Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Capitolo 2:
1. La prima impressione.
È piuttosto raro incontrare persone di cui non si conosce assolutamente nulla. Anche se non ci
viene detto niente riguardo a cosa aspettarci, il luogo specifico dell’incontro (che può essere un
bar, un concerto o un supermercato) potrebbe costituire una fonte di informazioni rilevante.,
questa si può definire un’informazione categoriale. Spesso decidiamo chi ci piace o non prima
ancora che una conversazione abbia inizio, anche se coloro che inizialmente non ci danno una
buona impressione possono in un secondo tempo rivelarsi delle ottime compagnie. In ogni
relazione di lunga durata, osserviamo il modo in cui le persone agiscono in situazioni differenti e
utilizziamo queste osservazioni per trarre conclusioni riguardo ai loro sentimenti e alla loro
personalità. È raro che tutte le informazioni successive combacino perfettamente con le prime
impressioni. Quando traiamo conclusioni sulla personalità di qualcun altro in modo immediato,
potrebbe sembrare che le nostre percezioni sociali siano chiare e dirette. Però, il fatto che spesso
dobbiamo correggere le nostre impressioni iniziali ci suggerisce che le cose siano un po’ più
complesse. Molti psicologi sociali ritengono che mettiamo insieme le varie informazioni disponibili
prima ancora di giungere a una conclusione, anche quando non siamo esplicitamente consapevoli
di eseguire un simile processo.
Comprendere come percepiamo le altre persone e in che modo spieghiamo il loro comportamento
è fondamentale, perché entrambi questi processi influiscono sulla nostra condotta. (Esempio: un
insegnante che attribuisce uno scarso rendimento scolastico di un alunno, si impegnerà
maggiormente per aiutarlo).
2. La percezione sociale.
L’approccio contemporaneo alla percezione sociale deriva delle ricerche condotte da Asch. Ciò che
colpì quest’ultimo fu la rapidità con la quale ci formiamo un’impressione, nonostante la diversità
di informazioni che devono essere combinate. Uno dei primi studi di Asch confrontava due liste di
aggettivi identiche a eccezione di un singolo termine. La prima lista conteneva vari aggettivi tra cui
“caldo”. Nella seconda lista, il termine venne sostituito dalla parola “freddo”. Questo singolo
cambiamento produceva una notevole differenza. I partecipanti che ascoltavano la prima lista,
erano molto più portati a descrivere il target come una persona generosa, saggia e di buon
carattere e gli effetti si estendevano anche alla percezione di caratteristiche fisiche. Al contrario, la
descrizione tipica della personalità “fredda” era simile alla seguente: “Un individuo piuttosto snob,
calcolatore e antipatico”.
Nell’esperimento successivo, Asch inserì nelle due liste “educato” e “brusco” al posto di “caldo” e
“freddo” e rilevò che questo cambiamento produceva una differenza minore. Questo perché il
calore è visto come un tratto centrale della personalità del target, mentre la gentilezza costituisce
un tratto periferico con effetti più specifici e limitati. Tuttavia, Asch trovò che la centralità di un
tratto, dipende da anche dalle altre parole presentate e che nessuna è centrale in qualsiasi
contesto. Altri esperimenti mostrarono che anche la sequenza in cui venivano presenti gli aggettivi
comportava delle differenze. Questa maggiore influenza da parte delle informazioni iniziali è
generalmente conosciuta come effetto “primacy” (o effetto precedenza): le persone,
evidentemente, non aspettano di avere a disposizione tutte le informazioni prima di cominciare a
integrarle tra loro. L’effetto può essere ancora più marcato quando l’individuo ha poco tempo a
disposizione ed è motivato a giungere in fretta a una conclusione il più possibile accurata.
Le informazioni iniziali, si rivelano fondamentali anche nella formulazione di giudizi su individui
incontrati di persona (piuttosto che descritti a parole). In un esperimento di Kelley, un insegnante
ospitato per una lezione veniva valutato positivamente dagli studenti e riceveva più domande
quando era presentato come una persona “calda” piuttosto che “fredda”. Dal momento che la
prima cosa che gli studenti seppero di questo insegnante che fosse una persona calda o fredda, i
risultati osservati potevano dipendere sia dall’effetto primacy sia dalla centralità del tratto.
