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Psicologia
Università degli Studi di Catania
301 pag.
2 Psicologia e soggettività
Un approccio alla psicologia generale, che intenda affrontare un quadro globale di problematiche utili alla
conoscenza di “come funziona” l’uomo, deve necessariamente coniugare le generalizzazioni delle teorie con
la particolarità delle situazioni soggettive e con gli esiti della ricerca sperimentale.
La problematica della conoscenza dei processi mentali e dello sviluppo degli apprendimenti va espressa,
infatti, in riferimento alla "storia" del soggetto, al percorso attraverso il quale, muovendosi da capacità,
motivazioni ed interessi, una persona giunge ad una collocazione funzionale nella società, con la assunzione
di molteplici ruoli fra loro variamente integrati.
Questo percorso può essere lineare, senza salti o problemi particolarmente gravi; in questo caso viene
realizzata una sequenzialità tra formazione di base, istruzione specialistica, adattamento ad uno specifico
lavoro, aggiornamento e sviluppo di un progetto di vita personale e professionale con eventuali mutamenti
volontari sia nel campo delle relazioni affettive e familiari e sia nel campo delle attività lavorative.
“I MODELLI TEORICI”
1 Il modello comportamentista
Il "comportamentismo" è la scuola americana contemporanea di psicologia (ha goduto di un dominio
indiscusso dagli anni '20 agli anni '70), che abbandona i concetti di "io" e "coscienza" e restringe la
psicologia sia animale sia umana allo studio del comportamento.
Si propone come una branca, oggettiva e sperimentale, delle scienze naturali, avvalendosi dei contributi della
fisiologia, della psicologia animale, dell’ipotesi evoluzionistica (L’evoluzione della specie di Darwin).
Pretende di spiegare i fenomeni psichici eliminando ogni elemento introspettivo non suscettibile di verifica
sperimentale .
L’avvio al behaviorismo fu dato dal fisiologo russo Pavlov; fondatore, invece, del behaviorismo americano è
J. B. Watson, che ne formulò (1913) il programma ne "La psicologia così come la vede il comportamentista".
Col tempo, si è tracciata una distinzione tra behaviorismo:
- metodologico: ignora la "coscienza" e sostiene lo studio oggettivo del comportamento
- dogmatico: non nega la coscienza (è perciò una forma di materialismo metafisico)
Solo successivamente [Tolman, Hull e Osgood] si avrà un’apertura anche agli aspetti simbolici e cognitivi e
verrà reintrodotta la separazione, seppur cauta, tra realtà fisica e intellettuale.
Uno sviluppo interessante dei principi della "gestalt" è rintracciabile nella "teoria del campo“ di Kurt Lewin.
Lewin si occupò di teorie della personalità e di psicologia sociale: l’individuo è inserito in uno spazio vitale
che si configura come un campo di forze, all’interno del quale si sviluppano dinamiche di gruppo.
4 Il modello epistemologico-genetico
Il modello dell’epistemologia genetica mira a spiegare i processi cognitivi umani (percezione, intelligenza,
…: in tal senso è "epistemologia") ricostruendo le fasi (gli stadi) del loro sviluppo nell’individuo (ma anche
nella specie), dall’infanzia all’età adulta (in tal senso è "genetica"): introdotto da J. Piaget (1896-1980) si
oppone alla tradizionale separazione tra logica e psicologia e fonda sulla loro sistematica collaborazione la
possibilità di comprendere il pensiero nelle sue espressioni più evolute e quindi nella sua storia e nel suo
divenire.
Secondo questo modello – subentrato al comportamentismo, in crisi dopo i primi anni ’60 – la mente umana
funziona come un elaboratore attivo delle informazioni che le giungono tramite gli organi sensoriali, in
analogia coi servomeccanismi di tipo cibernetico: i processi cognitivi vengono analizzati in quanto funzioni
organizzative, nell’ambito di un sistema complesso costituito da strutture o schemi mentali di previsione e di
spiegazione dei fenomeni.
Tale modello, dunque, non possiede una propria concezione dell’uomo, ovvero non dà spiegazione o
interpretazione del comportamento umano, ma ne osserva processi e funzioni.
Si tratta di conoscere l’elaborazione interna – costituita dagli eventi che hanno luogo entro l’organismo tra lo
stimolo d’ingresso ("in-put") e la risposta d’uscita ("out-put") – della struttura psichica che forma il
"pensiero" o i "processi mentali".
“I MODELLI TEORICI”
1 La struttura dell’Io
La conoscenza di come funziona la vita psichica non può non considerare i contesti nei quali si sviluppa e
funziona la psiche umana né il complesso delle condizioni che la influenzano e concorrono a determinarla.
Esistono molteplici fattori che influenzano la strutturazione dell’Io. Tali fattori sono:
F 0La
A 7 rappresentazione mentale che la persona ha di se stessa
F 0Il
A 7sistema di valori e significati che vanno a formare l’identità della persona e che vengono strutturati nel
tempo, nell’ambito del gruppo sociale di appartenenza e dei contesti culturali e di vita
F 0L’
A 7 insieme delle opportunità, dei limiti e dei vincoli che esistono nel momento specifico in cui il soggetto
si trova ad agire.
2 Una personalità ben strutturata
Una personalità ben strutturata è armonica ed esente da conflittualità che determinano conflitti e problemi di
comportamento e di adattamento alle situazioni. Essa rende il soggetto capace di:
• Avere una rappresentazione mentale del sé positiva.
• Avere consapevolezza delle proprie caratteristiche personali, delle proprie capacità, delle motivazioni e
degli interessi che muovono il soggetto e del sistema valoriale di riferimento;
• Prendere atto e assumere responsabilità in merito alle proprie scelte;
• Essere pienamente consapevoli delle diverse alternative prima di compiere una determinata scelta;
• Sapere che l’atto stesso di operare una scelta comporta inevitabilmente delle rinunce;
• Dirigersi verso una determinata scelta formativa o lavorativa;
• Aggirare gli eventuali limiti e ostacoli che possono impedire o rallentare il raggiungimento degli obiettivi
fissati;
• Saper evidenziare e delineare progetti futuri.
Decisioni in tal senso sono la sostanza dell'autonomia degli istituti scolastici e delle istituzioni universitarie
e formative.
Autonomia, infatti, significa autoregolazione ed implica la decisionalità immediata circa le scelte rispondenti
ai bisogni formativi specifici e differenziati dei soggetti.
Altro elemento importante nella costruzione della personalità del soggetto e nella formazione di obiettivi
formativi di “saper essere” è l'individuazione di motivazioni personali : è importante che le motivazioni
degli studenti siano chiarite e conosciute sia dagli studenti stessi che dai docenti e siano progressivamente
maturate in modo funzionale all'apprendimento e più in generale all'individuazione di progetti personali di
studio, allo sviluppo di interessi ed alla qualificazione professionale.
2 Le motivazioni
Le motivazioni possono essere rilevate attraverso opportuni strumenti (test, questionari etc.) e nell'ambito
delle attività didattiche possono essere utilizzate varie occasioni per chiarirle e confermarle, collegandole alle
azioni necessarie per tradurle in progetti personali e per rendere gli allievi capaci di realizzare tali progetti.
Questi aspetti assumono dimensione fondamentale nella considerazione che gli educatori ed i docenti devono
assumere nello svolgimento delle loro funzioni.
Le caratteristiche dei soggetti, ovvero il patrimonio genetico e le memorie acquisite negli anni dell’età
evolutiva e nel corso delle prime esperienze familiari e scolastiche sono elementi fondanti il carattere e
l’atteggiamento verso la vita.
Dispositivi di apprendimento e modalità di sviluppo delle funzioni cognitive e delle capacità relazionali,
infatti, costituiscono il fondamento sul quale si fondano interessi e motivazioni all’agire.
L’interesse, infatti, sollecitato soprattutto da curiosità e motivazioni, rende stabile l’attenzione e sostiene
l’impegno.
La motivazione orienta verso attività che diventano, per il soggetto, gradevoli ed accattivanti, e creano
gratificazione nel loro svolgimento. La piacevolezza dello svolgere un compito o un’attività, infatti, è la
chiave per il successo nell’attività stessa.
3 Attività e motivazioni
Quando un lavoro diventa piacevole e sollecita passione, esso diventa anche il centro della vita del soggetto
che vi si dedica con entusiasmo.
Le motivazioni, pertanto, sono fondamentali nell’orientare le scelte dei soggetti.
Esse attribuiscono senso e significato alle azioni che assumono direzioni congruenti con le aspettative ed i
desideri del soggetto stesso.
Ma per ottenere questi risultati è essenziale che le attività didattiche vengano contestualizzate in sfondi
integratori che diano loro senso e significato.
Occorre, in particolare, attivare una didattica di laboratorio che veda i ragazzi impegnati a condividere
problemi da risolvere e progetti da porre in essere.
Così essi apprendono che ogni attività, come ogni lavoro, deve tendere ad uno scopo realizzativo ed utile,
acquisiscono proceduralità operative, imparano a scambiare esperienze, idee ed a collaborare.
2 La didattica di laboratorio
Il superamento della lezione frontale, da parte della scuola, appare strategia essenziale per il rinnovamento
della didattica e per la ricerca di buone pratiche nella mediazione didattica.
La comunicazione unidirezionale da parte del docente che spiega la lezione e l’ascolto passivo da parte degli
allievi non sono più dimensioni da privilegiare in una scuola immersa in contesti sociali che propongono
forme di comunicazione varie e stimolanti quali le comunicazioni multimediali.
La lezione scolastica tradizionale, pertanto, risulta monotona per ragazzi che spesso non sono neanche
educati all’ascolto.
Diversa efficacia, invece, assume la didattica di laboratorio se, però, nelle attività di laboratorio si
“incontrano” e si riconoscono le conoscenze disciplinari e se, attraverso metodologie di ricerca-azione, si
ricostruiscono le discipline stesse.
dell’apprendimento)
F 0L’importanza
B7 della partecipazione della famiglia (Patto di corresponsabilità)
F 0Il
B 7rispetto dell’identità dell’individuo e del gruppo (senso di appartenenza)
F 0Le
B 7 pari opportunità
F 0La
B 7 formazione etica del soggetto (cittadinanza attiva)
F 0Assicurare
B7 il diritto-dovere all’istruzione ed alla formazione(dalla logica del bisogno alla logica del diritto)
diventano
• Competenze (transfert di conoscenze e di abilità) e si traducono in obiettivi formativi nel momento in cui si
trasformano in “saper essere” cittadini delle diverse situazioni (della famiglia, della classe, del territorio,
dell’Europa, del mondo)
V di Gowin • Versante teorico concettuale Versante metodologico • Visioni del mondo Asserzioni di valore •
Teorie Asserzioni di conoscenza • Principi Interpretazioni, credenze • spiegazioni • generalizzazioni •
Costrutti Risultati di • Strutture elaborazioni • concettuali • Enunciati di Fatti, attività • regolarità o •
definizioni di • concetti • Concetti Registrazione di eventi •• Eventi / Oggetti • fenomeni posti al centro •
dell’indagine, percepiti • attraverso i concetti e • le metodologie di • registrazione
2.2. Abilità
Ogni conoscenza determina un’abilità, ogni “sapere” promuove un “saper fare”:
• Sa narrare brevi esperienze personali
• Sa mantenere l’attenzione sul messaggio orale nella pluralità dei linguaggi gestuali, mimici, iconici
• Comprende, ricorda e riferisce contenuti essenziali dei testi ascoltati collocando le azioni nel tempo
• Utilizza tecniche di lettura(etichettamento/ corrispondenza significante-significato/ scomposizione e
ricomposizione di parole note)
• Legge, comprende e memorizza brevi testi
• Scrive parole, frasi nucleari e le espande
• Struttura brevi testi
• Organizza la comunicazione scritta rispettando le convenzioni di scrittura note
2.3. Competenze
• Sa dialogare in situazioni sociali
• Sa leggere in situazioni e contesti diversificati
• Sa associare significante e significato in ogni contesto
• Sa comprendere e riferire brevi storie narrate e lette
• Sa usare le convenzioni note nell’uso della lingua orale e scritta
attività quotidiane.
Ripensare le discipline significa indagare intorno a diverse aree problematiche per trovare risposta alle
seguenti domande: l’insegnamento disciplinare è coerente con i nuovi approcci epistemologici e con le
innovazioni scientifiche e tecnologiche in atto?
Come utilizzare le discipline per favorire lo sviluppo integrale della persona, contribuendo alla costruzione
dell’identità umana, etica, sociale di un cittadino del mondo consapevole e responsabile?
Quale rilevanza ha ogni disciplina in rapporto alle richieste provenienti dal mondo del lavoro e dalla società
in genere?
Quali competenze ogni disciplina permette di sviluppare per rispondere alle esigenze professionali e sociali
attuali?
Un approccio all’analisi disciplinare implica, in primo luogo, una riflessione sul significato dei termini
"materia" e "disciplina", che non sono sinonimi, anche se nell’ambito scolastico i due termini vengono usati
entrambi nella stessa accezione.
Il significato dei due termini varia a seconda del dominio entro cui ci si muove: quando parliamo di
"disciplina" riferendoci a un ambito di ricerca in senso stretto, intendiamo un ben definito oggetto del sapere,
delimitato nei contenuti e nelle procedure.
Quando parliamo di "discipline" o di "materie" in campo scolastico, invece, intendiamo aree molto vaste,
riconducibili al raggruppamento di un insieme di problemi, principi, operazioni, strumenti... Selezionati in
campi disciplinari affini.
Una riflessione sulle materie scolastiche, così come si sono configurate nel tempo, porta innanzi tutto ad
individuare le discipline che hanno contribuito a costituirle; successivamente sarà necessario indagare la
struttura delle discipline stesse, alla luce delle nuove acquisizioni della ricerca nei singoli ambiti disciplinari,
per individuarne i nuclei fondamentali, intorno ai quali costruire i progetti e i moduli della scuola
dell’autonomia.
Come accade per altre materie scolastiche (v. Geografia o scienze o economia), l’italiano nella scuola si
presenta come una materia complessa, in cui si fondono più discipline, ciascuna delle quali contribuisce in
qualche misura alla costruzione delle conoscenze individuate quali obiettivi specifici di apprendimento del
curricolo verticale.
Anche se con differenze determinate dai livelli di insegnamento/apprendimento, possiamo dire che la materia
"italiano" si pone l’obiettivo di sviluppare competenze relative alla conoscenza e all’uso di due oggetti
specifici: la lingua e i testi.
L’ ipotesi epistemologica più attuale si fonda sul principio della storicità e della circolarità della conoscenza:
soggetto e oggetto sono interdipendenti e formano un sistema di auto-eco-conoscenza, perché il soggetto che
pensa e conosce è inserito in un ambiente naturale, storico, culturale con cui interagisce nel processo di
costruzione del sapere.
La conoscenza non è eteronoma, ovvero una rappresentazione oggettiva del mondo, essa si costruisce in un
rapporto interattivo con l’ambiente ed è prodotto sia della struttura biologica, cognitiva, emotiva del
soggetto, sia del contesto culturale e sociale con cui ciascun soggetto interagisce.
Quest’ultima ipotesi orienta verso la revisione dei saperi disciplinari, perché riconosce alla soggettività degli
individui la capacità di interpretare fatti e fenomeni e di ricostruire e "rivivere" quanto tradizione e culture
hanno veicolato, per selezionare le conoscenze che oggi appaiono fondamentali.
La funzione di orientamento delle scelte si fonda sulla congruenza dell’approccio organizzativo e
metodologico con la conoscenza del reale quale unità molteplice di prospettive disciplinari
(interdisciplinarità/logica ologrammatica).
Le conoscenze disciplinari intervengono sinergicamente ad interpretare fatti e fenomeni resi problematici.
Occorre co-costruire, nel confronto delle prospettive, delle logiche e dei linguaggi, unità di apprendimento/
unità di lavoro interdisciplinari, centrate su problemi, che vadano a mediare ed a favorire l’incontro tra le
ipotesi e le interpretazioni soggettive dell’allievo circa “come funzionano i fenomeni” e le conoscenze
codificate nelle discipline, prodotto della ricerca scientifica e della cultura storicamente determinata.
Sia l’apprendimento del nuovo e sia l’orientamento verso il nuovo (scelta di nuovi percorsi scolastici e
professionali) per non restare lontani dalla percezione del soggetto e per non essere confinati nel limbo delle
teorie e delle astrazioni devono partire da un problema
2 Strutture di apprendimento
Fra le più importanti ricordiamo:
F 0le
B 7strategie cognitive personali, gli stili di apprendimento, le esperienze individuali e collettive;
F 0il
B 7complesso di fenomeni dell'ambiente circostante, le informazioni e gli stimoli provenienti dalla realtà
esterna,
F 0iBmodelli,
7 i formalismi, le teorie, le dinamiche delle agenzie educative;
F 0iBmezzi
7 di comunicazione ed i percorsi che regolano lo scambio delle informazioni.
3 La costruzione dell’identità
L’IDENTITÀ è la rappresentazione delle caratteristiche dell’IO.
Indica le “attribuzioni” e le “qualità” di un soggetto che lo rendono unico – irripetibile e fondano la sua
diversità come valore della persona.
Il SENSO della propria identità può essere percepito solo nell’incontro con l’altro, nell’ ALTERITÀ.
L’IDENTITA’ si commisura continuamente nella dialettica della similitudine e della distinzione
Appartenenza caratteristiche ad uno schema che rendono di riferimento il soggetto (gruppo sociale) diverso
ed irripetibile Lo sviluppo dell’IO è un punto di equilibrio continuo tra pensiero convergente e
divergente,individualità e comunità , conformità e anticonformità
Emerge la necessità di una mediazione didattica efficace, possibile solo con un quadro armonico di
riforme istituzionali che introducano nelle scuole di ogni ordine e grado:
- ACCOMPAGNAMENTO DA PARTE DEL DOCENTE NELLA PERCORRENZA DEL CURRICOLO
VERTICALE
- SEMPLIFICAZIONE DELLE MODALITA’ DI INCONTRO CON LE CONOSCENZE DISCIPLINARI
(LOGICA OLOGRAMMATICA E PROBLEM SOLVING E METODOLOGIE DI RICERCA-AZIONE)
- REGIA NELL’ORGANIZZAZIONE DELL’AMBIENTE PER L’APPRENDIMENTO
- (DIDATTICA DI LABORATORIO E DINAMICHE DI GRUPPO)
- RICERCA DI MEDIATORI EFFICACI E DI BEST PRACTICES
- UTILIZZO DELLE TECNOLOGIE INFORMATICHE E DELLA COMUNICAZIONE QUALI
FACILITATORI DELL’APPRENDIMENTO
“FORMAZIONE E MEDIA”
3 Informatica
INFORMATICA: AUTOMAZIONE DELLE INFORMAZIONI • INTERNET: OGGETTIVITA’ DEL
MONDO DELLA COMUNICAZIONE DOVE E’ IL SOGGETTO A NAVIGARE ED A SELEZIONARE
LE INFORMAZIONI, IL BENE ED IL MALE IL MONDO ARTIFICIALE E’ COME IL MONDO
NATURALE • INTERNET FINESTRA APERTA SUL MONDO
LE TIC PER LA PERSONALIZZAZIONE DEI PROCESSI E PER L’INCLUSIONE SOCIALE
• INFORMATICA = METODOLOGIA:
TOP DOWN
PROCEDURE
ALGORITMI
• PC = PROLUNGA GRAFICA DEL CORPO
• PC = SUPERAMENTO DI BARRIERE INFORMATIVE
• INTERNET = NAVIGARE NEL MONDO COMUNICARE-CONOSCERE
Le TIC facilitano:
• Lo sviluppo della creatività intesa come immaginazione scientifica
• un pensiero divergente da itinerari consueti
• la produzione di idee nuove
• la costruzione della cultura ( terzo mondo di Popper: l’uomo è creatore del mondo della cultura –codificato
nei libri e nelle discipline- che retroagisce sul pensiero umano che lo ha prodotto e ne determina l’ulteriore
sviluppo)
1 Le teorie
Per le teorie cognitivistiche (o fenomenologiche) l'apprendimento è un processo conoscitivo che trae origine
dal bisogno di costruzione (e di strutturazione) del reale, implicito nell'interazione io/ambiente, e viene
studiato come fatto "molare", globale e massivo, analizzando i cambiamenti che avvengono nelle strutture
cognitive del soggetto e nella sua personalità.
Nel rapporto fra motivazione ed apprendimento incidono numerosi fattori capaci di condizionare il successo
dell'apprendimento. Esponenti di spicco: Bruner, Lewin, Piaget, Tolman.
3 Piaget e Vygotskij
Piaget, studioso di epistemologia genetica, analizza i processi mentali che sottendono i comportamenti
infantili e introduce il concetto che “l’ontogenesi ripete la filogenesi” ovvero lo sviluppo del singolo
ripercorre lo sviluppo della specie.
Piaget introduce la psicologia cognitiva ed i concetti di strutture mentali e di schemi di funzionamento del
pensiero atti ad elaborare informazioni sensoriali e percettive.
Lo psicologo studia la logica formale ed il suo rapporto con la psicologia dello sviluppo intellettuale.
I metodi adottati dal Piaget si identificano con:
• Il “metodo dell’osservazione sistematica a carattere quasi sperimentale”
• Il “metodo critico” ovvero il porre il soggetto in situazione “critica” o problematica
• Il “colloquio clinico”
2 Novack
Novak propone il modello delle pappe concettuali rappresentative delle conoscenze, delle narrazioni, dei
fenomeni. Le mappe concettuali , infatti, sono rappresentative di reti concettuali dove parole chiave sono
connesse da parole legame: il pensiero reticolare viene così rappresentato in rapporto al proprio contenuto.
Le mappe concettuali visualizzano le relazioni esistenti tra le idee.
3 Elio Damiano
Damiano formula l’ipotesi secondo la quale “la conoscenza consiste nella costruzione e nell’ organizzazione
di concetti”
“I concetti sono conoscenza organizzata secondo regole”
Il bambino elabora concetti fin dalla nascita, in modo naturale e, nel momento in cui apprende, riorganizza i
propri quadri concettuali.
Damiano individua così la “matrice cognitiva” del bambino
L’ Autore sottolinea l’importanza della scuola e della didattica nella costruzione ed elaborazione, da parte del
bambino, di reti concettuali
Elio Damiano individua le fasi di una “didattica per concetti”:
a) costruzione di una mappa concettuale di base
b) conversazione clinica
c) elaborazione della rete concettuale che va a definire l’ unità di apprendimento.
d) La costruzione di una “mappa concettuale” consente di evidenziare le idee “forti” relative all’ argomento
scelto, nonché le “relazioni” e le “funzioni” presenti nel quadro concettuale considerato.
4 Gowin
Il modello a V di Gowin rappresenta il processo di apprendimento: al vertice della V abbiamo un problema
da cui scaturiscono domande focali. Le risposte sono sul versante concettuale delle discipline. Sul versante
metodologico v’è la mediazione didattica
5 Morin
Il contributo di Morin ai Documenti di indirizzo (Indicazioni Nazionali) del M.I.U.R. (Ministero Istruzione
Università Ricerca) è relativo all’unità del sapere. Il reale è infatti unità molteplice di prospettive: ogni reale
viene osservato sulla linea del tempo, nello spazio, viene misurato etc.
6 Howard Gardner
7 D. Goleman
Secondo Daniel Goleman la personalità è costituita anche dall’intelligenza emozionale che ha un ruolo
significativo nei processi di sviluppo.
La gestione ed il controllo delle emozioni assume forte valenza anche nei processi di apprendimento e nelle
prestazioni cognitive.
L’opera principale di Daniel Goleman è “Emotional Intelligence”, testo mirato ad analizzare il ruolo che
hanno le emozioni nell’orientare i comportamenti dei soggetti e nella costruzione dell’identità dei soggetti
stessi.
L’ intelligenza emozionale contribuisce a determinare il “saper essere” del soggetto.
L’ Intelligenza Emozionale consente al soggetto di:
a) imparare a gestire le componenti delle emozioni personali e sociali;
b) acquisire maggiore consapevolezza delle emozioni e dei loro effetti;
c) rafforzare la fiducia in se stesso, l’identità e sviluppare potenziali e capacità;
d) gestire positivamente le emozioni e le energie;
e) approfondire le spinte motivazionali e gli obiettivi professionali;
f) potenziare la capacità di creare relazioni interpersonali empatiche attraverso i canali della comunicazione;
g) ampliare le capacità di promuovere e guidare il cambiamento.
F 0un
B 7 insieme di attori che vi agiscono,
F 0comportamenti
B7 concordati,
F 0una
B 7 serie di regole o vincoli,
F 0attività
B7 o compiti assegnati o concordati,
F 0tempi
B7 di operatività,
F 0un
B 7 insieme di strumenti oggetto di osservazione, manipolazione, lettura, argomentazione,
F 0un
B 7 insieme di relazioni fra gli attori,
F 0un
B 7 clima determinato dalle relazioni instaurate e dallo svolgimento di attività e compiti,
F 0un
B 7 insieme di aspettative,
F 0un
B 7 modo di vedere se stessi,
F 0lo
B 7 sforzo mentale impegnato nei processi di apprendimento.
F 0decisionalità
B7 partecipata
1.9. La creatività
La creatività, interpretabile anche come immaginazione scientifica e produttività di idee nuove è prodotto di :
F 0bisogni
B7
F 0esperienze
B7
F 0interessi
B7
F 0abilità
B7
F 0contesti
B7
I docente svolge funzione di facilitatore di apprendimenti e processi e di tutor delle attività. Egli si fa abile
regista di dinamiche comunicative e relazionali nella conduzione della classe.
Vengono facilitati ed attivati, così, i processi di apprendimento e, soprattutto nei soggetti in età evolutiva, si
consolidano e si sviluppano, a livello funzionale, le strutture di apprendimento, consentendo al soggetto di
acquisire competenze, saper risolvere problemi, avere i dominii delle situazioni, “saper essere” cittadini nei
diversi contesti di vita.
- DALL’ALLIEVO
- - DALLA FAMIGLIA DELL’ALLIEVO
- DALL’OSSERVAZIONE DEI COMPORTAMENTI- DALLE ESPERIENZE /CREDENZE /
ASPETTATIVE DEGLI ALLIEVI
“PSICOLOGIA MOTIVAZIONALE”
1 Psicologia motivazionale
1.1. Comunicazione e mediazione didattica
Un operatore che si occupa di formazione, e che quindi sostiene i soggetti nell’acquisizione di una
consapevolezza di se’ e delle proprie esigenze, deve essere un buon “comunicatore”.
1.2. La comunicazione
Il processo comunicativo deve rispondere ad un bisogno di trasmissione di messaggi - e quindi di contenuti -
da un soggetto ad un altro e, pertanto, si deve garantire l’efficacia della comunicazione .
La comunicazione, per essere efficace, deve essere lineare e far si che il mittente ed il destinatario del
messaggio trasmettano e ricevano lo stesso contenuto.
Una buona comunicazione favorisce il compito educativo.
1.3. Il modello “SINCOND”
IL TERMINE “SINCOND” E’ UN ACRONIMO CHE SINTETIZZA IL CONCETTO DI “SAGGEZZA IN
CONTINUO DIVENIRE”.
Tale concetto esprime che ogni singola cosa compiuta da un soggetto o che accade puo’ essere utilizzata dal
soggetto stesso per aumentare la sua esperienza del mondo in modo positivo.
1.4. Saggezza in continuo divenire
Il concetto di “saggezza in continuo divenire” insegna anche che si puo’ imparare in qualunque momento
della vita.
Non si è mai troppo giovani o troppo vecchi per fare esperienze ed imparare da esse.
1.5. Saggezza e curiosità
La curiosità è la più grande risorsa dell’uomo in quanto costituisce spinta motivazionale verso
l’apprendimento e l’acquisizione di competenze.
La curiosità da sola, tuttavia, non è sufficiente per consentire l’acquisizione di competenze.
1.6. Curiosità e apprendimento
La curiosità, per esplicarsi, deve avvalersi degli strumenti che il soggetto acquisisce tramite le esperienze che
ha maturato e che continua a maturare nell’arco della sua vita
1.7. Gli strumenti cognitivi
Gli strumenti cognitivi (conoscenze) e la loro dimensione applicativa (abilità), trasferiti, utilizzati ed
elaborati per risolvere problemi nuovi in contesti diversi, determinano competenze.
Interessante appare il modello “sincond” che sembra essere particolarmente efficace per promuovere “saper
essere” ovvero obiettivi formativi in tal senso.
Ciascun soggetto, secondo il modello di “saggezza in continuo divenire”, cresce e matura in modo costante
e personalizzato.
1.3. Gli strumenti del modello “sincond”
Il modello “sincond” si avvale del “diario di bordo” quale strumento essenziale per la facilitazione di un
percorso esperenziale teso a far maturare il soggetto e a fargli acquisire competenze ed abilita’ in rapporto
alle proprie esigenze di vita.
1.4. Il “diario di bordo”
Il “diario di bordo” viene tenuto generalmente su supporto cartaceo e consente a ciascun soggetto di
conservare la traccia delle diverse attivita’ ed esperienze della giornata attraverso tecniche via via
consolidate.
1.5. Il protocollo quotidiano
Un protocollo quotidiano registra l’organizzazione e lo svolgimento di tutte le attivita’, facilitando
osservazione sistematica dei comportamenti, registrazione degli aspetti piu’ rilevanti dei processi,
valutazione degli esiti.
1.6. Il continuo miglioramento
L’incremento e lo sviluppo di buone pratiche per l’apprendimento rende concreto al soggetto lo scopo del
“continuo e costante miglioramento”.
Tale prospettiva va a connotare tutto cio’ che il soggetto fa o realizza.
Si applicano Tecniche di bench marking: per individuare tappe di sviluppo in rapporto agli obiettivi
(conoscenze, abilità, competenze, obiettivi formativi) e registrarle.
E’ opportuno, infatti, redigere curve di andamento che rappresentino e visualizzino lo sviluppo dei processi
di apprendimento nel tempo .
“LA VALUTAZIONE”
1 La valutazione
1.1. Introduzione
Per l’efficacia dell’azione formativa occorre promuovere l’analisi, da parte di ciascun soggetto, dei risultati
prodotti dalle proprie azioni.
Tale impostazione consente ai soggetti di separare ciò che si ritiene soddisfacente da ciò che può essere
migliorato.
Con l’attenzione ai processi di crescita – oggetto della valutazione - viene rivalutato il passato dell’individuo,
la cui matrice cognitiva e le cui esperienze divengono il volano di trasformazioni del suo “saper essere”.
Ogni azione di monitoraggio e di valutazione dei processi di crescita, infatti, ha portato ad una sequenza
successiva di azioni volte al miglioramento.
1.2. Vantaggi della valutazione dell’esistente
Il vantaggio principale derivante dalla valutazione dei processi di crescita’ va individuato nella possibilità,
per ciascun soggetto, di correggere gradualmente la realtà che non corrisponde alle proprie aspirazioni in
quanto è sempre possibile migliorare e modificare le situazioni, facendosi forza delle esperienze precedenti.
Ogni individuo sceglie quali sono le aree della propria vita che lo assorbono quotidianamente e descriverà di
conseguenza le ramificazioni che le sue azioni producono.
“INTRODUZIONE PER UN CORSO DI PSICOLOGIA SOCIALE”
Ponendo in relazione tra loro questi due fattori, personale e sociali, è facile prevedere come si comporterà un
adolescente di Scampia.
Un adolescente della borghesia media casertana è pur sempre caratterizzato da una certa impulsività perché
questa di fatto caratterizza l’adolescenza, ma il contesto più sano lo spingerà ad entrare in contatto con
gruppi politici, sportivi, religiosi ecc.
Un contesto sociale diverso dirige diversamente alcuni atteggiamenti caratteristici dello spesso periodo di
sviluppo.
