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Lewin e la teoria del campo ( pag 56)

Un gruppo è qualcosa di più o, per meglio dire, qualcosa di diverso dalla somma dei suoi
membri: ha una sua struttura, fini particolari e rapporti particolari con gli altri gruppi. Ciò che
costituisce la sua essenza non è la somiglianza o la dissomiglianza tra i suoi membri, ma la
loro interdipendenza. Può essere definito come un insieme dinamico. Ciò significa che un
cambiamento di stato di una parte, o di qualsiasi sua frazione, influisce sullo stato di tutte le
altre [Lewin 1948; tradurlo. 1972, 125]

L’origine sociale della cognizione: La social cognition (pag 59)


E pervasiva rimane, su tutti gli studiosi, l'influenza di Lewin. Il suo approccio consente infatti di tener
conto dal punto di vista sia teorico sia metodologico del dato che il comportamento e le convinzioni
degli individui sono determinati dal loro modo di interpretare la realtà, e che sono le influenze sociali a
strutturare interpretazioni e comportamenti.
All'interno del framework costituito dalla teoria della Gestalt, gli allievi di Lewin producono, tuttavia,
dopo la Seconda guerra mondiale, tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60, una gran quantità
di riflessioni e ricerche che si pongono in termini di miniteorie di portata limitata.

PERCEZIONE SOCIALE, ATTRIBUZIONE E GIUDIZI (pag 92)


«Top-down» e «bottom-up». I modelli psicologici di riferimento sono essenzialmente quelli della
Gestalt e quelli del cognitivismo (cfr. cap. 3). Secondo la psicologia della Gestalt la percezione visiva
è guidata da principi organizzativi innati come la somiglianza, la buona forma, la coerenza. Questi
stessi principi sono invocati dagli psicologi sociali per dar conto di come vengono organizzate le
informazioni di natura sociale, e del processo costruttivo che fa sì che, dalla conoscenza di pochi dati,
si traggano inferenze che aiutino a dare un significato coerente al mondo sociale secondo un
meccanismo detto top-down. Apparentemente diversa la posizione del cognitivismo, che sembra
ignorare il ruolo delle conoscenze precedenti ed enfatizza il peso dei dati obiettivi nell'elaborazione
delle informazioni e nel processo di categorizzazione degli eventi, per i quali si ipotizza un
meccanismo che viene detto data driven o bottom-up, ovvero si arriva a un'organizzazione superiore
dei dati partendo dalla base.

Oltre l'informazione data. Bruner, Goodnow e Austin [1956]: nel momento in cui uno stimolo viene
classificato all'interno di una categoria, la valutazione di quel dato si avvale di conoscenze relative alla
categoria.

LE IMPRESSIONI DI PERSONALITÀ TRA PERCEZIONE E COGNIZIONE


(pag 94-95-96)
Il modello configurazionale di Ash e la social cognition
Nel 1946, Asch pubblica i risultati delle sue ricerche su come gli individui formano le loro impressioni
sulla personalità degli altri. Per alcuni inizia cosi la social cognition. L'assunto di base di Asch è che
quando si osserva una persona o quando si ascolta la descrizione che ne viene fatta da qualcuno
l'impressione che se ne ricava non è il risultato della semplice somma delle caratteristiche osservate
o di cui si ha notizia. I dati di cui si dispone, che, per lo più, sono abbastanza limitati, vengono invece
messi al servizio di un inconsapevole bisogno di formare una rappresentazione dell'altro che abbia
una sua coerenza.
Questo processo, infatti, viene spiegato all'interno di una prospettiva di chiara derivazione gestaltista,
che riconduce la percezione sociale agli stessi principi («la legge della formazione non additiva della
totalità», «la legge della pregnanza o della buona forma», «la legge del destino comune») che, come
abbiamo già dettò sopra e come abbiamo visto a proposito della teoria della Gêstalt nel capitolo terzo,
regolano la percezione visiva del mondo fisico.
La personalità come buona forma
Asch mostra poi che la capacità di modificare l'impressione globale della perso nalità non è
posseduta da tutti i tratti in egual misura. È vero piuttosto che alcuni tratti si pongono come «centrali»
(quello che viene detto effetto centralità) e hanno pertanto la forza di strutturare la percezione della
personalità, mentre altri sono «periferici», e non ottengono lo stesso effetto: se invece di freddo vs.
caldo, la variazione della lista di aggettivi su riportata si dovesse basare sull'inserimento di rozzo vs.
educato non emergerebbero differenze così rilevanti nelle descrizioni del signor X.

L’effetto cambio di significato


Da ulteriori esperimenti emerge come non solo una singola unità può contribuire a dar luogo a una
configurazione dotata di un certo significato piuttosto che un altro, ma come un singolo tratto può
acquistare significati diversi in funzione del contesto in cui è inserito (quello che viene detto effetto
cambio di significato): se l'aggettivo caldo viene inserito in una serie costituita da «obbediente,
debole, superficiale, senza ambizioni, vano», il «calore» viene inteso dai soggetti in termini
dispregiativi, a indicare un individuo passivo, senza forza, gregario, a riprova che il significato del
tratto è funzione della costellazione degli aggettivi di cui fa parte.

L’effetto primacy.
Altri esperimenti dimostrano, infine, come l'ordine temporale con cui vengono strenue le informazioni
riguardanti un individuo puó influenzare fortemente la percezione e la valutazione della sua
personalità. Le prime impressioni, i primi elementi di informazione disponibile, guidano la percezione
e si pongono in termini di contesto interpretativo delle impressioni successive. Questo fenomeno, che
viene detto effetto «primacy» (effetto precedenza) o effetto d'ordine, dà conto del fatto che se a dei
soggetti viene letta, a descrivere il signor X, una lista di aggettivi come intelligente, laborioso,
impulsivo, critico, testardo, invidioso» e a un altro gruppo viene proposta la stessa lista ma con
l'ordine invertito, ovvero che inizia dall’aggettivo invidioso, l'impressione che si ha del signor X e nel
primo caso positiva, e nel secondo negativa, in base a un processo che viene detto top-down (cfr. fig.
5.3).

L'effetto «recency».
Molto meno forte per la formazione dell'impressione.complessiva dell'altro è invece la variazione degli
ultimi tratti presentati dalla lista, quello che viene detto effetto recenza o effetto «recency». Questo
accade perché la formazione delle impressioni fa appello soprattutto alla memoria a lungo termine e
al suo archivio permanente di configurazioni tipiche di associazioni tra tratti, a quelle che Bruner e
Tagiuri [1954] considerano vere e proprie teorie implicite di personalità. Non a caso dagli studi
condotti sul funzionamento della memoria appare che mentre nei compiti di rievocazione immediata
sono le ultime informazioni quelle che vengono ricordate con più facilità, nei compiti di rievocazione a
lungo termine sono le prime informazioni quelle rievocate più facilmente [per una rassegna, cfr. Leone
1998].

LE TEORIE DELL’ATTRIBUZIONE E HEIDER (pag 100-101-102)


Abbiamo detto, facendo riferimento agli esperimenti di Asch, che le nostre impressioni degli altri sono
regolate dalle nostre aspettative su come i tratti evidenti che compongono la loro personalità si
associano, sulla base di una sorta di teoria implicita della personalità, ad altre caratteristiche di cui
non abbiamo conoscenza diretta. Ma è un fatto che nella vita di ogni giorno, noi inferiamo la
personalità dei nostri interlocutori direttamente dal modo in cui si comportano. E allora, come sono
collegati i tratti di personalità al comportamento? Quali sono le regole che governano il modo in cui
dall'osservazione diretta del comportamento di una persona noi passiamo a inferire i tratti della sua
personalità?
Il primo psicologo sociale a occuparsi di questi problemi è stato Fritz Heider, il quale nel 1958 scrive
un libro, Psicologia delle relazioni interpersonali, in cui delinea quella che viene detta la teoria
dell'attribuzione, all'interno della quale cerca di dar conto del modo in cui le persone interpretano le
ragioni, le cause degli avvenimenti del loro mondo sociale. Heider utilizza una prospettiva gestaltista
e, in maniera non diversa da quanto aveva fatto Asch, parte dall'assunto che nella percezione sociale
siamo guidati dagli stessi principi che guidano la nostra percezione del mondo fisico.

Il comportamento vs la situazione
Heider fa notare, però, che tutti noi, nel cercare di inferire la personalità degli altri dal loro
comportamento, dobbiamo affrontare continuamente il problema costituito dal dato che il
comportamento non viene mai prodotto in un vacuum; esso è sempre messo in atto in una qualche
situazione specifica. Quindi nel cercare di risalire alla personalità di qualcuno, partendo dal suo
comportamento, dobbiamo fare i conti con la situazione in cui quel comportamento è prodotto.
E allora, come si inferiscono le caratteristiche di personalità? Dal comportamento o dalla situazione in
cui è prodotto? Come vengono tratte inferenze sulle cause delle azioni che gli individui mettono in atto
nei vari contesti della loro vita? Quali cause attribuiamo al modo di comportarsi degli altri quando
siamo osservatori delle loro azioni?

Il locus della causalità.


Secondo questo modello, nell'interpretare i comportamenti degli altri, nell'inferire le cause che stanno
dietro le condotte che si osservano, gli esseri umani cercano di risalire continuamente al locus della
causalità. Un forte dilemma persona/situazione caratterizza, quindi, quello che viene detto processo di
attribuzione causale, ovvero le persone cercano di stabilire se ¡ la causa del comportamento sia nella
persona che lo ha messo in atto (nelle sue caratteristiche di personalità, per l'appunto, ma anche
nelle sue motivazioni o nelle sue capacità) - e in questo caso si parla di una causa interna - o se essa
è da rintracciare nella situazione (la difficoltà di un compito, il tempo imprevisto, pressioni che
potrebbero venire da terzi) - e in questo caso si parla di causa esternato se il comportamento non sia
da ricondurre, come per lo più accade, a un intreccio delle componenti persona/ situazione: se una
ragazza che vi piace ha rifiutato il vostro invito a cena, certamente cercherete di rintracciare la causa
di questo comportamento, prima di decidervi a invitarla di nuovo in futuro. Ha rifiutato perché è
timida? (State individuando una causa interna.) Non può uscire perché ha genitori severi? (La causa
è quindi esterna.) E se il rifiuto fosse l'esito della sua incapacità, proprio perché timida, di ribellarsi al
divieto dei genitori (interconnessione tra causa interna ed esterna)?

LA TEORIA DELL’INFERENZA CORRISPONDENTE (pag 103-104)


Ned Jones e Keith Davis raccolgono l'eredità concettuale di Heider e negli anni '60 pubblicano un
lavoro (Jones e Davis 1965] in cui esaminano, in dettaglio, come si arriva a fare delle inferenze sulle
disposizioni stabili degli altri.
Ma quali sono gli indici che ci possono portare a stabilire che il comportamento di una persona riflette
la sua intenzione di metterlo in atto e conseguentemente le sue caratteristiche stabili di personalità?
Come si fa a decidere che gli effetti di un'azione osservata sono voluti da chi agisce?

La desiderabilità sociale.
Un principio utilizzabile è quello che fa riferimento alla desiderabilità sociale: quanto più una persona
si comporta secondo modi non desiderabili e non accettabili, da un punto di vista sociale, in una
determinata situazione, e quanto più questi potrebbero portare un danno, tanto più se ne può dedurre
che quel comportamento è da ricondurre a delle sue caratteristiche di personalità durature. Inferenza
che è, invece, perlomeno dubbia se si basa sull'osservazione di un comportamento desiderabile.
Ad esempio, se uno studente si mostra molto arrogante durante un esame e si vanta, con il docente,
di essere sempre riuscito a superare le prove anche senza aver studiato, saremo indotti a pensare
che egli stia mostrando dei suoi tratti di personalità stabili, mentre non è detto che il comportamento
ossequioso e conciliante di un altro allievo sia indice di disposizioni durature, visto che potrebbe ben
essere ricondotto alla desiderabilità, in quella situazione, del comportamento
in questione.

La libera scelta.
Un altro modo per inferire la personalità di qualcuno si basa sul riuscire a determinare se il
comportamento è dovuto a una libera scelta dell'«attore» o se non è da ricondurre a dei vincoli
collegati alla situazione. Ad esempio, se in un dibattito sulla guerra contro la Serbia degli studenti
esprimono liberamente le loro opinioni pacifiste al riguardo, è possibile inferire che si tratta di persone
che non vogliono la violenza, ma se ci accorgiamo che è stato loro chiesto dal partito politico di
appartenenza di esprimere queste posizioni, non possiamo fare inferenze attendibili sui loro reali
atteggiamenti e su una tendenza più di base a non essere aggressivi.

I ruoli sociali.
Anche assistere a comportamenti che corrispondono a dei rioli
sociali o che corrispondono alle nostre aspettative può essere informativo sulle reali disposizioni
stabili dell'«attore». Se vediamo che un prete fa l'elemosina, non ne deduciamo che si tratta di una
persona particolarmente generosa, perché quel comportamento fa parte del suo ruolo. Ma se lo
sentiamo difendere il diritto delle donne all'aborto, ne deduciamo che si tratta di una persona molto
aperta, con una personalità non rigida, visto che questo comportamento contraddice le nostre
aspettative su quella che dovrebbe essere, al riguardo, la posizione di un religioso.

I BIAS NEI PROCESSI ATTRIBUZIONALI (pag da 106 a 110)


Il modello di jones e Davis [1965) e quello di Kelley (1967), nel dar contò de nodo in cui la gente
comune fa inferenze sulle cause dei comportamenti, assumono Che gli individui utilizzano delle
strategie cognitive di tipo razionale. partono da ciò che osservano (da comportamenti intenzionali
secondo la prima teoria; da comportamenti che vengono messi in atto come risposte spontanee per la
seconda), per arrivare a individuare le disposizioni stabili degli attori, o rintracciare spiegazioni che
siano a carico della situazione.
Ma quanto è realistica questa descrizione dell'attribuzione causale? I processi attribuzionali
avvengono davvero secondo i percorsi logici seguiti dai soggetti degli esperimenti condotti all'interno
delle teorie succitate? I modelli dell'inferenza corrispondente e della covariazione danno conto
davvero di quello che le persone fanno, sono davvero modelli descrittivi? O non danno piuttosto conto
di quello che le persone dovrebbero fare per rintracciare le ragioni sottostanti i comportamenti,
ponendosi quindi in termini di modelli normativi?
Da una serie di ricerche condotte tra la fine degli anni 60 e gli inizi degli anni 70 emerge infatti che
l'assetto psicologico di ciascuno di noi - il quale implica tendere a risparmiare risorse cognitive, e a
comportarsi, come dicevamo in precedenza, da cognitive miser, cercare di avere una comprensione
del mondo che sia la più coerente ma anche la più rapida possibile, ricorrere a spiegazioni causali
secondo modalità rapide ed efficienti - provochi la comparsa di errori sistematici quando si cerca di
fare inferenze circa il cosa provoca cosa. Può accadere, inoltre, che si sia «vittime» di distorsioni a
base motivazionale, più o meno consapevoli.