I risultati fin qui presentati suggeriscono che le persone non sommano solo le unità di
informazione che ricevono a proposito di un target, ma costruiscono attivamente i significati sulla
base delle proprie idee relative al modo in cui diverse caratteristiche di personalità tendono a
essere associate tra loro. Come hanno concluso alcuni teorici, le persone elaborano delle teorie
implicite di personalità che le aiutano a comprendere gli altri. più in generale, le persone
integrano le informazioni sociali cercando un modello configurazionale. Un modello alternativo,
detto dell’“algebra cognitiva”, suggerisce che le unità di separate di informazione vengano
semplicemente sommate tra loro, eventualmente considerando la loro media. Per esempio, se
una persona viene descritta come “calda” ma “noiosa”, l’impressione globale sarà meno positiva
rispetto a quando viene descritta come “calda” e “interessante”, ma più positiva rispetto a
“fredda” e “noiosa”. L’effetto sproporzionato degli aggettivi “centrali” dipende dal fatto che
veicolano informazioni più valutative rispetto alle altre parole presentate. Inoltre, l’impatto di una
parola può dipendere dalla sua rilevanza riguardo al giudizio espresso. Se stiamo cercando un
potenziale amico piuttosto che un idraulico, attribuiremo un peso maggiore alle caratteristiche
come “calore”. Secondo il modello configurazionale di Asch, gli aggettivi centrali non sono solo
dotati di maggiore enfasi, ma possono anche modificare l’interpretazione delle parole.
Alcune persone si conoscono via e-mail prima di incontrarsi fisicamente e possono passare anche
mesi o anche anni prima che inizino a scambiarsi fotografie, ammesso che lo facciano.
Trasmettere le informazioni attraverso parole piuttosto che dati sensoriali grezzi (sguardi, suoni,
odori) può cambiare profondamente il contenuto delle nostre impressioni. Le informazioni
sensoriali possono avere infatti implicazioni dirette circa la personalità. Persone con la tipica
“faccia da bambino” sono percepite come meno dominanti, più ingenue e più calde, rispetto a
persone con caratteristiche che le rendono apparentemente più mature. Anche il modo in cui le
combinazioni di informazioni sensoriali cambiano nel tempo può essere una fonte importante di
conoscenza.
La procedura di Asch, inoltre, differisce dalla maggior parte delle interazioni quotidiane perché
non offre alcuna opportunità alle altre persone di rispondere ai giudizi dei partecipanti (e ai
partecipanti di controbattere). Invece, interazioni di questo tipo possono avere una grande
rilevanza nel processo di formazione delle impressioni.
Se pensiamo che qualcuno sia amichevole, anche noi ci comporteremo in maniera più
confidenziale, inducendo la persona a contraccambiare, la nostra disponibilità. Quindi, le nostre
impressioni sugli altri possono portare a profezie che si auto-avverano. Quando le aspettative non
vengono confermate, le persone sono in grado di aggiustare le proprie impressioni iniziali.
Lo studio della percezione sociale, si focalizza sul modo in cui noi, in quanto precettori sociali, ci
formiamo delle impressioni sulle altre persone, e sul modo in cui si combiniamo le informazioni in
un’immagine globale coerente. I primi studi mostrano che piuttosto che sommare solo le
informazioni, le persone costruiscono attivamente i significati. Mentre il modo in cui le
informazioni sono soppesate, integrate e utilizzate dipende da una varietà di fattori, inclusa la
situazione in cui ci troviamo e quanto siamo interessati a formulare un giudizio concreto.