Mio marito ed io gestiamo due comunità per minori (12-18 anni) molto problematici. Il primo anno, nei
primissimi mesi, non avendo ancora chiara la tipologia di pazienti che volevamo ospitare, demmo la
disponibilità per accogliere anche ragazzi provenienti dall’area penale. Una sera mi intrattenni a parlare con
due di loro. Uno in particolare, di 17 anni, era fortemente oppositivo e dichiarava apertamente che il suo
sogno era quello di diventare un rapinatore. Il suo paese di provenienza era proprio Scampia, ed aveva già
fatto alcuni mesi di carcere per rapina. Nella sua logica lavorare era una cosa da “fessi”, stupidi, quando si
può guadagnare molto di più e più velocemente, spacciando o rubando. Avevo lavorato in molti settori:
scuola,sport, con pazienti schizofrenici adulti, insomma vantavo un curriculum notevole, ma non avevo mai
lavorato nelle carceri, quindi, non avevo avuto contatti con persone socialmente devianti. Questa
inesperienza mi condusse a un comportamento molto ingenuo che pagai caro per circa un’ora. Il ragazzo
tutto oppositivo ad un certo punto entrò in confidenza con me e stranamente ma con mio sommo piacere mi
confidò di non volere dormire da solo, che aveva bisogno di stare con qualcuno di notte e di volere tenere
sempre la luce accesa perché aveva paura del buio. La cosa mi inerì molto: uno che sognava di fare il
delinquente era in fondo terribilmente fragile e solo. Molto presa - e non tenendo assolutamente conto del
suo contesto sociale di provenienza- gli dissi: “provo molta pena per te, mi dispiace che hai così tanta paura
la sera!”. Non l’avessi mai detto, le mie parole ebbero l’effetto di una fucilata. Balzò in piedi e prese ad
aggredirmi verbalmente così violentemente che per qualche minuto temetti che mi picchiasse. Si sentiva
fortemente offeso “lui mi faceva pena?!!!” Per la mia cultura sociale di appartenenza “provo pena”
equivaleva a “provo compassione”, nel senso di partecipare al suo dolore, nella sua accezione invece
significava “mi fai schifo” . Impiegai più di un’ora per calmarlo e solo con grande fatica ritornò tranquillo.
Questo è un esempio molto pertinente per quello che stiamo trattando: io non avevo tenuto conto della
diversità di culture di appartenenza tra me e il ragazzo. Questa cosa aveva creato un disastro relazionale.
3.2. Il costruttivismo
Non solo la conoscenza richiede una coessenzialità tra persona e ambiente fisico e sociale, ma il
costruttivismo afferma anche una cosa in più: persona e ambiente fisico e sociale si costruiscono nel
rapportarsi continuamente l’uno all’altro. Questo significa che l’essere umano non è solo geneticamente
determinato, ma si costruisce anche all’interno di un processo di scambio continuo con il mondo. Quindi, le
sue teorie possono cambiare la realtà fisica (ad esempio hanno permesso di costruire i computer), ma anche
la realtà fisica cambia le sue teorie. Il tutto avviene in un ricorsività continua (le teorie hanno permesso la
costruzione dei computer, ma l’utilizzo dei computer permette la nascite e applicazione di nuove teorie, per il
fatto di accedere a calcoli talmente complessi cui non potrebbe pervenire la mente umana).
Questa visione (Popper 1972) ci pone di fronte ad una realtà dinamica e storica. “Dinamica” perché il Sé
all’interno di continue relazioni sociali si evolve arricchendosi dei diversi incontri. La crescita è data da un
rapporto dialettico tra dare e prendere dall’altro e dalla società. Proprio perché dinamica la realtà e la
conoscenza sono e divengono; in questo senso la verità è “storica” perché ciò che ci orienta non è una verità
assoluta, ma una ricerca di verità condizionata dalle credenze e valori del momento storico in cui si vive.
In sintesi, secondo questa visione della psicologia sociale si terrà conto dalla :
1. Relazione coessenziale tra soggetto e società. Tutto quanto esiste è il frutto di continue relazioni. Siamo
sistemi che per esistere e sopravvivere si nutrono di relazioni. Le identità prese isolatamente non hanno
senso. Parleremo della continua inter-relazione tra individuo e ambiente sociale, e di come i due si
influenzano reciprocamente nell’atto consocitivo (relazione continua tra soggetto e oggetto, sia a livello di
conoscenza che di comportamento).
3. Cornice etica che fa da sfondo agli assunti di base della psicologia sociale. Ogni cultura fonda le sue
regole su norme morali. Quindi le regole di una società non sono solo funzionali alla sua organizzazione per
la sopravvivenza, ma sottostanno anche ad alcuni principi etici. Secondo Popper l’uomo è l’unico essere
vivente capace di morire per un’ideologia, quindi per un valore etico.
L’identificazione delle etiche delle diverse culture ci consente di comprendere il funzionamento cognitivo ed
emotivo dell’intera società, nonché dei singoli individui che la compongono. Permette anche di comprendere
le modalità di comunicazione e i suoi progetti pedagogici .
- Il livello razionale (o sfera razionale) rappresenta il "come" una persona legge la realta', piu' banalmente
come pensa. Il pensiero comprende: concetti, giudizi, ragionamento induttivo e deduttivo e memoria.
- Il livello fantastico ( o sfera fantastica) è dato dalle immagini o anche da un pensare logico che non
necessariamente richieda esame di realta'. Io posso fantasticare di cose che non esistono e forse non
esisteranno mai.
- Il livello emotivo ( o sfera emotiva) ci dice chi veramente siamo in quel determinato momento. I nostri
pensieri possono camuffare cosa veramente proviamo, molto piu' difficilmente possono farlo le nostre
emozioni. Esse fungono da motivazione al nostro agire.
- Il livello senso-motorio, esprime quello che sentiamo e pensiamo attraverso posture somatiche, contrazioni
muscolari o parti eccessivamente controllate.
Ciascuno di questi livelli condiziona gli altri: una persona molto spaventata valuterà razionalmente come
pericolose situazioni che oggettivamente non lo sono. Allo stesso modo una valutazione razionale positiva,
come il fatto di pensare di sentirsi ben preparati ad un esame, diminuirà la paura. Una paura intensa si
evidenza con una atteggiamento di chiusura corporea e un livello di reattività alla sensazioni fisiche più alto
rispetto a quando si sta tranquilli. Un momento di pace, quindi di rilassamento muscolare ci rende ottimisti
rispetto alla valutazione delle situazioni prese in esame.
2 . I VALORI.
Va sottolineata la dimensione etica. L’uomo, a differenza di una macchina e di altre specie viventi, è alla
continua ricerca di senso. Questa ricerca ha come presupposto i valori morali.
Da alcuni studi recenti sembrerebbe che il bisogno etico sia, negli esseri umani, geneticamente determinato.
Per la fenomenologia ogni persona è un essere utile e irripetibile. Pur incarnando le regole sociali del
contesto cui appartiene, ciascuno le vive secondo una modalità personale. La soggettività rappresenta,
quindi, il vissuto personale che ciascuno di noi ha rispetto alla vita. In quest’ottica l’influsso sociale sui
nostri comportamenti cambia molto da persona a persona. Le relazioni necessitano del rispetto delle
differenze. Punti di vista diversi creano conflitto. Secondo Cattaneo, ciò che caratterizza una nuova idea è
ch'ella nasce dal conflitto di più menti, e che fra le diversi opinioni si giunga ad un accordo, in una mente
solitaria, non sarebbe nata. Il conflitto può essere superato con una posizione prepotente o collaborativa.
L’atteggiamento intersoggettivo rappresenterebbe proprio la possibilità di trovare compromessi possibili nel
rispetto delle singole società ed è l’atteggiamento richiesto ad una società democratica.
Il rispetto per la soggettività dell’altro è possibile grazie all’empatia che ci permette di cogliere i vissuti del
TU mettendoci nei suoi panni, come se fossimo lui, sapendo, però, di essere una persona diversa
F 0La
F C liberta' etica
La libertà etica rappresenta la capacita' di poter scegliere, non quello che si ritiene comodo, ma quello che si
considera più giusto. Questa è una prerogativa prettamente umana. Solo noi uomini e donne possiamo fare
scelte non solo per la ricerca del piacere o l’evitamento del dolore, ma anche per qualcosa che riteniamo
socialmente giusto. Molte regole sociali si fondano su particolari etiche; per un certo credo siamo disposti a
morire: “Le passioni appaiono dunque da un lato come il volto, la fisionomia concreta del volere, e
dall’altro come la più familiare minaccia alla sua libertà …… Il libero arbitrio sarebbe dunque
essenzialmente il potere di determinarsi in modo diverso da quello dovuto alla passione” (R. De Monticelli,
2003)
Noi siamo condizionati dal nostro DNA, dalla cultura e dal periodo storico/sociale in cui ci troviamo a
vivere. Quanto appena affermato potrebbe farci concludere che l'uomo è tutt'altro che libero. L'unica
possibilita' che l'essere umano ha di riscattare la propria liberta' sta nella consapevolezza sia emotiva che
cognitiva. Più siamo consapevoli ed emotivamente maturi più siamo liberi, più conosciamo più sappiamo
gestire le nostre emozioni più aumentano le possibilità di scelta. Diminuisce, invece, la possibilità di scelte
libere, quanto più siamo ignoranti e in balia dei nostri istinti.
F 0La
F C responsabilita'
La possibilità di scegliere ci rende automaticamente responsabili delle scelte che operiamo. Essa dipende
dalla consapevolezza che abbiamo relativamente alle conseguenze dei nostri comportamenti. Non riteniamo
responsabile un bambino di un anno se brucia la tovaglia con una candela accesa, perchè non sa che il fuoco
brucia. E’ responsabile una madre che lancia un oggetto contro il figlio perché sa che può fargli molto male.
Quindi, per stabilire la responsabilità di una persona per una certa azione, è necessario che egli abbia
consapevolezza delle conseguenze.
RELAZIONE TRA SÉ UMANO E IL CONTESTO SOCIALE
Ogni società ha le sue regole quindi influenza in un certo modo i singoli individui. Anche questi ultimi, però,
influenzano le società. Essendo diversi sono diversamente influenzati.
Norme sociali e culturali condizionano i livelli razionale emotivo e senso-motorio. Ci sono culture ad
esempio che favoriscono il contatto fisico ed altre che lo aborriscono. Una volta si diceva che i bambini non
bisognava toccarli mai. E’ evidente che questo tipo di atteggiamento creava difficoltà nella vicinanza fisica
come anche nella dimensione sessuale. Alcune culture permettono l’espressione emotiva altre tendono ad
inibirla. Allo stesso modo alcune culture favoriscono la dipendenza altre l’indipendenza.
Così, semplificando:
- Le società orientali sono più centrate sul “divenire”, quindi sul fluire dell’esperienza. Per la conoscenza
razionale, l’intuizione quindi è preferita alla riflessione; nelle relazioni la comunione alla differenziazione,
Poiché gli esseri umani hanno bisogno di collaborazione ma anche di realizzazione personale, il fatto che
oriente e occidente abbiano privilegiato solo uno dei due aspetti potrebbe creare delle disfunzioni.
Un’eccessiva remissività della cultura orientale potrebbe trovare momenti di trasgressione di altro tipo, con
vissuti rabbiosi più subdoli. Allo stesso modo l’eccessivo individualismo legato a forte competitività, delle
società occidentali, potrebbe creare solitudine con aspetti ansiosi/depressivi, impedendo spesso alle persone
di rilassarsi.
Sempre a mo’ di esempio di come valori diversi regolano società diverse proviamo a paragonare le diversità
tra le società autoritarie e quelle democratiche.
Nella società governate dalla dittatura la libertà individuale è intesa come un pericolo. La persona non è
trattata come soggetto ma è preferibile che si perda nell’anonimato. L’unica responsabilità è quella di
rispettare le regole imposte dal regime.
Al contrario le società governate dalla democrazie esaltano la soggettività, l’individualità e la libertà. La
responsabilità è estesa a qualsiasi scelta si compia.
1 Introduzione
La Psicologia Sociale nasce nel primo decennio del 1900 con la pubblicazione del libro “La Psicologia dei
Popoli” di W. Wundt (in ted. Völkerpsychologie, 10 vol., 1900-1920). Lo scopo dell’autore era quello di
delineare l'evoluzione filogenetica della mente umana a partire dai suoi prodotti collettivi (linguaggio,
2 Comportamentismo
Negli Stati Uniti, dal 1910 si stabilizza il paradigma del comportamentismo sulla base delle tesi di John
Watson, e Burrhus Skinner. Secondo questo modello, l'individuo è alla nascita una tabula rasa, sulla quale le
influenze ambientali hanno la possibilità di incidere qualsiasi cosa. Per i comportamentisti, quindi, il
comportamento umano non viene più spiegato facendo riferimento a contenuti mentalistici, bensì viene
ricondotto al risultato di catene causali di stimoli e risposte secondo un modello di “connessione Stimolo-
Risposta” (S-R). Il comportamentismo nasce ufficialmente nel 1913 con la pubblicazione dell’articolo di
Watson “Psychology as the behaviorist wiews it” (“La psicologia così come la vede un comortamentista”),
dall’ idea centrale di costruire una Psicologia obiettiva, fondata sul tangibile e l’osservabile. Rifiuta
l’introspezionismo come metodo e l’oggetto stesso dell’introspezione, la coscienza, e pone al centro
dell’osservazione il comportamento manifesto. Stimolo (S) e Risposta (R) in questo quadro divengono due
elementi essenziali: il comportamento è infatti definito come una serie di risposte che l’organismo dà ad una
serie di stimoli esterni (S F 0R).
E 0 Tutto il comportamento può essere considerato come un continuo processo di
apprendimento finalizzato all’adattamento. Prima all’interno di una concezione fondata sul modello “prove
ed errori” (legge dell’ effetto di Torndike, 1911), poi nell’ambito del condizionamento classico (Pavlov,
1923) e operante (Skinner, 1938)
2.1. Condizionamento classico
Secondo il condizionamento classico il comportamento degl’individui è frutto di un apprendimento: l’uomo
impara a rispondere a determinati stimoli a cui non era abituato a rispondere, per effetto di un
“condizionamento”. Pavlov (1966), a partire da alcuni studi sperimentali condotti sugli animali, osserva che
l’organismo possiede dei riflessi innati collegati alla comparsa di un determinato tipo di risposta. Lo stimolo
che elicita tale risposta è definito “incondizionato” (SI), in quanto non determinato da precedenti
apprendimenti; la risposta a tale stimolo è detta “incondizionata” (RI). Quando uno stimolo neutro (SN),
1 A questo concezione si opporrà Lewin per il quale la totalità è qualcosa di diverso dalle sue aprti quindi
non riducibile ad esse
La maggior parte degli attuali psicologi sociali è giunta a credere che, al di là dei meriti che ha avuto,
l’approccio comportamentista sia troppo semplicistico e riduzioni stico per poter fornire una comprensione
completa e accurata del comportamento sociale.
4 Neo-comportamentismo
Già dagli anni Trenta, il comportamentismo inizia a modificarsi e a essere messo in discussione dagli
studiosi del tempo. In quegli anni, le numerose scoperte delle neuroscienze sull’attività cerebrale portano a
disconfermare l’assunto di base del comportamentismo, ovvero che i processi mentali non devono essere
presi in considerazione, in quanto non conoscibili e osservabili. Nasce così il Neo-comportamentismo, il cui
obiettivo è rintracciare dei meccanismi di mediazione tra stimolo e risposta, che diano conto delle differenze
di riposte e, in generale, dei fenomeni più complessi di comportamento. Il modello S-R, si trasforma così in
S-O-R: tra stimolo e risposta si interpone, cioè, la mediazione dell’ “organismo”. Tale mediazione, per alcuni
autori (come ad esempio Hebb), è di natura neurologica, mentre per altri è di natura più squisitamente
psicologica. Tra questi, uno dei più noti è sicuramente Hull, che del comportamentismo di prima generazione
condivide la funzione adattiva del comportamento e di ogni sistema di apprendimento; per Hull, tuttavia, un
certo comportamento è messo in atto non solo per rispondere a un determinato stimolo ambientale, ma per
ridurre specifici “bisogni” dell’individuo. Con il termine “bisogno”, Hull vuole indicare la motivazione o
pulsione dell’individuo per mettere in atto uno specifico comportamento: si tratta dunque di un fattore
interno all’organismo e non presente nell’ambiente esterno. Hull, inoltre, sottolinea l’importanza del
meccanismo dell’ abitudine, ossia la tendenza a rispondere sempre nello stesso modo ad uno stesso stimolo.
5 La svolta cognitivista
La fine degli anni Cinquanta vede un profondo dibattito in psicologia sociale, determinato dalla presenza di
nuove riflessioni teoriche accanto a quelle comportamentiste e neo-behavioriste. Il versante che si profila con
maggior decisione come valida alternativa al comportamentismo è quello che accentua l’interesse per i
processi cognitivi. Inizia a delinearsi un nuovo modo di intendere l’uomo e di spiegarne i comportamenti,
sulla base non solo delle influenze ambientali (ambiente vs organismo) ma anche delle sue motivazioni,
aspettative e valutazioni (organismo vs ambiente). In altri termini, l’individuo cessa di essere considerato un
elemento passivo, il cui comportamento è plasmato dall’ambiente che lo circonda, per divenire presenza
attiva. Non sono più gli eventi esterni ad agire sull’uomo, ma è la percezione di essi a costituire la principale
fonte di influenza del comportamento. L’attenzione della ricerca, quindi, è sulla comprensione di come gli
individui costruiscono la loro realtà soggettiva. Oggetti di studio divengono il modo in cui le informazioni
che provengono dal mondo esterno sono codificate, immagazzinate e, all’occorrenza, estratte dalla memoria,
contrasto con norme culturali (“mangio carne di maiale” e “sono musulmano praticante”)
F0B7
F 0contrasto
B7 con precedenti esperienze personali (“sono stato campione olimpionico” e “sono sedentario”).
L’esistenza quotidiana abbonda di situazioni conflittuali determinate dalla necessità di scegliere tra
alternative più o meno tutte gradevoli: voler dimagrire e mangiare dolci, andare al mare e preferire la
montagna, sono solo alcuni esempi di situazioni in cui si sperimenta la dissonanza.
Per ridurre tale fastidio si tende a riportare coerenza tra atteggiamento e comportamento, agendo sull’uno o
sull’altro. Affinchè si elimini la dissonanza tra due elementi, è possibile:
F 0produrre
B7 un cambiamento nell’ambiente, se è questo uno degli elementi dissonnanti;
F 0cambiare
B7 il proprio comportamento;
F 0effettuare
B7 una “ristrutturazione cognitiva” (ovvero, modificare il proprio mondo di opinioni e credenze in
merito agli elementi causa di dissonanza, attraverso ad esempio l’aggiunta di nuove informazioni e
l’eliminazione di altre informazioni contrastanti).
In altre parole, per recuperare uno stato di equilibrio psicologico, o ci convinciamo che ciò che facciamo
vada bene (“i dolci non sono poi così calorici”), oppure ci decidiamo a comportarci diversamente (limitiamo
il consumo di zuccheri). In genere, se non mutiamo né opinione, né comportamento, l’incoerenza permane e
con essa il disagio psicologico. Quando la dissonanza diventa insostenibile, l'elemento cognitivo meno
resistente viene modificato e la dissonanza scompare.
2.1. La decisone e la dissonanza
Una delle occasioni in cui più frequentemente l’individuo sperimenta la dissonanza è in concomitanza di una
decisione, in quanto l’atto del decidere provoca sempre conseguenze concrete. La decisione comporta la
valutazione di alternative e la scelta di una piuttosto che l’altra: a) prima della decisione si analizzano le
caratteristiche di ciascuna alternativa e le si pongono a confronto; b) il momento della scelta obbliga a
preferire un’alternativa all’altra; c) dopo aver scelto, si continuano a valutare gli elementi di attrazione
dell’alternativa scartata e quelli meno positivi dell’alternativa selezionata. La dissonanza insorge dunque nel
momento post-decisionale, perché il soggetto continua a possedere, a livello cognitivo, elementi che
riflettono le caratteristiche favorevoli delle alternative rifiutate e le caratteristiche sfavorevoli delle
alternative prescelte. L’ampiezza della dissonanza dipende da diversi fattori; in particolare essa aumenta:
- all’aumentare dell’importanza della decisione per la persona,
- del numero delle alternative in gioco,
- della valenza (positiva/attrattiva) che le alternative hanno per il soggetto,
- dell’irrevocabilità della decisione.
Risulta invece minore, quanto più le alternative sono simili tra loro. È importante sottolineare che dissonanza
non è sinonimo di conflitto e con esso non deve essere confuso: al contrario della dissonanza, che, come
abbiamo visto, è un processo post-decisionale, il conflitto sorge in una fase pre-decisionale, quando bisogna
scegliere tra due possibili tipi di azione.
Un principio fondamentale alla base della psicologia ingenua è la credenza che l’uomo sia in grado di
padroneggiare la realtà, grazie alla previsione e al controllo delle situazioni, collegando determinati
comportamenti (es. correre ) a particolari condizioni (es. ripararsi dalla pioggia).
Generalmente noi: cerchiamo sempre di attribuire un senso a tutto ciò che osserviamo. andiamo alla ricerca
delle cause di quanto avviene attorno a noi, compiendo delle attribuzioni di causalità
Heider è stato l’autore che ha contribuito maggiormente a gettare le fondamenta per lo studio dei processi di
attribuzione, sebbene egli non abbia mai formulato una teoria sistematica al riguardo.
Per Heider “la psicologia ingenua guida il nostro comportamento verso le altre persone. Nella vita quotidiana
noi ci formiamo delle idee sugli altri individui e sulle situazioni sociali; interpretiamo le azioni degli altri
individui e cerchiamo di prevedere come si comporteranno in date circostanze.”
Però “sebbene queste idee non siano, in genere, chiaramente formulate, esse tuttavia funzionano spesso in
modo adeguato, realizzando in una qualche misura ciò che si suppone qualsiasi scienza realizzi: una
descrizione adeguata del fenomeno in esame che renda possibile fare delle previsioni”
Heider esamina il modello di individuo come scienziato ingenuo, dimostrando che, come uno scienziato,
l’individuo, dotato di capacità logico-razionali, raccoglie i dati necessari alla conoscenza di un certo oggetto
e giunge a conclusioni logiche sui fenomeni. Su questa base, l’attribuzione causale diventa quel processo che
le persone mettono in atto quando cercano spiegazioni per il proprio e per l’altrui comportamento, ossia
quando inferiscono le cause che stanno dietro specifiche azioni.
3.1. La teoria dell’attribuzione
La teoria dell’attribuzione descrive il modo in cui la psicologia e la sociologia, ma anche il senso comune,
tendono a spiegare le cause e gli effetti, diretti e indiretti, degli eventi e dei comportamenti umani.
L’attribuzione causale è un insieme di schemi e di processi cognitivi che gl’individui utilizzano per spiegare
la causa del comportamento proprio e altrui. Gli elementi che vengono analizzati sono:
- Le informazioni prese in considerazione per spiegare un evento
- Le conseguenze di tale spiegazione
Il primo studioso che si è occupato dell’attribuzione causale è stato Heider (1958). Egli considerava la
persona profana come uno scienziato ingenuo, che, nel tentativo di spiegare il comportamento (proprio e
stabilire se la causa del comportamento risiede nella persona che lo ha prodotto o nell’ambiente
circostante. Proprio per questo l’autore distingue tra:
- Cause interne alla persona
1. Permanenti (disposizioni, tratti di personalità, abilità, intelligenza…)
2. Temporanee (stato di salute, fatica, umore, motivazione…)
- Cause esterne alla persona (situazione)
Un altro bias d’attribuzione è quello del self-serving (giudizio tendenzioso a favore del sé): la tendenza
sistematica a sopravvalutare le proprie prestazioni positive, riconducendole a tratti o abilità stabili, e a
sottovalutare le prestazioni negative, riconducendole, invece, a fattori esterni.
Si attribuisce, dunque, il successo a se stessi e l’insuccesso a fattori esterni.
Il giudizio tendenzioso a favore del proprio gruppo (group-serving bias) è la tendenza sistematica ad
attribuire i fallimenti del proprio gruppo (ingroup) e i successi del gruppo estraneo (outgroup) a fattori
esterni. I successi dell’ingroup e i fallimenti dell’outgroup, invece, vengono attribuiti a fattori interni. Tale
bias ha la funzione di conservare e proteggere lo stereotipo (positivo) dell’ingroup e quello (negativo)
dell’outgroup.
2 La psicologia di comunità
2.1. Definizione e oggetto di studio
La psicologia sociale, a partire dagli anni Venti conosce rapida diffusione in America e in Europa seguendo
fasi più o meno produttive. Negli Stati Uniti, le sempre maggiori ipotesi circa le modalità con cui gli
individui si relazionano tra loro, portano a chiedersi quali siano le leggi che regolano non solo i rapporti tra
le persone, ma anche tra il singolo e i suoi contesti di appartenenza. È con questo spirito che nel 1965 nasce
negli Stati Uniti la Psicologia di Comunità.
La psicologia di comunità “definisce i problemi cogliendoli nell’interfaccia tra la loro dimensione
individuale-soggettiva e la loro dimensione sociale oggettiva” (Amerio, 2003). Oggetto di studio di questa
nuova disciplina è l’interazione tra gli individui e le strutture sociali più o meno ampie, quali gruppi,
organizzazioni e comunità. Essa si presenta dunque come un tentativo di indagare in maniera congiunta le
dimensioni individuale e sociale. Fa propria, da un lato, l’ottica della tradizione clinica che considera l’essere
umano come portatore di un “problema” e, dall’altro, considera l’uomo in quanto membro della società e
non individuo singolo. Studiare l’individuo nel suo contesto di vita quotidiana permette allora di cogliere
l’interdipendenza costante tra i “campi della persona” e i “campi dell’ambiente” (Orford, 1992). L’elemento
fondante la psicologia di comunità è dunque la credenza che l’identità del soggetto sia connessa con la rete
sociale cui appartiene. È bene specificare che il concetto di comunità cui si fa riferimento non è quello di
un’entità collettiva che trascende l’individuo e che su di esso si impone quale unica dimensione in cui egli
può trovare dignità, identità e completezza psicologica. Si tratta invece di una comunità intesa come entità
sociale globale i cui i membri sono legati da un senso di appartenenza, radicato nelle tradizioni; essa è altresì
depositaria di un bene comune che può garantire e tutelare il singolo, in quanto in essa vigono diritti e
doveri comuni. In tale accezione si identifica uno stato particolare che ogni collettività può assumere e non
necessariamente una collettività concreta (Gallino “Dizionario di sociologia”, Torino, 1993).
4 Le comunità virtuali
Nell’epoca post-moderna si diffondono sempre più nuovi modi di pensare al “gruppo sociale” che si legano
strettamente alle nuove invenzioni nel campo della comunicazione di massa. Una comunità virtuale o
comunità online è, nell'accezione comune del termine, un insieme di persone interessate ad un determinato
argomento, o con un approccio comune alla vita di relazione, che corrispondono tra loro attraverso una rete
telematica, oggigiorno in prevalenza Internet, e le reti di telefonia, costituendo una rete sociale con
caratteristiche peculiari. Infatti tale aggregazione non è necessariamente vincolata al luogo o paese di
provenienza; essendo infatti questa una comunità online, chiunque può partecipare ovunque si trovi con un
semplice accesso alle reti, lasciando messaggi su forum , partecipando a gruppi di discussione, o attraverso le
chat room e programmi di messaggistica istantanea.
Negli ultimi anni si è molto dibattuto riguardo ai reali effetti emancipatori ed egualitari delle reti telematiche.
Oltre alla questione generale della disuguaglianza nell’accesso, si è discusso sulla possibilità che le reti
telematiche potessero favorire nuove modalità di relazione sociale nell’ambito delle cosiddette comunità
virtuali, portando ad un rafforzamento della posizione e della partecipazione delle persone più svantaggiate.
Tali comunità sicuramente possono favorire la nascita di diverse relazioni interindividuali che si sviluppano
al suo interno, creando diversi ambienti comunicativi dove la persona può esprimere le proprie opinioni e
La ricerca in ambito sociale e psicologico utlizza numerosi metodi e tecniche di indagine qualitativa, a volte
anche prendendole in prestito da altre discipline. Questo è il caso dell'Etologia di Konrad Lorenz, nata come
metodo di ricerca del comportamento degli animali e poi utilizzata per l'osservazione del comportamento
umano. In questa lezione mostreremo le modalità attraverso le quali l'etologia sta apportando il suo
contributo alla piena comprensione del comportamento umano soffermandoci in maniera particolare
sull’impianto teorico elaborato da John Bowlby. Questa teoria dimostra come i primi legami affettivi
possono o meno creare una personalità sicura
1 Introduzione
L’etologia è quella disciplina scientifica che studia il comportamento animale nel suo ambiente naturale.
Essa analizza le modalità attraverso le quali l’animale interagisce con l’ambiente e aiuta a chiarire sia il ruolo
della componente istintiva sia quello della capacità innata di rispondere alle situazioni. Dall’interazione di
queste due forze nasce il motore dell’apprendimento che, utilizzato per la prima volta durante lo sviluppo,
marcherà in maniera indelebile il carattere dell’animale per tutto il resto della sua vita.
L'etologia si interessa di vari aspetti legati al comportamento animale, e tra questi, in particolare :
l’apprendimento, il corteggiamento, le cure parentali, l’organizzazione sociale e il comportamento sessuale.
Konrad Lorenz è universalmente considerato uno dei padri fondatori della moderna etologia. Celebri sono i
suoi studi sull’imprinting, effettuati nel 1930, attraverso i quali osservò quella particolare modalità di
apprendimento che si stabilisce in un determinato periodo della vita del cucciolo, detto fase sensibile. In
questo periodo il cucciolo è biologicamente predisposto ad apprendere ed in lui si fissano degli specifici
modelli di comportamento. Nel cucciolo esistono degli schemi comportamentali innati che se sono stimolati
a manifestarsi nella fase sensibile si rafforzano in lui. Affinché ciò è accada è necessaria la presenza di alcuni
stimoli esterni. L’episodio che portò Lorenz alla scoperta di questo fenomeno fu la nascita della sua ochetta
Martina. Appena l'ochetta ruppe col becco l'uovo e guardò fuori, Lorenz si accovacciò e si allontanò facendo
il verso delle oche selvatiche. La cosa stupefacente è che l'ochetta lo seguì immediatamente e che, da quel
momento in poi, non volle più essere posta accanto alla madre: per lei la madre era Konrad Lorenz e lo
seguiva ovunque andasse. Da qui il grande etologo comprese che le oche identificano come propria "madre"
il primo essere che vedono in movimento appena nascono. Non importa se ha la barba bianca, non ha le ali e
nemmeno le zampe palmate: per le ochette la loro madre è, irreversibilmente, il primo essere che si è mosso
davanti ai loro occhi quando sono venute al mondo.
Sulla scia di questa pioneristica intuizione ne seguirono molte altre e, a poco a poco, l’etologia andò
affermandosi sempre più come fonte privilegiata a cui attingere per la comprensione del comportamento
1 Premessa
Ogni persona, nel corso della giornata, viene inondata di informazioni. Molte di queste vengono ignorate,
altre vengono invece acquisite. Di questo passaggio noi siamo inconsapevoli e allo stesso modo produciamo
risposte inconsapevoli, agiamo cioè AUTOMATICAMENTE, creiamo delle abitudini.
Alcune di queste sono importanti, altre possono essere un rischio.
Non essendo spesso consapevoli di quello che facciamo e del perché lo stiamo facendo, non siamo sempre in
grado di valutare quali di queste abitudini siano funzionali e quali possono invece danneggiarci.