L’errore fondamentale di attribuzione


Colui che agisce, l'attore, tende in pratica a sovrastimare il ruolo dei fattori esterni quando cerca di
trovare le ragioni del suo comportamento, mentre chi si trova nella posizione di osservatore del
comportamento altrui dà maggior peso ai fattori interni (queste differenze vengono, infatti, anche dette
divergenze attore-osservatore).
Questo modo sistematico di distorcere la realtà nell'interpretare il comportamento degli altri, questa
attribuzione pregiudiziale è stata chiamata da Ross
[1977] errore fondamentale di attribuzione, errore che fa si, per l'appunto, che nell'interpretare il
comportamento altrui si sia portati a ritenere che esso sia da ricondurre a caratteristiche stabili, a
fattori interni alla persona, piuttosto che a cause esterne, legate alla situazione.

Le caratteristiche disposizionali degli altri e l’effetto salienza (fenomeno).


Ascrivere il comportamento degli altri più a caratteristiche disposizionali che situazionali sembrerebbe
avvenire in maniera del tutto inconsapevole e automatica e potrebbe essere ricondotto a un intreccio
di processi percettivi e cognitivi. Come sottolinea Heider [1958], il comportamento dell'attore ha delle
proprietà di salienza che in qualche maniera fanno passare in secondo piano la situazione. In pratica,
ciascuno di noi è portato a prestare molta attenzione alla persona che mette in atto un dato
comportamento e a ignorare la situazione in cui questo viene prodotto. Questo fenomeno potrebbe
essere ricondotto a quegli stessi principi che, secondo i teorici della Gestalt, regolano la percezione
figura-sfondo: la persona si staglia rispetto alla situazione come una figura rispetto allo sfondo.
Elaborare informazioni che provengono solo da ciò che è maggiormente evidente ed evitare di
impegnarsi ad analizzare dati provenienti da altre fonti porterebbero poi a un risparmio di risorse
cognitive che possono essere utilizzate per altri scopi. E infatti la tendenza a ricorrere ad attribuzioni
disposizionali aumenta se si è «impegnati» da un punto di vista cognitivo, come quando si stanno
portando a termine dei compiti che richiedono molta attenzione, o si stanno facendo piani per attività
future, ecc. [Gilbert, Pelham e Krull 1988; Gilbert e Malone 1995]|

Distorsioni cognitive ed effetto salienza nella percezione del Self.


Un'altra spiegazione porta ancora una volta all'effetto salienza: colui che osserva è focalizzato
sull'altro; è il comportamento dell'altro, sono i suoi movimenti, le sue caratteristiche fisiche a essere
salienti, la figura che fa passare in secondo piano lo sfondo, la situazione, ovvero quell'insieme di
condizioni esterne all'individuo che pur potrebbero avere un peso nella sua condotta. Ed è infatti la
salienza dell'altro che porta all'errore fondamentale di attribuzione. Ma quando l'attore deve dare
spiegazioni al suo comportamento è la situazione che diventa saliente, sono le caratteristiche del
contesto che diventano più visibili, visto che è impossibile che l'attore riesca a guardare se stesso
mentre agisce. La situazione diventa così la figura che offusca lo sfondo ed è in essa che si cerca di
rintracciare ciò che ha determinato la propria condotta.)

Distorsioni motivazionali nella percezione del Self.


Da quanto abbiamo detto finora sembrerebbe che le nostre attribuzioni pregiudiziali siano dovute
essenzialmente a degli errori di tipo cognitivo, da ricondurre alla nostra incapacità di elaborare le
informazioni in maniera adeguata. In ciascuno di noi è invece presente una tendenza a incorrere in
errori sistematici di giudizio anche su base di spinte motivazionali. Tra questi, la tendenza a distorcere
sistematicamente la realtà a seguito di una forte, per quanto inconsapevole, motivazione a
considerare noi stessi positivamente, e a ricorrere a un'attribuzione pregiudiziale che sia prima di tutto
al servizio della nostra immagine, errore che viene detto self-serving bias di attribuzione causale.

Il self-serving bias di attribuzione.


Quando si tratta di individuare le cause di un evento che si ha visti protagonisti può scattare un
meccanismo di difesa che fa sì che noi lo interpretiamo in maniera tale da mantenere il più alto
possibile il nostro livello di autostima. Accade, così, che i successi vengano attribuiti a cause interne e
gli insuccessi a cause esterne? gli atleti attribuiscono le loro vittorie alla loro bravura, mentre se
perdono danno la colpa al gioco sporco degli avversari all’arbitro, al vento; gli automobilisti
attribuiscono i loro incidenti alle altre macchine; gli studenti che vanno bene agli esami ritengono che
questo sia dovuto alla loro preparazione e alle loro capacità, e quelli che vanno male pensano che
sono stati sfortunati o che il professore era particolarmente severo e specularmente i docenti credono
che i loro allievi riescono a superare le prove perché loro sono stati buoni insegnanti, e che i fallimenti
sono da attribuire invece al fatto che questi non hanno studiato abbastanza!
Group-serving bias.
Il self-serving bias di attribuzione è rintracciabile anche a livello di gruppo, tant'è che è possibile
parlare di un'attribuzione pregiudiziale a servizio del gruppo o dell'etnia di appartenenza (ethnocentric
bias e group-serving bias), la quale fa sì che i membri di un gruppo riconducono a cause interne i
comportamenti positivi dell'ingroup e quelli negativi dell'outgroup, e attribuiscono a cause esterne i
comportamenti negativi dei membri del proprio gruppo e quelli positivi dell'altro gruppo.

Falso consenso e falsa unicità.


Ciascuno di noi ha, poi, sulla base di un fenomeno che viene detto del falso consenso, una forte
tendenza a credere che gli altri abbiano le nostre stesse opinioni e che i nostri insuccessi o i nostri
comportamenti negativi siano appannaggio di tutti: pensiamo che gli altri votino per lo stesso partito
per il quale votiamo noi, che abbiano le nostre stesse ideologie, che fumino come noi, che imbroglino
come noi, che non paghino le tasse come noi.
Da molte ricerche, tuttavia, appare che quando ci confrontiamo con gli altri per ciò che concerne le
abilità e i successi questa ipotetica tendenza a generalizzare viene meno e diventiamo vittime di
quello che viene detto effetto della falsa unicità: crediamo che gli altri mettano in atto. i nostri stessi
comportamenti, se questi sono negativi, ma per ciò che riguarda i comportamenti positivi e le abilità
pensiamo di essere unici.

LA TEORIA DELL’EQUILIBRIO COGNITIVO (pag da 115 a 117).


Nel capitolo precedente abbiamo mostrato come dall'incrocio tra teoria della Gestalt e cognitivismo
emergano, nell'ambito della psicologia sociale, una serie di miniteorie che danno conto del modo in
cui gli esseri umani cercano di dare un senso agli eventi che li circondano.
Da tutti questi lavori emerge fino a che punto sia radicato in noi un bisogno di coerenza e come la
nostra mente cerchi attivamente di rintracciare un unico significato dietro il fluire di informazioni
contrastanti. Ed è partendo da queste ipotesi che, dalla fine degli anni '40, vengono formulate le
cosiddette teorie della coerenza cognitiva, come la teoria dell'equilibrio cognitivo di Heider e la teoria
della dissonanza cognitiva di Festinger.

Relazioni interpersonali come figurazione triadiche


Heider fa riferimento essenzialmente a quelle valutazioni di tipo affettivo-emotivo che per lo più
riguardano le nostre relazioni interpersonali, in particolare le nostre relazioni intime, e utilizzando un
costrutto squisitamente gestaltista sottolinea come queste costituiscano delle configurazioni che per
lo più sono triadiche. Le relazioni, infatti, sono costituite da un atteggiamento verso un'altra persona,
un atteggiamento verso un oggetto e la percezione del modo in cui l'altra persona valuta quel
particolare oggetto. Questi tre elementi possono essere in equilibrio e costituire pertanto una buona
forma, avere una loro pregnanza, ma possono ritrovarsi in un equilibrio precario. Quando questo
accade la condizione di disequilibrio che si viene a creare produce una forte sensazione di disagio,
così che si tende a ripristinare in qualche modo una sorta di nuovo equilibrio.
Per esempio, se a Marta piace Federico, sa che a Federico piace andare allo stadio la domenica, e
anche a lei piace andare allo stadio, la struttura triadica che caratterizza la loro relazione è equilibrata.
Infatti il dato che a Marta piace Federico costituisce I' «atteggiamento affettivo verso un altro», che lei
sappia che a Federico piace andare allo stadio rappresenta la «percezione della valutazione dell'altro
dell'oggetto target›, il fatto che anche a lei piace andare allo stadio non è altro che il suo
«atteggiamento verso un oggetto». Le valutazioni di Marta creano, quindi, in lei una condizione di
equilibrio cognitivo. Ma se a Marta piace Federico, a Federico piace andare allo stadio, e a Marta non
piace andarci, Marta si troverà in una condizione di disequilibrio.
Da questo esempio emerge che gli individui vengono guidati, nella percezione sociale, dagli stessi
principi che, secondo la teoria della Gestalt (cfr. cap. 3), regolano la percezione degli oggetti. Per
Heider le persone cercano, anche nelle loro relazioni sociali, di rintracciare un'immagine coerente,
armonica, dotata di significato (i gestaltisti direbbero una «buona forma»). Se due persone hanno lo
stesso atteggiamento verso lo stesso oggetto, stanno bene insieme, creano un «quadro» coerente,
dotato per l'appunto di buona forma. Le situazioni squilibrate, come dicevamo, creano invece tensioni
spiacevoli e le persone, per eliminare il disagio, cercano di riequilibrare il sistema. Al fine di ricreare
una condizione di coerenza cognitiva, gli individui cercano di cambiare uno dei loro atteggiamenti e di
ripristinare una coerenza tra le loro valutazioni affettive, ovvero operano un cambiamento in qualcuna
delle loro valutazioni, o in quelle che riguardano l'oggetto o in quelle che riguardano l'altra persona.

Il principio dello sforzo minore


Cosa farà Marta per tornare a una condizione di equilibrio nel caso in cui Federico continui ad andare
allo stadio anche se a lei non piace andare ad assistere alla partita? Heider richiama l'attenzione su
come le decisioni sul cosa fare per ripristinare l'equilibrio dipendano da vari fattori.
Se Marta ama molto Federico, ci possiamo aspettare o che lei cerchi di cambiare il suo
atteggiamento, e tenti di interessarsi al calcio accompagnando Federico alla partita, o che tenti di far
cambiare l'atteggiamento di Federico nei riguardi dello sport. Se Marta ha una relazione con Federico
non del tutto soddisfacente, ci possiamo aspettare che lei cambierà atteggiamento verso Federico e
romperà il suo rapporto con lui.
Le ricerche condotte all'interno della teoria dell'equilibrio provano, infatti, che il passaggio da una
condizione di squilibrio a una di equilibrio avviene secondo quello che viene detto il principio dello
sforzo minore, ovvero secondo percorsi che riducono al minimo i cambiamenti e che diano la
maggiore possibilità di mantenere le relazioni in corso.

LA TEORIA DELLA DISSONANZA COGNITIVA pag da 118 a 122).


E’ stato Leon Festinger (1957) a richiamare L'attenzione su queste modalità di funzionamento della
nostra mente, formulando quella che viene detta la teoria della dissonanza cognitiva. Secondo questo
modello l'incoerenza atteggiamento-
comportamento è riconducibile essenzialmente a due condizioni:
1. prendere decisioni in una condizione di libertà di scelta;
2. mettere in atto comportamenti contrari ai nostri atteggiamenti, comportamenti che vengono detti
controattitudinali.
• La dissonanza post-decisionale. Immaginate di dover decidere tra due lavori, uno piacevole ma
poco remunerativo e uno noioso, che non corrisponde ai vostri interessi, ma che da la possibilità di
guadagnare molti soldi. Qualsiasi sarà la vostra decisione vi troverete in una condizione di
dissonanza post-decisionale, perché dovrete rinunciare a qualcosa che vi piace (i soldi nel primo
caso, i vostri interessi nel secondo) e accettare qualcosa che non corrisponde esattamente ai
vostri desideri.
• Comportamenti controattitudinali. Immaginiamo, ora, che fumiamo perché ci piace molto, e che
sappiamo benissimo che il fumo fa venire il cancro. In questo caso sarà il nostro comportamento, che
potremmo definire controattitudinale, a metterci in una condizione di dissonanza

La riduzione della dissonanza post-decisionale


Nel caso ci si trovi in uno stato di dissonanza post-decisionale si può cercare di trovare le ragioni che
possano costituire una giustificazione per se stessi della scelta fatta: si modificano in positivo le
valutazioni dell'alternativa che è stata scelta e in negativo quelle relative a ciò che non è stato scelto.
Per esempio, se si decide di accettare il lavoro che è noioso ma remunerativo, si cercherà di vedere
gli aspetti interessanti e positivi, fino a convincersi che si tratta proprio del lavoro che meglio
corrisponde ai propri interessi, e si cercherà di vedere tutti gli aspetti negativi del lavoro che non si è
scelto.

La riduzione della dissonanza per i comportamenti controattitudinali.


Un modo per ridurre la dissonanza, quando vi è una discrepanza tra atteggiamento e comportamento
(quando viene messo in atto un comportamento controattitudinale)
consiste nel cercare di raccogliere nuove informazioni, che siano consonanti con uno dei due
elementi tra i quali si è creato uno squilibrio.
Se una persona non riesce a smettere di fumare, può mettere in discussione il modo in cui vengono
condotte le ricerche sugli effetti del fumo, rintracciare risultati scientifici di segno diverso, e convincersi
che non è vero che il fumo fa male. Oppure, può cercare di modificare la valutazione emotiva di uno
degli elementi che creano dissonanza. Se fumare mi piace molto, ma so che mi fa venire il cancro,
posso decidere che è meglio morire presto piuttosto che vivere a lungo privo del piacere che mi dà il
fumo. Oppure posso pensare che il fumo può fare anche bene, per esempio, non fa ingrassare.
Oppure ricordare che anche persone note amano fumare e da questo dedurre che non è così vero
che il fumo sia nocivo.
La motivazione a ridurre la dissonanza fa sì, quindi, che si ricerchino in maniera attiva informazioni
che siano pertinenti con l'atteggiamento che «si intende» o che «si è costretti» a mantenere, che si
ignorino le informazioni dissonanti - processo che viene detto di esposizione selettiva (selective
exposure) - che si percepiscano e si valutino positivamente le informazioni consone, e che si
recuperino dalla memoria tutte le informazioni che possano far da supporto alle proprie valutazioni.

