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Percezione sociale e attribuzione

Capitolo 2:
1. La prima impressione.
È piuttosto raro incontrare persone di cui non si conosce assolutamente nulla. Anche se non ci
viene detto niente riguardo a cosa aspettarci, il luogo specifico dell’incontro (che può essere un
bar, un concerto o un supermercato) potrebbe costituire una fonte di informazioni rilevante.,
questa si può definire un’informazione categoriale. Spesso decidiamo chi ci piace o non prima
ancora che una conversazione abbia inizio, anche se coloro che inizialmente non ci danno una
buona impressione possono in un secondo tempo rivelarsi delle ottime compagnie. In ogni
relazione di lunga durata, osserviamo il modo in cui le persone agiscono in situazioni differenti e
utilizziamo queste osservazioni per trarre conclusioni riguardo ai loro sentimenti e alla loro
personalità. È raro che tutte le informazioni successive combacino perfettamente con le prime
impressioni. Quando traiamo conclusioni sulla personalità di qualcun altro in modo immediato,
potrebbe sembrare che le nostre percezioni sociali siano chiare e dirette. Però, il fatto che spesso
dobbiamo correggere le nostre impressioni iniziali ci suggerisce che le cose siano un po’ più
complesse. Molti psicologi sociali ritengono che mettiamo insieme le varie informazioni disponibili
prima ancora di giungere a una conclusione, anche quando non siamo esplicitamente consapevoli
di eseguire un simile processo.
Comprendere come percepiamo le altre persone e in che modo spieghiamo il loro comportamento
è fondamentale, perché entrambi questi processi influiscono sulla nostra condotta. (Esempio: un
insegnante che attribuisce uno scarso rendimento scolastico di un alunno, si impegnerà
maggiormente per aiutarlo).