3. La teoria dell’attribuzione.
In un film d’animazione Pixar, i movimenti di due lampade da tavolo, una grande e una piccola,
sono accompagnati da suoni simili a voci. Sebbene gli oggetti normalmente non abbiano relazioni
sociali, gli spettatori concludono rapidamente che la lampada più grande è un genitore mentre la
piccola un tipino piuttosto vivace. Le contrazioni delle lampade appaiono immediatamente come
delle azioni finalizzate e i rumori che producono possono assomigliare a comunicazioni o
espressioni di emozioni. Dunque, in parte la nostra tendenza a vedere motivazioni e disposizioni
dietro le azioni umane è così automatica che talvolta troviamo difficile sopprimerla, anche quando
motivazioni e disposizioni non sono in realtà applicabili.
Ma l’illusione di umanità delle lampade dipende anche dal modo in cui si muovono e
dall’interazione reciproca tra i loro movimenti. Come suggerito dalla ricerca neuroscientifica, è
possibile che un’area cerebrale specifica sia deputata a rivelare i pattern di movimento tipici
dell’attività animata e del comportamento intenzionale.
La teoria dell’attribuzione causale fornisce un insieme di idee su come vengono tratte inferenze
riguardo alle cause di azioni in situazioni comuni in cui si è di fronte a comportamenti umani. Si
occupa delle spiegazioni del nostro comportamento e di quello delle altre persone.
Molti dei fenomeni investigati dai ricercatori dell’attribuzione, coinvolgono un osservatore che
spiega il comportamento di un attore nei confronti di un oggetto umano o non umano; in certi casi
l’attore e l’osservatore possono essere la stessa persona (auto-attribuzione) diversamente ad altre
aree psicologiche, la ricerca sull’attribuzione non riguarda direttamente il perché gli attori fanno
ciò che fanno, ma si concentra su ciò che gli osservatori concludono riguardo al perché gli attori
agiscono in un determinato modo (per esempio, se gli attori attribuiscono il comportamento alle
caratteristiche o agli “attributi” di un attore o di un oggetto). Nel gergo della teoria, compiere
un’attribuzione significa assegnare una casualità a una persona, un oggetto o una situazione.
Secondo la teoria dell’attribuzione, siamo tutti psicologi dilettanti che cercano di spiegare i
comportamenti nostri e altrui.
Immaginiamoci che un’amica (attore) abbia appena speso una buona parte della sua borsa di
studio per comprare una costosa macchina fotografica (entità). Come osservatori, inizieremo a
porci delle domande su questo acquisto. Le risposte a queste domande causali determineranno le
nostre reazioni e aspettative riguardo ai comportamenti futuri della nostra amica. Heider,
solitamente accreditato come padre della teoria dell’attribuzione, sostenne che le persone sono
interessate in particolar modo a identificare le disposizioni personali (ossia caratteristiche durature
come l’abilità o tratti della personalità) che descrivono il comportamento degli altri. in pratica gli
osservatori vogliono sapere cosa porti gli attori a comportarsi in un certo determinato modo
Trarre inferenze disposizionali comporta due vantaggi base:
1. Ci permette di integrare una varietà di informazioni riguardo agli altri che reterebbe
altrimenti disorganizzata, esattamente come sapere che una lampada più grande possiede
un istinto materno nei confronti di una lampada più piccola spiega una sequenza di
animazione altrimenti inverosimile.
2. Premette previsioni (e per certi versi, il controllo) del comportamento futuro. Per esempio,
sapere che una persona è amichevole significa che quando la incontreremo nuovamente,
posso attendermi un comportamento confidenziale da parte sua.
3.1 Teoria dell’inferenza corrispondente.
Jones e Davis cercarono di rendere più sistematiche le idee di Heider riguardo alle attribuzioni
disposizionali. Come Heider, sostenevano che gli osservatori imparano molto dai comportamenti
che forniscono informazioni relativamente alle caratteristiche personali degli attori. Jones e Davis
hanno chiamato inferenza corrispondente il processo di supposizione delle disposizioni a partire
dal comportamento, poiché gli osservatori inferiscono le intenzioni e le disposizioni che
corrispondono alle caratteristiche del comportamento.
