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LA PSICOLOGIA SOCIALE: PROCESSI MENTALI,

COMUNICAZIONE E CULTURA
LEONE, MAZZARA, SARRICA

Capitolo 1 - Natura e obiettivi della psicologia sociale

Di che cosa si occupa la psicologia sociale


Gli obiettivi della psicologia sociale sono: Contribuire alla comprensione del
comportamento specificando i fattori e le condizioni dell'agire umano.
L'oggetto di studio è l'interazione tra processi psicologici e dinamiche sociali
Essendoci diversi modi di intendere la disciplina, uno più individuale ed uno più
“sociale”, si formò una differenziazione tra le due visioni:
1. una psicologia sociale psicologica, concepita come sub-disciplina della
psicologia e avente come focus d'indagine i processi mentali individuali;
2. una psicologia sociale sociologica, considerata come sub- disciplina della
sociologia e avente come focus d'indagine i processi sociali.
Si tratta di una questione che ha accompagnato l'intero sviluppo della disciplina, a
partire dai suoi albori e fino ai dibattiti più recenti. Nel 1908 furono pubblicati i
primi due volumi che contenevano nel titolo la locuzione “psicologia sociale”, ma
che erano profondamente diversi, caratterizzati ognuno da una diversa visione
della materia, presentano quindi la dicotomia di cui stavamo parlando.
- William McDougall imposta infatti la nuova disciplina a partire da un punto di
vista strettamente individuale, concentrandosi sugli istinti, le emozioni, sulle
condizioni di suggestionabilità delle persone.
- Edward Ross esplora il versante psicologico di temi quali l'agire della folla, la
diffusione delle abitudini e delle convenzioni, l'opinione pubblica, la conflittualità
sociale.
Conseguenza di tale appiattimento su delle discipline generali, è la perdita di vista
della specificità della materia correndo due rischi diversi ma complementari. Da
un lato il rischio del riduzionismo psicologistico, vale a dire la tendenza a spiegare
fenomeni complessi come i comportamenti umani in termini di processi
psicologici elementari, dall'altro il rischio del determinismo socio-culturale, vale a
dire l'idea che l'individuo, risulti pressoché determinato nel suo modo di essere e
nelle sue azioni dalle condizioni esterne nelle quali vive; in entrambi i casi si viene
a perdere un territorio di estremo interesse, cioè l'intersezione tra le due
dimensioni.
Possiamo provare a pensare alla psicologia sociale come allo studio delle
dimensioni sociali della mente umana, ossia delle modalità di articolazione tra gli
aspetti individuali della vita psicologica e il livello della vita sociale, inteso in
termini di interazioni tra le persone ma anche in termini più ampi di contesto
socio- culturale. Scegliere come ambito della disciplina non uno dei livelli, bensì
l'intersezione tra di essi, significa non limitare la scelta degli oggetti di studio ad
alcuni temi specifici e settoriali.
Ciò che caratterizza la psicologia sociale è il riferimento alla mente in quanto
principio organizzatore dei vissuti, delle esperienze e delle intenzioni delle
persone, e dunque in quanto elemento causativo imprescindibile del
comportamento umano. Ciò che distingue la psicologia sociale dalla psicologia
generale è l'attenzione per l'origine sociale della maggior parte dei contenuti
mentali, i quali possono essere veramente compresi solo in relazione alle
dinamiche sociali delle quali l'individuo partecipa.
Due sono le tematiche legate ma che meritano di essere considerate ognuna per
conto suo: la comunicazione, intesa come luogo di effettiva costruzione della
struttura fondamentalmente sociale della mente, e la cultura, intesa come
sedimento di tale costruzione collettiva della conoscenza e
dei significati condividi.

Uno sguardo alla storia e alle grandi teorie


Al fine di inquadrare bene l'apporto che la psicologia sociale ha dato alle scienze
umane, sarà opportuno far riferimento ad alcuni grandi modelli teorici di
spiegazione del comportamento umano; modelli molto generali ma che hanno
dato vita a sistemi teorici molto complessi ed articolati.

1 Base biologica del comportamento


Una prima importante risposta che le scienze umane hanno dato alla domanda
sull'origine del comportamento è quella che fa riferimento alle caratteristiche e
alle dotazioni biologiche degli esseri umani, che derivano dal lungo passato
evolutivo della specie e ne indirizzano in modo sostanziale l'azione. Alla base ci
sono le grandi scoperte dell'evoluzionismo darwiniano.
L'idea di fondo, era che i tratti comportamentali, le motivazioni e le disposizioni
personali fossero soggetti allo stesso processo di selezione per adattamento che
governa l'evoluzione delle caratteristiche morfologiche e funzionali degli esseri
viventi (in altre parole, come una caratteristica funzionale vantaggiosa si è evoluta,
così anche un tratto comportamentale utile alla sopravvivenza, può aver subito un
percorso evolutivo).
Coerentemente con questo approccio, si andavano affermando concezioni
istintualiste, che tendevano cioè a ricondurre i diversi comportamenti a specifici
istinti, sviluppatesi nell'essere umano proprio per la loro funzione adattiva; d'altro
canto il principio della sopravvivenza del più adatto veniva spesso esteso e
applicato anche al campo sociale, nell'ottica del darwinismo sociale che spiegava
in termini di selezione per adattamento gli alti livelli di competizione tra individui e
gruppi, considerando dunque migliori, in quanto più adatti, i vincitori di tale
competizione.
A seguito della diffusione della prospettiva biologica, si è andato consolidando un
approccio di tipo funzionalista, teso cioè a valorizzare il ruolo svolto da ogni
specifico oggetto di studio ai fini dell'equilibrio e dello sviluppo del sistema in cui
esso si inserisce.
Più recentemente la sensibilità per la base biologica si è espressa in correnti di
studio quali la sociologia e l'etologia umana che, hanno proposto modelli sempre
più complessi e integrati di interpretazione dell'agire umano in quanto
condizionato dalle sue antiche radici di tipo adattivo. Nel campo psicologico si è
avuto lo sviluppo della psicologia evoluzionista, che esamina i diversi processi
psicologici come risultato della selezione naturale e dunque in funzione della loro
utilità per la soluzione dei problemi di adattamento.
Rispetto a tutto ciò si può confermare quanto già sostenuto, e cioè che sarebbe
un errore tentare di spiegare l'intera gamma del comportamento umano
riferendosi esclusivamente alle cause di tipo biologico- evoluzionistico; ma
sarebbe un errore altrettanto grave non riconoscere la funzionalità delle
motivazioni di quel tipo e la forza che a loro deriva dal nostro lungo passato
evoluzionistico.

2 Il ruolo delle dinamiche inconsce


Altro grande paradigma è quello che si è concretizzato nel variegato
arcipelago della psicoanalisi.
La psicoanalisi sviluppata da Freud, per molti versi in continuità con le
impostazioni evoluzionistiche e istintualiste tende a spiegare tanto l'individuo, con
le sue caratteristiche, disposizioni e motivazioni, quanto le relazioni interpersonali
e la società nel suo complesso, facendo riferimento prevalentemente a dinamiche
inconsce.
Freud ha evidenziato come il comportamento sia riconducibile all'esito di processi
che si svolgono al di sotto del livello di consapevolezza degli individui, in un mondo
spesso oscuro e misterioso al quale si può accedere solo in modo molto parziale,
con le tecniche messe a punto nella pratica psicoanalitica. In questo mondo
inconscio si svolge una lotta costante tra le pulsioni (intese come somma delle
energie vitali, con al centro la pulsione sessuale) e i vincoli che il mondo esterno
pone alla realizzazione di tali pulsioni, primo fra tutti l'esistenza di altre persone,
che competono per gli stessi obiettivi, e della società, con le sue regole e le sue
istruzioni. L'esito di tale lotta ottiene di strutturare la personalità ed il modo di
essere dell'individuo, i quali prendono forma intorno ad una serie di meccanismi di
difesa nei quali si esprime l'agire quotidiano.
Reich e Marcuse, hanno evidenziato il legame tra la repressione sessuale e le
caratteristiche del sistema socio- economico e della società di massa, ponendosi
l'obiettivo di perseguire attivamente la realizzazione di una società che fosse al
tempo stesso più giusta sul versante sociale e meno repressiva sul versante
istintuale e affettivo.
Si pensi ai filoni della psicoanalisi culturalista e della psicoanalisi interpersonale,
che valorizzano gli aspetti relazionali e la dimensione comunicativa nella
strutturazione della personalità dell'individuo, sottolineando il legame inscindibile
tra le dinamiche inconsce e quelle di tipo culturale che definiscono l'ambiente
sociale nel quale l'individuo vive.
L'approccio psicoanalitico alla spiegazione dell'essere umano è diventato un
punto di riferimento per le scienze umane; ad esempio il filone dell'antropologia
psicologica che ha esplorato il ruolo della cultura, delle modalità di organizzazione
sociale e delle pratiche di allevamento e di socializzazione nella strutturazione
della personalità dell'individuo, con la possibilità di riconoscere in ciascun sistema
socio- culturale l'esistenza di una personalità di base o personalità modale
coerente con le esigenze funzionali del sistema stesso.
3 Il comportamento come reazione a stimoli
Negli stessi anni in cui in Europa Freud fondava il metodo psicoanalitico, negli Stati
uniti prendeva forma il comportamentismo.
Tale corrente ha derivato la sua forza dal fatto di fondere spunti e sensibilità
provenienti da diversi filoni di pensiero e di ricerca che andavano maturando tra la
fine dell'800 e l'inizio del 900. Secondo questa teoria, la psicologia doveva
qualificarsi a pieno titolo, come una scienza naturale, abbandonando il riferimento
a costrutti di tipo mentalistico e riferendosi invece ai soli dati direttamente
osservabili ed empiricamente rilevabili, appunto i comportamenti.
Come per gli animali, anche per gli esseri umani, i comportamenti possono essere
spiegati come risposta agli stimoli; gli stimoli possono essere distinti fra quelli
antecedenti all'azione, che definiscono l'oggetto rispetto al quale l'organismo è
chiamato ad agire, esplicitando diverse possibili risposte, spesso a base
prevalentemente fisiologica, e quelli conseguenti all'azione, vale a dire le reazioni
che l'individuo ottiene dall'ambiente in risposta alla sua azione, le quali vengono
definite rinforzi. A seconda del valore positivo o negativo di tali rinforzi aumenta o
diminuisce la probabilità di ripetizione di uno specifico comportamento, e si
realizza in pratica, attraverso un graduale percorso di prove ed errori,
l'apprendimento dei comportamenti più vantaggiosi per l'organismo. L'idea che tra
Stimolo e Risposta possano frapporsi, con funzione di mediazione, delle variabili
intervenienti relative all'organismo che agisce sicché il modello teorico si
trasforma da S-R a S- O- R, dove O rappresenta appunto l'organismo con la sua più
o meno ampia potenzialità di variegare il rapporto tra Stimolo e Risposta.

4 La prospettiva cognitiva
Alla metà degli anni 50 prende corpo quello che è diventato negli ultimi decenni
l'orientamento prevalente della psicologia, vale a dire l'approccio cognitivo. Il
punto di partenza è l'idea che il comportamento dell'individuo possa essere
efficacemente interpretato solo partendo dalla comprensione dei processi di
funzionamento della mente umana.
Il problema fondamentale, per la comprensione del comportamento umano, è
dunque quello della conoscenza del mondo: ci si rapporta infatti agli elementi del
mondo esterno non solo e non tanto in relazione alle loro caratteristiche
oggettive, quanto piuttosto in relazione al modo in cui tali caratteristiche sono
percepite, memorizzate, messe in rapporto tra loro e rielaborate in una
rappresentazione del mondo, la quale costituisce di fatto il reale ambiente nel
quale la nostra azione si svolge.
L'aspetto caratterizzante dell'approccio cognitivo consiste nell'aver concentrato
l'attenzione sulle specificità operative dei processi mentali, le quali sarebbero
fondate in ultima analisi sulla necessità di realizzare il massimo risultato con il
minimo sforzo, economizzando il più possibile le risorse cognitive disponibili, che
pur essendo tutt'altro che trascurabili, risultano tuttavia insufficienti rispetto alla
quantità di informazioni in arrivo.
Sul versante specifico della psicologia sociale l'approccio cognitivo si è tradotto nel
vasto settore della cognizione sociale, che si occupa in particolare delle modalità
con le quali si realizza la conoscenza degli altri e del mondo in genere. Hanno
assunto così importanza notevole alcune tematiche che, rielaborando alla luce di
questo approccio una serie di spunti classici della disciplina, costituiscono una
parte significativa della psicologia sociale attuale (tema importante: percezione di
persone).
Gli stereotipi, sono intesi come insiemi strutturati e tendenzialmente stabili di
aspettative e credenze nei confronti delle persone in funzione del gruppo sociale
al quale appartengono; le attribuzioni causali, ci orientano nel giudicare gli eventi
come dovuti a cause interne, relative alle caratteristiche e alle scelte delle persone
che agiscono, oppure a cause esterne, relative alle condizioni nelle quali l'azione si
svolge; gli schemi, sono intesi come forme predefinite di strutturazione della
conoscenza, che ci guidano nella raccolta e nell'elaborazione delle informazioni,
con precise aspettative circa le relazioni spaziali, temporali e funzionali tra i diversi
elementi di conoscenza che stiamo acquisendo; le euristiche di giudizio, che si
configurano come scorciatoie di pensiero che ci consentono di arrivare alla
soluzione di problemi in modo rapido e soddisfacenti pur in assenza di dati e di
risorse sufficienti per un'elaborazione completa.

4bis un bilancio della prospettiva cognitiva


Il giudizio che si può dare sulla validità del modello cognitivista e sui suoi rapporti
da un lato con il comportamentismo e dall'altro con gli orientamenti interazionisti,
costuzionisti e culturalisti costituisce uno dei nodi teorici più importanti e delicati
del dibattito attuale sulla natura e sui compiti della psicologia sociale.
L'aspetto problematico, specie dal punto di vista della psicologia sociale, è che si
tratta di un approccio decisamente individualistico; il processo conoscitivo che si
studia, considerandolo giustamente fondamentale ai fini della comprensione del
comportamento umano, è concepito come un rapporto diretto e immediato fra
due entità: il soggetto con le sue caratteristiche date e anche biologicamente
fondate, e dall'altro il mondo esterno, considerato nelle sue caratteristiche
oggettive. Senonché l'essere umano non si rapporta mai al mondo esterno in
modo individuale e diretto, bensì sempre con la mediazione delle relazioni sociali.
In questo senso, si può ritenere che il modello cognitivo vada integrato in un
orizzonte più ampio, che metta al centro dell'analisi la caratteristica più tipica
dell'essere umano, che è quella di costruire la propria visione del mondo e le
proprie strategie di azione sulla base di uno scambio con i propri simili.

5 la prospettiva gestaltista
Nei primi decenni del 900 si sono andati affermando diversi approcci teorici che in
modo diverso e complementare hanno rappresentato proposte di attuazione in
ambito psicologico dell'ideale conoscitivo di derivazione positivista. Due aspetti
hanno caratterizzato i primi sviluppi della psicologia. Il primo è l'idea che si possa
avere, tanto della realtà esterna quanto del mondo psicologico interno, una
conoscenza diretta e completa, corrispondente alle caratteristiche oggettive di
queste realtà. Il secondo è che tale conoscenza può avvenire in maniera ottimale
solo scomponendo le realtà complesse in unità più semplici, tali da poter essere
studiate in modo approfondito e con metodi sperimentali, con la convinzione che
le caratteristiche delle entità complessive che si studiano (processi mentali,
motivazioni, bisogni, comportamenti) derivino da una sommatoria delle
caratteristiche e delle modalità di funzionamento dei loro elementi costitutivi. Il
movimento gestaltista si è affermato in un primo tempo con gli studi sulla
percezione, estendendo poi la sua influenza a tutti gli ambiti di ricerca e restando
in proficua quanto problematica relazione con l'orientamento cognitivista. L'idea
di fondo è che la conoscenza, tanto degli oggetti fisici quanto degli eventi
psicologici, delle persone o dei fatti sociali, non avviene per sommatoria di
elementi, bensì come percezione di un tutto unitario, le cui caratteristiche e
proprietà non possono derivarsi dalle caratteristiche dei singoli elementi, bensì dal
modo in cui gli stessi sono organizzati.
Nei confronti della conoscenza, i gestaltisti sostennero una posizione di tipo
fenomenologico.
Da questo punto di vista la posizione gestaltista può considerarsi come diretta
antecedente di quella opzione costruzionista che tanta parte ha nel dibattito
contemporaneo sulla natura della psicologia sociale.
Intorno a queste idee si sviluppò a Berlino, nelle prime decadi del 900, un
movimento molto attivo e coeso, che verso la metà degli anni 20 fu costretto a
lasciare la Germania per motivi di persecuzione razziale rifugiandosi negli USA,
questo fu fondamentale per gli sviluppi successivi del paradigma gestaltista.

6 Gli stimoli e l'eredità di Kurt Lewin


Di particolare rilievo è la figura di Kurt Lewin che da Berlino emigrò negli USA e si
dedicò ad applicare le acquisizioni fondamentali del gestaltismo alla
comprensione dei fatti sociali. Al suo nome è legata l'introduzione in psicologia
sociale del costrutto di campo che esprime l'idea che qualsiasi fenomeno può
essere compreso non sulla base di relazioni causali semplici e lineari, bensì come
effetto di una molteplicità di fattori interdipendenti, che si influenzano
reciprocamente.
Quello che Lewin chiama lo spazio di vita è un sistema dinamico in cui sono
inscindibilmente legati la persona e l'ambiente nel quale la persona vive e di cui la
persona stessa si fa una specifica rappresentazione; di particolare rilevanza è
quella che Lewin chiama zona di frontiera, vale a dire il territorio di confine, in cui
i fatti dell'ambiente sono tradotti in eventi dotati di senso e di importanza per la
vita psichica dell'individuo, entrando così a far parte del suo spazio vitale.

Il sociale nella mente: gli orientamenti costruzionisti, interazionisti e culturalisti


L'idea che per la comprensione dei processi mentali sia necessario far riferimento
all'integrazione tra l'individuo e l'insieme delle relazioni sociali, è molto antica e
costituisce una delle ragioni più autentiche della psicologia sociale. Già Wundt,
riconosciuto come uno dei fondatori della psicologia ritenne necessario avviare un
vasto programma di ricerca volto ad indagare la natura sociale e culturalmente
fondata dei processi mentali.
Tale programma tradotto con l'espressione “psicologia dei popoli”, laddove invece
sarebbero risultate più aderenti alle sue intenzioni le espressioni “psicologia
culturale” oppure proprio “psicologia sociale”. Wundt era convinto, infatti, che si
potessero studiare a livello individuale e con tecniche sperimentali solo i processi
psicologici elementari, a base prevalentemente fisiologica, mentre per i processi
mentali superiori occorresse tener conto del contesto storico e culturale nel quale
essi si realizzano, dal momento che si manifestano in concreto in quanto
strumenti di relazione sociale.

Il mondo come costruzione condivisa e negoziata


Una delle caratteristiche qualificanti del contributo che la psicologia può dare alla
comprensione del comportamento umano è l'attenzione per come si realizza la
conoscenza e la sottolineatura delle possibili differenze tra le caratteristiche
oggettive del mondo ed il modo in cui esso viene percepito e rappresentato dagli
esseri umani. Le diverse teorie si distinguono tra loro nella valutazione dell'entità
di tale scarto, ed in definitiva di pervenire ad una conoscenza piena ed oggettiva
del mondo, nella sua verità.
Nel caso della conoscenza del mondo umani, il soggetto conoscente non può mai
considerarsi indipendente dall'oggetto di conoscenza, essendo egli stesso parte
del mondo che si propone di conoscere, ciò significa che i margini di interferenza
soggettiva sono decisamente più alti e che la conoscenza del mondo umano può
essere considerata come un incessante processo di organizzazione,
interpretazione e assegnazione di significato agli elementi costitutivi della realtà.

L'assegnazione di significato come processo sociale


A tale consapevolezza del carattere costruttivo e storicamente definito della
conoscenza, occorre aggiungere un'altra definizione cruciale: la convinzione che il
processo di assegnazione di significato non avviene come un'impresa individuale,
che si risolve in un rapporto tra il soggetto conoscente e il suo oggetto di
conoscenza, bensì sempre come un'impresa collettiva, che l'individuo attua
tenendosi in costante contatto con i suoi simili, nella forma dei rapporti
interindividuali faccia a faccia, delle relazioni all'interno dei gruppi e tra i gruppi,
ma anche nella forma più ampia del radicamento nei contesti e nelle dinamiche di
tipo culturale.
La dimensione sociale si può considerare non come una delle possibili fonti di
condizionamento “esterne” dei processi mentali, oppure come una delle possibili
aree di applicazione operativa, bensì come un elemento costitutivo della mente
umana.
Questo tipo di impostazione è sempre stata presente nell'ambito della psicologia,
ancorché in forme non del tutto esplicite e n ambiti di confine con la filosofia,
sociologia e antropologia.
Autore chiave è sicuramente George H. Mead che elaborò una serie di importanti
riflessioni poi confluite nel cosiddetto interazionismo simbolico, una corrente di
pensiero a cavallo tra sociologia e psicologia sociale. Mead concettualizzò in
maniera esplicita la mente come processo sociale, dal momento che essa è
strutturata come incessante scambio di simboli significanti risultano
dell'interazione con i propri simili, mediata dal linguaggio e concretizzata in atti
che rappresentano l'essenza della relazione tra individuo ed ambiente.
Nel momento in cui si pone il problema della conoscenza del mondo come punto
di partenza imprescindibile per la comprensione del comportamento umano, si
constata facilmente che tale conoscenza del mondo, per gli esseri umani, è
essenzialmente fondata sull'attribuzione di significati agli eventi, il che è un
processo inevitabilmente sociale.
Il problema della natura essenzialmente sociale della mente umana non è affatto
estraneo alla sensibilità cognitivista, ma anzi se ne può considerare un aspetto
qualificante per diversi motivi. In primo luogo perché l'attività di rappresentazione
del mondo si svolge essenzialmente per mezzo di simboli ed è dunque
costantemente intessuta di significazione; in secondo luogo perché il carattere
intrinsecamente selettivo e costruttivo dei processi cognitivi non può non risentire
dei sistemi di valore e delle convinzioni legate alle appartenenze di gruppo; infine
perché, le capacità cognitive superiori emergono come risultato di un confronto
con gli altri e si basano sulla nostra capacità di inferire gli stati mentali
dell'interlocutore.
Si può quindi affermare che la psicologia, anche nella sua matrice cognitiva, sia
stata largamente consapevole della natura sociale della mente.
Anche secondo queste prospettive, la mente viene concettualizzata come una
stretta interazione tra processi neurofisiologici ed esperienze interpersonali.
Soprattutto le relazioni sociali sono in grado di orientare il modo in cui le nostre
rappresentazioni del mondo sono prodotte e integrate tra loro in un insieme
unitario e dotato di senso. Questa capacità ha costituito un indubbio vantaggio per
la specie umana, e per questo motivo si è evoluta come tratto caratterizzante.

Mente, comunicazione, cultura


Posto che la conoscenza del mondo è un'impresa collettiva, che il cervello umano
è specificamente predisposto a questo scopo, e che ciò che chiamiamo mente è in
definitiva il risultato dello scambio incessante di simboli con i nostri simili, ne
discende l'assoluta centralità del tema della comunicazione per la comprensione
dei processi psicologici e del comportamento umano.
L'oggetto più autentico della psicologia sociale diventa il modo in cui gli individui si
scambiano informazioni sul mondo, confrontando e integrando i rispettivi punti di
vista, in maniera da creare quel tessuto di attenzione condivisa, intenzionalità
comune e cooperazione, che costituiscono l'essenza del modo più specificamente
umano di rapportarsi al mondo.

I precursori della prospettiva culturalista: per la psicologia sociale l'interesse per la


comunicazione come oggetto specifico della propria indagine si è sviluppato
insieme alla consapevolezza della natura socialmente costruita dei processi
mentali, attraversando fasi alterne: essa è stata largamente presente in quelle che
possiamo considerare le fasi fondative della disciplina, per cedere il passo
successivamente a modelli di stampo individualistico e riprendere poi spazio ed
importanza in anni recenti.
Di particolare importanza il modo concreto in cui gli individui si rapportano al
mondo, costantemente mediato dalle relazioni interpersonali e profondamente
marcato da dimensioni implicite e inconsapevoli, viene considerato come
elemento fondativo imprescindibile della coscienza individuale.
Tarde con un'analisi di grande accuratezza, basandosi su un'originale fusione delle
correnti di pensiero dell'epoca e intuendo nel contempo le nuove opportunità
della nascente società della comunicazione di massa mette in evidenza che per la
comprensione dei fenomeni sociali è indispensabile conoscere il modo in cui gli
esseri umani si trasmettono l'un l'altro le idee sul mondo, strutturando correnti di
opinione che diventano il supporto dell'azione concreta.
Quest'ultima è il risultato di una costante dialettica tra la tendenza all'imitazione
degli altri e le innovazioni che alcuni sono in grado di proporre come nuove
modalità di pensiero e di azione.
Sempre tra i precursori, Cattaneo, a cui va anche il merito di aver usato per primo
in assoluto la locuzione psicologia sociale, descrisse la natura essenzialmente
sociale del pensiero, che nasce dal confronto delle idee e dei punti di vista e che
solo in questo modo riesce a realizzare un sempre migliore controllo della realtà
esterna. Il linguaggio, e la comunicazione in generale, costituiscono il tessuto che
connette i sistemi di idee, e insieme lo strumento con cui gli individui e i gruppi
realizzano la conoscenza e il controllo del mondo.
Ma è soprattutto Vygotskij a porre le basi del modo più moderno di
concettualizzare il complesso rapporto tra il pensiero e le interazioni sociali
mediate dal linguaggio e dalla comunicazione. Secondo lui le funzioni psichiche
superiori si sviluppano a partire dalla relazione che gli individui hanno con gli
oggetti del mondo, i quali hanno sempre il carattere di simboli significativi rispetto
a una rete di rapporti materiali e sociali. In questa direzione, acquistano grande
importanza gli strumenti, materiali e ideali, attraverso i quali si entra in rapporto
con la realtà. Il linguaggio diviene pertanto elemento strutturante della mente e
del pensiero, portando con sé il riferimento all'intero bagaglio di conoscenze e
finalità condivise, ma anche di comunanze affettive e motivazionali, che
costituiscono di fatto la vita psichica dell'individuo.

Gli sviluppi della psicologia culturale


Sulla base di queste idee e sensibilità, si è andato consolidando uno specifico
settore di studi che ha preso il nome di psicologia culturale e che rappresenta
attualmente l'approccio che forse più di tutti valorizza la dimensione sociale dei
processi psicologici.
Questo approccio si distingue per almeno due punti qualificanti. Il primo punto è
l'idea che i processi psicologici, e più propriamente la mente in quanto entità
complessa, siano non solo fortemente influenzati, ma addirittura di fatto
strutturati dalle interazioni sociali, e in particolare dalla cultura, intesa come
insieme di significati condivisi e di artefatti materiali e ideali, socialmente costruiti,
tramite i quali le persone si rapportano al mondo. La vera sostanza dei processi
psicologici non consiste in operazioni di elaborazione delle informazioni bensì in
procedure di assegnazione di senso alla realtà.
Il rapporto tra le persone e la realtà esterna, in altri termini, è costantemente e
inevitabilmente mediato da strumenti culturali.
Il secondo punto è che la cultura, intesa come complesso di risorse per l'azione e
di percorsi di produzione di senso operati da uno specifico gruppo umano, in uno
specifico contesto storico, non va intesa come un insieme statico e definito di
strumenti, che ciascuno di noi eredita e introietta in modo passivo e da cui risulta
in ultima analisi rigidamente condizionato, bensì come un processo di continua
verifica e riadattamento di quegli strumenti nell'arena della pratica quotidiana, in
incessante negoziazione con gli altri.
Tale focalizzazione sui momenti di scambio si fonda su una concezione della mente
umana in quanto entità essenzialmente dialogica, strutturata dalle pratiche
discorsive per mezzo delle quali, in perenne interazione con gli altri, con il sistema
simbolico del quale si partecipa e con le azioni concrete con cui ci si rapporta al
mondo, si costruisce il senso della propria esperienza personale. In questa chiave
tutte le funzionalità della mente, operanti secondo regole definite e universali,
sono invece considerate come il prodotto costantemente riformulato del rapporto
necessario con gli altri.
La psicologia culturale si distingue non solo dagli orientamenti cognitivi e
neurobiologici, ma anche dalla psicologia detta cross- culturale, la quale, pur
considerando cruciale il ruolo che la cultura svolge nel determinare l'esito dei
processi psicologici, tuttavia tende comunque a considerare tali processi nella loro
essenza universale.

Verso una nuova psicologia sociale


L'insieme di questi spunti e di queste sensibilità hanno costituito la base per un
significativo ripensamento critico avviatosi nell'ambito della psicologia sociale a
partire dagli anni 70, da alcuni concettualizzato come una vera a propria crisi della
disciplina. Ne è seguito un difficile processo di rifondazione, che ha messo in
discussione molti degli assunti teorici e metodologici ormai consolidati che in
molti casi riprendevano in modo più o meno esplicito i fondamenti antichi.
Alla psicologia sociale come si era andata costruendo fino a quel momento, è stata
rivolta una critica di eccessivo individualismo ed è stata sollecitata una decisa
rivalutazione della dimensione sociale, intesa sia come attenzione al contesto, sia
in termini di strutturazione del pensiero.
Come esito di tale crisi è andata crescendo in psicologia sociale l'attenzione ai temi
della comunicazione, della costruzione sociale della conoscenza e più in generale
della caratterizzazione sociale e culturale dei processi psicologici. Anche sul
versante metodologico, agli esperimenti di laboratorio si è affiancata e spesso
sostituita una pratica di ricerca a maggiore validità ecologica. Ne è derivata la
diffusione di un approccio che è stato definito critico.