2. La percezione sociale.
L’approccio contemporaneo alla percezione sociale deriva delle ricerche condotte da Asch. Ciò che
colpì quest’ultimo fu la rapidità con la quale ci formiamo un’impressione, nonostante la diversità
di informazioni che devono essere combinate. Uno dei primi studi di Asch confrontava due liste di
aggettivi identiche a eccezione di un singolo termine. La prima lista conteneva vari aggettivi tra cui
“caldo”. Nella seconda lista, il termine venne sostituito dalla parola “freddo”. Questo singolo
cambiamento produceva una notevole differenza. I partecipanti che ascoltavano la prima lista,
erano molto più portati a descrivere il target come una persona generosa, saggia e di buon
carattere e gli effetti si estendevano anche alla percezione di caratteristiche fisiche. Al contrario, la
descrizione tipica della personalità “fredda” era simile alla seguente: “Un individuo piuttosto snob,
calcolatore e antipatico”.
Nell’esperimento successivo, Asch inserì nelle due liste “educato” e “brusco” al posto di “caldo” e
“freddo” e rilevò che questo cambiamento produceva una differenza minore. Questo perché il
calore è visto come un tratto centrale della personalità del target, mentre la gentilezza costituisce
un tratto periferico con effetti più specifici e limitati. Tuttavia, Asch trovò che la centralità di un
tratto, dipende da anche dalle altre parole presentate e che nessuna è centrale in qualsiasi
contesto. Altri esperimenti mostrarono che anche la sequenza in cui venivano presenti gli aggettivi
comportava delle differenze. Questa maggiore influenza da parte delle informazioni iniziali è
generalmente conosciuta come effetto “primacy” (o effetto precedenza): le persone,
evidentemente, non aspettano di avere a disposizione tutte le informazioni prima di cominciare a
integrarle tra loro. L’effetto può essere ancora più marcato quando l’individuo ha poco tempo a
disposizione ed è motivato a giungere in fretta a una conclusione il più possibile accurata.
Le informazioni iniziali, si rivelano fondamentali anche nella formulazione di giudizi su individui
incontrati di persona (piuttosto che descritti a parole). In un esperimento di Kelley, un insegnante
ospitato per una lezione veniva valutato positivamente dagli studenti e riceveva più domande
quando era presentato come una persona “calda” piuttosto che “fredda”. Dal momento che la
prima cosa che gli studenti seppero di questo insegnante che fosse una persona calda o fredda, i
risultati osservati potevano dipendere sia dall’effetto primacy sia dalla centralità del tratto.
I risultati fin qui presentati suggeriscono che le persone non sommano solo le unità di
informazione che ricevono a proposito di un target, ma costruiscono attivamente i significati sulla
base delle proprie idee relative al modo in cui diverse caratteristiche di personalità tendono a
essere associate tra loro. Come hanno concluso alcuni teorici, le persone elaborano delle teorie
implicite di personalità che le aiutano a comprendere gli altri. più in generale, le persone
integrano le informazioni sociali cercando un modello configurazionale. Un modello alternativo,
detto dell’“algebra cognitiva”, suggerisce che le unità di separate di informazione vengano
semplicemente sommate tra loro, eventualmente considerando la loro media. Per esempio, se
una persona viene descritta come “calda” ma “noiosa”, l’impressione globale sarà meno positiva
rispetto a quando viene descritta come “calda” e “interessante”, ma più positiva rispetto a
“fredda” e “noiosa”. L’effetto sproporzionato degli aggettivi “centrali” dipende dal fatto che
veicolano informazioni più valutative rispetto alle altre parole presentate. Inoltre, l’impatto di una
parola può dipendere dalla sua rilevanza riguardo al giudizio espresso. Se stiamo cercando un
potenziale amico piuttosto che un idraulico, attribuiremo un peso maggiore alle caratteristiche
come “calore”. Secondo il modello configurazionale di Asch, gli aggettivi centrali non sono solo
dotati di maggiore enfasi, ma possono anche modificare l’interpretazione delle parole.
Alcune persone si conoscono via e-mail prima di incontrarsi fisicamente e possono passare anche
mesi o anche anni prima che inizino a scambiarsi fotografie, ammesso che lo facciano.
Trasmettere le informazioni attraverso parole piuttosto che dati sensoriali grezzi (sguardi, suoni,
odori) può cambiare profondamente il contenuto delle nostre impressioni. Le informazioni
sensoriali possono avere infatti implicazioni dirette circa la personalità. Persone con la tipica
“faccia da bambino” sono percepite come meno dominanti, più ingenue e più calde, rispetto a
persone con caratteristiche che le rendono apparentemente più mature. Anche il modo in cui le
combinazioni di informazioni sensoriali cambiano nel tempo può essere una fonte importante di
conoscenza.
La procedura di Asch, inoltre, differisce dalla maggior parte delle interazioni quotidiane perché
non offre alcuna opportunità alle altre persone di rispondere ai giudizi dei partecipanti (e ai
partecipanti di controbattere). Invece, interazioni di questo tipo possono avere una grande
rilevanza nel processo di formazione delle impressioni.
Se pensiamo che qualcuno sia amichevole, anche noi ci comporteremo in maniera più
confidenziale, inducendo la persona a contraccambiare, la nostra disponibilità. Quindi, le nostre
impressioni sugli altri possono portare a profezie che si auto-avverano. Quando le aspettative non
vengono confermate, le persone sono in grado di aggiustare le proprie impressioni iniziali.
Lo studio della percezione sociale, si focalizza sul modo in cui noi, in quanto precettori sociali, ci
formiamo delle impressioni sulle altre persone, e sul modo in cui si combiniamo le informazioni in
un’immagine globale coerente. I primi studi mostrano che piuttosto che sommare solo le
informazioni, le persone costruiscono attivamente i significati. Mentre il modo in cui le
informazioni sono soppesate, integrate e utilizzate dipende da una varietà di fattori, inclusa la
situazione in cui ci troviamo e quanto siamo interessati a formulare un giudizio concreto.
3. La teoria dell’attribuzione.
In un film d’animazione Pixar, i movimenti di due lampade da tavolo, una grande e una piccola,
sono accompagnati da suoni simili a voci. Sebbene gli oggetti normalmente non abbiano relazioni
sociali, gli spettatori concludono rapidamente che la lampada più grande è un genitore mentre la
piccola un tipino piuttosto vivace. Le contrazioni delle lampade appaiono immediatamente come
delle azioni finalizzate e i rumori che producono possono assomigliare a comunicazioni o
espressioni di emozioni. Dunque, in parte la nostra tendenza a vedere motivazioni e disposizioni
dietro le azioni umane è così automatica che talvolta troviamo difficile sopprimerla, anche quando
motivazioni e disposizioni non sono in realtà applicabili.
Ma l’illusione di umanità delle lampade dipende anche dal modo in cui si muovono e
dall’interazione reciproca tra i loro movimenti. Come suggerito dalla ricerca neuroscientifica, è
possibile che un’area cerebrale specifica sia deputata a rivelare i pattern di movimento tipici
dell’attività animata e del comportamento intenzionale.
La teoria dell’attribuzione causale fornisce un insieme di idee su come vengono tratte inferenze
riguardo alle cause di azioni in situazioni comuni in cui si è di fronte a comportamenti umani. Si
occupa delle spiegazioni del nostro comportamento e di quello delle altre persone.
Molti dei fenomeni investigati dai ricercatori dell’attribuzione, coinvolgono un osservatore che
spiega il comportamento di un attore nei confronti di un oggetto umano o non umano; in certi casi
l’attore e l’osservatore possono essere la stessa persona (auto-attribuzione) diversamente ad altre
aree psicologiche, la ricerca sull’attribuzione non riguarda direttamente il perché gli attori fanno
ciò che fanno, ma si concentra su ciò che gli osservatori concludono riguardo al perché gli attori
agiscono in un determinato modo (per esempio, se gli attori attribuiscono il comportamento alle
caratteristiche o agli “attributi” di un attore o di un oggetto). Nel gergo della teoria, compiere
un’attribuzione significa assegnare una casualità a una persona, un oggetto o una situazione.
Secondo la teoria dell’attribuzione, siamo tutti psicologi dilettanti che cercano di spiegare i
comportamenti nostri e altrui.
Immaginiamoci che un’amica (attore) abbia appena speso una buona parte della sua borsa di
studio per comprare una costosa macchina fotografica (entità). Come osservatori, inizieremo a
porci delle domande su questo acquisto. Le risposte a queste domande causali determineranno le
nostre reazioni e aspettative riguardo ai comportamenti futuri della nostra amica. Heider,
solitamente accreditato come padre della teoria dell’attribuzione, sostenne che le persone sono
interessate in particolar modo a identificare le disposizioni personali (ossia caratteristiche durature
come l’abilità o tratti della personalità) che descrivono il comportamento degli altri. in pratica gli
osservatori vogliono sapere cosa porti gli attori a comportarsi in un certo determinato modo
Trarre inferenze disposizionali comporta due vantaggi base:
1. Ci permette di integrare una varietà di informazioni riguardo agli altri che reterebbe
altrimenti disorganizzata, esattamente come sapere che una lampada più grande possiede
un istinto materno nei confronti di una lampada più piccola spiega una sequenza di
animazione altrimenti inverosimile.
2. Premette previsioni (e per certi versi, il controllo) del comportamento futuro. Per esempio,
sapere che una persona è amichevole significa che quando la incontreremo nuovamente,
posso attendermi un comportamento confidenziale da parte sua.
3.1 Teoria dell’inferenza corrispondente.
Jones e Davis cercarono di rendere più sistematiche le idee di Heider riguardo alle attribuzioni
disposizionali. Come Heider, sostenevano che gli osservatori imparano molto dai comportamenti
che forniscono informazioni relativamente alle caratteristiche personali degli attori. Jones e Davis
hanno chiamato inferenza corrispondente il processo di supposizione delle disposizioni a partire
dal comportamento, poiché gli osservatori inferiscono le intenzioni e le disposizioni che
corrispondono alle caratteristiche del comportamento.
La teoria dell’inferenza corrispondente ritiene che gli osservatori, al fine di comprendere le
intenzioni dell’attore, considerino la gamma di opzioni comportamentali disponibili nel momento
in cui la decisione è stata presa. Ognuno di questi comportamenti, se selezionato, avrebbe
determinato un certo numero di effetti differenti. Secondo i due, gli osservatori comprendono
perché un’azione è stata compiuta confrontando gli effetti dell’azione selezionata con quelli delle
azioni alternative scartate. In particolare, si assume che gli attori abbiano selezionato la loro
condotta sulla base degli effetti che solo quell’azione era in grado di produrre. Più in generale, la
teoria dell’inferenza corrispondente afferma che le persone cercano di capire che cosa renda la
scelta di una serie di azioni preferibili rispetto a sequenze di azioni alternative. Jones e Davis
chiamano questo processo analisi degli effetti non comuni. Sebbene questa teoria fosse stata
pensata per essere applicabile solo a situazioni in cui gli attori sono liberi di scegliere i loro
comportamenti, un esperimento condotto da Jones e Harris mise in dubbio questo assunto. Ad
alcuni studenti di un’università americana fu chiesto di valutare l’opinione di un altro studente nei
confronti del regime comunista di Fidel Castro a Cuba; a tal fine, venne chiesto loro di leggere un
breve saggio filocastrista che si supponeva scritto dallo studente in questione. A un gruppo di
partecipanti fu detto che l’autore aveva liberamente scelto quale posizione adottare nel saggio,
mentre a un altro gruppo richiedeva esplicitamente delle argomentazioni delle argomentazioni a
favore di Castro. Secondo la teoria dell’inferenza corrispondente, i partecipanti di quest’ultimo
gruppo avrebbero dovuto ignorare il contenuto del saggio al momento di inferire gli atteggiamenti
dell’autore. Ciononostante, i partecipanti tendevano concludere che gli atteggiamenti dell’autore
fossero a favore di Castro anche quando la posizione sostenuta nel saggio poteva essere spiegata
da fattori situazionali e malgrado all’epoca dello studio la maggior parte degli studenti americani
fosse fortemente anticastrista.
I ricercatori conclusero che le persone tendono a sovrastimare le cause personali del
comportamento e a sottostimare quelle situazionali, un importante fenomeno, più tardi definito
bias della corrispondenza.
La teoria dell’inferenza corrispondente descrive un insieme di principi generalmente validi per
risalire alle intenzioni e disposizioni di un individuo che ha deliberatamente eseguito una certa
azione ed era consapevole in anticipo delle sue possibili conseguenze. Non è destinata invece a
identificare le cause di altri tipi di comportamento, come le azioni impulsive o abituali.