La teoria dell’inferenza corrispondente ritiene che gli osservatori, al fine di comprendere le
intenzioni dell’attore, considerino la gamma di opzioni comportamentali disponibili nel momento
in cui la decisione è stata presa. Ognuno di questi comportamenti, se selezionato, avrebbe
determinato un certo numero di effetti differenti. Secondo i due, gli osservatori comprendono
perché un’azione è stata compiuta confrontando gli effetti dell’azione selezionata con quelli delle
azioni alternative scartate. In particolare, si assume che gli attori abbiano selezionato la loro
condotta sulla base degli effetti che solo quell’azione era in grado di produrre. Più in generale, la
teoria dell’inferenza corrispondente afferma che le persone cercano di capire che cosa renda la
scelta di una serie di azioni preferibili rispetto a sequenze di azioni alternative. Jones e Davis
chiamano questo processo analisi degli effetti non comuni. Sebbene questa teoria fosse stata
pensata per essere applicabile solo a situazioni in cui gli attori sono liberi di scegliere i loro
comportamenti, un esperimento condotto da Jones e Harris mise in dubbio questo assunto. Ad
alcuni studenti di un’università americana fu chiesto di valutare l’opinione di un altro studente nei
confronti del regime comunista di Fidel Castro a Cuba; a tal fine, venne chiesto loro di leggere un
breve saggio filocastrista che si supponeva scritto dallo studente in questione. A un gruppo di
partecipanti fu detto che l’autore aveva liberamente scelto quale posizione adottare nel saggio,
mentre a un altro gruppo richiedeva esplicitamente delle argomentazioni delle argomentazioni a
favore di Castro. Secondo la teoria dell’inferenza corrispondente, i partecipanti di quest’ultimo
gruppo avrebbero dovuto ignorare il contenuto del saggio al momento di inferire gli atteggiamenti
dell’autore. Ciononostante, i partecipanti tendevano concludere che gli atteggiamenti dell’autore
fossero a favore di Castro anche quando la posizione sostenuta nel saggio poteva essere spiegata
da fattori situazionali e malgrado all’epoca dello studio la maggior parte degli studenti americani
fosse fortemente anticastrista.
I ricercatori conclusero che le persone tendono a sovrastimare le cause personali del
comportamento e a sottostimare quelle situazionali, un importante fenomeno, più tardi definito
bias della corrispondenza.
La teoria dell’inferenza corrispondente descrive un insieme di principi generalmente validi per
risalire alle intenzioni e disposizioni di un individuo che ha deliberatamente eseguito una certa
azione ed era consapevole in anticipo delle sue possibili conseguenze. Non è destinata invece a
identificare le cause di altri tipi di comportamento, come le azioni impulsive o abituali.
Alcuni degli eventi che siamo più motivati a spiegare, sono i nostri successi e i nostri fallimenti. In
base alla teoria sviluppata da Weiner, le nostre conclusioni riguardo alle cause di successo e di
fallimento influiscono direttamente sulle aspettative, sulle motivazioni e sulle emozioni future.
Secondo la classificazione delle cause di successo e fallimento, i fattori causali percepiti possono
essere:
1 Interni o esterni (locus)
2 Stabili o instabili (stabilità)
3 Controllabili o incontrollabili (controllabilità)
Attribuire il successo di qualcosa a un fattore interno significa ritenere che qualcosa relativo alla
persona abbia determinato il risultato; mentre attribuire la performance a un fattore esterno
significa pensare che a essere responsabile sia qualcosa che ha a che fare con la situazione.
Sia i fattori esterni che quelli interni possono essere variabili o stabili. Attribuire la performance
all’intelligenza significa ritenere che qualcosa di interno e relativamente immodificabile abbia
permesso alla persona di ottenere un buon risultato.
(Inoltre, Weiner distingueva tre fattori causali percepiti come controllabili o incontrollabili.)
Le attribuzioni relative a successi e fallimenti non sono semplicemente considerazioni intellettuali
riguardo alle prestazioni, ma comportano importanti differenze per le aspettative e le motivazioni.