A conclusione possiamo enunciare due assunti fondamentali:


1. questa prospettiva critica e di rinnovamento, ancorché di grande interesse,
nel panorama generale della psicologia sociale attuale si qualifica tuttora
come una proposta critica, minoritaria rispetto agli orientamenti
prevalenti, che restano marcati in chiave prevalentemente individualistica.
2. questa posizione critica si esprime con livelli diversi di radicalità, nel senso
che si pone in alternativa più o meno netta con gli orientamenti più
consolidati, dichiarando dunque rispetto ad essi un diverso livello di
compatibilità o incompatibilità. Senza entrare nei dettagli possiamo dire
che la versione più radicale tende a portare la convinzione circa la natura
intrinsecamente sociale dei processi psicologici alla sue conseguenze più
estreme, eliminando di fatto la necessità di riferirsi a fenomeni mentali in
quanto tali, separati da quelli sociali da cui traggono origine e nei quali
concretamente si esprimono.
A questa contesa si riallaccia anche una questione di tipo terminologico. La
questione riguarda le etichette che si possono usare per indicare in modo
sintetico da un alto gli approcci che fin qui abbiamo definito “critici”, nella loro
diversa qualificazione in termini di radicalità, dall'altro lato gli approcci più
consolidati. Per i primi si fa spesso ricorso all'etichetta socio-costruzionismo e per i
secondi all'etichetta mainstream, che si riferisce essenzialmente alla posizione
maggioritaria.
Capitolo 2 - Dalla percezione del mondo alla comprensione di sé

Gestalt, approccio ecologico e New Look


La Gestalttheorie, viene elaborata a partire dai primi del 900 dalla scuola di
Berlino, ed a volte viene indicata come Teoria della forma.
Non esiste in italiano un sostantivo unico per tradurre Gestalt. Seguendo Kanizsa
possiamo definire Gestalt come struttura organizzata in contrapposizione ad
“aggregato”, “mucchio”, “somma”. Nel primo caso viene posto l'accento su
concetto di organizzazione, cioè si tratta di un insieme regolato da leggi, non
casuale, nel secondo caso è implicito che si tratti di un raggruppamento casuale,
arbitrario, indifferente.
 gli stimoli ambientali, lungi dall'essere sommati tra loro, vengono percepiti
sotto forma di strutture organizzate in modo non casuale;
 le proprietà del tutto non sono equivalenti al risultato della somma delle
proprietà delle parti e, come corollario, la proprietà di una parte dipende
dal tutto nel quale è inserita.
5 sono i criteri di raggruppamento identificati dagli psicologi della Gestalt:
 vicinanza;
 somiglianza;
 simmetria;
 continuità;
 chiusura.
A questi principi si aggiunge la tendenza a percepire gli stimoli secondo la
cosiddetta organizzazione figura- sfondo (triangolo di Kanizsa – figura sfondo): si è
portati cioè a percepire i più diversi oggetti (persone incluse) come elementi di
rilievo rispetto a sfondi più o meno uniformi. Si tratta di un principio evidente nel
caso delle figure instabili in cui al configurazione non chiara comporta un continuo
alternarsi delle figure percepite (es. due volti d profilo o coppa? - figure instabili).
I principi messi in luce dalla Gestalt sono pervasivi della vita quotidiana.

L'approccio ecologico L'approccio ecologico assume che gli stimoli ambientali


siano di per sé fonti sufficientemente ricche di informazioni. L'elaborazione
sarebbe guidata dai dati raccolti nell'ambiente (data-driven); l'intervento
individuale non sarebbe di tipo inferenziale ma sarebbe limitato alla capacità di
riconoscere e raccogliere le informazioni già presenti nell'ambiente. Fondamentale
è il concetto di affordances: le informazioni disponibili nell'oggetto percepito, le
possibilità offerte dal contesto in cui ci muoviamo.
Le qualità che percepiamo servono per adattare l'organismo all'ambiente, questo
si attua in due modi: 1- adattamento funzionale alla sopravvivenza della specie; 2-
adattamento funzionale per il raggiungimento di obiettivi individuali.
1. nella prima accezione i sistemi percettivi si sarebbero sviluppati nella
filogenesi al fine di cogliere direttamente la complessità delle informazioni
presenti nell'ambiente in cui ci troviamo. I sistemi sensoriali non si
limiterebbero a trasmettere sensazioni elementari che poi vengono
sottoposte ad inferenze inconsce; sarebbero invece in grado di cogliere
proprietà invarianti di ordine superiore e possibilità comportamentali utili
per la sopravvivenza.
2. nella seconda accezione le affordances vengono percepite anche in
funzione del bagaglio delle esperienze individuali e degli obiettivi
individuali, se già dai primi mesi di vita siamo predisposti a cogliere alcune
informazioni ambientali essenziali per la sopravvivenza, con
l'apprendimento impariamo a riconoscere e discriminare più sottilmente
tra le informazioni presenti.
L'approccio ecologico sostiene che le affordances siano proprietà sempre presenti
nell'oggetto che possono essere colte o meno.
Due esempi classici ci consentono di identificare la ricchezza delle informazioni
presenti nell'ambiente e la capacità di cogliere tali informazioni complesse sin dai
primi mesi di vita: gradiente tissurale e paradigma del precipizio visivo.
Il gradiente tissurale è una tipica configurazione complessa presente negli
ambienti quotidiani (es. illusione di Muller Lyer, per cui i due segmenti – uno con
la punta aperto uno con la punta chiusa-appaiono di grande diverse in base alla
percezione del senso di profondità dovuta agli angoli convessi o concavi alle loro
estremità).
Il paradigma del precipizio visivo (visual cliff) sostiene affordances funzionali alla
sopravvivenza della specie. (bambino su pavimento a scacchi, a un certo punto
inizia lastra di vetro ma sotto in profondità si continuano a vedere gli scacchi del
pavimento) tale apparato esemplifica la percezione visiva di un precipizio. Negli
esperimenti si osserva che i bambini di pochi mesi camminano carponi fino alla
metà del tavolo poi si arrestano; se opportunamente incentivati, i bambini
apprenderanno poi ad integrare l'informazione visiva con quella tattile, a
riconoscere la solidità del piano di vetro e proseguire.

Il New Look
Se la Gestalt si sofferma sulle conformazioni degli stimoli, l'approccio ecologico
indica il ruolo della capacità, apprendimento e motivazioni individuali ma sempre
considerando le informazioni presenti nell'ambiente come qualità intrinseche
degli oggetti stessi.
Altri approcci come il New Look (capofila Jerome Bruner) riconoscono all'individuo
un ruolo ancora più attivo.
La rappresentazione degli stimoli sensoriali è controllata da processi di ordine
superiore. In altre parole, le intenzioni, i valori, la cultura, non solo guidano
l'esplorazione del mondo ma determinano la forma delle percezioni.
Sempre secondo il New Look, la percezione è pienamente psicologica, intendendo
con questo il pieno primato del percorso top- down rispetto ai dati sensoriali. La
percezione ha anche, ma non solo, la funzione di rappresentare il mondo;
percepire serve a controllare la regolarità del contesto sociale, ma anche a
difendersi da alcuni aspetti di sé non piacevoli, “non vedendo” certe cose e
“vedendone” altre (esperimento sulla percezione della grandezza delle monete tra
bambini di famiglie agiate o no, le monete di maggior valore venivano
sovrastimate da tutti, ma specialmente dai bambini delle famiglie povere
importanza sociale della percezione).

La percezione degli altri, le prime impressioni


La percezione dell'Altro da Sè attraversa molteplici settori della psicologia.
Estendendo i dettami della Gestalt all'ambito delle prime impressioni, Asch
propone il cosiddetto modello configurazionale; l'insieme dei tratti attribuiti a una
persona contribuisce a definire una impressione globale, all'interno della quale
vengono inserite le successive informazioni disponibili. Così, le persone sono
percepite come unità complesse, e le proprietà degli elementi che definiscono
queste unità dipendono dall'insieme stesso in cui sono inseriti.
Esperimento: soggetti sottoposti a liste differenti di aggettivi che descrivono una
persona. Le liste sono identiche tranne per il cambiamento dell'aggettivo centrale,
che da caldo diventa freddo. I risultati indicano che i partecipanti che ricevono la
lista con l'aggettivo caldo descrivono la persona come generosa e di buon
carattere, quelli che ricevono la lista con l'aggettivo freddo la descrivono come
una persona snob, calcolatrice e antipatica. Al variare di un singolo elemento
l'intera configurazione cambia.
Tuttavia non tutti i termini hanno un peso uguale nelle configurazioni. In una
seconda condizione, la parola manipolata al centro della lista è educato che
diventa brusco; in questo caso si osserva un cambiamento minore delle
impressione tra i due gruppi.
È possibile quindi distingue tratti centrali da periferici; Asch mostrò che i primi
tratti della lista contribuiscono in misura maggiore alla formazione
dell'impressione globale: il cosiddetto effetto primacy.
Contrapposto al modello configurazionale è il modello algebrico di Anderson.
Nella formazione delle prime impressioni si procede secondo un processo di
bottom-up, che parte dalle informazioni raccolte e procede a una successiva
combinazione.
La posizione di ciascun tratto nella lista contribuisce a conferire maggior o minor
importanza ai tratti proposti: le prime informazioni sono più semplici da
trattenere in memoria poiché non subiscono l'interferenza degli elementi
successivi (effetto primacy), ma anche le ultime sono in parte favorite poiché più
prossime al compito di valutazione (effetto recency). Ogni tratto inoltre è
caratterizzato da una valutazione positiva/ negativa. L'integrazione algebrica tra
posizione e valutazione darà luogo a un giudizio di valore complessivo.
Di tutt'altro tenore è l'interpretazione ecologica che propone di studiare la
formazione delle prime impressioni in contesti reali. Secondo questa prospettiva,
la percezione delle social affordances dipenderà dalla sintonia tra informazioni
offerte dalla persona osservata e sensibilità dell'osservatore. Così le sintonie
possono essere innate o possono variare in funzione di obiettivi sociali o di
esperienze pregresse.
Corollario interessante è la cosiddetta sovra- generalizzazione, per cui le percezioni
basate sul riconoscimento di informazioni presenti nello stimolo si estendono
anche in contesti inappropriati; ad esempio, adulti i cui tratti somatici sono più
infantili tendono ad essere percepiti secondo tratti specifici dei bambini
(vulnerabili, semplici, deboli e sinceri). Si tratta quindi, di generalizzazioni indebite
e potenzialmente non adattive.
Social cognition di Fiskke e Neuberg. Esemplare dei modelli a due vie, questo di
Fiske e Neuberg (fig. 3 pag 46) propone un continuum nella elaborazione delle
informazioni.
Gli osservatori si limiteranno a un processo di tipo top- down, economico da un
punto di vista cognitivo, e basato sull'appartenenza della persona osservata alle
categorie che risultano evidenti per chi osserva (uomo/donna, giovane/anziano …)
; all'estremo opposto l'osservatore potrà impegnarsi in un processo bottom-up,
basato sull'attenta analisi degli elementi informativi (processo data driven).
Questo secondo processo, dispendioso cognitivamente, è attivato a fronte di
adeguate motivazioni e potrà portare o alla conferma della valutazione iniziale
basata sulle categorie o a una rivisitazione della prima impressione.
Superata la prima impressione, iniziamo ad osservare i comportamenti ponendoci
domande; allo stesso modo cerchiamo di capire qualcosa di noi stessi osservando i
nostri comportamenti. Questo genere di considerazioni rientrano sotto l'etichetta
di attribuzione causale; occuparsi dei processi di attribuzione causale vuol dire
interessarsi del modo in cui si traggono delle inferenze circa le cause che guidano i
comportamenti propri e altrui. Come si può intuire già dall'impostazione, è
necessario rivolgere l'attenzione ai processi di ragionamento individuali, per
questo motivo i modelli di attribuzione causale sono spesso contraddistinti da
contenuti tipici dei modelli cognitivi.
Una prima fondamentale indicazione sulle attribuzioni causali viene da Heider, il
quali riconosce l'importanza della “psicologia del senso comune”, che è
informativa sui meccanismi di ragionamento messi in atto. Secondo Heider le
inferenze circa le cause dei comportamenti servono a prevedere con un grado di
accuratezza sufficiente come gli altri si comporteranno con noi e cosa aspettarci da
noi stessi.
Per comprendere l'epistemologia ingenua, quindi per accedere ai processi di
attribuzione, sarà sufficiente esaminare il linguaggio con cui le persone descrivono
le proprie esperienze; in termini più formali potremmo dire che identificano il
luogo in cui si trova la causa della gentilezza osservata all'interno o all'esterno di
chi compie l'azione.
I due locus of control fondamentali sono:
 locus of control interno: si inferisce che le cause di un comportamento
siano dovute a qualità interne all'attore. Se il locus è interno, un
comportamento è dovuto alle scelte individuali (motivazione) e/o alle
caratteristiche della persona.
 locus of control esterno: si inferisce che le cause di un comportamento
siano da ricercare nell'ambiente circostante all'attore. Se il locus è esterno,
la causa di un dato comportamento è da attribuire al contesto specifico, a
variabili di natura situazionale.
Questa distinzione fondamentale è alla base della possibilità di prevedere i
comportamenti altrui. Tuttavia, non siamo interessati a prevedere tutti gli eventi
futuri ma principalmente a scoprire se il comportamento messo in atto è dovuto a
caratteristiche stabili delle persone.
A tal fine ci basiamo su alcuni elementi particolarmente informativi:
 libera scelta: se non c'è libera scelta non possiamo sapere se le cause dei
comportamenti sono attribuibili a fattori esterni o se sono dovute a
motivazioni individuali;
 effetti non comuni: le scelte effettuate non rientrano nella norma.
Consideriamo le scelte insolite più informative circa le preferenze
specifiche della persona;
 desiderabilità sociale: le scelte effettuate non sono dovute al desiderio di
apparire positivamente agli occhi degli altri.
Ma probabilmente il modello che più di tutti esemplifica l'idea di scienziato
ingenuo è il modello della covarianza. Secondo questo modello, nel processo di
attribuzione casuale vengono considerati congiuntamente molteplici fattori e si
attribuisce un locus interno o esterno in funzione della covariazione tra gli stessi.
Per identificare le cause di questo comportamento, ci poniamo 3 domande
relative all’oggetto, a sé e agli altri: distintività dell'oggetto – coerenza in
situazioni diverse da parte del soggetto – consenso da parte altrui.
A seconda di come di intersecano le risposte a queste domande saremo incerti o
saremo sicuri che la causa è dovuta o a cause situazionali o a cause interne.
Appare evidente come uno sforzo cognitivo di questo genere richieda una
notevole quantità di risorse cognitive: ecco quindi che compaiono bias ed
euristiche.
Il self serving bias, è la tendenza ad attribuire cause interne ai nostri
comportamenti positivi e ai nostri successi e cause esterne ai nostri insuccessi, che
si riflette anche sulle attribuzioni relative ai comportamenti dell'ingroup e
dell'outgroup; e l'errore fondamentale di attribuzione, cioè la tendenza a
sovrastimare i fattori disposizionali e sottostimare i fattori situazionali.

Il Sè
Il tema della conoscenza si complica quando oggetto e soggetto coincidono, cioè
quando l'essere umano s'interroga circa la propria identità.
Da un lato autori come Lewin guardano al Sè come a un insieme dinamico, una
Gestalt caratterizzata da forze in interazione tra loro; questo approccio si interseca
quindi con il tema dei bisogni e delle motivazioni, e con lo sviluppo del Sè nella
prima infanzia. Una seconda corrente di studi, di impostazione cognitivista, si
concentra sulle informazioni che ciascuno ha raccolto circa se stesso e sui processi
sottostanti. Una terza corrente, interazionista simbolica, pone in evidenza il
continuo fluire delle esperienze e l'interazione tra ciò che sentiamo e ciò che gli
altri dicono che noi siamo, questa terza prospettiva ci proietta verso il tema della
negoziazione dei significati e verso gli sviluppi narrativi e culturali della psicologia
sociale.

La persona come totalità dinamica


Una prima direzione id indagine sul Sè ci viene indicata dagli autori che hanno
proposto una estensione sistematica dei principi della Gestalt in ambito psico-
sociale. Per quanto alcuni passaggi risultino datati, nell'impostazione gestaltista si
riscontrano temi che saranno sviluppati in molti ambiti della psicologia.
Nella formulazione della Field teory (teoria di Campo) Lewin sottolinea
l'interdipendenza, all'interno del campo, tra fatti di ordine ambientale e fatti di
ordine personale. Tra i due ordini, si attua la zona di frontiera, deputata ai processi
di interazione, percezione, appropriazione dell'ambiente fisico e sociale da parte
dello spazio di vita personale. Lo spazio di vita include fatti relativi all'esperienza
individuale ed elementi che appartengono alla persona.
Il Sè può quindi essere descritto come un insieme di aree, caratterizzate da forze
concorrenti o contrapposte a seconda della situazione e dell'ambiente di vita.
Lewin, propone di osservare l'emergere di conflitti non solo interpersonali, ma
anche intrapersonali (ad esempio, quelli appetitivo avversativi, caratterizzati da
attrazione e repulsione contemporaneamente). La teoria di campo propone quindi
una visione dinamica della persona, considerata come un tutto organizzato e
plastico, in cui la tensione tra cambiamenti ambientali e interiori determina sin
dalla prima infanzia un continuo modificarsi dei rapporti tra forze, lo strutturarsi di
barriere e la definizione di modalità tipiche di comportamento.
Oltre ad essere attori nell'ambiente, gli uomini sono caratterizzati da riflessività,
cioè dalla capacità di riconoscersi e di interrogarsi circa sé stessi e le proprie azioni.
L'attore è quindi consapevole di sé. Questa duplice caratteristica dell'individuo è
risolta dagli autori di ispirazione gestaltista distinguendo tra IO e SE' o meglio tra
Io reale ed Io fenomenico. Il primo include il mondo fisico, il secondo comprende
ciò che fenomenicamente percepito dall'attore sociale, ciò di cui l'attore è
consapevole, ciò che l'individuo è in grado di segregare (cioè distinguere)
all'interno del campo percettivo più ampio. Così tendiamo a percepire il nostro Sè
come figura, rispetto al resto del mondo che fa da sfondo alle nostre azioni; o
possiamo ingannevolmente percepirci più simili a noi stessi, secondo i principi
della continuità, di quanto non mostri l'io reale.

Il sé come schema.
Gli approcci cognitivisti, affrontano l'analisi del Sè ponendo in primo piano la
dimensione di conoscenza a discapito degli aspetti motivazionali, affettivi, di
personalità e dinamici in senso lato.
Quello che per la Gestalt era l'Io fenomenico viene reinterpretato come Sè
ecologico e Sè interpersonale.
Il Sè ecologico include la percezione di noi stessi e delle nostre azioni in relazione
all'ambiente.
Il Sè interpersonale riguarda la consapevolezza delle interazioni con le altre
persone, la percezione dell'azione congiunta tra un Sè e un Altro da sé in cui
entrambi gli attori partecipano come entità distinte e in interazione tra loro. Dal Sè
intrapersonale si sviluppa poi la consapevolezza che l'Altro da Sè non solo
interagisce con le nostre azioni ma è dotato a sua volta di intenzioni, obiettivi,
emozioni.
Il Sè si comporterebbe cioè da conoscitore di se stesso, osservandosi e acquisendo
nuove informazioni circa le capacità, le preferenze, le scelte effettuate. Nel corso
del tempo queste cognizioni si strutturerebbero secondo una organizzazione
gerarchica per cui avremmo conoscenze sovraordinate e più specifiche,
conoscenze più centrali e più difficili da modificare e conoscenze più periferiche e
secondarie. Ovviamente ciascuno ha organizzazioni differenti in base alle proprie
esperienze.
Se la metafora della Gestalt era un campo organizzato e cangiante, in questo caso
sembra più appropriata una visione del Sè strutturata secondo una rete di
conoscenze in cui i diversi nodi rappresentano elementi cognitivi, più o meno
centrali e più o meno solidamente associati tra loro.
Secondo questo schema potremmo attenderci che le nuove esperienze siano
elaborate in modo più dettagliato e con maggior attenzione se riguardano
dimensioni rilevanti per il se.

Esperimento di Markus.
L'autrice distingue tra persone schematiche o aschematiche a seconda
dell'importanza che una particolare dimensione riveste per la definizione del sé;
sia gli indipendenti che i remissivi sono considerati schematici, per la dimensione
“Indipendenza/dipendenza”.
Una volta individuate le dimensioni centrali per il sé e distinti i soggetti schematici
e aschematici, l'autrice presenta una serie di aggettivi ad intervalli regolari su uno
schermo e osserva i tempi di reazione impiegati dai partecipanti per dichiarare,
premendo un pulsante, se ciascun aggettivo li descrive o meno. I risultati
mostrano che gli schematici sono più pronti a riconoscere aggettivi coerenti con la
dimensione rilevante per il sé rispetto ad aggettivi non rilevanti.
Per gli aschematici non si osservano invece differenze nei tempi di reazione.
Oltre ad avere caratteristiche comuni agli altri schemi, il Sè ha un ruolo centrale e
pervasivo nell'acquisizione di tutte le conoscenze e nella mediazione di tutte le
esperienze.
Il Sè è quindi caratterizzato da elementi peculiari:
 maggiore accessibilità: gli schemi sono molto utilizzati;
 organizzazione intorno a stati interni: gli schemi strutturati includendo
anche informazioni non osservabili;
 maggior intensità emotiva: il grado di intensità affettiva è maggiore per le
informazioni legate al Sè rispetto a quelle riferite agli altri.

Sviluppi: Sè possibili, se indipendente e Sè interdipendete


Gli sviluppi dell'impostazione cognitivista hanno portato ad una rivalutazione
anche di componenti affettive, motivazionali e culturali. Tra i contributi che hanno
favorito l'elaborazione di una visione più complessa in ambito cognitivo troviamo il
costrutti di Possible Selves (Sè possibili) introdotto da Markus e Nurius. Con questo
costrutto gli autori indicano l'insieme di idee e cognizioni, circa quel che l'individuo
potrebbe, vorrebbe o teme di diventare.
In questo modo il concetto di Sè tende ad includere non solo le esperienze passate
ma anche le esperienze anticipate. Tornano così centrali motivazioni e desideri, ma
anche la capacità progettuale e una dimensione valutativa.
Sulla stessa linea di trova la distinzione tra Sé reale, che coglierebbe le conoscenze
effettivamente raccolte, Sé ideale, che raccoglie le conoscenze di ciò che una
persona vorrebbe essere, e Sé normativo, ciò che dovrebbe essere. Le discrepanze
fra le tre forme del sé porterebbero a uno stato emotivo- cognitivo alla base di
scelte e comportamenti individuali volti a fronteggiare la discrepanza o connotati
da ansia, disperazione, inefficacia.
Troviamo il costrutto di working self, che consente di cogliere la variazione del Sè
nel qui e ora in contesti diversi. Il Working Self parallelo della memoria di lavoro
affronta in chiave cognitiva il tema della stabilità del sé e della sua capacità di
variare al variare del contesto, e ricollega il concetto di sé all'attività nell'ambiente:
la salienza di alcuni aspetti del sé varia in funzione dello specifico ambiente sociale
e fisico, e di conseguenza variano i comportamenti adeguati alla rappresentazione
che si ha della propria identità.
Rilevante è la distinzione operata da Markus e Kitayama tra due modalità di
concepite il sé in relazione all'ambiente circostante, considerate tipiche dei
contesti occidentali e di quelli orientali, Sé indipendente e Sé interdipendente.
Il sé indipendente andrebbe definito come un' entità distinta dal contesto sociale,
stabile e unitaria nel tempo, caratterizzata da capacità, motivazioni e sentimenti e
rivolta verso la piena espressione delle potenzialità individuali e il pieno
soddisfacimento degli obiettivi personali.
Il sé interdipendente è invece un sé connesso al contesto sociale, definito dalle
caratteristiche relazionali e relative al confronto con altri come il ruolo o lo status,
rivolto all'adattamento al gruppo, alla preservazione dell'armonia e attento a
comportarsi in modo adeguato al contesto sociale.
Più recentemente Kitayama ha proposto di distinguere tra rappresentazione
interiorizzata del Sè e modo di essere (che includerebbe credenze sociali, tendenza
ad agire e modalità di pensiero promosse da contesti culturali).
Il modo di essere racchiuderebbe le pratiche attraverso cui in una data cultura è
possibile essere un sé, essere cioè riconosciuti come individui. Queste pratiche
includerebbero non solo aspetti comportamenti ma anche processi cognitivi.

Pragmatismo, interazionismo e le svolte costruttiviste narrative.


l Le svolte affrontate dalla psicologia sociale hanno interessato anche lo studio del
Sè.
La critica principale portata anche in questo ambito alla social cognition è di non
tenere in debita considerazione gli aspetti sociali e culturali in cui il Sè si sviluppa.
Una diversa prospettiva sul Sè è quella sviluppata dall'interazionismo simbolico.
Tra i padri fondatori della psicologia sociale, James e Mead hanno dedicato al Sè e
a come esso si sviluppi nella interazione con il contesto sociale e con l'Altro da sé,
pagine centrali nella storia della disciplina. Ad essi si richiamano oggi le proposte
teoriche di Gergen e Jerome Bruner. James è tra i primi a fondare il tema del Sè
come fatto psicologico, cioè come elemento prettamente inerente la
consapevolezza dell'individuo. Per James gli esseri umani si trovano infatti immersi
in un flusso continuo che include sensazioni, emozioni, sentimenti.
Il pensiero è quindi continuamente proiettato verso il fluire del mondo; tuttavia
non vi entra in relazione su un piano cognitivo o astratto ma su un piano sensibile
(to feel).
James definisce i feelings come forme di senso calde, fondate sull'immediato
contatto del corpo con l'ambiente, che rispondono agli interessi e alle motivazioni
personali. La dimensione individuale dell'esperienza viene così ad assumere una
posizione centrale.
Non esiste dunque psicologia che possa trascurare l'esistenza del Sè, o meglio dei
Sè.
Per James il Sè consta di due componenti, distinte ma inscindibili.
 l'Io consapevole, che conosce il mondo, agisce in esso e riflette sulla
propria esistenza, che cerca di mantenere una percezione di continuità del
Sè, di distinzione del mondo fuori da sé e di capacità di azione.
 il Me conosciuto, tutto ciò che egli può chiamare suo, non solo il suo corpo
o le sue facoltà psichiche ma i suoi abiti, casa, figli, reputazione o il suo
lavoro. Il Me rappresenta quindi l'aspetto empirico dell'Io.
La pluralità del Sè emerge proprio dalla molteplicità degli aspetti riconosciuti
dall'Io come appartenenti al Me. James distingue così tra Se materiale, spirituale e
sociale. Il primo raccoglie i feelings legati all'esperienza fisica e corporea, il
secondo raccoglie l'autoconsapevolezza (quanto cogliamo della nostra realtà
interiore), il Sè sociale racchiude la consapevolezza di come gli altri ci riconoscono,
ciò che sappiamo del giudizio espresso dagli altri nei nostri confronti.
Un uomo ha tanti io sociali quanti sono gli individui che lo conoscono e portano
un'immagine di lui nella loro mente. Ma, siccome gli individui che portano in loro
queste immagini si dividono in tante classi, possiamo dire che l'uomo ha tanti Io,
quanti sono i gruppi di persone delle cui opinioni egli si preoccupa.
Il Sè non è quindi una somma di conoscenze accumulate da un individuo isolato
ma il frutto di una riflessione continua che l'Io svolge su quanto il Me sente nel
fluire del mondo materiale e sociale. L'aspetto riflessivo del Sè sarà sviluppato da
Cooley che, con il concetto di looking glass Self (Sè rispecchiato) sottolinea come il
modo in cui ci concepiamo sia strettamente legato al modo in cui gli altri ci
guardano, nel riflesso di noi che gli altri ci rimandano.
L'aspetto sociale e dialogico è ulteriormente sviluppato da Mead, il pensiero
stesso è di per sé sociale: una internalizzazione delle conversazioni con le altre
persone, che diventano dialogo interiore. Allo stesso modo il sé non è innato ma si
manifesta solo dopo che l'individuo abbia acquisito la capacità simbolica e la
capacità di fare propri gli atteggiamenti altrui. È impossibile concepire un sé che
sorga fuori dall'esperienza sociale.
Per Mead il gioco nella duplice accezione di play e di game, è elemento
fondamentale per lo sviluppo del sé nei bambini.
Nel play, il bambino fa riferimento a compagni immaginari, e impara a diventare di
volta in volta genitore, maestra, fruttivendolo, panettiere; nel game, cioè nel gioco
organizzato, impara a rispondere a regole astratte e ad assumere
contemporaneamente le posizioni di tutti i partecipanti al gioco.
Proprio dal game nasce l'Altro generalizzato, cioè il gruppo sociale cui ognuno di
noi fa riferimento, con la pluralità di atteggiamenti comuni che definiscono gli altri
della nostra comunità. La nascita dell'Altro generalizzato è alla base del Sè, che
nella visione di Mead è l'espressione del dialogo interiore tra Io e Me. Il Me è
infatti per Mead il modo in cui rispondiamo ai gruppi cui apparteniamo, un riflesso
della società, la risposta all'Altro generalizzato; l'Io è la parte costruttiva, la
componente di autonomia, l'espressione della libertà di azione, le infinite
possibilità che ognuno ha di rispondere alle aspettative della società, prima che la
sua azione si manifesti e diventi pertanto parte dell'esperienza.
Le riflessioni di James e Mead forniscono lo sfondo cui fanno riferimento le
concezioni del Sè sviluppate dagli autori che si rifanno alle svolte costruzioniste e
narrative.
La proposta socio-costruzionista imposta dai Gergen prende le mosse da una
radicale decostruzione del concetto di individuo per come si è venuto a definire
nella cultura cosiddetta occidentale. L'idea di un Sè individuale, autonomo e
razionale, stabile nel corso del tempo è secondo gli autori una concezione
relativamente recente, funzionale a una visione illuminista e differente da altre
visioni possibili. Anche la concezione del Sè come oggetto privato è dunque una
costruzione culturale di cui possiamo fare a meno.
Per i Gergen la prospettiva individualista non è sbagliata ma se essa lavora contro il
nostro benessere è possibile, e doveroso, sviluppare concezioni alternative.
Per gli autori dobbiamo allargare lo sguardo per cogliere al dimensione mediata e
relazionale del discorso, dei significati, della società, del Sè. Gergen parla a
riguardo di “Sè mediante l'Altro”, per indicare come il Sè sia indissolubilmente
inserito in un reticolo di relazioni.
La svolta narrativa proposta da Bruner presenta alcune caratteristiche specifiche.
Anche per Bruner è necessaria una revisione radicale dell'impostazione seguita
dalla psicologia; tuttavia più che sul fluire delle relazioni, Bruner suggerisce di
soffermarci sulla folk psycology (psicologia popolare) e sulle narratives.
La folk psycology è per Bruner quell'insieme di nozioni culturalmente delineate,
sulla base delle quali le persone organizzano il modo di guardare a sé stesse e agli
altri, e al modo in cui vivono. Questo insieme di credenze condivise fornisce il
senso comune, la definizione della realtà per come è e come dovrebbe essere. Si
tratta di un substrato che, tuttavia non è né completamente stabile né organizzato
in forma esclusivamente logica.
La narrativa viene quindi ad essere la struttura di base attraverso cui si costruisce
l'esperienza: tanto quella culturale in senso più ampio quanto quella individuale.
La narrativa individuale sarà sempre sociale poiché emerge dalla negoziazione con
le narrative costruite da altri. La visione del Sè proposta dall'autore diventa quindi
una visione culturale, storica, narrativa. È un Sè culturale e storico poiché esso
nasce dai significati che con gli altri attribuiamo a noi stessi, dal modo in cui
definiamo la nostra identità.
È inoltre un sé narratore poiché esplica nella pratica principale del raccontare
storie, in cui lo stesso protagonista appartiene alla storia: giustifica le proprie
azioni e definisce in questo modo la propria individualità, fa riferimento a
narrative e miti della psicologia popolare e definisce in questo modo il suo essere
condiviso, si presenta agli altri e a se stesso come una storia in continuo divenire
che include non solo quello che è stato ma anche quello che diverrà, o che intende
divenire in futuro. Compito della psicologia culturale sarà quindi quello di
raccogliere queste storie proponendo interpretazioni sensibili in grado di
identificare le regole che gli esseri umani usano per costruire significati in specifici
contesti culturali.