3.2 Teoria della co-variazione.


Il modello di Jones e Davis può aiutarci a identificare le intenzioni (se siamo a conoscenza delle
altre possibili azioni alternative) ma non ci consente di formulare conclusioni causali dirette.
La teoria della co-variazione di Kelley fornisce una spiegazione più generale rispetto al modo in cui
le persone soppesano le possibili cause di un’azione o di un’esperienza osservata. L’assunto è che
un attore ha in qualche modo risposto a un oggetto in una situazione particolare. L’osservatore
vuole quindi sapere se ciò che è accaduto è stato causato da qualche fattore legato all’attore,
all’oggetto o alla situazione (o a una combinazione di queste tre). Secondo Kelley, gli osservatori
giungono a una conclusione raccogliendo ed elaborando sistematicamente nuove informazioni. Lo
scopo è scoprire quali fattori debbano essere presenti affinché avvenga l’effetto.
Come suggerisce il nome stesso, la teoria della co-variazione di Kelley sostiene che gli osservatori
formulino i loro giudizi sulla base della correlazione tra gli effetti e le loro possibili cause. In altre
parole “l’effetto è attribuito a quella condizione presente quando c’è l’effetto, e assente quando
l’effetto non c’è”. Le inferenze di casualità derivano dunque dall’osservazione dei fattori
regolarmente associati alla manifestazione dell’effetto.
Perché la teoria dell’attribuzione risulta noiosa? Kelley sostiene che per rispondere alla domanda
bisogna prendere in considerazione tre elementi, ognuno corrispondente a uno delle possibili
cause (oggetto, situazione o persona).
 Occorre raccogliere informazioni di distintività in un campione di oggetti;
 È necessario raccogliere informazioni di coerenza in un campione situazionale
 Raccogliere informazioni di consenso in un campione di attori.
Raccogliendo queste informazioni rilevanti, saremo in grado di compiere le nostre attribuzioni.

In uno studio svolto da Harris, Todorow e Fiske, la presentazione ai partecipanti di informazioni


che rispettavano questa particolare combinazione (bassa distintività, alta coerenza e basso
consenso) non solo incoraggiava attribuzioni alla persona, ma produceva anche una maggiore
attivazione di un’area cerebrale deputata a rivelare i pattern di movimento tipici dell’attività
animata e del comportamento intenzionale.
Il modello della co-variazione solitamente suggerisce attribuzioni logiche e coerenti, ma in alcuni
casi può condurre a conclusioni scorrette. Evidenze sperimentali dimostrano che le persone
possono inferire molte delle implicazioni predette da altri pattern di informazioni collegate a
consenso, coerenza e distintività quando gli elementi sono forniti in questa forma particolare.
Sebbene la teoria di Kelley fornisca una base logica per l’attribuzione, è difficile che le persone
raccolgano tutte queste informazioni sistematicamente e che affrontino tali processi di analisi ogni
volta che vogliono comprendere le cause di un evento.

3.3 Accesso alle informazioni sulla co-variazione.


Un problema dell’approccio della co-variazione è stato da subito riconosciuto dallo stesso Kelley,
infatti, spesso vogliamo compiere inferenze casuali riguardo a degli eventi in circostanze in cui le
informazioni CCD (di consenso, coerenza e distintività) non sono disponibili o sono troppo
dispendiose da raccogliere in termini di tempo. In questi casi, Kelley sostiene che le lacune sono
colmate dalla base delle nostre precedenti idee riguardo al modo in cui gli effetti vengono prodotti
(schemi casuali). In particolare, scartiamo alcune spiegazioni e formuliamo supposizioni sulla
presenza di fattori causali non osservati. In generale Kelley afferma che gli osservatori tengono in
scarsa considerazione le possibili cause di un evento quando sono a conoscenza di altri fattori che
operano a favore dell’effetto osservato (principio di riduzione). Ma ciò accade solo quando questo
effetto può essere prodotto da una serie di fattori alternativi (schema delle multiple cause
sufficienti). In altri casi, devono essere presenti più condizioni affinché un dato effetto possa
verificarsi (schema delle multiple cause necessarie). La conoscenza di fattori che operano contro
un effetto porta le persone a concludere che le cause plausibili debbano essere più forti che in
altre condizioni (principio di incremento).
3.4 Conoscenze, aspettative e co-variazione
La teoria degli schemi causali di Kelley implica che, quando le informazioni o le risorse sono molto
limitate, le persone utilizzano delle scorciatoie inferenziali. Tuttavia, Kelley era ancora convinto
che gli osservatori analizzassero sistematicamente la co-variazione degli elementi causali
ogniqualvolta fosse possibile. Questa conclusione è parzialmente sostenuta da studi nei quali sono
presentate informazioni in termini di consenso, coerenze e distintività. Un esperimento di
McArthur chiedeva ai partecipanti di spiegare perché un ragazzo ridesse guardando una
commedia (dopo aver comunicato loro se anche altre persone ridevano, se il ragazzo rideva
sempre e solo guardando quella commedia e se altre gli facevano ridere). Le attribuzioni formulate
confermavano le previsioni della teoria della co-variazione, fatta eccezione per le informazioni
relative al consenso di cui i partecipanti facevano meno uso. Questi risultati confermano la
capacità degli individui di utilizzare in maniera logica le informazioni CCD di cui dispongono, però
non spiegano se gli individui normalmente ricerchino queste informazioni anche in altre situazioni.
In realtà poche prove sostengono il fatto che le persone raccolgano spontaneamente informazioni
CCD anche quando sono disponibili. Un problema che sorge con queste determinate informazioni
è che ci dicono solo se l’attore, l’oggetto o la situazione hanno causato l’evento, ma non quali
aspetti di essi lo abbiano causato.
La teoria di Kelley implica l’idea che gli individui elaborino una spiegazione in assenza di
aspettative, domandandosi semplicemente: “perché questa cosa è accaduta mentre poteva non
accadere?” e soppesando tutti i fattori che potrebbero averla provocata. Ma Hilton e Slugoski
fanno notare che le persone raramente hanno bisogno di porsi questa domanda, invece vogliono
sapere: “perché è accaduto questo fatto invece di ciò che abitualmente accade?”. Infatti, il focus di
questo modello è sulla condizione anormale, che “fa la differenza” rispetto al solito. Questo
perché, le persone ricercano le cause nella differenza tra le sequenze di eventi reali e quelle
anticipate, piuttosto che passare al setaccio tutte le prove di fatto disponibili. Gli osservatori sanno
dove ricercare le cause dominanti, non solo perché comprendono i principi generali della causalità,
ma anche perché hanno accesso a copioni (scripts) cognitivi che suggeriscono loro come si
svolgono normalmente nel mondo sociale particolare tipi di eventi. Lo script “pranzo al
ristorante”, per esempio, indica la seguente sequenza: il cameriere ci conduce al nostro tavolo, ci
consegna il menù, ordiniamo, mangiamo, chiediamo il conto, paghiamo, ce ne andiamo.