Le giustificazione insufficiente: 20 dollari per una menzogna


Abbiamo detto che la teoria di Festinger prevede che si produca dissonanza co. gnitiva quando una
persona mette in atto un comportamento che è in contrasto con le sue convinzioni, e che lo stato di
eccitazione e di tensione che ne deriva porti a un cambiamento delle proprie opinioni, in modo da
renderle consone ai propri atteggiamenti. Potremmo aspettarci che questo cambiamento di
atteggiamento si verifichi più facilmente se riceviamo una ricompensa nel caso in cui accettiamo di
dire quello che non pensiamo, e che quanto più grande è l'incentivo tanto più probabile sarà il
cambiamento. Eppure non è così!

L’accordo forzato.
Festinger e Carlsmith [1959] hanno condotto, infatti, un esperimento molto interessante che prova
come il mutamento nelle proprie convinzioni avviene più facilmente se si riceve una ricompensa
piccola piuttosto che una grande, quando si è in qualche modo «costretti» a fare qualcosa su cui non
si è d'accordo, quando ci si trova in una situazione che viene detta di accordo forzato
Secondo Festinger, aver ricevuto 20 dollari giustificava pienamente la menzogna, le riduceva la
dissonanza tra il dire che il compito era piacevole e il pensare che era noioso. Un dollaro rendeva
invece la tensione da dissonanza cognitiva molto spiacevole, perché non poteva essere ritenuto una
giustificazione sufficiente a mentire.
In altri termini, quando le persone si trovano in una condizione in cui la giustificazione esterna a
mettere in atto un comportamento controattitudinale è insufficiente, riducono lo stato di dissonanza
cognitiva giustificando internamente il proprio comportamento, internalizzando così un atteggiamento
diverso nei riguardi di quello che viene richiesto loro di fare, o che sono obbligati a fare.
E quanto maggiore è l'incentivo, tanto minore sarà il cambiamento.
Il principio della giustificazione insufficiente dà conto del cambiamento di atteggiamento, nel ridurre la
dissonanza, non solo se la giustificazione è un premio, o una promessa di un incentivo positivo ma
anche se è una punizione, o una minaccia.

GLI ATTEGGIAMENTI (pag 126)


Gli atteggiamenti, infatti, sono costituiti da più parti; vi è in essi:
1. una componente cognitiva (le credenze, le conoscenze che una persona ha relativamente a un
dato oggetto, persona, evento);
2. una componente emozionale (le emozioni o gli affetti, i sentimenti nei riguardi di quell'oggetto);
3. una componente comportamentale, costituita dalla prontezza a rispondere con un dato
comportamento, ad agire in una certa maniera.
Gli atteggiamenti, in altri termini, possono essere analizzati sulla base di un modello tripartito [Eagly e
Chaiken 1993]. Tutte e tre le componenti di cui dicevamo hanno, peraltro, una loro dimensione
valutativa, e possono esprimere la positività o la negatività dell'atteggiamento.
Breckler [1984] ha dimostrato che queste componenti sono distinte le une dalle altre, ma che nello
stesso tempo si tratta di dimensioni interrelate, così che, pur trattandosi di parti, ciascuna con una
propria direzione di gradevolezza e di intensità, esiste tra di esse una forte concordanza. E non a
caso quando per un qualche motivo questa coerenza viene meno, la dissonanza che ne deriva
spinge, come abbiamo visto sopra parlando della teoria della dissonanza cognitiva, verso un
cambiamento di direzione nella componente che non appare più correlata alle altre, o che offre la
minore resistenza al cambiamento.

LA TEORIA DELL’AZIONE RAGIONATA (pag 130-131)


Fishbein e Ajzen
La loro assunzione di partenza è che le persone si comportano in maniera razionale sulla base di
intenzioni consce, le quali, a loro volta, si fondano su un calcolo accurato degli effetti potenziali del
loro comportamento e di quali saranno le reazioni a esso da parte degli altri.
Secondo questo modello si possono fare una serie di previsioni:
• Il comportamento può essere previsto sulla base dell'intenzione a metterlo in atto. Se una donna
dice che ha intenzione di prendere la pillola antifecondativa per evitare una gravidanza, è probabile
che lo faccia più di quanto è possibile prevedere per una persona che non intende farlo.
• L'intenzione è influenzata da due variabili, l'atteggiamento verso il comportamento (quella donna
pensa che prendere la pillola è una buona idea?) e l'atteggiamento verso le norme sociali, così come
vengono percepite in maniera soggettiva. Quello che conta, in altri termini, non sono le norme in sé,
ma ciò che una persona crede che gli altri pensino che lei dovrebbe fare (il marito, la madre della
donna vogliono che lei prenda la pillola? E qual è la posizione della Chiesa?).
• L'atteggiamento è determinato dalle credenze sulla probabilità degli esiti del comportamento e dalle
valutazioni di questi esiti secondo il modello aspettativa-valore,
• Le norme soggettive sono influenzate non solo dalla credenza che anche altre persone ritengono
che quel comportamento deve essere messo in atto, ma anche dalla motivazione della persona a
compiacere le aspettative degli altri (il marito di questa donna vuole che lei prenda la pillola e la
donna vuole compiacerlo).
Tant'è che Ajzen stesso ha aggiunto un'altra variabile esplicativa della messa in atto del
comportamento, la percezione del controllo sull'esito dell'azione.
Sono le abitudini e le esperienze fatte in passato a influenzare i comportamenti.

SCHEMI DI CATEGORIZZAZIONI (pag da 141 a 143)


Da quanto abbiamo detto nel capitolo quinto sulla formazione delle impressioni di personalità e
sull'uso delle euristiche emerge che nei processi di percezione sociale e nell'emettere dei giudizi
siamo guidati, nell'interpretare le situazioni nuove, da aspettative, da conoscenze precedenti relative
a ciò che dobbiamo valutare e dal ricordo di situazioni o individui che costituiscano esemplificazioni
specifiche dell'evento o della persona che percepiamo. E a quest'insieme strutturato e organizzato di
conoscenze - il quale fa da guida nell'elaborazione dell'informazione sociale e nell'interpretazione
dell'ambiente, e influenza i processi di percezione, di attenzione, di codifica, di memoria e di
inferenza, secondo modalità attive, così che vediamo, prestiamo attenzione, ricordiamo meglio ciò
che è congruente con le nostre aspettative - che la psicologia sociale che si richiama ai modelli
cognitivisti.
Una volta classificato uno stimolo, o una persona, all'interno di una categoria significativa (cfr. capp.
3, par. 7, e 8, par. 1), la percezione che abbiamo di esso si arricchisce di conoscenze relative alla
categoria che sono indipendenti dallo stimolo.
• Schemi di eventi. Le persone vengono guidate da schemi anche nel loro agire nel mondo sociale.
Tutti possediamo quelli che Schank e Abelson [1977] chiamano schemi di eventi, ovvero dei veri e
propri copioni, degli «script» che rego. lano, come in una rappresentazione teatrale, intere sequenze
di comportamento, in situazioni standard. Su questa base ciascuno di noi possiede delle strutture di
conoscenza, «sa» qual è la sequenza corretta delle azioni da compiere in un ristorante (sedersi,
chiedere il menù, ordinare, mangiare, pagare), quando ci si presenta per fare un esame all'università
(ci si siede, si consegna lo statino, si aspettano le domande, si risponde, si ascolta il voto, si firma il
verbale, si esce), quando si decide di fare una gita al mare e così via.
• Schemi di persone. Possediamo, inoltre, schemi di persone che fanno sì che degli altri ricordiamo
meglio i dettagli che sono congruenti con le aspettative che abbiamo nei loro riguardi (si pensi a come
interpretiamo in maniera diversa le informazioni relative a una persona a seconda se a prima vista
l'abbiamo classificata come estroversa, come colta, o come rassicurante) [Cohen 1981].
• Schemi del «Self». Abbiamo schemi del Self che ci portano a organizzare in un modo o in un altro
le descrizioni di noi stessi [Arcuri 1985] - una persona che si ritiene indipendente è portata a
descriversi come individualista, assertiva, non convenzionale [Markus 1977] - o quello che noi
ricordiamo di come ci siamo comportati nel passato.
• Schemi di ruolo. Siamo, poi, guidati da schemi di ruolo, ovvero da concetti astratti su quello che è il
comportamento previsto per una persona nel momento in cui ricopre una certa posizione all'interno
del gruppo sociale (una madre, da cui ci si aspetta comportamenti amorevoli e comprensivi, un
marito, da cui ci si aspetta devozione e rispetto; un professore da cui ci si aspetta serietà,
preparazione e senso morale); e su quello che è il nostro comportamento più appropriato al ruolo che
ricopriamo in quel momento.

L’ATTIVAZIONE DEGLI SCHEMI


Ma cosa ci porta a usare uno schema piuttosto che un altro nell'interpretare e valutare il
comportamento di un'altra persona? Ancora una volta siamo guidati dai principi che regolano la
percezione visiva degli oggetti.

La salienza
Tra le leggi della percezione del mondo fisico, quella che maggiormente interviene nella percezione
sociale è quella che viene detta figura-sfondo (cfr. cap. 3).
Questo principio prevede che siamo portati a dirigere la nostra attenzione agli aspetti del campo
percettivo che sono in rilievo, la figura quindi, rispetto a ciò che fa da sfondo. In ambito sociale a
guidare le nostre impressioni degli altri e a far scattare l'utilizzo di uno schema piuttosto che un altro
sono per l'appunto i tratti salienti, quelli più evidenti.
La salienza è determinata dalla luminosità, la rumorosità, il movimento o la novità dello stimolo
[McArthur e Post 1977]. Così, tutti coloro che hanno caratteristiche inusuali rispetto al contesto (lo
sfondo) sono salienti e richiamano l'attenzione.
Onde per cui, quando ci imbattiamo in una persona saliente per alcune caratI eristiche, come quelle
che fanno parte di uno stereotipo, a essa verranno più facilmente attribuite tutte le altre caratteristiche
stereotipiche di quel gruppo.
I tratti fisici come la razza, il sesso, la bellezza sono particolarmente salienti e attivano con più facilità
lo schema di gruppo, o per meglio dire lo stereotipo del gruppo, cui l'individuo appartiene.

DEFINIRE IL GRUPPO TRA LEWIN E TAJFEL (pag da 183 a 188)


Nel corso di questo volume abbiamo più volte parlato di gruppo. La tematica cardine della psicologia
sociale infatti è proprio il comportamento degli individui quando si trovano all'interno dei loro gruppi di
appartenenza e l'influenza che gli altri, siano essi presenti o meno, possono avere sui singoli. Già nel
capitolo primo, per esempio, abbiamo analizzato quali sono le condizioni che rendono possibile un
cambiamento nei comportamenti o nelle opinioni degli individui e abbiamo visto come anche il far
parte di un gruppo in cui le persone non hanno un' effettiva interazione gli uni con gli altri, come
accade quando si trovano in una folla anonima, porti a risultati imprevedibili e molto diversi rispetto a
quello che accadrebbe se le persone fossero da sole.
È pertanto importante, a questo punto, cercare di chiarire cosa gli psicologi sociali intendono
esattamente quando parlano di gruppo sociale di appartenenza.
Secondo una definizione che fa capo ai principi della teoria della Gestalt, possiamo parlare di gruppo
quando gli individui che ne fanno parte hanno per lo meno la potenzialità di avere tra di loro delle
interazioni, quando tra i membri vi è una interdipendenza, così che sia chi appartiene a quel gruppo
specifico sia chi appartiene a un gruppo diverso riescono a cogliere il «destino comune»
che lega i suoi membri.
Questa asserzione esemplifica la nozione di gruppo proposta da Kurt Lewin, il quale, come abbiamo
visto ampiamente nel capitolo terzo, per l'appunto trasferisce nella psicologia sociale i costrutti della
psicologia della Gestalt. Il gruppo è, pertanto, per Lewin un'entità collettiva, diversa da quella
individuale; è qualcosa di più e di differente rispetto alla semplice addizione dei singoli mem bri che lo
costituiscono.
Solo nel momento in cui vengono percepiti o si percepiscono come dotati di un «destino comune» i
singoli individui si costituiscono in un insieme. Quindi non è la somiglianza o la diversità che decide se
due persone appartengono allo stesso gruppo o a due gruppi diversi, ma l'interazione sociale o altri
tipi di interdipendenza.
In questa definizione le dimensioni del gruppo non sono una variabile cruciale, tant'è che, in accordo
con i principi della Gestalt, Lewin sostiene che si possono analizzare sperimentalmente tutte le
costellazioni sociali che hanno i requisiti su indicati «trasponendole» entro una dimensione di gruppo
adeguata, intendendo con trasposizione un «mutamento che lascia inalterate le caratteristiche
(strutturali essenziali».
Sulla base della definizione di Lewin, sembrerebbe che i passeggeri di un aeroplano, pur sedendo
l'uno accanto all'altro, non costituiscano un gruppo, così come non si può parlare di gruppo quando ci
riferiamo ai fan di una squadra di calcio che si ritrovano insieme allo stadio, ma non interagiscono.
Proviamo allora a vedere cosa non sarebbe un gruppo, secondo Lewin e cosa lo è secondo la
definizione per Tajfel. Quando raggruppiamo le persone sulla base di caratteristiche specifiche, quali il
sesso, la professione, l'età (le donne, gli insegnanti, gli adolescenti, i disoccupati) non parliamo di
gruppo sociale bensì di categorie sociali.
Quando le persone sono in una situazione comune e si trovano a stretto contatto le une con le altre,
senza tuttavia avere tra di loro un legame, parliamo di folla o di aggregati (la folla delle persone che
fanno la fila per entrare allo stadio, per esempio; i ragazzi che aspettano il loro idolo all'esterno del
teatro). In questo caso né Lewin né Tajfel parlerebbero di gruppo.

La teoria delle aspettative circa lo status.