Glossario del capitolo


Percorso Bottom-up: percorso guidato dai dati e dalle informazioni trasmesse da
chi è osservato.
Percorso Top down: percorso guidato da conoscenze pregresse e interessi di colui
che osserva Affordances: Con affordance si definisce la qualità fisica di un oggetto
che suggerisce a un essere umano le azioni appropriate per manipolarlo. Ogni
oggetto possiede le sue affordance, così come le superfici, gli eventi e i luoghi. Il
termine è stato introdotto nel 1979 dallo psicologo statunitense James Gibson.
Più alta è l'affordance, più sarà automatico ed intuitivo l'utilizzo di un dispositivo o
di uno strumento. Ad esempio, l'aspetto di una maniglia dovrebbe far intuire al
meglio e automaticamente come la porta vada aperta: se tirata, spinta, o fatta
scorrere.
Tra gli oggetti con un'ottima affordance vi sono, ad esempio, la forchetta o il
cucchiaio.
Capitolo 3 - Dagli attegiamenti alle rappresentazioni sociali

Rappresentazioni in- azione


Ci troviamo nel 1978, in Belgio; all'interno di una legge anti-crisi, per migliorare
l'equilibrio di bilancio, il governo decide che la quota di iscrizione all'università
raddoppierà. Subito ha luogo una movimentazione studentesca. Tuttavia, quando
gli organizzatori del movimento studentesco si trovano a lanciare una
mobilitazione più attiva, richiedendo scelte individuali forti, essi incontrano una
scarsa adesione e l'intera mobilitazione fallisce.
Come interpretare la discrepanza tra sostegno iniziale e mancata partecipazione?
Diversi sono gli approcci che si potrebbero utilizzare, per quanto riguarda quello
delle rappresentazioni sociali, questo si propone come una prospettiva teorica più
ampia, di tipo socio-costruzionista che pone in primo piano la dimensione sociale
della conoscenza pur non rinnegando i processi cognitivi individuali.
La ricerca sulla mobilitazione studentesca coinvolge 165 partecipanti, studenti
universitari. L'autore sviluppa l'indagine adottando due strumenti differenti; il
primo è un sondaggio di opinioni, condotto tramite due rilevazioni (T1 e T2) a
distanza di 15 giorni.
Il sondaggio raccoglie la conoscenza ed il grado di accordo verso i 4 punti principali
sollevati dal comitato organizzatore della protesta:
1. no all'aumento di tasse;
2. no al taglio delle borse di studio;
3. no ai tagli di bilancio delle università;
4. no alla possibilità per il governo di assumere poteri speciali in tempo di
crisi.
I risultati indicano ampia conoscenza dei temi proposti dal comitato organizzatore,
con un incremento della conoscenza tra la prima e la seconda rilevazione; gli
studenti, inoltre, dichiarano ampio accordo con le posizione promosse dal
comitato; infine, gli studenti si dichiarano disponibili ad agire ma mostrano uno
scarso senso di efficacia percepita, affermando che le eventuali azioni non
sarebbero utili a raggiungere alcun obiettivo.
I risultati indicano che per passare all'azione non è sufficiente avere un
atteggiamento favorevole nei confronti di un determinato oggetto, in questo caso
le istanze di rivendicazione promosse dal movimento studentesco, ne è sufficiente
l'intenzione di agire: è necessario prevedere anche un certo grado di efficacia nelle
proprie azioni.
In psicologia sociale si attribuisce un significato specifico al termine atteggiamento
e che, a differenza del senso comune, gli atteggiamenti sono distinti dai
comportamenti.
L'atteggiamento è un costrutto, ovvero un “oggetto ipotetico” introdotto per
descrivere e spiegare processi non osservabili. Lo studio degli atteggiamenti è
rimasto centrale tuttavia la propria importanza ha fatto si che l'atteggiamento si
presenti come un costrutto sfuggente.
Negli anni gli studiosi hanno attribuito o sottolineato caratteristiche e funzioni
differenti dello stesso costrutto, tanto che vengno identificati più di 500 definizioni
differenti di atteggiamento; senza ripercorrerle tutte possiamo far riferimento a 3
voci classiche che ripercorrono altrettante tappe seguite dall'approccio di
mainstream agli atteggiamenti.
Il primo uso sistematico del termine atteggiamento si fa risalire alla ricerca sul
contadino polacco di Thomas e Znaniecki: “Con valori sociali intendiamo qualsiasi
dato che abbia un contenuto empirico accessibile ai membri di qualsiasi gruppo e
un significato per cui esso è e può essere oggetto di attività. Con atteggiamento
intendiamo un processo della coscienza individuale che determina le attività reali
o possibili dell'individuo nel mondo sociale. L'atteggiamento è quindi la
controparte individuale del valore sociale”.
Proprio l'azione collega la dimensione individuale con quella sociale, che si fonda
sui significati condivisi di un dato oggetto all'interno di un gruppo. Proprio per
questa corrispondenza il costrutto di atteggiamento è centrale per collegare
dimensione psicologica individuale e dimensione sociale; in una parola, è centrale
per definire il campo della psicologia sociale: “Il campo della psicologia sociale
comprende in pratica prima di tutto quegli atteggiamenti che sono rintracciabili
più o meno generalmente tra i membri di un gruppo sociale, che hanno una
importanza reale nell'organizzazione degli individui che li hanno sviluppati, e che
si manifestano nelle attività sociali di questi individui.”
Per la verità Thomas e Znaniecki forniscono una definizione fin troppo vasta degli
atteggiamenti, riducendo a questi ultimi qualsiasi processo psicologico osservabile
empiricamente, incluse motivazioni e disposizioni.
Altrettanto ampia ma decisamente più importante è la definizione degli anni 30 di
Allport, secondo cui l'atteggiamento “è uno stato di prontezza mentale e
neurologica organizzato nel corso dell'esperienza, che esercita un'influenza
direttrice o dinamica sulle risposte di un individuo a tutti gli oggetti e situazioni
con cui è in relazione”.
Questa definizione ha il merito di formalizzare gli studi condotti nei primi del 900 e
di indicare la direzione seguita dalle ricerche nell'ambito degli atteggiamenti per i
successivi decenni. Nella definizione di Allport troviamo:
 una visione individualista del costrutto: l'atteggiamento è qualcosa che
ogni singola persona ha, rintracciabile fino a un livello neurologico;
 l'idea che l'atteggiamento sia organizzato sulla base dell'esperienza;
 l'idea che esso influenzi, ma non più secondo un nesso causa- effetto, le
risposte individuali.
Dagli studi di Allport si svilupperà il cosidetto modello tripartito degli
atteggiamenti.
Secondo questo modello, gli atteggiamenti sono costituiti da 3 componenti:
 cognitiva: l'insieme delle informazioni, delle credenze, delle conoscenze
apprese circa un determinato oggetto e le valutazioni di queste credenze;
 affettiva: l'insieme delle emozioni, dei sentimenti, delle attivazioni in senso
lato suscitate da un determinato oggetto;
 comportamentale: l'insieme delle risposte, le disponibilità ad agire, le
intenzioni di compiere determinate azioni suscitate da un determinato
oggetto.
Sempre all'interno di questa impostazione classica nascono le metodologie che
impiegano questionari e scale di misura per la valutazione degli atteggiamenti; si
tratta di tecniche di misura che indagano in modo esplicito la conoscenza e la
posizione individuale in merito a determinati temi di interesse definendo
l'atteggiamento dominante in un dato gruppo come media degli atteggiamenti
individuali. Thurstone e Likert si propongono di misurare gli atteggiamenti sulla
base dell'accordo dell'individuo con alcune affermazioni preparate dal ricercatore.
La visione individualista e tripartita resta ancora oggi un punto di riferimento
anche se si tende ormai a leggere gli atteggiamenti come strutture cognitive che
organizzano in memoria il collegamento tra rappresentazione e valutazione di un
determinato oggetto.
Eagly e Chaiken introducono così l'atteggiamento: “una tendenza psicologica
espressa attraverso la valutazione di una particolare entità. Tendenza psicologica
fa riferimento a uno stato interno della persona e valutazione fa riferimento a
ogni classe di risposta cognitiva, affettiva o comportamentale”.
Per la social cognition, l'atteggiamento è in primo luogo una valutazione
connotata da valenza, positiva o negativa, e intensità, cioè in grado di
coinvolgimento su un determinato oggetto di atteggiamento.
Una prima direzione si sofferma sulla forza dell'associazione tra oggetto e
valutazione e sulla salienza legata a specifici fattori situazionali. In questa chiave di
fronte ad un oggetto nuovo, tale oggetto sarà valutato secondo processi top-
down, cioè basandosi su atteggiamenti già definiti in memoria, o secondo dei
processi bottom-up, cioè sulla base delle informazioni raccolte in modo
dettagliato.
Una seconda direzione di indagine si sofferma sulla struttura di
immagazzinamento in memoria delle informazioni che costituiscono gli
atteggiamenti; può essere interessante notare che secondo alcuni autori gli
atteggiamenti sono organizzati in memoria in modo bi- dimensionale.
La valenza delgi atteggiamenti potrebbe essere caratterizzata in 4 modi: positiva
(molti elementi + e pochi -), negativa (molti elementi – e pochi +), neutrale (pochi
elementi + e pochi -) e ambivalente (molti elementi + e molti -); in quest'ultimo
caso le caratteristiche ambientali avrebbero un peso maggiore nel decidere la
direzione delle risposte.

Atteggiamenti e comportamenti
Abbiamo visto come gli atteggiamenti siano legati ai comportamenti. Eppure gli
studenti dell'Università di Lovanio, pur esprimendo atteggiamenti favorevoli, non
si mobilitarono effettivamente a sostegno delle posizioni espresse. Le teorie degli
atteggiamenti ci suggeriscono di cercare una prima spiegazione del mancato
comportamento nelle norme soggettive, nel controllo percepito sulle proprie
azioni o nella percezione di scarsa efficacia delle azioni intraprese.
La prima evidenza che il rapporta tra atteggiamenti e comportamenti non è
semplicemente di natura causale è fatta risalire allo studio di LaPiere. Egli si recò
con una coppia di cinesi (nel periodo in cui negli USA c'era un forte pregiudizio
verso gli orientali) presso 251 alberghi. Di tutti gli esercizi commerciali solo un
gestore si rifiutò di accettare la coppia di cinesi. In una seconda fase a distanza di
mesi, LaPiere raccolse tramite un questionario postale inviato agli stessi esercizi la
disponibilità ad accogliere una coppia di cinesi, nel 90% dei casi i rispondenti
dichiararono di non accettare membri della razza cinese.
Questa ricerca sottolinea su un piano empirico la discrepanza tra atteggiamenti e
comportamenti. Inconciliabilità che portò ad una revisione della relazione
atteggiamento-comportamento.
In particolare, si sottolinea la necessità di indagare atteggiamenti e comportamenti
a uno stesso livello di complessità; 4 sono le dimensioni la cui corrispondenza deve
essere attentamente considerata: azione, bersaglio, contesto, tempo. Nel caso di
LaPiere si può osservare che è diverso chiedere l'atteggiamento nei confronti dei
cinesi, e misurare il comportamento di accettazione di una coppia di cinese, ben
vestita accompagnata da un professore statunitense.
Tra gli autori che hanno contribuito alla costruzione di modelli spiccano Fishben e
Ajzen, in particolare per il successo della Teoria dell'azione ragionata, che è basata
sul modello aspettativa per valore.
La teoria introduce l'intenzione comportamentale come snodo fondamentale tra
atteggiamenti e comportamenti. Secondo questo modello, gli atteggiamenti verso
un dato comportamento sono determinati dal prodotto tra credenze individuali
circa le conseguenze di un dato comportamento e valutazioni delle conseguenze
del comportamento stesso. La teoria dell'azione ragionata è però lacunosa in
alcuni punti; In primis, essa non tiene conto della percezione di controllo da parte
dell'individuo. Per ovviare a tale lacuna Ajzen sviluppa la teoria iniziale dando vita
alla teoria del comportamento pianificato, in cui sia l'intenzione che l'azione sono
influenzate direttamente dalla percezione di avere risorse e opportunità tali da
poter mettere effettivamente in atto un comportamento.
Un secondo limite della teoria è che essa richiederebbe un forte dispendio di
energie cognitive per ogni comportamento. La “via ragionata” verrebbe presa in
considerazione solo quando le persone hanno motivazioni o opportunità
sufficienti per impegnare le proprie risorse cognitive, altrimenti i comportamenti
sarebbero messi in atto sulla base degli atteggiamenti salienti e accessibili, che
hanno cioè un associazione forte con l'oggetto.
Un terzo limite della teoria è di non prendere in considerazione dettagliatamente
comportamenti passati, motivazioni, mezzi e tipologie di conseguenze del
comportamento.
Un quarto punto critico riguarda la capacità che gli esseri umani hanno di imparare
dai comportamenti qualcosa di nuovo circa se stessi. Le azioni che svolgiamo,
infatti, al di là delle conseguenze che possono avere, sono una fonte di
informazione circa chi siamo e cosa vogliamo. Questo punto è stato messo in
evidenza dalla Teoria della dissonanza cognitiva. La teoria suggerisce che laddove
non sono possibili alternative, possiamo cambiare il nostro atteggiamento in
iniziale; una situazione di squilibrio (so che quel cibo fa male, ma ho fatto una
scorpacciata di quel cibo) viene denominata dissonanza cognitiva.
Per risolverla, non potendo tornare indietro nel tempo, raccogliamo nuove
informazioni dall'ambiente, cerchiamo giustificazioni alla nostra condotta o,
appunto, cambiano l'atteggiamento iniziale.

Le critiche costruzioniste più profonda è al critica portata dalle scuole nate dalle
svolte retoriche, costruzioniste e discorsive. Sono diversi approcci, am comune a
tutti è la prevalenza data alla dimensione sociale su quella individuale e al
significato sul processo. Ritornando alle definizioni iniziali, ricordando quindi che
l'atteggiamento è un costrutto teorico, gli autori propongono di abbandonare
l'idea che tali oggetti “esistano veramente” e sottolineano piuttosto la centralità di
comprendere i significati attraverso cui gli oggetti prendono forma e le funzioni
che tali significati svolgono nel qui e ora. Gli atteggiamenti, quindi non si
manifestano nel discorso ma sono nel discorso e nella relazione all'interno della
quale vengono formulati.

Le rappresentazioni sociali, tra processi cognitivi e pratiche discorsive


Torniamo alla ricerca sulla mobilitazione studentesca; abbiamo visto che
l'interazione tra opinioni favorevoli e percezione di assenza di efficacia spiega ad
un primo livello la mancata azione. Tuttavia Di Giacomo si pone una seconda volta
a un livello differente, al stessa domanda. L'autore affronta la questione una
seconda volta, passando ad un livello più sociale e situato: come si vedono gli
studenti e come si pongono rispetto alla classe al poter?
Ai 165 studenti viene proposto un secondo strumento: si chiede loro di
completare un compito di associazioni libere.
Nella ricerca in questione le parole stimolo proposte sono:
 Comitato, estrema Sinistra: cioè i promotori e la loro posizione politica;
 Sciopero, Lavoratori: parole legate alla strategia di protesta, che prevedeva
la saldatura col movimento dei lavoratori;
 Studenti, Dirigenti: evocano, secondo i ricercatori, il Sè attuale ed il Sè
potenziale, cioè la prospettiva.
 Estrema Destra, Potere, AGL: antagonisti politici, chi è al potere, ed
un'altra associazione studentesca opposta al comitato.
La rappresentazione sociale del comitato è esterna e opposta a quella degli
studenti: la prima è politicizzata, la seconda è apolitica. Studenti e lavoratori
sembrano vicini in quanto soggetti privi di potere, ma gli studenti manifestano
vicinanza anche con la classe dirigente. In ultima analisi, gli studenti non
partecipano alle azioni del comitato (non potente e politicizzato) perché lo vedono
lontano dal Sè attuale (non potenti ma apolitici) e dal Sè potenziale (dirigenti).
Questo approccio fornisce una rappresentazione più ampia, gli studenti
percepiscono di non avere efficacia perchè condividono una rappresentazione
della società in cui essi sono opposti ai gruppi di potere; al tempo stesso non si
impegnano nel tentativo di reclamare il potere perchè proiettano un Sè possibile
verso gli stessi gruppi dirigenti.
Le prospettive della social cognition sulle rappresentazioni mentali individuali
chiariscono come gli individui pensano e agiscono in circostanze diverse. La teoria
delle rappresentazioni sociali spiega ulteriormente quando e perchè questi principi
generali cognitivi sono attivati e applicati nella realtà sociale:
 in questo ambito non ci si rivolge esclusivamente allo studio di
caratteristiche individuali (disposizioni, atteggiamenti, tratti) ma si
riconosce la specificità del gruppo come entità ontologica caratterizzata da
processi e tematiche peculiari;
 la ricerca non è condotta nel vuoto sociale ma è sempre inserita in un
contesto specifico;
 le rappresentazioni sociali sono prodotti di un processo di valutazione
sociale, nascono cioè dalla spinta a valutare elementi importanti e
controversi del nostro universo quotidiano e il loro fondamento sociali
emerge nell'adozione di specifiche dimensioni per organizzare la realtà;
 in una rappresentazione sociale è possibile distinguere 3 aspetti:
contenuto, cioè l'insieme di conoscenze e valori condivisi circa un oggetto;
campo, cioè l'organizzazione delle informazioni, le relazioni tra gli
elementi di contenuto; atteggiamento, cioè l'orientamento valutativo
verso l'oggetto/ evento;
 la letteratura sugli atteggiamenti viene così acquisita dalla teoria delle
rappresentazioni sociali. In questo quadro, gli atteggiamenti sono rivolti
verso un oggetto che non è un dato naturale ma è esso stesso
rappresentazione.

Rappresentazioni sociali, fondamenti teorici


Il movimento delle rappresentazioni sociali nasce 50 anni fa in Francia,
proponendosi da subito come l'altra faccia della psicologia sociale e venendo ad
incarnare la versione “europea” della psicologia sociale. L'atto fondativo
dell'approccio delle rappresentazioni sociali è la pubblicazione della tesi di
dottorato nel 1961 di Moscovici.
La teoria delle rappresentazioni sociali si presenta oggi come una meta-teoria, un
paradigma di riferimento. Tale vastità, che ha generato molte critiche, è il frutto
dell'intreccio fra tradizioni teoriche da cui al teoria nasce.
Possiamo inizialmente definire le rappresentazioni sociali come una “Serie di
concetti, asserti e spiegazioni che nascono nella vita di tutti i giorni, nel corso delle
comunicazioni interpersonali. Esse sono nella nostra società, l'equivalente di miti
miti e credenze nelle società tradizionali”.
Alla base troviamo il triangolo semiotico Sè- Altro- oggetto; l'introduzione di una
visione triadica nel rapporto tra individuo e realtà obbliga a un importante
riposizionamento teorico ed epistemologico. L'oggetto di studio della psicologia
sociale non è più il rapporto tra stimolo e risposta, come poteva essere nel
comportamentismo, né tra individuo e realtà, come nelle versioni più
individualiste della social cognition. Oggetto privilegiato dello studio della
psicologia sociale è lo spazio- intermedio, l'intersezione tra individuo e società,
un'area in cui il rapporto con gli “oggetti reali” è mediato dalla presenza e
dall'interazione con l'Altro da Sè.
La prima caratteristica delle rappresentazioni sociali è di emergere nel rapporto
Sè- Altro.
Si tratta di un tema che ritroviamo nell'interazionismo simbolico. L'accesso
all'oggetto nasce dalla negoziazione del significato all'interno di un rapporto
dialogico con l'Altro da Sè (importante sottolineare come questo rapporto possa
assumere diverse forme, io/tu oppure io/comunità o in generale Sè/Altro
generalizzato).
Secondo aspetto peculiare delle rappresentazioni è la loro natura caratterizzata da
stabilità e cambiamento. La relazione Sè- Altro- oggetto ricollega le
rappresentazioni sociali all'articolazione tra rappresentazioni individuali e
rappresentazioni collettive sviluppata da Durkheim.
Moscovici riprende Durkheim sviluppando la sua teoria nel contesto
contemporaneo; egli non guarda più alla dimensione sociale come caratterizzata
da fatti esterni all'individuo e fortemente statici, propone piuttosto di guardare
alle rappresentazioni come fenomeni in continuo divenire, continuamente
negoziati e ricostruiti. In questo caso viene posta in primo piano la dimensione
conflittuale più che quella stabilizzatrice delle rappresentazioni, la presenza nel
contesto sociale di molteplici insiemi di significati rispetto a cui gli individui sono
chiamati a prendere posizione. L'incoerenza delle rappresentazioni sociali non
deve tuttavia essere intesa come una forma di bias cognitivo, ma come modalità
peculiare del pensiero sociale.
Le rappresentazioni sono forme di conoscenza calda, finalizzata alla gestione delle
necessità specifiche di una data comunità e non sviluppate al fine di sistematizzare
in modo razionale le conoscenze. Il risultato di questo modo di pensiero è un certo
grado di stabilità e fluidità che può portare anche a organizzazioni interamente
incongruenti.
La duplice caratteristica delle rappresentazioni come oggetto che emerge dalla
comunicazione e processo che consente la comunicazione all'interno di una
comunità è evidente. Il duplice aspetto cognitivo e pratico emerge nella
definizione di Jodelee: “Forma di conoscenza, socialmente condivisa avente un
fine pratico e concorrente alla costruzione di una realtà comune ad un insieme
sociale”.
Accanto alla dimensione cognitiva, l'autrice evidenzia 2 elementi fondamentali:
 non è sufficiente che tante persone apprendano una nozione perché essa
sia una rappresentazione sociale. Le rappresentazioni sono sociali in
quanto frutto di un processo sociali;
 la finalità delle rappresentazioni non è sviluppare una conoscenza
esaustiva e razionalmente strutturata. Esse svolgono in primis un fine
pratico, di gestione della realtà e contribuiscono a costruire la realtà
stessa.
Il primo interesse dell'approccio delle rappresentazioni sociali è stato indagare il
modo in cui le teorie scientifiche sono recepite dalle teorie del senso comune.
Le rappresentazioni nascono nel trasferimento di idee e concetti dalla scienza alla
vita quotidiana, come esito di una vera e propria trasformazione, necessaria per
passare da un universo reificato a un universo consensuale.
Negli universi reificati, la società si considera un sistema solido, caratterizzato da
ruoli e categorie ben distinte, in cui persone diverse godono di status differenti. Il
grado di partecipazione in questi universi, è assicurato dalla qualifica e dal ruolo
ricoperto. In questa prospettiva il formato acquisito dalla conoscenza è di tipo
empirico e razionale ed il pensiero si rivolge alla precisione intellettuale. Gli
universi consensuali sono invece guidati da principi diversi. La società guarda a se
stessa come un gruppo costituito da individui tra loro equivalenti e
sufficientemente competenti. Ognuno ha diritto a partecipare ed esprimere le
proprie teorie. La competenza non è esclusiva di alcuni più alti in status, ma è
acquisita da tutti in funzione delle necessità specifiche. Prima necessità è quella di
partecipare alle attività comunicative pubbliche, legate agli scopi del gruppo, volte
a rendere comprensibile la realtà che ci circonda.
Agli universi consensuali appartiene il senso comune, resistente e irriducibile a
forme di pensiero scientifiche. Agli universi consensuali appartengono le
rappresentazioni sociali.
Questa dicotomia netta, è stata spesso criticata, in particolare per l'implicita
superiorità data alla razionalità scientifica, da cui la conoscenza può traslare
all'universo consensuale mentre non è previsto il percorso opposto. Proprio dal
riconoscimento di una bidirezionalità tra i due universi, recentemente è stato
proposto di considerarli come tipologie ideali e di guardare piuttosto alla
reificazione e alla consensualizzazione come modalità comunicative che possono
essere sviluppate tanto in ambito scientifico quanto all'arena sociale con finalità
differenti.
Le autrici concludono che la scelta di argomenti reificanti è abitualmente associata
con azioni strategiche finalizzate a escludere la rappresentazione e la conoscenza
degli altri, con conseguenze mono- logiche, mentre l'uso di argomentazioni
consensualizzanti ha un potenziale maggiore per raggiungere una comprensione
dialogica.
Tuttavia, un contesto de-tradizionalizzato e un universo consensuale non sono
sufficienti alla nascita delle rappresentazioni sociali. Non ci formiamo infatti
rappresentazioni di qualsiasi oggetto, è necessario incontrare delle motivazioni
specifiche.
Perché emerga una rappresentazione sociale un oggetto deve:
 essere problematico, con molte sfaccettature, in cui elementi a favore e
contrari coesistono e suscitano dibattiti e prese di posizione;
 essere contestuale, i suoi significati dipendono dai contesti e sono situatati
nell'ambito culturale e storico in cui si sviluppano;
 essere rilevante, cioè esercitare una pressione nei confronti delle
comunità, che non possono esimersi dal fronteggiare la novità o il
cambiamento che esso apporta.

La genesi delle rappresentazioni sociali


La genesi delle rappresentazioni sociali segue due processi tra loro interconnessi:
ancoraggio e oggettivazione.
L'ancoraggio comprende una serie di movimenti volti a collegare i contenuti alle
immagini e alle categorie del quotidiano, a connettere il nuovo con il conosciuto.
L'ancoraggio a sua volta si sviluppa secondo alcuni passaggi esemplari. In un primo
memento ancorare vuol dire categorizzare. Il primo passaggio è cioè inserire una
novità all'interno di una categoria già definita, già presente nel nostro linguaggio.
Il secondo aspetto dell'ancoraggio è la denominazione. Assegnare un nome è
strettamente connesso alla categorizzazione, tuttavia, se il primo momento
definisce la tipologia di eventi o persone, la denominazione identifica l'evento o il
gruppo: conferisce identità. Ciò che è anonimo resta effimero, transitorio, privo di
un valore ben definito. La denominazione consente di descrivere un oggetto
attribuendogli caratteristiche, qualità, intenzioni e differenziandolo da altri oggetti.
Consente inoltre di creare una convenzione e quindi di comunicare.
L'oggettivazione è il secondo processo, alla base della formazione delle
rappresentazioni sociali, ciò che è astratto diventa concreto, quasi avesse una
forma fisica, modificabile. L'oggettivazione, a sua volta si declina in un primo
momento in cui si fonda un nucleo figurativo, cioè un'icona che riproduce una
struttura concettuale. Una volta che si sia stabilito un nucleo figurativo stabile
l'oggettivazione procede nella naturalizzazione; in questo secondo passaggio la
rappresentazione prende il posto del rappresentato, diviene essa stessa referente
del concetto. Nella realtà così costruita siamo in grado di percepire dei nuovi
fenomeni come appunto le “frustrazioni” o i “complessi”.
Nel passaggio tra ancoraggio ed oggettivazione prende piede il decalage delle
informazioni, cioè una discrepanza funzionale alla rappresentazione stessa, tra
oggetto e referente. I contenuti possono infatti essere sottoposti a distorsione, in
cui gli attributi dell'oggetto sono accentuati o sottovalutati, e a integrazione e
defalcazione, che generano nuove caratteristiche non presenti inizialmente.

Funzioni delle rappresentazioni sociali


Dalla descrizione delle condizioni necessarie e dei processi che presiedono alla
formazione delle rappresentazioni sociali possiamo desumere la loro importanza
nella società ed identificare quindi le funzioni che esse assolvono.
Possiamo soffermarci su 3 ipotesi:
 interesse: le rappresentazioni sociali consentono di costruire immagini che
possano distorcere la realtà in favore degli scopi individuali o della
collettività;
 squilibrio: le rappresentazioni sociali consentono di risolvere tensioni
legate alla mancata integrazione sociale costruendo ideologie e
compensazioni immaginarie;
 controllo: tramite le rappresentazioni sociali i gruppi filtrano le
informazioni provenienti dall'ambiente e controllano i comportamenti
individuali.
Per quanto queste 3 ipotesi contengano elementi veritieri, esse non colgono
tuttavia la funzione principale delle rappresentazioni sociali, cioè la
trasformazione di ciò che è estraneo in qualcosa di noto e familiare; questa
funzione è detta symbolic coping.
Oggettivazione ed ancoraggio sono finalizzate a sviluppare rappresentazioni sociali
che rendano un oggetto intellegibile, dotandolo di caratteristiche peculiari e
consentendo la comunicazione, infatti condividere un repertorio
rappresentazionale consente una comunicazione più agevole all'interno del
gruppo.
Una terza area in cui le rappresentazioni sociali svolgono una funzione
fondamentale è quella dei comportamenti. In questo ambito, più che considerare
i comportamenti come conseguenza delle rappresentazioni sociali, sempre più si
tende a riconoscere il comportamento come una delle forme di espressione della
rappresentazione.