3.5 Co-variazione e potere causale


Non è possibile acquisire una conoscenza accurata delle relazioni causali semplicemente
osservando la co-variazione tra eventi. Secondo Cheng, le informazioni di co-variazione, prese da
sole, sono insufficienti per spiegare la causazione. Tipicamente le persone integrano l’analisi di co-
variazione con teorie implicite innate, secondo cui certi eventi implicano poteri causali non
osservabili. Assumiamo cioè che le informazioni tra eventi riflettano processi più profondi e
nascosti. Poiché siamo portati a ricercare poteri causali sottostanti piuttosto che a registrare delle
regolarità osservabili fini a sé stesse, la raccolta dei dati per l’analisi di co-variazione è spesso più
puntuale e focalizzata. Secondo Cheng identifichiamo le potenziali cause sulla base di precedenti
conoscenze sui poteri causali e ne valutiamo l’effettiva influenza causale utilizzando una forma di
analisi della co-variazione definita contrasto probabilistico. Ciò implica il confronto tra la
probabilità dell’effetto quando la causa potenziale è presente e assente.
3.6 Attribuzione in relazione a successi e fallimenti

Alcuni degli eventi che siamo più motivati a spiegare, sono i nostri successi e i nostri fallimenti. In
base alla teoria sviluppata da Weiner, le nostre conclusioni riguardo alle cause di successo e di
fallimento influiscono direttamente sulle aspettative, sulle motivazioni e sulle emozioni future.
Secondo la classificazione delle cause di successo e fallimento, i fattori causali percepiti possono
essere:
1 Interni o esterni (locus)
2 Stabili o instabili (stabilità)
3 Controllabili o incontrollabili (controllabilità)
Attribuire il successo di qualcosa a un fattore interno significa ritenere che qualcosa relativo alla
persona abbia determinato il risultato; mentre attribuire la performance a un fattore esterno
significa pensare che a essere responsabile sia qualcosa che ha a che fare con la situazione.
Sia i fattori esterni che quelli interni possono essere variabili o stabili. Attribuire la performance
all’intelligenza significa ritenere che qualcosa di interno e relativamente immodificabile abbia
permesso alla persona di ottenere un buon risultato.
(Inoltre, Weiner distingueva tre fattori causali percepiti come controllabili o incontrollabili.)
Le attribuzioni relative a successi e fallimenti non sono semplicemente considerazioni intellettuali
riguardo alle prestazioni, ma comportano importanti differenze per le aspettative e le motivazioni.
Mueller e Dweck hanno dimostrato che ricevere dagli altri lodi di diverso tipo influenza le
attribuzioni sulla stabilità e controllabilità delle cause personali del successo, agendo
conseguentemente sulle motivazioni e sulla piacevolezza del compito. Se bambini che rispondono
correttamente ai quesiti di un test vengono lodati per la loro intelligenza, tenderanno a non
scegliere altri compiti di problem-solving complessi, e si divertiranno meno rispetto ai bambini
lodati da sperimentatori per il loro impegno.
La continua esposizione alle lodi di genitori e insegnanti, durante lo sviluppo, determina
l’atteggiamento mentale rispetto alle cause di successo. Secondo Dweck, la tendenza ad attribuire
il successo a fattori interni, stabili e incontrollabili conduce a un atteggiamento mentale flessibile
consente di percepire le abilità come variabili e controllabili, incoraggiando l’individuo a sviluppare
i propri talenti.

3.7 Attribuzione e depressione


Le conclusioni di Weiner riguardo alle conseguenze delle attribuzioni di successo e fallimento
hanno contribuito ampiamente alla comprensione dei disturbi clinici. Un’importante applicazione
è costituita dalla riformulazione attributiva della teoria dell'impotenza appresa nella depressione.
Secondo la teoria originale la depressione deriva dall’apprendere che qualsiasi propria azione è
ininfluente rispetto al risultato finale. Se le ricompense e le punizioni non hanno alcuna relazione
con le proprie azioni, presto la persona smetterà di cercare di ottenere le prime e di evitare le
seconde. Tuttavia, ci sono molte situazioni incontrollabili nella vita quotidiana che non rendono
più le persone depresse. Per esempio, ho molte persone piace scommettere nei giochi d'azzardo,
in cui il risultato e completamente al di là della loro influenza. Scommettere non sempre rende le
persone depresse, anche quando perdono denaro.
Questa osservazione ci suggerisce che l'impotenza da sola non porta automaticamente alla
depressione ma devono essere presenti anche altri fattori.
Un'altra caratteristica clinica chiave della depressione che la teoria dell'impotenza appresa non
può spiegare e l'esagerato senso di responsabilità personale che le persone mostrano in relazione
a risultati negativi. Se gli eventi incontrollabili causano depressione perché le persone depresse
dovrebbero pensare di aver causato questi eventi? La risposta di Abramson, Seligman e Teasdale è
che l'impotenza fa sentire le persone cronicamente depressa solo se è attribuita caratteristiche
intrinseche del Sé. In altre parole, uno stile di attribuzione specifico per l'incontrollabilità può
determinare una depressione clinica. Abramson e colleghi hanno esteso la classificazione di
Weiner includendo un’ulteriore distinzione tra cause globali e specifiche. Le cause globali si
applicano una vasta gamma di situazioni, mentre i fattori specifici si riferiscono solo alla particolare
situazione in questione. La qualità e la persistenza delle persone dipendono dal fatto che la causa
dell'incontrollabilità venga percepita come interna o esterna, stabile o variante, globale o
specifica.
Un esperimento di Abramson è quello di utilizzare una donna rifiutata dall’uomo di cui è
innamorata e che non può far nulla per cambiare la situazione. Secondo il modello, il modo in cui
questa donna reagisce all' esperienza di impotenza dipende da quello che lei ritiene siano le cause
del rifiuto.
L'interpretazione meno minacciosa è che il rifiuto sia stato causato da qualcosa di esterno,
instabile e specifico. L'uomo non è attratto da lei in questo preciso momento e in questa
particolare situazione. Le conseguenze di questa conclusione non sono troppo gravi per la donna,
poi che le permettono di augurarsi un maggiore successo con quest'uomo con altri in futuro. Se si
considera tuttavia un'attribuzione a cause interne, stabili e globali, il risultato cambia
radicalmente: l'uomo la considera poco attraente proprio per il tipo di persona che è e non a causa
di una valutazione negativa passeggera. Il suo rifiuto, dunque, è permanente e si applica a tutte le
situazioni. Poiché il fatto di non piacere è visto come il riflesso di caratteristiche negative,
probabilmente la donna pensa di non entrare nemmeno altri uomini, e le sue future possibilità di
felicità dal punto di vista sentimentale risulteranno piuttosto ridotte. Inoltre, poiché i fattori
causali sono globali, non si applicano solo all' attrazione sentimentale, ma anche a tutte le altre
aree della sua vita. La donna potrà solo aspettarsi costanti universali risultati negativi per i quali
non potrà fare nulla. Queste aspettative negative rischiano di condurla alla depressione.
In base alla teoria proposta da Abramson, le persone che hanno sviluppato una tendenza a
ricondurre eventi incontrollabili ad attribuzione interne, stabili e globali hanno un più alto rischio
di sviluppare in seguito una depressione cronica o generalizzata. Alcuni ricercatori hanno suggerito
che le distorsioni dell'attribuzione siano una conseguenza piuttosto che una causa della
depressione, ma i risultati sperimentali sembrano confermare che uno stile di pensiero negativo
aiuta a prevedere successivi episodi depressivi.
Alcuni studiosi hanno sostenuto che non sono le persone depresse a essere eccessivamente
pessimiste, ma sono piuttosto le persone non depresse a proteggersi da realtà spiacevoli
interpretando tutto in maniera irrealisticamente positiva “l’aura illusoria”. Secondo questa
prospettiva, chiamata realismo depressivo, le persone depresse sono “più tristi ma più sagge”.
a supporto di questa idea Lewinsohn rileva che le valutazioni di partecipanti depressi riguardo al
loro funzionamento sociale durante discussioni di gruppo erano più simili a quelle degli osservatori
esterni di quanto non lo fossero le valutazioni dei partecipanti non depressi. Sebbene gli
osservatori valutassero le performance dei partecipanti non depressi in modo più positivo rispetto
a quelle dei partecipanti depressi, non lo giudicheranno così positivamente come fecero gli stessi
partecipanti non depressi.
Secondo Campbell, partecipanti con bassa autostima formulavano giudizi più precisi sul loro
funzionamento sociale solo quando confrontati con osservatori che non partecipavano
l'interazione. L' apparente maggiore accuratezza dei giudizi dei depressi emersa nello studio di
Lewinsohn potrebbe essere una conseguenza dell'uso di osservatori a cui era richiesto di
esprimere valutazioni “oggettive”. I risultati suggeriscono che gli osservatori esterni tendono a
formulare giudizi più severi poiché ritengono che il loro compito sia quello di essere critici. Quando
le valutazioni espresse dai partecipanti venivano confrontate con quelle fornite dalle persone con
cui stavano conversando, i partecipanti con alta autostima risultavano essere più accurati. Quindi
sembra che i giudizi dei depressi siano più precisi solo quando le circostanze sono compatibili con
la loro prospettiva negativa. E inoltre possibile che i giudizi negativi dei depressi si trasformano in
profezie che si auto-avverano. Se una persona non ci prova nemmeno, poiché è convinta di non
avere alcuna possibilità di successo, e probabile che fallirà davvero.