Secondo la teoria delle aspettative circa Lo status (expectation-state theory) [Berger, Rosenholtz, e
Zelditch 19801, questa collocazione avviene a seguito di quelle che sono le aspettative del gruppo
circa le competenze e le abilità dei singoli membri necessarie al raggiungimento degli scopi previsti.
Nel momento in cui il gruppo è formato e strutturato norme sociali condivise regolano i comportamenti
che è possibile mettere in atto e che ci si aspetta vengano prodotti quando si ha un certo status
sociale.
Moreland [1990], in quasi tutti i gruppi sociali è possibile, peraltro, rintracciare alcuni ruoli fissi, quali:
• Il nuovo arrivato. Da chi ricopre questo ruolo ci si aspetta che, per essere accettato nel gruppo, sia
passivo, dipendente, conformista, ansioso [Choi e Levine 2004].
• Il capro espiatorio. Su chi ricopre questo ruolo gli altri membri del gruppo hanno la possibilità di
proiettare le parti inaccettabili e negative dell'immagine di sé.
• Il leader. Dal leader ci si aspetta che svolga essenzialmente due tipi di fun-zione, che sappia essere
un leader socioemozionale, in grado in altri termini di far procedere il gruppo in un'atmosfera
armoniosa e coesa, tenendo conto dei sentimenti e degli umori dei singoli, e prestando attenzione agli
aspetti emotivi dei rapporti interpersonali, e che sia in grado, allo stesso tempo, di essere un leader
centrato sul compito, ovvero che abbia come costante preoccupazione il raggiungimento da parte del
gruppo dei suoi scopi, e che sappia portare avanti con successo il lavoro richiesto dal compito
particolare sul quale è centrato
l'interesse del gruppo.
LA LEADERSHIP
Dagli studi di Bales e Slater [1955] è emerso che affinché un gruppo funzioni è necessario che siano
presenti entrambi i tipi di leadership di cui abbiamo appena detto, quella socioemozionale e quella
centrata sul compito, ma che è raro che la stessa persona sappia ricoprire entrambi i ruoli, sicché
alcune volte accade che nei gruppi siano presenti due persone distinte a svolgere le due funzioni.
Bales e Slater descrivono nei dettagli i due stili di leadership:
• I Leader socioemozionali sono centrati sulle relazioni, e mostrano, pertanto, molta considerazione
per i bisogni emotivi dei membri del gruppo, sono supportivi, allentano le tensioni se vi sono conflitti,
chiedono opinioni e suggerimenti, sono amicali, forniscono spiegazioni, cercano di mostrarsi
d'accordo con i singoli, creando così un clima armonioso e di cooperazione nel gruppo. Hanno, in
pratica, uno stile di leadership in linea con quella descritta da Lewin come leadership democratica (cfr.
cap. 3).
• I leader centrati sul compito. I leader di questo tipo mettono in atto essenzialmente comportamenti
che possano condurre al raggiungimento del risultato prefissato, hanno conoscenze specifiche per la
realizzazione del compito, impartiscono molti comandi, spingono i membri del gruppo a rispettare
regole e procedure.

Le caratteristiche del leader


Ma qual è il leader ideale? È quello che sa far ricorso a entrambi gli stili simultaneamente o è quello
che sa passare da un pattern comportamentale all'altro la seconda della situazione? Esistono
situazioni in cui uno stile è più produttivo dell'altro? E cosa fa sì che in un gruppo diventi leader un
individuo piuttosto che un altro o che si instauri un certo stile di leadership?
La teoria transazionale
'Ma se è vero che il leader ha il potere di influenzare i membri di un gruppo, a altrettanto vero che
questi possono a loro volta influenzare il leader con le loro aspettative e con le loro richieste. Un
leader che si allontana troppo dagli standard e dalle norme del gruppo può essere rifiutato e
spodestato. Nel proporre una teoria della leadership che viene detta transazionale, proprio perché
enfatizza la bidirezionalità del influenza leader-membri del gruppo, Hollander
(1985] mostra che un leader viene legittimato nel suo potere alle seguenti condizioni:
1. se viene scelto dai membri del suo gruppo e non viene imposto dall'esterno con la forza;
2. se sa conformarsi, nelle fasi iniziali, alle norme del gruppo;
3. se sa mostrare di avere le abilità e competenze necessarie per raggiungere gli obiettivi del gruppo;
4. se sa identificarsi con il suo gruppo.

La leadership trasformazionale (pag 191-192)


L'attenzione duplice sia al leader sia ai membri del gruppo, ovvero a come questi vedono colui che li
dirige, risulta coerente con un più recente modello di leadership, quello trasformazionale [Bass 1998;
Bass e Avolio 1990; 1993]. I leader trasformazionali sono coloro che riescono a influenzare i membri
del gruppo nel trascendere gli interessi personali e li motivano a perseguire mete comuni. La
leadership trasformazionale si caratterizza per le seguenti dimensioni:
1. Quella che viene detta influenza idealizzata (carisma). Si tratta di una dimensione che fa
riferimento alla competenza e all'affidabilità del leader.
(2. La motivazione all'aspirazione, una dimensione che misura la capacità del leader di orientare le
mete del gruppo in termini emozionali, morali e utopistici.
3. La stimolazione intellettuale, che comporta la tendenza a incoraggiare i subordinati a pensare in
modo indipendente e creativo con l'obiettivo di spingerli oltre le idee formulate nel passato e con lo
scopo di far loro superare i limiti trovati nei loro percorsi.
4. La considerazione individualizzata, ovvero la capacità del leader di comprendere i bisogni e le mete
personali di ciascun membro del gruppo.
I leader che ricevono punteggi elevati in tali dimensioni da parte di superiori, pari o subordinati
risultano avere elevati livelli di prestazione all'interno del proprio gruppo di lavoro.
COMUNICAZIONE E STRATEGIE DI CAMBIAMENTO DEGLI ATTEGGIAMENTI
(pag 132.134-135-136)
Ma mentre il modo in cui cambiano le varie componenti di un atteggiamento è da ricondurre a forze
motivazionali da rintracciare nella mente individuale - come mostrano le teorie dell'equilibrio e della
dissonanza cognitiva -, il cambiamento di un atteggiamento nella sua totalità è per lo più de ricondurre
all'influenza sociale, alle capacità persuasive degli altri, al loro modo di comunicare [Zani, Selleri e
David 1994].
E allora cosa rende un messaggio persuasivo, tale da produrre un cambiamento di atteggiamento?

Il modello della probabilità dell’elaborazione: un modello duale.


Il modello della probabilità dell'elaborazione (elaboration-likelihood model formulato da Petty e
Cacioppo [1986 a; 1986b1 mette in evidenza come le persone utilizzino, invece, entrambe le
strategie.
• Il percorso centrale della persuasione. In alcune condizioni, gli individui utilizzano quello che viene
detto il percorso centrale della persuasione: esaminano il messaggio nel suo contenuto, ne esplorano
i dettagli, valutandolo in maniera critica e sistematica, cercano di ricordare quello che già sanno su
quell'argomento, collegano le loro conoscenze alle nuove informazioni e ne traggono inferenze e
valutazioni. Si tratta di una strategia molto simile a quella ipotizzata dal modello della risposta
cognitiva.
• Il percorso periferico della persuasione. A volte, però, chi ascolta un messaggio non è disposto o
non è in grado di utilizzare questo processo di valutazione, e utilizza pertanto quello che viene detto il
percorso periferico della persuasione. Si basa, in pratica, sugli aspetti semplici e superficiali della
comunicazione, rinunciando o evitando di procedere a un esame della validità delle argomentazioni,
utilizzando piuttosto la bellezza o il prestigio della fonte come indice di attendibilità, così come predice
il condizionamento classico o quello operante.
La probabilità che l'ascoltatore usi un percorso piuttosto che un altro dipende da una serie di fattori di
tipo individuale, tra i quali la motivazione e l'abilità.
Il percorso centrale, che richiede molto più tempo ed energia, viene utilizzato quando si è molto
motivati a conoscere le argomentazioni proposte - per esempio, quando si è personalmente coinvolti
o il tema della comunicazione è particolarmente rilevante - o quando si hanno una certa dose di
intelligenza e di conoscenze specifiche.

Il bisogno di cognizione
La via periferica viene percorsa non solo se l'ascoltatore non ha abbastanza capacità cognitive o se
ha un bisogno di cognizione non elevato, o se non è abbastanza motivato, ma anche se il messaggio
è incomprensibile, se non si è in possesso delle informazioni necessarie per potersi appropriare delle
tematiche che vengono discusse, se semplicemente ha molta fretta, se si trova in un contesto non
sereno e se è di buon umore.

L’umore
Gli esiti di due percorsi sono differenti. Il cambiamento di atteggiamento che deriva dal percorso
centrale della persuasione è profondo e resistente a ulteriori
modificazioni. Il percorso periferico, invece, è di breve durata, porta a un cambiamento che non
esclude ulteriori modifiche da parte di nuove comunicazioni persuasive ed è meno legato alla messa
in atto di comportamenti corrispondenti.

RETI DI COMUNICAZIONE E PRODUTTIVITÀ (pag 193-194)


Nella vita quotidiana la comunicazione tra i membri di un gruppo è regolata da norme prestabilite che
specificano chi deve comunicare e con chi all'interno di una vera e propria rete di comunicazione. Non
sempre la rete di comunicazione ha una struttura centralizzata come quella che abbiamo appena
descritto. Bavelas [19501 e Leavitt (1951] hanno proposto un modello che descrive le strutture di quei
gruppi in cui gli scambi comunicativi non avvengono attraverso canali formali, e hanno analizzato il
modo in cui le diverse reti di comunicazione che si instaurano tra i singoli individui influenzano la
produttività del gruppo e la soddisfazione dei suoi membri.
Come appare dalla figura 9.1, le reti possono variare da un massimo di centralizzazione, in cui si ha
una struttura a ruota (a) - una persona al centro riceve messaggi e li invia a persone che si collocano,
rispetto a lui, come i raggi di una
ruota, per cui ciascun membro può comunicare solo attraverso di lui -, a un massimo di apertura (d),
in cui si ha una struttura a cerchio o a prisma - dove nessuno controlla lo smistamento dei messaggi,
e ognuno è libero di comunicare con chiunque altro.
Dai risultati di questi studi emerge che più la rete è centralizzata, più efficiente è la prestazione di
gruppo e più è rapido lo svolgimento del compito, special. mente se si tratta di compiti semplici, anche
se la soddisfazione complessiva del gruppo è minore e diminuisce, da parte dei suoi membri, la
motivazione al raggiungimento dello scopo prefissato.
Dalle ricerche di Steiner [1972] emerge, tuttavia, che le diverse reti di comunicazione influenzano il
successo nelle prestazioni secondo modalità più complesse.
Nei compiti difficili, reti di comunicazione a cerchio facilitano il raggiungimento di una soluzione solo
nella prima fase della discussione. Dopo un certo periodo, le reti centralizzate, dove esiste una
persona che raccoglie tutte le informazioni e ) ha quindi la possibilità di coordinarle, danno luogo a
prestazioni migliori anche nei compiti complessi, esattamente come accade nei compiti semplici. I
compiti difficili, quindi, sono facilitati dalla possibilità di usufruire, in una prima fase, di cerchi - dove
ciascuno ha la possibilità di esprimere la propria opinione - e in una seconda fase di ruote - visto che i
compiti difficili richiedono più che mai coordinazione.

I MOLTEPLICI EFFETTI DELL’INFLUENZA SOCIALE (pag 200)


(visiete mai chiesti come mai oggigiorno quasi tutti i ragazzi portano pantaloni di taglio militare e
hanno i capelli tagliati corti, e le ragazze portano vestiti abbastanza atillati, mentre nel '68 erano di
moda i capelli lunghi e le casacche per i maschi, le grandi gonnone a fiori e zoccoli per le femmine?
Perché tendiamo a vestirci tutti allo stesso modo? E come mai nelle assemblee o nelle riunioni di
lavoro una posizione finisce con il prevalere e tutti la votano o la assumono come valida anche se
intimamente non sono d'accordo? Si tratta di comportamenti o tendenze che rivelano come gli esseri
umani abbiano una naturale tendenza a conformarsi a quello che il gruppo di appartenenza decide, a
seguire i diktat della maggioranza.
Essere conformisti, peraltro, può non significare semplicemente comportarsi come (si comportano gli
altri. Il conformismo può implicare l'essere influenzati da ciò che gli altri fanno fino al punto di fare
volontariamente delle cose che non si farebbero (o avere delle opinioni che non si avrebbero) se si
fosse da soli.

Le ragioni del conformismo (pag 206-207)


Accettare il giudizio degli altri significa, quindi, conformarsi alla maggioranza sulla base di una ipotesi
implicita che gli altri hanno più informazioni di noi. E l'influenza dell'informazione, quella che viene
detta pressione informazionale, a far sì che gli individui accettino le opinioni del proprio gruppo.
Un secondo motivo per essere conformisti può essere rintracciato nel bisogno di piacere, di essere
accettato e di essere approvato. Nel capitolo quarto abbiamo visto che gli esseri umani sono individui
che appartengono a una specie sociale e che hanno bisogno del gruppo per la loro sopravvivenza.
Quanto più le persone si aspettano di suscitare antipatie, di essere rifiutate o di essere derise se si
mostrano in disaccordo con la maggioranza, tanto più conformeranno le loro opinioni, i loro
atteggiamenti e i loro comportamenti a quelli degli altri. In questo caso, quindi, sono le pressioni
normative a spingere verso il conformismo
[Deutsch e Gerard 1955].
La paura di assumere posizioni diverse da quelle del gruppo è giustificata dalle reazioni del gruppo
stesso. Se non ci si conforma agli standard del gruppo, i suoi membri possono fare pressioni in vari
modi per ottenere l'adesione ai valori, alle norme e ai comportamenti degli altri. Per esempio, possono
tentare in maniera attiva di convincere la persona deviantê a rientrare nelle regole, per poi rifiutarla in
caso questa non si adegui alle norme sociali; oppure possono punirla ed emarginarla.
I due processi di influenza da parte della maggioranza portano, peraltro, a esiti diversi. La pressione
informazionale fa sì che le nostre opinioni cambino in maniera profonda e che si abbia un'adesione
interiore, una sorta di conversione, che porta a internalizzare le opinioni o le norme del gruppo.
La pressione normativa porta invece a una modificazione del comportamento che, però, si
accompagna solo a un'accettazione superficiale dei giudizi degli altri. Si ha in questi casi quella che
viene detta acquiescenza, o conformismo pubblico.
E mentre il cambiamento dovuto alla pressione informa-zionale è più profondo e pervasivo, il
conformismo pubblico può portare solo a un'adesione formale, che nasconde in realtà un
mantenimento delle proprie opinioni personali.