Gli obiettivi proposti nella seguente lezione sono:
• Aumentare la consapevolezza personale, al fine di comunicare in maniera più efficace;
• Aumentare la consapevolezza circa i comportamenti degli altri;
• Riuscire ad influenzare e persuadere le persone con cui abbiamo a che fare;
• Acquisire una maggiore flessibilità di comportamento.
2 Cos’è la PNL
La Programmazione Neuro – Linguistica (PNL) è un approccio alla comunicazione, allo sviluppo personale
e alla psicoterapia, nata agli inizi degli anni ’70 dalla collaborazione di John Grinder (della cattedra di
linguistica dell’Università di Santa Cruz, in California) e Richard Bandler (studente esperto di informatica).
Insieme iniziarono a studiare il lavoro di alcuni tra i più famosi terapeuti dell’epoca: Fritz Perls, creatore
della Gestalt, Virginia Satir, terapeuta familiare, e Milton Erickson, ipnoterapeuta di fama mondiale. Il tutto,
sulla scia degli studi di Gregory Bateson, antropologo inglese esperto di comunicazione e teoria dei sistemi.
I due studiosi sono partiti da una domanda di base: come fanno questi terapeuti a conseguire risultati così
eccellenti?
Sebbene gli approcci utilizzati siano molto diversi tra loro (e alle volte persino incompatibili) alcuni elementi
sono sorprendentemente ricorrenti. Hanno così provato a decodificare le strategie utilizzate e a
“rimodellarle”, cioè ad applicare gli stessi processi ad altre situazioni.
Nasce così la PNL.
La Programmazione Neuro-Linguistica essenzialmente è lo studio dell’ESPERIENZA SOGGETTIVA.
Per «esperienza soggettiva» si intende il modo in cui l’individuo percepisce ed interpreta se stesso ed il
mondo che lo circonda.
La inseriamo in un corso di psicologia sociale per quella parte di questa branca che si interessa a come i
singoli individui, sulla base di capacità personali, interpretano il mondo sociale e anche perché riteniamo
utili alcune sue tecniche, per migliorare le relazioni professionali
2.1. Perché si chiama così
L'idea di base è che ci sia una connessione fra:
F 0IF processi
C neurologici ("neuro"),
F 0il
F Clinguaggio ("linguistico"),
F 0gli
F C schemi comportamentali appresi con l‘esperienza ("programmazione").
Questi schemi possono essere organizzati per raggiungere specifici obiettivi nella vita.
2.2. Perché si parla di “Programmazione”
Dice Bandler: «Siamo auto-programmabili. Possiamo impostare programmi deliberatamente progettati e
automatizzati che funzionano da soli per occuparsi di noiose mansioni terrene, liberando così le nostre menti
per fare altre cose più interessanti e creative.» (Bandler, R., 2008).
Capita quando facciamo cambiamenti nella nostra percezione della realtà sensoriale. La distorsione ci aiuta
nel processo di motivazione, il quale avviene nel momento in cui modifichiamo parte delle informazioni che
ci arrivano dai canali sensoriali. La distorsione è anche la ragione per la quale un evento ci può apparire
diverso da quello che è.
2) CANCELLAZIONE:
Significa attenzione selettiva a certi aspetti della nostra esperienza e non ad altri, che lasciamo fuori dalla
nostra coscienza. Senza la cancellazione, la nostra mente conscia avrebbe troppe informazioni da analizzare.
3) GENERALIZZAZIONE:
Consiste nel trarre conseguenze generali sulla base di due o tre esperienze. Questo ci capita spesso con le
persone: se ad esempio entra nel mio ufficio la stessa signora tre volte diverse nel giro di una settimana, e
tutte e tre le volte è molto nervosa, attiverò la generalizzazione pensando che questa persona sia nervosa di
carattere, che quindi lo sia sempre.
Se voglio cambiare il comportamento dell’altro, dovrò per prima cosa cambiare il mio. Questo indurrà
spontaneamente l’altro a cambiare per stabilire un equilibrio e avere l’illusione di possedere il controllo della
relazione. A tal fine, durante la conversazione userò parole e immagini che utilizza l’altro, senza sembrare
però forzato nel compiere questa operazione. Non cercherò di imitarne il dialetto o la cadenza, per evitare
effetti negativi, come il sentirsi preso in giro da parte del mio interlocutore, che a quel punto sarà meno
disposto ad ascoltarmi o accettare una mia eventuale proposta. È utile anche evitare di parlare con un
linguaggio tecnico, se mi accorgo che la persona con cui sto parlando non condivide la mia stessa
padronanza.
F 0Principio
B7 6: Il «ricalco». Ricalchi una persona quando sei in sintonia con lei, quando vi assomigliate. Il
ricalco consiste nell’essere o diventare come l’altro, in modo da ottenere la sua attenzione, la sua fiducia, il
suo consenso. F 0andiamo
E0 a sviluppare un clima di empatia F 0riusciamo
E0 a costruire il rapport.
Questo perché:
o Scegliamo e ci piacciono le persone che sono più simili a noi.
o Se piacciamo ad una persona, essa tenderà a voler essere d’accordo con noi.
Dice Richardson: “Se sono come te, ti piacerò” F 0“SeE 0 ti piacerò, vorrai essere d’accordo con me” (2002).
F 0Principio
B7 7: Somiglianza nello stato d’animo. Le persone trovano maggiore affinità con chi vive lo
stesso stato d’animo (se siamo persone allegre, tenderemo a cercare amici così). Questo ha grandi ricadute
nelle relazioni col cliente. Può capitare che se siamo di cattivo umore allontaniamo il nostro cliente.
F 0Principio
B7 8: Se vogliamo avvicinare il cliente, comportiamoci “come se” fossimo di buonumore.
Spesso sorridere, mantenere la schiena eretta e le spalle larghe ecc può portare a vivere realmente
un’esperienza migliore e permette al cliente di avvicinarsi perché avverte un clima disteso e positivo.
F 0Principio
B7 9: Attenzione al non verbale. Quando linguaggio verbale e non verbale si contraddicono, il
secondo è sempre quello a cui si attribuisce maggiore credibilità (Mehrabian, 1971).
È chiaro quindi che il ricalco è una tecnica utilissima per sviluppare accordo e creare le giuste premesse per
una comunicazione efficace.
Se vogliamo poi indurre il cambiamento, si intraprende il passo successivo: la guida. Guidare vuol dire fare
qualcosa di diverso e offrire all’interlocutore nuove possibilità.
Non dimentichiamo che, qualora quello che stiamo facendo per instaurare una buona relazione non funziona,
è necessario essere flessibili, cioè smettere di fare quello che si sta facendo e provare con qualcosa di
diverso.
• Principio 12: Adottare l’»ascolto attivo». Assicurarsi di capire ciò che l’altra persona intende dire, vedere
ciò che vede lei, sentire ciò che sente lei. Tutto questo significa collocarsi in una posizione di empatia, in
modo da condividere l’esperienza dell’altro e comprendere pienamente ciò che l’altro vuole trasmetterci.
• Principio 13: Il ricalco sul futuro. Anticipare i problemi che potrebbero verificarsi o le obiezioni che
l’interlocutore potrebbe sollevare e fornire un’adeguata soluzione (Dilts, R., Grinder, J., Delozier , J., and
Bandler, R, 1980) trasmette un senso di efficacia personale.
1 Premessa
L’attenzione all’età evolutiva nasce nel 1800 con Jean Jacques Rousseau.
Prima di allora tra il piccolo e l’adulto non veniva fatta alcuna differenza. I bambini lavoravano, spesso
schiavizzati, erano responsabilizzati alla stessa stregua dei genitori. L’ideologia di Rousseau stravolge negli
anni l’atteggiamento sociale relativamente all’infanzia. Questo capovolgimento politico - sociale ha dato
largo spazio a studi sull’età evolutiva.
E’ emerso così che il neonato, il bambino e poi l’adolescente differiscono dall’adulto non solo per capacità
quantitativamente ma anche qualitativamente diverse.
I nuovi atteggiamenti sociali hanno sviluppato competenze diverse: il bambino dell’800 era diverso da quello
del 900 e ancora di più da quello del 2000.
A loro volta i bambini moderni stanno cambiando l’andamento della società che si avvale sempre di più di
soggetti capaci di esprimere idee, opinioni, di avere e pretendere una dignità personale .
La psicologia sociale in ambito evolutivo dovrebbe interessarsi di come le culture sociali influenzano
l’ambiente del bambino e il bambino stesso nella sua crescita e nei suoi cambiamenti, e di come il piccolo,
crescendo, a sua a volta, condizioni lo sviluppo della società, il tutto in un ottica ricorsiva.
Il bambino nella cultura occidentale è iperprotetto i suoi diritti sono fortemente regolamentati e garantiti.
Non succede lo stesso in altre culture. Ad esempio quando Davide aveva 1 anno e mezzo circa, la sua baby-
sitter ucraina lamentò con me il fatto che non mangiasse ancora da solo. I suoi figli a quell’età avevano
questa abilità, visto che a 6 mesi dovevano essere necessariamente portati al nido.
- Il Sé è condizionabile e docile (Skinner). Il bambino cresce per opera di condizionamenti. La relazione non
è centrale come possibilità di interscambio. Gli attori di questa relazione con le loro capacità individuali non
vengono presi in nessuna considerazione.
- Lo sviluppo è prodotto da cause ambientali. Il bambino quindi è passivo rispetto ad un ambiente attivo. Se
il piccolo viene continuamente ed eccessivamente punito svilupperà un atteggiamento fobico rispetto alle
situazioni. La libertà individuale non è esaltata. Le scelte del bambino riguardano prevalentemente la ricerca
del piacere e l’evitamento del dolore (libertà limitata)
- Per la ricerca psicologica il metodo ottimale è la sperimentazione e l’osservazione con il massimo del
controllo. Il controllo è massimo perché si cerca di neutralizzare la variabile osservatore. È come se si
potesse studiare in modo oggettivo il comportamento cercando di limitare qualsiasi interferenza
dell’osservatore
I limiti dell’approccio skinneriano relativo alla psicologia sociale dello sviluppo furono evidenziati dalle
teorie di Chomsky e Piaget. Secondo il primo la creatività viene considerata come una delle caratteristiche
fondamentali del modo di usare il linguaggio: noi tendiamo a creare qualcosa di nuovo, non riducibile in
maniera meccanica alle regole grammaticali, anche se da esse, in qualche modo, "generato". La conoscenza
di una lingua è per Chomsky capacità di produrre e comprendere un numero virtualmente infinito di frasi,
cioè anche frasi nuove, mai prodotte o udite prima.
(Logical Structure of Linguistic Theory, Chicago: 1975). Piaget dimostrò che il concetto di capacità
cognitiva, e quindi di intelligenza, è strettamente legato alla capacità di adattamento all'ambiente sociale e
fisico. Ciò spinge la persona a formare strutture mentali sempre più complesse e organizzate che si
modificano negli anni. Infatti c’è una differenza tra l’intelligenza del bambino e quella dell’adulto. Lo
- Il Sé è un organismo attivo spontaneo volto alla realizzazione delle proprie potenzialità (Piaget, Vytoskij,
Werner). Neonato/bambino e mondo, interagendo costruiscono insieme la realtà (approccio costruttivista);
- Il bambino costruisce la propria esperienza grazie ad un continuo interscambio con l’ambiente. Il Sé
infantile è quindi attivo rispetto ad un ambiente attivo (libertà esaltata in base a capacità legate al momento
dello sviluppo);
- Il metodo sperimentale ottimale è dato dall’osservazione con grado moderato di controllo. Questo perché
l’osservatore non può essere neutro ma è sempre coinvolto nell’osservazione dei fatti. Due osservatori
diversi riporteranno analisi, anche se di poco tra loro diverse (ogni relazione è unica).
C. APPROCCIO PSICOANALITICO
Stern vuole salvare il concetto di identità del neonato all’interno della relazione, quindi il suo essere molto
precocemente un elemento attivo nella formazione del Sé (Sé agente). Sembra inoltre volere porre un’enfasi
maggiore sullo sviluppo olistico rispetto a quello associazionistico.
Piaget, dal canto suo, in una visone costruttivista, cerca di focalizzare l’importanza delle parti che creano
strutture superiori emergenti. Dà una particolare enfasi allo sviluppo neuropsicologico a cui l’ambiente fa da
supporto, ma è attore secondario.
Gli psicoanalisti delle relazioni oggettuali vogliono evidenziare il fatto che il bambino nasca all’interno di
una relazione, dove è la capacità intersoggettiva della madre a porre le basi per quella del bambino.
Gli etologi pongono l’accento su alcuni bisogni innati che, come quello di accudimento, se soddisfatti,
creerebbero una base sicura per lo sviluppo psicologico del bambino, ovvero la sicurezza del Sé.
Volendo provare una sintesi tra tutte queste teorie , potremmo dire che il Sè alla nascita esiste nel senso di
unità minima molto dipendente dall’ambiente. Tale unità è prevalentemente formata da comportamenti innati
di tipo riflesso. Questo Sè è molto diverso dal Sé umano che diventerà negli anni successivi. Ci vorranno 5/6
anni perchè il Sè del bambino arrivi a sviluppare, anche se in modo limitato, un po’ tutte le potenzialità di un
Sè umano.
A. TRA GENETICA E AMBIENTE
Sembra che il bambino abbia la capacità innata di cogliere unità, ma che le unità elementari siano solo
piccolissimi frammenti di realtà. Infatti, da studi condotti su neonati sembra che questi siano in grado di
riconoscere i visi rispetto a figure non strutturate; il neonato ha la possibilità di complessificare tali unità
minime2. La capacità di cominciare a creare strutture di conoscenza più complesse e stabilizzare quelle
semplici dipende molto dall’interazione sociale del neonato.
2 A tre mesi e mezzo secondo alcuni studi condotti da Haith, Hazan e Goodman (1988) il neonato sarebbe
capace di agire sulla base di schemi organizzati, cioè scoprire regolarità in una serie spazio temporale e
sviluppare aspettative anche quando quelle azioni non hanno effetto sugli eventi stimolo.
3 Flavel, 1997
Il piccolo alla nascita coglie piccoli frammenti/unità, come gli occhi della madre, la voce della madre, ecc.
Ha la capacità di rappresentarsi delle immagini3. Sono, perciò, unità molto elementari. All’inizio la
conoscenza è molto ridotta e il neonato impiegherà del tempo perché le unità più elementari si trasformino in
quelle più complesse. Il tempo da solo è una condizione necessaria ma non sufficiente, in quanto è anche il
tipo di esperienza con le figure di riferimento e con l’ambiente in genere a condizionare il tipo di sviluppo
delle strutture elementari innate che si complessificano. Ciò che questo piccolo Sé sarà da adulto è dato
dall’insieme di conoscenze innate e apprese. Sebbene il neonato abbia una potenzialità genetica indiscussa,
molte di quello che svilupperà dipende dall’esperienza con il contesto sociale, molti studi comprovano
questa affermazione . Il neonato possiede, a livello genetico, tutte le potenzialità dei livelli psichici quali
pensiero, emozioni sensazioni e motricità, ma il loro sviluppo dipende dall’ambiente sia familiare che
sociale. Ad esempio, il bambino possiede la capacità di percepire un oggetto, di coglierlo in modo
approssimativo nelle sue parti non ordinate e, per piccoli frammenti, ma solo se giustamente stimolato
imparerà ad afferrarlo, se eliminiamo dal suo spazio tutti gli oggetti, imparerà poco, se eliminiamo le figure
di riferimento, che sostengono continuamente i suoi gesti lo sviluppo sarà limitato.
Per lo sviluppo umano, a seconda dei momenti storici si è data più enfasi al condizionamento biologico o
ambientale. Oggi si tende a sostenere la teoria dei tre fattori: modello bio-psico sociale, secondo il quale lo
Esiste un temperamento di base della persona che verrà strutturato sulla base di capacità innate e apprese.
Come abbiamo visto ogni temperamento è in parte condizionato geneticamente ma anche rinforzato
positivamente o negativamente dal contesto. Così, un bambino con un temperamento mite potrebbe essere
stimolato in modo tale da potenziarlo o ridurlo. Allo stesso modo, un neonato con temperamento esuberante
potrebbe essere bloccato. Se si iperstimola un temperamento mite o si blocca troppo un temperamento
esuberante, si potrebbero avere importanti disfunzioni nello sviluppo del Sè accompagnate da sofferenza.
Se lo sviluppo è funzionale il neonato strutturerà i propri comportamenti e bisogni in modo adeguato,
congruentemente con il proprio temperamento di base.
La forza del Sé, quindi, è data da un temperamento di base che si strutturerà positivamente in un ambiente
favorevole. Se l’integrazione è armoniosa avremo un Sé forte. Un prevalere di energia incapace di
strutturarsi in bisogni e comportamenti finalizzati darà un certo tipo di disfunzione sul versante di una
personalità poco organizzata nei bisogni e comportamenti. Al contrario, un’energia bloccata, significherà
comportamenti e bisogni rigidi e vuoti, poco intensi.
C. COSA SI INTENDE PER BUONA RELAZIONE CHE RENDE UN SÉ FORTE
Si definisce buona, una relazione quando permette lo sviluppo integrato di tutte le parti del Sè, quindi, del
pensiero, emozioni, sensazioni motricità nonché la capacità di essere liberi e responsabili
Un atteggiamento pedagogico tollerante
Il piccolo vive in un mondo imperfetto con genitori imperfetti. Sbagliano, quindi, quei genitori che sono
disinteressati ai figli, ma sbagliano anche coloro i quali pretendono da se stessi un interesse perfetto e
costante. Noi ci auguriamo di essere attenti e presenti, ma anche tolleranti relativamente ai moltissimi errori
che facciamo con i nostri piccoli. Come madre, mi piace essere attenta, mi piace rimediare quando ho fatto
male in un modo non costruttivo a mio figlio per la sua crescita, ma qualche volta mi piace anche, rispettare
la mia stanchezza e la mia voglia di fare per quello che so, anche quando questo non perfetto o come credo di
dover fare.
Questa premessa, mi auguro, sgombri la via a quegli enormi sensi di colpa che genitori con bambini
problematici spesso si portano dietro; anzi, mi piacerebbe mettere a fuoco qualcosa che, evitando inutili
vissuti disperanti, possa aiutare tutti a porre dei rimedi funzionali. Un genitore che ha appena vissuto un lutto
devastante, oppure uno che a sua volta ha avuto un’infanzia difficile e tormentata, indubbiamente, si pone
rispetto al neonato con un atteggiamento senso-motorio di tensione, emotivo di angoscia come insieme di
tristezza paura e rabbia, e al livello fantastico, si presume, con pensieri non positivi. Molto probabilmente, il
contatto fisico di questo genitore con il suo bambino sarà poco sereno, carico di angoscia e
fantasmaticamente negativo; cioè le fantasie rispetto alla vita, alla maternità o paternità potrebbero essere
buie. Il bambino simbiotico, del primo anno, vive un modello relazionale molto frustrante. Non possiamo
parlare di colpe, visto che il genitore in questione, molto probabilmente, non è consapevole di quanto agisce.
Ciò non esclude, però, che il suo comportamento, seppure inconsapevole, generi dei danni. Per tale ragione,
quando vi accorgete che il piccolo manifesta dei disagi, cercate di farvi aiutare.
Alcuni disagi della prima infanzia, non sono dovuti ad un atteggiamento negativo da parte dei genitori, al
contrario, questo comportamento disfunzionale sembrerebbe secondario a problematiche fisiologiche del
bambino. Se, infatti, il neonato ha un problema organico, non ben diagnosticato, è nervoso ed irascibile.
Questa volta è il suo nervosismo ad innescare quello della madre o del padre, che, provandole tutte e non
riuscendo a risolvere il problema, corrono il rischio di agitarsi o deprimersi.
Se a livello sociale si vive un momento di recessione economica, come quello attuale, la perdita del lavoro di
un genitore oppure l’allontanamento di questi per andare a guadagnare altrove, creano indubbi stati di
tensione all’interno del nucleo familiare che si ripercuotono sul bambino
Quindi volte è l’ambiente a creare problemi ai bambini altri il bambino a creare tensione all’ambiente.
Piccole regole per un comportamento pedagogico adeguato
Un comportamento pedagogico adeguato richiede:
- Abbastanza coerenza tra e diverse figure che se ne prendono cura a partire dal padre e dalla madre
- alternanza tra lasciarlo libero e proteggerlo
- Non solo la madre ma l’intero contesto nel quale è inserito il bambino, integrandosi, possono permettere
uno sviluppo sano o disfunzionale. Questo non significa che dobbiamo aspettarci che tutte le parti del
contesto siano sempre d’accordo, perché non aiuteremmo il bambino a sopportare la frustrazione di non
essere capito, cosa questa normale nella nostra vita quotidiana. Ci auguriamo, però, che le diversità non siano
così estreme da non permettere al bambino di trovare soluzioni creative, possibilmente anche con il supporto
di noi genitori. Speriamo che il piccolo non rimanga imprigionato in messaggi eccessivamente contraddittori,
che creando confusione, sia a livello emotivo che cognitivo, con genitori non capaci di trovare una sintesi, lo
paralizzino nella crescita;
- E’ importante un’alternanza armoniosa tra attenzione e lasciarlo libero di esplorare gli consentono di
confrontarsi continuamente con l’ambiente. I limiti che questo propone, lo aiutano a differenziarsi sempre
meglio. Se la madre è troppo preoccupata dell’autonomia imprigiona il bambino nell’ignoranza. Se poco
preoccupata della dipendenza lo lascia in balia di se stesso. Questi si terrorizza e si blocca.
- Il genitore empatico permette una crescita normale e favorisce lo sviluppo dell’empatia. Questo
atteggiamento presuppone due cose: che il bambino sia visto e accudito nei suoi bisogni a partire dalle prime
esperienze senso-motoria a seguire; che un genitore faccia da modello, interagendo con il piccolo lui in
modo adeguato all’età e, quindi, alle sue esigenze e competenze. Solo un adulto capace di empatia può
insegnarla ad un bambino, questi infatti impara per imitazione. Capire non significa fare sempre vincere.
Solo un alternanza armoniosa tra gratificazione e frustrazione aiutano per una crescita sana.
- Un buon genitore è capace di declinare gratificazione e frustrazione. Bisogna tener conto del grado di
frustrazione tollerabile relativamente alle capacità di sviluppo raggiunte. E’ anche importante non aggiungere
una frustrazione quando ce ne è già in atto un’ altra. Ciò evita che un accumulo eccessivo di dolore, invece di
tradursi in apprendimento della capacità di sopportazione della sensazione spiacevole, diventi agitazione
incontrollata non funzionale alla capacità di gestire i limiti. Se un genitore lascia piangere a lungo un neonato
affamato, non lo sta abituando alla frustrazione, cioè alla capacità di differire il bisogno di qualche minuto,
lasciandolo, però intatto. Questo genitore sta semplicemente uccidendo il bisogno del bambino. Un buon
genitore è anche colui che sa dare limiti che tengano conto della maturità raggiunta e nello stesso tempo la
spingano un po’ più avanti.
La capacità di gestire la frustrazione e la gratificazione è un apprendimento molto importante. Il bambino
può vivere con eccitazione eccessiva la gratificazione sfociando in un senso di onnipotenza che non lo aiuta
a relazionarsi ai limiti. La frustrazione, invece, può essere così angosciante da sopraffarlo. Nella paralisi non
costruisce un’identità. Se la madre gratifica al punto giusto evita l’onnipotenza; se contiene l’angoscia aiuta
il bambino a superarla. Quando il bambino supera l’angoscia sta imparando ad affrontare i problemi con i
loro disagi; quando contiene l’eccitazione sta imparando a immedesimarsi nella realtà con i suoi limiti.
in fondo. Ad esempio nella prima infanzia la bugia è tale perché inverosimile, non perché non sia giusto dirla
(ad esempio, è più grave dire di avere un elefante a casa che mentire sull’aver mangiato le caramelle). La
bugia è tanto più grave quanto più inverosimile.
A 6-7 anni
altri bambini in modo diverso: cominciano a essere considerati portatori di diritti simili ai suoi. Cominciano
i giochi di regole condivise tra pari, finora impossibili (ogni bambino fino ai sei anni gioca spontaneamente
“in parallelo” agli altri, ma la possibilità di fare, senza un adulto, un gioco con regole è molto limitato).
Grazie ai giochi di regole il senso morale si fa più sofisticato e le regole diventano tali se condivise, e si
possono cambiare, se il gruppo lo vuole. Le regole diventano un modo concreto per organizzarsi tra pari.
F 0Si
B 7 comprende come la persona sociale, con proprie etiche e valori condivisi, comincia a nascere a questa
età. Essa coincide con la frequenza della scuola primaria, con i giochi di squadra, con le prime “lotte” per
l’autonomia.
Infatti, nell’ultimo decennio, si è sempre più considerata l’adolescenza non più come una fase della vita
deterministicamente orientata da mutamenti biologici sempre uguali, ma come fortemente influenzata da una
importante azione dei contesti sociali che fungono da “trama della crescita”1.
b. Implica inoltre il valutare la funzione psico - sociale dei giovani nella nostra realtà (ad esempio i giovani
sono innovatori o solo sismografi dell’esistente?2 ; qual è il ruolo sociale dei giovani adolescenti e post
adolescenti nella nostra società?... )
della persona. In che modo la società, il contesto familiare e il gruppo dei pari sono importanti per la
definizione di un’identità adulta?
F 0IB giovani
7 si differenziano dai genitori o ne assumono i valori e gli atteggiamenti esistenziali? I giovani
sono innovatori rispetto all’esistente?
contrapposizione tra generazioni (padri e figli sono simili e perseguono stessi gusti, visioni…), con risultati
di difficoltà identitaria e separazione.
Gli schemi di persona sono strutture di conoscenza che contengono le informazioni che ci aiutano a
descrivere le persone in base ai loro tratti di personalità e i loro scopi. Sulla base dell’attivazione di specifici
schemi di persona siamo in grado di concettualizzare i nostri simili usando termini generali per rappresentare
particolari combinazioni di attributi ( autoritario, loquace ecc.).
Gli schemi di sé sono strutture in cui il soggetto, pensando a se stesso, costruisce categorie grazie alle quali
struttura la propria autocoscienza. Essi contengono i tratti particolarmente centrali per la descrizione di sé.
Servono per rappresentare l’oggetto di conoscenza al quale siamo più vicini: noi stessi. Rappresentano il
giudizio che quotidianamente l’individuo impiega per considerare se stesso.
Gli schemi di ruolo definiscono i comportamenti previsti in relazione alle posizioni che le persone occupano
in una data realtà sociale. Si riferiscono a quell’insieme di comportamenti che ci si attende che una persona,
che occupa una particolare posizione in una struttura sociale, metta in atto. E’ la struttura cognitiva che
organizza la conoscenza che una persona ha a proposito dei comportamenti più appropriati connessi ad una
specifica prestazione di ruolo (professioni, gruppi politici, sesso, razza).
Gli schemi di eventi contemplano le conoscenze relative al modo con cui ci si comporta nelle diverse
situazioni sociali, comprese le aspettative che abbiamo sul modo in cui si comporteranno gli altri (scripts o
copione).
errori e scorciatoie
a. Errori
Sovente, le persone, nel compiere delle scelte si avvalgono di scorciatoie mentali che faciliterebbero le loro
decisioni. Non è detto, però, che queste scorciatoie portino sempre alla scelta migliore. Con il termine
“euristica” ci si riferisce, dunque, ad un insieme di regole che gli individui seguirebbero per formulare
giudizi in maniera rapida ed efficiente (“euristica del giudizio”).
- Euristica della disponibilità: quando formuliamo giudizi sulla base della facilità con cui riconduciamo
esempi alla mente (Manis et al., 1993; Schwarz et al., 1991). Un esempio potrebbe essere quello in cui ci
ritroviamo in comitiva al ristorante e ad un nostro amico viene portato un piatto che non aveva ordinato ed
egli lo accetta lo stesso. Si apre quindi una discussione se egli sia o no una persona capace di imporsi. Un
modo per rispondere a questa domanda è richiamare un opportuno schema preconfezionato. Se però non ci
siamo mai posti una simile domanda sul nostro amico, allora siamo costretti a pensare a come rispondere. In
questa situazione, spesso ci affidiamo alla facilità con cui ci vengono in mente esempi diversi.
Concluderemo, pertanto, che il nostro amico è capace o no di imporsi a seconda di quali esempi riusciamo ad
evocare con maggiore facilità.
Numerose sono le situazioni in cui questa ci appare una buona strategia da usare. Un problema insito in essa
è però che, qualche volta, ciò che con più facilità viene ricondotto alla memoria non è caratteristico del
quadro generale e può condurci, quindi, a conclusioni errate.
- Euristica della rappresentatività (Kahneman e Tversky, 1973): un’altra scorciatoia mentale viene
impiegata quando le persone cercano di categorizzare qualcosa di nuovo, giudicando quanto questo possa
essere simile al loro concetto di caso tipico (sono un portiere d’albergo e mi arriva un cliente inglese a
chiedere una stanza. In base al concetto che ho di “persona inglese”, magari fredda e distaccata, tenderò a
farmi un’opinione di chi ho di fronte, basandomi sui miei schemi precostituiti o stereotipi).
c. Euristica e cultura
Sono stati effettuati diversi studi per stabilire se i “biases” attribuzionali siano tipici di determinate culture
oppure si possano considerare universali. In fondo la cultura può essere considerato il “fattore situazionale di
base”, quello che ci condiziona fin dalla nascita.
Gli studi hanno dimostrato che le persone appartenenti a culture individualiste (ad es. USA e occidente in
genere) sembrano preferire le attribuzioni disposizionali, mentre gli appartenenti a culture che pongono in
risalto l'appartenenza di gruppo e l'interdipendenza (soprattutto orientali) tendono a fare attribuzioni
situazionali.
In realtà anche i membri di culture collettiviste fanno attribuzioni disposizionali, ma sono maggiormente
predisposti a considerare i fattori situazionali. Essi quindi sono in grado con più probabilità di combattere
l'errore fondamentale di attribuzione, che comunque è presente universalmente.
riflettere coscientemente;
F 0un
B 7 pensiero controllato, deliberato, che interviene quando dobbiamo prendere decisioni importanti
A. IL PENSIERO AUTOMATICO
Il pensiero sociale possiede, dunque, un’ importante proprietà che facilita notevolmente la nostra
comprensione del mondo sociale: la capacità di elaborare informazioni in maniera rapida ed inconscia. Il
nostro modo di pensare può diventare automatico, proprio come le nostre azioni. Quanto più ci siamo
addestrati a pensare in un certo modo, tanto più naturale ed automatico diventa quel genere di pensiero, fino
a potervi accedere senza alcuno sforzo, quasi senza accorgercene.
Questa modalità di pensiero inconscia, non intenzionale, involontaria viene definita “elaborazione
automatica”.
Categorizziamo, senza sforzi, persone ed eventi in base ad i nostri schemi preesistenti. Questo,
indubbiamente ci agevola nella velocità e nella fatica, ma c’è un prezzo da pagare: vi sono, infatti, dei rischi
nel categorizzare automaticamente un oggetto o una persona in maniera erronea . Noi riponiamo rapidamente
ogni persona nella sua casella sulla misura dei nostri schemi evocati automaticamente in base a razza, sesso,
età e bellezza (Devine, 1989; Fiske, 1989).
F 0Pensiero
B7 automatico e stereotipi
Il pensiero automatico ci aiuta a comprendere situazioni nuove collegandole alle nostre esperienze
precedenti. Per fare questo utilizziamo gli schemi, ovvero strutture mentali che organizzano la nostra
conoscenza del mondo sociale. Tali strutture influenzano profondamente le informazioni che registriamo, su
cui riflettiamo e che successivamente ricordiamo.
Quando vengono applicati ai membri di un gruppo sociale, al genere o all’etnia, gli schemi vengono definititi
come stereotipi.