ESEMPIO Questo legame può essere chiarito dalla classica ricerca di Jodlet sulla
malattia mentale (1989). l'autrice conduce una dettagliata analisi etnografica di
una comunità rurale francese in cui vivono dei malati mentali. La comunità,
forzata a prendere posizione su questa presenza, fronteggia la malattia mentale
sviluppando complesse rappresentazioni sociali: i malati sono assimilati ai
perdigiorno e vagabondi. Gli abitanti sviluppano un sistema che permetta di
gestire le interazioni sociali e che salvaguardi l'immagine del Sè, differenziandola
dall'Altro e dal Diverso.
Sviluppi della teoria
La Teoria delle rappresentazioni sociali si è venuta a strutturare come corpus ben
definito ma al tempo stesso in continuo contatto con altri ambiti in divenire della
psicologia sociale, in particolare interloquendo con la social cognition e con i più
recenti approcci discorsivi. Tra tutti gli sviluppi teorici due scuole hanno svolto un
ruolo fondamentale: la cosiddetta Scuola di Ginevra e quella di Aix-en-Provence.
La prima si concentra sopratutto sul rapporto tra rappresentazioni e ambiente
sociale, la seconda ha approfondito la configurazione delle rappresentazioni
stesse.
L'approccio socio- dinamico, sviluppatosi a Ginevra, sottolinea la dimensione
sociale delle rappresentazioni riconoscendo nell'ancoraggio non solo un processo
cognitivo ma soprattutto un posizionamento all'interno di relazioni sociali.
Condividere una rappresentazione o assumere una posizione specifica nel campo
rappresentazionale non è estraneo alla rete di relazioni interpersonali e
intergruppi in cui siamo inseriti
Questa prospettiva si basa su alcuni assunti:
 le rappresentazioni sociali si organizzano secondo dimensioni di varia
natura;
 all'interno di una conoscenza condivisa, le differenti posizioni dei singoli
sono organizzate;
 le differenze sono ancorate in base a variabili psicologiche, psico- sociali,
sociologiche.
Scopo della ricerca in ambito delle rappresentazioni sociali diviene identificare i
contenuti della rappresentazione, rintracciare i principi organizzatori lungo cui si
struttura il campo della stessa e identificare le posizioni che gruppi di persone
hanno in merito ad un determinato oggetto. In tal modo la dinamica delle
rappresentazioni i inserisce nella dinamica delle relazioni sociali.
In questa prospettiva, è stato sviluppato un ampio programma di ricerca sulle
rappresentazioni sociali dei diritti umani all'interno del quale una ricerca condotta
nella ex-Jugoslavia, ha mostrato che l'esperienza diretta di episodi di
vittimizzazione e l'appartenere a una comunità che ha subito questo genere di
violenze hanno un ruolo differente nel favorire il sostegno verso i principi espressi
nella Dichiarazione dei diritti umani.
L'approccio strutturalista alle rappresentazioni sociali si sofferma principalmente
sulla struttura delle rappresentazioni e sulle relazioni interne tra contenuti,
avvicinandosi agli approcci cognitivisti. Secondo l'approccio strutturalista la
rappresentazione sociale è un insieme di elementi cognitivi che si riferiscono a un
oggetto o a un tema socialmente rilevante.
Obiettivo, è quindi identificare i cognemi e le loro relazioni reciproche; secondo
l'approccio strutturalistea è possibile identificare due zone in qualsiasi
rappresentazione sociale: nucleo e periferia.
Il nucleo è la zona centrale della rappresentazione, quella che contiene gli
elementi fondamentali che donano significato all'oggetto rappresentato. Il nucleo
assolve 3 funzioni principali: stabilizzatrice cioè dona coerenza alla
rappresentazione, generatrice cioè dona significato alla componenti della
rappresentazione, organizzatrice cioè connette e collega in un tutto dotato di
senso il contenuto della rappresentazione. Il nucleo costituisce il nocciolo della
rappresentazione, il suo cuore, ed è necessario e sufficiente cambiarne le
componenti o intaccarne le relazioni per determinare il cambiamento dell'intera
rappresentazione sociale.
La periferia è invece la zona di frontiera della rappresentazione. Si tratta della
parte della rappresentazione sociale che cambia più in fretta. La periferia consente
di includere nuovi elementi, o escludere elementi non più adatti alle mutate
condizioni del contesto. In una parola la periferia assorbe le novità, conferendo
alla rappresentazione la flessibilità necessaria a fronteggiare i cambiamenti del
mondo.
Le rappresentazioni sociali sociali mantengono la capacità di adattarsi a situazioni
nuove e cangianti senza obbligare le persone a riorganizzare quotidianamente il
proprio sistema di pensiero. I congemi possono far parte di rappresentazioni
diverse, come elementi inclusi in diversi sottoinsiemi, e possono quindi essere la
chiave attraverso cui si strutturano gruppi di rappresentazioni più complesse. (Una
ricerca sulle rappresentazioni sociali di pace e guerra, mostra come queste non si
escludano a vicenda, dal momento che gli elementi inclusi nei nuclei delle due
rappresentazioni non sono in una relazione di antinomia.
Capitolo 4 - L'incontro tra persone

Cosa si intende con incontro interpersonale


Vedersi ma non incontrarsi: esempi di incontro interpersonale mancato: La
semplice presenza congiunta di 2 o più individui in uno stesso ambiente rende
possibile che si realizzi tra di loro un incontro interpersonale.
Esempio 1 Piero si sporge appena dal muro, riesce a scorgere la divisa di un
nemico, spara, non dubitando che anche l'altro sia pronto a farlo.
Esempio 2 seduto al tavolo del suo solito ristorante Giuseppe vede un cameriere,
gli fa cenno e subito il cameriere si avvicina.
Esempio 3 al volante della sua macchina, Federico vede una moto che lo affianca,
guidata da un ragazzo con una sciarpa di una squadra sportiva avversaria, si sporge
dal finestrino e grida: “avete rubato anche questa vitoria, vermi!”.
In questi esempi due persone hanno avuto occasione di avvicinarsi l'una all'altra.
Le circostanze psico sociali in cui questo incontro è avvenuto, pur molto diverse tra
loro, hanno impedito che tale avvicinamento si trasformasse in un incontro
interpersonale.
Nell'esempio 1 (obbedienza ad un ordine), il protagonista ha riconosciuto nell'altro
un appartenente alla categoria sociale dei nemici, da cui non ci si può aspettare
che ostilità. Al di là delle effettive caratteristiche personali di chi aveva di fronte,
questa aspettativa sociale, ufficializzata dalla dichiarazione di guerra ha generato
nel protagonista un immediato pregiudizio sulle possibili azioni dell'altro. In tal
caso la dimensione delle relazioni tra gruppi è diventata saliente, oscurando ogni
altra considerazione sulla persona che si aveva davanti. Anche se sulla scena
c'erano solo due persone, il comportamento di Piero può essere definito come un
comportamento intergruppi. Inoltre, Piero comportandosi in questo modo ha
ubbidito ad un ordine, perchè la situazione di guerra impone la violenza. La
consapevolezza che anche l'altro è un essere umano è oscurata dall'obbligo di
dover eseguire il comando ricevuto.
Lo psicologo sociale Milgram ha riprodotto una situazione che permette di
comprendere meglio i processi mentali del protagonista del primo esempio,
usando una procedura che ha consentito di osservare risultati molto importanti.
Esperimento allievo maestro, il maestro (unico vero partecipante, e scelto a caso)
aveva il compito di punire l'altro quando questi avesse sbagliato in un compito di
apprendimento di coppie di parole. A ogni sbaglio, l'insegnante avrebbe dovuto
dare al discente una scossa di intensità crescente. I risultati di Milgram mostrarono
che chi è sottoposto a un ordine ricevuto da un'autorità molto spesso ha difficoltà
a disubbidire: più del 65% dei partecipanti, in varie ripetizioni di questa procedura,
continuano a somministrare scosse crescenti, senza ascoltare le proteste e i
lamenti del complice, che fingeva di ricevere effettivamente queste punizioni. Alla
visione dell'altra persona, che soffriva insensatamente, il partecipante cercava non
senza difficoltà e disagio , di sostituire uno stato eteronomico, concentrando la sua
attenzione sulle istruzioni che l'autorità gli impartiva. (vedi bene esperimento
Millgram).
Anche nell'esempio 2 (script) il protagonista non ha interagito con una persona,
ma con il ruolo che egli si aspettava che l'altro ricoprisse nella specifica situazione
sociale del ristorante. In altri termini, si è comportato come un attore che
conoscendo a memoria il proprio copione (script) improvvisa un comportamento
coerente con il suo personaggio, aspettandosi dall'altro attore l'improvvisazione di
un comportamento adeguato al ruolo che egli ricopre. Sebbene ci siano due
persone che si incontrano, i loro comportamenti non sono forme di interazione
interpersonale, ma seguono uno schema prefissato, li definiremo quindi
comportamenti scriptati. Molte situazioni della vita sociale si svolgono secondo
una sequenza schematica di azioni prefisate (script) che, ripetendosi più volte nel
corso della vita quotidiana, diventa ben presto nota a tutti i protagonisti.
Infine, nell'esempio 3, il protagonista apostrofa l'altra persona che affianca per un
attimo la sua macchina chiamandola con il nome di un animale repellente. Questo
esempio è diverso dall'esempio 1, perchè il protagonista degrada l'altro a una
condizione non più umana: in termini psico-sociali, lo definiremo dunque un
comportamento di disumanizzazione. In questo caso si tratta solo di un insulto
volato brevemente tra due estranei, ma non possiamo dimenticare che in
circostanze storiche drammatiche è accaduto e accade che alcuni gruppi mai
abbiano trasformato le parole di disumanizzazione in azioni distruttive.
Questi 3 esempi mostrano come il semplice dato di fatto che due persone siano
presenti nello stesso ambiente non si trasforma immediatamente in un incontro
interpersonale vero e proprio. Molto spesso la percezione che l'altro sia una vera e
propria persona è appannata da schemi che la rendono opaca. Ad esempio l'altro
è visto solo per la sua appartenenza a un gruppo sociale con rapporti difficili. C'è
dunque bisogno che si realizzino alcune condizioni sociali e psicologiche precise,
perchè la presenza di due individui in uno stesso ambiente si trasformi in un vero e
proprio incontro interpersonale, cioè in una situazione in cui ognuno considera
l'altro come una persona.
Se consultiamo il dizionario troviamo molti significati del termine persona; la
complessità di significati presente nella lingua corrente ci aiuta ad avvicinarci alle
definizioni proprie della ricerca psicologica. Qui il tema del significato del concetto
di persona nasce dalla confluenza di punti di vista diversi.
Nella prospettiva psico-sociale, il tema dell'elaborazione del concetto di persona e
la definizione dell'incontro interpersonale s'intreccia con tre altri temi di studio: il
tema della comunicazione faccia a faccia, il tema delle relazioni intime e il tema
delle differenze di potere tra i gruppi sociali. Partiamo da una prima definizione di
base, che considera l'incontro interpersonale come quella situazione sociale in cui
un Io incontra un Tu, ossia due individui entrano in relazione tra loro con pari
dignità, ognuno con la propria unicità e specificità, gestendo i rischi e le
opportunità insiti nella loro interazione con libertà e profondità di significato.
È evidente che si tratta di una situazione che caratterizza soprattutto cioè che
accade nella cerchia delle relazioni intime.

Le relazioni intime
La riflessione sulle relazioni interpersonali richiede di comprendere in primo luogo
le caratteristiche che distinguono le relazioni intime dalle molte altre forme di
relazione con gli altri che possono verificarsi nella vita quotidiana. L'aspetto
specifico che rende queste relazioni diverse da tutte le altre è il loro alto livello
d'interdipendenza, che diviene evidente se esaminiamo le attività congiunte
compiute dalle persone nel corso della loro vita quotidiana.
In confronto alle altre specie, la specie umana si distingue per lo stato di
incompleta impotenza dei suoi piccoli alla nascita, e per il percorso molto lungo
che porta il nuovo nato all'autonomia. Non solo il semplice abbandono di un
neonato ne causa la morte, ma questa condizione costituisce una grave pericolo
per i bambini nel corso di molti anni a venire.
In effetti, nella sua riflessione sulla condizione umana, Hannah Arendt ha proposto
che la condizione di base che meglio la definisce sia appunto la vulnerabilità alla
presenza o all'assenza dei propri simili, avanzando l'ipotesi che proprio tale
condizione di fragilità intesa in termini fisici e corporei, configuri una condizione
umana dov'è la relazione all'altro a contare, ossia lasci venire in primo piano
un'ontologia del legame e della dipendenza.
Il tipo di prime relazioni che il bambino ha con le figure che lo accudiscono guida
anche in larghissima parte le modalità di strutturazione delle relazioni future.
Aspetto esplorato da Bowlby, che notò che i bambini che esploravano con più
intraprendenza l'ambiente in cui si trovavano erano quelli che potevano contare
sulla presenza della madre come su una base sicura, verso cui ritornare se per caso
si fossero fatti un po' male oppure si fossero spaventati. Partendo da queste
primissime osservazioni, l’autore giunse a formulare una teoria che prevede che il
bambino sia biologicmaente programmato per emettere in caso di bisogno dei
segnali specie- specifici di richiamo alla madre. A questi richiami la madre sarebbe
biologicamente indirizzata a rispondere, accorrendo in aiuto (instaurando una
relazione, destinata a perdurare per tutta la vita, definita relazione di
attaccamento).

Esperimento Per comprendere la qualità della relazione di attaccamento che si è


instaurata, Mary Ainsworth ha creato una procedura specifica; facendole accadere
in modo più controllato all'interno di un laboratorio di osservazione, la ricercatrice
ha catturato le caratteristiche fondamentali che Bowlby aveva osservato in
situazioni naturali. Il laboratorio di osservazione è in genere organizzato in almeno
due locali. Nel primo passaggio entrano nella stanza la mamma con il suo
bambino. La stanza è arredata con due sedie e giocattoli. Nel secondo passaggio
entra un'estranea, una ricercatrice, che si siede su un'altra sedia. Il bambino
interagisce con la persona sconosciuta in presenza della madre. Poi la madre
abbandona la stanza, e il bambino resta solo con l'estranea, che tenta di interagire
con lui. Poi la madre rientra e osserviamo come madre e bambino si riuniscono,
mentre l'estranea si allontana. Infine, la madre esce e il bambino rimane solo.
Questa fase provoca stress nel bambino e viene interrotta appena il piccolo lancia
dei segnali del suo bisogno di essere confortato. L'estranea entra e cerca di
confortare il bambino. Rientra la madre e prima di confortare il bambino,
rimanendo però, per pochi istanti in attesa di cosa farà il bambino. A seconda delle
reazioni dei bambini, questa procedura permetterà di capire la qualità
dell'attaccamento.
Nel caso di un attaccamento sicuro, il bambino esplora con curiosità i giocattoli e
non si allarma per la presenza di un'estranea, poiché la madre è sempre vicina.
Quando la madre si allontana, manifesta chiaramente il suo stress, piangendo e
smettendo di giocare. Anche se si fa consolare un po' dall'estranea, accoglie con
un sollievo del tutto diverso il ritorno della madre, e la loro riunificazione è l'unica
in grado di riportarlo velocemente in una situazione di tranquillità. In sintesi, la
perdita momentanea della vista della madre è stata fonte di stress ma questo è
facilmente superato al suo ritorno, perchè il bambino ha di nuovo avuto la
conferma che la madre è sempre pronta ad accorrere a un suo bisogno.
Non sempre la relazione di attaccamento che si è creata è così equilibrata; a volte
una madre può essere molto ansiosa e perciò interrompere spesso l'esplorazione
attiva del bambino, temendo per la sua sicurezza; si svilupperà un attaccamento di
tipo insicuro- ansioso, il bambino è più timoroso e meno in grado di esplorare
spontaneamente l'ambiente, più in difficoltà quando la madre si allontana e più
difficile da consolare al ritorno.
Se la madre può essere poco in grado di sostenere emotivamente le richieste di
attenzione e cura del bambino, questo imparerà presto che è necessario non
esprimere forti segnali di richiamo (pianto, agitarsi..), si svilupperà quindi un
attaccamento insicuro- evitante, che si traduce in un'apparente indifferenza del
bambino nel momento dell'allontanamento della madre e nel suo non manifestare
né un chiaro entusiasmo né bisogno di consolazione al momento del ritorno della
mamma.
Infine, la relazione della mamma e del bambino, può essere passata per periodi
difficili, rendendo impossibile per il bambino formarsi delle aspettative precise sul
comportamento materno, questo porta all'attaccamento di tipo disorganizzato, in
cui le reazioni del bambino alla situazione strana del laboratorio appaiono confuse
e difficilmente interpretabili.
Negli scambi sociali ripetuti in cui i familiari coinvolgono il bambino, emerge
dunque gradatamente un insieme di aspettative sul modo in cui si svolgerà la
relazione con gli altri significativi e si consolida una strategia tipica per mantenere
un rapporto stabile con queste figure di attaccamento: aspettativa e strategia
basata sulla fiducia di poter essere aiutati al momento del bisogno, nel caso
dell'attaccamento sicuro; basate sulla paura che un'esplorazione troppo attiva
dell'ambiente e un allontanamento temporaneo dalle persone cui si è legati
possano comportare dei rischi, nell'attaccamento ansioso; basate sull'idea che
tutti se la devono sbrigare da soli e non dovrebbero chiedere apertamente aiuto e
sostegno agli altri per non essere da loro abbandonati, nell'attaccamento evitante;
infine, espressione della propria confusione e del dubbio su cosa ci si possa
aspettare dagli altri e da se stessi, nel caso dell'attaccamento disorganizzato.
Le prime esperienze di attaccamento con le figure di accudimento formano in
sisntesi dei modelli operativi interni che guidano la strutturazione delle relazioni
sociali successive, soprattutto quelle intime. Tuttavia è evidente che questi modi di
comprendere il legame con gli altri più significativi della propria vita cambiano, con
l'avanzare dello sviluppo dell'individuo.
Nella teoria di Bowlby, il bisogno di attaccamento non si esaurisce nelle prime fasi
della vita, ma permane per tutta la durate dell'esistenza, come una forma di
indispensabile protezione della sopravvivenza fisica e psicologica delle persone.
La capacità di percepire l'altro e sé stessi come persone non è immediata, ma
diviene possibile solo quando la mente ha raggiunto un certo grado di sviluppo. La
capacità di vedere sé stessi e gli altri come persone separate ma legate da una
relazione, e le teorie di senso comune che cercano di comprendere come funziona
la mente propria e quella degli altri, cambiano profondamente nel corso dello
sviluppo individuale.
Per cogliere bene la non immediatezza della comprensione della differenza tra la
propria persona e le altre, è indispensabile riferirsi al lavoro di Jean Piaget.
Attraverso un suo metodo di ricerca originale, Piaget è arrivato ad affermare che
malgrado le forti differenze individuali, tutti i bambini evolvono attraversando
sempre gli stessi stadi.
Per dare un esempio, osserviamo una serie di ricerche, basate su un metodo di
ricerca originale, conosciuto come metodo quasi clinico, in cui viene proposto ad
un bambino un gioco che può essere risolto in modi diversi, a seconda del livello di
sviluppo raggiunto, seguito da una breve intervista. Tramite queste ricerche Piaget
ha dimostrato che generalmente i bambini devono aver raggiunto i 7 anni per
comprendere appieno che le altre persone possiedono una mente diversa dalla
propria.
Esperimento Il bambino si siede e vede davanti a se un plastico con diversi oggetti
che riferisce alla ricercatrice, quando gli si chiede di cambiare posizione con la
ricercatrice, nello stadio di sviluppo pre-operatoria (2- 7 anni), pur avendo appena
visto quello che vede la ricercatrice seduta nel posto che egli aveva occupato fino
a poco prima, risponde elencando gli oggetti che gli sono davanti in quel
momento. Il bambino legge la mente dell'altro come se fosse la propria. Non
possiamo quindi aspettarci che egli possa tenere conto del fatto che l'altro è una
persona con percezioni, pensieri ed emozioni che non coincidono
automaticamente con i suoi. I risultati degli studi piagetiani ci dicono che non si
può pretendere che un bambino nella fase pre-operatoria comprenda l'importanza
del dialogo e del confronto tra punti di vista: lo scambio non può avvenire perchè
non ha ancora raggiunto uno stadio di sviluppo sufficientemente maturo.
Anche l'evoluzione della complessità della teoria della mente, con cui si
comprende il modo in cui funziona la mente propria e degli altri, segue fasi
regolari che possono essere studiate con metodologie simili al metodo di Piaget.
Per comprendere il livello raggiunto si può utilizzare un esperimento classico. Il
ricercatore invita il bambino a parteciopare ad un gioco di finzione con l'aiuto di
due bambole, una biglia ed una scatola. Le due bambole sono entrambe in scena e
nascondo la biglia in una scatola. Poi Ann si allontana (nascosta sotto il tavolo) e
Sally sposta la biglia in un'altra scatola. Al ritorno di Ann dove cercherà la biglia?
Se il bambino possiede una teoria della mente abbastanza evoluta, prevederà che
Ann, essendo assente mentre la biglia era spostata, la cercherà dove l'aveva vista
mettere in precedenza. Tramite la sua teoria del funzionamento della mente di
Ann il bambino prevederà che il comportamento del personaggio del gioco
dipenda da questa sua “falsa credenza”, piuttosto che dallo stato delle cose
effettivo. Anche in questo caso esistono fasi di sviluppo abbastanza regolari.
Si sono aggiunti, nel tempo, altri importanti studi che hanno osservato anche
persone di altre età, questo tipo di ricerche ha scoperto che lo sviluppo della
mente non si arresta alla fine dell'adolescenza, ma continua in tutte le fasi della
vita, per rispondere ai diversi compiti di sviluppo che ogni persona è chiamata a
realizzare nei vari momenti del suo ciclo vitale.
Una delle teorie più rilevanti di questa psicologia dello sviluppo nell'intero ciclo di
vita è quella proposta da Erikson, che distingue il passaggio da uno stadio all'altro
tramite la soluzione di un dilemma evolutivo: mentre la soluzione positiva di
questo dilemma porta ad un avanzamento a uno stadio più progredito, la
soluzione negativa porta a una stagnazione nello stadio già raggiunto (guarda
schema degli stadi di Erikson).
Gli studi sullo sviluppo del pensiero e l'evoluzione psico-sociale lungo l'intero corso
di vita hanno dunque permesso di cogliere come l'incontro tra le persone sia
funzione del grado di sviluppo che ognuno ha raggiunto. Non a caso Piaget chiama
“egocentrici” gli stadi più infantili dell'intelligenza. In sintesi, perché l'interazione
con l'altro diventi un vero incontro interpersonale c'è bisogno di progredire nello
sviluppo della mente.

Gli strumenti storico-culturali di interpretazione delle interazioni sociali


Le considerazioni precedenti mostrano come una parte rilevante del modo in cui
si svolge un incontro interpersonale sia legata al grado di sviluppo raggiunto dai
protagonisti di questo incontro e al loro avanzamento dell'elaborazione di una
propria Teoria della Mente. Tuttavia, accanto a questi aspetti, che si ripetono con
regolarità per la prevedibile concatenazione dei compiti di sviluppo umano,
l'incontro interpersonale cambia considerevolmente in ragione degli strumenti di
pensiero che ogni cultura consente di acquisire alle persone che vivono in essa.
I modi dell'incontro con l'altro sono influenzati, non solo dalla finezza evolutiva
delle menti coinvolte, ma anche dagli strumenti storico- culturali messi a
disposizione dall'ambiente sociale in cui le persone che s'incontrano si trovano a
interagire. Per comprendere in profondità i diversi modi dell'incontro
interpersonale è necessario mettere in relazione gli studi sulla regolarità delle
traiettorie di sviluppo individuale con la teoria storico-culturale di Vygotskij.
Secondo Vygotskij la conoscenza degli stadi dello sviluppo individuale deve essere
necessariamente integrata con la comprensione del ruolo degli strumenti di
mediazione (artefatti) che sostengono il pensiero nel suo sviluppo, e che
cambiano, a seconda della condizione storica e culturale. Tra gli artefatti di cui ci si
può servire per interpretare la vita sociale e le sue relazioni il linguaggio occupa
una posizione centrale, con la sua possibilità non solo di descrivere una realtà, ma
anche di connotare il significato. Lo sviluppo individuale non può mai essere scisso
dagli apprendimenti resi socialmente accessibili in ogni condizione storico-
culturale.
Il processo di interiorizzazione degli artefatti che mediano ed organizzano la
comprensione della realtà è studiato facendo riferimento alla speciale relazione
che si crea tra chi ha raggiunto un certo grado di sviluppo e una persona più
esperta di lui; relazione che Bruner avrebbe in seguito denominato scaffolding (o
impalcatura).
Se consideriamo la relazione con il bambino, potremo notare come all'inizio di
questo processo la persona più esperta, cogliendo la difficoltà del bambino nel
risolvere un problema, lo aiuti a risolverlo mostrandogli l'uso di un artefatto che il
bambino è in grado di comprendere, ma non di padroneggiare. Se dopo aver
risolto il compito con l'aiuto dell'altro, il bambino continua ad esercitarsi nell'uso
dello strumento mostrato, può diventare in grado di dominare lo strumento
autonomamente. A questo punto la persona più esperta smette di aiutare, avendo
accompagnato il bambino nella sua successiva zona di sviluppo prossimale.
Un'osservazione delle interazioni quotidiane tra bambino e la sua rete sociale
permette di cogliere una continua presenza di scaffolding. La logica dietro lo
scaffolding rimane la stessa anche quando l'adulto propone al bambino problemi e
necessità di mettere in gioco abilità ben più complesse.
Come un'impalcatura intorno ad una costruzione, che viene tolta quando la
costruzione è stata terminata perchè i muri stanno in piedi da soli.

L'inquadramento sociale delle relazioni tra le persone


Con la focalizzazione sul rapporto scaffolding che lega un bambino che avanza nel
suo sviluppo a un'altra persona più esperta che lo guida e lo introduce ad abilità di
complessità crescente, Vygotskij intendeva integrare la teoria di Piaget sullo
sviluppo del bambino con l'idea dell'importanza delle intermediazioni sociali che
accelerano e indirizzano tale sviluppo. Il maggiore livello di competenza raggiunto
da un bambino a seguito di uno scaffolding riuscito è frutto sia del suo sviluppo
individuale sia dell'aiuto della persona più competente. Le abilità che siamo in
grado di raggiungere, nascono al tempo stesso sia dalla sollecitazione sociale, sia
dall'impegno personale nell'interiorizzare quanto ci viene suggerito.
In tempi più recenti si è affiancato l'approccio pisco-sociale delle rappresentazioni
sociali, inaugurato dagli studi di Serge Moscovici. Anche in questo caso,
l'attenzione è stata posta sull'intreccio tra le dimensioni evolutive personali e le
forme di interiorizzazione degli strumenti storico-culturali di lettura del mondo che
provengono dal sociale.
La teoria di Moscovici non si focalizza su un problema di sviluppo ma si estende a
tutta la riflessione sul modo in cui ogni nostra rappresentazione del mondo nasca
da un continuo confronto con le teorie di senso comune presenti nel discorso
sociale. Questa teoria generalizza la necessità di passare, non solo
nell'osservazione dei processi di sviluppo della mente ma in tutto lo studio
psicologico, da un approccio diadico, soggetto/oggetto, a un approccio triadico, in
cui il soggetto costruisce la sua rappresentazione dell'oggetto che cerca di
comprendere non solo direttamente, ma in un continuo confronto con le
rappresentazioni altrui, per come queste sono a lui accessibili. Nella maggior parte
dei casi, chi legge i suoi rapporti con gli altri nella maniera socialmente diffusa
scambia la propria interiorizzazione delle rappresentazioni correnti del mondo
sociale per un modo “naturale”, indiscutibile e scontato di vedere l'altro e di
interagire con lui. Questa naturalizzazione è l'aspetto più caratteristico delle
rappresentazioni sociali dominanti in una cultura in una certa epoca storica:
rappresentazione che pur essendo solo una una tra le possibili letture del mondo,
prendono gli accenti di una descrizione che si vuole indiscutibile.
Un'altra conseguenze dei processi di naturalizzazione delle rappresentazioni
sociali dominanti è che non solo l'altra persona che ci sta davanti, ma talvolta
persino noi stessi possiamo rimanere velati ai nostri occhi, nei nostri aspetti più
personali e singolari, a causa delle aspettative sociali correnti sul modo in cui
dovremmo essere e pensare, quando ci troviamo in alcune situazioni sociali
specifiche. Pur quando appartenentemente si chiede alla persona di fare in
libertà una scelta importante per la propria vita, le sue decisioni sono fortemente
limitate dalle interpretazioni socialmente diffuse, già formulate in modo molto
prescrittivo e apparentemente indiscutibile.
Persone dominanti, gruppi dominati
Se riflettiamo sugli strumenti di interpretazione del mondo che provengono dal
sociale e che, agiscono nella strutturazione dell'incontro tra le persone, emerge in
sintesi il problema di base che non a tutti è riconosciuto lo stesso diritto di essere
visti (e di vedersi) come persone. Il tema dell'analisi delle relazioni interpersonali
s'interseca con quello della differente distribuzione di potere tra le persone e tra i
gruppi. Esiste una distorsione sistematica collegata alle ineguaglianze di potere
nella percezione sociale che sta alla base dell'incontro tra le persone. Mentre chi
appartiene al gruppo socialmente dominante è visto dagli altri (e tende a vedersi)
in primo luogo in termini personali e singolari, chi appartiene a un gruppo
socialmente dominato viene visto (e tende a vedersi) in primo luogo come un
appartenente al suo gruppo, e solo in seguito come persona.
Sentirsi ed essere visti come una persona è dunque al tempo stesso un'esperienza
esistenziale e una costruzione storica, legata all'evoluzione negli equilibri di
potere tra i gruppi che convivono in una cultura. Nel confronto tra diverse società
la possibilità di percepire gli individui come persone cambia, a seconda delle
appartenenze degli individui a gruppi diversi. Assicurando solo ad alcuni gruppi
privilegiati la protezione sociale di essere sempre visti come persone, piuttosto
che membri anonimi di una categoria, si mantiene quindi ben distinto il dislivello
di potere tra i gruppi, dislivello che è destinato a mutare al variare delle situazioni
storiche e culturali.