IL PARADIGMA DI MOSCOVICI E L’INFLUENZA DELLA MINORANZA (pag da 208


a 213)
Gli studi che hanno mostrato l'influenza della maggioranza su un individuo isolato sono moltissimi,
anche se, come abbiamo visto, è sufficiente che vi sia un solo individuo in disaccordo
Ma è possibile che sia un individuo singolo a convincere la maggioranza che lui ha ragione e loro
torto? Può la minoranza esercitare un'influenza sulla maggioranza e porsi come forza innovativa?
Tutti sappiamo che i più grandi mutamenti nell'arte e nella scienza, e le rivoluzioni ideologiche e
politiche, sono proprio da ricondurre all'influenza di una forza proveniente dalla minoranza.
Sul finire degli anni 60 lo psicologo francese Serge Moscovici fa notare che se il conformismo fosse
l'unica forza a plasmare le opinioni dei membri di un gruppo o di una società, si avrebbero delle
organizzazioni sociali di tipo statico e omogeneo. Si devono proprio alle minoranze (basti pensare,
per esempio, a Galileo per le scienze o a Picasso per l'arte) quelle innovazioni importanti che hanno
portato allo strutturarsi della società moderna.
Moscovici dà inizio così a una serie di studi [Moscovici, Lage e Naffrechoux 1969] con i quali si
propone di mostrare che la minoranza può effettivamente cambiare le posizioni della maggioranza e
che esistono delle condizioni privilegiate perché essa possa esercitare la sua influenza. La forza
persuasiva della minoranza è da rintracciare nello stile di comportamento che essa utilizza, la cui
componente più importante è la coerenza.

Coerenza diacronica e coerenza sincronica.


Per essere credibili e influenti i membri di una minoranza devono saper esprimere la loro posizione e
rimanere saldi, malgrado gli attacchi della maggioranza, mostrandosi coerenti sia a livello
intraindividuale, ovvero ciascuno deve sapere mantenere stabili le sue posizioni nel tempo (secondo
quella che viene detta coerenza diacronica), sia a livello interindividuale ovvero i membri della
minoranza devono saper mostrarsi coerenti tra di loro e continuare a esserlo nell'arco del tempo
(secondo quella che viene detta coerenza sincronica). A queste condizioni si può avere un
cambiamento di opinioni nella maggioranza, una conversione.
Sembrerebbe, peraltro, che li dove la maggioranza opera più che altro a livello pubblico, provocando
acquiescenza, ma non intaccando gli atteggiamenti pri-vati, la minoranza produce un cambiamento
profondo di opinione, tant'è che è addirittura possibile parlare di conversione.
E mentre la maggioranza ha un'influenza di breve respiro, la minoranza produce cambiamenti che si
prolungano nel tempo [per una rassegna, cfr. Maass e Clark
1984].0
Moscovici sostiene in pratica che i processi cognitivi che danno conto dell'influenza della
maggioranza e della minoranza sono qualitativamente diversi. Di fronte alle opinioni della
maggioranza si mette in atto un processo di confronto sociale (un costrutto preso a prestito da
Festinger, che lo aveva formulato nel
1954), il quale fa sì che, quando le persone si sentono confuse, confrontano la propria risposta con
quella degli altri, al fine di arrivare a una visione condivisa del mondo. Questo fa in modo che tengano
in attenta considerazione ciò che gli altri dicono, senza prestare molta attenzione all'argomento
stesso, fino a far coincidere i propri giudizi con quelli degli altri.
Di Conseguenza si verifica un'accettazione della posizione della maggioranza in quanto non si
procede a un'analisi delle argomentazioni siano queste forti o deboli [Martin, Hewstone e Martin
2007].
A queste condizioni non può che aversi altro che un'acquiescenza a livello pub. blico, e un
cambiamento di durata breve. Infatti, quando le persone non sono più in presenza della maggioranza,
hanno la possibilità di concentrarsi sul problema e ritornare ai loro punti di vista.
La minoranza stimola invece un processo di validazione, ovvero si mette in atto un processo cognitivo
che porta a trovare le ragioni che fanno si che la minoranza mantenga nel tempo le sue posizioni in
maniera coerente. Questo processo spinge le persone a prendere il punto di vista dei membri della
minoranza e induce una vera e propria conversione, ovvero un cambiamento profondo, resistente
anche a processi di persuasione contrastanti [Martin, Hewstone e Martin 2003], anche se la
conversione si manifesta in maniera nascosta.
Charlan Nemeth [1986] ha inoltre richiamato l'attenzione sul fatto che, a seguito dell'influenza della
minoranza, le persone si attivano mentalmente su una serie
SI di problemi che vanno al di là di quelli invocati dalla minoranza, mostrandosi in grado di trovare
anche soluzioni nuove e creative, all'interno di quello che viene detto pensiero divergente. La
maggioranza, invece, spinge verso il pensiero convergente, ovvero fa sì che gli individui si focalizzino
sul messaggio proposto senza considerare altre possibili soluzioni.

L’INFLUENZA DEGLI ALTRI SULLE DECISIONI: DALLO SPOSTAMENTO VERSO IL


RISCIÒ ALLA POLARIZZAZIONE DI GRUPPO
Finora abbiamo preso in considerazione gli studi che hanno analizzato gli effetti dell'influenza sociale
quando gli individui si trovano in situazioni nelle quali devono esprimere dei giudizi su semplici eventi
fisici (quanto è lunga una linea, (il movimento di un punto di luce, il colore di una diapositiva), e
abbiamo considerato i processi attraverso cui le opinioni della maggioranza o della minoranza portano
a un cambiamento nell'atteggiamento dei singoli. Ma cosa accade quando un individuo fa parte di un
gruppo? In che modo le «dinamiche di gruppo», il far parte di un gruppo che è impegnato in una
discussione, influenzano il punto di vista individuale e i processi decisionali?
In genere si pensa che i gruppi sono in grado di prendere delle buone decisioni più dei singoli
individui: i gruppi possiedono più informazioni, sono maggiormente in grado di esaminare tutti i lati di
un problema e di far sì che si evitino soluzioni affrettate e senza via di uscita. A lungo gli stessi
psicologi sociali hanno ritenuto che i gruppi, nelle loro posizioni, rispetto alle persone singole, fossero
meno estremi, più conservatori, più moderati e meno inclini a sostenere decisioni rischiose. Del resto,
sembrerebbe ovvio che una discussione di gruppo - pensiamo a un gruppo di lavoro in
un'organizzazione, costituito da molte persone, ciascuna con un punto di vista diverso - abbia come
esito una posizione che costituisce un compromesso tra ciò che pensano i singoli, un punto di vista
che sia il più conveniente per tutti e che implichi azioni che non siano un rischio per l’azienda o
l’istituzione.

La polarizzazione di gruppo
Sembra quindi evidente che le discussioni di gruppo abbiano un effetto notevole sui processi
decisionali e che spingano gli individui verso forti assunzioni di rischio. È stato, tuttavia, provato che
questo effetto non è limitato alle discussioni in cui si devono esprimere opinioni su situazioni che
implicano delle scelte dall'esito incerto. Ricerche recenti hanno mostrato che se le opinioni iniziali dei
membri sono moderate, la discussione di gruppo porta a uno spostamento verso un conservatorismo
estremo [Fraser, Gouge e Billig 19711. Anche in questo caso, quindi, si avrebbe, dopo la discussione
di gruppo, un' estremizzazione delle posizioni espresse individualmente in precedenza.
Sembrerebbe, pertanto, che le dinamiche di gruppo abbiano un effetto più di base. Qualunque sia il
tema della discussione, i gruppi tendono a spostarsi verso direzioni estreme. Tuttavia,
l'estremizzazione non avviene indifferentemente verso l'uno o l'altro dei poli, bensì nella direzione
verso cui in media i singoli sono già orientati. Questa polarizzazione su posizioni estreme, ma in
origine già presenti nei membri del gruppo - diversa da una generica estremizzazione non rivolta
verso un polo specifico - viene definita polarizzazione di gruppo.
Il pattern di polarizzazione, peraltro, riguarda qualunque dimensione di giudizio ed è stato riscontrato
nei più vari contesti; è rintracciabile negli stereotipi, nelle ,decisioni prese nei giochi d'azzardo, nelle
decisioni delle giurie, nei modi di concepire il sostegno nelle organizzazioni religiose, ecc. Moscovici e
Zavalloni [1969].
Un'altra interpretazione chiama in causa i processi di «confronto sociale» così come sono stati
proposti da Festinger [1954]: le persone confrontano il proprio punto di vista con quello degli altri, e
scoprono che alcuni hanno posizioni più estreme delle loro. Il desiderio di dare un'impressione
positiva e di sembrare sicuri può spingere verso posizioni ancora più estreme degli altri al fine di
sembrare «migliori» della media.

STEREOTIPI E SCHEMI DI GRUPPO: le basi cognitive (pag da 146 a 151)


Nelle nostre relazioni con gli altri siamo guidati da schemi di gruppo, che fanno sì che vengano
attribuiti tratti specifici a gruppi particolari di individui sul base di idee preconcette: le donne,
superficiali, emotive e ciarliere; gli anziani deboli, dipendenti e conservatori, i giovani, forti, entusiasti e
rivoluzionari.
I meccanismi cognitivi di semplificazione, connessi con l'attivazione dello schema di un gruppo
particolare, fanno sì che nel momento in cui in un membro di un gruppo venga percepito un tratto
singolo, questo viene visto come parte di una coerente struttura sottostante, che corrisponde alla
categorizzazione dell'intero gruppo. Una volta attribuita al singolo individuo quella specifica
configurazione di tratti, l'immagazzinamento di informazioni relative a esso viene regolato da quella
stessa rigidità percettiva che regola la percezione del mondo fisico (cfr. cap.
3) e che fa sì che in un campo visivo, di fronte a delle figure ambigue, quando ne viene riconosciuta
una, è molto difficile raggruppare i contorni in maniera diversa onde dar luogo alla configurazione
dell'altra sagoma (cfr. cap. 3, fig. 3.4).
Diventa così difficile cambiare prospettiva e attribuire a un membro di un certo gruppo configurazioni
di tratti diverse.
Lo schema di gruppo fa sì che se ci si aspetta che una persona nera sia pigra, o che una tedesca sia
razionale, venga attribuita a essa la configurazione totale dei tratti stereotipici dei neri, o dei tedeschi:
si tenderà, in altri termini, ad attribuirgli anche l'insieme degli altri tratti che fanno parte dello schema
di quel gruppo. La rigidità percettiva impedirà di uscire da questa configurazione.
La memoria tende a privilegiare le informazioni che sono congruenti con le aspettative.
Questa connessione tra stereotipi, percezione e memoria spiega ulteriormente perché gli stereotipi
non sono suscettibili di cambiamento neanche di fronte a evidenze contrarie: le caratteristiche che
non corrispondono alle aspettative passano inosservate, non vengono percepite, o vengono
facilmente dimenticate, e gli stereotipi continuano a influenzare la ricostruzione dei ricordi [Arcuri e
Cadinu 1998].
Questi schemi possono divenire rigidi e impermeabili al cambiamento, mai ferado esperienze dirette
di tipo contrario con i singoli membri del gruppo, dando così luogo agli stereotipi, un termine che
dobbiamo a un giornalista di nome Walter Lippmann, il quale per primo vide un'analogia, nel 1922, tra
le immagini rigide e semplificate usate nei calchi di stampa (il termine stereo. tipo - dal greco stereos,
«rigido», e typos, «impronta» - indica tra i tipografi la riproduzione a stampa per mezzo di calchi fissi)
e la tendenza da parte dei gruppi a far uso di forti processi di semplificazione nella percezione degli
altri gruppi. Egli suggeri quindi di utilizzare il termine stereotipo per indicare questo tipo di
semplificazione rigida della realtà ravvisabile nell'opinione pubblica

Come si disconferma uno stereotipo.


Ma che cosa accade se un individuo di un certo gruppo si comporta in maniera da disconfermare in
modo costante lo stereotipo relativo al suo gruppo di appartenenza? Si modifica lo stereotipo che non
ha trovato conferma nei dati di realtà? L'esperienza e i risultati delle ricerche ci dicono che le cose
non stanno così. Scatta, infatti, nella nostra mente un'immediata tendenza a considerare quella
persona come parte di un sottogruppo, sì da proteggere lo stereotipo dalla sua falsificazione
[Johnston e Hewstone 1992]: una donna molto brava in matematica, o con grandi capacità di leader,
sarà classificata come parte di un sottogruppo di donne «abili come gli uomini», donne che «sono dei
veri uomini», giudizio che nel tempo è stato dato ai comportamenti e allo stile di leadership di Golda
Meir, di Margaret Thatcher e di tutte le donne che si sono distinte negli ambiti della politica, della
ricerca e della cultura. Tant'è che, perché si abbia un cambiamento nella percezione, codifica,
ricostruzione dei ricordi e rievocazione pregiudiziale delle informazioni rilevanti, è necessario non solo
che le prove a sfavore dello stereotipo siano chiare, ma che esse riguardino membri tipici del gruppo
che è oggetto dello stereotipo [Richards e Hewstone 2001]: nel nostro esempio ,sarebbe necessario
che la donna «abile come un uomo» abbia un aspetto e comportamenti stereotipicamente femminili.

Pregiudizi, processi di categorizzazione e dinamiche relazionali


I processi di categorizzazione sociale, quindi , possono essere visti in un duplice aspetto: da una
parte li possiamo considerare adattivi, ovvero l'esito della selezione naturale, in quanto consentono,
alla stessa stregua di tutti i processi di percezione e cognizione sociale che torni, mio esaminato in
precedenza, di formarsi un'impressione rapida degli altri, a di reagire a essi in maniera appropriata,
rendendo così il mondo sociale più controllabile e prevedibile; dall'altra, come spesso accade per le
nostre propensionsioni a base innata - che avevano un senso nel nostro passato evoluzionistico-
possono portare nel mondo odierno alla messa in atto di comportamenti o di modalità di pensiero
disadattive, ovvero possono dar luogo a degenerazioni e a esiti inaccettabili.
Gli Stereotipi possono essere considerati infatti, come dicevamo, la componente cognitiva
dell'antagonismo tra i gruppi: sono le impressioni che le persone si formano dei gruppi diversi dal
proprio e che mediano il rapporto conoscitivo con essi.
Gli stereotipi sono, in altri termini, categorizzazioni sociali talmente approssimative da dar luogo a
impressioni distorte delle persone che appartengono al gruppo sociale che vediamo in termini
stereotipici, diventando, così, la base dei pregiudizi, ovvero di quegli atteggiamenti, che pur in
assenza di dati empirici, sono ingiustificatamente sfavorevoli verso chi appartiene a determinati gruppi
sociali [Mazzara 1996]. Queste valutazioni, per lo più negative, fanno sì che una persona venga
giudicata per la sua appartenenza a un gruppo e non per quello che è in quanto individuo.
Gli stereotipi implicano, quindi, inevitabilmente un processo di discriminazione, (i quale si articola in:
a) comportamenti e atteggiamenti discriminativi contro il gruppo verso il quale si nutre il pregiudizio; b)
una discriminazione speculare a favore del gruppo di appartenenza, il quale ha per lo più il potere di
emarginare il gruppo «altro».