3.8 attribuzioni erronee dell'attivazione


Ma come riconosciamo che le nostre reazioni rappresentano uno stato di depressione piuttosto
che qualcos'altro? Di solito, riteniamo di poter cogliere facilmente il nostro stato emotivo
attraverso l'introspezione diretta: sappiamo cosa proviamo senza nemmeno bisogno di pensarci.
Ma le teorie sulle attribuzioni erronee ci suggeriscono che a volte la comprensione delle nostre
emozioni sia meno diretta e richiede un processo inferenziale soggetto ha l'influenza sociale.
Una delle prime teorie psicologiche delle emozioni è stata ideata da William James, secondo il
quale ogni emozione è caratterizzata da un profilo specifico di alterazioni somatiche. Quindi
registrando tali cambiamenti fisici avvertiremo direttamente le nostre emozioni. Tuttavia, Cannon
rilevo che i profili di attivazione fisiologica associati a emozioni molto differenti sono in realtà
piuttosto simili. Ciò significa che non possiamo distinguere tra queste emozioni semplicemente
registrando quanto accade all'interno del nostro corpo.
Schachter sostiene che le emozioni dipendono dalle attribuzioni che compiamo riguardo i nostri
stati interni, piuttosto che essere un semplice riflesso di tali stati. Quindi, le percezioni
dell’attivazione ci dicono che stiamo provando un'emozione, ma non quale emozione. Di
conseguenza, cerchiamo di capire perché il nostro corpo venga attivato. In un famoso
esperimento, Schachter e Singer cercarono di determinare se un identico stato fisiologico potesse
essere percepito come rabbia o euforia (o in termini non emotivi) a seconda dell'interpretazione
delle sue cause. L' attivazione autonomica venne manipolato somministrando un gruppo di
partecipanti un'iniezione di adrenalina e all'altro un placebo, presentato come un nuovo composto
sperimentale.
A un gruppo di partecipanti a cui era stata iniettata la adrenalina fu detto che il Suproxin avrebbe
potuto provocare una serie di effetti collaterali come batticuore tremore alle mani appunto questi
erano in grado di interpretare correttamente i loro sintomi corporei come risposte non emotive
all'iniezione. Ai partecipanti di un altro gruppo vennero fornite informazioni errate appunto questi
partecipanti in questa condizione avrebbero quindi percepito i sintomi di attivazione senza
conoscerne le cause e conseguentemente avrebbero ricercato una spiegazione di tipo emotivo
appunto Schachter e Singer manipolare la situazione in modo tale da incoraggiare attribuzioni
specifiche per l'attivazione priva di spiegazioni. Ogni partecipante veniva lasciato in una sala
d'attesa con un complice dello sperimentatore istruito a metter in atto due comportamenti diversi.
In una condizione, il complice improvvisava una partita di basket utilizzando una Pala in carta e il
cestino, incoraggiando l'altro partecipante a unirsi. Nell’altra condizione, il complice diventava
progressivamente sempre più irritato a causa della compilazione di un questionario offensivo che
anche il partecipante doveva completare appunto l'item finale recitava: “Con quanti uomini oltre a
suo padre sua madre avuto rapporti extraconiugali?” Le alternative di risposta fornite erano: “più
di 10” “5-9” e “meno di 4”.
Secondo la teoria di Schachter, lezioni si verificano solo quando l'attivazione è attribuita una causa
emotiva. Dunque, oltre i partecipanti a cui era stato iniettato il placebo, anche i partecipanti
informati correttamente riguardo gli effetti dell’iniezione di adrenalina non avrebbero dovuto
provare emozioni. Al contrario i partecipanti a cui era stato iniziato l'adrenalina senza illustrare i
sintomi avrebbero dovuto spiegare la loro attivazione in termini di euforia o in termini di
irritazione. Questi due gruppi, di conseguenza avrebbero dovuto provare reazioni emotive più
ampiamente divergenti rispettivamente di euforia di rabbia. Per esempio, i partecipanti a cui era
stato iniettato il placebo non riportarono significativamente meno emozioni rispetto ai
partecipanti a cui era stata iniettata l’adrenalina senza informazioni sui reali effetti collaterali.
I risultati furono meno cari del previsto, inoltre, le emozioni segnalate dai partecipanti non
informati sugli effetti dell'adrenalina sostanzialmente non differivano tra la condizione di rabbia
quella di euforia. L'osservazione del comportamento emotivo dei partecipanti confermò in parte
le ipotesi ma non è escluso che gli effetti comportamentali osservati dipende solo da un'influenza
diretta dal farmaco sui livelli di attività.
un risultato significativo ho tenuto da Schachter e Singer era chiaramente in accordo con le ipotesi
di partenza ossia che i partecipanti a cui era iniettata l'adrenalina e che erano stati correttamente
informati dei suoi effetti riportarono meno emozioni positive nella condizione di euforia e meno
emozioni negative nella condizione di rabbia rispetto ai partecipanti non informati degli effetti
collaterali.
Esperimenti successivi come quello di Storms e Nisbett gli studenti che soffrivano di una leggera
forma di insonnia, si addormentavano più velocemente se convinci di essere assunto una pillola
attivante (effetto placebo) quando sappiamo cosa ci sta per accadere, i sintomi somatici che
sperimentiamo hanno un impatto emotivo minore.

3.9 I “biases”di attribuzione.

Secondo la teoria della co variazione è il modello di inferenza corrispondente, l'attribuzione