Numerosi esperimenti hanno dimostrato che gli stereotipi influiscono in maniera notevole anche sulle
percezioni, portando a comportamenti distorti ed errati. Ciò accade quando le persone utilizzano il pensiero
automatico, anche se consciamente non si riconoscono nei pregiudizi incarnati dagli stereotipi.
F 0Pensiero
B7 automatico e schemi
F 0in
B 7 base ad un evento contingente che ha fissato uno schema in memoria: in questo caso l’accessibilità
Il “priming” è appunto il fenomeno per cui esperienze recenti aumentano l’accessibilità di uno schema.
Il priming è un ottimo esempio di pensiero automatico, in quanto le persone non sono consapevoli del fatto
che stanno applicando concetti o schemi cui è capitato di pensare poco prima.
B. IL PENSIERO CONTROLLATO
A frenare e riequilibrare l’elaborazione automatica ci viene in soccorso l’ “elaborazione controllata”, fatta di
pensieri consapevoli, intenzionali, volontari e deliberati.
A differenza dell’elaborazione automatica, il pensiero controllato richiede motivazione ed impegno: quando
la posta in gioco è bassa e noi non siamo particolarmente interessati all’accuratezza di una decisione o di un
giudizio, lasciamo spesso che sia il nostro pensiero automatico ad occuparsene, senza curarci di controllarlo
o di correggerlo.
Gilbert (1991) sostiene che le persone sono programmate per credere automaticamente in tutto ciò che
vedono e che sentono. Questo processo sarebbe insito negli esseri umani perché gran parte di quanto
osserviamo è vero. La vita diventerebbe veramente difficile se dovessimo fermarci e decidere ogni volta
sulla veridicità di ciò che incontriamo. Di tanto in tanto, tuttavia, ciò che sentiamo e vediamo non è vero:
abbiamo pertanto bisogno di un freno e di un successivo riequilibramento che ci renda capaci di “non
accettare” ciò che avevamo inizialmente creduto (Gilbert, Tafarodi e Malone, 1993).
2. Conclusioni
Le abilità cognitive del pensiero umano possono portare a grandi risultati culturali e intellettuali, ma anche a
compiere errori fondamentali.
E’ tuttora in corso un dibattito su quale dei due tipi di pensiero (automatico o controllato) sia più importante
per il nostro funzionamento. Ciò che è chiaro è che entrambi sono estremamente utili. Forse la migliore
metafora del pensiero umano è quella secondo cui le persone sono “scienziati imperfetti”, che cercano di
scoprire la natura del mondo sociale in maniera logica, ma che non ci riescono alla perfezione. Possiamo
ancora migliorare.
Viste le conseguenze spiacevoli, e a volte tragiche, del ragionamento umano, ci si deve porre il problema di
come rimediare, insegnando alle persone come migliorare le proprie inferenze.
Uno dei possibili metodi è quello di spingere le persone a considerare con maggiore modestia le loro
capacità di ragionamento: spesso infatti ci sentiamo infallibili.
Un'altra possibilità è quella di insegnare alle persone alcuni dei principi statistici e metodologici
fondamentali relativi al ragionamento corretto, nella speranza che poi li applichino nella loro vita quotidiana.
1 Introduzione
La Metacognizione rappresenta la consapevolezza ed, insieme, la capacità delle persone di riflettere sui
propri stati interni, cognitivi ed emotivi. Tale capacità sarebbe strettamente collegata alla Teoria della Mente
che, allo stesso modo, costituisce l’abilità di comprendere la mente altrui ed accompagnerebbe il bambino a
non confondere il proprio mondo interno con quello delle altre persone. Queste due funzioni rappresentano
un sistema di monitoraggio che regola il comportamento umano, sociale e affettivo del futuro adulto. Grazie
al loro corretto sviluppo il bambino giunge a comprendere la relazione tra eventi ed emozioni, arrivando a
2 La Metacognizione
La nozione di metacognizione viene complessivamente definita da Flavell (1981a, cit. in Flavell et al., 1993)
come “ogni conoscenza o attività cognitiva che prende come oggetto, o regola, ogni aspetto di qualsiasi
impresa cognitiva”. “Meta” significa etimologicamente “al di là”, “al di sopra”; in riferimento ad un livello
meta che ha come termine di specificazione i processi di pensiero, ci si riferisce alla metacognizione come ad
una attività di riflessione su questi stessi processi, sulla loro natura e sul modo in cui si verificano (Petter,
1996). Il suo significato centrale è quindi quello di “cognizione della cognizione”. Le prime ricerche
nell’ambito della metacognizione si concentrarono soprattutto sulle abilità di metamemoria di bambini in età
prescolare (Flavell et al., 1970, cit. in Semerari, 1999). Successivamente, altri studi di matrice cognitivista si
sono affacciati alla conoscenza sociale e alle capacità di attribuzione di stati mentali, a cui viene
generalmente dato il nome di Teoria della Mente.
Altri autori hanno concettualizzato il dominio della metacognizione in modi diversi. In particolare, Cornoldi
(1995) la definisce come “l’insieme delle attività psichiche che presiedono al funzionamento cognitivo”, ma
distingue due ambiti di applicazione: i processi metacognitivi di controllo, che guidano l’effettivo
funzionamento cognitivo e la conoscenza metacognitiva (o metaconoscenza) sul funzionamento mentale.
2.1. Conoscenza metacognitiva
La conoscenza metacognitiva si riferisce all’insieme delle idee che un individuo possiede sul funzionamento
mentale; è costituita da quelle credenze e conoscenze conservate nella memoria a lungo termine aventi come
oggetto gli atti della mente umana. Mentre la capacità razionale è presente anche nelle specie inferiori la
capacità di pensare i propri pensieri, i propri comportamenti i propri sentimenti in modo critico è una
prerogativa strettamente umana. Stiamo parlando dell’autocoscienza. Un cane non avrebbe mai potuto
inventare la teorie della relatività perché manca della capacità di riflettere sulle proprie teorie, sebbene sia
capace di valutare se prender il biscotto o il pezzo di carne, non potrebbe però riflettere se gli fa più bene
l’uno o l’altro.
3.3. Decentramento
Il decentramento si riferisce “alla capacità del soggetto di rappresentare eventi mentali e di compiere
operazioni cognitive euristiche sul funzionamento mentale altrui non riferendosi esclusivamente alle
conoscenze sul proprio funzionamento mentale e non essendo necessariamente coinvolto nella
relazione” (ibid.). Rispetto alla funzione sopra descritta, nel decentramento l’individuo percepisce in modo
consapevole ciò che è soggettivo, riuscendo a discriminare le proprie operazioni cognitive da quelle altrui e
di non essere al centro dei pensieri e dei sentimenti dell’altro, il quale è mosso da scopi e motivazioni in gran
parte indipendenti dalla relazione con il soggetto stesso. Colui che riesce a decentrare riconosce il proprio
punto di vista e lo colloca tra gli altri possibili. Nella capacità di comprendere la mente altrui, invece, le
caratteristiche del funzionamento cognitivo vengono inferite esclusivamente in maniera egocentrata senza
differenziazione e reciprocità. (si veda a tale proposito il concetto di egocentrismo elaborato da Piaget,
1926). Es: Posso comprendere che non ti piaccia dire bugie sebbene a me piaccia molto.
3.4. Mastery
La funzione di mastery si riferisce alla “capacità dell’individuo di rappresentare ambiti psicologici in
termini di problemi da risolvere e di elaborare strategie adeguate alla risoluzione del compito a livelli
crescenti di complessità” (ibid.).
ES: inquadrare i propri pensieri non come dati di fatto, ma in termini di compiti da eseguire e problemi da
risolvere, definendo in modo plausibile i termini del problema ( ricerca di sostegno nel contesto relazionale,
l’accettazione dei propri limiti, ecc…).
Meccanismi innati specializzati, che si attivano a seguito della maturazione biologica, riconducibili a
specifiche aree del cervello (Leslie, 1994).
• Teoria della teoria (Theory theory)
Bambino come piccolo scienziato che avanza supposizioni che utilizza per dare significato alla propria
esperienza; a fronte di prove contrarie riformula nuove ipotesi (Meltzoff, 1997).
• Teoria della simulazione
Il bambino utilizza l’esperienza come fonte di conoscenza dei propri stati interni. Quando vede un adulto o
un compagno compiere certe azioni vi attribuisce il medesimo significato come se fosse lui a compiere
quelle azioni. Poiché è in grado di identificarsi con l’altro, può comprenderne il comportamento (Harris,
1996; Tomasello, 1999)
Teoria, quest’ultima, avvalorata dalla scoperta dei neuroni mirror o specchio (Rizzolatti 1996; Fogassi e
Ferrari, 2004).
6.2. Prospettiva sociale
Nel corso degli ultimi anni, gli studi sulla metacognizione si sono spostati dalla ricerca di una definizione
chiara di Teoria della Mente e del suo sviluppo verso l’osservazione di quei fattori in grado di influenzare
tale sviluppo. In questa direzione, particolare rilevanza è stata data all’interazione del bambino con
l’ambiente fisico, sociale e culturale. L’intelligenza cognitiva nascerebbe, dunque, dalle esperienze socio-
relazionali del bambino, secondo la cosiddetta “Concezione multilaterale” che definisce la Teoria della
Mente un’impresa relazionale che si struttura all’interno dei contesti emotivamente significativi per il
bambino (famiglia e scuola).
F 0Sviluppo
D8 metacognitivo ed interazioni familiari
Nello studio della relazione tra attaccamento e Teoria della Mente, molti ricercatori si sono orientati verso
l’osservazione delle interazioni familiari.
- Presenza o meno di fratelli
La particolare natura dei rapporti intrafamiliari sollecita lo sviluppo della capacità di intuire i sentimenti, le
intenzioni degli altri. In particolare è nell’interazione con i fratelli che i bambini vivono le esperienze sociali
più intense (Dunn, 1990)
- Ordine di genitura
I bambini con almeno un fratello maggiore sono risultati più abili nei compiti di Teoria della Mente rispetto
ai bambini con fratelli minori. I fratelli maggiori sembrano fungere da “maestri” nella comprensione della
mente dell’altro (Perner, Ruffman, Leekam, 1995)
- Tipologia di attaccamento
La sicurezza dell’attaccamento è un predittore delle abilità di comprendere la mente altrui. Un bambino, che
ha stabilito con il caregiver un tipo di attaccamento sicuro, sembra mostrarsi più attento alle credenze e ai
desideri che motivano le condotte degli altri (Fonagy, Redfern, Charman, 2001).
- Espressività emotiva del caregiver
La manifestazione di calore emotivo nei confronti del figlio si è mostrata positivamente correlata alle
prestazioni del bambino nella comprensione della mente. Tale variabile risulta più significativa per le
La pratica nell’uso di termini riferiti a sentimenti, credenze e desideri in famiglia risulta associata
positivamente con le prestazioni del soggetto nei compiti sulla Teoria della Mente. E’ stata pertanto verificata
l’esistenza di una connessione positiva tra la pratica discorsiva, l’uso del linguaggio mentale e la
comprensione delle credenze (Dunn, 1996).
- Stile disciplinare genitoriale
Lo stile autorevole o “centrato sulla vittima” si è dimostrato il migliore nella promozione della Teoria della
Mente, a differenza di quello autoritario, risultato del tutto inefficace (Fitzgerald, White, 2003).
F 0Sviluppo
D8 metacognitivo e scuola
- Scolarizzazione
Il confronto tra soggetti scolarizzati e non scolarizzati ha mostrato un effetto positivo della scolarizzazione su
alcuni aspetti della Teoria della Mente, come la capacità di risolvere compiti di falsa credenza. La scuola
propone al bambino attività che enfatizzano fortemente il mondo interiore dei pensieri, come scrivere i propri
pensieri o leggere il pensiero di altri (Vinden, 1999).
- Rapporto con i pari
Il contesto scolastico è visto come setting favorevole all’analisi delle interazioni sociali con i pari e del
rapporto tra Teoria della Mente e abilità sociali. I bambini più competenti dal punto di vista sociale sono
anche quelli più abili nel superamento delle prove di falsa credenza, dimostrando l’esistenza di uno stretto
legame tra comprensione della mente ed interazioni sociali tra pari (Lalonde, Chandler, 1995).
- Relazione bambino-insegnante
Relazione madre-bambino sostituita da quella più ampia adulto-bambino. In quest’ottica si ipotizza una
continuità tra la relazione bambino-caregiver e le successive relazioni con figure di attaccamento multiple,
tra cui sicuramente gli insegnanti, figure di attaccamento in grado di fornire al bambino un contesto
importante di crescita e sviluppo. La relazione bambino-insegnante rappresenta uno strumento di
apprendimento, base affettiva sicura e spazio mentale in cui il bambino può esercitare le sue abilità di
mentalizzazione (Lecciso, Liverta, Sempio, Marchetti, 2005).
8 Conclusioni
La metacognizione permette all’individuo che la possiede di vedere e capire se stesso e gli altri in termini di
stati mentali (sentimenti, convinzioni, intenzioni e desideri), e pensare e compiere riflessioni sul proprio e
altrui comportamento.
Attribuendo stati mentali agli altri, il bambino rende significativo e prevedibile il loro comportamento.
Inoltre, una volta imparato a comprendere il comportamento altrui, diviene gradualmente capace di attuare il
comportamento più appropriato per rispondere in modo adattivo ai singoli scambi interpersonali.
Tale capacità (metacognizione) è caratterizzata da una componente autoriflessiva e da unainterpersonale,
grazie alle quali l’individuo può distinguere la realtà interna da quella esterna, i processi intrapsichici da
quelli relazionali.
Nel bambino, lo sviluppo della metacognizione, conosciuta anche come funzione riflessiva del Sé, ha inizio
durante l’infanzia, momento evolutivo in cui avviene gradualmente un passaggio dai modelli mentali
teleologici a quelli mentalizzati: tale passaggio dipende principalmente dalla qualità delle relazioni
interpersonali tra il bambino e l’adulto che si prende cura di lui.
La mentalizzazione, infatti, fa parte di un processo intersoggettivo tra bambino e adulto di riferimento
(generalmente la madre), e avviene attraverso l’esperienza che il bambino fa di quanto i propri stati mentali
siano stati capiti e pensati grazie a interazioni affettuose con il genitore; pertanto, l’emergere e il completo
sviluppo della funzione riflessiva dipendono dalla capacità del genitore di percepire più o meno
accuratamente le emozioni, i bisogni, le esperienze del bambino.
Pertanto, quando la madre riflette uno stato affettivo del bambino, questa percezione organizza l’esperienza
del bimbo che così conosce ciò che sta provando: con il suo comportamento attribuisce uno stato mentale al
figlio e lo tratta come un agente mentale. Il rispecchiamento della madre diviene la rappresentazione
dell’esperienza del bambino.
Facciamo un esempio concreto. In seguito a un rumore improvviso, il bambino si spaventa, sgrana gli occhi
e inizia a piangere. La madre, che collega la reazione del figlio con l’evento accaduto, lo abbraccia, lo
consola, lo tranquillizza accompagnando il contatto fisico con parole di rispecchiamento e conforto (“era un
rumore, ti sei spaventato”, “non preoccuparti, è passato”); il bambino si calma e smette di piangere. In tal
modo, grazie al comportamento di rispecchiamento della madre, egli può comprendere la sua esperienza
emotiva (paura) e conoscere lo stimolo che l’ha causata (rumore improvviso).
L’esempio illustrato mostra, dunque, una risposta materna adeguata al disagio sperimentato dal bambino, e
presuppone che la madre stessa abbia sviluppato una buona metacognizione: pur non spaventandosi in
seguito al rumore improvviso, può immaginare che un’altra persona, nello specifico un bimbo piccolo, possa
percepire le cose in modo diverso (sentire paura). Ripetute esperienze di relazione positiva tra madre e figlio
creano un contesto favorevole per l’acquisizione e lo sviluppo della metacognizione.
3 Le emozioni e il cervello
Per meglio comprendere la grande influenza delle emozioni sulla mente razionale- e capire come mai il
sentimento e la ragione entrino in conflitto così tanto facilmente- bisogna considerare il modo in cui si è
evoluto il cervello umano. Nell’arco di milioni di anni di evoluzione il cervello ha sviluppato i suoi centri
superiori elaborando e raffinando le aree inferiori, più antiche. La parte più primitiva del cervello, che
l’uomo ha in comune con tutte le specie dotate di un sistema nervoso relativamente sviluppato, è il tronco
cerebrale. Esso regola funzioni vegetative fondamentali come il respiro e il metabolismo degli altri organi, le
reazioni e i movimenti stereotipati. Non si può affermare che questo cervello sia in grado di pensare o di
apprendere; piuttosto si tratta di una serie di centri regolatori programmati per mantenere il corretto
funzionamento e l’appropriata reattività dell’organismo, in modo da assicurarne la sopravvivenza. Da questa
struttura molto primitiva, il tronco cerebrale, derivano i centri emozionali. Poiché questa parte del cervello
circonda e delimita il tronco, venne chiamata “sistema limbico” (dal latino limbus, “anello”). Dunque
quando siamo stretti nella morsa del desiderio o dell’ira, follemente innamorati o terrorizzati a morte, siamo
in balia del sistema limbico. Milioni di anni dopo, nel corso dell’evoluzione, da questi centri emozionali si
evolsero le aree del cervello pensante, ossia la “neocorteccia”. Il fatto che il cervello pensante si sia evoluto
da quello emozionale ci dice molto sui rapporti tra pensiero e sentimento: molto prima che esistesse un
5 Emozione e azione
Sommariamente, il razionale informa e le emozioni aiutano ad agire. In molte situazioni, soprattutto quelle
che stimolano comportamenti automatici è la motivazione emotiva che ci spinge ad agire in un certo modo,
ad esempio, se io sto guidando, e all’improvviso un cane mi attraversa la strada, quello che mi fa agire non è
il pensiero “io sto guidando, un cane sta attraversando la strada, devo frenare” ma un’emozione: la paura di
uccidere il cane determina una risposta comportamentale, un’azione. Le risposte automatiche non sono
uguali in tutte le persone: una persona equilibrata tende ad avere risposte emotive equilibrate mentre una
persona non equilibrata tende ad avere risposte emotive non equilibrate. Nel caso dell’esempio, anche
quest’ultima avrà la risposta istintiva di frenare tuttavia insieme ad altre risposte meno equilibrate come
piangere, urlare in modo esagerato. Tutte le emozioni sono, essenzialmente, impulsi ad agire; in altre parole
piani di azione dei quali ci ha dotato l’evoluzione per gestire in tempo reale le emergenze della vita. Nel
nostro repertorio, ogni emozione ha un ruolo unico:
• Quando siamo in collera, il sangue ci affluisce alle mani e questo rende più facile afferrare un’arma o
afferrare un pugno all’avversario; la frequenza cardiaca aumenta e una scarica di ormoni, fra i quali
l’adrenalina, genera un impulso di energia abbastanza forte da permettere un’azione vigorosa
• Se abbiamo paura, il sangue fluisce verso i grandi muscoli scheletrici, ad esempio quelli delle gambe,
rendendo così più facile la fuga e al tempo stesso facendo impallidire il volto, momentaneamente meno
irrorato
• Nella felicità, uno dei principali cambiamenti biologici sta nella maggiore attività di un centro cerebrale che
inibisce i sentimenti negativi e aumenta la disponibilità di energia, insieme all’inibizione di centri che
generano pensieri angosciosi.
• L’amore, i sentimenti di tenerezza e la soddisfazione sessuale comportano il risveglio del sistema
parasimpatico; in altre parole, si tratta della mobilitazione opposta a quella che abbiamo visto nella reazione
di “combattimento o fuga ”tipica della paura e della collera. Si attiva una risposta di “rilassamento” che
induce uno stato generale di calma e soddisfazione tale da facilitare la cooperazione
• Nella sorpresa il sollevamento delle sopracciglia consente di avere una visuale più ampia e di far arrivare
più luce sulla retina. Questo permette di raccogliere un maggior numero di informazioni sull’evento inatteso,
contribuendo alla sua comprensione e facilitando la rapida formulazione del migliore piano d’azione
• In tutto il mondo l’espressione di disgusto è la stessa, e invia il medesimo messaggio: qualcosa offende il
gusto o l’olfatto, anche metaforicamente. Come già aveva osservato Darwin, l’espressione facciale del
disgusto- il labbro superiore sollevato lateralmente mentre il naso tende ad arricciarsi- indica il tentativo
primordiale di chiudere le narici colpite da un odore nocivo o di sputare un cibo velenoso
• La tristezza ha la funzione di farci adeguare ad una perdita significativa, ad esempio a una grande delusione
o alla morte di qualcuno che ci era particolarmente vicino. Essa comporta una caduta di energia ed
entusiasmo verso le attività della vita- in particolare per le distrazioni e i piaceri-e, quando diviene più
profonda e si avvicina alla depressione, ha effetto di rallentare il metabolismo. La chiusura in se stessi ci da
l’opportunità di elaborare il lutto per una perdita o per una speranza frustrata, di comprendere le conseguenze
di tali eventi nella nostra vita e, quando le energie ritornano, di essere pronti per nuovi progetti.
Queste inclinazioni biologiche ad un certo tipo di azione vengono poi ulteriormente plasmate dall’esperienza
personale e dalla cultura. Ad esempio, la perdita di una persona amata suscita universalmente tristezza e
dolore. Ma il modo in cui esterniamo il nostro lutto- il modo in cui le nostre emozioni sono esibite in
pubblico o trattenute in modo da esprimerle solo in privato- è forgiato dalla cultura.
6 L’ intelligenza emotiva
L'intelligenza emotiva è un aspetto dell'intelligenza legato alla capacità di riconoscere, utilizzare,
comprendere e gestire in modo consapevole le proprie ed altrui emozioni. L’intelligenza emotiva è stata
trattata la prima volta nel 1990 dai professori Peter Salovey e John D. Mayer nel loro articolo “Emotional
Intelligence”. Definiscono l’intelligenza emotiva come “La capacità di controllare i sentimenti ed emozioni
proprie ed altrui, distinguere tra di esse e di utilizzare queste informazioni per guidare i propri pensieri e le
7 Differenze interindividuali
Meyer ritiene che le persone siano classificabili in diverse categorie a seconda del modo in cui percepiscono
e gestiscono le proprie emozioni:
- Gli autoconsapevoli: Consapevoli dei propri stati d’animo nel momento in cui essi si presentano, queste
persone sono comprensibilmente alquanto sofisticate riguardo alla propria vita emotiva. La loro chiara
visione delle proprie emozioni può rafforzare altri aspetti della personalità: si tratta di individui autonomi e
sicuri dei propri limiti, che godono di una buona salute psicologica e tendono a vedere la vita da una
prospettiva positiva. Quando sono di cattivo umore, costoro non continuano a rimuginare e a ossessionarsi, e
riescono a liberarsi dello stato d’animo negativo prima degli altri. In breve, il loro essere attenti alla propria
vita interiore li aiuta a controllare le emozioni.
- I sopraffatti: Si tratta di persone spesso sommerse dalle proprie emozioni e incapaci di sfuggir loro, come se
nella loro mente loro avessero preso il sopravvento. Essendo dei tipi volubili e non pienamente consapevoli
8 Le culture e le emozioni
Studi recenti confermano che, almeno per sei emozioni (rabbia, felicità, sorpresa, paura, disgusto e tristezza),
le espressioni facciali sono le stesse in tutte le culture umane.
Cambiano, invece, le modalità di espressione delle emozioni e il valore positivo e negativo che viene loro
dato
I vissuti emotivi sono condizionati dai valori culturali delle diverse società (Harrè 1990)
Le emozioni hanno la funzione di esprimere le credenze, regole e valori sociali di una certa società (Armon-
Jones 1986)
In oriente, ad esempio, a Tahiti la rabbia non è accettata perché la cultura del posto impone di essere gentili
(Levy 1973). In Giappone c’è una modalità di dipendenza/ sottomissione negli adulti , che nella civiltà
occidentale è rifiutata (Doi 1971) o promossa solo nei bambini. Anche altre società orientali come Cina,
Giappone, Polinesia, Groenlandia incoraggiano comportamenti di tipo interdipendente
1 Le emozioni Primarie
Gioia , amore, tristezza, rabbia, paura sono definite emozioni primarie. Tali emozioni sono identificate come
primarie perché ritenute alla base delle emozioni più sociali e complesse che da loro vengono determinate.
Alcuni autori a queste prime emozioni uniscono il disgusto, l’interesse e la sorpresa. In questa sede,
tratteremo le prime: la gioia, intesa come amore, la tristezza, la rabbia e la paura. Le emozioni secondarie o
sociali sono la vergogna, la gelosia, la colpa, l’orgoglio, la competizione e la timidezza e sono strettamente
dipendenti dalla cultura e dall’educazione ricevuta. Per alcuni autori, è dalla combinazione delle emozioni
primarie che derivano le altre. Uno studioso che si è particolarmente dedicato alle emozioni è Robert
Plutchik (1928-2006) (7). Egli distinse le emozioni in primarie e complesse. Il suo punto di partenza è di
natura evolutiva. Infatti la tesi su cui si fondano le sue ricerche è che le emozioni siano risposte evolutive per
consentire alle specie animali di sopravvivere (Plutchik, 1980). Argomenta infatti che ognuna delle emozioni
primarie agisce come interruttore per un comportamento con un alto valore di sopravvivenza (es. paura:
risposta di lotta-o-fuga / fight-or-flight response). Per l’autore, ogni emozione primaria ha il suo opposto e
dalle intersecazioni di queste ultime nascerebbero le secondarie .Non esistono emozioni buone o cattive
esistono le emozioni, la loro positività o meno dipende dal contesto in cui esse vengono vissute e talvolta
manifestate e dall’etica che è propria del soggetto.
Secondo Plutchik, vi sono 8 emozioni primarie, definite a coppie:
1. Gioia – Dispiacere (o Tristezza)
2. Approvazione (o Fiducia) – Disgusto
3. Rabbia – Paura
4. Sorpresa – Aspettativa (o Anticipazione)
Ognuna di queste emozioni può variare di intensità creandosi così delle sfumature diverse che si
distribuiscono secondo un continuum di tipo verticale come nell’esempio che segue:
La ruota delle emozioni da lui creata evidenzia gli opposti e l’intensità delle emozioni, via via decrescente
verso l’esterno, più i vari stati intermedi (decrescendo di intensità le emozioni si mescolano sempre più
facilmente). Si ottiene così quello che è stato definito, direi in modo azzeccato, “il fiore di Plutchik”:
Dove il secondo cerchio contiene le emozioni primarie (in senso orario dall’alto: gioia, fiducia, paura,
sorpresa, tristezza, disgusto, rabbia, anticipazione). Nel cerchio centrale abbiamo le manifestazioni di
3.2. La Rabbia
La rabbia è un emozione che ci difende: è difensiva. Tu mi stai attaccando, io mi difendo attaccandoti.
Spesso ci sentiamo attaccati e all’attacco rispondiamo con sentimenti di rabbia. Con la rabbia difendiamo i
nostri valori, con la rabbia difendiamo i nostri spazi personali, con la rabbia difendiamo la volontà di
cambiamento, la voglia di esistere, la rabbia difende le rivoluzioni, la rabbia difende l’assertività. Ma è
soprattutto con una rabbia che viaggia verso la difesa di questo (rabbia intesa come assertività), che la rabbia
può dirsi costruttiva . Non è il sentimento che spacca tutto, non è un sentimento distruttivo. Guai se non ci
fosse. La rabbia è anche il sentimento dell’autonomia e della differenziazione: è arrabbiandoci che andiamo
verso l’autonomia. Nonostante la società moderna sia una società molto centrata sulla competizione, il
sentimento della rabbia spaventa molto. Di esso, si focalizza più l’aspetto distruttivo che costruttivo;
probabilmente, l’espressione fisica di quest’emozione ed il suo essere legata con la decisione di distruggere
qualcosa o qualcuno è il motivo dell’averne paura.
I suoi schemi senso-motori sono:
-Agitazione
-Aumento della forza e tensione in tutto il corpo
- Aumento Battito cardiaco
- Viso crucciato.
In genere, quando si sente rabbia, se si è in piedi, il corpo si raddrizza sulla colonna vertebrale, i piedi si
ancorano al suolo, la testa è ben poggiata sulle spalle, come se si fosse pronti per l’attacco. Se si sta seduti, si
poggiano bene i piedi a terra e tra gambe e coscia si forma un angolo retto. Le braccia se la poltrona ha i
braccioli, sono poggiate su di essa.
6 Un caso concreto
Adele ha circa 45 anni, entra affannata in un’ agenzia di viaggi . La richiesta è di un viaggio all’estero per un
breve periodo con un gruppo di single suoi coetanei, misto ovviamente, sia di uomini che di donne. È
visibilmente agitata; un suo possibile identikit è quello di una donna da poco separata che sta cercando di
superare il momento difficile dandosi una possibilità. Le viene proposto un viaggio al Cairo ma la donna lo
rifiuta dicendo di avere paura di andare in Egitto e richiedendo qualcosa di più tranquillo per questo
momento. Le viene proposta la città di Londra, ma anche Londra viene rifiutata perchè troppo fredda in
questo momento e le metterebbe tristezza. Le viene proposta Parigi, ma anche questa città viene scartata: la
donna infatti rifiuta riferendoci che per motivi personali non vuole recarsi a Parigi e che in quella città ci
sono cose da dimenticare. Il responsabile si sente in difficoltà e sente di non gestire la situazione e di non
riuscire a soddisfare le esigenze stressanti e quasi insostenibili della cliente e le chiede se ha una vaga idea di
dove andare. La donna si infastidisce e abbastanza sgarbatamente riferisce di aver bisogno di una persona
competente altrimenti non si sarebbe rivolta ad un’ agenzia e avrebbe programmato e prenotato il suo viaggio
da internet. Allora il responsabile le chiede ulteriori informazioni sulla situazione che gradirebbe ma la
signora esplode affermando di star perdendo solo tempo. Il proprietario le propone altri viaggi, ma la donna
sembra incontentabile. Lui ancora a provare, ma la signora è sempre più nervosa e sgarbata . La signora è
spaventata, non vuole dirsi che si è spaventata quindi si arrabbia con un’emozione di copertura; non vuole
decidere, ma neanche essere aiutata e si dimena tra paura e rabbia, tra il bisogno di aiuto e di essere
rassicurata. Continuare ad insistere per l’operatore turistico è una cosa che ha senso? è produttivo? Nel
nostro caso non ha senso insistere, ma molto garbatamente, quasi comprendendo le sue paure e la sua rabbia,
la invitiamo a pensarci meglio restando a sua disposizione come agenzia per un aiuto più concreto dopo che
si sia chiarita, rassicurandola con molta calma e decisione. Insistere ci metterebbe in un ruolo “down” per chi
è già molto confuso. Essere decisi, calmi e rassicuranti, ci metterà sicuramente in una posizione di vantaggio
e serenità lavorativa funzionale non solo per noi ma anche per il cliente.
1 Introduzione
Nella letteratura psicologica italiana e internazionale si utilizza molto frequentemente il termine Sé cui
spesso si accompagna la parola “identità”. In questi ultimi vent’anni, alcuni manuali (Leary&Tangney, 2003
b Jackson & Goossens, 2006) e diversi contributi teorici (Fornaro, 2001; Harter, 2003; Alsaker& Kroger,
2006) hanno tentato di problematizzare e successivamente di fornire una chiarificazione circa l’utilizzo dei
due termini che troppo frequentemente vengono affiancati, interscambiati o trattati senza alcuna distinzione.