LA FORMAZIONE DEGLI STEREOTIPI


I ruoli sociali
Gli stereotipi non sono del tutto arbitrari, ma hanno alla loro base le esperienze che facciamo nella
nostra vita di relazione con le persone che appartengono ai diversi gruppi sociali - tant'è che è
possibile parlare per essi di un nocciolo di verità - e riflettono i ruoli sociali svolti attualmente o in
passato da quei gruppi [Campbell 1967; Eagly 1987]. Smith e Mackie [1995] fanno notare che gli
ebrei vengono considerati scaltri e avari perché nel Medioevo una delle poche occupazioni cui essi
potevano avere accesso era quella di prestare denaro; con il tempo gli ebrei hanno finito per essere
visti come particolarmente adatti a questa occupazione per delle loro caratteristiche di personalità di
tipo genetico.
E malgrado sia probabile che fosse il ruolo a produrre quei tratti di personalità e non viceversa, le
esperienze che, sin da quei tempi, gli individui hanno fatto con le persone di religione ebraica che
svolgevano quel tipo di occupazione hanno portato allo stereotipo dell'ebreo usuraio e avaro.
Non a caso questi stessi tratti vengono attribuiti a tutti quei gruppi che occupano la stessa nicchia
economica nelle società in cui vivono: in Indonesia e in Malesia sono i cinesi a essere visti come avari
e scaltri; nell'Africa meridionale e orientale questo stereotipo riguarda i mercanti musulmani, in
Russia, attualmente, sono i venditori caucasici di prodotti agricoli che vengono tacciati di essere esosi
e astuti.

L’errore di corrispondenza (pag 151 collegata a pag 186).


I ruoli sociali di un gruppo limitano e delimitano i comportamenti che vengono messi in atto dai suoi
membri. Poiché accade per lo più che, nei loro primi contatti, le persone di un gruppo interagiscano
con quelle di un altro quando queste ricoprono un determinato ruolo sociale, e quindi quando il loro
comportamento è influenzato da quel particolare ruolo, la percezione che ne deriva può portare a
stereotipi distorti. Attraverso un meccanismo cognitivo che viene detto errore di corrispondenza,
infatti, i comportamenti associati ai ruoli vengono attribuiti a caratteristiche di personalità dei singoli
individui che appartengono a quel gruppo.
Il processo che porta alla formazione di uno stereotipo può essere visto.

Effetto «primacy» (pag 144-145)


[Sembrerebbe inoltre che siano le prime informazioni relative all'altro a far si che si attivi uno schema
piuttosto che un altro. Il meccanismo invocato in questo caso viene detto effetto «primacy», principio
simile a quello che abbiamo analizzato a proposito della formazione delle impressioni di personalità.
Se a momento di conoscere una persona, ci viene detto che essa sta per presentarsi a un concorso
per diventare avvocato, nella nostra mente si attiverà uno schema che porterà a elaborare le
informazioni relative al comportamento dell'altro in funzione del fatto che quello è, o non è, il modo di
fare proprio di un giurista.
In pratica, sulla base di poche informazioni, viene utilizzato uno schema di cui si è già in possesso per
interpretare tutti i dati in arrivo relativi all'altro [Fiske e Taylor 1991].

Le profezie autoavverantesi e la conferma delle ipotesi


Gli schemi non solo influenzano l'interpretazione dei dati che provengono dall'ambiente, ma possono
addirittura far sì che l'ambiente, sia esso sociale sia fisico, corrisponda allo schema che ne abbiamo.
Quando si dice e si teme che la Borsa crolli, la Borsa crolla davvero, in quanto sulla base dello
schema dell'andamento dei mercati finanziari, tutti si affrettano a vendere le azioni, facendo sì che la
profezia si autoavveri.
Qualcosa di simile accade anche nei rapporti con le persone.

IL FUNZIONAMENTO DEGLI SCHEMI DI GRUPPO (pag da 152 a 157)


Stereotipi e profezie autoavverantesi. Inutile dire che, come tutti gli schemi, gli stereotipi sull' out
group possono spingere coloro che fanno parte del gruppo esterno a mettere in atto proprio quei
comportamenti che confermano lo stereotipo. Lo stereotipo, quindi, non solo influenza le nostre
credenze su un dato gruppo, ma si pone in termini di profezia autoavverantesi (self-fulfilling phecy).
Se crediamo che i genovesi siano avari, ci comportiamo nei loro riguardi come se ci aspettassimo in
ogni momento che essi cerchino di risparmiare (se dobbiamo vendere una casa a un genovese, per
esempio, siamo portati a raddoppiare il prezzo, aspettandoci che egli cercherà comunque di
abbassarlo il più possibile); e così facendo aumentiamo la probabilità che essi si comportino in modo
da confermare lo stereotipo che li riguarda (di fronte a un prezzo esorbitante, l'acquirente genovese,
come chiunque del resto, cercherà di risparmiare e di offrire una cifra molto bassa).

La correlazione illusoria
Come già detto, nei nostri processi di elaborazione delle informazioni siamo portati a prestare più
attenzione a quelle che sono le caratteristiche insolite salienti degli individui, e a trascurare le
informazioni relative a ciò che è comune.
Per un meccanismo cognitivo che è stato scoperto da Loren e Jean Chapman [Chapman e Chapman
1969] siamo, inoltre, portati a ritenere che se due eventi insoliti, poco frequenti e pertanto distintivi, si
verificano per alcune volte nello stesso tempo, questi sono correlati, ovvero tendiamo a credere che la
connessione tra quei due fenomeni non è solo saltuaria, ma è costante.

Condivisione di unicità
Due eventi inusuali e insoliti, che si presentino insieme, vengono notati molto, mentre si presta minore
attenzione alle volte in cui i due fenomeni distintivi non capitano nello stesso momento.
Questo effetto condivisione di unicità(shareal distinctiveness account) sembrerebbe dar conto del
fatto che tendiamo a ritenere associate le caratteristiche che percepiamo come insolite, infrequenti e
distintive, e i gruppi che percepiamo come insoliti, infrequenti e distintivi, secondo un meccanismo che
Hamilton [1981] definisce correlazione illusoria (illusory correlation).
Se in un gruppo siete l'unica persona del vostro sesso, o della vostra razza o della vostra nazionalità,
sarete notato, e diventerete oggetto di attenzione da parte degli altri, in quanto la vostra diversità vi
rende molto visibile. Un nero in un gruppo di bianchi, un uomo in un gruppo di donne, o una donna in
un gruppo di uomini sono salienti, spiccano di più, e la salienza porta a una percezione esagerata
delle loro caratteristiche, fisiche o comportamentali, siano esse positive o negative, le quali risultano a
loro volta «insolite» rispetto a quelle
degli altri.
Quando due eventi distintivi, non comuni, si presentano allo stesso tempo (una persona di un gruppo
minoritario e un'azione criminosa), si presta loro maggior attenzione, si opera una correlazione tra i
due eventi, e ci si forma uno stereotipo al riguardo. Il fenomeno «correlazione illusoria» dà conto,
pertanto, anche del dato che ai gruppi minoritari vengono attribuite più azioni immorali e criminose di
quanto non ne vengano attribuite ai membri del proprio gruppo di appartenenza.

Stereotipi e mezzo di comunicazione di massa


I mass media, nel riportare delitti e atti delinquenziali, riflettono proprio questo fenomeno e lo
amplificano. Quando un omosessuale uccide qualcuno, la notizia viene riportata evidenziando
l'omosessualità dell'assassino, mentre se l'omicidio è commesso da un eterosessuale, non si fa alcun
riferimento alle sue inclinazioni sessuali; infatti l' eterosessualità non è un evento insolito e non
richiama l'attenzione del pubblico. Quando Mark Chapman sparò a John Lennon, fu riportato che si
trattava di un malato di mente, proprio perché la pazzia è un tratto insolito e suscita curiosità e
inquietudine. Quando un albanese investe un bambino la notizia appare in questi termini «Bambino
investito da un albanese che guidava la macchina ubriaco», mentre se l'investitore è un bianco
italiano i giornali titolano «Bambino investito da un automobilista mentre andava a scuola».
Il risultato di questo modo di presentare gli eventi è quello di creare una correlazione tra i due
fenomeni, così che si rafforza nell'immaginario della popolazione lo stereotipo che gli omosessuali o i
malati di mente o gli extracomunitari sono violenti, immorali e irresponsabili.
Il ritenere che i membri dell'outgroup siano tutti uguali (l'effetto omogeneità dell'outgroup, del quale
parleremo a proposito della costruzione della nostra identità sociale nel capitolo ottavo) dà poi conto
del fatto che i comportamenti insoliti vengano ritenuti stereotipicamente appannaggio di tutti i membri
del gruppo bersaglio.

Remare contro gli stereotipi


Sembrerebbe quindi, da quanto detto finora, che gli stereotipi vengano attivati automaticamente e
vengano mantenuti attraverso meccanismi difficili da disinnescare. Eppure da una serie di studi
emerge che non è proprio così, e che anche se in una fase iniziale nel rapporto con gli altri si
innescano certi stereotipi, non è detto che il comportamento prodotto sia in linea con essi [Fiske
2004]. Sembrerebbe inoltre che fattori cognitivi e motivazionali possano portare a evitare l'attivazione
degli stereotipi [Moskowitz 2005].
Una visione egalitaria.
L'avere una visione egalitaria del mondo, per esempio, porta a sentirsi a disagio nel confronto con
una propria iniziale impressione di tipo stereotipico e ha come conseguenza un cambiamento nel
comportamento successivo [Moskowitz et al. 1999].

Gli scopi personali, gli atteggiamenti, la motivazione, il tempo necessario


Quando siamo motivati a non ricorrere a stereotipi, ovvero quando desideriamo a livello conscio non
apparire come persone che regolano i loro rapporti con gli altri sulla base di pregiudizi, quando
abbiamo il tempo necessario per raggiungere questo livello di consapevolezza [Macrae e
Bodenhausen 2000].

L’EFFETTO OMOGENEITÀ DEL GRUPPO ESTERNO E L’EFFETTO PRESUPPOSIZIONE


DI SIMILARITÀ (pag 166)
il gruppo esterno, quindi, viene percepito, come abbiamo detto in precedenza, come costituito da
individui che sono pressapoco tutti uguali secondo quello che viene detto effetto omogeneità del
gruppo esterno. È abbastanza comune credere che gli americani siano tutti uguali o che i tifosi della
squadra avversaria non si differenzino l'uno dall'altro, o che gli studenti degli altri corsi di laurea
abbiano tutti le stesse caratteristiche, mentre «noi» siamo diversi.
Questa tendenza a considerare gli altri gruppi come una massa anonima, sicché tendiamo a indicare
la studentessa di Rouen che si è trasferita nella nostra facoltà come «la francese» invece di chiamarla
Martine, o il collega che viene dalla Cina come il cinese» invece di Yao Ming, potrebbe essere
semplicemente ricondotta al fatto che noi conosciamo meglio coloro che appartengono al nostro
stesso gruppo e che abbiamo quindi una maggiore possibilità di riscontrare, tra chi ci è più familiare,
quelle differenze inevitabili tra un individuo e un altro; oppure potrebbe essere dovuta al fatto che
prestiamo poca attenzione a coloro che, in quanto appartenenti a gruppi Estranei, ci aspettiamo di
trovare di meno sulla nostra strada in futuro e per i quali non vale la pena sprecare tempo ed energia
mentale; oppure al fatto che sono obiettivamente poche le opportunità di interagire con i gruppi
esterni. Eppure, non sono queste le uniche spiegazioni.
Sembrerebbe invece che il percepire se stessi come parte di un gruppo e gli altri come parte di gruppi
diversi sia di per sé sufficiente a vedere il gruppo esterno come meno diversificato. Mackie, Sherman
e Worth [1993] hanno mostrato che persino nei gruppi costituiti in maniera arbitraria in laboratorio
dallo sperimentatore i soggetti tendevano a ritenere i membri del proprio gruppo come maggiormente
diversi gli uni dagli altri rispetto a coloro che appartenevano agli altri gruppi, benché gli sperimentatori
avessero fornito le stesse informazioni su tutti.
I processi di categorizzazione sociale sono, quindi, sufficienti da soli a far ritenere il gruppo esterno
come più omogeneo rispetto al gruppo interno. E nel momento in cui crediamo che gli altri sono tutti
uguali ci sentiamo come spinti a generalizzare a tutto il gruppo quelle che sono le caratteristiche o le
tendenze comportamentali che noi riteniamo tipiche di un singolo individuo.
Così che, se un individuo di un gruppo esterno è un ladro o un imbroglione, è pigro o è pignolo,
tenderemo a dire che tutti i membri di quel gruppo sono ladri, imbroglioni, pigri o pignoli. Mentre
quando scopriamo che qualcuno del nostro gruppo ha commesso quelle stesse azioni, o ha quelle
stesse caratteristi-che, siamo portati a ritenere che ci troviamo di fronte a un comportamento, o ai
tratti di un individuo singolo, che non inficia la «bontà» del nostro gruppo di appartenenza.

LE TEORIE DELLA DEPRIVAZIONE RELATIVA E DEL CONFLITTO REALISTICO (pag da


172 a 175)
Con i loro studi Tajfel e Turner [1986] hanno mostrato quindi che noi giudichiamo il prestigio o il valore
del nostro gruppo soprattutto ponendolo a confronto con altri gruppi, riprendendo per questo l'assunto
della teoria del confronto sociale di Festinger [1954]. L'esito di questo confronto è per noi cruciale,
perché è da esso che deriva la nostra autostima, al punto che i successi del nostro gruppo di
appartenenza («ha vinto la Roma!») possono farci vivere di luce riflessa.
Quella che viene detta la teoria del conflitto realistico, la quale sostiene che è la scarsità di risorse a
determinare i conflitti tra gruppi.

Un processo di differenziazione categoriale.


Sembrerebbe quindi che un unico professe cognitivo, la pura e semplice categorizzazione sociale,
basti per provocare negli individui un comportamento che discrimina Outgroup e favorisce l'ingroup..
Doise [19761 parla di un processo di differenziazione categoriale. dalla categorizzazione prendono
l'avvio giudizi di valore, rappresentazioni mentali delle relazioni tra i gruppi e comportamenti di
differenziazione sociale che sono connessi gli uni agli altri all'interno di una dinamica discriminativa.
L'identità sociale dà conto anche del perché è il proprio gruppo e non l'altro a essere preferito nella
distribuzione delle risorse, o nelle valutazioni, o nel modo in cui esso viene percepito. Come abbiamo
visto, le persone preferiscono avere un concetto di sé positivo, amano (e hanno bisogno di) avere un
livello alto di autostima. E dato che una gran parte del concetto di sé deriva dall'affiliazione a gruppi
particolari, si è propensi a vedere i propri gruppi di appartenenza in termini più favorevoli degli altri
gruppi.