implica la sistematica elaborazione di tutte le informazioni potenzialmente rilevanti. Ma le
successive ricerche dimostreranno che le inferenze causali vengono modellate sulla base di
conoscenze aspettative pregresse o di stili attributivi ha presi, e possono essere reindirizzate da
manipolazioni sperimentali. Le persone quando traggono delle conclusioni, sembrano dare
maggior rilevanza ad alcune cause piuttosto che ad altre. La ricerca sui biases (o errori sistematici)
di attribuzione si propone precisamente di identificare quali tipi di cause vengono tipicamente
favoriti in determinate circostanze.
Il bias di corrispondenza. suggerisce che anche la gente comune privilegi la prospettiva della
psicologia della personalità. Il comportamento è spesso visto come un riflesso delle corrispondenti
disposizioni interne di un attore (per esempio un comportamento violento è attribuita una
personalità aggressiva) Anche quando è in realtà causato da fattori situazionali (come una pesante
provocazione) . Perché le persone sottovalutano l'influenza del contesto? Secondo Gilbert e
Malone questa tendenza è il risultato di vari processi differenti. in primo luogo, alcuni elementi
situazionali sono impercettibili e difficili da rilevare. Se gli osservatori non si rendono conto di
queste influenze e difficile considerarle nelle loro spiegazioni. In secondo luogo, le aspettative
riguardo al modo in cui le persone si comporteranno possono distorcere le interpretazioni. per
esempio, se abbiamo paura di parlare in pubblico potremmo erroneamente ritenere che tutte le
persone siano terrorizzate da questa prospettiva (esempio del bias del falso consenso). Per cui, se
qualcuno sembra perfettamente calmo prima di intervenire una conferenza, concluderemo forse
che quella persona è talmente sicura di sé da superare una situazione ansiogena.
Infine, Gilbert e Malone suggeriscono che le persone a volte falliscono nel correggere le loro
inferenze iniziali circa le cause di un comportamento virgola in particolar modo nei casi in cui le
richieste di elaborazione cognitiva sono elevate. L'idea di base è che la relazione automatica delle
persone comportamenti osservati sia rappresentata dalla conclusione che questi comportamenti
riflettono una disposizione dell'attore. Qualsiasi spiegazione basata sul contesto e perciò
caratterizzata dall’utilizzo di un processo di ragionamento maggiormente deliberato. Poiché
l'inferenza iniziale basata sulle disposizioni interne non richiede sforzo, si verifica
indipendentemente dalle circostanze specifiche. dunque, la teoria di Gilbert suggerisce che
l'attribuzione coinvolge sempre i processi automatici, ma solo a volte implica anche processi
controllati.
La tesi secondo cui compiamo inferenze riguarda i tratti delle persone in modo spontaneo e
automatico e supportato dalle ricerche condotte da Smith e Miller. Questi ricercatori hanno
dimostrato in due studi che i partecipanti a cui venivano presentate delle informazioni che
descrivono il comportamento di una persona formulavano dei giudizi sui suoi tratti più
velocemente di quanto corresse per compiere inferenze riguarda le specifiche cause dell’azione in
esame. E infatti possibile che le persone si impegnino nell’affrontare un’analisi causale deliberata e
nel controllare la validità delle loro attribuzioni disposizionali automatiche solo quando sono
specificatamente motivati a pensare al perché si sia verificato un particolare comportamento o
quando hanno sufficienti risorse cognitive per affrontare il necessario processo di controllo.
Il bias di corrispondenza un tempo era considerato talmente pervasivo e inalienabile da essere
soprannominato l’errore fondamentale di attribuzione. Tuttavia, ricerche successive suggeriscono
come sia più dipendente dal contesto di quanto la sua descrizione non lasci intendere, Perciò le
inferenze disposizione le automatiche si verificano solo se l'obiettivo inferenziale è quello di
comprendere la persona piuttosto che la situazione in cui si trova. Un' interpretazione alternativa
di questi risultati è stata fornita da Trope e Gaunt, non convinti della tesi che gli individui siano
predisposti o formulari inferenze disposizione le automatiche, successivamente corretto se
necessario. Il loro modello prevedeva che la fase iniziale di identificazione del comportamento
integrasse già informazioni situazionali e disposizionali. Questa fase è seguita da un più controllato
processo di valutazione delle ipotesi appena formulate. Dunque, se le richieste cognitive sono
elevate, tale processo di valutazione delle ipotesi è necessariamente più affrettato e superficiale, e
tende a trascurare informazioni salienti. In molti studi sull’attribuzione, le informazioni più salienti
si riferiscono all’attore e i partecipanti sono orientati ad attribuire un senso al suo
comportamento, formulando con più probabilità inferenze disposizionali. Secondo Trope e Gaunt,
un “carico cognitivo” elevato non compromette la correzione dell’inferenza automatica iniziale,
ma limita la gamma di informazioni utilizzabili per valutare le ipotesi. Se i fattori situazionali sono
salienti, l’inferenza disposizionale automatica, e il corrispondente bias, potrebbero non verificarsi.
Il modello di Trope e Gaunt offre una spiegazione alternativa alla dimostrazione dell’inferenza
disposizionale automatica fornita da Smith e Miller. Come tutte le altre affermazioni del loro
studio, l’espressione “Ted ha rotto una costosa macchina fotografica che gli era stata prestata da
un amico” inizia con il nome della persona che mette in atto il comportamento, soggetto della
frase. Espressioni come questa tendono ad attivare le informazioni sui tratti più che sulla
situazione.
Il bias di corrispondenza non è più considerato “fondamentale” anche a causa della sua variabilità
culturale.
Miller ha confrontato le spiegazioni fornite da bambini e adulti provenienti dagli Stati Uniti e
dall’India del sud riguardo alle cause di comportamenti devianti o prosociali. Gli adulti statunitensi
mostravano una tendenza nettamente superiore ad attribuire gli eventi a cause disposizionali
rispetto agli adulti indiani e ai bambini di entrambi i paesi, suggerendo che i nordamericani (ma
non gli indiani) imparino a favorire, nel corso dello sviluppo, spiegazioni di tipo disposizionale.
Questo perché molte società occidentali, sono caratterizzate da una cultura individualista nella
quale le abilità e gli sforzi del singolo si combinano per ottenere i risultati desiderati. Le persone
appartenenti a queste culture apprendono a privilegiare le informazioni sugli attori piuttosto che
sulle circostanze. In altre società invece, i bambini imparano ad attribuire la priorità agli obiettivi
di gruppo (cultura collettivista). Questa enfasi culturale rende la situazione più saliente rispetto
agli attori individuali.
Choi, Nisbett e Norenzayan sostengono che i membri di culture collettiviste sono più sensibili al
potere delle situazioni rispetto ai membri di culture individualiste, il che permette loro, in
determinate circostanze, di correggere più facilmente le inferenze disposizionali iniziali. Le
differenze culturali nell’attribuzione disposizionale potrebbero riflettere divergenze a livello dei
processi automatici o controllati. È ipotizzabile, infatti, che membri delle culture orientali siano più
motivati a correggere le loro inferenze disposizionali iniziali e a impegnarsi in processi controllati
per raggiungere questo obiettivo, oppure, è possibile che siano talmente abituati a operare
correzioni sulla base delle informazioni situazionali da farlo in maniera automatica.

Il “bias” attore-osservatore confronta le attribuzioni che le persone compiono riguardo agli altri
con quelle che compiono su se stesse. Jones e Nisbett hanno evidenziato che, quando dobbiamo
spiegare il nostro comportamento, tendiamo ad enfatizzare fattori esterni e situazionali.
Perché le spiegazioni del nostro comportamento non seguono gli stessi identici principi che
utilizziamo nelle spiegazioni della condotta altrui? Sono state proposte due spiegazioni principali.
In base alla prima, le persone hanno accesso a una gamma di informazioni più ampia
relativamente ai fattori che guidano le proprie azioni. Un secondo fattore che può contribuire al
bias attore-osservatore riguarda il focus attentivo. Nell’osservare il comportamento altrui
tendiamo a focalizzarci sulla persona piuttosto che sulla situazione. Al contrario, quando agiamo in
prima persona la nostra attenzione tende essere diversa verso l'esterno. Per cui ipotizziamo
semplicemente che ciò a cui è rivolto la nostra attenzione stia esercitando l'influenza causale
maggiore. La direzione dell’attenzione può dar conto della preferenza per le spiegazioni
disposizionali del comportamento altrui solamente quando l'altra persona è fisicamente presente.
Tuttavia, le persone tendono ad attribuire al comportamento delle caratteristiche dell’attore
anche quando viene descritto loro parole. Per esempio, l'affermazione “John è andato al cinema”
ci fornisce informazioni su John e non sul cinema. Secondo Brown e Fish, ciò dipende dal fatto che
nella lingua inglese il soggetto di un verbo d'azione è il responsabile dell'azione descritta. Al
contrario gli oggetti di verbi esperienziali sono solitamente visti come delle cause. Secondo Malle,
il bias attore-osservatore non si osserva nella totalità dei contesti. Entrambi sono invece
particolarmente frequenti negli studi che implicano il carattere idiosincratico ecco del
comportamento altrui da spiegare e nei casi in cui l’esito dell’azione è negativo. 425