Accostarsi allo studio dell’Identità e del Sé è senza dubbio un percorso difficoltoso, soprattutto nella ricerca
di un orientamento comune tra gli autori e nella comprensione dei loro contributi. La difficoltà più evidente
sta nell’impossibilità di individuare, tra i numerosi scritti sull’argomento, delle regole precise e condivise
2 Il Sé
Il Sè, è l’agire sociale che si fonda sul progetto individuale che ognuno – più o meno coscientemente - tende
a costruirsi. E’ la vita di ogni uomo. Un lavoro continuo alla ricerca di soddisfazioni (brevi o importanti),
capace di gestire sconfitte e delusioni, necessariamente teso alla coerenza (non assoluta, ma necessaria) e ad
una specificità (il valore che ci attribuiamo). Un lavoro che si fonda su come il soggetto lavora sulle sue
conoscenze ed esperienze diverse maturate fino a quel punto. Il Sé si costruisce nella relazione sociale,
(internalizzazione della comunicazione tra individui). Il Sé nasce dalla consapevolezza dell’individuo,
ovvero, dall’atto mediante il quale esso prende se stesso come oggetto. Lo sviluppo del concetto di sé
avviene in stretta connessione alle idee proprie dei gruppi e del contesto culturale rispetto a cosa significhi
essere una persona “come si deve.”
Il concetto di Sé nelle diverse culture
Secondo Oyserman e Markus (1998): le varie culture elaborano diverse rappresentazioni sociali che
riguardano le caratteristiche ritenute appropriate e positive del Sé. Le differenze sono evidenti se si
confrontano le culture sulla base della dimensione individualismo – collettivismo
Culture individualiste:
F 0Il
B 7Sé è l’unità di base
F 0Il
B 7principale compito di sviluppo è il raggiungimento di un senso di realizzazione personale
F 0L’elaborazione
B7 della propria unicità è alla base dell’identità
F 0Sono
B7 valorizzate caratteristiche come intelligenza e competenza
F 0La
B 7 distinzione più saliente è fra Sé e non-Sé, e in seconda istanza fra ingroup e outgroup
Culture collettiviste:
F 0Il
B 7gruppo è l’unità di base
F 0Il
B 7principale compito di sviluppo è il raggiungimento di obiettivi comuni
F 0L’identità
B7 è organizzata intorno al senso di affiliazione
F 0Sono
B7 valorizzate caratteristiche come costanza e persistenza
F 0La
B 7 distinzione più saliente è fra ingroup e outgroup; ostilità a priori nei confronti dell’outgroup
2.1. Il sè e l’identità
Spesso la nozione di sé e di identità vengono usati in modo interscambiabile. Diciamo che il sè, riguarda le
componenti più intrapsichiche e individuali, mentre l’identità, riguarda le componenti più sociali
(appartenenza sociale).
L’identità concerne il sentimentodi continuità del Séche il soggetto prova pur essendo in una tempesta di
mutamenti, in ogni momento in cui è più evidente l’esperienza e la realtà oggettiva del cambiamento
(vecchiaia, cambiamento di lavoro, pensionamento).Nel concetto di identità , sono presenti tutte le
componenti proprie anche del concetto di Sé è più accentuato il significato di continuità temporale.
L’identità è strettamente legata al concetto di Sé:l’identitàèl’unità delle varie componenti del Sé in un
insieme strutturato permanente.
3 L’identità
Il termine identità diviene popolare nelle scienze sociali solo negli anni ’50 del secolo scorso (Gleason
1983), anche se le sue radici filosofiche hanno origini molto più antiche e si collegano a un insieme
articolato di riflessioni relative soprattutto ai dilemmi della permanenza nel mezzo del continuo mutamento
Queste e tante altre domande, possono essere comprese solo attraverso un’attenta lettura di quelle che sono
definite: dinamiche relazionali.
3.3. L’identità e il confronto
IDENTITÀ= SOMIGLIANZA + DIFFERENZA
L’identità, cioè si costituisce perché cogliamo lo somiglianze con un gruppo, una comunità di
appartenenza e ma anche per quello che ci differenzia da altri/e.
L’identità presuppone anche la differenziazione
Da queste considerazioni, risulta centrale la capacità di sentirsi unici e differenziati da altri soggetti. Così si
potrebbe pensare ad esempio, come per un operatore turistico sia fondamentale considerare l’identità della
persona che ha di fronte, il contesto in cui vive, le aspettative rispetto ad una meta turistica, i suoi precedenti
viaggi, il lavoro che svolge, se ha famiglia o è solo, al fine di proporgli un viaggio che possa soddisfare i suoi
bisogni e le sue aspettative, solo entrando in relazione con l’altro, sarà possibile soddisfarlo; ma per riuscire
in questo, bisogna avere una buona conoscenza di se stessi; nel senso che se quel turista ama l’avventura
spericolata, mentre io ne sono terrorizzata, è utile che, comprendendo, le nostre differenze, che gli proponga
un collega più audace.
Ecco allora un’idea di coloro che svolgono professioni in cui la relazione, la comprensione, l’ascolto,
l’accoglienza e l’incontro, sono gli ingredienti indispensabili senza dei quali il risultato non potrebbe essere
raggiunto: Disponibili e desiderosi di rimettersi in gioco in ogni situazione di novità, in ogni incontro;
trasformarsi e lasciarsi trasformare della situazione, entrando in sintonia, in empatia con l’Altro, lasciandosi
invadere le frontiere della propria identità dal suo volto, in una relazione che è prossimità. L’Altro, il diverso,
il nuovo, l’ignoto, lo straniero; è tanto una persona (un “volto”, direbbe Emanuele Levinas), un gruppo, una
comunità, quanto un territorio, un luogo, una situazione vissuta e abitata da persone. Entrando in contatto –
visivo, sensoriale, fisico e psicologico - con quest’altro, in una relazione d’aiuto, in un’azione di
cooperazione, in un contesto umanitario, in un gruppo di lavoro, in una distribuzione di aiuti, in un ufficio o
in un tavolo di concertazione, progettazione, programmazione l’operatore si mette in gioco, umanamente e
professionalmente. Non esistono manuali, codici di condotta o “buone prassi” che definiscano approcci alla
relazione – sarebbe un po’ presuntuoso pretendere che una formula magica, seguita da chiunque, garantisca
la comunicazione e il successo dell’incontro. È in sostanza impossibile pensare e raccontare la società
attuale, la sua struttura, il suo funzionamento, le sue discrasie, i suoi conflitti, le sue prospettive e il nostro
posto in essa, senza ricorrere all’idea di “identità”. Il concetto d'identità, nella sociologia e nelle altre scienze
sociali, riguarda la concezione che un individuo ha di sé stesso nella società.
4 L’Autostima
La stima di sé, elemento capace di misurare la capacità di collaborazione sociale, aumenta nella misura in cui
si è accettati o scelti dagli altri, mentre l’esclusione tende ad abbassarla. Bisogno di intrattenere e mantenere
ampie relazioni sociali [Baumeister e Leary 1995]. Le persone con un’alta autostima si costruiscono migliori
aspettative sul loro futuro si mostrano capaci di affrontare in modo positivo le situazioni di stress. Un’alta
stima di Sé contribuisce ad una costruzione identitaria più ricca (cioè un Sé strutturato su un maggior numero
di dimensioni).
Partiamo dall’etimologia, il verbo stimare derivante dal latino “aestimare” che significa “valutare” nella
duplice accezione:
- determinare il valore di …
- avere un opinione su …
Quindi il concetto di autostima comprende come ciascuno vede se stesso, come si giudica e che tipo di
valore si attribuisce. L’individuo comincia a formare i concetti di sé – ossia il proprio modo di considerarsi e
definirsi, in senso più o meno positivo – ad un’età molto precoce.
4.1. Il bisogno di mantenere un’immagine
Il bisogno di mantenere un’immagine di sè stabile e positiva è una causa molto potente del comportamento
umano. Non è però sempre facile salvaguardare questa credenza, nella vita reale ci sono situazioni che
costituiscono delle vere e proprie sfide.
In altre parole gli esseri umani cercano di mantenere una visione di se stessi relativamente favorevole,
soprattutto quando si imbattono in prove che contraddicono questa immagine di sè tipicamente rosea.
L'autostima è fondamentale per ottenere il meglio dalla vita. Poiché il proprio livello di autostima nasce da
un confronto fra sé e il mondo circostante, se il confronto è errato, errate sono le conclusioni. In termini
molto pratici, è il voto che ci si dà. Poiché è un concetto soggettivo, ecco che dal di fuori il giudizio dato dal
singolo su sé stesso che noi percepiamo possa essere del tutto diverso da quello che oggettivamente
pensiamo essere corretto. Per esempio, un debole può avere una bassa autostima e ritenersi sempre mediocre
anche quando non lo è. Viceversa un apparente può pensare che nulla gli è precluso perché in quel momento
ha un notevole successo.
Quest'ultimo esempio ci fa capire come l'autostima non sia un concetto statico, ma dinamico. Come una
grande azienda che normalmente è abbastanza stabile, ma può avere alti e bassi, generati da eventi che
accadono in essa o fuori di essa. Ovviamente sarebbe auspicabile che l'autostima rimanesse sempre ai
massimi livelli.
4.2. Sviluppo dell’autostima
Oggi, purtroppo l’autostima si tende a farla provenire dal fuori di sé, attraverso la chimera del successo, visto
sotto le sue innumerevoli forme: ricchezza, carriera, prestigio, vittoria. Si vale se si ottiene qualcosa nel
campo in cui si opera o si vive. Niente di più assurdo perché in tal modo si demanda la propria felicità a un
risultato, spesso nemmeno del tutto dipendente da noi (condizioni facilitanti, fortuna ecc.). Tale risultato è
sovente talmente materiale da fare a pugni con un concetto così spirituale come la felicità. Quello che si
ottiene è un surrogato di autostima. La persona non sviluppa una vera forza di volontà anevrotica, ma la sua
forza è orientata solo al raggiungimento dell'obiettivo, è quindi nevrotica .Esistono per esempio molte
tecniche per accrescere l'autostima, addirittura molte scuole con corsi ed esami (per esempio la PNL). In
genere tutte queste discipline tendono a utilizzare un accrescimento dell'autostima per avere successo nella
vita, svincolando ogni discorso etico e/o esistenziale dal miglioramento del soggetto. In realtà si tratta
sempre di "convincere" il soggetto aumentandone la fiducia in sé stesso.
Questo meccanismo può portare a qualche risultato, ma se leggete la definizione di autostima ne capirete i
limiti: posso avere una bassa autostima perché ho poca fiducia in me stesso, quindi "mi do un voto basso".
Se alzo la fiducia aumenta anche l'autostima, ma ciò è completamente scorrelato con il mondo esterno e può
provocare danni più che apportare vantaggi. Vediamo l'esempio classico. Carlo è un operatore turistico con
bassa autostima. Ciò lo penalizza molto nel suo lavoro. Decide perciò di iscriversi a un corso di SIG (Sei
Immensamente Grande), una nuova tecnica infallibile per aumentare la sua autostima. Dopo sei mesi la
fiducia in sé stesso è triplicata e sente dentro di sé un entusiasmo mai provato. Si getta con grande dedizione
nel lavoro, migliorando i suoi risultati. Ottiene un aumento del 15% delle vendite (la SIG funziona!). Tutto
bene? Analizziamo oggettivamente la situazione. Carlo è così pieno della sua nuova attività che lavora il
30% più di prima, per lui non c'è che il lavoro, l'unico campo in cui sente di "valere" qualcosa. L'unica che ci
ha guadagnato da questa situazione è sicuramente l'azienda (+15% di fatturato con piccolo bonus a Carlo),
ma Carlo è lo scarso di prima, una specie di "secchione" del lavoro che ottiene qualcosa in più perché è stato
"programmato" a lavorare molto di più. Al primo insuccesso Carlo crolla e ritorna quello di prima. Carlo
avrebbe dovuto capire che nel lavoro (come in ogni attività dove c'è un risultato) basta dare il meglio di sé,
buttare il cuore oltre il traguardo, senza avere l'ansia della vittoria. Se i risultati sono comunque scarsi,
possiamo accontentarci oppure scegliere un'altra strada più facile (per esempio il ridimensionamento nel
lavoro o nello studio), senza per questo sentire lo stupido peso della sconfitta.
Per liberarsi dall'autostima da successo e orientarsi verso un autostima più autentica, occorre tenere in conto
quello che per noi è veramente importante, come senso della vita e valori da seguire.
Ecco alcuni suggerimenti:
1) Il tuo valore è indipendente da ciò che gli altri pensano di te.
Chi rincorre il successo e pensa di esistere solo se diventa famoso, in realtà non esiste, non brillando di luce
propria. È come la luna: bellissima da lontano perché la illumina il sole, ma deserta e spettrale vista da
vicino. Il punto 1) è quello che ci permette di affrontare un esame in tranquillità o di dichiararci alla persona
che amiamo.
Nel primo caso è importante ciò che abbiamo fatto "prima", sentirsi con la coscienza a posto, non il voto che
prenderemo. Dobbiamo vedere l'esame come un ulteriore mezzo di imparare qualcosa, non come un giudizio
sulla nostra personalità.
Nel secondo caso, a prescindere dalla risposta, noi rimaniamo ciò che siamo: se la risposta è negativa, è
inutile disperarsi (con la classica frase: "senza di lei/lui la mia vita non ha senso": ma allora ammazzati
subito! Chi non sa vivere da solo come può pretendere che un'altra persona risolva la sua vita?), abbiamo
capito che stavamo sbagliando puntando sulla persona sbagliata. Possiamo rivolgerci altrove per migliorare
la nostra vita.
2) Nessuno deve ritenersi meno importante di un’altra persona.
La comunicazione sociale più nota come comunicazione di massa viene realizzata da una o poche persone
ed è rivolta a molti individui (televisione, stampa, radio, pubblicità, utenti e riceventi).
La comunicazione interpersonale coinvolge 2 o più persone e si basa sempre su una relazione in cui gli
interlocutori si influenzano sempre l’un l’altro, anche quando non se ne rende conto.
Che avviene attraverso l’uso del linguaggio sia scritto che orale e che dipende da precise regole sintattiche e
grammaticali.
Comunicazione non verbale
Che avviene senza l’uso delle parole attraverso vari canali: mimiche facciali, sguardo, gesti, posture,
andature, abbigliamento.
Comunicazione para verbale
Che riguarda soprattutto la voce (tono, volume, ritmo), ma anche le pause, le risate, il silenzio ed altre
espressioni sonore (schiarirsi la voce, tamburellare, far suoni) e il giocherellare con oggetti.
Sia il non verbale che il paraverbale inviano messaggi spesso inconsapevoli di tipo emotivo. Ad esempio è
stato dimostrato che per scoprire un mentitore basta ascoltare il tono della sua voce che vibra, ma non è
facile distinguerlo ad orecchio nudi (con delle attrezzature sì).
1.1. Le parole della comunicazione
Roman Jakobson2 ha descritto il processo comunicativo indicandone sei elementi essenziali, ricorrenti in
qualsiasi forma di comunicazione: mittente (o emittente), destinatario (o ricevente), messaggio, referente,
canale e codice
2 Roman Jakobson (1896 – 1982), linguista statunitense di origine russa, è considerato uno dei principali
iniziatori della scuola del formalismo e dello strutturalismo. A lui si deve lo studio della teoria della
comunicazione linguistica.
§ Mittente – anche detto trasmittente, è chi invia il messaggio, dando così inizio alla comunicazione.
§ Destinatario – anche detto destinatario, è colui a cui viene inviato il messaggio.
Nei primi approcci è normale essere cauti, ma se tale atteggiamento diventa vera e propria diffidenza ciò può
creare gravi problemi di comunicazione che, alla lunga, potrebbero anche causare disturbi comportamentali.
Secondo molti psicologi e sociologi la comunicazione interpersonale tende oggi ad essere scarsa e
superficiale in quanto:
1) Non si è capaci di comunicare
2) Si ha poco tempo di dedicare agli altri
3) Si è sempre più individualisti
4) Si preferiscono altri mezzi di comunicazione
2 Linguaggio
I linguaggi sono i mezzi attraverso i quali vengono soddisfatte le esigenze comunicative; sono, in altre
parole, sistemi di segni mediante i quali si comunica. Ciò significa che tali segni acquistano senso logico
solo se organizzati e collegati tra loro da regole precise, da una serie di rapporti per cui ogni segno è definito
dai collegamenti con gli altri segni.
Si distinguono in verbali e non verbali (dal vocabolo latino verbum, che significa “parola”) a seconda che i
segni di cui sono composti siano o no parole.
Linguaggio non verbale – caratteristiche
§ È usato dall’uomo e dagli animali
§ Gli animali comunicano con suoni, movimenti, odori, colori
§ L’uomo lo usa alternandolo o insieme alle parole: immagini, uso dei colori, gesti, atteggiamenti, movimenti
del corpo, suoni, odori, profumi, uso dello spazio e della disposizione in esso di cose o persone
§ È semplice, immediato, sintetico e rafforza il linguaggio verbale
§ Non è adatto a comunicare messaggi complessi
§ È difficilmente controllabile
Linguaggio verbale – caratteristiche
§ È il linguaggio dell’uomo ed è formato di parole
§ Può essere parlato o scritto
§ Trasmette il messaggio con precisione e completezza
§ Descrive il linguaggio non verbale
§ Si manifesta attraverso le lingue
Tali caratteristiche hanno portato a definire il burocratese come esempio di linguaggio anti-comunicativo, di
ostacolo alle relazioni e ai rapporti tra le persone: rappresenta una delle maggiori difficoltà che il cittadino
incontra nell’adempimento dei suoi doveri e nell’esercizio dei suoi diritti.
2.3. Linguaggio, comunicazione e cultura
Si stima che oggi esistano nel mondo oltre cinquemila lingue e almeno altrettante culture di riferimento.
Siamo così abituati a vivere nel nostro mezzo culturale che lo riteniamo “naturale”, ovvio e scontato, come
se fosse universale. Ogni cultura, infatti, tende a porsi al centro del mondo e a pensarsi come metro di
valutazione e di misurazione di tutte le altre culture. Inoltre, è proprio la cultura che ci guida nell’attribuzione
del significato alla realtà.
Secondo Geertz (1983), l’ essere umano “è un animale sospeso nella ragnatela dei significati che egli stesso
ha tessuto” e la cultura è questa ragnatela.
La cultura è comunicazione, è un prodotto dell’interazione umana, per esistere o sopravvivere deve essere
trasmessa da una generazione all’altra: essa è pubblica e non è unicamente nascosta nella mente degli
individui. Insomma l’uomo crea la cultura ma, allo stesso tempo, deve essere capace di interpretarla.
E qual è il mezzo privilegiato dell’interazione (ed interpretazione) umana? È certamente il linguaggio.
Fra il linguaggio e la cultura esiste un rapporto molto stretto, al punto tale che si può affermare che la
lingua incarna la cultura. (L.Anolli, Psicologia della cultura, Mulino, Bologna, 2004) Imparare a parlare
una lingua significa anche imparare a usare le categorie mentali, le forme del pensiero, certe espressioni
caratteristiche per una certa cultura. I termini in questione sono tre: la lingua, il pensiero, la cultura. Essi
sono interconnessi. Ad esempio i termini del dialetto napoletano come “strizzichea” o “scunucchia”, non
sono precisamente traducibili in italiano, ma incarnano appieno la cultura partenopea fatta di gesti di mimica.
Questi termini sono la traduzione verbale di immagini e comportamenti difficilmente traducibili nella lingua
italiana.
In psicologia abbiamo due filoni di ricerca che si sono occupati del complesso rapporto fra lingua e cultura,
cercando di individuare le connessioni intrinseche e reciproche di questo rapporto. Si sono realizzati aspri
dibattiti scientifici fra la posizione innatista di Chomsky, da un lato, e la teoria della relatività linguistica di
Sapir-Worf, dall’altro.
Come impara a parlare il bambino?
2.4. La prospettiva innatista di Chomsky
La posizione innatista e anticulturalista di Chomsky presuppone la presenza di una proprietà della mente
umana che consente a una persona di acquisire una lingua in condizioni di semplice esperienza e che può
spiegare l’omogeneità dei processi linguistici in tutti gli esseri umani. Egli parla di un “organo del
linguaggio” definito geneticamente, il cosiddetto LAD – dispositivo di acquisizione linguistica. La sua
posizione è che sia il pensiero a condizionare il linguaggio
Egli suddivide ogni lingua in due strutture: superficiale e profonda. La prima riguarda l’articolazione e la
seconda spiega la capacità di ogni bambino di imparare una lingua nell’arco di due o tre anni e la capacità di
produrre e comprendere un’infinità di espressioni nuove mai incontrate prima. Senza questo dispositivo
Una delle più autorevoli figure in questo campo è Anna Wierzbicka In uno dei suoi ultimi lavori “ Capire le
culture attraverso le loro parole-chiave. Inglese, Russa, Polacca, Tedesca e Giapponese” [Understanding
Cultures Throught Their Key Words], edito dalla Oxford University, esamina come alcune parole universali
amicizia, libertà, verità, giustizia, potere, patria ecc., assumano significati assai diversi nelle varie culture.
Vediamo la parola libertà.
Nella cultura latina libertas, denota lo stato giuridico, in altre parole, una persona non è schiava e le sue
decisioni dipendono da lei stessa e non da altri o dalle forze esterne, e infine, libertas significa anche avere il
controllo della propria vita.
Al termine inglese freedom, oltre al significato latino di libertà in senso positivo, si aggiunge il significato di
libertà in negativo, cioè non fare le cose che non desidero fare.
Il termine russo svoboda, oltre a significare libertà in positivo che in negativo, implica anche il concetto di
rilassamento, di benessere, di facilità, di essere a proprio agio. È potersi muovere in uno spazio infinito, di
“estendersi ovunque”, senza restrizioni né vincoli di qualsiasi tipo. Questa particolarità di significato nella
lingua russa, tra l’altro, richiama il famoso concetto dell’anima russa, della russianità, spesso citato nei
lavori dell’ importante filosofo Nicolaj Berdiaev: “ …gli spazi infiniti russi si trovano all’interno dell’anima
russa e hanno su questa un potere enorme”. E poi: ”L’uomo russo è vasto, vasto come la terra russa, come i
campi russi”. E ancora: “Il russo non conosce la strettezza dell’europeo, il quale concentra la sua energia
nello spazio limitato della sua anima, il russo non sa che cos’è la parsimonia, l’economia del tempo e dello
spazio, l’intensità della cultura. Il potere della vastità sull’anima russa fa nascere una serie di qualità e difetti
tipicamente russi. La pigrizia russa, la spensieratezza, la mancanza di iniziativa, lo scarso senso di
responsabilità sono collegati proprio a questo.” Infine, nella cultura polacca il temine wolność, oltre a
indicare la libertà personale, come nelle culture appena citate, significa indipendenza nazionale e libertà
politica. A sua volta anche il lessico emotivo è molto differente da una lingua all’altra e da una cultura
all’altra. Le parole tristezza in italiano e tristesse in francese rappresentano un sentimento più che
un’emozione vera e propria, la stessa cosa in russo per il termine grust’. In inglese, invece, sadness è
un’emozione a tutti gli effetti.
(Rispetto ai sentimenti le emozioni, infatti, sono meno durature e la loro attivazione dipende da un evento. I
sentimenti, invece, non sono dipendenti dagli eventi, per questo motivo possiamo soffrire di non poterci
rallegrare quando un evento è gioioso, o viceversa.) Un’altra ipotesi che conferma la teoria di lingue diverse
pensieri diversi è che la lingua coincide con il mondo dell’esperienza in quella data cultura. Cioè, i limiti del
linguaggio sono i limiti del mondo. Un esempio classico è rappresentato dal grande numero di termini che la
lingua eschimese possiede per descrivere la neve. E anche se si può affermare che non tutto il pensiero si
manifesti attraverso il linguaggio, che il pensiero sia qualcosa di assai più complesso di quanto il linguaggio
possa esprimere e che alcuni processi come percezione, rappresentazioni senso-motorie, immaginazione,
esperienze emotive costituiscano forme di pensiero che rimangono, almeno in parte, indipendenti dal
linguaggio, nonostante ciò, si può sostenere che i parlanti elaborino dei modi di pensare differenti fra loro
(L.Anolli, op.cit). Perciò diventa evidente che imparare una lingua straniera significa anche acquisire
4 CASO
State facendo un lavoro di gruppo e ci tenete a fare bene. Uno dei partecipanti non è puntuale, non si
impegna e ciò crea difficoltà alle dinamiche interne. A causa di ciò Voi siete costretti a subire le lamentele
degli altri componenti. Dopo diverse settimane nelle quali avete cercato di stabilire un equilibrio decidete di
affrontare il vs. collega, e dopo avergli riferito quanto accaduto gli dite:
“Sono stufo di beccarmi reclami da parte dei colleghi per i tuoi ritardi, datti una mossa perché questa non è
serietà nel lavoro! Se continua così dovrò parlarne con i responsabili”.
Secondo voi avete parlato o comunicato?
Come impostereste una comunicazione più efficace ?
1 Introduzione
Sguardi, gesti, movimenti del corpo, smorfie e quant'altro fungono da indicatori di significato, consentendo
agli individui di comprendere sentimenti, pericoli, emozioni, informazioni. La comunicazione non verbale
accompagna di regola il linguaggio verbale (vuoi come sostegno, vuoi talvolta fornendo informazioni
contrastanti); più raramente essa si presenta come unica forma comunicativa. Con un cenno del capo si può
dare o negare approvazione; con un movimento della mano si comunica l'"arrivederci"; se si strizza l'occhio
ci si dichiara di essere d'accordo; con l'inchino si riconosce l'autorità altrui e così via. Nell'analisi del
linguaggio non verbale ci si è spesso chiesti se esso sia uguale per tutti gli esseri umani. Secondo gli studi di
Irenaus Eibl-Eibesfeldt, in tutti gli esseri umani si riscontrano non solo espressioni fondamentali quali il riso
e il pianto, ma anche numerosi altri segnali non verbali costanti. Così l'ira viene generalmente manifestata
attraverso l'apertura degli angoli della bocca, l'aggrottamento degli occhi, i pugni serrati e i piedi che pestano
il terreno e, a volte, colpiscono oggetti. L'universalità di tali comportamenti sarebbe innata oppure dovuta a
condizioni comuni nella prima infanzia, che hanno incanalato l'apprendimento secondo le stesse modalità.
Diversi autori riconoscono l’esistenza di gesti che si possono riscontrare in tutte le razze e le popolazioni,
come, per esempio, il muovere le mani verso il naso o il toccarsi i capelli in momenti di perplessità e di
imbarazzo. Se tuttavia consideriamo i condizionamenti sia psicologici sia culturali che intervengono nella
comunicazione non verbale, possiamo comprendere che la facoltà di esprimersi non verbalmente è sì
universale, ma la sua funzione e il suo significato variano a livello individuale, culturale e linguistico. Se
infatti alcuni aspetti della comunicazione non verbale sono comuni a tutte le culture (tutti i membri della
specie umana usano a scopo comunicativo il volto, gli arti, la postura, la voce), non tutti gli esseri umani
ricorrono agli stessi segnali con la medesima frequenza e con la medesima ricchezza espressiva. I segnali
non verbali veicolano gli stessi messaggi in tutte le culture (le emozioni, gli atteggiamenti interpersonali, le
informazioni su di sé), sia pure in modo diverso. Secondo l'ipotesi di Paul Ekman, le espressioni universali
tipiche delle emozioni fondamentali, che dipendono dall'attivazione di determinati muscoli facciali, sono
soggette all'influenza dell'ambiente culturale che controlla le circostanze che le suscitano, le regole per
manifestarle e le conseguenze che ne derivano. Nelle società occidentali si presta, per esempio, maggiore
attenzione ai movimenti della testa e delle mani che a quelli delle gambe.
Nel primo paragrafo viene data una definizione generale di comunicazione non verbale sottolineando il peso
e il ruolo che questa assume nelle interazioni e viene descritto il rapporto tra le due forme di comunicazione,
verbale e non verbale, attraverso la descrizione di studi sull’ argomento.
Nel secondo paragrafo viene descritto il rapporto tra comunicazione e comportamento, facendo riferimento
a diverse teorie che si sono susseguite nel tempo.
Nel terzo paragrafo viene affrontato il tema degli aspetti innati e appresi della comunicazione non verbale,
distinguendo quelli universali che hanno una forte connotazione innata da quelli che si differenziano a
seconda della cultura in cui si manifestano.
Nel quarto paragrafo vengono descritte le principali funzioni del comportamento non verbale e i diversi
livelli rispetto ai quali si è focalizzato lo studio di questa modalità di comunicazione.
Nel quinto, sesto e settimo paragrafo sono state approfondite le contraddizioni tra le parole e il linguaggio
del corpo, l’ importanza della comunicazione non verbale come rivelatrice di pensieri e stati d’animo, e le
differenze di genere.
Nei paragrafi otto, nove, dieci e undici, vengono descritti alcuni dei gesti che hanno maggiore capacità
comunicativa e che sono stati a lungo oggetto di studi e osservazione.
8 DIFFERENZE DI GENERE
Numerosi psicologi hanno condotto diverse ricerche in cui è stata riscontrata una maggiore abilità delle
donne nel riconoscere e valutare i segnali del linguaggio corporeo. In uno di questi studi, ad esempio, sono
stati mostrati ad un gruppo di persone dei brevi filmati privi di sonoro, in cui un uomo e una donna
comunicavano tra loro. Ai partecipanti è stato poi chiesto di ricostruire l’argomento del dialogo utilizzando
come informazioni le espressioni della coppia, ed è emerso che l’87% delle donne ha interpretato in maniera
corretta la scena, mentre gli uomini sono nel 42% dei casi (A.Pease, 2008). Questa differenza di genere è
stata supportata da studi che utilizzano le scansioni cerebrali, in cui, attraverso l’utilizzo della risonanza
magnetica, è stato osservato che il cervello delle donne vi sono dalle 14 alle 16 aree cerebrali preposte a tali
funzioni rispetto alle 4-6 dell’uomo. Tale differenza è stata spiegata anche in riferimento alla necessità da
parte delle donne di sviluppare la capacità di interpretare i segnali non verbali, dovendosi affidare quasi
11 Lo sguardo
Lo sguardo è un potente segnale non verbale che rappresenta uno dei più importanti codici comunicativi, di
cui gli occhi svolgono una funzione chiave. L’occhio anatomicamente comprende un ampia struttura di
terminazioni nervose ed è circondato da muscoli extraoculari che possono contrarsi migliaia di volte al
giorno in altrettanti modi diversi. Nel corso di una conversazione, in concomitanza delle sequenze degli
scambi, lo sguardo regola l’alternanza dei turni, segnala l’intenzione di prendere parola, comunica che si è
finito di parlare.
Alcuni spunti pratici:
1. Occhiata di traverso comunica interesse, incertezza o ostilità;
1 Introduzione
“Per capire se stesso l’uomo ha bisogno di essere capito dall’altro; per essere capito dall’altro ha bisogno
di capire l’altro”
(Paul Watzlawick)
La comunicazione è il fondamento di tutti i rapporti umani e pur facendone un uso quotidiano, non sempre
siamo consapevoli delle logiche sottese, dei processi che innesca e delle incredibili potenzialità. E’
importante che le persone che devono comunicare per professione, si pongano il problema di farlo in
maniera efficace.
La comunicazione ha molteplici funzioni.
Il ricevente dovrebbe
a. essere ben disposto alla comunicazione.
b. avere capacità di ascolto.
c. essere in grado di capire e interpretare i significati simbolici dei messaggi.
d. comprendere gli schemi di riferimento dell’emittente.
e. porre domande affinché l’emittente precisi il suo pensiero.
sui comportamenti umani nei contesti in cui agisce. Non esiste comunicazione senza un comportamento, né
un comportamento che non comunichi qualcosa. Secondo l’autore bisogna indagare le due modalità
attraverso cui la comunicazione espleta questa funzione e cioè il linguaggio verbale e non verbale.