Uno nessuno e centomila: la molteplicità dei modi di relazione negli incontri


quotidiani
Ognuno nella sua vita quotidiana si trova immerso in una rete di interazioni, di cui
solo alcune sono caratterizzate da un genuino contatto interpersonale. Non solo
individui di gruppi sociali di diverso potere possono apparire più o meno persone
ma una stessa persona può interagire con gli altri in modi interamente diversi, a
seconda del tipo di relazione che la lega a ognuno dei suoi interlocutori. Una
persona, dunque, può racchiudere in sé una molteplicità di percezioni e interazioni
sociali.
Ognuno gestisce questi molteplici registri di relazione con gli altri, segnalando con
l'uso di molteplici indizi e segnali comunicativi il registro su cui si ritiene di dover
gestire di volta in volta la sua interazione. Questa abilità a graduare la propria
comunicazione con gli altri su molteplici modi di relazione evolve con la crescita,
che porta a una complessificazione degli spazi sociali in cui si svolge la propria vita.

L'esperienza di vivere in contesti culturalmente diversi porta allo sviluppo di una


mente interculturale in grado di condurre giochi comunicativi che padroneggiano
segnali e indizi culturalmente sempre più diversificati, a seconda degli interlocutori
incontrati di volta in volta.
La possibilità di essere visti e di vedersi come persone, e come tali di interagire con
gli altri, può essere dunque considerata a diversi livelli di analisi. All'interno di una
stessa società, le probabilità di essere visti e di vedersi come una persona sono
maggiori nella rete dei contatti con i propri intimi, mentre gli altri rapporti sociali
sono regolati soprattutto dai ruoli che si è chiamati a svolgere e dai loro equilibri di
potere, che assicurano agli appartenenti dei gruppi dominanti di essere
considerati persone, non solo all'interno delle proprie relazioni intime ma, anche
nella più vasta percezione sociale.
Tuttavia, la complessità delle relazioni in cui ogni adulto è immerso nella sua vita
quotidiana fa si che i modi dell'incontro interpersonale si modulino su molteplici
registri, a seconda delle diverse posizioni sociali che si trova a dover occupare nei
vari momenti.
L'incontro interpersonale è dunque solo una tra le diverse possibilità d'incontro, e
non delle più frequenti. Ma anche il confronto tra diverse società e culture nei
diversi momenti storici mostra che sono rare le possibilità di incontrare l'altro
considerandolo, al pari di se stessi, come una persona la cui libertà ed unicità va
rispettata: perchè è raro riuscire a sottrarre i vari tipi di organizzazione sociale, in
cui tale incontro avviene.
Capitolo 5 - La comunicazione interpersonale

Continuità e discontinuità tra comunicazione animale e comunicazione umana


Se per comunicazione intendiamo uno scambio di notizie sullo stato del mondo, o
la capacità di cogliere dai comportamenti degli altri indizi utili per intuirne le
intenzioni e per prevedere cosa sta per accadere nell'ambiente, non c'è dubbio
che stiamo parlando di un fenomeno che non coinvolge solo gli esseri umani
(esempio della marmotta).
Non si tratta tanto di una diversità di sofisticazione; anche gli animali, possono
avere uno scambio comunicativo molto complesso. Si pensi al caso delle grida di
allarme di uccelli o mammiferi (marmotte) che emettono per la presenza di un
predatore nell'ambiente come esempi di “altruismo” di tali animali. Tali allarmi
consentono infatti a chi li ascolta di fuggire, mentre chi ha lanciato l'allarme di
solito viene raggiunto dal predatore.
Gli effetti di questa comunicazione sono di vantaggio per chi riceve il segnale,
mentre appare discutibile definire questi comportamenti come altruisti. Si è
dimostrato in modo molto interessante che spesso gli animali sono in grado non
solo di cogliere segnali dei co-specifici ma anche di altre specie.
Mentre la capacità di rispondere ai segnali di allarme dei co-specifici si può
spiegare con una forma di comunicazione innata, funzionale alla sopravvivenza, la
reazione di fuga a seguito dell'ascolto, può essere spiegata tramite un
apprendimento di carattere associativo.
Pavlov è riuscito a modificare in laboratorio i riflessi innati degli animali, creando
dei riflessi condizionati. Pavlov è riuscito a modificare in laboratorio i riflessi innati
degli animali, creando riflessi condizionati, si è servito di un legame riflesso tra
presenza del cibo e salivazione che è prefissato dalla natura perché la saliva
protegge la mucosa che riveste la bocca dell'animale e al tempo stesso, grazie ai
suoi enzimi, inizia la digestione del cibo. Pavlov fece precedere la presentazione
del cibo da un segnale neutro, cioè non connesso in alcun modo con il riflesso di
salivazione dopo un certo numero di presentazioni in cui regolarmente il
campanello (segnale neutro) suonava prima dell'arrivo del cibo, bastava solo tale
suono per indurre il cane a salivare, anche senza la presenza del cibo. Questo
apprendimento avveniva secondo l'autore grazie al crearsi nell'animale di una
memoria associativa, che l'autore definì apprendimento per condizionamento. Uno
stimolo all'inizio neutro era diventato un segnale dell'arrivo dello stimolo innato (il
cibo). Grazie al processo di condizionamento gli animali che vivono liberamente
nei loro ambienti possono fuggire tempestivamente, ancor prima di vedere
l'aggressore, rispondendo al solo segnale di allarme emesso da un individuo di
un'altra specie che convive stabilmente nel loro habitat.
Non esiste alcuna evidenza che ci dica che l'animale che ha lanciato l'allarme lo
abbia fatto intenzionalmente, cioè con lo scopo di avvertire gli altri animali; anzi
appare improprio definirli altruistici.
I comportamenti di un umano di fronte al pericolo, testimoniano una maggiore
variabilità rispetto a quelli animali; una persona può reagire al pericolo
semplicemente esprimendo la sua paura; in tal caso il suo comportamento
diventano un segnale non intenzionale, che però gli altri colgono; o la persona
potrebbe scegliere di minimizzare per quanto possibile, la sua paura.
Possiamo quindi, rilevare la possibilità, propriamente umana, di regolare la propria
espressione emotiva, adattandola alle priorità da affrontare.
La comunicazione animale è basata essenzialmente su due tipi di processi:
l'espressione di comportamenti inflessibili cioè una serie di reazioni innate di
fronte ad alcuni eventi specifici, oppure l'apprendimento di sistemi di
segnalazione che l'animale usa per adattarsi e sopravvivere nel suo ambiente.
Si tratta indubbiamente di un corredo già molto ampio di comportamenti che
permette agli animali un'efficace trasmissione di informazioni e una cooperazione
anche complessa; inoltre, la comunicazione può anche essere usata con fini
opposti alla trasmissione cooperativa delle informazioni, gli animali possono infatti
essere capaci di simulazione ed inganno.
La comunicazione umana presenta una maggiore flessibilità; questo non esclude
che una parte della comunicazione sia analoga a quella degli animali. Se
consideriamo questi aspetti di continuità notiamo che le persone hanno un
repertorio innato da cui attingere.
Accanto alle situazioni in cui la comunicazione si serve di processi di
condizionamento, l'esempio forse più importante di continuità tra animali ed
uomo è l'espressione delle emozioni; infatti in piena analogia con gli animali,
anche negli umani le emozioni si esprimono in manifestazioni che si ripetono in
modo simile per tutti i membri della specie.
Più in generale, esiste una continuità tra comunicazione animale e umana per
quanto riguarda tutte le possibilità di apprendimento che sono comuni a uomo e
animali; oltre al condizionamento classico, l'apprendimento per prove ed errori (si
diviene più efficaci man mano che ci si esercita), l'apprendimento per imitazione
(non si apprende solo tramite il fare, ma anche osservando chi è già padrone delle
abilità comunicative), l'apprendimento per insight (soluzione alle proprie difficoltà
possono presentarsi anche improvvisamente, per ristrutturazione del modo in cui
si guarda la situazione).
Tuttavia, esistono anche rilevanti aspetti di discontinuità, solo gli umani hanno la
possibilità di creare e tramandare socialmente segnali nuovi, basati sulla
consapevolezza reciproca e ricorsiva dell'esistenza di una comune intenzione di
comunicare che lega in modo inestricabile il comportamento di chi vuole
comunicare con la comprensione di chi vuole intendere.

L'ipotesi dell'altrismo spontaneo


La comunicazione umana, aggiunge ai canali comunicativi propri degli animali, una
risorsa nuova nata dalla consapevolezza reciproca dell'esistenza di una relazione
tra comunicanti. Sapere che la comunicazione si svolge all'interno di una relazione
con un proprio simile che sta cercando di entrare in contatto e di condividere
informazioni in modo simile al nostro, e sapere che anche l'altro sa questo quando
cerca di interpretare i segnali che stiamo inviando, crea il senso di un Noi, che
supera e trasforma la comunicazione basata sul puro perseguimento di uno scopo
di sopravvivenza individuale.
Tomasello e i suoi collaboratori hanno condotto un lungo ed importante lavoro di
osservazione su un gruppo di scimmie antropomorfe che vivono in semicattività;
in questa condizione di vita le scimmie apprendono a servirsi del gesto umano
dell'indicare (pointing).
Esperimento Tomasello ed i suoi fanno in modo che la scimmia veda un uomo che
metta il cibo in un secchio al di la della presa della scimmia. Fanno poi allontanare
il 1 uomo ed entrare un 2; in questa situazione la scimmia allevata in semiccatività
è in grado di segnalare all'umano dove si trova il cibo, tramite pointing; si tratta di
una dimostrazione di come l'animale abbia imparato a comunicare con un
componente della specie umana, usando segnali propri dell'altra specie. Questo
apprendimento è di tipo associativo e origina dalla convivenza propria della
situazione di semicattività.
In una seconda situazione sperimentale, in assenza della scimmia il cibo è posto in
un secchio confuso con molti altri, quando l'animale arriva il collaboratore indica il
secchio giusto; in questo caso l'animale che sapeva usare il pointing non sa
decifrare il gesto dell'umano che cerca di dirigerla. Il motivo di questa difficoltà
sarebbe nell'incapacità di decifrare il diverso tipo di intenzione imperativa; nel
primo pointing la scimmia ha un'intenzione imperativa, in quello fatto dall'uomo
c'è invece, un'intenzione informativa di carattere altruistico.
Tomasello si riferisce quindi, ad una nozione basilare, cioè all'idea che ogni
decifrazione del segnale ricevuto da un altro comunicatore parta da una teoria
della mente dell'altro: l'animale in semicattività è arrivato ad associar il gesto con
un comando ma quello che la scimmia non riesce a decifrare è l'intenzione
altruistica del gesto dittico umano.
Esperimento rouge test Tomasello e gli altri, hanno condotto un esperimento sui
bambini chiamato rouge test, che dimostravano di sapersi riconoscere allo
specchio.
Un bambino sporcato a sua insaputa è posto davanti ad uno specchio, da una
certa età (14 mesi) il bambino porta la mano sulla macchia presente sul suo viso
solo guardandosi allo specchio. Solo quando arrivato a questo primo senso di sé
che il bambino diviene anche capace di empatia, cioè di provare la stessa
emozione che vede espressa da un altro essere umano.
Superato il rouge test, Tomasello e i suoi, li mettevano in una situazione in cui
vedevano un adulto usare un oggetto e poi uscire, entrava quindi un collaboratore
che spostava l'oggetto, infine il primo adulto rientrava e si metteva a cercare
l'oggetto, mostrando chiaramente la sua difficoltà ma senza rivolgere alcuna
richiesta al bambino. In questa situazione il bambino indicava spontaneamente
all'adulto la posizione dell'oggetto cercato, a questa situazione l'adulto non
rispondeva con alcun comportamento che potesse essere interpretato come
ringraziamento. L'esperimento era organizzato in tal modo per dimostrare la tesi
degli autori, che l'unica condizione necessaria e sufficiente per il comportamento
altruistico del bambino sarebbe stata la risonanza empatica provata dal bambino
alla vista del disagio evidente dell'adulto in difficoltà, senza bisogno di alcun
segnale né di richiesta di aiuto né di gratitudine, che avrebbe potuto far
interpretare il comportamento del bambino in termini di apprendimento per
condizionamento.
Tuttavia, il bambino pur aiutando spontaneamente l'adulto cerca attivamente un
segnale positivo dell'adulto dopo avergli indicato il posto dell'oggetto. Sottoposto
nuovamente alla stessa situazione e in assenza di segnali di ringraziamento, il
bambino continua comunque ad aiutarlo ma manifesta chiaramente la sua
contrarietà.
Tomasello propone 2 idee sul salto evolutivo, che consente di distinguere la
comunicazione umana da quella delle specie più vicine: l'autore argomenta che
solo la cooperazione umana si basa sull'altruismo gratuito (anche gli animali sono
capaci di cooperazione ma è la cooperazione del branco o il lavoro comune del
formicaio); la cooperazione di questi animali è infatti funzionale solo alla
sopravvivenza dei più forti, che destina i meno dotati alla marginalizzazione ed
estinzione.
Solo gli umani sono capaci di altruismo: che è anch'esso una forma di
cooperazione, ma destinata all'aumento delle probabilità di sopravvivenza di tutti i
membri del gruppo, non solo dei più forti. Tomasello inoltre, afferma che il
comportamento del bambino che già comunica un segnale di ritorno
sull'adeguatezza del proprio aiuto spontaneo, sia il segno che la comunicazione
umana origini proprio dall'interazione consentita dai gesti a fini altruistici. Da un
lato il bambino non può che aiutare spontaneamente perchè è un “altruista nato”
dall'altro canto gli è comunque necessario avere conferma che la sua empatia ha
colto nel segno. L'espressione della delusione per la mancata comunicazione di
ritorno da parte dell'adulto che è stato aiutato suggerirebbe che la comunicazione
umana si basi sull'aspettativa di una reciprocità nella relazione interpersonale; la
contrarietà è un atteggiamento di base, che guida il bambino nel corso della sua
interazione con lo sconosciuto. Ognuno dovrebbe fare la sua parte, e lo scambio di
informazioni e di aiuto dovrebbe essere vicendevole.

L'apprendimento della comunicazione


La tesi di Tomasello sta facendo molto discutere; tuttavia questi dati, conducono
ad interrogarsi su cosa sia avvenuto prima di questo momento, seppur precoce
dello sviluppo individuale. Il fato di sapersi riconoscere come individuo separato
dagli altri e di saper rispondere a una propria risonanza empatica nei confronti di
un altro è un traguardo di sviluppo.
Per rispondere all'interrogativo su cosa renda possibile al bambino di diventare
soggetto di altruismo, dobbiamo ritornare ancora una volta alla comunicazione,
ma per osservare il modo in cui il bambino, è fatto oggetto di comunicazione da
chi si prende cura di lui.
A questo proposito sono illuminanti, alcuni studi condotti da Spitz, tramite
bambini ristretti dalla nascita in un'istituzione totale. Spitz fu un pioniere
nell'applicare allo studio della situazione infantile il metodo dei filmati. Grazie a
questa scelta arrivò a comprendere che le interazioni con la madre che si svolgono
nei primi 3 mesi di vita del bambino hanno un'importanza fondamentale per
l'orientamento di tutto il suo sviluppo successivo.
Spitz studiò a lungo le interazioni di bambini rinchiusi in carcere o in befotrofio. Tra
il 1946 e il 1947, osservò due gruppi di bambini istituzionalizzati: 220 neonati di
donne carcerate, che potevano assistere il bambino nel nido della prigione e 91
neonati abbandonati accolti da personale nei befotrofi. In entrambi i gruppi, i
bambini erano assistiti dal punto di vista igienico e alimentare; tuttavia si
osservava nei 91 bambini del befotrofio un insieme di fenomeni preoccupanti:
crescita rallentata, evidente ritardo nello sviluppo della motricità e cognizione,
risposta alla stimolazione nulla, volto inespressivo, muscoli contratti, crisi di pianto
frequenti. Inoltre, i meccanismi di difesa immunitaria erano diminuiti, e il 37,3%
morì prima dei 2 anni.
Spitz giunse a cogliere la differenza fondamentale, individuandola nel rapporto che
questi bambini avevano potuto avere con la madre o la figura che li accudiva nei
primissimi periodi di vita. Comparando i filmati delle interazioni, Spitz potè
descrivere con esattezza i comportamenti che facevano la differenza, notando
come solo la madre del nido carcerario, dopo aver nutrito il piccolo, si chinasse su
di lui, lo guardasse, gli parlasse e gli sorridesse accarazzandolo.
Le osservazioni di Spitz hanno aperto la strada all'esplorazione dell'importanza
fondamentale delle fasi iniziali della relazione con la madre, osservate fin dai
primissimi momenti della vita del bambino. Tale relazione, si dimostrò nei suoi
studi non solo la base dello sviluppo motorio e cognitivo, ma anche una
condizione indispensabile per la stessa sopravvivenza fisica del piccolo. Spitz
descrisse e classificò i vari rischi per la vita e lo sviluppo della mente del neonato,
dovuti a quella forma di abbandono relazionale all'interno degli ambienti
istituzionali totali che si crea quando manca una relazione adulto-bambino;
denominò ospedalismo il caso più grave in cui tale relazione manca del tutto e
depressione anaclitica il caso in cui la relazione di appoggio affettivo materno sia
stata presente all'inizio ma si sia poi perduta.
Spitz ha avuto il merito storico di aver drammaticamente posto in luce il fatto, che
oggi ci appare elementare, che la relazione affettiva con una figura di
attaccamento è indispensabile alla vita del neonato allo stesso modo della
nutrizione o della cura fisica.

Il “baby talk” e il “fine-tuning” come precursori del linguaggio


Diverse discipline denominano come baby talk un modo apparentemente
marginale di usare il linguaggio, adoperato dalle persone che cercano di adattarsi
alla comprensione dei bambini più piccoli. Osservando possiamo notare che gli
adulti, quando devono rivolgersi ad un bambino, lo fanno in modo caratteristico;
usando il “bambinese” le persone adottano modi di comunicazione molto diversi
da quelli tipici di un discorso con altri adulti.
In modo molto interessante, osservazioni antropologiche hanno dimostrato che
questo tipo di linguaggio, rivolto solo ai bambini, inizia al momento stesso della
nascita e si ripete con le stessa caratteristiche anche in culture molto lontane tra
loro.
Il “baby talk” è solo un caso di quei linguaggi marginali che si usano con gruppi di
persone particolari; ad esempio, quando ci si rivolge a uno straniero o quando si
parla ad un anziano.
Tre ricercatrici inglesi hanno chiesto a 12 studentesse di immaginare di avere una
conversazione parlando con un adulto, un bambino ed uno straniero. La ricerca ha
dimostrato che il solo immaginare di rivolgersi a questi interlocutori diversi aveva
prodotto nelle giovani partecipanti tre modi molto differenti di usare il linguaggio.
Da una parte, come postulato dalle ricercatrici, l'uso dei linguaggi marginali (verso
lo straniero e il bambino) era profondamente diverso da quello rivolto verso un
adulto, che potremmo considerare come il tipo più centrale di uso del linguaggio.
Ma, ed è questo l'aspetto più innovativo della ricerca, il linguaggio rivolto al
bambino aveva caratteristiche specifiche, diverse dagli altri parlati marginali.
I risultati di questa ricerca mettono in luce due aspetti fondamentali: le persone
cercano spontaneamente, persino quando parlano con un interlocutore
immaginario, di mettersi sulla stessa lunghezza d'onda di chi led ascolta.
Questa ricerca spontanea del parlante di modularsi con finezza (fine-tuning) con il
proprio interlocutore diviene evidente non solo nei contenuti, ma sopratutto nei
modi del parlato: pause, ritmo, tono, intensità della voce e orientamento del viso.
Anche se si considera solo uno dei tanti aspetti qualificanti della comunicazione,
cioè l'uso della voce, la ricerca che abbiamo descritto dimostra con chiarezza
l'importanza di questo sforzo continuo del tuning del parlante.
Nella sua semplicità di impianto, questa ricerca mostra con evidenza come la
modulazione fine del baby talk sia strutturata in modo tale da aiutare al massimo
l'apprendimento del linguaggio del bambino.
Alla base del comportamento altruistico del bambino di cui si dimostrano capaci i
bambini quando arrivano ad essere in grado di avere un primo senso di se e di
provare empatia, sta dunque un'intensa quanto nascosta interazione con le
persone adulte che hanno accolto il neonato si dai suoi primi momenti.
Un primo ingrediente indispensabile perchè il bambino divenga soggetto di
comunicazione è un atteggiamento affettivo di estrema attenzione e tenerezza, in
genere espresso dalla madre. Un secondo ingrediente è la modulazione fine della
comunicazione, questa capacità è particolarmente evidente nel baby talk, che è il
terzo ingrediente che non solo concorre con i precedenti allo sviluppo del
bambino, ma lo accompagna anche oltre, fino alla padronanza del linguaggio.
Questi dati sembrano iscrivere il baby talk nell'insieme delle competenze tacite
della comunicazione, cioè di quelle abilità che le persone usano nel dialogo con gli
altri senza rendersi pienamente conto del perchè de loro comportamento ne delle
origini di questo saper fare.

L'apprendimento del linguaggio e la multimodalità della comunicazione umana


Con il suo sostegno affettivo e la modulazione l'adulto introduce il bambino in una
fase del tutto nuova dello sviluppo; questa fase culminerà con la conquista del
linguaggio. Secondo la famosa visione di Vygotskij il bambino che sta imparando a
parlare pensa ricordando, cioè arriva a formulare il pensiero tramite la
rievocazione delle esperienze.
Man mano che acquisisce una maggiore padronanza del linguaggio quello stesso
bambino può ricordare pensando. Una volta divenuta adulta una persona può
arrivare a modificare il senso che attribuisce ada un suo ricordo (ripensando e
“rinegoziando” un'esperienza negativa passata tramite il punto di vista di un amico
che era presente).
Seguendo il percorso evolutivo legato all'apprendimento del linguaggio,
nell'ipotesi di Vygotskij troviamo questi passaggi principali. Il linguaggio è ricevuto
all'inizio dal mondo sociale; tuttavia con il passare del tempo, il protagonista
principale del processo diviene il bambino stesso, che si impadronisce delle parole
dell'adulto e dell'interpretazione dell'esperienza che esse portano con sé. In un
primo momento il bambino riesce a guidare se stesso in modo analogo a come ha
fatto l'adulto con lui (fase del linguaggio egocentrico, in cui il bambino parla ad
alta voce con se stesso mentre agisce); in seguito potrà leggere autonomamente la
sua esperienza, grazie al silenzioso dialogo interiore con cui il linguaggio
egocentrico interiorizzato si trasforma in pensiero che cataloga e organizza le
esperienze. Raggiunta la piena padronanza linguistica la persona può non solo
richiamare alla mente il passato, dalle parole con cui viene descritto, ma può
arrivare a fornire agli altri una sua lettura innovativa degli elementi del mondo.
Se ritorniamo al primo passaggio di questa complessa traiettoria di sviluppo, il
primo passaggio è caratterizzato non solo dalla maturazione del bambino, ma
anche dal continuo succedersi di comunicazioni quotidiane con cui l'adulto
incessantemente invita il piccolo a guardare alla sua esperienza del mondo e di se
stesso tramite parole sempre nuove, che gli vengono offerte ogni giorno. L'adulto
nelle attività quotidiane riveste incessantemente i vissuti del bambino di parole
che li descrivono e li interpretano; nel corso di queste comunicazioni, ripetute con
regolarità il bambino si appropria di parole che gradatamente si trasformano; da
una prima fase in cui sono acquisite nell'ascolto dell'adulto diventano, grazie
all'interiorizzazione con cui il bambino ripete a se stesso parti del flusso di dialogo
che lo circonda, una guida interiore al suo pensiero.
Una volta che diventiamo padroni, il linguaggio ci introduce ad un nuovo modo di
vedere la vita.
Con la padronanza del linguaggio, il bambino entra dunque pienamente nel
mondo della comunicazione umana caratterizzata dalla multimodalità, cioè dalla
disponibilità simultanea e congiunta di diversi registri comunicativi.
Questi registri possono essere suddivisi in due grandi gruppi, a seconda che si
focalizzi l'attenzione principalmente sul parlante oppure sulla relazione tra chi
parla e chi ascolta.
Considerando il parlante, i principali registri della comunicazione sono:
 verbale, relativo alle parole;
 paraverbale, relativo al modo in cui la voce pronuncia la parole: prosodia,
velocità, tono…
 gestuale, relativo ai gesti, che possono essere deittici (che indicano oggetti
presenti nell'ambiente), iconici (che suggeriscono di immaginare oggetti
non presenti nell'ambiente), simbolici (es. segno a vi di vittoria con indice
e medio), batonici (sottolineare l'importanza di ciò che si sta dicendo),
manipolatori e automanipolatori (che attenuano la tensione o aiutano al
concentrazione con movimenti esercitati su oggetti, es. accartocciare
angoli delle pagine, lanciare in aria e riprendere una monetina);
 espressivo, relativo all'espressione di stati interni, come accade ad esmpio
nelle emozioni, che si possono cogliere nel viso e sopratutto nello sguardo
o nei movimenti del capo e anche registro posturale, relativo al modo con
cui si tiene il corpo.
Considerando la relazione tra chi parla e chi ascolta, gli altri registri principali di cui
ci si può servire per comunicare sono:
 la prossemica, relativa al modo culturalmente variabile in cui si regola la
distanza tra il proprio corpo e il corpo degli altri;
 l'orientazione del corpo, relativo al modo in cui chi parla orienta il suo
corpo rispetto a chi ascolta e viceversa;
 l'allineamento o il disallineamento, relativo al modo in cui chi ascolta
accorda la sua comunicazione corporea con quella del parlante o al
contrario segnala di non volere cooperare con le intenzioni del parlante.
L'ottica psicologica: la comunicazione come relazione
Un primo punto di vista considera la comunicazione come una performance,
condotta con perizia da chi intende raggiungere un effetto prefissato sulla mente
dell'altro; un secondo punto di vista, relazionale, osserva come nel comunicare il
soggetto entri in un tipo specifico di gioco con l'interlocutore, tramite cui si
costruisce una relazione di cooperazione e crescita oppure di opposizione e
distruttività.
Dopo aver riflettuto sulle specificità che distinguono la comunicazione
propriamente umana, ci interroghiamo sulla specificità dell'approccio psicologico
rispetto agli altri approcci che studiano la comunicazione umana.
- Approccio matematico - Approccio semiotico - Approccio pragmatico

