo a
scelte disastrose.
Le comunità pratiche
Con il costrutto di “comunità di pratiche,”, Wegner sposta l'attenzione dal prodotto
delle decisioni al processo di interazione che si sviluppa all'interno di gruppi reali.
Una “comunità di pratiche” non si limita a ricevere ed elaborare informazioni, ma
apprende tramite un processo collettivo a muoversi nel proprio ambiente.
Si tratta di un processo cooperativo attraverso cui i membri di un gruppo
apprendano e sviluppano congiuntamento un insieme di conoscenze pratiche in
grado di mediare culturalemte la sfera riservata alle azioni al fine di renderle
intellegibili e prevedibili. La prospettiva di Wegner si allontana dalle tradizioni
cognitive degli studi sul decision making per avvicinarsi decisamente alle
tradizioni interazioniste e costruzioniste che vedono nell'Altro generalizzato e nel
campo reciprocamente condiviso gli oggetti di studio della psicologia sociale.
Le comunità di pratiche sono caratterizzate da 3 dimensioni fondamentali:
(1) un impegno reciproco. L'impegno reciproco prevede che i componenti
del gruppo si riconoscano come complementari, ma soprattutto realizzino
e condividano uno stesso contesto in cui obiettivi, contributi, interessi
personali siano negoziati e negoziabili e in cui siano legittimi tanto
l'accordo quanto la critica, in quanto fondati su riconoscimento e
coinvolgimento reciproco. Parole chiave sono: condivisione e
negoziazione.
(2) un'impresa comune. L'impresa comune si riferisce al coordinamento
tra obiettivi individuali e obiettivi condivisi. La partecipazione a una pratica
collettiva prevede al tempo stesso l'impegno verso un fine condiviso e la
possibilità di perseguire contemporaneamente grandi e piccoli obiettivi
individuali. I partecipanti a una comunità di pratiche apprendono il
significato delle azioni che compiono, negoziano il significato delle proprie
finalità nel confronto con gli altri, riconoscono come legittimi gli obiettivi
condivisi ed individuali, purchè funzionali all'impresa comune.
(3) un repertorio condiviso. I repertori condivisi sono l'insieme di
significati, gesti, abitudini, routine, parole condivise che consentono a un
gruppo di interagire in modo dotato di senso per i suoi membri. Non è
possibile coordinarsi ne identificare uno scopo comune se non si
condividono riferimenti culturali, significati, memorie condivise che diano
senso alle azioni di singoli e gruppi. Il repertorio condiviso costituisce il
terreno di incontro fra pratiche precedenti e nuovi obiettivi:
l'apprendimento diventa quindi un processo attivo di ricostruzione di
significati socialmente condivisi nella continua interazione.
Possiamo sottolineare che la comunicazione è elemento trasversale e
soggiacente ai punti sin qui affrontati. Essa è fondamentale nell'emergere delle
norme, è strettamente legata alla definizione di ruoli e status e, sotto forma di
capacità persuasiva, è centrale per l'identificazione del leader.
7. Pregiudizi, stereotipi e relazioni tra gruppi
Il comportamento intergruppi
Si può dire che nel momento in cui ci troviamo a interagire con una persona che
appartiene a gruppi diversi dal nostro tenderemo ad attivare specifiche modalità
di percezione, valutazione, azione definite nel complesso comportamenti
intergruppi. Questo non si verifica solo in presenza di un effettivo incontro tra 2
gruppi, ma anche nell'incontro tra due singole persone, allorquando le reciproche
appartenenze risultino salienti e siano in grado di attivare di conseguenza bias
cognitivi.
Tajfel ha definito il primo tipo di incontro relazione interindividuale e il secondo
tipo relazioni intergruppi, e ha suggerito di considerare tali relazioni non come
un'alternativa dicotomica, bensì come i due estremi di un continuum.
Intorno a questi temi si è andata strutturando nel tempo una ricca tradizione di
ricerca empirica, che ha esplorato le modalità concrete con le quali si struttura la
relazione intergruppi e le condizioni nelle quali si realizza una maggiore o minore
conflittualità.
Come nel caso del pregiudizio, anche rispetto alle relazioni tra i gruppi sono state
utilizzate e messe alla prova le diverse teorie che hanno nel tempo strutturato lo
sguardo psico- sociale sul comportamento umano.
Una parte per il tutto: lo studio delle dimensioni storiche e culturali dei processi di
memoria
La memoria è la facoltà che ci permette di salvaguardare le informazioni e di
recuperarle quando è di nuovo necessario usarle, questo non vuol dire che si
ignorino i legami tra queste funzioni e le altre quali immaginazione, la percezione,
e l'impronta emotiva dei ricordi.
La nostra analisi dell'influenza delle dimensione storiche e culturali sul
funzionamento della memoria va dunque intesa come l'analisi di una parte per il
tutto, poiché la mente funziona come un tutto. È opportuno essere consapevoli
che allo stesso modo i processi individuali di memoria e i loro inquadramenti
storico-culturali sono anch'essi inscindibili, perchè nessuno di questi due livelli di
anali può esistere senza l'altro.
Da un lato la memoria collega le singole esperienze che la persona ha vissuto,
ristrutturandole nella sua mente in un insieme dotato di senso; dall'altro, è ancora
grazie all'azione della memoria che le varie esperienze individuali possono essere
connesse in un quadro sociale complessivo, rendendo possibile una
comunicazione significativa in cui i singoli possano intendersi tra loro.
Anche la descrizione dei processi più elementari e meccanici alla base del
funzionamento individuale, come ad esempio la formazione dei riflessi
condizionati descritta da Pavlov, non può fare a meno i presupporre l'esistenza di
una memoria dell'organismo. Il filo che lega la mente dell'individuo e la base per
costruire un terreno comune di comprensione del mondo.
Si mette in luce l'intrinseco legame tra memoria e oblio: la memoria è tale, per il
singolo individuo, perché distingue quello che è necessario ricordare da quello
che può essere dimenticato, perché superfluo.
Dobbiamo considerare che nella situazione creata in laboratorio per costruire un
riflesso condizionato è stata attivata esclusivamente una memoria elementare,
un'associazione basata su una risposta fisiologica riflessa. L'apprendimento
costruito in laboratorio consente a questa risposta elementare di essere emessa
più velocemente, perchè l'organismo sottoposto a condizionamento impara a
reagire non solo di fronte al cibo, ma anche al solo comparire del segnale del cibo.