Il “bias” al servizio del Sé gli esempi presentati suggeriscono che, da una parte, siamo attratti da
fattori salienti, mentre, dall'altra, tendiamo a seguire regole generalmente valide anche per
spiegare circostanze in cui la loro applicazione sembra meno appropriata appunto l'idea di fondo e
che le attribuzioni fornite dalle persone sono talvolta approssimazione imperfetta dell'effettiva
struttura causale della realtà, ma che almeno mirano a rappresentare accuratamente con la realtà.
tuttavia, alcuni tipi distorsioni sistematiche sono difficili da spiegare in questi termini. I “biases” al
servizio del Sé rappresentano una distorsione degli avvenimenti, motivata dagli interessi personali
del soggetto. Invece di osservatori neutrali, talvolta interpretiamo gli eventi sociali in termini per
noi favorevoli, sperimentando così gli avvenimenti in modo più positivo. Zuckerman ha passato in
rassegna un vasto numero di apparenti dimostrazioni del bias al servizio del Sé e ha concluso che il
suo effetto dipende dal desiderio della persona di mantenere un'elevata autostima. Vi sono però
motivazioni contrastanti riguardo la presentazione di sé che possono ridurre le attribuzioni al
servizio del Sé.
La riformulazione attributivo della teoria dell’impotenza appresa da Abramson sostiene che le
persone depresse adotta in uno stile attributivo che è l'esatto opposto della modalità al servizio
del Sé. In effetti, la ricerca suggerisce che il semplice fatto di essere di cattivo umore può
rovesciare i biases al servizio de Sé, forse perché rimuovere quell’aura illusoria che abitualmente
preserva il nostro senso di benessere nei momenti di maggiore felicità. La distorsione al servizio
del Sé si osserva in un’ampia varietà di contesti, ma risulta minore nei soggetti depressi e nei
membri di culture collettiviste.

Effetto motivazionale o cognitivo? Negli anni Settanta, la reale natura del bias al servizio del Sé fu
al centro di un dibattito. Miller e Ross proposero che certe attribuzioni a proprio vantaggio
personale sono del tutto razionali, mentre altre riflettono semplicemente l’applicazione di principi
esplicativi che risultano normalmente validi. Secondo questa prospettiva, le persone non
distorcono il proprio modo di pensare per proteggere l’autostima (spiegazione motivazionale), ma
utilizzano piuttosto regole empiriche approssimative per giungere a conclusioni talvolta erronee
(spiegazione cognitiva). Più in generale Miller e Ross sostenevano che il bias al servizio del Sé
emerge perché l’impegno spesso co-varia con il successo e non con il fallimento.
Se impegnarsi di più non migliora la prestazione, allora si può ragionevolmente presumere che ci
sia qualcosa nel compito che costituisce un ostacolo. Tuttavia, se impegnarsi maggiormente
migliora la performance, allora il successo è logicamente attribuibile ai propri sforzi.
Malgrado queste intuizioni siano valide, nessuno negherebbe oggi che il pensiero possa essere
distorto anche a causa delle motivazioni e delle emozioni. Già la nostra tendenza a correggere le
inferenze affinché corrispondano ad aspettative positive è una dimostrazione della nostra volontà
di apparire in una luce positiva in determinate circostanze. Dunque, molte spiegazioni
apparentemente di tipo cognitivo possono essere tradotte in termini motivazionali, e viceversa.
Ciononostante, il fatto che le aree cerebrali associate alla ricompensa e alla motivazione siano
attivate in seguito a biases al servizio del Sé avvalora la tesi che fattori motivazionali
contribuiscano a quest’effetto.
Accuratezza dell’attribuzione. Dunque, gli individui tendono a distorcere i processi di elaborazione
delle informazioni per adattarli ai propri scopi personali e attribuiscono un’importanza
spropositata a fattori non così rilevanti. Ma, se non facessero altro che giungere a conclusioni del
tutto scorrette sui processi causali, il loro funzionamento nel mondo reale e sociale risulterebbe
gravemente compromesso. Risalire alle cause degli eventi è utile per aiutarci a prevedere cosa
accadrà in futuro, perciò l’accuratezza delle nostre attribuzioni è fondamentale. Secondo Nisbett e
Ross, molte distorsioni sono causate da “scorciatoie cognitive”, che conducono a conclusioni
valide, ma non sono applicabili a tutte le circostanze. Alcuni autori hanno sostenuto che le nostre
attribuzioni sono in realtà più accurate di quanto suggerito dalla letteratura sull’argomento, ma
sono gli standard di valutazione dei ricercatori a essere troppo rigidi. In molti studi non esiste
nemmeno una risposta corretta, perché i giudizi causali si applicano a eventi fittizi, dunque
l’accuratezza delle valutazioni si riduce a una questione di opinione. Spesso risposte diverse sono
giustificabili sulla base del contesto. Anche quando le attribuzioni sono chiaramente inaccurate in
base a criteri scientifici validi, potrebbero corrispondere al mondo personale dell’individuo, e
dunque condurre a conclusioni comunque utili. Per esempio, la convinzione che il comportamento
degli altri sia motivato maggiormente da disposizioni interne può risultare vantaggiosa sul piano
pratico.

3.10 Il comportamento intenzionale:


le ricerche nel campo dell’attribuzione si sono concentrate in modo particolare sulle inferenze
disposizionali e sugli effetti involontari sul comportamento, sottovalutando le differenze tra
condotte intenzionali e non intenzionali.
Secondo Reeder, nell’affrontare il comportamento intenzionale e motivato non possiamo limitarci
a soppesare l’impatto relativo di spiegazioni situazionali e disposizionali. Le informazioni
situazionali possono essere usate solo come base per inferire le motivazioni dell’attore piuttosto
che per scartare spiegazioni disposizionali. In un esperimento svolto da Reeder, ai partecipanti
viene raccontato di un incidente avvenuto nel corso di una partita di football in cui un giocatore
aveva intenzionalmente dato un calcio a un avversario. In una condizione, quel giocatore era stato
precedentemente insultato. In un’altra condizione il giocatore aveva ferito l’avversario per avere
più speranze di vincere la partita. In entrambi gli scenari un fattore situazionale potente
incoraggiava l’aggressione. Se i partecipanti utilizzassero solo informazioni situazionali per scartare
inferenze disposizionali automatiche, in entrambe le condizioni sarebbero stati scoraggiati dal
concludere che l’attore ha una moralità discutibile. In realtà, la ridotta moralità era attribuita al
giocatore solo nella “condizione strumentale” (cioè quando l’infortunio dell’avversario garantiva la
vittoria della squadra) e non nella “condizione reattiva” (quando aveva reagito alla provocazione).
Dunque, pressioni situazionali non inducono necessariamente a scartare le cause disposizionali
quando il comportamento osservato è intenzionale.
La ricerca di Reeder suggerisce che il comportamento intenzionale debba essere spiegato
ricorrendo a principi diversi rispetto a quello automatico.