Mueller e Dweck hanno dimostrato che ricevere dagli altri lodi di diverso tipo influenza le
attribuzioni sulla stabilità e controllabilità delle cause personali del successo, agendo
conseguentemente sulle motivazioni e sulla piacevolezza del compito. Se bambini che rispondono
correttamente ai quesiti di un test vengono lodati per la loro intelligenza, tenderanno a non
scegliere altri compiti di problem-solving complessi, e si divertiranno meno rispetto ai bambini
lodati da sperimentatori per il loro impegno.
La continua esposizione alle lodi di genitori e insegnanti, durante lo sviluppo, determina
l’atteggiamento mentale rispetto alle cause di successo. Secondo Dweck, la tendenza ad attribuire
il successo a fattori interni, stabili e incontrollabili conduce a un atteggiamento mentale flessibile
consente di percepire le abilità come variabili e controllabili, incoraggiando l’individuo a sviluppare
i propri talenti.
Il “bias” attore-osservatore confronta le attribuzioni che le persone compiono riguardo agli altri
con quelle che compiono su se stesse. Jones e Nisbett hanno evidenziato che, quando dobbiamo
spiegare il nostro comportamento, tendiamo ad enfatizzare fattori esterni e situazionali.
Perché le spiegazioni del nostro comportamento non seguono gli stessi identici principi che
utilizziamo nelle spiegazioni della condotta altrui? Sono state proposte due spiegazioni principali.
In base alla prima, le persone hanno accesso a una gamma di informazioni più ampia
relativamente ai fattori che guidano le proprie azioni. Un secondo fattore che può contribuire al
bias attore-osservatore riguarda il focus attentivo. Nell’osservare il comportamento altrui
tendiamo a focalizzarci sulla persona piuttosto che sulla situazione. Al contrario, quando agiamo in
prima persona la nostra attenzione tende essere diversa verso l'esterno. Per cui ipotizziamo
semplicemente che ciò a cui è rivolto la nostra attenzione stia esercitando l'influenza causale
maggiore. La direzione dell’attenzione può dar conto della preferenza per le spiegazioni
disposizionali del comportamento altrui solamente quando l'altra persona è fisicamente presente.
Tuttavia, le persone tendono ad attribuire al comportamento delle caratteristiche dell’attore
anche quando viene descritto loro parole. Per esempio, l'affermazione “John è andato al cinema”
ci fornisce informazioni su John e non sul cinema. Secondo Brown e Fish, ciò dipende dal fatto che
nella lingua inglese il soggetto di un verbo d'azione è il responsabile dell'azione descritta. Al
contrario gli oggetti di verbi esperienziali sono solitamente visti come delle cause. Secondo Malle,
il bias attore-osservatore non si osserva nella totalità dei contesti. Entrambi sono invece
particolarmente frequenti negli studi che implicano il carattere idiosincratico ecco del
comportamento altrui da spiegare e nei casi in cui l’esito dell’azione è negativo. 425
Il “bias” al servizio del Sé gli esempi presentati suggeriscono che, da una parte, siamo attratti da
fattori salienti, mentre, dall'altra, tendiamo a seguire regole generalmente valide anche per
spiegare circostanze in cui la loro applicazione sembra meno appropriata appunto l'idea di fondo e
che le attribuzioni fornite dalle persone sono talvolta approssimazione imperfetta dell'effettiva
struttura causale della realtà, ma che almeno mirano a rappresentare accuratamente con la realtà.
tuttavia, alcuni tipi distorsioni sistematiche sono difficili da spiegare in questi termini. I “biases” al
servizio del Sé rappresentano una distorsione degli avvenimenti, motivata dagli interessi personali
del soggetto. Invece di osservatori neutrali, talvolta interpretiamo gli eventi sociali in termini per
noi favorevoli, sperimentando così gli avvenimenti in modo più positivo. Zuckerman ha passato in
rassegna un vasto numero di apparenti dimostrazioni del bias al servizio del Sé e ha concluso che il
suo effetto dipende dal desiderio della persona di mantenere un'elevata autostima. Vi sono però
motivazioni contrastanti riguardo la presentazione di sé che possono ridurre le attribuzioni al
servizio del Sé.