L'approccio matematico
Considera la comunicazione nei termini di una trasmissione di informazioni. Si
concentra sul contenuto che viene passato da una mente all'altra mente, in modi
che possono essere studiati in quest'approccio anche attraverso la simulazione di
tali processi nel passaggio di files da un computer all'altro. La forma digitale
dell'informazione è alla base della concezione matematica della comunicazione.
Nel modello matematico, la comunicazione è infatti considerata dal punto di vista
del problema di come un'informazione digitale viene trasferita da una fonte a un
destinatario.
Le fasi della comunicazione sono descritte dal modello, considerando il fatto che
la fonte dell'informazione usa un'emittente (voce) che tramite un codice (lingua
italiana) comunica con il destinatario tramite un canale (telefono). Il ricevente può
perdere la precisione di queste informazioni in ognuno di questi passaggi:
problemi sul canale, sul codice o sul suo modo di ricezione. Accanto alle perdite
nei vari passaggi esiste un problema più generale, che il modello descrive come
rumore, intendendo con questo termine le molte possibilità di distorsione
dell'informazione che sono sempre pronte a intervenire durante il passaggio dalla
fonte al ricevente. In questo modello già si adombra un aspetto che diventerà
centrale per lo studio psico-sociale della comunicazione, cioè l'impossibilità di
concepire il passaggio delle informazioni in termini meccanici, come un puro
“travaso” da una mente all'altra, e l'assunzione di base che ogni trasferimento di
informazione implica sempre una sua distorsione. Altro rilevante aspetto implicito
è quello dell'interpretazione, cioè della capacità del ricevente di mettere in
rapporto i segni della comunicazione emessi dalla fonte con i significati che i segni
stessi sono in grado di trasmettere.
L'approccio semiotico, mentre nell'approccio informatico le attività di codifica della
fonte e di decodifica del destinatario sono ridotte a una funzione semiautomatica,
assicurata dal semplice possesso congiunto di un medesimo codice, nell'approccio
semiotico esse divengono il centro della riflessione teorica, che si propone
esplorarle in tutta la loro complessità. L'approccio semiotico guarda invece alla
mente come alla capacità umana di interrogarsi sui segni di cui è costellata la
propria vita quotidiana.
L'approccio atematico, rappresenta la mente servendosi delle sue simulazioni
funzionali, mentre l'approccio semiotico guarda alla mente come alla capacità
umana di interrogarsi sui segni di cui è costellata la propria vita quotidiana.
Nell'approccio semiotico l'interrogativo principale è, comprendere come la mente
umana possa scoprire l'aspetto familiare del simbolo, cioè il suo far riferimento a
un significato che la persona può ricostruire perché non le è mai del tutto
estraneo. La scelta di un termine anziché un altro (esempio la parola
compassionevole) si basa sulla convinzione che questo simbolo sia mediato, per
chi parla ma anche per chi ascolta, da una referenza positiva; tuttavia nella nostra
cultura lo stesso termine può avere anche una referenza negativa. In questo senso,
il termine può portare a percorsi di significazione molto diversi da interpretante a
interpretate: percorsi di significazione che possono anche cambiare nei diversi
momenti storici e culturali.
Gli aspetti divergenti contenuti nella possibile referenza di uno stesso termine
possono dunque causare una forte differenza tra l'intenzione comunicativa che
muove chi lo usa e l'effetto ottenuto su chi ascolta. Lo scarto inevitabile tra l'uso di
una parola da parte di chi parla e i processi di referenza di chi ascolta porta a
comprendere che la comunicazione contiene sempre molto di più di ciò che viene
detto; nei suoi processi di referenza, chi ascolta va sempre al di là
dell'informazione data, usando i segni che provengono dalla fonte come indizi che
possono condurre a significati a volte anche molto diversi tra loro.
Il modo più importante di disambiguare la complessità della comunicazione, intesa
come il tentativo del ricevente di comprendere il significato degli indizi forniti dalla
fonte, è la messa in relazione del rapporto tra testo (quello che viene comunicato)
e contesto (situazione in cui si comunica). Il significato della stessa sequenza è
diverso, perchè con la conoscenza del contesto noi siamo in grado di comprendere
il tipo di azione che si va svolgendo durante la comunicazione.
L'approccio pragmatico allo studio della comunicazione pone al centro della sua
attenzione il rapporto fra testo e contesto, come modo di cogliere la maniera in cui
un dire esprime un fare. Considerata da questo punto di vista ogni comunicazione
può essere considerata come un'azione, che si svolge su tre livelli distinti: - atto
locutorio; - atto illocutorio; - atto perlocutorio.
Per comprendere pienamente l'azione svolta da un testo comunicativo bisogna
essere in grado di metterla in relazione con il contesto in cui si svolge. Una parte
importante dell'esperienza umana di apprendimento delle competenze risiede nel
tentativo di familiarizzarsi con i diversi contesti: cosa che può avvenire nel miglior
modo possibile in quelle situazioni in cui la persona è esposta a un medesimo
contesto e gli indizi tipici di questo contesto si ripetono con regolarità.
La riflessione del rapporto fra testo e contesto porta a notare che solo certi
contesti consentono alla comunicazione di divenire una cooperazione, così come
previsto da alcuni modelli sul tipo ideale di relazione che dovrebbe instaurarsi tra
chi parla e chi ascolta per massimizzare la comprensione reciproca. In questo tipo
ideale chi comunica dovrebbe seguire alcune massime: di quantità (numero giusto
di informazioni), di qualità (dire solo ciò che sia pensa sia vero), di modo (chiari e
ordinati), di pertinenza (dire quello che riguarda il tema pertinente).
L'approccio psicologico cerca di considerare più in profondità come la
comunicazione esprima non solo uno scambio di contenuti ma anche il tipo di
relazione in cui si trovano coloro che comunicano.
Il modello sviluppato dalla Scuola di Palo Alto dice che ogni comunicazione
esprima a un tempo uno specifico messaggio, e il tipo di posizione (dominante o
dominata) in cui si trovano le persone coinvolte in questo scambio. Alla duplice
proposta espressa dalla comunicazione dell'uno, l'altro può rispondere sia
convergendo, sia divergendo da chi ha comunicato. Si può così creare una
complementarietà o una simmetria tra le persone coinvolte nello scambio.
In entrambi i contesti (richiesta bicchiere d'acqua tra mamma e figlio e tra
carcerato e carceriere), non cambia dunque la relazione di complementarità che
lega le due persone considerate, anche se cambia la finalità della posizione di
potere di B su A che, nel caso della prigione, ha lo scopo di controllare l'altro e non
di averne cura.
La situazione di simmetria avviene invece quando c'è un contrasto nella
definizione dell'equilibrio di potere espressa nella comunicazione. Si prenda una
vecchia coppia che ripete nuovamente la stessa discussione senza fine; anche se la
sequenza è caratterizzata sempre dal caso che nessuno dei due cede, la
conversazione va letta in maniera diversa, a seconda di dove venga posto il punto
di inizio del circolo vizioso della litigata.
Il modello della scuola di Palo Alto, considerando la comunicazione come una serie
di sequenze circolari, definisce l'interpunzione, cioè l'individuazione di un
determinato passaggio come punto di inizio di una sequenza, come un atto che si
pone a un livello superiore di potere; chi decide dell'interpunzione di una
sequenza comunica sulla comunicazione (meta comunicazione), cioè commenta e
spiega la comunicazione stessa; ad esempio nel caso della discussione ripetuta, la
simmetria non riguarda tanto il contenuto quanto il fatto che nessuno voglia
cedere all'altro il potere di parlare sulla loro comunicazione, scegliendo
un'interpunzione che cambi il senso di tutta la sequenza comunicativa.
A partire da queste posizioni teoriche, al scuola di Palo Alto ha sviluppato una
descrizione della comunicazione che permette di cogliere in che modo alcune
sequenze comunicative, siano non solo inefficaci ma anche pericolose per il
benessere stesso delle persone coinvolte.
Il caso più esemplari di queste situazioni comunicative patologiche è
rappresentato dal doppio legame (double blind), cioè da quella situazione in cui
una persona è sottoposta a un'ingiunzione paradossale cui non può comunque
adempiere, qualsiasi scelta compia, e non può sfuggire a tale ingiunzione perché
essa avviene all'interno di una relazione con l'altro che non può essere né rescissa,
perché la persona dipende da tale relazione, né commentata con una meta
comunicazione, perché la persona non possiede il livello di potere sufficiente per
farlo (esempio in classe fidanzata-fidanzato che lui vuole invitare amico lei vuole
andare a cena).
Tuttavia la definizione di comunicazione che questa scuola propone è così ampia
da comprendere al suo interno ogni tipo di scambio che possa essere interpretato
come segnale comunicativo da chi vi si trova coinvolto, fino a sostenere che la
semplice presenza di due persone in uno stesso ambiente sia sempre
comunicazione, dato che è impossibile sottrarsi all'interpretazione dell'altro.
A questo approccio omni-comprensivo si oppone una definizione più circoscritta,
che vede la comunicazione come la forma di interazione interpersonale che cerca
di trasmettere intenzionalmente un messaggio all'altro, e che non può arrivare al
suo effetto se l'altro non si pone intenzionalmente in ascolto. Ogni comunicazione
modifica la relazione tra i suoi protagonisti, nel bene o nel male, infatti è dunque
tramite la prevedibilità e regolarità degli scambi comunicativi intenzionalmente
costruttivi che le relazioni tra le persone si approfondiscono e portano a un'intesa
sempre più sintonica e creativa, che cambia e si rinnova; ma è ancora a causa della
ripetizione di comunicazioni intenzionalmente distruttive che le relazioni
interpersonali si sclerotizzando in circoli viziosi drammatici e si logorano ed
indeboliscono.
Capitolo 6 - Le relazioni nei gruppi

Tra produzione d'èquipe e dinamiche di gruppo


Nel 1927 Elton Mayo, venne incaricato di risolvere un problema fondamentale per
qualsiasi impianto industriale: come aumentare la produttività? Mayo affrontò la
questione attraverso uno studio sistematico condotto presso gli stabilimenti
Hawthorne, la cui organizzazione era strutturata secondo il paradigma taylorista
dei cosidetti tempi e metodi.
Tale impostazione è illustrata dagli studi condotti da Gilbreth, questi analizzò i
movimenti dei muratori al fine di incrementarne la produttività: l'autore
cronometrò ogni singolo gesto, avvalendosi di filmati ad hoc, distinguendo i gesti
inutili da quelli funzionali alla costruzione; proponendo così alcune soluzione
pratiche, in questa prospettiva il problema della produttività era legato a
rintracciare i gesti e le condizioni fisiche in grado di favorire la maggior produttività
Mayo si accorse tuttavia che la produttività era indipendente dalle condizioni
materiali; essa era piuttosto legata ad altri fattori motivazionali e sociali,
prettamente umani, come il sentirsi parte del gruppo, l'emergere di nuovi ruoli, la
capacità del gruppo di recuperare chi rimaneva indietro. Questo risultato fu alla
base del cosiddetto Human Relations Movement, approccio di ricerca e intervento
sviluppato nell'ambito della psicologia del lavoro, che contrappose allo studio dei
tempi e dei metodi le motivazioni psicologiche e psico-sociali dei lavoratori.
Se nell'ambito della psicologia del lavoro lo studio dei processi e delle realzioni
all'interno dei gruppi si evolve a partire dallo Human Relations Movement, in
psicologia sociale esso riceve un impulso fondamentale nella medesima direzione
ad opera degli autori gestaltisti. L'idea che il gruppo sia un insieme da considerare
unitariamente e che i comportamenti del singolo vadano interpretati alla luce
della sua posizione nel gruppo, non può che rimandarci ai principi fondamentali
della Teoria della Gestalt e in particolare al principio secondo il quale le proprietà
del tutto non sono equivalenti alla somma delle proprietà delle parti, e quindi le
proprietà di una singola parte dipendono dal tutto nel quale essa è inserita.
Trasferendo questo principio ai gruppi, Lewin definisce il gruppo come una totalità
dinamica basata sull'interdipendenza tra le parti.
 il gruppo è considerato come una totalità, insieme non riducibile alla
somma delle singole parti, non scomponibile alla somma dei
comportamenti.
 il gruppo è dinamico, cioè caratterizzato da una continua interazione in
grado di modificare forma, struttura, aspettative.
 il gruppo è basato sull'interdipendenza, sulla interazione tra gli individui;
in questo si differenzia dagli aggregati, insieme di individui che si trovano
nello stesso luogo allo stesso momento ma senza condividere legami, e
dalle categorie sociali, insieme di individui classificati secondo criteri
definiti a priori o esternamente al gruppo stesso.
Un aggregato può facilmente trasformarsi in gruppo nel momento in cui compare
una qualche forma di interdipendenza.
Per Sherif: il gruppo è una unità sociale che consiste di un insieme di individui i
quali, in un dato momento, si trovano in relazione di reciproca interdipendenza di
status e ruolo, e che, implicitamente o esplicitamente, possiedono un insieme
definito di norme e valori in grado di regolare il comportamento dei singoli
membri.
Elementi cardine sono: lo status, i ruoli e in particolare la leadership, le norme e i
valori, cui aggiungeremo le forme di comunicazione e i processi decisionali.

L'evoluzione del gruppo


Ciascun gruppo si presenta dotato di una propria particolare dinamica,
caratterizzata da periodi di stasi e periodi di cambiamenti. Eppure, nell'infinita
varietà è possibile individuare alcune fasi che contraddistinguono i piccoli gruppi,
siano essi equipe lavorative o gruppi informali.
Tra i tanti schemi, il group socialization model propone di leggere l'evoluzione del
gruppo attraverso il susseguirsi di 5 momenti cardine e ci aiuta ad inserire
l'evoluzione delle norme, la distinzione dei ruoli, l'emergere della leadership
Secondo Levine e Moreland è possibile considerare il rapporto tra individuo e
gruppo come una relazione dinamica, che segue nel tempo una evoluzione
sistematica. Il modello assume che questa dinamica sia riconducibile a tre processi
psicologici sottostanti: valutazione, commitment e transizione di ruolo.
Il processo di valutazione include tutti gli sforzi volti a individuare e rendere
massima la convenienza reciproca. La valutazione si evidenzia quando un individuo
sviluppa delle aspettative nei confronti di un determinato gruppo.
Il commitment indica l'impegno che lega reciprocamente individuo e gruppo e
dipende dal processo di valutazione così come dall'esperienza pregressa e dalle
possibili alternative future. La transizione di ruolo, si compie quando l'impegno
raggiunge un livello critico che richiede una ridefinizione del rapporto tra individuo
e gruppo e quindi una nuova valutazione reciproca.
La prima fase prevede un esame accurato del gruppo nei confronti di un
potenziale nuovo membro e viceversa. In questa fase il gruppo valuta se
procedere al reclutamento, mentre l'individuo esplora le potenzialità offerte dal
gruppo. Se la valutazione è positiva, l'impegno reciproco aumenta fino alla
transizione di ruolo (ingresso).
Nella fase di socializzazione vera e propria il gruppo cerca di assimilare l'individuo,
facendo si che esso adotti norme e valori comuni, e che contribuisca al
raggiungimento degli obiettivi del gruppo stesso; viceversa l'individuo eserciterà
un certo grado di influenza verso il gruppo proponendo mete e bisogni. Nella terza
fase, di mantenimento, il nuovo arrivato è ormai un membro del gruppo a pieno
titolo, con un ruolo definito che è funzionale sia al gruppo che al benessere
individuale. La fase di mantenimento prevede quindi il massimo grado di impegno
reciproco e può prolungarsi a lungo nel tempo; se la valutazione diventa non più
positiva la transizione successiva, comporta una ri-socializzazione, in cui si valuta
se è possibile ed utile sanare le divergenze, se questa fase non riesce l'individuo
fuoriesce dal gruppo.
Nell'ultima fase, quella del ricordo, il gruppo è impegnato nel ricordare il
contributo che l'ex membro aveva portato al gruppo, fino a farlo diventare parte
delle tradizioni del gruppo stesso. Il modello può diventare via via più complesso
se si inseriscono alti gradi di variabilità.
Pur nella sua versione basilare, il group socialization model consente di inserire i
temi delle norme e dei valori, dell'impegno reciproco dei ruoli, all'interno di una
dinamica temporale complessa.

Struttura, ruoli e status


Il group socialization model prevede che nel corso del tempo individuo e gruppo si
valutino reciprocamente; le variazioni nel tempo possono essere ricondotte alla
dinamica strutturale dei gruppi, cioè alla definizione e al mutare di staus e ruoli.
Il ruolo definisce la posizione che, ciascun individuo assume all'interno di un
gruppo (nei gruppi informali i ruoli emergono nel corso delle interazioni ma non
per questo non sono rilevanti o stabili). Possiamo quindi definire il ruolo come
l'insieme delle aspettative condivise circa i comportamenti attesi da ciascuno, a
seconda della posizione che costui ha nel gruppo.
I ruoli, consentono un certo grado di prevedibilità circa i comportamenti di ognuno
e quindi di nutrire delle aspettative sulle reazioni dell'intero gruppo nelle diverse
situazioni, e consentono di percepire il gruppo come un tutto ordinato e stabile.
I ruoli, tuttavia, non presentano solo vantaggi. Un primo elemento di complessità è
dovuto alla molteplicità di ruoli che ciascuno ricopre, e quindi alle diverse
aspettative che è possibile avere e a cui ognuno sente di dover corrispondere.
Altro elemento critico è che il contenuto, la rigidità, la permanenza nel tempo dei
ruoli comportano vincoli ai comportamenti individuali agiti e attesi che non sono
sempre favorevoli all'individuo o al gruppo.
Ruoli molteplici possono suscitare aspettative indebite e a volte discriminatorie
che emergono ad esmpio quando si sovrappongono le aspettative legate al ruolo
lavorativo e le aspettative legate a pregiudizi connessi al genere ed età.
Possiamo definire lo status come la posizione assunta in relazione alla gerarchia
interna al gruppo, e il prestigio il suo elemento cardine. In termini operativi, lo
status si identifica facendo spesso riferimento a due criteri: la valutazione
consensuale da parte dei membri e la capacità di proporre iniziative agli altri
membri del gruppo. Lo status definisce una gerarchi riconosciuta e relativamente
stabile nel gruppo, che può essere legata ai ruoli ricoperti o al potere formalmente
tenuto, determinandone obiettivi e comportamenti.
In conclusione ruoli e status contribuiscono, con altri elementi quali il grado di
prossimità spaziale tra i membri e le dimensioni del gruppo, a definire la struttura
del gruppo stesso.

Le norme
Le norme indicano quali comportamenti e atteggiamenti attendersi da tutti i
membri di uno specifico gruppo. Le norme possono essere considerate come
l'insieme delle aspettative condivise che è possibile nutrire nei confronti dei
membri di un determinato gruppo.
Oltre a definire l'uniformità, le norme definiscono il grado di devianza prevista.
Le norme prevedono il comportamento da attuare nei confronti del deviante
(sanzione), includendo in linea di massima una serie di tentativi volti al recupero,
quindi ostracizzazione ed infine espulsione dal gruppo. Chi devia dal
comportamento, inizialmente, riceve un numero maggiore di comunicazioni da
parte degli altri membri, destinate rapidamente a crollare o perchè il
comportamento rientra nella norma o perchè il soggetto viene escluso.
Le norme sono funzionali al raggiungimento degli obiettivi del gruppo, poiché
regolano i comportamenti dei suoi membri, al mantenimento del gruppo stesso e
alla definizione di una realtà coerente in cui i membri si muovono.
Elemento fondamentale che caratterizza le norme è che nascono dall'interazione e
si evolvono con l'evolvere del gruppo stesso, rimanendo in un equilibrio dinamico
tra cambiamento e conservazione. Una volta introiettate sotto forma di valori,
esse sono in grado di guidare il comportamenti individuale anche quando siano
assenti coercizioni o sanzioni dirette.
Esemplare è l'esperimento di Sherif sul movimento autocinetico. Sherif organizza
un esperimento basato sull'effetto autocinetico, un effetto ottico per cui un
puntino luminoso fisso, proiettato su una parete all'interno di una stanza
completamente scura, viene percepito in leggero movimento. Viene chiesto ai
partecipanti di stimare l'ampiezza di un movimento percepito ma inesistente.
Nella prima condizione la stima avviene individualmente, nella seconda condizione
la stima avviene dapprima individualmente e quindi in gruppo, nella terza la stima
del movimento avviene dapprima in gruppo e quindi in isolamento.
In assenza di un punto di riferimento oggettivo le persone tendono a definire una
propria scala e un proprio punto di riferimento come nella condizione individuale,
si definisce una norma personale, alla quale ci si attiene nelle successive prove per
definire l'ampiezza dell'oscillazione. - Nella condizione di gruppo i partecipanti
fanno riferimento gli uni agli altri, fino a definire un quadro di riferimento, una
norma comune a tutto il gruppo. In particolare nella seconda condizione
sperimentale si osserva che tale norma non è equivalente alla media delle norme
individuali precedentemente sviluppate ma è un nuovo valore che nasce
dall'interazione. Nella terza condizione sperimentale si osserva che la norma
stabilita in gruppo fornisce un punto di riferimento anche quando gli individui si
trovano, successivamente, da soli.
Le norme emergono dall'interazione, in particolare in situazioni di incertezza, e
una volta definite, esse forniscono un punto di ancoraggio fondamentale cui legare
successive valutazioni, scelte, comportamenti compiuti anche a livello individuale,
anche se non tutti gli individui esercitano lo stesso potere nella definizione delle
norme.

La leadership
La leadership è un fenomeno universale, riscontrabile in qualsiasi gruppo e ambito
culturale; differenti sono le modalità attraverso cui si manifesta.
Nella leadership è possibile distinguere almeno 4 direzioni fondamentali di
indagine: gli approcci personologici (1), che si sono soffermati sulle caratteristiche
del leader cercando di identificare elementi peculiari e tratti di personalità che
contraddistinguono il leader differenziandolo dalle persone comuni; i modelli che
hanno affrontato la leadership come processo (2), cercando di identificare diversi
stili di leadership e le conseguenze che essi hanno sul gruppo; i contigency models
(3), che tentano di identificare diversi stili siano più o meno efficaci a seconda del
variare delle situazioni contingenti; i modelli transazionali (4), che pongono in
primo piano il rapporto tra leader e seguaci e le funzioni trasformative e
motivazionali svolte da chi guida il gruppo.
Il leader è caratterizzato da uno status superiore agli altri membri del gruppo,
gode di maggior fiducia in se stesso, motivazione al raggiungimento degli obiettivi,
stabilità emotiva, credibilità, competenza, ecc. Più in generale i leader avrebbero
un quid definibile come carisma. Nonostate i lunghi elenchi di personalità,
l'approccio basta sul grande uomo (1), cioè sulle caratteristiche personali non ha
riscontrato successo. Ultimamente, si è fatta strada l'idea che sia possibile
identificare alcuni tratti di personalità predittivi dell'emergere e del successo della
leadership, tra i quali: estroversione, coscienziosità, apertura alle novità.
Se gli approcci personologici (1) sono di indubbio interesse e vicinanza alla
psicologia del senso comune, essi sono viziati; in particolare non chiariscono il
modo in cui determinate caratteristiche di personalità si manifesterebbero
nell'interazione quotidiana e se alcune caratteristiche facciano di quella persona
un leader o un leader apprendere quelle caratteristiche.
Una seconda direzione di indagine si sofferma sugli stili di leadership e sugli effetti
che essi hanno sul gruppo.
ESPERIMENTO. Gli studiosi di Lewin, organizzavano gruppi di lavoro di bambini
(nella costruzione di amschere di cartapesta) ed ognuno di questo gruppo era
guidato da un leader che rispecchiava u modo diverso di “imporre” una
leadership: autocratico, democratico, laissez- faire. I risultati sostengono che sia
possibile svolgere il ruolo di leader in modo differente e al tempo stesso indicano
che gli effetti sul gruppo non sono affatto trascurabili.
Il gruppo di bambini guidato dal leader laissez- faire mostrava la performance
peggiore, non erano in grado di produrre maschere ed il clima del gruppo era
pessimo. I risultati ottenuti dal leader autocratico erano ambivalenti: il gruppo
mostrava un altro grado di produttività, ma il clima tra i bambini non era ottimale;
essi mostravano dipendenza e scarsa soddisfazione, non assumevano iniziative
individuali e anzi interrompevano la produzione in assenza di un controllo
continuo da parte del leader. La leadership democratica, nella interpretazione
fornita dagli autori, era da preferire poiché garantiva non solo un'adeguata
produttività sul piano quantitativo, ma anche una buona qualità di maschere. I
bambini erano inoltre autonomi, soddisfatti e interessati a continuare al meglio il
compito.
Sebbene la ricerca di Lewin mostri numerosi limiti essa è fondamentale per due
motivi: in primis sposta il focus dell'attenzione dal leader al rapporto tra leader e
gruppo; quindi suggerisce di studiare non la leadership ma le leadership.
Più rilevante è la distinzione proposta da Bales e Slater tra due stili fondamentali di
leadership: centrato sul compito (task-oriented) e centrato sulle relazioni
(relationship-oriented).
Lo stile centrato sul compito si caratterizza per un interesse primario rivolto al
raggiungimento degli obiettivi del gruppo, all'organizzazione funzionale dei ruoli e
alla distribuzione delle mansioni al fine di massimizzare la produttività. Il leader in
questo caso è valutato in funzione della propria competenza e della capacità
organizzativa.
Un leader che adotta lo stile centrato sulle relazioni pone in primo piano il
benessere dei membri del gruppo, si concentra sul mantenimento dell'armonia e
si preoccupa di fornire sostegno emotivo agli altri membri del gruppo.
Elemento interessante di questo approccio è che esso prevede la possibilità che in
gruppo ci siano leader differenti, caratterizzati da stili differenti ed in grado di
assicurare: produttività e clima del gruppo disteso.
Fielder propone di descrivere ciascuna situazione, in particolare quella lavorativa,
in funzione di tre dimensioni fondamentali:
 qualità delle relazioni, ovvero il grado di accettazione del leader da parte
dei membri del gruppo;
 struttura del compito, ovvero il grado di definizione degli obiettivi da
raggiungere e delle procedure da seguire;
 potere del leader, ovvero quanto il leader sia in grado di imporre le
proprie decisioni, possa cioè esercitare la propria influenza non solo
convincendo gli altri, ma anche minacciandoli attraverso delle effettive
punizioni o blandendoli attraverso il potere di gestire delle ricompense
appetibili.
Il modello di Fielder prevede diverse possibilità di interazione tra i due stili
fondamentali, il modello suggerisce che uno stile centrato sulle relazioni sia
preferibile quando il compito è poco strutturato ed il leader è riconosciuto, ma
non può contare su un alto livello di potere; viceversa, uno stile centrato sul
compito è più efficace quando il compito è molto strutturato ed il leader si trova in
una condizione di potere, sia quando la situazione è particolarmente difficile.
Gli studi più recenti sulla leadership spostano l'attenzione sul rapporto tra leader e
followers. Hollander sottolinea come a differenza del potere, la leadership si
manifesti attraverso una attività persuasiva liberamente agita. Riconosce
finalmente, un ruolo attivo ai seguaci, dalle cui valutazioni deriva il credito di cui il
leader gode. Tale vantaggio è frutto di un attento esame da parte dei membri del
gruppo; tale valutazione ricopre 4 dimensioni fondamentali:
 adesione normativa, il leader deve mostrare un certo grado di
accettazione delle norme sviluppate dal gruppo;
 competenza, il leader deve dimostrare capacità in relazione al
raggiungimento degli obiettivi rilevanti per il gruppo;
 legittimità, il leader deve essere percepito come legittimo da parte dei
seguaci;

 identificazione, valutazione su quanto il leader si identifichi con il gruppo
stesso e quanto sia percepito esemplare delle caratteristiche identitarie
del gruppo.
La leadership così definita non è quindi un tratto stabile, ma un ruolo variabile
all'interno del gruppo e i leader riconosciuti come tali sono chiamati a rispondere
alle diverse richieste del gruppo per mantenere il proprio status.
I leader svologno una fondamentale funzione di promozione del cambiamento
guidando il gruppo nel tempo, questa funzione delicata è colta dai modelli della
leadership trasformativa. La leadership trasformativa si manifesta, secondo Bass,
attraverso 4 dimensioni fondamentali:
 influenza idealizzata (il leader è in grado di mettere in pratica
comportamenti ammirevoli e coerenti con la visione di gruppo, fino a
suscitare identificazione);
 motivazione ispiratrice (il leader è in grado di motivare i membri del
gruppo al raggiungimento di mete comuni);
 stimolazione intellettuale (il leader si propone come guida in grado di
incoraggiare l'indipendenza e la creatività dei seguaci);
 considerazione individualizzata (il leader mostra le capacità di rivolgere
adeguata attenzione ai bisogni individuali dei seguaci).

Comunicazione nel gruppo


ESPERIMENTO Zimbardo e Stanford. L'approccio disposizionale prevede che la
violenza nelle prigioni sia dovuta a caratteristiche intrinseche dei galeotti e delle
guardie: i primi sarebbero caratterizzati da una propensione all'aggressività e
all'impulsività, dal disprezzo per le leggi e l'ordine, i secondi da un animo sadico,
insensibile e non educato al rispetto dell'essere umano in quanto tale. Per vagliare
questa ipotesi l'autore organizzò una vera e propria prigione simulata all'interno
dell'università.
ESPERIMENTO DELLA PRIGIONE. Dopo pochi giorni dall'inizio dell'esperimento la
maggioranza delle comunicazioni tra detenuti era limitata alle condizioni della
prigione; i prigionieri assumevano i tratti di una sindrome caratterizzata da
passività, depressione, dipendenza, rassegnazione e autosvilimento. Per contro
l'impegno delle guardie andò ben presto al di là delle istruzioni ricevute. In un
crescendo creativo di angherie, le guardie insultavano i detenuti e si rivolgevano a
loro deindividualizzandole (numeri), punivano fisicamente i prigionieri (esempio
costringendoli a farli stare a mani alzate per lungo tempo) e li obbligavano a
comportamenti degradanti o a insultarsi l'un l'altro.
Per ottenere effetti e trasformare stabili studenti della classe media americana era
bastato:
 attribuire ruoli specifici con cui identificarsi;
 definire un differenziale di potere, inizialmente arbitrario e via via
autoalimentato dal crescente livello di ostilità da un lato e di
rassegnazione dall'altro;
 strutturare un ambiente adeguato sul piano psico- sociale in grado di
fornire legittimità alla situazione.
La forza fu tale che lo stesso studioso aveva assunto un nuovo ruolo, da
ricercatore a direttore della sua prigione, fino a quando una collega/fidanzate
non lo mise di fronte alle sue responsabilità etiche.
Una profonda revisione degli studi è stata proposta da Stephen e Reicher e
Alexander Haslam hanno organizzato nel 2001 una revisione dell'esperimento di
Zimbardo giungendo a conclusioni in parte differenti. Confermano la necessità di
superare spiegazioni esclusivamente disposizionali per includere l'analisi di
processi di gruppo e relazioni intergruppi.
I risultati osservati nel 2001 sono in aperte differenti, i carcerieri non riuscirono a
sviluppare un'identità sociale ben definita e fallirono nel compito di stabilire in
modo consensuale norme e priorità, presentendosi quindi come individui isolati,
ambivalenti e fragili nei confronti dei prigionieri; questi ultimi, per contro,
riuscirono a sviluppare forte identificazione, rispondendo allo stress individuale in
termini di un noi, e dimostrandosi in grado di contrastare come gruppo le guardie
fino a imporre prima un sistema egalitario nella prigione e quindi, al fallimento di
questo, un nuovo regime tirannico.
Il gruppo non si comporta in modo incontrollato, tanto le guardie quanto i
carcerieri si comportano sulla base di una identità sociale che assumono come
propria. Laddove fallisce la costruzione dell'identità sociale allora fallisce anche la
capacità di adottare norme e priorità comuni; laddove invece l'identità sociale è
saldamente sviluppata e adottata dai singoli, all'Io si sostituisce il Noi, con
conseguenze comportamentali differenti a seconda dei valori e delle norme di
riferimento.
Fu un ulteriore passo verso l'interpretazione dei fattori che favoriscono la tirannide
e l'estremismo: osservando le conseguenze del fallimento anche del sistema
egalitario instaurato nella falsa prigione, gli autori vedono proprio nell'incapacità
di sviluppare un sistema accettato da tutti, i fattori che favoriscono l'emergere e
l'accettazione di soluzioni estreme.

Gruoupthink
Il fenomeno del gruopthink rientra nella più ampia serie di processi invocati per
rispondere alla fondamentale domanda se il gruppo sia più efficace rispetto agli
individui nella presa di decisioni e nella risoluzione di problemi. L'efficienza
delle soluzioni elaborate in gruppo dipende dalla forma della rete di
comunicazione interna e dalla tipologia del problema.
Nella metafora della rete, oggi pervasiva, i nodi rappresentano i
comportamenti del gruppo e i legami rappresentano i canali di comunicazione
tra i membri. Le reti si distinguono sulla base di due indici quantitativi
fondamentali:
 distanza (numero minimo di legami che occorre attraversare per andare
da A a B);
 centralità (indica il numero di comunicazioni che passano tramite un nodo
della rete).
I componenti di una rete di comunicazione di forma differente sono
caratterizzati da diversi indici di distanza e centralità (DISEGNA GRAFICI PAG
169); l'individuo (fig. a) è centrale poiché tutte le comunicazioni devono
attraversarlo e dista solo un passaggio dagli altri nodi della rete, si può
facilmente identificare il quadrato come leader della rete centralizzata di tipo
(a); più complesso è identificare questo ruolo nelle altre reti.
Nell'esempio (b) la distanza è massima tra A e B, ma la distanza tra gli elementi è
variabile, e l'elemento che gode di maggior centralità è il nodo alla base della
biforcazione; nell'esempio decentralizzato a cerchio (d), tutti i nodi godono di
indici di centralità e distanza eguali.
Quale tra queste è più efficiente nel trovare la soluzione ad un compito?
ESPERIMENTO Per rispondere a questa domanda, in una serie di esperimenti,
Leavitt invitava dei partecipanti, in genere in un numero di 5, attorno a un tavolo
costruito in modo da variare, muovendo dei tramezzi, i canali di comunicazione
aperti o chiusi e quindi la forma della rete. Ogni cartoncino dei partecipanti aveva
6 simboli: alcuni erano comuni tra i partecipanti, ma solo uno era presente su
tutti i cartoncini distribuiti. Compito del gruppo era identificare il simbolo
presente su tutti i cartoncini. I risultati indicano che le reti centralizzate, come la
ruota (a), si dimostrano più efficienti rispetto a quelle decentralizzate: chi è in
posizione centrale può facilmente raccogliere le informazioni tra tutti i membri,
confrontarle fra loro e indicare la soluzione corretta.
Se si prendono in considerazione altri indici, le reti decentralizzate si mostrano
più interessanti. Se nelle reti centralizzate il leader mostra una soddisfazione e
un morale più alto, in quelle decentralizzate tutti gli individui si dimostrano più
soddisfatti del proprio contributo alla decisione del gruppo. Le reti centralizzate,
prevedono in genere un numero minore di comunicazioni ma un maggior
impegno cognitivo da parte di un singolo elemento che è chiamato a coordinare
tutte le informazioni; questo fa sì che esse siano più adatte a compiti semplici in
cui un singolo individuo può gestire l'intera informazione necessaria alla
soluzione del problema. Reti decentralizzate sono invece da preferire di fronte a
compiti più complessi o meno strutturati, in cui la circolazione della
comunicazione e la condivisione delle informazioni tra più persone è essenziale
per definire il problema e per affrontarne le diverse sfaccettature.
Proprio partendo da queste considerazione Jani propone di identificare un forma
particolare di processo decisione: il groupthink, ovvero una sindrome del
processo decisionale in cui i membri di un gruppo tralasciano la ricerca e la
valutazione di soluzioni alternative e potenzialmente preferibili giungendo a
scelte disastrose.