L’ESPERIMENTO DI ROBBERS CAVE E GLI SCOPI SOVRAORDINATI


Muzafer Sherif, basandosi su una serie di esperimenti condotti con la moglie | Carolyn tra il 1949 e il
1954 [Sherif e Sherif 1953; Sherif et al. 1961] su un gruppo di adolescenti che aveva passato due
settimane in un campo estivo, da lui diretto. in una località di nome Robbers Cave, in Oklahoma,
mostra inoltre come nel confronto tra l'ingroup e l'outgroup possano emergere degli scopi competitivi,
e che, nel momento in cui gli interessi di un gruppo entrano in conflitto con quelli di un altro gruppo, è
molto probabile che ciascun gruppo assuma un atteggiamento ostile, che sviluppi atteggiamenti
preconcetti, e che si arrivi a un conflitto inter-gruppi. Parallelamente si sviluppano all'interno di
ciascun gruppo atteggiamenti positivi di ciascun membro verso l'altro che facilitano il raggiungimento
degli scopi interni. Gli Sherif, tuttavia, cercarono di mostrare che nel momento in cui si riescono a
creare delle condizioni che fanno sì che gli interessi di due gruppi diversi coincidano, ovvero quando i
due gruppi si trovano a perseguire degli scopi sovraordinati, i membri di entrambi i gruppi adottano un
atteggiamento cooperativo nei confronti l'uno dell'altro, dato che lo scopo comune viene raggiunto
esclusivamente sulla base di una cooperazione reciproca.
Lo studio di Sherif, noto come l'esperimento di Robbers Cave, comprendeva tre fasi: in una si
analizzava la formazione del gruppo; in un'altra l'emergere del conflitto di gruppo, nella terza la ricerca
si focalizzava sui fattori che portavano alla riduzione del conflitto.
I ragazzi che partecipavano al campo estivo - che in effetti era una sorta di laboratorio all'aperto di
psicologia sociale dove era possibile osservare in condizioni naturali controllate il comportamento dei
soggetti - furono selezionati accuratamente in modo da formare un campione omogeneo di soggetti di
circa 12 anni di provenienza afro-americana, tutti provenienti da famiglie stabili, senza problemi
psicologici
Nessuno dei ragazzi si conosceva prima di arrivare al campo, e nessuno di loro sapeva che, in effetti,
durante il campeggio sarebbero stati osservati da psicologi sociali e che avrebbero partecipato a un
esperimento.
• Nella prima settimana gli psicologi procedettero alla formazione del gruppo: dopo avere osservato i
rapporti di simpatia spontanea che si creavano tra i ragazzi, gli organizzatori formarono due gruppi
distinti, avendo cura di porre gli individui che si erano scelti come amici in due gruppi separati. Nel
primo periodo i due gruppi furono coinvolti in varie attività che potessero favorire la loro coesione.
Ben presto i ragazzi, inseriti nella nuova realtà sociale del gruppo, svilupparono delle norme comuni,
emerse un leader e ciascun gruppo si diede un nome: un gruppo si chiamò «Le aquile», l'altro «I
serpenti a sonagli».
• Appena i due gruppi scoprirono l'uno l'esistenza dell'altro, i ragazzi cominciarono a suggerire ai
sorveglianti del campo di permettere loro di organizzare delle sfide e delle competizioni. A questo
punto gli sperimentatori procedettero alla creazione della competizione intergruppi: organizzarono un
torneo con tiri alla fune, cacce al tesoro, partite di baseball, e promisero a ciascun membro del gruppo
vincente un coltellino tascabile. Ai perdenti non sarebbe stato dato nulla.
Si creò così un conflitto di interessi tra i due gruppi. I gruppi erano, in pratica, passati da una
condizione di indipendenza reciproca, a una di interdipendenza negativa, in cui un gruppo
guadagnava quello che l'altro gruppo perdeva. In questa fase il comportamento dei due gruppi
cambiò: mentre dapprima i ragazzi si erano trattati con indifferenza o con simpatia, in questa fase si
trasformarono in due bande rivali, acclamando i propri compagni di squadra, insultando gli avversari e
arrivando a bruciare la bandiera del gruppo che aveva perso una gara fino a passare a veri e propri
atti di violenza e di vandalismo. In questa fase competitiva, le simpatie spontanee provate tra i singoli
individui all'inizio del campo non valsero affatto come deterrente o come fattore di attenuazione del
conflitto tra i gruppi. I cambiamenti avvennero anche all'interno dei gruppi, che divennero più coesi, e
quando vennero organizzati dei giochi che implicavano dei giudizi da dare sui membri dell'uno o
dell'altro gruppo comparvero dei forti favoritismi per il proprio gruppo. Inoltre, all'interno di ciascun
gruppo avvennero dei cambiamenti nella leadership che portarono i ragazzi più aggressivi a
divenire dominanti.
• In una terza fase, gli sperimentatori procedettero a creare delle condizioni che potessero ridurre il
conflitto: in un primo stadio si cercò di ridurre la tensione incrementando i contatti e creando occasioni
di conoscenza reciproca, nell'ipotesi che l'ostilità si basasse soprattutto su informazioni sbagliate circa
le caratteristiche personali degli «altri»; furono create situazioni piacevoli di interazione (cinema,
pranzi insieme, fuochi d'artificio per la festa del 4 luglio, ecc.). Queste occasioni, tuttavia, servirono
solo ad acuire i conflitti: i pranzi si trasformarono in guerre di rifiuti e ogni momento di contatto faceva
aumentare i dissidi. La semplice conoscenza non era quindi sufficiente a superare l'ostilità tra i gruppi.
Si crearono, allora, una serie di scopi sovraordinati, ovvero scopi che era interesse di entrambi i
gruppi perseguire, ma che non era possibile raggiungere se non attraverso gli sforzi congiunti di
entrambi. Si fece in modo, per esempio, che si rompesse il camion sul quale i ragazzi stavano
tornando al campo, quasi all'ora di pranzo, così che i ragazzi, per poter andare a mangiare (uno
scopo sovraordinato), furono «costretti» a cooperare per far ripartire l’autocarro: tutti e due i gruppi si
misero a tirare una corda alla quale avevano legato il paraurti anteriore, collaborando gli uni con gli
altri. E fu dopo questo episodio, e altri in cui furono necessari sforzi congiunti per arrivare a soluzioni
comuni, che i due gruppi si mostrarono meno aggressivi gli uni verso gli altri e misero in atto meno
favoritismi verso l'ingroup. Peraltro, anche i rapporti di simpatia interpersonale provati all'inizio del
campo tornarono a riemergere, ci vecchi amici si riavvicinarono. In conclusione, gli esperimenti di
Sherif mostrano che gli individui cambiano il loro comportamento in funzione delle loro relazioni e che
i conflitti tra gruppi non possono essere ricondotti ai tratti di personalità dei singoli individui, né essere
spiegati e ridotti alla somma dei rapporti interpersonali tra i membri di gruppi diversi, né essere
interpretati alla luce di una scarsità di beni materiali.
Questo non esclude che la competizione per la scarsità di risorse, il conflitto realistico, guasti
ulteriormente i rapporti tra i gruppi e possa far sì che la rivalità (per i posti di lavoro, per il possesso di
territori, per avere accesso ai pozzi di petrolio) si trasformi in ostilità aperta e dia l'avvio a conflitti
armati tra le nazioni e le etnie diverse.

L’IDENTITÀ SOCIALE E LA COSTRUZIONE DEL SÉ: DALL’INGROUP


ALL’OUTGROUP (pag 161-163)
Per Tajfel un «gruppo» non necessariamente implica una condivisione esplicita di particolari scopi. Al
contrario, questi emergono come conseguenza del sentirsi parte di un gruppo, o dell'essere
consapevoli di essere percepiti dagli altri come parte di un gruppo o, infine, di percepire gli altri come
membri di gruppi esterni.
Tajfel, utilizzando un approccio squisitamente cognitivista, richiama l'attenzione sulla propensione
innata degli esseri umani a raggruppare le persone in catego!
rie sociali sulla base di specifici elementi quali il sesso, la razza, l'etnia, l'età, la professione, la
religione. Si tratterebbe di quella stessa tendenza che fa sì che di fronte a elementi della realtà fisica
gli individui procedano raggruppandoli in categorie sulla base della loro somiglianza con o diversità da
altri stimoli [Bruner e Tajfel 1961] (cfr. cap. 3, par. 7). Saranno questi processi di categorizzazione.
questi processi cognitivi più di base a portare gli individui a identificarsi con un gruppo, ovvero con
quell'insieme di persone cui sono simili e che sono simili tra di loro in virtù di una caratteristica
saliente (il colore della pelle o dei capelli, l'orientamento sessuale, la religione, la lingua ed
essenzialmente l'etnia), identificazione che ha una grande importanza per la vita psicologica degli
individui. Perfino il concetto che le persone hanno di se stesse è influenzato, oltre che da
caratteristiche più propriamente personali, dal senso di identificazione con i vari gruppi cui
appartengono. Il Self è pertanto costituito da un miscuglio di identità sociali, che derivano dai gruppi
sociali più o meno allargati cui ciascuno appartiene.

Processo di autocategorizzazione e categorizzazione sociale


Questi processi portano a raggruppare gli individui sulla base di caratteristiche socialmente
significative per loro stessi o per gli altri e a enfatizzare ciò che rende simili coloro che fanno parte
dello stesso gruppo e ciò che li rende diversi dai membri degli altri gruppi [Turner e Tajfel 1979]. Tajfel
e Wilkes [1963] hanno dato evidenza empirica a questo aspetto particolare del funzionamento della
nostra mente attraverso un famoso esperimento con il quale hanno mostrato come nel momento in
cui si impone un'etichetta anche a una semplice serie di stimoli costituiti da oggetti fisici, così che
alcuni cadano in una classe (per esempio, vengono etichettati come A) e altri cadano in un'altra
classe per esempio B) il processo di categorizzazione che ne deriva porta a magnificare le differenze
tra gli elementi che appartengono alle due classi, ovvero vengono percepite come accentuate le
differenze tra le categorie; allo stesso tempo viene magnificata la percezione della somiglianza tra gli
elementi che appartengono alla stessa categoria:: ad alcuni soggetti furono mostrate alcune linee di
lunghezza diversa: le linee più brevi furono etichettate come A, quelle più lunghe furono etichettate
come B (cfr Fig. 8.1) Successivamente quelle soggetti furono invitati a valutare la lunghezza delle
linee, sia confrontando la Ai con le B sia confrontando la lunghezza delle linee all'interno di ciascuna
categoria. A un gruppo di controllo vennero mostrate le stesse linee, ma senza etichettatura alcuna.
In accordo con le ipotesi, da questo studio emerse che i soggetti cui erano state mostrate le linee
«etichettate» erano influenzati nella loro valutazione da questa sia pure elementare categorizzazione:
la linea A più lunga venne giudicata di gran lunga inferiore per lunghezza alla linea B più breve; inoltre
la differenza tra le linee all'interno di ciascuna categoria venne di molto sottovalutata. Queste
valutazioni basate su processi di differenze intercategoriali e di assimilazione intracategoriale non si
manifestarono nel gruppo di controllo.
Questi meccanismi mentali fanno sì che percepirsi come membro di un gruppo porti a vedere se
stessi, dotati di quegli attributi che più portano le linee di demarcazione con i rappresentanti di gruppi
differenti. In maniera analoga, nel giudicare le persone che appartengono ad altri gruppi, «gli altri»,
attribuiamo loro quelle caratteristiche che hanno in comune con i componenti del loro gruppo. I
processi cognitivi di categorizzazione sociale e di autocategorizzazione conducono, in altri termini, a
percepirle similarità all'interno dei gruppi e a esagerare al massimo le differenze tra i gruppi, gettando
le basi della stereotipizzazione. Il gruppo fornisce, quindi, un significato alla vita degli individui sia per
ciò che riguarda la loro vita all'interno di un gruppo specifico (quello che viene detto l'ingroup), sia per
ciò che concerne i loro rapporti con chi appartiene a un gruppo diverso (l'outgroup).

IL PARADIGMA DEI GRUPPI MINIMI E L’INGROUP BIAS (pag 168-169, 170-172)


Henri Tajfel [1970; 1978] ha dimostrato che è sufficiente rendersi conto di far parte di gruppi diversi,
pensare a se stessi in termini di «noi» vs. «loro», per promuovere quello che viene detto ingroup bias,
o anche effetto favoritismo verso l'ingroup, un atteggiamento pregiudiziale che porta a favorire i
membri del proprio gruppo a scapito di chi appartiene a gruppi diversi, i quali, peraltro, vengono
valutati in termini negativi
La variabile minima.
In una serie di esperimenti condotti in Gran Bretagna con Michael Billig, Tajfel ha creato una
condizione ormai nota come paradigma dei gruppi minimi, o situazione intergruppi minima: dei giovani
studenti venivano assegnati in maniera del tutto arbitraria a due gruppi diversi sulla base di una
variabile minima (il lancio di una moneta, il preferire un colore piuttosto che un altro), Ebbene, da
questi studi emerge che anche in una condizione in cui la distinzione tra gruppi era del tutto artificiale,
in quanto creata ad arte dallo sperimentatore, dividere i soggetti in due gruppi portava gli individui a
un processo cognitivo di categorizzazione, così che essi si percepivano come persone di un gruppo in
opposizione a quelle dell'altro gruppo sociale, processo che induceva immediatamente a favorire i
membri del gruppo cui si era stati assegnati, ovvero coloro che erano ormai considerati parte
dell'ingroup, a scapito di quelli che erano stati collocati nell'altro gruppo e che era considerato l'out
group (Tajfel e Billig 1974].
La distorsione a favore del proprio gruppo si mostrò costante anche in successivi esperimenti in cui le
condizioni di intergruppi minime furono un po' variate. In un esperimento, i soggetti furono convocati
per un compito basato su un giudizio estetico, e furono assegnati a due gruppi diversi sulla base della
loro preferenza per Kandinsky o per Klee. Anche in questo caso i soggetti conoscevano solo il gruppo
al quale erano stati assegnati, mentre non potevano individuare l'identità degli altri membri sia
dell'ingroup sia dell'outgroup. Successivamente ai soggetti veniva data una somma di denaro e
veniva chiesto di distribuirla a loro piacimento a un membro del gruppo Kandinsky e a uno del gruppo
Klee.
Gli studenti mostrarono una tendenza costante ad attribuire una maggiore quantità di denaro a coloro
che facevano parte del proprio gruppo.