Waslawick sottolineò come anche “le nevrosi, le psicosi e in generale le forme di psicopatologia non nascono
nell’individuo isolato, ma nel tipo di interazione patologica che si instaura tra individui”, ponendo quindi
l’accento sull’importanza dell’interazione esistente tra le persone che comunicano anche in patologia e
sull’influenza esercitata su di esse dalla cultura, attraverso i segni e i simboli cui vengono attribuiti
significati.
Watzlawick basa la sua elaborazione teorica su cinque assiomi, affermazioni basilari che riflettono i
meccanismi che si innescano nell’interazione tra segni e simboli.
PRIMO ASSIOMA: non si può non comunicare
Qualsiasi comportamento (verbale = parole; o non verbale = espressioni del viso o azioni o contesto)
comunica qualcosa alle persone presenti.
Anche la passività e i silenzi, esplicitando la volontà di non comunicare, inviano un messaggio e, quindi,
comunicano di non voler comunicare.
della mia voce sono friendly, i modi di tutti i collaboratori sono affabili. Anche prima che ci sia lo scambio
verbale l’insieme di contesto e modalità non verbali è strutturato per comunicare accoglienza e interesse per
il cliente.
inserita:
se detta dalla madre a un figlio può essere intesa come una raccomandazione;
se pronunciata dall’insegnante rivolta all’alunno è una richiesta o un ordine;
se detta da un delinquente può diventare una minaccia.
Penso sia chiaro come l’aspetto metacomunicativo, che possiamo tradurre come “chiarezza e rispetto
relazionale dei ruoli” (responsabile-collaboratore, cliente-professionista, anziano-giovane, giovane-
giovane…) sia forse anche più importante, talvolta, dell’aspetto contenutistico della comunicazione, perché
può o non fare sentire le persone a loro agio, nel giusto ruolo relazionale.
Le informazioni relative al ruolo relazionale privilegiano il canale non verbale, che sarà meglio spiegato nel
4° assioma.
Quando i due interlocutori sono d'accordo sia sugli aspetti di relazione che di contenuto, la comunicazione è
fluida.
“Ho addestrato il mio sperimentatore. Ogni volta che premo la leva mi dà da mangiare”
F 0Marito
B7 e moglie credono entrambi di “leggere bene” la realtà e che i problemi siano provocati dal partner.
F 0Un
B 7 adolescente insicuro ritiene d’essere antipatico. La sua punteggiatura degli eventi fa si che qualsiasi
atteggiamento, azione o parola degli altri siano letti come un mettere distanza nei suoi confronti. Ma
anch’egli, così facendo mette in realtà distanza, con il risultato di ottenere proprio quello che temeva: essere
antipatico agli occhi degli altri. E’ l’esempio classico di profezia che si autoavvera.
F 0La
B 7 mia distrazione viene letta dal cliente come un disinteresse nei suoi confronti.
F 0Un
B 7 cambio di programma o di opinione del mio interlocutore viene letto da me come un tentativo di
fregarmi.
Gli animali usano il modo analogico per comunicare tra loro e con l’uomo, cogliendo il non verbale e non
capendo il significato delle parole che diciamo –non hanno la capacità di accedere a una comprensione dei
simboli attraverso i quali parliamo del mondo-.
comunicazione;
F 0il
B 7modo analogico-non verbale (espressioni corporee e contesto della relazione) è quello più idoneo a
Tuttavia sia il contenuto che la definizione dei ruoli passano nella relazione attraverso entrambi i modi
comunicativi. Prima cogliamo il non verbale e il contesto e, sulla base di questi, diamo significato e valore al
verbale. I gesti hanno talvolta il potere di sostituire lunghi messaggi verbali (“Vale di più un gesto che mille
parole”). E un chiarimento sulle reciproche valenze di ruolo in una relazione di lavoro richiede talvolta
chiarimenti verbali.
Il modo non verbale di comunicare è estremamente potente. Il linguaggio analogico ci dà spesso la chiave di
lettura del linguaggio verbale. Nella storia dell’uomo è un modo di comunicare certamente più arcaico e
spesso in gran parte istintivo. Ciò nonostante possiamo consapevolmente porre attenzione al nostro non
verbale perché la comunicazione sia più efficace e “specializzarci” nella lettura del non verbale rimandatoci
da contesti e persone.
Alcune ricerche americane hanno messo in luce che l'incidenza di un messaggio è imputabile per il 7% alla
componente verbale (le parole usate ed il loro senso), per il 38% a quella paraverbale (come diciamo le cose)
e per il 55% alla componente non verbale (ciò che il nostro corpo comunica mentre parliamo). Ciò significa
che siamo maggiormente influenzati dall’aspetto non verbale o paraverbale di un messaggio, anziché dal suo
contenuto verbale.
Esempi.
F 0Ci
B 7 fermiamo a chiedere un’informazione su come raggiungere una via ad un passante: ci dice di andare a
destra ma con il braccio ci indica la sinistra. Nella quasi totalità dei casi, siamo portati a seguire la direzione
del braccio (non verbale).
F 0In
B 7 un breafing di lavoro il capo, pur senza parlare, mostra un interesse maggiore per una proposta piuttosto
che serve) e quello non verbale (il viso esprime preoccupazione quando si rende conto che la spesa può
essere superiore al suo budget). In tal caso ci potremmo trovare disorientati e con cautela cercare di indagare
meglio e mettere fine all’ambivalenza del cliente.
F 0Una
B7 nostra presentazione in un meeting può essere molto curata dal punto di vista della comunicazione
non verbale: sguardo diretto sulle persone, gesti con le mani che sottolineano il verbale, sorrisi e clima
disteso, in piedi e fronte sala, ritmo e tono esprimono accoglienza…
Il doppio legame
E’ di fondamentale importanza che ci sia accordo tra il livello verbale e non verbale per evitare quello che
viene definito . una madre che dice al fglio con tono rabbioso”tivlio bene” sta mandando un doppio legame.
Se il figlio ribadisce non è vero, la donna smentirà e il bambino non avrà argomenti per difendere la sua tesi,
anche perché spesso il messaggio non verbale potrebbe essere inconsapevole per chi lo emette
Il doppio messaggio o doppio legame normalmente genera molto stress nella comunicazione. Per uscire da
un doppio messaggio dobbiamo porci ad un livello meta-comunicativo; dobbiamo cioè esplicitare che c’è
una doppia informazione, altrimenti rimaniamo paralizzati e sbagliamo comunque ci comportiamo. Altre
volte possiamo relazionarci a quello verbale, tenendo conto di quello non verbale anche se decidiamo di non
esplicitarlo.
QUINTO ASSIOMA: Gli scambi comunicativi possono essere simmetrici o complementari a seconda che
siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza.
Le comunicazioni possono essere simmetriche o complementari.
F 0Relazione
B7 simmetrica: l’interazione è alla pari (=basata sull’uguaglianza)
F 0Relazione
B7 asimmetrica o complementare. In questo caso, un membro della coppia relazionale assume una
posizione primaria, detta one-up, superiore; mentre l’altro partner è complementare a questa posizione,
Tipi di relazione simmetrica sono quelle fra coniugi, colleghi, compagni di classe, amici, clienti.
Tipi di relazione complementare sono quelle insegnante-alunno, padre-figlio, datore di lavoro-impiegato,
medico-paziente.
I posizionamenti relazionali possono variare da contesto a contesto anche fra le stesse persone. Se, ad
esempio, un meccanico accusa un malore e si reca dal medico, la posizione one-up è assunta dal medico. Ma
se, dopo un'ora, sulla tangenziale cittadina, lo stesso meccanico interviene per aiutare il medico, con il
motore dell'auto in panne, il ruolo up sarà del meccanico e quello down del medico. Il medico che volesse
sentenziare anche su questo sarebbe solo presuntuoso, poco flessibile.
I posizionamenti relazionali tendono ad essere flessibili anche all’interno di una relazione che a un primo
livello è complementare, proprio perché all’interno di una relazione in un tempo dato cambiano
continuamente le condizioni di contesto che ne determinano o meno la complementarietà.
Esempi.
F 0Un
B 7 utente di una certa età si confronta con il giovane impiegato per la definizione di una proposta di
soggiorno (ma vale anche per il cliente di un ristorante o il paziente di un medico). A un livello generale
l’impiegato è up rispetto al cliente; a un altro livello, e quindi con possibili slittamenti in caso di variazione
minima del contesto, il cliente può avere maggiore esperienza di vita dell’impiegato, e nello scorrere
temporale della relazione può trovarsi a dare consigli all’impiegato, mettendosi per un certo tempo up.
F 0Marito
B7 e moglie in una relazione sostanzialmente simmetrica in alcuni momenti, ad esempio per malattia
o difficoltà varie, possono supportarsi a vicenda, assumendo alternativamente ruoli up.
4 Conclusioni
“Noi creiamo il mondo che percepiamo, non perché non esiste realtà fuori dalla nostra mente, ma perché
scegliamo e modifichiamo la realtà che vediamo in modo che si adegui alle nostre convinzioni sul mondo in
cui viviamo”
(Gregory Bateson)
Fraintendimenti, inefficacia comunicativa, interpretazioni personali delle comunicazioni, profezie che si
autoavverano, discordanza tra buone intenzioni e comunicazione non verbale.
Sono davvero tante le insidie della comunicazione umana.
Abbiamo visto come nella comunicazione ciascuno proponga se stesso, un proprio ruolo e contenuti della
comunicazione, la propria punteggiatura e definisce la relazione che ha con l’interlocutore. Di questo
dobbiamo essere consapevoli per essere efficaci e non creare fraintendimenti.
Ancora due cose prima di concludere.
I messaggi che un soggetto esprime per autodefinirsi o per esprimere la relazione con l’altro possono essere
accolti in modo diverso dall'interlocutore. L’altro può rispondere con una conferma, un rifiuto oppure una
disconferma.
F 0La
B 7 conferma, ovvero l’accettazione del ruolo che l’altro ha fornito di sé;
F 0Il
B 7rifiuto, che comunque implica il riconoscimento della presenza dell’altro. Il rifiuto equivale a “Stai
interesse nei tuoi confronti”. Questo tipo di risposta può essere particolarmente problematica per
l’interlocutore perchè non essere considerati può creare reazioni di ansia e di insicurezza molto dolorose.
Evitare di usare la disconferma, che certamente non è efficace se si intende restare comunque nella relazione.
Durante gli incontri e le riunioni sarebbe bene rispettare alcuni semplici principi: massima di quantità, cioè
dare un contributo efficace senza eccedere nella quantità; massima di qualità, ossia dare un contributo vero;
massima di relazione, ovvero essere pertinenti; massima di modo, quindi essere chiari, evitando espressioni
ambigue e oscure.
Spesso la cattiva qualità della comunicazione all’interno dei posti di lavoro è la vera causa di problemi che
generano stress nei lavoratori, che sono all’origine del mobbing e del graduale deteriorarsi di un buon clima
aziendale.
“IL CONFLITTO”
1 Introduzione
Cominciamo col porci una domanda: cosa si intende per conflitto? Sembrerebbe esserci quasi una risposta
scontata, tanto questa parola è, purtroppo, inflazionata nel linguaggio comune, attraverso i media, nei
rapporti interpersonali, nei gruppi.
La lingua latina, come sempre soccorre il bisogno esplicativo: il vocabolo conflitto è una parola colta che
riprende il latino CONFLICTUS dal verbo CONFLIGERE, composto da CUM, con e di un raro FLIGERE,
urtare, sbattere contro.
Il prefisso CUM indica che l' "urto" non è unilaterale. Ma coinvolge almeno due parti: è così definita una
lotta, un contrasto, un coinvolgimento di due o più persone.
Kurt Lewin, psicologo tedesco, pioniere della Psicologia Sociale, così lo definisce:
"Il conflitto è quella situazione in cui le forze di valore, approssimativamente uguali ma dirette in senso
opposto, agiscono simultaneamente sull'individuo".
Quando esiste un conflitto pertanto, siamo in presenza di assetti motivazionali contrastanti rispetto alla meta.
In altri termini il conflitto in psicologia sociale indica uno scontro tra ciò che la persona, o il proprio gruppo
di appartenenza desidera e un'istanza INTERIORE, INTERPERSONALE o SOCIALE CHE IMPEDISCE
LA SODDISFAZIONE DEL BISOGNO o dell'obiettivo connessi a tale desiderio.
Possiamo pertanto parlare di vari tipi di conflitto: conflitto di potere, conflitto ideologico, economico, di
interessi.
Il termine è onnicomprensivo e può rimandare a vari livelli.
A noi interessa precipuamente riflettere sui conflitti che rimandano alla sfera psicologica e sociale di un
individuo: i conflitti psichici e i conflitti interpersonali che possono talora turbare in maniera consistente il
comportamento del singolo e del gruppo.
Nella nostra cultura la parola conflitto è spesso associata allo scontro, a emozioni negative quali la rabbia o,
peggio, l'odio verso gli altri.
Molto raramente si pensa che esso, al contrario, possa divenire motivo di confronto e di crescita tra gli
individui, occasione per creare conoscenza dell'altro diverso da me,
un momento costruttivo di scambio reciproco.
In realtà il conflitto è un'esperienza comune a tutti gli uomini, che può nascere in tutti i gruppi di
appartenenza. In qualsiasi relazione di due o più persone molteplici cause legate a diverse aspettative dei
singoli coinvolti possono generare occasioni di incomprensione, disaccordo e lite.
Ma il conflitto spaventa, la gente ne ha spesso paura e tende preferibilmente a rimuoverlo più che ad
affrontarlo.
Quante volte si sente dire, da amici, conoscenti e colleghi: non voglio litigare, preferisco il "quieto vivere",
meglio evitare...
Questo perché viviamo tutti in realtà complesse ma, diciamolo, più portate allo scontro che al dialogo, alla
prevaricazione sull'altro più che all'accettazione della diversità. Per
questo pensiamo sia meglio negare i conflitti piuttosto che affrontarli.
E cosi ne perdiamo tutto il potenziale creativo insito.
Si sprecano risorse per eludere i conflitti come se fossero portatori di sventura: e intanto aumentano le liti, le
discussioni, le lacerazioni nei gruppi.
Ma cosa genera un conflitto? Come s'instaura?
Un ruolo importante lo gioca una certa permalosità sociale assai stratificata.
Da un lato essa segnala una legittima esigenza di far rispettare il proprio spazio vitale, dall'altro però
evidenzia come senza una sorta di alfabetizzazione relazionale, una rieducazione delle emozioni, sia sempre
più difficile risolvere le controversie relazionali.
Le emozioni giocano un ruolo primario. Nel gruppo possono nascere meccanismi patologici che favoriscono
la conflittualità.
6 Inizialmente possono anche esserci solo sintomi indifferenziati la cui specificità può essere evidenziata
solo successivamente con opportune stimolazioni alla riflessione verbale come le libere associazioni e/o altre
tecniche di rilassamento, anche non verbali.
Freud considera il conflitto un elemento centrale della sua teoria: “Noi non vogliamo semplicemente
descrivere e classificare i fenomeni, ma concepirli come indizi di un giuoco di forze che si svolge nella
psiche, come l'espressione di tendenze orientate verso un fine, che operano insieme o l'una contro l'altra. Ciò
che ci sforziamo di raggiungere è una concezione dinamica dei fenomeni psichici. Nella nostra concezione i
fenomeni percepiti vanno posti in secondo piano rispetto alle tendenze, che pure sono soltanto ipotetiche”7
Si possono identificare tre diverse modalità di conflitto nell'opera Freudiana che ripercorrono l'evoluzione
del suo pensiero:
1. conflitto tra principio di piacere e principio di realtà;
2. conflitto tra pulsioni sessuali e pulsioni di autoconservazione (dette anche pulsioni dell'io);
3. conflitto tra pulsioni di vita (Eros) e pulsioni di morte (Thanatos).
Se una persona appartiene allo stesso tempo a due gruppi sociali diversi della stessa categoria (età, razza,
nazionalità) gli si presentano in ogni situazione, due tipi diversi di comportamento, suggeriti da ognuno dei
due gruppi, e quindi si troverà in una situazione permanente di conflitto, (non casuale e passeggero ma
costante) e di solitudine ,sentendosi di non appartenere a nessun gruppo, e quindi escluso. Es. la situazione
degli immigrati: vivono tra due culture diverse (quella originale e quella ospitante)”.
3.3. Approccio cognitivo al conflitto
Un altro approccio classico al problema del conflitto è quello adottato dagli psicologi cognitivisti.
In questo ambito un ruolo fondamentale è occupato dalla teoria della dissonanza cognitiva postulata da
Festinger.
Per “dissonanza cognitiva”, Festinger intende lo stato di disagio che l’individuo sperimenta allorché è
consapevole della contraddittorietà, o della mancanza di armonia, fra due o più contenuti mentali o
cognizioni.
Nella sua teoria, Festinger sostiene che le persone tendono ad evitare o alleviare questi stati di disagio,
comportandosi in maniera tale da ridurre la dissonanza o da mantenere l’armonia fra i loro diversi
atteggiamenti, convinzioni e conoscenze.10
L’esistenza di cognizioni che in un modo o nell’altro non concordano, c’è quindi dissonanza, induce il
soggetto a sforzarsi di farle concordare meglio operando una riduzione della dissonanza. L’esempio tipico
che riassume questa situazione è quello del fumatore che nonostante sia a conoscenza della nocività del fumo
fuma ugualmente. La dissonanza è ridotta o annullata grazie a dei convincimenti che gli consentono di
rendere concordi le informazioni di cui dispone con l’atto stesso del fumare.
Dissonanza è conflitto non sono la stessa cosa: il conflitto precede la decisione mentre la dissonanza la
segue. In qualche modo la dissonanza può creare un conflitto, nel senso che la persona rilevando un
contraddizione (dissonanza) tra un proprio atteggiamento e comportamento (“credo che fumare faccia male
e fumo”) può trovarsi ad affrontare il conflitto di quale scelta operare per ridurre la dissonanza “smetto di
fumare o mi faccio del male?”
Secondo Festinger, la riduzione della dissonanza può essere effettuata mutando la propria opinione, il
proprio comportamento, oppure l’ambiente in cui ci si trova ad operare.
In alternativa, l’individuo può ridurre la dissonanza cognitiva integrando un nuovo elemento cognitivo in
aggiunta agli elementi consonanti, il tutto al fine di modificare il rapporto con gli elementi dissonanti.
Festinger ha messo in rilievo che vi è la tendenza a cambiare le proprie opinioni quando queste sono in
contrasto col proprio comportamento, sempre al fine di ridurre la dissonanza. Esistono parecchi modi per
ridurre la dissonanza: convincersi che l’argomento dissonante non è importante, cambiare opinione, cercare
il sostegno di altri per confermare le proprie opinioni chiaramente poste in dissonanza dai fatti, selezionare le
informazioni e filtrarle. La dissonanza cognitiva di Festinger, è tipica anche dei detenuti i quali continuano a
cercare giustificazioni per il loro comportamento, nascondendosi dietro falsi alibi.
nostre prospettive.
F 0La
B 7 suggestione, una specie di ipnosi, che non lascia il partner libero di scegliere.
F 0L'imbonimento.
B7
F 0L'inganno
B7 o la classica "fregatura".
La negoziazione è giungere ad un accordo tra le parti in discussione: un accordo che soddisfi il più possibile
gli interlocutori, con un minimo di spesa e costo personale. Potremmo dire che talora nessuno è pienamente
soddisfatto. Ma potremmo anche dire che nessuno è davvero insoddisfatto. Non c'è un vincitore e non c'è un
vinto.
6.5. Un esempio di conflitto: il dilemma del prigioniero
Il dilemma del prigioniero s’ispira ad una delle più famose formulazioni della Teoria dei Giochi. Nata dalla
mente di un matematico, Von Neumann, e di un economista, Morgenstern, e approfondita dal premio Nobel
John Forbes Nash jr (a cui è stato dedicato il film A Beautiful Mind), la Teoria dei Giochi è divenuta la
scienza del prendere decisioni in un ambiente competitivo, una raccolta di modelli con regole semplificate
delle più grandi competizioni quotidiane. I temi centrali introdotti dal geniale matematico, la cooperazione e
il conflitto, riassumono le condizioni interne in cui spesso ci ritroviamo nell’ambito di situazione ambigue in
cui è necessario prendere una decisione.
Il dilemma può essere descritto come segue. Due criminali vengono accusati di aver commesso un reato. Gli
investigatori li arrestano entrambi e li chiudono in due celle diverse, impedendo loro di comunicare. Ad
ognuno di loro vengono date due scelte: confessare l'accaduto, oppure non confessare. Viene inoltre spiegato
loro che:
1. se solo uno dei due confessa, chi ha confessato evita la pena; l'altro viene però condannato a 7 anni di
carcere.
2. se entrambi confessano, vengono entrambi condannati a 6 anni.
3. se nessuno dei due confessa, entrambi vengono condannati a 1 anno, perché comunque già colpevoli di
porto abusivo di armi.
4. La miglior strategia di questo gioco non cooperativo è (confessa, confessa). Per ognuno dei due lo scopo è
infatti di minimizzare la propria condanna; e ogni prigioniero:
confessando: rischia 0 o 6 anni
non confessando: rischia 1 o 7 anni
1 Premessa
Con questa lezione si vuole affrontare il tema dell'aggressività secondo l'ottica della psicologia sociale.
L'intento è quello di fornire un quadro informativo generale che tratti il tema dell'aggressività a partire dalle
diverse spiegazioni che gli studiosi hanno dato. Le domande a cui si vuole dare risposta sono:
F 0Che
B7 cos'è l'aggressività?
F 0L’aggressività
B7 è innata o appresa?
F 0L’aggressività
B7 è istintuale, situazionale o opzionale?
F 0Esistono
B7 basi biologiche dell'aggressività?
A una prima definizione di aggressività seguirà una trattazione delle basi biologiche attraverso gli studi
effettuati in ambito genetico, anatomico, e fisiologico. Saranno poi riportati modelli teorici di riferimento che
negli anni hanno approfondito la tematica, con l’aggiunta di esperimenti esemplificativi delle diverse teorie.
3 Le basi dell'aggressività
3.1. La teoria istintuale tra psicoanalisi e psicologia evoluzionista
S. Freud parlava dell’esistenza di un istinto vitale, chiamato Eros, e di un istinto di morte ,chiamato
Thanatos, che è alla base dell’aggressività. Secondo un modello idraulico F. sostiene che questa energia
tende ad accumularsi e deve trovare sfogo, altrimenti porta alla malattia. Attraverso la società l’individuo
può sublimare l’istinto e volgere l’energia distruttiva verso un comportamento accettabile o utile. Secondo il
modello etologico l'aggressività è un istinto atto a preservare la sopravvivenza della specie. L'animale
combatte per il cibo, per la messa in fuga dell'avversario, e per la competizione sessuale, mentre non sembra
possedere le connotazione di ostilità propria del genere umano. K. Lorenz (1903-1989), uno dei fondatori
dell'etologia e premio Nobel nel 1973, ha studiato le abitudini comportamentali degli animali e ha elaborato
una teoria estesa al genere umano. Egli distingue componenti innate e componenti apprese del
comportamento. La selezione naturale avrebbe determinato caratteristiche fisiche per la sopravvivenza
mentre le componenti apprese sarebbero alla base di caratteristiche psicologico - comportamentali. Come
Freud anche Lorenz per spiegare l'aggressività recupera il concetto di istinto ma mentre in Freud
l'aggressività è il conflitto tra pulsione di vita e pulsione di morte, in Lorenz l'aggressività è considerata
l'istinto primario che negli animali ha valore esclusivamente per la sopravvivenza. Altri autori come Tinberg
(1953) e Van Lawich, ad esempio, valorizzano maggiormente l'ambiente e considerano l'aggressività non è
solo un istinto proveniente dall'interno ma anche una risposta a stimoli ambientali. La posizione di Lorenz fu
criticata da studiosi, come Laborit (1970, 1973) secondo il quale usare ipotesi, dati e modalità di
osservazione del comportamento animale per riportarlo a quello umano sia un procedimento spesso rischioso
e dove possono non essere adeguatamente valutati con il loro peso altri numerosi ed importanti aspetti quali
i meccanismi biochimici, neurofisiologici e neuroanatomici alla base dei comportamenti tra specie diverse.
La teoria istintuale non è in grado di spiegare i diversi livelli di aggressività da individuo ad individuo e da
cultura a cultura. Tuttavia come sottolineano gli psicologi evoluzionisti Buss e Shackelford il comportamento
in Francia. Dalle interviste risultò un maggiore livello di aggressività in corrispondenza del giorno in cui le
imbarcazioni dei pescatori francesi avevano occupato il porto in segno di protesta, impedendo così le
regolari partenze. In quell’ occasione, ostacolati dal raggiungimento del loro obiettivo, era più facile che i
passeggeri condividessero gli insulti rivolti ad un francese che aveva semplicemente rovesciato un caffè.
Inizialmente la teoria considerava la presenza di una causalità univoca tra frustrazione e aggressività,
successivamente tale posizione radicale fu ammorbidita considerando la frustrazione come sufficiente ma
non necessaria al verificarsi di comportamento aggressivo. Spesso l’energia aggressiva non viene direzionata
direttamente contro ciò che l’ha generata, in quanto le persone imparano ad inibire le ritorsioni dirette,
soprattutto quando genererebbero un danno personale o sociale. L’aggressività può infatti essere “dislocata”
su altri obiettivi. Per dislocazione si intende infatti il dirigere l’aggressività verso un obiettivo diverso da ciò
che ha originato la frustrazione . Si impara a inibire le ritorsioni dirette, soprattutto quando altri potrebbero
disapprovarci o punirci, e quindi a trasferire l’aggressività su un bersaglio più sicuro e socialmente
accettabile. Per meglio comprendere il concetto della dislocazione basta pensare all’aneddoto dell’uomo che,
umiliato a lavoro, tornando a casa, maltratta la moglie, la quale a sua volta sgrida i bambini, che poi
picchiano il cane, che morde il postino, che torna a casa e maltratta la moglie ecc. Un esperimento di
Vasquez e colleghi del 2005, descrive il fenomeno della dislocazione dell’aggressività.
F 0Esperimento:
B7 Uno sperimentatore dell’ Università della Southern California, denigrò un gruppo di
studenti per i risultati ottenuti ad un test che consisteva nella risoluzione de un anagramma. Un altro
gruppo, il gruppo di controllo, non ebbe nessuna provocazione. Poco dopo ai due gruppi si chiese di
decidere per quanto tempo, uno studente che li insultava, avrebbe dovuto immergere la mano in acqua
gelida mentre completava una data attività. Anche se lo studente, esprimeva una offesa di poco conto,
partecipanti, precedentemente provocati dallo sperimentatore, reagivano con un comportamento punitivo
maggiore rispetto a quelli che non avevano ricevuto alcuna provocazione.
Tale esperimento spiega quindi come la dislocazione dell’aggressività consenta di sfogare la rabbia
precedentemente accumulata, direzionandola verso un altro obiettivo, diverso.
È importante sottolineare, che la frustrazione può non essere collegata alla deprivazione. In più studi si è
visto come i livelli di violenza non siano direttamente correlati a stati di deprivazione economica sociale. Nel
1969 la Commissione nazionale americana sulle cause e sulla prevenzione della violenza concluse che non è
tanto la privazione quanto il progresso economico a poter addirittura aumentare il senso di frustrazione e la
conseguente escalation di violenza, nell’ottica che la frustrazione scaturisce dallo scarto esistente tra
aspettative e obiettivi realmente raggiunti. Quando ci si paragona agli altri rispetto a qualità lavorativa e di
vita in generale, il proprio livello di soddisfazione risulta indebolito a causa della “deprivazione relativa” ;
questi sentimenti spiegano perché in comunità in cui sia presente una forte disparità reddituale la felicità
tende ad essere minore e la percentuale di crimini maggiore rispetto a società con standard di vita più bassi.
Oggi una possibile fonte di frustrazione sembra essere determinata dalla ricchezza veicolata e raffigurata nei
programmi televisivi.
Un bambino in età prescolare è impegnato in un'interessante attività artistica. In una parte della stanza in
cui si trovano scatole per le costruzioni, una mazza ed un pupazzo di gomma gonfiabile di nome Bobo,è
presente un adulto. Dopo aver lavorato con le costruzioni, l'adulto si alza e comincia a picchiare il pupazzo
Bobo con la mazza, dandogli calci e gridando “colpiscilo sul naso”, “buttalo giù”, ecc.. Dopo aver assistito
alla scena , il bambino viene portato in una stanza diversa dove ci sono giocattoli che attraggono la sua
attenzione. Lo sperimentatore dopo qualche minuto dice che quelli sono i migliori giocattoli che possiede e
che sono destinati ad altri bambini. Il bambino, viene quindi condotto in una stanza dove ci sono giocattoli
ideati per il gioco violento, per il gioco non violento, il pupazzo Bobo e una mazza. I bambini che non
avevano assistito al modello aggressivo, anche se frustrati raramente mostravano un tipo di gioco ed un
linguaggio aggressivo; diversamente i bambini che avevano assistito all'esempio dell'adulto, con maggiore
L’idea di fondo è che il mondo è popolato da gente ostile, dalla quale ci si deve proteggere
La persona aggressiva/ autoritaria discute sostenendo il proprio punto di vista secondo una modalità
irrispettosa, cioè:
- non accetta la negoziazione come strumento principale per affrontare e risolvere i conflitti interpersonali
nei quali inevitabilmente si imbatterà. Assume un atteggiamento giudicante di condanna.
- si altera, urla, perde il controllo
- parla velocemente, interrompe, si sovrappone
- insulta o svaluta quanto l’altro dice, non lasciandolo parlare
1 Premessa
La lezione è imperniata sulla presentazione del concetto di “gruppo” in senso comune e generale e poi, più
strettamente, nell’ambito della Psicologia Sociale.
A partire da una descrizione del gruppo all’interno di filoni scientifici diversi, affronteremo il tema del
gruppo in una prospettiva strutturale, inquadrandone i diversi tipi (a seconda di scopi e configurazioni) e
analizzandone i principali aspetti costituenti: gli status, i ruoli e le norme.
Approfondendo ciascuno di questi tre aspetti, tenteremo, anche con l’ausilio di alcuni esempi concreti e di
semplice utilizzo, di collegarci in un secondo momento alla vita di gruppo, e dunque alle fasi di sviluppo e
alla formazione dello stesso.
Infine dopo aver concentrato l’attenzione sul “Modello di socializzazione” di Levine e Moreland, ci
appresteremo a chiudere la lezione con la presentazione delle differenze tra “gruppo sociale” e “gruppo di
lavoro”, specificandone le caratteristiche peculiari.
“[…] Dolcemente viaggiare rallentare per poi accelerare con un ritmo fluente di vita nel cuore
gentilmente senza strappi al motore.”
da Sì Viaggiare di Lucio Battisti
L’idea di partire (e non a caso l’utilizzo di questo verbo) da queste poche righe tratte dalla canzone -un po’ a
tutti nota- di Battisti, nasce dal fatto che sarebbe stimolante capire, sommariamente, qual è il pensiero
comune circa il viaggio.
Si parte per evadere? Per ritrovare se stessi? Per fare nuove scoperte?
Indipendentemente da quelle che possano essere le ragioni specifiche che spingono l’essere umano ad
intraprendere un viaggio di qualsiasi tipo, è interessante notare che quest’ultimo, da sempre, ha
un significato che va oltre la mera conoscenza di luoghi altri da quelli noti. In quest’ottica, proviamo ad
immaginare come un viaggiatore, che intraprende un percorso di scoperta e ricerca, possa trasformarsi in un
turista, desideroso di abbandonare stress e routine ed inoltrarsi in nuovi contesti culturali e paesaggistici, da
integrare nel proprio bagaglio di esperienze: e se questo passaggio, da turista a viaggiatore, piuttosto che una
brusca differenza di rotte potesse rappresentare una sorta di integrazione degli aspetti di entrambi?