ESPERIMENTO la ricerca originale si basa sull'analisi di alcune decisioni disastrose


particolarmente rilevanti, tra cui la scelta di non rafforzare le difese prima
dell'attacco giapponese a Pearl Harbor, la decisione di Kennedy di autorizzare
lpinvasione di Cuba e lo sbarco nella Baia dei Porci, l'escalation militare in
Vietnam; confrontate con casi simili in cui le scelte si sono rivelate efficaci, come il
Piano Marshall e la soluzione dei missili su Cuba del 1962.
Le decisioni disastrose sono caratterizzate da alcuni fattori, che favoriscono i
processi di groupthink: l'elevata coesione del gruppo, l'isolamento dei decisori
rispetto al personale esperto, l'assenza di una leadership imparziale, la mancanza
di procedure decisionali metodiche, l'omogeneità ideologica dei membri del
gruppo e una forte pressione dovuta a minacce esterne. In queste condizioni
aumenta il rischio che i gruppi limitino la ricerca e l'analisi delle informazioni e si
rivolgano invece alla ricerca del massimo consenso interno.
I sintomi del groupthink sono molteplici ed includono ottimismo ingiustificato,
percezione di invulnerabilità e processi di evitamento, come autocensura,
formazione di stereotipo verso l'outgroup e l'emergere di credenze circa la
moralità intrinseca dell'ingroup.
Recenti revisioni sul tema del groupthink sottolineano che:
 è necessario distinguere tra qualità del processo decisionale e qualità della
decisione, poiché un processo scadente potrebbe portare a decisioni
corrette o viceversa, un processo ottimale potrebbe comunque essere
basato su informazioni scorrette o lacunose;
 la coesione del gruppo, fondamentale nel modello originale di Janis,
sembra avere effetti contrastanti: in alcuni casi i membri dei grupi non
coesi mostrano autocensura, in altri i gruppi coesi scoraggiano i
dissenzienti e percepiscono le richieste come meno rischiose;
 la presenza di una leadership autoritaria e sbilanciata, l'assenza di
procedure decisionali o la presenza di procedure scarsamente codificate e
la presenza di una forte pressione esterna sembrano effettivamente
favorire procedure decisionali scadenti e quindi, potenzialmente, decisioni
peggiori, ma le motivazioni su cui fanno leva questi fattori sono differenti.
Il groupthink, inteso come una sindrome caratterizzata dalla interazione tra
sintomi diversi piuttosto che la presenza contemporanea di tutti i sintomi
previsti, può essere visto come un costrutto interpretativo utile al fine di
riconoscere e quindi disinnescare le dinamiche che rischiano di attivarsi in gruppi
reali che siano chiamati a prendere decisioni importanti in poco tempo.

Le comunità pratiche
Con il costrutto di “comunità di pratiche,”, Wegner sposta l'attenzione dal prodotto
delle decisioni al processo di interazione che si sviluppa all'interno di gruppi reali.
Una “comunità di pratiche” non si limita a ricevere ed elaborare informazioni, ma
apprende tramite un processo collettivo a muoversi nel proprio ambiente.
Si tratta di un processo cooperativo attraverso cui i membri di un gruppo
apprendano e sviluppano congiuntamento un insieme di conoscenze pratiche in
grado di mediare culturalemte la sfera riservata alle azioni al fine di renderle
intellegibili e prevedibili. La prospettiva di Wegner si allontana dalle tradizioni
cognitive degli studi sul decision making per avvicinarsi decisamente alle
tradizioni interazioniste e costruzioniste che vedono nell'Altro generalizzato e nel
campo reciprocamente condiviso gli oggetti di studio della psicologia sociale.
Le comunità di pratiche sono caratterizzate da 3 dimensioni fondamentali:
 (1) un impegno reciproco. L'impegno reciproco prevede che i componenti
del gruppo si riconoscano come complementari, ma soprattutto realizzino
e condividano uno stesso contesto in cui obiettivi, contributi, interessi
personali siano negoziati e negoziabili e in cui siano legittimi tanto
l'accordo quanto la critica, in quanto fondati su riconoscimento e
coinvolgimento reciproco. Parole chiave sono: condivisione e
negoziazione.
 (2) un'impresa comune. L'impresa comune si riferisce al coordinamento
tra obiettivi individuali e obiettivi condivisi. La partecipazione a una pratica
collettiva prevede al tempo stesso l'impegno verso un fine condiviso e la
possibilità di perseguire contemporaneamente grandi e piccoli obiettivi
individuali. I partecipanti a una comunità di pratiche apprendono il
significato delle azioni che compiono, negoziano il significato delle proprie
finalità nel confronto con gli altri, riconoscono come legittimi gli obiettivi
condivisi ed individuali, purchè funzionali all'impresa comune.
 (3) un repertorio condiviso. I repertori condivisi sono l'insieme di
significati, gesti, abitudini, routine, parole condivise che consentono a un
gruppo di interagire in modo dotato di senso per i suoi membri. Non è
possibile coordinarsi ne identificare uno scopo comune se non si
condividono riferimenti culturali, significati, memorie condivise che diano
senso alle azioni di singoli e gruppi. Il repertorio condiviso costituisce il
terreno di incontro fra pratiche precedenti e nuovi obiettivi:
l'apprendimento diventa quindi un processo attivo di ricostruzione di
significati socialmente condivisi nella continua interazione.
Possiamo sottolineare che la comunicazione è elemento trasversale e
soggiacente ai punti sin qui affrontati. Essa è fondamentale nell'emergere delle
norme, è strettamente legata alla definizione di ruoli e status e, sotto forma di
capacità persuasiva, è centrale per l'identificazione del leader.
7. Pregiudizi, stereotipi e relazioni tra gruppi

La forza dell'identità sociale


Il tema dell'identità sociale è uno degli ambiti di studio più importanti della
psicologia sociale, sia perchè esprime bene quell'intersezione tra processi
individuali e dinamiche sociali, sia per le ricadute applicative che esso può avere su
importanti tematiche quali le relazioni intergruppi e la convivenza tra diversi.
Sviluppatosi grazie all'importante apporto di Tajfel e dei suoi allievi, questo filone
ha costituito uno degli aspetti qualificanti della reazione europea alla versione
troppo indivudalistica degli USA.
Una delle modalità fondamentali con le quali il nostro sistema cognitivo fa fronte
alla complessità del mondo e all'enorme quantità di stimoli che deve trattare è la
categorizzazione, vale a dire la tendenza a raggruppare gli oggetti della nostra
conoscenza in insiemi che vengono percepiti come equivalenti. Tali oggetti di
conoscenza possono essere oggetti fisici, ma anche concetti, eventi, idee e
persone. Lo scopo di questa operazione è quello di economizzare le risorse del
sistema cognitivo, rendendo più efficace e rapido il processo. Con la
categorizzazione si ottiene di non dover ripetere per ciascun singolo oggetto il
faticoso percorso di raccolta e valutazione delle informazioni, dal momento che ciò
può essere fatto con riferimento all'intera categoria.
Questo processo, ha tuttavia alcune conseguenze importanti e potenzialmente
rischiose: unificando gli oggetti, inevitabilmente si tende a perdere di vista le
specificità dei casi singoli, i quali di fatto si confondono nella categoria di cui fanno
parte. Si verifica in pratica un fenomeno che si definisce accentuazione percettiva,
che si può enunciare nel modo seguente: data una categorizzazione, si tenderà a
considerare più omogenei di quanto non siano in realtà gli oggetti inclusi nella
medesima categoria e più differenti di quanto non siano effettivamente gli oggetti
inclusi in categorie diverse. Occorre poi considerare una altro fato molto
importante, il giudizio che diamo di una determinata categoria di oggetti, e più in
generale la stessa operazione di categorizzare, solo in minima parte è frutto di
esperienza diretta, ma spesso le categorizzazione che diamo sono frutto di
processi di tipo sociale e culturale.

La categorizzazione come processo di costruzione sociale prendiamo d'esempio,


l'idea della corrente impressionista; più che come dato oggettivo si presenta
dunque come una costruzione sociale, utile allo scopo di semplificare
l'interpretazione ma che rappresenta l'esito sintetico di un complesso dibattito
storico.
Sta d fatto che una volta che una categorizzazione si è costituita, essa orienta la
nostra conoscenza, a partire dalla percezione degli oggetti. Se tutto questo è vero
per gli oggetti fisici, a maggior ragione varrà per quegli oggetti di conoscenza che
per noi sono le altre persone. Rispetto alle altre persone noi sentiamo fortissimo il
bisogno di avere elementi di giudizio rapidi ed efficaci, data l'importanza che ha
per noi la relazione sociale. D'altro canto però le persone sono un oggetto di
conoscenza molto complesso; è per questo che, nel rapportarci agli altri tendiamo
ad utilizzare massicciamente il processo di categorizzazione.
Il mondo sociale, in altri termini, ci appare articolato in insiemi omogenei di
persone unificate da un qualche tratto. Alcune di queste suddivisioni sono più
importanti e cariche di significato. Perfino aspetti marginali sono in grado di
diventare potenti elementi di identificazione collettiva.

Identità sociale ed autocategorizzazione


Il concetto di identità sociale costituisce il nucleo più importante del contributo
della psicologia sociale, intorno al quale si è sviluppato un ricco filone di studi,
denominato appunto Teoria dell'identità sociale. Seguendo Tajfel, possiamo
definire l'identità sociale come quella parte dell'immaginario ne di sé che ciascuno
ricava dalla consapevolezza delle proprie appartenenze. Ciascuno di noi pensa a se
stesso in parte considerando le proprie specificità, in termini di preferenze, abilità,
abitudini, sensibilità, le quali traggono origine dalla propria storia e dalla propria
irripetibile individualità. In parte, invece, ciascuno pensa a se stesso considerando
le proprie appartenenze, vale a dire trasferendo su di se le caratteristiche dei
molteplici gruppi e categorie sociali ai quali partecipa.
In questo senso si può parlare di autocategorizzazione ciascuno di noi tenderà a
individuare, in ogni momento della propria esistenza, il livello di categorizzazione
più idoneo a descrivere se stesso, facendo riferimento a differenti livelli di
inclusività, da quello più personale a quello dei sottogruppi e dei gruppi, fino a
quello più generale e sovraordinato dell'essere umano in quanto tale. Il passaggio
dall'uno all'altro livello avviene sulla base delle potenzialità che ciascun livello ha
di adattarsi in modo accurato alla specifica situazione.
Centrale è il concetto di depersonalizzazione: nella misura in cui una determinata
categoria diviene saliente, si tenderà a vedere sé stessi e gli altri come esemplari
intercambiabili della stessa categoria, tutti in qualche modo assimilabili al
prototipo della categoria stessa.
Una delle conseguenze è il fatto che tendiamo ad estendere ai gruppi e alle
categorie di cui facciamo parte l'intensa coloritura affettiva con la quale ciascuno
di noi pensa a se stesso, mettendo in atto strategie di innalzamento e salvaguardia
della propria autostima.
Si realizza, in pratica, un deciso favoritismo per il gruppo di appartenenza, definito
spesso, seguendo una tradizione sociologica, come ingroup, con corrispondente,
speculare tendenza a sfavorire il gruppo di non appartenenza, detto anche
outgroup.

Bias e comportamenti intergruppi


Della tematica del favoritismo per l'ingroup si sono occupate a lungo anche
l'antropologia e la sociologia, nell'ambito delle quali è stato sviluppato il concetto
di etnocentrismo.
Nell'ambito della psicologia sociale sono stati chiariti in dettaglio i processi mentali
attraverso i quali tale favoritismo si realizza, individuando una serie di “distorsioni”
sistematiche del giudizio che caratterizzano il nostro modo di pensare agli altri, e
che sono definite bias.
Un primo bias è collegato con il fenomeno dell'accentuazione percettiva.
Tendiamo pertanto a distinguere con maggiore difficoltà i singoli membri
dell'outgroup, che ci appare come un blocco unico, favorendo tra l'altro l'adozione
degli stereotipi, come vedremo meglio tra breve; mentre per l'ingroup siamo più
pronti a distinguere le specificità delle singole persone.
Una seconda importante bias riguarda i processi attribuzionali. Ricordiamo che
una delle strategie che usiamo per proteggere la nostra autostima è quella di
privilegiare l'attribuzione degli eventi positivi a cause interne, mentre tendiamo a
ritenere che gli eventi negativi siano dovuti a cause esterne.
Allo stesso modo, dato il forte investimento affettivo che facciamo a favore
dell'ingroup, tenderemo più spesso ad attribuire i comportamenti positivi di un
membro dell'ingroup ai suoi meriti, mentre i suoi comportamenti negativi
vengono attribuiti a cause esterne, magari accidentali. Al contrario, nel caso di
membri dell'outgroup, i fatti positivi saranno ricondotti più probabilmente a cause
esterne mentre i fatti negativi saranno imputati più spesso a cause interne.
Da ciò può derivare una condizione psicologica di disagio detta ansia intergruppi,
cui corrisponde un'attivazione generalizzata di difese, una minore attenzione per i
possibili vantaggi che potrebbero derivare dall'interazione, e una minore
disponibilità ad approfondire la relazione sul versante personale.

Il comportamento intergruppi
Si può dire che nel momento in cui ci troviamo a interagire con una persona che
appartiene a gruppi diversi dal nostro tenderemo ad attivare specifiche modalità
di percezione, valutazione, azione definite nel complesso comportamenti
intergruppi. Questo non si verifica solo in presenza di un effettivo incontro tra 2
gruppi, ma anche nell'incontro tra due singole persone, allorquando le reciproche
appartenenze risultino salienti e siano in grado di attivare di conseguenza bias
cognitivi.
Tajfel ha definito il primo tipo di incontro relazione interindividuale e il secondo
tipo relazioni intergruppi, e ha suggerito di considerare tali relazioni non come
un'alternativa dicotomica, bensì come i due estremi di un continuum.
Intorno a questi temi si è andata strutturando nel tempo una ricca tradizione di
ricerca empirica, che ha esplorato le modalità concrete con le quali si struttura la
relazione intergruppi e le condizioni nelle quali si realizza una maggiore o minore
conflittualità.
Come nel caso del pregiudizio, anche rispetto alle relazioni tra i gruppi sono state
utilizzate e messe alla prova le diverse teorie che hanno nel tempo strutturato lo
sguardo psico- sociale sul comportamento umano.

Muzafer Sherif e gli esperimenti nei campi estivi.


Sherif è uno dei primi psicologi sociali a porsi il problema di studiare la relazione
tra gruppi come una condizione sociale specifica, che necessita quindi di chiavi
interpretative differenti sia rispetto ai processi individuali sia anche rispetto ai
processi che si realizzano all'interno di un gruppo.
Gli studi costituiscono un punto di riferimento molto importante. Le tematiche
non erano nuove ma era la prima volta che venivano studiate con una ricerca
empirica rigorosa.
La maggior parte di questi esperimenti furono condotti in campi estivi con la
partecipazione di ragazzi di 11-12 anni. I ragazzi che non avevano legami tra loro
venivano condotti in un campo estivo (in realtà laboratorio). Si osservano le
diverse fasi in cui si andava strutturando il sistema di relazioni sociali. A seguito
della prima fase, nella quale si era osservato lo sviluppo delle amicizie personali,
gli sperimentatori provvedevano a creare artificialmente dei gruppi, avendo
l'accortezza di mettere in gruppi diversi i ragazzi che avevano mostrato attrazione
reciproca. Nella fase successiva si sollecitava la formazione di un'identità di
gruppo. In questa fase si poté osservare la nascita di una struttura del gruppo. A
questo punto i ricercatori fecero entrare in contatto i gruppi, mettendoli in
competizione tramite gare di vario genere, con una posta in palio.
Immediatamente i gruppi iniziarono a sviluppare modi diversi di ostilità reciproca
raggiungendo forme anche di aggressività. All'aumento della conflittualità con
l'altro gruppo corrispondeva peraltro un aumento della coesione e della
cooperazione interna al gruppo e anche una ristrutturazione dell'organizzazione
interna al gruppo. Una volta instaurato il clima competitivo, i ragazzi tendevano a
percepire gli eventi in modo da favorire comunque nel giudizio il proprio gruppo, e
a valutare complessivamente in maniera più positiva i membri del proprio gruppi
in termini di abilità e di gradevolezza personale.
Fu posto quindi di studiare l'efficacia di diverse strategie per la riduzione della
conflittualità. In un primo tempo si provò a verificare l'effetto di un semplice
aumento delle occasioni di incontro, ma questa strategia non sortì alcun effetto
positivo; al contrario, i gruppi approfittavano delle occasioni di incontro per
esasperare ancora di più l'ostilità reciproca. Un reale miglioramento delle relazioni
si ottenne solo quando i gruppi furono messi nelle condizioni di perseguire degli
scopi sovraordinati, rispetto ai quali i due gruppi possono considerarsi
interdipendenti, nel senso che il loro raggiungimento può avvenire solo attraverso
un'efficace cooperazione tra i due gruppi.
Diversi fattori possono essere ipotizzati allo scopo di celebrazione dell'ingroup: si
può pensare che l’individuo si senta in obbligo di lealtà verso il proprio gruppo,
essendo legato ad esso da vincoli di solidarietà o di affetto, oppure che pensi di
poterne ottenere vantaggi o tema di riceverne sanzioni, oppure semplicemente
perchè riconosce i membri del gruppo come più simili a sé e dunque si identifichi
in essi.

Tecnica dei gruppi minimi


Venivano costituiti artificialmente dei gruppi che non avevano nulla di ciò che
normalmente costituisce e caratterizza un gruppo. Venivano divisi in base a un
criterio irrilevante o palesemente arbitrario. A ciascuno veniva notificata la propria
appartenenza al gruppo, ma non la composizione del gruppo, sicchè i singoli non
sapevano chi ne faceva parte. Successivamente veniva data loro la possibilità di
disporre tra i partecipanti una serie di ricompense, utilizzando una speciale
matrice che consentiva di premiare sia un membro del gruppo sia l'altro
contemporaneamente. Le matrici utilizzate erano costruite in modo da rilevare la
forza relativa delle diverse possibili strategie in base alle quali i partecipanti
distribuivano le risorse. Una prima strategia, detta del massimo profitto comune,
poteva consistere nello scegliere la coppia di retribuzioni che fosse più alta come
totale, e che dunque, a prescindere dalle appartenenze dei due membri in
questione, consentisse al gruppo complessivo di massimizzare il proprio vantaggio
nei confronti degli sperimentatori. Fu la meno utilizzata, veniva invece
sistematicamente preferita una strategia alternativa, detta del massimo profitto
del gruppo di appartenenza, che mirava invece a favorire il profitto dei membri del
proprio gruppo, anche se a discapito del profitto comune. La strategia di
favoritismo per l'ingroup veniva perseguita anche quando la matrice era costruita
in modo tale che il vantaggio per il membro dell'ingroup sul membro
dell'outgroup, corrispondesse a un oggettivo svantaggio per lui in termini assoluti.

La forza degli stereotipi e pregiudizi


Una delle conseguenze più rilevanti del peso che ha la dimensione collettiva nella
strutturazione del nostro sguardo sul mondo è il fatto che nel rapportarci a
persone che appartengono a categorie e gruppi diversi dai nostri si tende a
operare generalizzazioni indebite e ad emettere giudizi affrettati o poco sostenuti
da fatti, il che si traduce in comportamenti discriminatori.
Il pregiudizio infatti può essere visto, oltre che come un grave problema sociale,
anche come un fallimento della nostra razionalità e della nostra capacità di
conoscere il mondo in modo efficace ed
è per questo che il tema è stato da sempre al centro dell'interesse della psicologia
sociale. Intendiamo per pregiudizio il fenomeno nel suo insieme, nel quale si
possono distinguere diverse componenti e diverse modalità di manifestazione.
Definendo il pregiudizio come la tendenza a vedere in modo sfavorevole le
persone appartenenti a gruppi diversi dai nostri, possiamo riconoscere le 3
classiche componenti: cognitiva, affettiva e comportamentale.
La dimensione cognitiva è costituita dalle informazioni che possiedono nei
confronti della persona in questione; la dimensione affettiva dalla disposizioni
positive o negative, dalle emozioni che l'oggetto mi suscita; la dimensione
comportamentale dalle azioni concrete che intraprendo.
Lo stereotipo corrisponde alla dimensione cognitiva del pregiudizio, mentre la
discriminazione ne rappresenta la dimensione comportamentale, il tutto basato su
una coloritura affettivo-emozionale.
Secondo le teorie che valorizzano la base biologica del comportamento, il
pregiudizio e in generale l'ostilità nei confronti di quanti appartengono a gruppi
diversi dal proprio costituisce una risposta adattiva, volta a favorire
l'identificazione e la cooperazione con i propri simili e il riconoscimento dei
possibili nemici, che potrebbero minacciare la propria sopravvivenza o competere
per le risorse. Insieme all'aggressività, l'ostilità nei confronti del diverso
costituirebbe un tratto originario della specie.
Secondo la teoria comportamentista l'ostilità nei confronti dei diversi, può essere
interpretata come una risposta appresa, che l'individuo ha imparato a considerare
vantaggiosa essendo stata associata, nella sua storia personale, a significative
ricompense, questo tipo di spiegazione accentua maggiormente il ruolo
dell'ambiente, evidenziando il peso dei percorsi di socializzazione e delle diverse
forme di apprendimento sociale.
Secondo l'ottica psicoanalitica il pregiudizio esprime la tendenza a proiettare sui
soggetti più deboli, con un tipico meccanismo di difesa, gli aspetti negativi di sé e i
lati oscuri della propria personalità. Inoltre, secondo quella che è nota come Teoria
della frustrazione- aggressività, tali soggetti più deboli svolgono spesso il ruolo di
capro espiatorio. Più in generale, il pregiudizio può essere visto come una
inconscia paura del diverso (detta xenofobia) le cui radici possono essere
rintracciate nel trauma originario dell'espropriazione da parte dei fratelli, tradotto
nell'inconscio sociale come timore che lo straniero ci privi delle nostre risorse
vitali.

Pregiudizi e stereotipi come strumenti cognitivi


L'interpretazione cognitiva si basa sull'idea che il pregiudizio rappresenti
sostanzialmente un potente strumento di semplificazione dei nostri processi di
conoscenza. Gli stereotipi si collegano direttamente a questo processo: una volta
individuato un gruppo sociale, si tende a considerarlo come un tutto omogeneo, e
ad associare a esso un'insieme di caratteristiche (fisiche, psicologiche e
comportamentali) che lo identificano in quanto entità sociale riconoscibile. Ciò è
particolarmente evidente nel caso degli stereotipi legati alle appartenenze etnico-
culturali o nazionali: anche se non abbiamo esperienza diretta di rapporto,
ciascuno di noi nutre una serie di convinzioni e aspettative rispetto, ad esempio, a
come sono i tedeschi, i cinesi, i filippini, i musulmani o i protestanti, in termini di
tratti di personalità, motivazioni, valori, modalità di comportamento. Ma ciò vale
anche per qualsiasi altro criterio.
Tale conoscenza preventiva, risulta utile per rendere più facile e veloce
l'interazione con loro. Naturalmente per ogni categorizzazione, a fronte del
vantaggio, si paga il costo di una minore accuratezza nella percezione del caso
singolo, le cui caratteristiche vengono assimilate a quelle della categoria in
questione. Si può dire che stereotipi e pregiudizi si possono considerare come
strumenti ordinari di funzionamento della mente: fermo restando la necessità di
combatterli, non si può non riconoscere che essi si fondano su principi che si
possono considerare normali, dei quali occorre capire il ruolo e l'importanza,
anche proprio al fine di essere consapevoli della loro forza e poterli quindi
contrastare con maggiore efficacia.
Proprio da tale funzionalità a fini cognitivi deriva uno degli aspetti più interessanti,
vale a dire la loro relativa rigidità e resistenza al cambiamento.
La spiegazione cognitiva risulta interessante ma va integrata anche con una
prospettiva diversa. Pregiudizi e stereotipi vanno letti in quanto modalità di
rapporto con gli altri, codificate in modelli culturali e in specifiche forme
linguistico-discorsive, che non sono un modo di esprimere uno stato mentale
interno, ma costituiscono la vera sostanza di questi fenomeni, che non possono
essere compresi in astratto.
Di particolare interesse è l'enfasi sul linguaggio e sulle pratiche discorsi, l'etichetta
con al quale ci riferiamo a una certa categoria non rappresenta semplicemente
una convenzione linguistica arbitraria e neutra, che si raggiunge per scopi pratici a
una categoria “oggettivamente” esistente, ma rappresenta per certi versi la stessa
ragion d'essere della categoria.
Si passa da una concezione del pregiudizio in quanto atteggiamento individuale al
pregiudizio in quanto pratica discorsiva, usata per leggere il mondo all'interno di
un preciso contesto di relazioni sociali, e l'attenzione si sposta dai processi mentali
alle modalità di costruzione, riproduzione e trasmissione di quelli che vengono più
utilmente concepiti come dei repertori interpretativi.
Di pregiudizi e stereotipi si coglie innanzitutto la natura di strumenti retorici. Essi
vanno letti non in quanto limiti dell'individuo, tanto sul piano cognitivo quanto su
quello etico, bensì come elementi strutturali di un certo contesto, con un preciso
ruolo di risorsa ideologica necessaria a legittimare un determinato sistema di
rapporti sociali.
Pregiudizi e stereotipi possono essere compresi solo nel più generale quadro dei
diversi discorsi nel quali si articola la vita sociale.
In questo caso, il modo in cui si concettualizzano le minoranze, l'insieme degli
attibuti che si suppone le caratterizzino e in generale lo stile delle relazioni tra i
gruppi possono essere visti come il risultato di processi sociali di costruzione della
conoscenza, sedimentati in pratiche di interazione discorsiva. Il linguaggio e le
pratiche discorsive non si limitano a descrivere una categoria sociale, ma la
creano. Grande attenzione deve essere posta al ruolo dei mezzi di comunicazione
di massa, che rappresentano il terreno concreto nel quale avviene tanto la
costruzione e la riproduzione di tali strumenti retorici quanto il loro utilizzo
concreto a fini di definizione e negoziazione della propria posizione nell'arena
sociale; i mezzi di comunicazione sono giustamente considerati come il luogo
privilegiato nel quale si strutturano le grandi narrazioni sociali su questi temi.
Molte delle riflessioni si sono concentrate sulle appartenenze etnico-culturali, a
partire dall'antichissima e dolosa contrapposizione tra bianchi e neri,
particolarmente negli USA. Questo tema risulta delicato, non solo per le sue
rilevanti implicazioni sociali, ma proprio per il fatto che l'appartenenza etnico-
culturale porta con sé differenze a volte anche molto marcate nelle visioni di
mondo, negli stili di comportamento.
Il pregiudizio rappresenta l'espressione della distanza che si sente tra il proprio
mondo culturale e i modelli di cui sono portatori gli altri, i quali sono percepiti
come potenziali nemici da cui tenersi a distanza o come persone che non ci
possono realmente capire.
Particolarmente rilevante, oltre l'appartenenza etnico-culturale, a questo
proposito è il genere, che risulta essere per ciascuno di noi un potentissimo
riferimento identitario e una costante mediazione della nostra esperienza del
mondo, e che d'altro canto risulta fortemente caratterizzato in chiave di
costruzione culturale e di stereotipi. Il genere costruisce una delle più immediate e
spontanee modalità di classificazione delle persone, che entra a condizionare la
conoscenza degli altri e quella verso di noi. Si può dire che uno degli elementi di
tale conoscenza è proprio la misura in cui la persona che incontriamo si adegui
oppure si discosti dai tratti e caratteristiche del suo genere. Tali aspettative,
configurate come elementi di un preciso stereotipo di genere, corrispondono a
ruoli codificati da tempo nella nostra società e antica distribuzione dei compiti e
delle responsabilità che vede gli uomini orientati verso l'azione nel mondo e le
donne orientate alla famiglia e alla cura.
Il contributo che la psicologia sociale può dare a questo tema si focalizzerà da
un alto sui processi di produzione e riproduzione dei sistemi di aspettative
legate al genere, e dall'altro sulle conseguenze che può avere la persona per le
sue percezioni ed azioni.
Nel momento in cui ci troviamo di fronte a precise aspettative nei nostri
confronti è possibile che tenderemo ad agire in modo corrispondente ad esse,
dal momento che riceveremo sollecitazioni specificamente orientate ad esse, dal
momento che riceveremo sollecitazioni specificamente orientate in quella
direzione e che l'interazione risulterà complessivamente e consensualmente
organizzata intorno a quel nucleo di senso. Facendo parlare degli uomini con
delle donne mai viste al telefono ed avendo visto solo una loro foto, attraente o
poco attraente, il risultato fu che le donne al telefono, non consapevoli della
procedura né del tipo di immagine che i loro interlocutori avevano davanti,
tendevano tuttavia a comportarsi in modo più amichevole allorquando gli uomini
erano convinti di star parlando con una donna più attraente, adeguando dunque
il loro comportamento alle modalità di interazioni messe in atto dagli
interlocutori.
Una linea di ricerca molto diffusa ha esplorato la dimensione in qualche modo
automatica delle risposte indotte da pregiudizi e stereotipi, utilizzando il
paradigma del priming semantico; alcuni partecipanti vengono esposti a uno
stimolo collegato a un gruppo oggetto di pregiudizio o che richiama comunque
problematiche di relazioni intergruppi, mentre gli altri partecipanti non sono
esposti a tali stimoli o sono esposti a stimoli neutri. Dopo la stimolazione, si chiede
ai partecipanti di svolgere un compito nel quale si possono individuare indizi di
pregiudizio; i risultati mostrano che le persone sottoposte al priming esprimono
livelli anche impliciti di pregiudizio o di condivisione degli stereotipi più alti
rispetto alle persone che non sono state sottoposte al priming. Altro esperimento:
A partecipanti bianchi veniva presentata, con funzione di prime, la visione rapide
della parola bianca o nero, seguita immediatamente da un aggettivo positivo o
negativo, oppure da un aggettivo corrispondente agli stereotipi dei bianchi e dei
neri, con la richiesta di dire il più rapidamente possibile se l'aggettivo in questione
fosse o meno adatto a descrivere la persona. I tempi di reazione mostravano una
maggiore velocità di risposta nel caso di apparizione del prime con aggettivi
corrispondenti agli stereotipi, oppure con aggettivi rispettivamente positivi e
negativi, mentre si riscontravano tempi di risposta più lunghi nel caso di non
corrispondenza tra il prime e il tipo di aggettivo sottoposto a giudizio. Ciò
dimostrerebbe che gli stereotipi, e più in generale la dinamica ingroup- outgroup,
sono in grado di agire a livello molto profondo e automatico, al di fuori della
consapevolezza e del controllo delle persone.
Queste ricerche sono la prova dell'utilità del modello cognitivo nello studio dei
fenomeni mentali, dimostrando il radicamento a livello profondo, quasi biologico
del favoritismo per l'ingroup. Secondo altri invece, questo tipo di risultati si
limitano a mostrare la forza e la pericolosità di questi meccanismi, ma non ne
spiegano l'origine.
Da un punto di vista costruzionista e culturalista, invece, si sostiene che solo
un'analisi delle modalità di elaborazione e condivisione degli stereotipi potrà
portare a una vera comprensione della loro natura e del loro profondo
radicamento nei processi automatici.