La riformulazione attributivo della teoria dell’impotenza appresa da Abramson sostiene che le
persone depresse adotta in uno stile attributivo che è l'esatto opposto della modalità al servizio
del Sé. In effetti, la ricerca suggerisce che il semplice fatto di essere di cattivo umore può
rovesciare i biases al servizio de Sé, forse perché rimuovere quell’aura illusoria che abitualmente
preserva il nostro senso di benessere nei momenti di maggiore felicità. La distorsione al servizio
del Sé si osserva in un’ampia varietà di contesti, ma risulta minore nei soggetti depressi e nei
membri di culture collettiviste.
Effetto motivazionale o cognitivo? Negli anni Settanta, la reale natura del bias al servizio del Sé fu
al centro di un dibattito. Miller e Ross proposero che certe attribuzioni a proprio vantaggio
personale sono del tutto razionali, mentre altre riflettono semplicemente l’applicazione di principi
esplicativi che risultano normalmente validi. Secondo questa prospettiva, le persone non
distorcono il proprio modo di pensare per proteggere l’autostima (spiegazione motivazionale), ma
utilizzano piuttosto regole empiriche approssimative per giungere a conclusioni talvolta erronee
(spiegazione cognitiva). Più in generale Miller e Ross sostenevano che il bias al servizio del Sé
emerge perché l’impegno spesso co-varia con il successo e non con il fallimento.
Se impegnarsi di più non migliora la prestazione, allora si può ragionevolmente presumere che ci
sia qualcosa nel compito che costituisce un ostacolo. Tuttavia, se impegnarsi maggiormente
migliora la performance, allora il successo è logicamente attribuibile ai propri sforzi.
Malgrado queste intuizioni siano valide, nessuno negherebbe oggi che il pensiero possa essere
distorto anche a causa delle motivazioni e delle emozioni. Già la nostra tendenza a correggere le
inferenze affinché corrispondano ad aspettative positive è una dimostrazione della nostra volontà
di apparire in una luce positiva in determinate circostanze. Dunque, molte spiegazioni
apparentemente di tipo cognitivo possono essere tradotte in termini motivazionali, e viceversa.
Ciononostante, il fatto che le aree cerebrali associate alla ricompensa e alla motivazione siano
attivate in seguito a biases al servizio del Sé avvalora la tesi che fattori motivazionali
contribuiscano a quest’effetto.
Accuratezza dell’attribuzione. Dunque, gli individui tendono a distorcere i processi di elaborazione
delle informazioni per adattarli ai propri scopi personali e attribuiscono un’importanza
spropositata a fattori non così rilevanti. Ma, se non facessero altro che giungere a conclusioni del
tutto scorrette sui processi causali, il loro funzionamento nel mondo reale e sociale risulterebbe
gravemente compromesso. Risalire alle cause degli eventi è utile per aiutarci a prevedere cosa
accadrà in futuro, perciò l’accuratezza delle nostre attribuzioni è fondamentale. Secondo Nisbett e
Ross, molte distorsioni sono causate da “scorciatoie cognitive”, che conducono a conclusioni
valide, ma non sono applicabili a tutte le circostanze. Alcuni autori hanno sostenuto che le nostre
attribuzioni sono in realtà più accurate di quanto suggerito dalla letteratura sull’argomento, ma
sono gli standard di valutazione dei ricercatori a essere troppo rigidi. In molti studi non esiste
nemmeno una risposta corretta, perché i giudizi causali si applicano a eventi fittizi, dunque
l’accuratezza delle valutazioni si riduce a una questione di opinione. Spesso risposte diverse sono
giustificabili sulla base del contesto. Anche quando le attribuzioni sono chiaramente inaccurate in
base a criteri scientifici validi, potrebbero corrispondere al mondo personale dell’individuo, e
dunque condurre a conclusioni comunque utili. Per esempio, la convinzione che il comportamento
degli altri sia motivato maggiormente da disposizioni interne può risultare vantaggiosa sul piano
pratico.