Se il turista riuscisse a coniugare l’esigenza e la voglia di allontanarsi dalla ripetitività del suo quotidiano
allo spirito errante di un viaggiatore, non sarebbe forse una bella sperimentazione? Senza volerci addentrare
troppo in queste ambizioni, che ricordano, in forma diversa, quello che è stato accennato - nell’introduzione
al corso- circa il connubio di scienza e poesia, è ipotizzabile che uno dei motivi (o comunque certamente una
delle situazioni in cui inevitabilmente incorrerà) che potrebbe spingere un qualsiasi individuo ad
intraprendere un viaggio (da turista o meno) possa essere quello di sperimentare la dimensione di
appartenenza ad un gruppo, diverso da quelli già conosciuti e, forse, caratterizzato da una connotazione più
leggera ed intensa, circa quell’esperienza di condivisione. Secondo tali premesse, proviamo ad avvicinarci
all’idea di gruppo, immaginando come esso possa essere determinante, dal momento stesso in cui si sceglie
di farne parte.
2 Il gruppo
E’ interessante poter approcciare al concetto di “gruppo” a partire dalla stessa etimologia del termine, che ci
consente già di inquadrarne gli aspetti cruciali.
Nell’antico germanico occidentale il termine “kruppa” infatti sta ad indicare una “matassa aggrovigliata”,
rendendo perfettamente l’idea delle relazioni che vengono ad intessersi tra i componenti di un qualsivoglia
gruppo e della complessità delle stesse.
In un’ottica comune, è probabile che ognuno di noi, pensando al gruppo, abbia una sorta di idea generale di
unione e vicinanza, ma è pur vero che per qualcun altro potrebbe invece corrispondere a qualcosa di più
1 Premessa
In questa lezione ci soffermeremo sugli aspetti processuali del gruppo. Dopo aver infatti approfondito le
caratteristiche più strettamente strutturali, è importante che ci avviciniamo alla vita del gruppo e alle
principali dinamiche che lo interessano.
A partire, infatti, dalla comunicazione all’interno del gruppo e quindi dall’inquadramento delle reti
comunicative e delle possibili interazioni riscontrabili in un gruppo, potremo accostarci al concetto di
“potere”, sia in relazione alla comunicazione stessa sia in relazione ai ruoli occupati all’interno di un gruppo.
La lezione si concentrerà inoltre sul concetto di “leadership” e sulle varie teorie che se ne sono occupate,
cercando di fornire una visione abbastanza globale e integrata della figura del leader e delle sue funzioni
all’interno del gruppo.
Infine, facendo cenno al confronto sociale e alla funzione che esso ha di consentire al gruppo di migliorarsi,
affronteremo il tema della competizione sociale e del conflitto, come dinamiche rintracciabili sia nei rapporti
dei membri di uno stesso gruppo tra loro che nelle relazioni con l’esterno.
3 Comunicazione e potere
3.1. La leadership
L’importanza di soffermarsi su quali siano le forme di comunicazioni prescelte nei gruppi e su come questi
ultimi abbiano dinamiche di comunicazione diverse anche a seconda dei ruoli occupati all’interno di un
gruppo, apre uno spiraglio di riflessione su un concetto importante nell’analisi del concetto di gruppo: il
potere.
Quest’ultimo rappresenta sicuramente la capacità di esercitare un’influenza e di produrre un
condizionamento da parte di uno o più membri di un gruppo sugli altri (Levine e Moreland, 1990). Secondo
French e Raven (1959) il potere poteva essere differenziato in tre sottocategorie, a seconda dell’impatto e
della modalità d’azione: il potere di ricompensa, inteso come quello fondato sulla capacità di uno di
promettere ricompense simboliche o materiali all’altro; quello coercitivo, che è orientato sul versante della
minaccia e costrizione coatta, attuando eventuali sanzioni in caso di non adesione alle richieste; quello
legittimo, che fa sì che i membri interiorizzino le norme che legittimano il potere di coloro che lo detengono;
quello d’esempio, basato sull’identificazione dei membri con colui/ coloro che lo possiedono; ed infine, il
potere di competenza, di solito limitato ad un ambito specifico, in cui si ritiene che colui che possieda il
potere abbia effettivamente una maggiore esperienza sul campo.
Mentre i primi tre tipi di potere sono maggiormente orientati ad un conformismo apparente, che non tiene
conto delle dimensioni più profonde ed interiori dei membri del gruppo, gli ultimi due sono più focalizzati su
di esse, evidenziandone l’importanza affinchè il potere dell’altro venga riconosciuto se non addirittura
valorizzato.
Questa teoria, nonostante le critiche legate al fatto che non si soffermi sugli aspetti legati alle motivazioni per
cui venga poi accettata l’influenza esercitata da alcuni piuttosto che da altri, ci consente di avvicinarci ad un
argomento interessante ed articolato, che comunemente viene tanto discorso e che ora approfondiremo: la
leadership.
3.2. Chi è il leader?
Il leader è colui che all’interno di un gruppo possiede la maggiore influenza sui membri, che è maggiore di
quella che lui stesso subisce (Brown, 1989) ed ha inoltre lo status più alto, essendo al centro della
comunicazione intragruppo.
La caratteristica basilare della leadership, che la distingue dal potere, dall’autorità, dal controllo, è proprio
che, pur passando per tali concetti, li integra e li suggella con un consenso volontario da parte del gruppo
rispetto all’influenza esercitata, riscontrando dunque un’accettazione all’unanimità.
Sono state elaborate una serie di teorie che hanno cercato di individuare quali potessero essere le motivazioni
per cui alcune persone, piuttosto che altre, abbiano questa capacità di influenzare il gruppo: a partire da
teorie della personalità (Stogdill, 1974) che si sono focalizzate principalmente sugli aspetti strutturali e
peculiari dei singoli individui, come la sicurezza in se stessi, l’intelligenza, la capacità di orientare anche le
1 Introduzione
La teoria sistemica rappresenta una sorta di rivoluzione nel campo della psicologia rispetto all’approccio
utilizzato per lo studio del comportamento umano. Si è passati da un modello intrapsichico ad uno
interpersonale, che tenesse conto del sistema di relazioni in cui l’individuo è inserito e di come questi ne
influenzasse l’agire, i pensieri, i desideri, le emozioni. Gli studiosi si sono interessati allo studio di sistemi
complessi, quali la famiglia, ponendo particolare attenzione al modo in cui le parti concorrono a formare il
tutto, al tipo di comunicazione esistente tra esse e agli effetti che le interazioni hanno sui partecipanti
all’azione, ossia in che modo le azioni di uno influenzano l’altro e viceversa all’interno di una sequenza
comunicativa. Si passa da un modello deterministico, di tipo lineare (causa-effetto) ad uno di tipo circolare.
7 Principi di causalità
La prospettiva relazionale e la teoria generale dei sistemi contrappongono, al vecchio metodo scientifico,
basato sulla causalità lineare un nuovo approccio che prende in considerazione le reciproche interazioni tra
variabili secondo rapporti di causalità circolare. Per comprendere pienamente la portata di questo salto
epistemologico, è opportuno esaminare in maggiore dettaglio alcuni aspetti.
E’ possibile distinguere due differenti modalità di concepire i rapporti causali: la modalità lineare e la
modalità circolare.
Sebbene il principio di causalità lineare si possa considerare valido con buona approssimazione in
determinati campi, nondimeno la sua applicabilità risulta tutt’altro che universale. Infatti, oltre che lineare, la
dipendenza enunciata dal principio causale è unilaterale, e non tiene in conto della possibilità di un’azione
reciproca tra una causa e il suo effetto. Per quanto riguarda ad esempio lo studio dei sistemi viventi o delle
macchine dotate di meccanismi di autoregolazione, tale principio risulta assai poco adatto a descrivere la
complessità delle mutue interazioni che vi hanno luogo. In simili sistemi, una categoria di determinazione
che risulta essere particolarmente importante è quella della connessione causale reciproca, che prevede la
determinazione del conseguente in base ad un’azione mutua (Bunge 1963). Un caso particolare di causalità
reciproca è rappresentato dalla causalità circolare, che ha luogo qualora si verifichi una successione di nessi
causali lineari concatenati tra loro con ritorno al punto di partenza, e venga così a formarsi un ciclo che può
essere percorso più volte (Loriedo e Velia 1989). Un ciclo causale di questo tipo ha tipicamente la forma di
un anello, e tale anello può essere costituito da un minimo di due ad un numero teoricamente infinito di
elementi.
Come possiamo spiegare che una cosa ne causa un’altra? Molteplici sono le interpretazioni date dagli
studiosi. Hegel, in particolare, riteneva che il nesso causale lineare fosse solo un caso di causalità reciproca.
Questa prospettiva pare essere maggiormente attendibile rispetto alle altre, partendo dall’idea che in una
gerarchia di complessità la causalità circolare si colloca ad un livello superiore, rispetto alla causalità lineare
in quanto la include. Per Maturana, la parola causa è sinonimo di interazione istruttiva, in cui A determina
unilateralmente la risposta di B. Pensiamo ad esempio alla lezione tenuta da un professore che determina in
8 La cibernetica
Negli anni in cui il paradigma sistemico faceva la sua comparsa tra gli studiosi dell’epoca, la teoria
cibernetica si poneva come un campo di studi interdisciplinare tra le scienze e l'ingegneria. Lo sviluppo
pressoché contemporaneo ha fatto in modo che tra i due orientamenti vi fosse un ricco scambio rispetto allo
studio dei sistemi umani. Entrambe le teorie hanno in comune l’intento antiriduzionista e quello
interdisciplinare. Mentre la prima si occupa di spiegare i sistemi dal punto di vista strutturale, la seconda
osserva gli stessi dal punto di vista processuale.
La cibernetica nasce per la progettazione e la realizzazione di sistemi artificiali automatici ma è capace di
interpretare anche i sistemi viventi. Il suo ideatore Wiener (1948) la definisce: “la scienza del controllo e
della comunicazione nell’animale e nella macchina”4. In breve, si occupa dello studio dell’autoregolazione
come si verifica sia nei sistemi naturali (la regolazione omeostatica corporea) sia in quelli artificiali
(termostato che regola il riscaldamento casalingo).
Wiener arriva allo studio dello scambio d’informazione e dei sistemi autoregolantisi dall’industria bellica,
nel tentativo di ideare un sistema di puntamento per i cannoni antiaerei che sia capace di autocorreggersi
come un arto umano. Conia così il concetto di feedback o retroazione secondo cui le unità che compongono
un sistema cibernetico non sono semplici emittenti o bersagli di una comunicazione ma danno e ricevono
sempre un messaggio di ritorno rispetto al messaggio emesso o ricevuto. Dunque, una parte del sistema
causa una modificazione in un’altra parte che a sua volta retroagisce modificando la prima e così via
(relazione circolare).
La retroazione può essere positiva o negativa a seconda se produce un cambiamento, ossia il feedback
emesso ha la funzione di far proseguire il sistema in direzione del suo movimento precedente, comportando
una perdita di equilibrio nel sistema stesso (retroazione positiva) o se contribuisce a garantire uno stato di
omeostasi, ossia una stabilità nelle relazioni, per cui il messaggio sull’esito del funzionamento precedente è
usato per aggiustare il meccanismo che regola il funzionamento futuro (retroazione negativa) (Watzlawick e
coll., 1971). Un esempio di retroazione positiva è dato dal fenomeno dell’innalzamento della temperatura. I
ghiacci dei poli perché sono bianchi riflettono il sole, quindi mantengono costante la temperatura. L’aumento
della temperatura globale fa fondere i ghiacci che non riflettono più il sole, quindi la terra si riscalda. Più si
riscalda più i ghiacci si sciolgono, più la terra si riscalda. Un retroazione negativa è data dal termostato:
quando l’acqua raggiunge una certa temperatura lo scaldabagni si spegne. Nel primo caso il processo inizale
continua, nel secondo viene interrotto mantenendo l’omeostasi.
Proviamo a fare un esempio che ci permetta di comprendere meglio il concetto della retroazione. La famiglia
è un sistema autocorrettivo, stabilmente collegato, tendente all’omeostasi. Quando il sistema reagisce a delle
informazioni in entrata (azioni dei membri della famiglia o circostanze ambientali) e le modifica
neutralizzando le potenzialità evolutive che verrebbero attivate e ristabilendo le regole abituali per garantire
la stabilità delle relazioni, ci troviamo dinanzi al fenomeno della retroazione negativa. Immaginiamo una
coppia con un figlio adolescente che si reca in agenzia di viaggio per la prenotazione di una vacanza. La
famiglia in questione è una di quelle che potremmo definire protettiva (regole: controllo e scarsa
autonomia).. Il figlio quasi maggiorenne, sfogliando i cataloghi delle mete balneari, manifesta il desiderio di
andare in vacanza con i propri amici e cerca con lo sguardo la rassicurazione e l’approvazione dei genitori
che magari lasciano trasparire dal proprio volto una certa preoccupazione o timore. L’adolescente,
interpretando il non verbale della coppia, rinuncerà al proprio desiderio rinviando la propria crescita e il
proprio bisogno di autonomia, per rispondere al bisogno di equilibrio all’interno del sistema familiare. Nel
Un esempio classico utilizzato in letteratura per spiegare il doppio legame è quello che prende in esame la
relazione diadica madre-bambino. Un figlio si avvicina ad abbracciare la propria madre ma questa si ritrae
perché l’affettuosità del figlio provoca in lei ansia e ostilità. Siccome ella non può accettare la sua stessa
ostilità, simula dei comportamenti, generalmente verbali, affettuosi. Quindi, a un livello astratto, si mostra
come una madre amorevole e affettuosa e, a un livello concreto, comunica il proprio fastidio nei confronti
dell’affettuosità del figlio. Pertanto, il bambino non si avvicinerà nuovamente alla madre perché ha ricevuto
implicitamente il messaggio di non farlo ma questa lo rimprovererà per non averlo fatto, perché questo le
conferma l’idea di essere una madre cattiva e poco affettuosa.
In sintesi possiamo affermare che ci troviamo dinanzi ad una situazione di doppio legame ogni qualvolta ci
troviamo di fronte ad un messaggio contraddittorio, rispetto al quale ci sentiamo Università Telematica
Pegaso La teoria sistemica nell’approccio sociale
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è
severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul
diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 23 di 29
intrappolati per via della relazione che ci lega al nostro interlocutore. La contraddizione può riguardare
diversi livelli:
F 0All’interno
B7 dello stesso linguaggio razionale (“Se entro la fine della settimana non trovo sulla mia
scrivania il nuovo programma escursioni, sappi che sei licenziato. Non preoccuparti, però, se devi fare
qualcos’altro fallo” )
F 0Tra
B 7 linguaggio emotivo e razionale (Il responsabile dell’ufficio escursioni rivolgendosi ad una guida
turistica dice con disprezzo: complimenti oggi hai fatto un ottimo lavoro)
F 0Tra
B 7 linguaggio emotivo e senso-motorio (Il responsabile dell’ufficio escursioni, dopo una situazione
spiacevole verificatasi nel corso di una visita guidata, va dalla guida turistica e gli poggia una mano sulla
spalla, quasi a volergli comunicare che comprende quanto accaduto e non lo ritiene responsabile mentre a
livello facciale esprime rabbia).
Una critica che oggi possiamo muovere verso il gruppo di Palo Alto è quella di rimanere ancorato al modello
meccanicistico che si propone di superare. Infatti, l’ottica eziopatogenetica continua a porsi come linea guida
nello studio del sistema familiare e ciò accade perché si asserisce che una comunicazione disturbata tra due
individui coinvolti in un legame significativo conduce inevitabilmente e in ogni situazione al manifestarsi
11 Conclusioni
Quest’ultimo paragrafo vuole offrire al lettore una visione più complessa dei concetti teorici su esposti, che
non siano limitati all’applicazione dei costrutti al solo ambito terapeutico ma piuttosto trovino applicazione
in tutte quelle discipline, professioni, situazioni che hanno come oggetto l’essere umano.
Di seguito, mediante la presentazione di una situazione abituale, vedremo come i concetti di sistema,
retroazione e talvolta doppio legame sono caratteristiche presenti nelle famiglie con cui a volte un operatore
turistico si relaziona.
1 Introduzione
Riprendendo la definizione di Doise (1997) “La psicologia sociale può essere definita come la scienza che
ricollega l'analisi dei processi psichici negli individui con l'analisi delle dinamiche sociali a cui questi
partecipano: essa studia cioè il modo in cui le esperienze psicologiche sono interconnesse con l'ambiente
sociale”.
La Psicologia Sociale si pone come lo studio della relazione tra l’individuo (nei suoi aspetti generali) e il suo
ambiente, come disciplina che si interessa al modo in cui le persone vengono influenzate dalla loro
interpretazione dell’ambiente sociale e come una persona percepisce o interpreta tale ambiente
(Aronson et al.2000) e quali aspetti della situazione sociale possono produrre effetti sui comportamenti delle
persone.
Partendo da questa prospettiva della psicologia sociale, basandoci sulla relazione individuo/ambiente/società,
affronteremo la tematica del Problem Solving, che è la capacità di risolvere i problemi in qualsiasi ambito
sia esso familiare, sociale e relazionale e richiede grandi capacità di flessibilità, creatività ed iniziativa.
Il primo fondamentale passo nel processo di problem solving è quello di porsi domande adeguate e
costruttive riguardanti se stessi e la situazione.
Le recenti ricerche psicosociali hanno sottolineato che l'individuo, nell'elaborare le informazioni, sceglie le
strategie che preferisce in base alle sue necessità ed ai suoi obiettivi.
Il modello di uomo come economizzatore di risorse cognitive vede l'individuo come uno stratega motivato,
un soggetto che sceglie le sue strategie cognitive più adeguate ai suoi scopi e alle sue motivazioni (Arcuri e
Castelli, 2000; Pendry e Macrae, 1994).
E’ dunque importante operare, prima di scegliere qualsiasi strategia di soluzione del problema, una buona
analisi del“ Problem Space” (spazio del problema ), che corrisponde alla fase più importante, poiché una
volta individuato e analizzato il problema, è possibile scegliere le misure più adeguate a risolverlo.
La fase del “Problem Space” consiste nel fare una DIAGNOSI DELLA SITUAZIONE, definendo il tipo di
problema. In questa fase è importante :
Un altro aspetto importante sul Sè è la reazione che può suscitare una comunicazione.
In psicologia sociale uno degli errori di attribuzione è quello di dare la responsabilità ad altri quando siamo
coinvolti personalmente in una situazione. Ad esempio pensiamo che sia l’altro ad aver frainteso ciò che
abbiamo cercato di comunicare. Se vogliamo approdare ad una buona comunicazione ci si deve assumere la
responsabilità che gli altri ci comprendano, le persone reagiscono in base a ciò che pensano di sentire
o capire; quindi bisogna partire dal presupposto che la reazione delle persone ha sempre una motivazione,
perciò ci si deve chiedere cosa abbiamo fatto per fare in modo che gli altri stiano avendo una determinata
reazione. In questo caso domande che possono esserci utili sono :
- Ricordi una volta in cui hai dato a qualcuno istruzioni precise e la persona ha fatto una cosa del tutto
diversa da ciò che intendevi? Ti è mai successo di aver capito solo dopo, come mai la persona avesse reagito
così?
- Ricordi un’occasione in cui hai reagito arrabbiandoti con qualcuno, per poi renderti conto solo in seguito di
averlo frainteso?
- Come sarebbe il tuo lavoro se dessi per scontato che le persone reagiscono sempre in modo appropriato a
ciò che comunichi in ogni situazione?
2. La seconda presupposizione è che non ci sono fallimenti ma solo risultati; ogni persona dentro di sé ha
tutte le risorse che gli servono per poter affrontare qualsiasi evento, ma quando non si sentono abbastanza
intelligenti o poco capaci, ciò avviene perché non riescono ad accedere alle proprie risorse interne.
Dagli studi di psicologia sociale è emerso che le nuove realtà richiedono sempre di più competenze cognitive
e di autogestione di alto livello per ricoprire ruoli professionali che diventano sempre più complessi e per
gestire le difficili richieste della vita contemporanea. Inoltre il rapido ritmo delle trasformazioni tecnologiche
e la rapida crescita del sapere, fanno si che le capacità di gestire autonomamente il proprio apprendimento,
per tutto il corso della vita, siano particolarmente utili. Possiamo imparare da qualsiasi cosa facciamo, sia
che essa abbia esito positivo o negativo, i risultati ci possono insegnare molto su come comportarci e vivere,
perciò chi non possiede queste capacità rischia di veder diventare le proprie conoscenze obsolete (Bandura
-1996).
Il modo migliore di aiutare sé e gli altri, perciò è quello di sforzarsi di usare il proprio talento e le proprie
capacità, perché se si è convinti che le proprie capacità sono limitate rispetto agli altri , agiamo come se tali
limiti esistessero realmente, quindi anche l’esito di ciò che si farà non sarò positivo.
3.3. Lo scopo
Chiarire i propri obiettivi è fondamentale in ogni processo di Problem Solving,
l’ intenzione e lo scopo sono fondamentali per dirigersi verso qualunque soluzione.
Per poter risolvere in modo efficace i problemi e prendere decisioni, per prima cosa dobbiamo essere
convinti che sia possibile raggiungere il nostro obiettivo e ne valga la pena, poi dobbiamo assicurarci di
avere i mezzi per raggiungerlo e in fine dobbiamo avere l’ opportunità di perseguire la meta e superare
eventuali difficoltà che potrebbero emergere.
Quindi per raggiungere gli obiettivi sono fondamentali:
Motivazione (volere)
Mezzi (Sapere come)
Opportunità (Potere, avere l’occasione di).
Definire un obiettivo “Ben formato”
Per concentrare la nostra attenzione sul raggiungimento degli obiettivi bisogna affermare con chiarezza cosa
vogliamo esattamente.
Un obiettivo Ben Formato è di vitale importanza per riuscire a focalizzarsi con chiarezza su ciò che si vuole,
inoltre dobbiamo assicurarci che esso sia conforme ai nostri valori e standard personali, perché spesso molti
dei problemi e conflitti che possono sorgere nella vita professionale e personale sono segnali di conflitti
interni fra valori e convinzioni interne e ciò che dobbiamo compiere.
Per analizzare se abbiamo formulato un obiettivo ben formato un buon metodo può essere formulare una lista
dei propri valori personali e una lista dei valori del contesto in cui ci troviamo, ad esempio l‘azienda dove
lavoriamo. Dopo aver analizzato le liste, porci le seguenti domande ( Sid Jacobson):
- È possibile che ci siano intenzioni nascoste nell’obiettivo che ho formulato? Se si, esse sono di natura
personale , aziendale, professionale o altro?
Ad esempio:
- Sto cercando di fare colpo su qualcuno? È questo il modo migliore di farlo? Oppure
- Sto forse cercando di evitare qualcos’altro concentrandomi nella realizzazione di questo obiettivo?
Varrebbe la pena investire il mio tempo e le mie energie sull’altra cosa?
- Quanti obiettivi ho? Sono compatibili fra loro? Sono la persona giusta per prendere queste decisioni?
Riesco ad immaginare cosa vedrei, sentirei e proverei se realizzassi il mio scopo?
- Ho preso in considerazione altri possibili risultati o conseguenze del raggiungimento di questo obiettivo? In
base alle mie risposte , devo apportare qualche modifica a ciò che avevo deciso?.
Quando si arriva ad un punto fermo, vuol dire che uno di questi processi è in azione, quindi una volta che ci
siamo riusciti a liberare da ognuno di essi, possiamo dedicarci
agli obiettivi che vogliamo.
3.7. L’esperienza
Ognuno di noi ha dentro di sé un bagaglio di esperienze, che possono essere sia utili che inutili, da cui
possiamo attingere, e per farlo abbiamo comunque bisogno di un processo strutturato.
Come detto in precedenza è importantissimo imparare dalle esperienze passate, ma ciò non vuol dire che il
passato deve necessariamente essere la mappa del nostro futuro, cioè proiettarsi nel futuro.
I tipi di problemi che si possono incontrare possono essere suddivisi in (Sid Jacobson 2008):
1. Problemi personali;
2. Problemi interpersonali e di comunicazione;
3. Problemi relativi alla formazione
4. Problemi sistemici;
Problemi personali:
Per problemi personali non si intendono problemi emozionali o psicologici, ma che il problema è ristretto ad
una sola persona o che è una sola persona ad averne la responsabilità.
Un singolo individuo può trovarsi di fronte a difficoltà che riguardano :
- La creatività e motivazione Aver bisogno di una nuova idea o un modo di organizzare gli elementi per
risolvere il problema, la creatività è utile soprattutto nelle situazioni difficili. Inoltre se le persone non
risolvono il problema , può darsi che ciò sia dovuto ad una mancanza di energie che l’esperienza
L’intenzione della nostra comunicazione, che trasmettiamo alle persone quando chiediamo loro di seguire un
corso di formazione, influenzerà il loro atteggiamento nei confronti del corso stesso.
Problemi sistemici:
In un organizzazione le persone hanno bisogno di comunicare tra di loro per lavorare, più grande è
l’organizzazione e più complicate diventano le vie di comunicazione. Ciò aumenta la possibilità di fraintesi,
perciò le persone tenderanno a crearsi dei mezzi propri per svolgere il proprio lavoro senza servirsi
dell’organizzazione e delle sue regole, quando l’autorità non è efficace e raggirare il sistema diventa l’unico
2 Le mappe familiari
Le mappe rappresentano lo strumento per ottenere la rappresentazione grafica di una famiglia.
Una mappa familiare è come uno schema organizzato che, anche se non ci fornisce informazioni sulle
transazioni familiari, semplifica e ci aiuta a riordinare dati e a fare delle ipotesi su quali potrebbero essere i
bisogni di una famiglia. Forniscono notizie sulla quantità d’informazioni, sui confini, sulla struttura
gerarchica e sugli schieramenti del sistema familiare.
• I confini ci dicono della permeabilità o meno di una famiglia
• La struttura gerarchica evidenzia gli aspetti strutturali del sistema e quindi le gerarchie esistenti al suo
interno (es. genitori/figli).
• Gli schieramenti indicano le alleanze tra i membri
3 I miti familiari
Il mito familiare è dunque come un regola alla quale tutti i membri della famiglia devono attenersi, in quanto
vincolati da debiti morali e legami di realtà nei confronti del gruppo. Ci indicano ad esempio come si fa il
papà, la mamma, come si comporta un nonno ecc… Inoltre ci indicano le modalità di fronteggiare alcuni
eventi importanti come le separazioni, le nascite, i lutti: “In queste situazioni ci si comporta in questo
modo”.
Pensiamo ad una famiglia con il mito dello “stare insieme ad ogni costo”. Questa regola potrebbe
appartenere alla famiglia al punto tale da impedire alle generazioni successive di separarsi anche in
situazioni particolarmente difficili da portare avanti. Ciò significa che il modello di famiglia a cui ci si ispira
viene costruito attorno alla condivisione di un’immagine idealizzata che è appunto il mito. Un ulteriore
esempio può essere rappresentato dal mito della mamma che deve occuparsi solo dei propri figli, della casa
e del marito, senza avere spazi per sé, né collaborazione da parte degli altri membri della famiglia; oppure un
papà che lavora e sta fuori casa tutto il giorno.
Il mito crea coesione all’interno della famiglia (tutti fanno così) e ne garantisce l’integrità (ognuno ha il suo
ruolo ben definito); inoltre fa da collante tra le varie generazioni che attraverso i racconti trasmettono
modalità di comportamento, ruoli e funzioni. Qualche volta la mitologia familiare passa anche per canali non
verbali (es. vedere la mamma che non esce mai senza il papà e non frequenta amiche).
I temi più frequenti nei miti sono i seguenti:
F 0negazione
B7 familiare: presente nelle famiglie in cui la comunicazione è ritenuta impossibile;
F 0armonia
B7 familiare: caratteristica delle famiglie estremamente unite e sempre in accordo;
F 0condivisione
B7 totale delle informazioni: caratteristica delle famiglie in cui i membri si dicono tutto.
In alcune realtà sociali un esempio di mito diffuso è quello del familismo, caratterizzato da
un’ipervalorizzazione delle relazioni all’interno della famiglia a discapito delle relazioni sociali ad essa
esterna.
distinzione tra coalizione e alleanza in quanto quest’ultima definisce l’ unione di due o più individui che
hanno un obiettivo comune e cercano di raggiungerlo nel rispetto delle relazioni del sistema. Avere alleanze
all’interno della famiglia, e non solo, è sempre una modalità positivamente funzionale al sistema familiare
che non danneggia né chi appartiene alla famiglia né chi non ne fa parte. La coalizione rappresenta invece
una modalità assai disfunzionale. All’interno di una coalizione il passaggio delle informazioni non è mai
pertinente, per cui i confini non sono mai distinti ma tendenzialmente diffusi. I membri della coalizione non
hanno uno scopo comune se non quello di arrecare danni a terzi, quindi tra loro non sarà possibile creare un
legame autentico.
F 0La
B 7 triangolazione può essere definita come una coalizione instabile e si verifica, ad esempio, quando un
figlio viene alternativamente richiamato dai genitori e rimane confuso tra loro. In questa continua
oscillazione tra mamma e papà, schierandosi alcune volte con un genitore, altre volte con l’altro, il genitore
non scelto leggerà tale esclusione come un attacco, provocando nel figlio rimorsi e sensi di colpa. Si tratta di
una situazione disfunzionale per il figlio, anche perché gli vengono date informazioni che non gli
competono.
F 0Infine,
B7 la deviazione, è rappresentata dalla modalità di due persone che in disaccordo tra loro indirizzano
il loro conflitto su un terzo. Il passaggio del conflitto su una terza persona non lo rende facilmente
identificabile, rendendo più ostica la sua risoluzione. La deviazione è una modalità molto comune nelle
coppie che per mantenere un’apparente armonia scaricano il loro conflitto coniugale sul figlio. In queste
particolari coppie, i genitori possono considerare il comportamento del figlio distruttivo e quindi unirsi per
combatterlo. In questo caso la deviazione assume una forma d’attacco. Se invece i genitori definiscono il
figlio bisognoso, si uniranno per proteggerlo dando alla deviazione una forma d’appoggio.
Lynn Hoffman sottolinea che nei sistemi relazionali più ampi, formati da numerosi triangoli, come ad
esempio una famiglia, vi sono due tipiche forme di bilanciamento delle varie triadi, di raggiungimento di una
compatibilità. Nella prima, i componenti del sistema si polarizzano in due gruppi opposti, mentre nella
seconda tutti si associano contro un unico membro, ovvero si ha una sorta di accomodamento che identifica
un solo deviante. Quest’ultima modalità di raggiungimento di compatibilità non è auspicabile, in quanto
nell’ambito del sistema, il deviante potrebbe assumere il ruolo di «cattivo».
5 Le reti sociali
7 Confini e gerarchie
Affinché la famiglia possa funzionare in maniera adeguata sono necessari confini chiari e allo stesso tempo
flessibili, una solida gerarchia generazionale, insieme ad una condivisione paritaria del potere
nell’ambito del sottosistema genitoriale.
Quando parliamo di confini ci riferiamo all'insieme di regole che definiscono il passaggio dell’informazione
all’interno di una famiglia.
I confini sono importanti soprattutto per il loro scopo protettivo nei confronti dei bambini, che non
dovrebbero avere accesso a contenuti e informazioni violente, o ai problemi relazionali o economici degli
adulti.
I confini disfunzionali sono i confini diffusi e i confini rigidi. I primi lasciano passare troppe informazioni
creando una situazione in cui i problemi di uno dei componenti della famiglia diventano i problemi di tutti.