Le forme meno visibili di pregiudizio


Anche al di là dello specifico terreno delle risposte automatiche, molte ricerche
hanno rivelato l'esistenza di diversi livelli di radicamento del pregiudizio. AL
riguardo ricordiamo la distinzione introdotta da Pettigrew e Meertens tra
pregiudizio manifesto e pregiudizio sottile: il primo corrisponde alla forma classica,
ed esprime in maniera aperta e diretta l'ostilità, mentre il secondo, che si sta
diffondendo sempre più nelle società moderne, si esprime in modo più nascosto,
indiretto, non intenzionale, e in forme apparentemente compatibili con le norme
della convivenza civile e con i valori socialmente accettati di uguaglianza e pari
dignità, in modo da consentire alle persone di mantenere una positiva immagine
di sé.
Parte essenziale sarebbe la tendenza a sopravvalutare le differenze culturali di altri
gruppi, insieme alla tendenza a sopravvalutare le differenze culturali di altri gruppi,
insieme alla tendenza a difendere fortemente i valori tradizionali della propria
cultura.
Il pregiudizio si può esprimere anche i comportamenti in sé positivi, come la
tendenza a sostenere più del necessario i membri delle minoranze, quasi che non
li si considerasse sufficientemente abili o autonomi, o a riconoscere che anche tra
le minoranze esistone persone più o meno capaci, oneste e meritevoli.

Il pregiudizio nelle pratiche comunicative


E’ evidente che la forma più diffusa, sottile ed inconsapevole di pregiudizio è
quella sedimentata nel linguaggio e nelle pratiche discorsive. È attraverso il
linguaggio che il pregiudizio diventa elemento condiviso nel senso comune,
perdendo il suo tono di ostilità esplicita ed assumendo i caratteri di una
spiegazione ordinaria e banalizzata che diviene parte della vita quotidiana.
(uso del maschile al posto del neutro, ormai interiorizzato anche dalle donne nelle
pratiche comunicative).

L'incontro tra i gruppi e tra le culture


Tutto il patrimonio di conoscenze che la psicologia sociale ha sviluppato su questi
argomenti ha trovato applicazione ai fini dela comprensione di ciò che accade
quando le persone appartenenti a gruppi e culture diversi si incontrano.
Su questo tema si sono confrontati l'approccio cognitivo e l'approccio
costruzionista: da un lato l'idea che il rapporto tra diversi possa essere interpretato
alla luce di basilari processi di risparmio di risorse cognitivie, dall'altro l'idea che il
rapporto tra diversi sia in primo luogo un rapporto tra differenti mondi culturali e
universi di senso.
Uno degli interrogativi di fondo è quali possono essere le conseguenze
dell'incontro tra appartenenti a gruppi e culture diversi sul clima dell'interazione e
sulla qualità dei rapporti reciproci: due posizioni si sono sempre confrontate, una
che vede l'incontro come fonte di un possibile miglioramento delle relazioni, dal
momento che l'interazione è occasione per migliorare la conoscenza reciproca e
per superare pregiudizi; l'altra che ha evidenziato come l'incontro possa invece
innescare, una radicalizzazione dei pregiudizi e un inasprimento della
conflittualità. Intorno a questi temi si è sviluppato il filone del contatto
intergruppi. Allport ha steso una sorta di elenco di condizioni che il contatto deve
rispettare affinchè l'esito possa essere positivo; tra queste il fatto che i due gruppi
si sentono di status simile, che l'interazione sia costante, autentica e approfondita,
che ci sia una cooperazione per obiettivi comuni, che ci sia un clima culturale e
istituzionale che incoraggia e sostiene una relazione positiva.
La maggior parte delle teorie sul contatto intergruppi ha individuato strategie
operative tese a manipolare la percezione dei confini categoriali e le modalità di
appartenenza delle persone alle categorie sociali, nell'ottica del raggiungimento di
un possibile miglioramento della condizione. Sono state identificate 3 possibili
strategie:
 la de-categorizzazione: viene ridefinita le caratteristiche distintive
dell'appartenenza degli individui ad un gruppo;
 la ri- categorizzazione: viene ridefinita l'appartenenza categoriale delle
persone facendole sentire parte di un insieme più grande che le
accomuna;
 la sub- categorizzazione: viene favorita l'individuazione, all'interno della
più ampia categoria dell'outgroup, di diverse sotto- categorie, che possono
essere considerate più o meno corrispondenti agli stereotipi e dunque
vissute come più o meno distanti da sé.
Tutte queste strategie sono accomunate dalla finalità di rendere meno visibili, o
comunque meno importanti per l'individuo, i confini categoriali che definiscono le
sue appartenenze. Molto utili, ma si sono dimostrati delle volte poco efficaci
rispetto ad uno specifico obiettivo, cioè quello che il miglioramento della
condizione non riguardi solamente il singolo con cui si ha esperienza di contatto
ma verso l'intero gruppo.
In pratica, annullare o sfumare i confini categoriali può avere l'effetto positivo di
ridurre la conflittualità nell'immediato e rispetto a specifiche persone, ma nel
contempo può impedire che questo effetto positivo si generalizzi all'intero gruppo
e più in generale risultare disfunzionale rispetto al nostro bisogno di affermare e
sostenere la nostra identità sociale.
Per ovviare a questo problema sono stati sviluppati modelli interpretativi che
mirano a ridurre gli aspetti negativi del confronti intergruppi senza ridurre la
percezione dei confini categoriali:

– Mutua differenziazione intergruppi: le persone si incontrano nella convinzione


che ciascuno dei 2 gruppi riconosce all'altro legittimità ad esistere e riconosce
elementi di specificità ed in alcuni campi, di superiorità al proprio e all'latro
gruppo.

– categorizzazione incrociata: viene messo in evidenza il fatto che ciascuno


appartiene simultaneamente a molte categorie diverse, in relazione alle molteplici
dimensioni che si possono considerare. Risulterò meno problematico quell'aspetto
specifico che genera il problema. Si tratta di rendersi conto che l'identità sociale,
non è un costrutto molitico, univocamente dato, legato a poche caratteristiche
permanenti, bensì un costrutto complesso, articolato in molteplici dimensioni, che
si realizza anche con le posizioni e i ruoli che gli individui ricoprono nella società e
con i significati condivisi associati a tali posizioni.

Da quando nella psicologia sociale si è fatta strada l'idea della stretta


interdipendenza tra processi psicologici e dinamiche culturali, è apparsa sempre
più evidente che l'incontro tra i gruppi è per certi aspetti ogni volta un incontro tra
le culture di cui le persone e i gruppi partecipano.
La più importante delle possibili dimensioni di differenza, è quella che si basa
sull'origine etnico-culturale, con le sue molteplici possibili implicazioni in termini
di lingua, religione, nazionalità ma anche usanze e pratiche di gestione della vita.
Storicamente, i modelli hanno oscillato tra due polarità distinte: un primo modello
è quello della fusione, ben semplificato nella metafora del melting pot che agli inizi
del 900 accompagnava con grande ottimismo i massicci processi di immigrazione a
partire dai quali si è costituita l'attuale popolazione degli USA.
L'altro modello è quello dell'assimilazione, secondo il quale ci si aspetta che le
minoranze si integrino nel mondo culturale della società che le accoglie,
assumendone la lingua, valori, stili di comportamento, e in pratica annullando o
attenuando di molto il proprio bagaglio culturale di provenienza, un annullamento
delle diversità.
Questi due modelli sono molto diversi, tuttavia sono accomunati dal fatto che per
entrambi, l'esito del processo è un annullamento delle diversità (come risultato di
fusione o assimilazione). Tale annullamento sarebbe poco compatibile con la
fondamentale esigenza di garantire e proteggere la propria identificazione di
gruppo; ed è per questo che sono stati sviluppati modelli alternativi, come il
modello della multiculuralità.
Secondo questo modello, la società contemporanea si caratterizza sempre più in
termini di convivenza fra le diversità, che devono dunque imparare a riconoscersi e
ad accettarsi reciprocamente, elaborando idonei i sistemi di regole, anche di tipo
istituzionale, ma soprattutto sviluppando una disposizione o “competenza” a
considerare i propri modi di essere e di vedere il mondo come relativi e dunque,
riconoscendo la stessa valenza alle altre identità culturali. La metafora che si usa è
quella della salad bowl, elementi separati e distinguibili ma uniti insieme. Alla base
del multiculturalismo c'è spesso un'idea delle culture in quanto insiemi definiti e
stabili, omogenei al loro interno e separati da confini netti e impermeabili, in
un'ottica alquanto simile a quella perseguita dalla psicologia cross-culturale, e di
conseguenza l'idea dell'identità sociale come qualcosa di altrettanto
univocamente definito, espressione diretta di appartenenze tendenzialmente
immutabili.
Ma occorre probabilmente superare questa visione multiculturale in direzione di
quella che è stata definita interculturalità la quale sposta l'attenzione dal
momento della conservazione al momento dell'innovazione, focalizzandosi sulla
responsabilità e creatività individuale.
Nel modello del multiculturalismo ciascuno vive nel suo spazio con scarsa o nulla
contaminazione, e la convivenza pacifica si esprime nella reciproca tolleranza. Nel
modello interculturale l'ibridazione diventa la sostanza stessa dei processi
culturali, realizzano la propria potenzialità nel continuo adattamento, e l'identità,
frammentata e molteplice, diventa un terreno di negoziazione delle
trasformazioni culturali in un incessante processo di assegnazione di senso.
Secondo Berry l'esito di tale condizione risente del modo in cui si incrociano due
variabili: il valore che si assegna al mantenimento delle proprie tradizioni (I) e il
valore che si assegna alle relazioni con gli altri gruppi (II): 4 sono le possibilità, le
due possibili modalità di incontro, vale a dire il mantenimento delle proprie
tradizioni e il contatto con la cultura maggioritaria, non sono considerate come
eventualità alternative, e dunque l'assimilazione, con conseguente rinuncia alle
proprie tradizioni, non è considerata come l'unico possibile risultato di un
contatto efficace e soddisfacente.
(I) alto (II) alto: integrazione; (I) basso (II) alto: assimilazione; (I) alto (I) basso:
separazione; (I) basso (II) basso: marginalizzazione.
Questo modello è stato applicato diffusamente per studiare il contatto
interculturale specie a seguito di fenomeni migratori e con riferimento a quello
che viene definito “stress acculturativo”. Ovvero le difficoltà ed il disagio a volte
anche gravi che possono minare il benessere psicologico delle persone quando il
percorso di acculturazione non si verifica in modo ottimale.
Sono stati dunque proposti modelli alternativi, l'acculturazione viene così
concettualizzata e studiata in termini dialogici, come un processo di continuo
confronto fra le varie voci che in ciascun individuo esprimono le diverse posizioni
da lui occupate e i molteplici interlocutori con i quali costruisce e adatta
continuamente la propria identità personale e sociale.
I processi di acculturazione e in generale i processi di trasformazione e
addattamento degli strumenti culturali non possono non tener conto del
fenomeno delle cosiddette identità diasporiche, vale a dire il fatto che i migranti,
soprattutto nelle nuove condizioni storiche, tendono a riprodurre nei paesi che li
ospitano un senso di comunità basato su specifiche forme di ibridazione, che
vengono coltivate in quanto consentono di mantenere identità e legami con la
madrepatria, realizzando nel contempo specifiche forme di integrazione rispetto
alla cultura ospitante e marcata riconoscibilità rispetto ad altre identità
diasporiche con cui entrano in contatto. Un modo in cui spesso tali fenomeni si
manifestano è l'assunzione della doppia identità, quella più specifica e quella più
generale, separate da un trattino (es. italo-americani, ispano-americano).
La comunicazione e lo scambio di simboli significativi nell'interazione tra le
persone devono considerarsi non già come qualcosa che si aggiunge ai processi
psicologici, concepiti e studiati in chiave individuale, bensì come qualcosa di
costitutivo di quegli stessi processi, i quali non possono essere realmente compresi
senza riferirsi alle dinamiche comunicative nelle quali essi di fatto di strutturano. Il
ragionamento sull'incontro interculturale non può non incorporare una riflessione
sulla comunicazione interculturale, che si pone sempre più come focus specifico
della psicologia sociale.
Studiare la comunicazione interculturale significa occuparsi di come i diversi
contenuti e processi di cui la cultura si compone, sono inevitabilmente implicati
nell'incontro comunicativo e sono ad esso continuamente ristrutturati. Una delle
ipotesi di fondo è che tali relazioni possono essere fortemente ostacolate da una
comunicazione inefficace, che può generare incomprensioni sul versante
relazionale in quanto gli interlocutori si basano su codici culturali differenti.
Ma più in generale l'ipotesi di fondo è che l'interazione con persone che usano
codici diversi e si basano su conoscenze implicite delle quali non si partecipa, può
risultare più faticosa, fonte di didasagio e possibile ansietà, sicchè si tenderebbe
ad evitare per quanto possibile tale contatto, mantenendosi nel più rassicurante e
confortevole territorio della comunicazione intra-culturale.
Il mondo valoriale tra individualismo e collettivismo
Uno degli ambiti maggiormente studiati è il mondo dei valori e dei modelli di
comportamento, che costituisce una delle impalcature di maggior rilevanza
dell'edificio culturale. A questo proposito ha ricevuto molta attenzione la
distinzione tra individualismo e collettivismo. Con queste espressioni si descrivono
due “sindromi culturali” che hanno a che fare con il rapporto tra l'individuo e la
società, e che si traducono in modalità complessivamente diverse di vedere il
mondo.
Nel primo caso, l'individuo viene concettualizzato come autonomo e
indipendente, e tutto il sistema dei valori, norme e modelli di comportamento
ruota intorno ai diritti, alle capacità e alle esigenze dei singoli.
Nel secondo caso il focus valoriale della società è spostato sulle entità collettive,
sicchè tutto ciò che riguarda l'individuo viene letto in relazione alla necessità e ai
vincoli derivanti dai gruppi sociali.
Si è cercato di verificare la distribuzione di queste sindromi culturali nei diversi
contesti geografici e nazionali, individuando una corrispondenza abbastanza
regolare fra l'orientamento individualista e l'Occidente sviluppato e le società
urbanizzate, ricche e industrializzate, e fra l'orientamento collettivista e i PVS in
special modo orientali, africani e sudamericani, e le società rurali e più povere.
8. La dimensione storica e culturale dei processi psicologici

Una parte per il tutto: lo studio delle dimensioni storiche e culturali dei processi di
memoria
La memoria è la facoltà che ci permette di salvaguardare le informazioni e di
recuperarle quando è di nuovo necessario usarle, questo non vuol dire che si
ignorino i legami tra queste funzioni e le altre quali immaginazione, la percezione,
e l'impronta emotiva dei ricordi.
La nostra analisi dell'influenza delle dimensione storiche e culturali sul
funzionamento della memoria va dunque intesa come l'analisi di una parte per il
tutto, poiché la mente funziona come un tutto. È opportuno essere consapevoli
che allo stesso modo i processi individuali di memoria e i loro inquadramenti
storico-culturali sono anch'essi inscindibili, perchè nessuno di questi due livelli di
anali può esistere senza l'altro.
Da un lato la memoria collega le singole esperienze che la persona ha vissuto,
ristrutturandole nella sua mente in un insieme dotato di senso; dall'altro, è ancora
grazie all'azione della memoria che le varie esperienze individuali possono essere
connesse in un quadro sociale complessivo, rendendo possibile una
comunicazione significativa in cui i singoli possano intendersi tra loro.
Anche la descrizione dei processi più elementari e meccanici alla base del
funzionamento individuale, come ad esempio la formazione dei riflessi
condizionati descritta da Pavlov, non può fare a meno i presupporre l'esistenza di
una memoria dell'organismo. Il filo che lega la mente dell'individuo e la base per
costruire un terreno comune di comprensione del mondo.
Si mette in luce l'intrinseco legame tra memoria e oblio: la memoria è tale, per il
singolo individuo, perché distingue quello che è necessario ricordare da quello
che può essere dimenticato, perché superfluo.
Dobbiamo considerare che nella situazione creata in laboratorio per costruire un
riflesso condizionato è stata attivata esclusivamente una memoria elementare,
un'associazione basata su una risposta fisiologica riflessa. L'apprendimento
costruito in laboratorio consente a questa risposta elementare di essere emessa
più velocemente, perchè l'organismo sottoposto a condizionamento impara a
reagire non solo di fronte al cibo, ma anche al solo comparire del segnale del cibo.

La complessità della memoria individuale: memoria procedurale, episodica e


semantica
Nel caso di un bambino maltrattato, anche se ora accudito da una persona
positiva, come un assistente sociale, avrà comunque il retaggio delle percosse
subite precedentemente.
Ognuna di queste memorie costituisce una traccia del terribile apprendimento
sulle relazioni interpersonali e su se stesso che questo bambino ha dovuto subire.
Nel movimento di difesa dai colpi, osserviamo la memoria che si è impressa nel
corpo stesso del bambino, cioè una sua memoria procedurale. Nel ricordo delle
molte situazioni in cui è stato picchiato, riflettiamo sulle tracce che questo ha
lasciato nella memoria episodica del bambino.
Nel modo in cui il bambino giustifica il suo genitore maltrattante di fronte all'altro
adulto che si prende ora cura di lui, spiegando che in fin dei conti è stato lui stesso
a provocare le botte, abbiamo le tracce delle modificazioni che questa esperienza
di violenza ha provocato sulla sua memoria semantica, cioè sull'organizzazione dei
significati che il piccolo usa per dare senso a quanto gli accade e per comprendere
se stesso e il mondo.
Tuttavia è una triste evidenza constatare come, in talune società e culture o in
momenti storici particolari, punire un figlio picchiandolo o umiliandolo sia
considerato “accettabile” o normale. Le aspettative sociali e le norme che guidano
il comportamento degli adulti verso i bambini ovviamente cambiano
trasversalmente, da un società a un'altra o anche all'interno di una medesima
società a seconda delle differenza nelle classi sociali e nelle origini culturali. Esse
cambiano longitudinalmente di momento storico in momento storico.
Nel modo in cui si percepiscono socialmente questi comportamenti violenti degli
adulti sui bambini gioca un ruolo cruciale non solo la memoria degli individui che
sono in relazione diretta, anche anche la memoria culturale in cui le persone sono
tacitamente immerse e che si esprime in una diversa rappresentazione sociale dei
comportamenti più o meno accettabili, sia in una diversa normativa legislativa.
Possiamo iniziare a riflettere sulle dimensioni storiche e culturali dei processi
psicologici a partire dalla nota tripartizione della memoria permanente nei tre
sistemi della memoria procedurale, la memoria del corpo; della memoria
episodica, la memoria organizzata intorno alla rievocazione dei vari eventi
accaduti; della memoria semantica, la memoria che mira ad estrarre un senso
astratta, un succo delle esperienze vissute.
Nel cambiamento storico in cui oggi siamo immersi, spesso descritto con
l'etichetta impropria di globalizzazione, il peso determinante nella vita mentale dei
processi di interiorizzazione degli artefatti. Il cosmopolitismo che ieri
caratterizzava alcune minoranze sociali si sta trasformando oggi in una vera e
propria sfida psicologica. La posta in gioco è una nuova forma di adattamento
all'ambiente sociale, che si potrebbe realizzare solo con la diffusione più
generalizzata di una mente multiculturale, in grado di usare e comprendere
artefatti provenienti da culture diverse.

La memoria procedurale come informazione sociale


Un riflesso è una forma di risposta dell'organismo a quanto accade nell'ambiente,
basata sulla connessione immediata tra una percezione e una reazione motoria
dell'organismo.
I fisiologi sono riusciti a distinguere i riflessi dalle altre forme di reazione agli
stimoli ambientali quando hanno scoperto che, per l'innescarsi di questo
particolare tipo di legame tra sensazione e movimento, non c'era bisogno di alcun
livello ulteriore di intermediazione, ma solo del cosiddetto arco riflesso.
Questa esclusione dei processi superiori si spiega con al necessità di ridurre al
minimo i tempi di attesa tra alcuni tipi di stimoli e alcuni tipi di risposta. I riflessi
sono finalizzati a proteggere con la massima tempestività la sopravvivenza e il
benessere dell'organismo stesso.
L'impatto rivoluzionario delle scoperte di Pavlov nasce dalla dimostrazione
sorprendente del modo in cui l'apprendimento svolge un ruolo di estremo rilievo
anche all'interno dei processi fisiologici più basici, modificandone il
funzionamento.
Accanto a questo primo aspetto elementare del riflesso, del tutto involontario e
meccanico esiste inoltre un secondo aspetto molto importante, per cui ancora una
volta la memoria procedurale individuale può tradursi in una fonte di
informazione sociale per gli osservatori. Esiste una complessa educazione all'uso
del corpo che riguarda la capacità di acquistare un modo di muoversi più o meno
adeguato rispetto ad alcuni copioni o scripts, che sono storicamente e socialmente
attesi in alcune situazioni specifiche.
Una delle maggiori difficoltà che le persone possono incontrare nella loro vita
quotidiana nelle nuove società interculturali nasce appunto dall'incomprensione
reciproca che divide chi usa scripts culturalmente diversi di fronte a situazioni
simili. Un copione è un particolare schema di memoria, in cui si è guidati da una
conoscenza generale della sequenza in cui la propria azione dovrebbe svilupparsi
nel tempo, di fronte a una situazione specifica.

Processi di memoria e comprensione delle emozioni


L'incomprensione che si crea tra persone abituate a usare scripts diversi può
risolversi con facilità, ma può anche dare origine a un disagio molto più grave
quando gli scripts riguardano situazioni più impegnative. È il caso degli scripts
emozionali: quelle sequenze di azioni che vengono eseguite per esprimere le
proprie emozioni in situazioni socialmente significative.
Nel caso degli scripts emozionali, la possibilità di malintesi tra persone di culture
diverse è in parte mitigata dal fatto che, il nucleo dell'espressione delle emozioni
rimane fondamentalmente uguale in ogni cultura e in ogni epoca, perchè il
retaggio dei processi basilari, che consentono di proteggere la sopravvivenza
nell'ambiente e comunicare agli altri le proprie intenzioni di azione.
Infatti Freud capisce le emozioni del Mosè di Michelangelo per il fatto che sono
rese interpretabili senza mutamento attraverso i secoli. Nella percezione sociale
delle emozioni degli altri, la comprensione dell'aspetto di regolazione, con cui
l'altro sta gestendo la sua passione, giochi un ruolo centrale, che s'intreccia
inestricabilmente con quello del riconoscimento, tramite l'osservazione del suo
viso e del suo corpo, dell'emozione che l'altro sta provando.
Nella vita quotidiana raramente si dispone di tempo e risorse così approfondite
(Freud) di fronte alle emozioni degli altri, se qualcuno si esprime usando uno
scripts emozionale culturalmente diverso dal nostro è molto frequente entrare in
una situazione di difficoltà interpretativa, perchè l'espressione delle emozioni e la
comprensione dela loro gestione sono avvantaggiate solo nel caso di una comune
appartenenza culturale. Di fronte a un malinteso culturale molto spesso si risolve
la difficoltà interpretativa ricorrendo a scorciatoie e quindi a pregiudizi.
Fèbvre, è uno dei più importanti studiosi di storia delle mentalità, famosa la sua
osservazione che una mentalità può essere descritta efficacemente notando quali
siano le parole che mancano in un'epoca e la cui nascita segna il passaggio a
un'altra mentalità.
Un esempio interessante tramite cui riflettere sul rapporto tra dinamiche
psicologiche e dimensioni storiche e culturali riguardano i cambiamenti del lessico
emotivo, cioè di quelle parole usate per descrivere, a sé stessi e gli altri, le proprie
e altrui emozioni.
Un numero importante di ricerche mostra come i movimenti innati di espressione
delle singole emozioni abbiano un'azione informativa di ritorno (feedback) sulle
persone che li effettuano. Strack e colleghi hanno chiesto a dei partecipanti di
guardare un filmato divertente tenendo una matita tra i denti oppure tenendo la
matita tra le labbra, senza toccarla con i denti. Ha dimostrato che i partecipanti
inseriti nella condizione in cui le labbra erano indotte al sorriso ritenevano di
essersi divertiti di più alla visione del filmato, rispetto ai partecipanti posti nella
condizione che inibiva il sorriso. La conclusione è che una parte della
comprensione delle nostre emozioni nasce dal feedback informativo che ci deriva
dai movimenti del nostro corpo.

Le memorie difficili: il caso del ricordo delle guerre


Si è dimostrato che i gruppi mostrano la tendenza costante a dimenticare, riguardo
gli episodi di guerra, non tanto gli episodi di sconfitta quanto gli episodi di
indegnità morale, in cui il proprio gruppo ha usato la violenza verso un altro
gruppo incolpevole (esempio dell'amnesia collettiva degli italiani rispetto alle
atrocità delle guerre coloniali italiane). I processi di incontro interculturale
possono essere esaminati anche come un difficile dialogo tra memorie collettive
differenti che mettono in luce non solo episodi diversi, ma anche interpretazioni di
segno opposto dei medesimi episodi.
Nadler e Shnabel ipotizzano che non solo l'esperienza diretta,ma anche il
riconoscimento sociale del proprio ruolo nella violenza tra i gruppi come
perpetratori, o vittime, induca emozioni e bisogni diversi negli appartenenti a ogni
singolo gruppo. Anche se il modello teorico di Nadler e Shnabel ritiene che le
emozioni delle vittime e dei perpetratori siano degli ostacoli, recuperando il
classico concetto di barriere emotive, in realtà è interessante notare come
consideri le emozioni come potenti spinte motivazionali, che sostengono in modo
diverso sia i predatori sia le vittime nel loro lungo percorso di ricostruzione di
relazioni reciproche non più conflittuali, che possono evolvere sia in una completa
separazione che marginalizza l'idea del passato nemico dalla definizione attuale
che ognuno dà della propria identità sociale, sia nella ricostruzione di una nuova
possibilità di interazione e di fiducia reciproca. (caso dei giovani ebrei e polacchi,
incontro che all'inizio era caratterizzato da pregiudizi nei polacchi, visti come
perpetratori di violenze o complici, situazione migliorata dopo la visione di esempi
di gesti di polacchi “buoni e giusti” con gli ebrei –----> possibile riconciliazione).
Un altro filone di ricerca riguarda il cambiamento nei processi psico- sociali
intergruppi, susseguente alla scelta di diverse forme di comunicazione, con cui è
possibile raccontare un passato di violenza tra i gruppi a coloro che sono nati dopo
che tale violenza si è conclusa. Il termine veriterio, in questi racconti, è applicato a
quella narrazione che, attribuisce le responsabilità negative a tutti coloro che
meritano di vedersele attribuire.
Più stimolante è l'idea che si possono registrare effetti sociali diversi se si tratta di
temi difficili in modo franco e diretto, oppure se si usa un modo vago e sfuggente
di affrontarli. La parrhesia (modo franco e diretto) secondo Foucault, conduce a un
effetto di rafforzamento ( empowerment) della posizione sociale di coloro verso
cui è diretta.
L'aspetto più generale che sembra emergere da questi recenti studi sulla
riconciliazione tra i gruppi l'impossibilità, osservando i processi emotivi o le scelte
di azione o il contatto interguppi attuali, di dividere nettamente gli aspetti
personali e legati al qui- e- ora dagli aspetti sociali. Il diverso tipo di
consapevolezza della propia pre-esistenza storica, cioè delle conseguenze nella
propria vita personale del passato del gruppo in cui si nasce, indirizza chi
appartiene a gruppi impegnati in un percorso di rielaborazione di memorie
collettive drammatiche verso un ventaglio di scelte predefinito, che rende i
processi psicologici simili, pur conservando una propria originalità.
La caratteristica principale che distingue il raggiungimento psicologico dell'età
adultà è la generatività cioè la consapevolezza che la propria vita non si esaurisce
nella sola vicenda personale, ma riconosce la sua origine dalle generazioni
precedenti e proietta il suo progetto di azione oltre l'esistenza individuale,
nell'impegno che assume per le generazioni future e nella speranza che affida loro.

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