3.11 La metafora dello scienziato ingenuo


Molte delle teorie delle ricerche prese in considerazione, assumono che le persone cerchino di
comprendere il mondo sociale in un modo distaccato, quasi scientifico, anche se talvolta si
sbagliano. Questa assunzione è generalmente conosciuta come modello dello scienziato ingenuo.
Le persone non cercano di essere scientifiche nelle loro attribuzioni, ma probabilmente capita che
le spiegazioni nascono per risolvere specifici problemi pratici.
Secondo Hilton, le spiegazioni fornite nel corso delle conversazioni sono ideate specificatamente
per andare incontro alle richieste della persona con cui stiamo parlando. Tipicamente, molti fattori
sono coinvolti nelle cause di un dato evento e l’attribuzione riguarda la selezione di quali tra questi
fattori debbano essere enfatizzati in un particolare contesto. Decidere quale causa enfatizzare
dipende da cosa ritenete che la persona a cui state spiegando l’evento sappia già e da cosa si
aspetta. In certi casi, le aspettative della persona riguardo a ciò che dovrebbe normalmente
accadere non sono così ovvie, rendendo di conseguenza più ambiguo il compito di fornire una
spiegazione, tuttavia, spesso l’esatta formulazione della domanda causale fornisce chiarimenti
sulla faccenda. Secondo Hilton, alcuni apparenti casi di distorsione sistematica, possono essere
spiegate applicando questi principi conversazionali. Nello studio di Nisbett quindi, il bias attore-
osservatore potrebbe semplicemente riflettere un tentativo razionalmente motivato di fornire il
tipo di informazioni implicitamente richiesto. Un esperimento di McGill supporta questa
spiegazione. La sperimentazione trovo che un semplice cambiamento nelle parole utilizzate nella
domanda era in grado di rovesciare l'effetto evidenziato da Nisbett.
Più in generale, gli esperimenti sull’attribuzione possono essere visti come delle conversazioni
nelle quali partecipanti cercano di capire quali informazioni stia cercando lo sperimentatore. Il
significato da attribuire all' item di un questionario spesso dipende da una riflessione rispetto a chi
sta ponendo quella domanda e per quali scopi. Adottare questo tipo di approccio conversazionale
permette inoltre un Air interpretazione di altre possibili manifestazioni di bias attributivi.

3.12 Attribuzioni come discorsi

Hilton è partito dalla premessa che le persone cerchino di fornire agli altri informazioni che
possano aiutarle a comprendere gli eventi. Le conversazioni non sono sempre processi di
cooperazione all’interno dei quali le informazioni vengono generosamente scambiate a beneficio
di entrambi gli interlocutori. Spesso il nostro scopo non è quello di aiutare gli altri a capire cosa sia
successo, quanto piuttosto di sostenere o difendere il nostro punto di vista da eventuali attacchi.
Secondo Edwards e Potter, le attribuzioni possono le attribuzioni possono essere formulate in
modi piuttosto differenti in contesti antagonistici.
Edwards e Potter ritengono che le attribuzioni siano formulate con dei fini specifici, che riflettano
obiettivi conversazionali come persuadere, insidiare, incolpare o accusare. Secondo questa visione,
le attribuzioni non sono tentativi di spiegare una realtà sociale esistente separatamente, ma al
contrario costruiscono una visione della realtà adatta agli scopi conversazionali attuali. Le
attribuzioni, quindi non sono rappresentazioni descrittive, ma retorici all’interno di un costante
dialogo. Abbiamo così identificato alcuni dei loro limiti, incluso il bisogno di spiegare come
conoscenze generali e specifiche vengano utilizzate all’interno del processo attributivo. Sono state
inoltre considerate le applicazioni della teoria dell’attribuzione, in particolare riguardo alla
depressione clinica.
4. Percezione sociale e realtà sociale.
I modelli di attribuzione conversazionali e discorsivi ci allontanano dal progetto iniziale di Asch e
Heider, mettendo in discussione la metafora dello scienziato ingenuo che cerca di comprendere gli
altri e le loro azioni. Questo significa che le persone sono libere di costruire qualsiasi formulazione
si adatti ogni volta ai loro scopi? Ci sono 3 ragioni per cui non è così. La prima è che la biologia e la
cultura non mettono a disposizione delle persone risorse concettuali infinitamente flessibili per
comprendere gli altri. A livello biologico, siamo sintonizzati in maniera innata verso alcuni tipi di
informazioni sociali e rileviamo automaticamente l’intenzionalità a partire da certi pettern di
movimenti osservati. A livello culturale, la socializzazione ci conduce a interpretare il modo
interpersonale con modalità compatibili con le idee dei nostri genitori, degli insegnati e più in
generale della società. L’attribuzione e la percezione sociale intervengono sempre all’interno di un
sistema di norme che rende determinate inferenze più probabili di altre. Un secondo punto è che
gli altri contesteranno ogni formulazione della realtà sociale che non coincida con la loro. Il
risultato è che sembra emergere un certo grado di consenso tra le persone che hanno contatti
regolari tra loro. L’ultimo vincolo delle rappresentazioni è costituito dal contenuto
dell’informazione sociale stessa. Le persone, nel confrontarsi l’una con l’altra nella vita quotidiane,
spesso hanno accesso a presentazioni dinamiche che sono responsabili della loro condotta. Alcune
caratteristiche dell’altro possono essere lette direttamente dalle informazioni disponibili. Un altro
esempio di causalità percepita direttamente è rappresentato dal fenomeno di trasmissione di
proprietà, in base al quale alcune caratteristiche dell’agente causale sono chiaramente visibili
nell’effetto osservato. Per esempio, la traccia lasciata premendo la mano nel cemento fresco,
rivela chiaramente in che modo sia stata prodotta.
Queste forme di attribuzione basate sui dati non sembrano dipendere da processi espliciti, ma
coinvolgono una registrazione diretta delle informazioni sensoriali. La sfida che attende la ricerca
futura è quella di specificare come questi due tipi di processi possano essere collegati tra loro. Le
distinzioni tra differenti tipi di processi di attribuzione potranno essere chiarite anche grazie alla
ricerca nel campo delle neuroscienze. Van Overwalle ha riscontrato un’associazione tra l’area della
giunzione temporo-parietale e le inferenze sugli obiettivi, i desideri e le intenzioni delle altre
persone; invece, le inferenze sulle disposizioni a lungo termine risultano associate all’attivazione
della corteccia mediale prefrontale.

5. Percezione sociale automatica e controllata


Le prime teoria della percezione sociale e dell’attribuzione sembrano implicare l’idea che le
persone riflettano a lungo prima di giungere a conclusioni sugli altri e sul loro comportamento.
Questi modelli si applicano in alcune situazioni, per esempio quando l’attore fa qualcosa di molto
insolito, costringendo a trattarlo come un rompicapo da risolvere. Le tesi di Gilbert e Malone
sull’inferenza disposizionale automatica sono state applicate al tema degli stereotipi ì, suggerendo
che alcune categorie collegate a gruppi etnici o di minoranza siano attivate in maniera diretta in
risposta a particolari stimoli percettivi. Anche l’idea che le attribuzioni iniziali automatiche vengano
successivamente corrette è stata applicata alla ricerca nel campo del pregiudizio. Sembra infatti
che gli sforzi compiuti dall’individuo per non manifestare un pregiudizio dipendano da meccanismi
analoghi alla correzione delle inferenze disposizionali in risposta a informazioni situazionali.

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