Hilton è partito dalla premessa che le persone cerchino di fornire agli altri informazioni che
possano aiutarle a comprendere gli eventi. Le conversazioni non sono sempre processi di
cooperazione all’interno dei quali le informazioni vengono generosamente scambiate a beneficio
di entrambi gli interlocutori. Spesso il nostro scopo non è quello di aiutare gli altri a capire cosa sia
successo, quanto piuttosto di sostenere o difendere il nostro punto di vista da eventuali attacchi.
Secondo Edwards e Potter, le attribuzioni possono le attribuzioni possono essere formulate in
modi piuttosto differenti in contesti antagonistici.
Edwards e Potter ritengono che le attribuzioni siano formulate con dei fini specifici, che riflettano
obiettivi conversazionali come persuadere, insidiare, incolpare o accusare. Secondo questa visione,
le attribuzioni non sono tentativi di spiegare una realtà sociale esistente separatamente, ma al
contrario costruiscono una visione della realtà adatta agli scopi conversazionali attuali. Le
attribuzioni, quindi non sono rappresentazioni descrittive, ma retorici all’interno di un costante
dialogo. Abbiamo così identificato alcuni dei loro limiti, incluso il bisogno di spiegare come
conoscenze generali e specifiche vengano utilizzate all’interno del processo attributivo. Sono state
inoltre considerate le applicazioni della teoria dell’attribuzione, in particolare riguardo alla
depressione clinica.
4. Percezione sociale e realtà sociale.
I modelli di attribuzione conversazionali e discorsivi ci allontanano dal progetto iniziale di Asch e
Heider, mettendo in discussione la metafora dello scienziato ingenuo che cerca di comprendere gli
altri e le loro azioni. Questo significa che le persone sono libere di costruire qualsiasi formulazione
si adatti ogni volta ai loro scopi? Ci sono 3 ragioni per cui non è così. La prima è che la biologia e la
cultura non mettono a disposizione delle persone risorse concettuali infinitamente flessibili per
comprendere gli altri. A livello biologico, siamo sintonizzati in maniera innata verso alcuni tipi di
informazioni sociali e rileviamo automaticamente l’intenzionalità a partire da certi pettern di
movimenti osservati. A livello culturale, la socializzazione ci conduce a interpretare il modo
interpersonale con modalità compatibili con le idee dei nostri genitori, degli insegnati e più in
generale della società. L’attribuzione e la percezione sociale intervengono sempre all’interno di un
sistema di norme che rende determinate inferenze più probabili di altre. Un secondo punto è che
gli altri contesteranno ogni formulazione della realtà sociale che non coincida con la loro. Il
risultato è che sembra emergere un certo grado di consenso tra le persone che hanno contatti
regolari tra loro. L’ultimo vincolo delle rappresentazioni è costituito dal contenuto
dell’informazione sociale stessa. Le persone, nel confrontarsi l’una con l’altra nella vita quotidiane,
spesso hanno accesso a presentazioni dinamiche che sono responsabili della loro condotta. Alcune
caratteristiche dell’altro possono essere lette direttamente dalle informazioni disponibili. Un altro
esempio di causalità percepita direttamente è rappresentato dal fenomeno di trasmissione di
proprietà, in base al quale alcune caratteristiche dell’agente causale sono chiaramente visibili
nell’effetto osservato. Per esempio, la traccia lasciata premendo la mano nel cemento fresco,
rivela chiaramente in che modo sia stata prodotta.
Queste forme di attribuzione basate sui dati non sembrano dipendere da processi espliciti, ma
coinvolgono una registrazione diretta delle informazioni sensoriali. La sfida che attende la ricerca
futura è quella di specificare come questi due tipi di processi possano essere collegati tra loro. Le
distinzioni tra differenti tipi di processi di attribuzione potranno essere chiarite anche grazie alla
ricerca nel campo delle neuroscienze. Van Overwalle ha riscontrato un’associazione tra l’area della
giunzione temporo-parietale e le inferenze sugli obiettivi, i desideri e le intenzioni delle altre
persone; invece, le inferenze sulle disposizioni a lungo termine risultano associate all’attivazione
della corteccia mediale prefrontale.