Norma sociale o confronto sociale?


Ulteriori esperimenti provarono, tuttavia, che i favoritismi verso l'ingroup non sono riconducibili solo al
desiderio di assicurare risorse al proprio gruppo di appartenenza. Nelle situazioni di in-
tegruppi minimi, infatti, i soggetti di Tajfel cercavano soprattutto di far sì che il proprio gruppo
risultasse superiore a quello esterno, anche se questo comportava, per l'ingroup, una perdita di
risorse in termini assoluti. Se i soggetti potevano scegliere tra un'opzione A, che implicava la
possibilità di dare 11 punti a un membro dell'ingroup e 7 a un componente dell'outgroup, e un'opzione
B, che consentiva di dare 17 punti in maniera equanime ai membri di tutti e due i gruppi, la maggior
parte sceglieva l'opzione A, ovvero rinunciava ad assicurare maggiori risorse in termini assoluti al
proprio gruppo pur di poter dare a esso un «vantaggio» sull'altro gruppo.

IL MODELLO DELLA COMPLESSITÀ DELL’IDENTITÀ SOCIALE (pag 177)


Eppure non sempre i processi di identità sociale sono così semplici. In effetti il senso della nostra
identità è il risultato di un processo più complesso, il quale porta a una definizione di noi stessi che
tiene conto dell'appartenenza simultanea a più gruppi sociali L'atleta brasiliano, peraltro, non solo non
ha mentalmente accesso a un'unica categoria nazionale ma deve considerare se stesso come
appartenente anche al gruppo dei giocatori di pallone.
La teoria della complessità dell'identità sociale elaborata da Tetlock [1983] richiama l'attenzione su
come ciascuno di noi abbia in effetti una propria rappresentazione dei rapporti esistenti tra i gruppi cui
sente di appartenere; il senso della propria identità passa dal grado secondo cui ciascuno ritiene che
questi gruppi possano sovrapporsi. Si può quindi avere una struttura di personalità, un senso del Self
relativamente semplice, quando le varie appartenenze possono convergere, così che si possa
arrivare addirittura all'individuare come saliente una sola variabile e identificarsi con un solo gruppo.
Quando non è possibile che i gruppi cui si appartiene si sovrappongano completamente, emerge
allora una identità più complessa e articolata.
Prendiamo il caso degli italiani e dei cattolici. Si tratta di due gruppi che in larga parte si
sovrappongono, ma non sempre. Non tutti gli italiani sono cattolici, non tutti i cattolici sono italiani.
Coloro che ritengono che i due gruppi si sovrappongano completamente, ovvero che coloro che non
sono cattolici non sono italiani, finiranno con l'avere una identità sociale poco complessa; su questa
base saranno portati a ritenere come parte dell'ingroup coloro che sono contemporaneamente italiani
e cattolici, e considereranno membri di un outgroup gli italiani non cattolici, con tutte le conseguenze
in termini di atteggiamenti e prese di posizione che derivano dalle relazioni sociali che si configurano
come relazioni intergruppi. Coloro che invece sono consapevoli del fatto che all'interno del gruppo
degli italiani possano esserci individui non cattolici e non credenti accettano la differenziazione
presente nell'ingroup e finiscono con l'avere una identità sociale complessa la quale non solo
influenzerà i processi di pensiero dei singoli individui, ma anche la loro capacità di essere tolleranti
verso chi non ha le caratteristiche specifiche del gruppo al quale sente di appartenere [Roccas e
Brewer 2002].
A favorire l'emergere di una identità sociale complessa vengono indicati vari fattori, tra i quali il vivere
in società multietniche caratterizzate da forti diversità religiose e culturali, che, tuttavia, non siano
caratterizzate da eccessive stratificazioni sociali basate sul potere socioeconomico. Un notevole peso
hanno poi i valori del gruppo di appartenenza, così che nelle culture dove sia presente una ideologia
integrazionista, ovvero che incoraggia lo scambio tra gruppi nell'accettazione delle diversità, sono più
presenti individui con una identità complessa, mentre nelle culture caratterizzate da ideologie di tipo
assimilazionista, ovvero lì dove una cultura dominante impone i propri costumi ed esercita pressioni
affinché i gruppi minoritari rinuncino alle proprie caratteristiche culturali, gli individui sviluppano
identità sociali più semplici.

LA RIDUZIONE DEL CONFLITTO TRA GRUPPI (pag 178)


"Ma è possibile ridurte la discriminazione tra gruppi diversi e il conflitto che ne i risultati
dell'esperimento di Sherif e colleghi (1961) sui ragazzi di Robbers rise delineano, come abbiamo già
visto, alcune delle strategie che possano portare a relazioni positive tra gruppi diversi. Se gli individui
vengono mesin
Condizioni tali da avere degli scopi sovraordinati, ovvero se la situazione in cui essi si ritrovano a
vivere si configura in maniera tale che il raggiungimento di un determinato scopo è interesse di tutti e
due i gruppi e che non sia possibile ottenere un risultato se non attraverso gli sforzi congiunti di
entrambi, ci si può aspettare il massimo della cooperazione. Se gli interessi entrano in conflito emerge
la competizione, la quale viene scatenata dalla percezione che ognuno ha dell'altro gruppo come
rivale. Come detto sopra, nel campo di Robbers Cave i ragazzi, dopo una prima fase in cui vennero
lasciati liberi di aggregarsi spontaneamente sulla base delle loro simpatie reciproche, furono
assegnati a due gruppi diversi secondo una logica casuale, ma in maniera da rompere le amicizie
formatesi in precedenza. In questa fase venne promossa la discriminazione: ai ragazzi vennero
proposti giochi competitivi e ai vincitori vennero assegnati dei premi, così che ogni gruppo si ritrovò a
perseguire scopi diversi e in conflitto gli uni con gli altri. In una terza fase gli sperimentatori cercarono
di individuare delle strategie per ridurre il conflitto.
Fu a questo punto che Sherif decise di provare una nuova strategia. Ipotizzò che introdurre degli
scopi sovraordinati, creare delle situazioni in cui i ragazzi fossero costretti ad avere obiettivi comuni,
avrebbe portato a una riduzione dei conflitti.
Gli sperimentatori provocarono la rottura di una conduttura di acqua potabile necessaria per entrambi
i gruppi e i ragazzi furono costretti a unire i loro sforzi per individuare e riparare il danno al fine di
ripristinarne l'erogazione. Dopo una gita si fece in maniera di bloccare il camion sulla via di ritorno
verso il campo-scuola e i ragazzi si videro costretti a collaborare, a spingerlo insieme al fine di tornare
in tempo per la cena. Venne proposta la visione di un film molto attraente per entrambi i gruppi e i
ragazzi si decisero a raccogliere insieme i soldi per il noleggio.
Sherif constatò così che far sperimentare delle condizioni in cui si devono mettere in atto sforzi
congiunti per raggiungere uno scopo che è nell'interesse di entrambi fa passare i gruppi dalla
competizione alla cooperazione.
Uno scopo sovraordinato si pone come un nuovo «destino comune» che non può non accomunare i
membri dei due gruppi, così da farli sentire parte di una nuova configurazione con una sua nuova
«buona forma».
Va sottolineato, tuttavia, che dallo studio di Sherif emerse anche che non sempre gli scopi
sovraordinati producevano con successo una risposta di tipo cooperativo. Se i ragazzi non riuscivano
a ottenere gli scopi previsti, e se gli sforzi erano preceduti da un episodio competitivo, non solo non si
aveva una diminuzione della discriminazione ma si aveva addirittura un aumento dell'antagonismo tra
i gruppi. La possibilità che si verifichino condizioni in cui sono essenziali la cooperazione e
l'interdipendenza tra gruppi diversi non sembrerebbe, quindi, sufficiente a ridurre il favoritismo verso
chi appartiene al proprio gruppo e la discriminazione e il conflitto con chi appartiene a gruppi diversi.

La teoria del contatto e l'ipotesi comportamentista (pag 179)


Al di là della limitazione cui abbiamo accennato gli studi di Sherif mostrano, comunque, l'efficacia del
coinvolgimento in scopi comuni al fine di ridurre la conflittualità intergruppi; mostrano inoltre come la
conoscenza reciproca e la possibilità di avere interazioni frequenti non siano sufficienti, da sole, a
modificare pregiudizi e atteggiamenti ostili, come invece era stato proposto e viene proposto da coloro
che sostengono la teoria del contatto. Gli stereotipi, i pregiudizi infatti si fondano su strutture della
nostra mente che portano non solo a trascurare tutte le informazioni incongruenti con gli schemi di
gruppo già in nostro possesso, ma anche a recepire più facilmente quelle che li confermano (cfr. cap.
7). Del resto già Allport [1954],, aveva fatto notare che se da una parte il contatto può portare a
migliori relazioni intergruppi, dall'altra una frequentazione eccessiva può costituire un fattore di rischio
che può far sì che ostilità latenti emergano con più forza.
E anche Allport, alla stregua di quello che avrebbe trovato in seguito Sherif, suggerisce, quale
condizione per tendere il contatto una strategia efficace di riduzione del conflitto, la possibilità che i
gruppi siano coinvolti nella realizzazione di uno scopo condiviso. Altre variabili cruciali al fine di
contenere le ostilità intergruppo sono considerate, da questo studioso, l'esperire una consuetudine
prolungata nel tempo, al fine di consentire una conoscenza reciproca molto profonda, o l'avere uno
status sociale simile, onde evitare che gli o stereotipi e gli atteggiamenti di superiorità del gruppo
dominante siano rinforzati.
Viene previsto, inoltre, che il contatto abbia tanto più efficacia quanto meno gli individui dei due gruppi
abbiano personalità caratterizzate da alti livelli di ansia e/ o di aggressività, e quanto più le occasioni
di incontro si verifichino all'interno di istituzioni e di luoghi di lavoro, così che si possa puntare a un più
generale cambiamento degli atteggiamenti.

La decategorizzazione tra comportamentismo e cognitivismo (pag 180)


Per alcuni studiosi (Brewer e Miller 1984] il contatto può essere efficace nella misura in cui avviene a
un livello individuale, personalizzato. Secondo questo approccio, che viene detto modello della
personalizzazione, nel momento in cui si favoriscono le relazioni tra i singoli individui, così che ci si
possa rendere conto che i membri di altri gruppi sono persone con loro tratti peculiari di personalità,
viene meno la tendenza a subire l'effetto omogeneità dell' outgroup, ovvero si riduce la tendenza a
pensare che le persone di gruppi diversi dal proprio siano tutti uguali.
Coloro che sono parte di un altro gruppo sono difficili da distinguere l'uno dall’altro. Processo che
porta alla generalizzazione delle caratteristiche per lo più negative.
In quanto si avrebbe uno spostamento dell'attenzione da quelle che sono le caratteristiche del gruppo
come categoria a quelle che sono le caratteristiche reali dei singoli individui.

La subcategorizzazione dell'approccio cognitivista (pag 181-182)


[Secondo Hewstone e Brown [1986], tuttavia, spostare l'attenzione dalle caratteristiche del gruppo a
quelle degli individui, lungi dal produrre una riduzione degli atteggiamenti pregiudiziali, potrebbe
innescare un processo cognitivo che porta a considerare i singoli individui con i quali si entra in
interazione come soggetti atipici, non rappresentativi del loro gruppo di appartenenza, tali da
costituire un sottogruppo che non inficia ma addirittura mantiene lo stereotipo relativo a quel gruppo
specifico (cfr, cap. 7, par. 3). Propongono pertanto quello che viene detto modello dell'identità sociale
unica, il quale prende le mosse dalla teoria dell'identità sociale di Tajfel [1982] e richiama l'attenzione
su come sia essenziale, per la riduzione del pregiudizio, che ogni gruppo mantenga i propri confini.
Nelle occasioni di contatto si dovrebbe favorire nei membri di ciascun gruppo (ingroup e outgroup) la
presenza di obiettivi comuni, ma si dovrebbe far sì che questi possano essere perseguiti attraverso
ruoli complementari, assegnati a ciascuno sulla base delle distinte competenze. In questo modo ogni
gruppo manterrebbe il senso di una identità sociale positiva.

La ricategorizzazione è la categoria superordinata


Diversa e opposta è la posizione di un gruppo di studiosi o quali sottolineano che il mantenere una
identità sociale distinta non farebbe che promuovere le ostilità intergruppo piuttosto che ridurle
(Gaertner et al, 1990). Essi sostengono pertanto che la migliore strategia per il controllo del conflitto è
cercare di ridurre la differenziazione fra i gruppi e favorire una comune identità di gruppo. A tal fine si
dovrebbero creare delle condizioni - nelle varie situazioni in cui i membri dei due gruppi diversi
entrano in contatto - che possano far emergere un nuovo processo di identificazione e di
appartenenza; ov/ero in processo in grado di accomunare sia l'ingroup sia l'outgroup all'interno di una
categoria superordinata
[Gaertner et al. 1993].
Una nuova identità di gruppo farebbe spostare l'attenzione dalle differenze tra le categorie alle
somiglianze che verrebbero a costituirsi all'interno della nuova categoria sociale. In questo modo i
membri di questo nuovo gruppo potrebbero pensare a se stessi in termini di «noi», in termini di una
nuova unità. Questo processo cognitivo porterebbe a generalizzare i sentimenti positivi
originariamente indirizzati a ciascun gruppo separatamente a questa nuova unità gruppale. Ed è stato
provato che le valutazioni nei confronti dell'outgroup diventano più positive quando gli individui si
percepiscono come una singola categoria comprensiva del proprio gruppo di appartenenza e dell'altro
[Dovidio et al. 2001]. In altri termini, affinché una interdipendenza positiva possa essere realizzata si
dovrebbe venire a creare una identità condivisa sovraordinata la quale dovrebbe precedere o
emergere simultaneamente a scopi sovraordinati [Brewer 2005].
Secondo questo modello, quindi, nel momento in cui si crea un'associazione di studenti, di docenti, di
professionisti o di operai formata da individui di etnie o religioni diverse, il processo di
autocategorizzazione non può non articolarsi intorno a una nuova variabile saliente (la professione, la
condizione lavorativa e così via) la quale fa sì che gli individui abbiano una loro identità attraverso
l'appartenenza a un gruppo che costituisce una categoria superordinata. Il favoritismo verso l'ingroup,
i processi attribuzionali che portano a ricondurre i comportamenti degli individui del proprio gruppo a
cause interne se positivi o a cause esterne se negativi, i giudizi che scattano secondo una valenza
positiva quando si tratta di valutare l'ingroup verrebbero generalizzati a questo nuovo gruppo
comprensivo di elementi dell'ingroup e di elementi dell’Outgroup.

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