Si pensi ad un papà che non compra un giocattolo al figlio di otto anni, spiegandogli che il suo lavoro è
diventato precario e da due mesi non percepisce lo stipendio. Tale spiegazione non protegge il bambino e gli
dà accesso a problematiche di cui non può e non deve farsi carico. Questo tipo di famiglia viene definita
“invischiata”.
I secondi non permettono la comunicazione, quindi in una famiglia dai confini rigidi ci si sente poco presi in
considerazione, non accolti e quasi mai ascoltati, generando una famiglia “disimpegnata”. Si pensi ad un
papà che non accoglie la richiesta del suo bambino senza dare alcuna spiegazione in merito. Il bambino
penserà che la sua richiesta non è degna di considerazione ma senza capirne il perché.
Possiamo anche immaginare una famiglia invischiata, alle prese con la scelta di un villaggio turistico in cui
trascorrere le vacanze. Saranno facilmente osservabili comportamenti di eccessiva preoccupazione e
controllo. Potreste incontrare una mamma che boccia qualsiasi proposta in cui ad esempio l’equipe di
animazione prevede attività per i bambini in un’area non condivisa dai genitori. Nel profilo della famiglia
invischiata, infatti, qualsiasi manifestazione di perdita di controllo sui figli rende la madre ansiosa. Il timore
dominante è quello di diventare impotente. La madre ha un bisogno travolgente di avere una presa continua
sui figli.
Al contrario, in una famiglia disimpegnata potreste trovare una mamma che, rispetto ad una proposta di aiuto
nella gestione dei bambini in vacanza, sembra incapace di scegliere, tende all’isolamento e non sembra
abituata ad entrare in contatto con il mondo esterno per attingere risorse fuori dalla famiglia.
Più in generale, i figli delle famiglie invischiate imparano a dipendere esclusivamente dalla famiglia per
avere un senso di sostegno e di appartenenza, a danno della capacità di reagire in modo differenziato alle
diverse situazioni sociali. Le famiglie disimpegnate, d’altra parte, favoriscono nei figli un sentimento di
indipendenza distorto.
E’ importante inoltre sottolineare che, per il buon funzionamento di un sistema familiare, è importante che
non soltanto i confini tra i sottosistemi ma anche quelli con l’esterno non siano diffusi o rigidi.
Un tipico esempio di disfunzionalità dei confini tra sistema familiare e ambiente è costituito dal fenomeno
della «barriera di gomma», descritto da Wynne con riferimento ai rapporti tra famiglie dove vi è la presenza
di un membro psicotico e il mondo esterno.
Con il termine “barriere di gomma” Wynne si riferisce al fatto che queste famiglie presentano solitamente
confini con l’esterno assai poco permeabili ed appaiono come circondate da una barriera apparentemente
flessibile, ma in realtà estremamente difficile da varcare (Wynne 1961, Wynne et al. 1958).
Quando parliamo invece di una solida gerarchia generazionale ci riferiamo alla struttura del potere intesa
come adempimento del ruolo genitoriale. In una famiglia ben funzionante, i genitori dovrebbero essere in
grado di esercitare la loro autorità con potere esecutivo, seppure in modo flessibile e razionale, senza che vi
siano eccessive disparità di potere tra padre e madre (Walsh 1995). Detto con le parole di Hellinger,
riferendosi al suo concetto di Ordine, “Per un corretto funzionamento di una famiglia è necessario che i
genitori sappiano fare i genitori”.
10 Il ciclo di vita
Il tema del ciclo di vita familiare è nato e si è sviluppato in ambito sociologico nei tardi anni ‘40, grazie
all’opera di Hill e Duvall (Hill 1970, Duvall 1977).
Il ciclo di vita familiare si articola in una serie di fasi, ognuna delle quali deve essere superata per poter
passare alla fase successiva. In ogni punto di transizione è importante notare il coinvolgimento di quattro
generazioni che si trovano a cambiare insieme.
Fantastichiamo su una famiglia con più figli adolescenti, il nodo del cambiamento è rappresentato non solo
dal figlio che inizia ad uscire per esplorare il mondo dei coetanei, ma anche dai genitori che devono venire a
patti con l’autonomia del figlio e dai nonni che devono accettare di aver raggiunto un’età avanzata che viene
evidenziata da tutti gli indicatori esterni (Bertrando 1997).
Se si incontrano difficoltà in questo processo di cambiamento, il ciclo vitale può bloccarsi, oppure la tappa in
questione può venire superata in modo incompleto.
Infatti, la famiglia, nel corso del suo ciclo di vita, incontra degli eventi critici che caratterizzano specifiche
fasi e la cui risoluzione permette il passaggio alla fase successiva. Si può operare una distinzione tra eventi
critici prevedibili o normativi (eventi che la maggior parte degli individui e delle famiglie incontra nel corso
del proprio ciclo di vita e che sono in un certo senso attesi, come matrimonio, nascita dei figli, crescita, ecc.)
ed eventi critici imprevedibili o paranormativi (eventi che, anche se frequenti, non sono del tutto prevedibili,
come crisi economiche, malattie, morti premature, divorzi ecc.)
Il blocco del ciclo vitale si verifica quando, nel corso di una determinata fase, si verifica un evento
paranormativo e successivamente non avvengono le ridefinizioni delle relazioni interpersonali e la
riorganizzazione del sistema che sarebbero necessarie per passare alla fase successiva. Pensiamo ad esempio
ad un giovane fidanzato che sta per sposarsi e, dopo la morte improvvisa del padre, sente di dover affiancare
la mamma rinunciando alle nozze.
Si parla invece di passaggio incompleto quando il passaggio alla fase successiva avviene soltanto
apparentemente, senza che si siano in realtà modificate le relazioni interpersonali e le modalità di
funzionamento del sistema familiare. È per esempio il caso di una persona che si sposa senza essersi
2. Formazione della coppia: In questo secondo stadio un lavoro positivo di ristrutturazione deve portare
all’organizzazione del sistema coniugale e si devono “ridefinire” le relazioni con le famiglie estese e con i
gruppi di appartenenza dei coniugi. Si può verificare che in alcune famiglie uno o entrambi i membri della
coppia non hanno rielaborato in modo costruttivo il distacco dalla propria famiglia di origine (scarsa
differenziazione), per cui risulta limitata la capacità di realizzare un efficace coinvolgimento nel nuovo
gruppo familiare, e da qui possono sorgere problemi all’interno della nuova coppia;
3. Nascita del primo figlio e famiglia con bambini piccoli: in questo stadio il processo emozionale centrale
è l’accettazione dei figli come nuovi membri del sistema. In altri termini, vuole dire: la formazione del
sottosistema genitoriale, il riassestamento di quello coniugale per fare spazio ai figli e il riadattamento delle
relazioni con le famiglie di origine dove andranno “rinegoziati” i ruoli di genitori e nonni;
4. Famiglia con adolescenti: Nella famiglia con adolescenti deve essere aumentata la flessibilità dei confini
all’interno della famiglia per permettere lo svincolo dei figli. Se ciò avviene, l’adolescente si sentirà libero di
entrare e uscire dal sistema famiglia senza nessun tipo di condizionamento o di costrizione. In questa fase vi
è una nuova attenzione ai rapporti di coppia;
5. Famiglia in cui i figli adulti escono di casa: Nel quinto stadio il processo emozionale centrale sarà
l’accettazione di un numero sempre maggiore di movimenti di uscita e di entrata nel sistema: in pratica ciò
comporterà nuovi interessi entro il sottosistema coniugale degli adulti, lo sviluppo di relazioni alla pari tra
genitori e figli adulti e la ridefinizione di relazioni per includere nipoti e generi/nuore;
6. Famiglia nell’età anziana: Il sesto stadio riguarda l’accettazione del cambiamento dei ruoli
generazionali, del mantenimento del funzionamento di coppia, del riconoscimento di un ruolo più centrale
alle generazioni di mezzo.
Il modello di sviluppo proposto da Carter e McGoldrick presuppone che la famiglia attraversi una serie di
fasi. Ogni fase è caratterizzata da specifici compiti di sviluppo, che comportano una ristrutturazione dei
rapporti a livello di coppia, delle relazioni genitori-figli e di quelle con la famiglia d’origine e la cui
soluzione consente il passaggio allo stadio successivo. I compiti di sviluppo sono dunque obiettivi finalizzati
alla crescita in un determinato periodo della vita della famiglia.
Per Haley non sempre la famiglia riesce ad affrontare tali compiti evolutivi. Qualora il sistema familiare non
riesca ad affrontare con successo il compito di sviluppo che contraddistingue la fase del ciclo vitale che sta
attraversando è probabile che si verifichi una sofferenza del sistema.
1 Premessa
Il presente lavoro vuole illustrarci il ruolo dell’empatia e della responsabilità interpersonale nel settore
turistico. “Vedere le cose con gli occhi del turista è la via mastra da percorrere per fare imprenditoria nel
turismo. Si cambia destinazione secondo l’umore, si cambia albergo secondo le suggestioni, si cambia modo
di far vacanza secondo gli stati d’animo”.
5 Cos’ è l’ empatia
Ma cos’è l’empatia? Come può essere definita? C’è differenza tra i termini empatia e simpatia, talvolta usati
impropriamente come sinonimi. Il termine einfühlung (in tedesco empatia), coniato da Tichener, evidenzia
bene la differenza tra le due condizioni. L’empatia riguarda, infatti, il “sentire dentro” lo stato emotivo di un
altro, vale a dire condividere l’emozione dell’altro al punto che essa diventa, se pure in modo vicario, la
propria emozione. Nell’empatia la distanza tra le persone si riduce, a tal punto, che chi empatizza fa proprie
le emozioni altrui. Laura Boella nel suo libro “Sentire l'altro. Conoscere e praticare l'empatia” (Raffaello
Cortina Editore, 2006) la definisce con “l'atto attraverso cui ci rendiamo conto che un altro, un'altra, è
soggetto di esperienza come lo siamo noi: vive sentimenti ed emozioni, compie atti volitivi e cognitivi.
Capire quel che sente, vuole e pensa l'altro è elemento essenziale della convivenza umana nei suoi aspetti
sociali, politici e morali. È la prova che la condizione umana è una condizione di pluralità: non l'Uomo, ma
uomini e donne abitano la terra”. L'essenza dell'empatia è saper cogliere quello che gli altri provano o
cercano senza bisogno che lo esprimano con il linguaggio verbale. I “segnali” non verbali, che qualificano e
integrano il linguaggio verbale, sono il tono della voce, l'espressione del volto, la postura, la gestualità.
“L'empatia – afferma Goleman – è il nostro radar sociale” e si basa sull'abilità di captare e decodificare
queste comunicazioni spesso impercettibili e nascoste.
Osservare l’emozione di un’altra persona può, però, dare luogo a reazioni affettive che non sono soltanto di
tipo empatico. Tra queste si colloca appunto la simpatia, che può essere definita come un “sentire con” o,
meglio ancora, un “sentire per” un’altra persona. La simpatia non implica la condivisione del sentire altrui
ed il viverne la stessa emozione. La simpatia, in quanto orientamento emotivo verso un’altra persona,
comporta invece il provare interesse, sollecitudine nei confronti degli altri. Empatia significa dunque una
comprensione dell’altro nel suo interno; ciò implica il sapersi calare nella sua esperienza emozionale e
riuscire a provare ciò che l’altro prova: sentirsi con lui, dalla sua parte, non solo al suo posto, ma nella sua
pelle.
In genere, si fa riferimento a due fondamentali tipi di empatia, definiti come empatia cognitiva ed empatia
affettiva-emozionale (Stephan e Finlay, 1999). La prima consiste principalmente nell’assumere il ruolo o la
prospettiva dell’altro – vedendo il mondo dal suo punto di vista – mentre la seconda consiste essenzialmente
in risposte emozionali che possono essere simili a quelle dell’altra persona (empatia parallela) o in reazione
alle esperienze emozionali dell’altro (empatia reattiva). In letteratura l’empatia viene vista anche come
capacità di condivisione affettiva e come capacità cognitiva di immedesimarsi negli altri, di mettersi dal loro
punto di vista e di comprendere il loro modo di valutare una situazione. Essa è una risposta emozionale che
deriva dallo “stato emozionale” o condizione di un altro.
Arriva all’agenzia una donna particolarmente stressata e confusa rispetto al viaggio da fare, ci riferisce di
essersi separata da poco dal suo compagno:
Cliente: ” Non so bene ancora dove andare…Voglio stare da sola…però conoscere gente…mi serve
rilassarmi….ma non pensare troppo….”
Empatia cognitiva: mettersi nei panni dell’altro.
Operatore: “Mi rendo che se fossi in lei sceglierei una meta mi desse l’opportunità di rilassarsi e allo stesso
tempo di divertirsi e conoscere gente”
Empatia affettiva-relazionale
Operatore:” La capisco perfettamente a tal punto da poterle consigliare una vacanza che mi ha tanto aiutato
in un periodo in cui ho vissuto una situazione analoga”
Esiste un sostanziale accordo fra tutti i ricercatori sul fatto che sono essenzialmente due i processi cognitivi il
cui sviluppo è indispensabile perché si possa parlare propriamente di esperienza empatica: l’abilità di
discriminare e di riconoscere correttamente gli stati affettivi altrui e l’abilità di assumere il ruolo (role-
taking) e la prospettiva dell’altro (perspective-taking).
Con role taking in letteratura si definisce la capacità di mettersi nei panni degli altri, assumendone la
prospettiva e il ruolo, anche quando questo è diverso dal proprio, senza per questo perdere la consapevolezza
del proprio punto di vista, che si conserva attivo e saliente.
Con il termine perspective taking si designa, invece, la capacità di assumere il punto di vista degli altri in
modo da poter inferire la visione che gli altri hanno della realtà. Con perspective taking o assunzione di
prospettiva si intende, dunque, la capacità di vedere il mondo attraverso gli occhi della persona con cui
empatizziamo.
Es. Operatore: ”Capisco cosa cerca, di sicuro non gradirebbe una città romantica dove si troverebbe spesso a
contatto con coppie felici e innamorati!”
In definitiva, l’adozione del punto di vista di un’altra persona e l’identificazione con il suo ruolo sono i
presupposti della comprensione delle emozioni, dei sentimenti e delle azioni di un’altra persona.
Il fenomeno dell’empatia può essere affrontato da diversi punti di vista e analizzato nei suoi diversi aspetti.
Più in generale l’empatia entra in gioco quando si stabilisce una relazione, quindi in moltissime situazioni
della vita, da quelle tipiche della vita professionale a quelle della vita privata, ed è una delle condizioni che
facilita la comunicazione fra due parlanti.
Le competenze sociali ci aiutano, da una parte, nel comprendere i sentimenti, le esigenze, gli interessi, le
aspettative degli altri (comprensione e assistenza in particolare); dall'altra ci aiutano nel gestire con efficacia
le relazioni con gli altri (influenza, comunicazione, gestione del conflitto, collaborazione, ecc.).
Es. : le competenze personali dell’operatore turistico, sopra menzionate, devono essere espresse non
perdendo di vista le aspettative, i desideri e le possibilità che evincono dalle richieste del cliente. Pur
possedendo buone capacità di vendita, buone doti persuasive e ottimi pacchetti promozionali per mete
sciistiche, ovviamente, non sarebbe opportuno proporre, ad esempio, tale pacchetti se si evince che il cliente
non abbia nessuna competenza nell’utilizzo degli sci e alcun interesse a sperimentarsi in una simile
avventura.
Potenziare il livello di competenza emotiva è quindi possibile.
Con una precisazione: le persone cambiano e imparano nella misura in cui sono motivate perché la
motivazione influenza l'intero processo di apprendimento e di crescita personale.
F 0ciò
B 7 che non dice con il silenzio,
F 0ascolto/osservazione
B7 delle tonalità e del modo in cui esprime i contenuti (paraverbale)
F 0ascolto/osservazione
B7 degli sguardi, della gestualità, di come l’altro si presenta e si muove (linguaggio non
verbale)
Esempio:
cliente:” Vorrei fare un viaggio con il mio fidanzato, ma escluderei come mete Parigi, Venezia e Verona…
Vogliamo divertirci! Giusto?-rivolgendosi al partner-” (linguaggio verbale)
La cliente usa un’espressione rassegnata,(paraverbale) distogliendo lo sguardo dall’operatore e inizia a
giocherellare con le dita cambiando la postura in modo continuo e guardando il partner con aria
speranzosa- (linguaggio non verbale)
Da ciò potremmo intuire che la cliente non desidera una meta totalmente ludica ma un qualcosa che le offra
la possibilità di sperimentare anche intimità e romanticismo, e che stia accontentando, suo malgrado, le
8 La riformulazione e la chiarificazione
È importante sottolineare due principali tecniche di base dell’ascolto attivo: la riformulazione e la
chiarificazione. La riformulazione consiste nel ridire ciò che l’altro ha appena detto utilizzando le stesse
parole o in maniera più concisa, non aggiungendo nulla di proprio al contenuto, evitando in tal modo
l’interpretazione. Attraverso la riformulazione l’operatore può ottenere l’accordo da parte della persona e la
persona ha la conferma di essere stata ascoltata. La riformulazione svolge quindi una duplice funzione:
garantisce la corretta ricezione di un messaggio ricevuto dall’utente e, contemporaneamente, comunica
all’utente stesso il rispetto e l’attenzione di cui è fatto oggetto. È come se l’operatore inviasse questo
messaggio: “Sono qui per ascoltarti, sono interessato a capirti con certezza, ti confermo che ti sto seguendo,
continua pure”. La persona se si riconosce nella riformulazione è sicura di essere stata ascoltata e compresa
e così è portata a esprimersi ulteriormente e a collaborare. E’ anche facilitata a rimanere concentrata sul
problema e su come lo vive. La chiarificazione, invece, agevola la comprensione sottolineando anche le
emozioni che accompagnano il contenuto (ad esempio “Mi sembra di cogliere dal suo sguardo uno stato di
preoccupazione”, “Dalle sue parole ho l’impressione di cogliere delle perplessità circa……..”). Anche in
questo caso l’attenzione è posta tanto alla comunicazione verbale quanto a quella non verbale.
Gli ostacoli più frequenti all’ascolto attivo e comprensivo sono: la soggettività (interpretazione soggettiva),
la deformazione professionale (rispondere con una condotta abituale), il significato razionale (fermarsi al
significato letterale delle frasi). Per non incorrere in queste distorsioni sarebbe opportuno che l’operatore
imparasse a neutralizzare gli stereotipi sociali e i pregiudizi di cui è intriso.
9 Comunicare e comprendere
Comunicare è un bisogno psicologico dell’essere umano: infatti attraverso la comunicazione noi riceviamo
dagli altri il riconoscimento della nostra esistenza e del nostro valore personale e sociale. Non è possibile non
comunicare (anche la non comunicazione è una forma di comunicazione) e, facendolo, si interagisce con gli
altri attraverso delle relazioni. Nella comunicazione non vi è solo uno scambio di informazioni, messaggi,
ma nel comunicare ci si scambia anche sentimenti, emozioni. Saper ascoltare è un requisito fondamentale
nella comunicazione e nella relazione con gli altri. Chi non sa ascoltare dà l'impressione di essere
indifferente, di non essere interessato e, di conseguenza, riduce l'efficacia comunicativa e tradisce il principio
di reciprocità e di collaborazione, elementi fondamentali per uno scambio autentico.
Ascoltare con efficacia significa andare oltre quello che l'altro dice (il “sentire” con l'orecchio) e cercare di
capire in profondità le esigenze e le aspettative dell'altro. L'empatia disegna lo spazio della relazione (L.
Boella).
Da questo quadro emerge che l’empatia rappresenta un presupposto del dialogo. Essere empatici non
significa necessariamente amare l’altro, o condividerne le ragioni, ma semplicemente accoglierlo così
com’è, essere in grado di ascoltarlo e di capire il suo mondo soggettivo, comprendere il suo punto di vista
mettendoci da parte, cercando cioè di non filtrarlo attraverso il nostro modo di vedere le cose.
A questo punto sembra chiaro come l’empatia possa intervenire e agire positivamente nella riduzione dei
pregiudizi (Stephan e Finlay, 1999; Batson et al., 1997) facilitando in questo modo le relazioni con gruppi o
F 0igruppi
FC devono godere di uguale status nella situazione di contatto;
F 0iFgruppi
C devono cooperare nel raggiungimento di obiettivi comuni;
F 0l’integrazione
FC dei gruppi deve essere favorita dalle istituzioni.
Così quando si parla di empatia, allora forse è bene riflettere e parlarne come preziosa abilità sociale, come
competenza distintiva di livello superiore, come strumento sofisticato e potente per un’efficace e positiva
gestione dei rapporti interpersonali e della comunicazione organizzativa. Qualcosa di utile a tutti
indistintamente, da portare sempre con sé nella propria valigetta degli attrezzi per comunicare e vivere
meglio!
12 L’ascolto empatico
L’ascolto empatico è il fattore cruciale di una comunicazione efficace. La comunicazione efficace si basa di
fatto sull’accoglienza, sul coinvolgimento personale, sulla responsabilità, sull’empatia, sulla fiducia.
L’ascolto ha un importanza fondamentale nella comunicazione.
E’ importante praticare un ASCOLTO ATTIVO che, al contrario di un semplice
ascolto passivo, promuove una costruzione della realtà, la dinamicità e la
possibilità di una pluralità di nuove prospettive, promuove l’esplorazione di
nuovi mondi possibili, mette al centro le emozioni.
Attuare un ASCOLTO EMPATICO vuol dire :
- “Mettersi nei panni dell’altro”,
- “Camminare nelle sue scarpe”,
- “Vedere il mondo con i suoi occhi”,
- “Entrare in sintonia con l’altro”,
- “Sentire dentro di sé come sente l’altro”.
La conversazione è tanto più produttiva quanto più è fluida e
bidirezionale. È tanto più costruttiva quanto più le persone si aprono tra loro e
sono pronte ad assumere temporaneamente il punto di vista e l’emozione
dell’altro.
Per ottenere questo risultato è necessario L’ASCOLTO EMPATICO, l’ascolto
totale di cui abbiamo parlato.
1 L’attrazione interpersonale
1.1. L’origine dell’attrazione
L’uomo in genere è portato ad accoppiarsi per procreare Ma perché tizio e non caio? E cosa colpisce in
“quella” determinata persona? Per dare una risposta cerchiamo di vedere cosa dà origine all’attrazione.
Gli aspetti che precedono l'attrazione sono cinque:
1. prossimità;
2. somiglianza;
3. complementarietà;
4. caratteristiche fisiche;
5. reciprocità dell’attrazione.
1. Prossimità. Uno degli aspetti più semplici che determina l'attrazione è la vicinanza, o prossimità. Le
persone che con l’individuo interagiscono più spesso, nelle varie sfere della vita -amicizia, studi, professione,
vita sociale, convivenza-, hanno maggiori possibilità di diventarne compagno di vita (è la cosiddetta
vicinanza fisica). Le persone più prossime sono anche quelle che ci sono più vicine quando ne abbiamo
bisogno, per fornirci appoggio o anche solo per una chiacchierata amichevole (vicinanza funzionale e
psicologica). La vicinanza, oltre ad essere una buona base per la nascita dell’attrazione, fornisce anche
maggiori occasioni per verificare i presupposti per l'instaurarsi di rapporti affettivi. Schachter e Back (1950)
dimostrano che l’attrazione e la prossimità sono collegate alla distanza psicologica e funzionale, oltre che
fisica, degli individui.
2. Somiglianza (indicata da Byrne come legge dell’attrazione). E’ stato dimostrato che le persone
preferiscono chi si trova nella loro stessa posizione sociale e culturale – religione, valori, status economico,
interessi, atteggiamenti-. Questo vale sia per le relazioni di coppia sia per quelle amicali.
I ricercatori descrivono due situazioni di somiglianza in cui si creano relazioni:
• a campi chiusi, in cui le persone sono costrette ad interagire tra di loro perché vivono in contesti
fisicamente vicini;
• a campi aperti, in cui le persone sono libere di interagire a seconda delle loro scelte. In questo caso le
persone tendono a scegliere gli ambienti da frequentare, dove incontrano persone potenzialmente simili.
Perché la somiglianza è così importante per l'attrazione?
• il gradimento porta a pensare che ci saranno maggiori probabilità di iniziare una relazione;
• l’approvazione per le nostre credenze e caratteristiche culturali, sociali, economiche e di valori, fa sentire
più vicini;
• il disaccordo su questioni importanti crea inferenze negative tra gli individui, portando alla repulsione tra
dissimili.
3. Complementarietà. Il fatto che le persone scelgono quelle maggiormente somiglianti da un punto di vista
sociale e culturale, non vuol dire che anche da un punto di vista psicologico l’attrazione si determini tra
simili.
Persone ad esempio molto rabbiose hanno bisogno di essere contenute da persone più tranquille e tolleranti.
Allo stesso modo persone più egocentriche stanno meglio con quelle più riservate che lascino loro spazio.
Persone timide hanno bisogno di compagni estroversi che aprono loro la strada al mondo. Persone troppo
Il fatto che gli individui reagiscano prevalentemente in maniera positiva davanti alle persone dotate di un
aspetto gradevole, porterà inoltre queste ultime a sviluppare un carattere più socievole e una maggiore
sicurezza, caratteristiche che a loro volta facilitano la nascita di rapporti interpersonali.
Numerose ricerche evidenziano come la bellezza sia un potente stereotipo: ipotizziamo che la bellezza sia
collegata a tutta una serie di altri elementi desiderabili. Le persone belle hanno successo, sono intelligenti,
socialmente competenti, interessanti, brillanti, indipendenti e sexy. Tutte caratteristiche che l’essere umano
cerca nell’altro/a.
L'aspetto più attraente, soprattutto per le donne, è legato a caratteristiche di tipo infantile, che evocano
dolcezza e tenerezza.
Gli uomini, invece, guardano più gli atteggiamenti che i comportamenti reali.
Recenti ricerche mostrano un effetto sorprendente della familiarità: le persone tendono a preferire i volti che
somigliano al loro. Ovviamente tutte queste variabili possono essere espressione della preferenza per ciò che
è familiare e sicuro, rispetto a ciò che non è familiare e potenzialmente pericoloso.
Nella valutazione delle caratteristiche fisiche utilizziamo i cinque sensi: per alcune persone è importante il
profumo della pelle, per altri il suono della voce, per altri, ancora, il contatto fisico, anche un semplice
sfioramento, oppure, semplicemente l’aspetto fisico superficiale. In ogni caso i modelli su cui si valuta la
bellezza fisica sono largamente influenzati dai media e quindi hanno caratteristiche comuni ben definite
culturalmente.
5. Reciprocità dell’attrazione. L'aspetto più importante che determina l'attrazione è la sua reciprocità, cioè il
fatto di ritenere di essere graditi all'altro. L'approvazione da parte degli altri è una delle maggiori
gratificazioni che possiamo ricevere: tenderemo, quindi, a contraccambiare l'interesse che gli altri provano
per noi, a meno che questo non sia percepito come falso, o proveniente da persone della cui capacità
discriminativa non abbiamo particolare stima.
Ciò che pensiamo influenza le nostre azioni, ed esse influenzano le risposte degli altri. Quando crediamo di
piacere a qualcuno, modifichiamo il nostro comportamento entrando in sintonia e, quindi, cominciamo ad
attrarre oltre che ad essere attratti. Le persone con stima di sé moderata o positiva rispondono positivamente
all'attrazione reciproca; al contrario, quelle che hanno un'autostima negativa rispondono in maniera diversa,
con poca fiducia, non considerando il comportamento amichevole degli altri. Questo perché la bassa
autostima porta la persona a pensare di essere poco attraente e di conseguenza qualunque apprezzamento è
visto come ingiustificato.
Alcuni esperimenti hanno cercato di evidenziare cosa le persone ricordano maggiormente relativamente alle
proprie relazioni amorose o di amicizia. I risultati hanno mostrato che l'attrazione reciproca e la bellezza (sia
fisica, sia legata alla personalità) vengono ricordate con maggior frequenza. Università Telematica Pegaso
L’attrazione interpersonale e il comportamento prosociale
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è
severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul
diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 7 di 23
1.2. L’amore
Uno dei legami più forti che ci unisce agli altri è l’amore.
L'amore può avere diversi oggetti: la patria, i genitori, il compagno.
Ma è l'amore romantico quello a cui più spesso si fa riferimento quando si parla di amore. Gli psicologi
sociali che si sono occupati di questo argomento definiscono l'amore come un sentimento più profondo e
specifico rispetto al “piacersi”, che implica la tendenza a prendersi cura dell'altro, ed è nella
maggioranza dei casi accompagnato da una componente di eccitazione sessuale.
Le relazioni d'amore sono mediamente più intense e gratificanti dei rapporti amicali, ma anche la loro fine è
sentita e vissuta come molto più stressante; inoltre tali relazioni mediamente non procedono lungo una linea
retta che porta dalla conoscenza all'innamoramento, all'amore, al matrimonio. Mediamente le relazioni
romantiche sono caratterizzate da periodi conflittuali, allontanamenti, riconciliazioni, mediazioni, confronti.
È interessante notare come non solo le persone tendono ad avere più relazioni romantiche nel corso della
loro vita, ma che molti dei divorziati si risposino o trovino nuovi compagni dopo pochi anni: il che vuol dire
che le persone continuano a credere nell'amore, anche quando ne hanno sperimentato personalmente il
fallimento. I rapporti d’amore o amicizia risentono della nostra personalità di base e di come vengono intesi
dalla cultura sociale di appartenenza.
Ricordo di mia nonna che non riusciva a capire perchè avessi lasciato un ragazzo a suo parere bello, di buona
posizione sociale, in salute, appartenente a famiglia onesta. Quando le dissi che non riuscivamo a
comunicare e che il senso che davamo alla nostra vita era diverso mi rispose: “Proprio non riesco a capire
voi giovani! Non dico che sbagliate, anzi i vostri tempi mi piacciono più dei miei, ma quando io ero ragazza,
in un marito si ricercavano altre cose, quindi io faccio molta fatica a capire il vostro punto di vista, ma mi
fido di te quindi penso che fai bene!”
Una distinzione classica che si introduce è quella tra:
compassione e passione
La compassione è un sentimento di intimità e di affetto che privo però di passione o eccitazione psicologica;
può essere presente nelle relazioni di amicizia, o sessuali di lungo periodo insomma dove c’è una forte
intimità e un profondo affetto.
La passione invece presuppone un intenso desiderio nei confronti dell'altra persona, eccitazione psicologica,
sentimenti intensi e forte passionalità.
1.3. Due teorie sull’amore: la teoria triangolare, l’approccio sociobiologico
La teoria triangolare dell'amore di Sternberg 1986/'88
Oltre alla distinzione tra innamoramento e attrazione gli psicologi sociali hanno formulato diversi approcci
alla teoria sull’amore. Parleremo di quello più importante cioè: la teoria triangolare dell’amore di Sternberg
1986/'88
Secondo Sternberg l'amore è composto da tre elementi basilari:
l'intimità, la passione e l'impegno:
· l’intimità: i sentimenti di vicinanza e di legame con il partner
· la passione: è l’eccitazione psicologica e fisica che si prova nei confronti del partner
· l’impegno: comporta due decisioni: una a breve termine (quella di amare il partner) e una a lungo termine
(mantenere l’amore e restare con il partner).
2 Il comportamento prosociale
Il comportamento prosociale è una qualsiasi azione commessa allo scopo di arrecare beneficio ad un'altra
persona. Un comportamento prosociale che non tiene conto del proprio interesse è l'altruismo.
Le domande che ci si è posti a questo riguardo sono varie. Le persone aiutano solo quando c’è qualche forma
di beneficio per se stessi o anche quando non c’è nessun vantaggio personale? Le persone aiutano sulla base
di una motivazione altruistica o anche sulla base di una motivazione egoistica? Vi è l’empatia alla base del
comportamento prosociale o vi sono anche altre motivazione?
In psicologia sociale lo studio dei fattori causali della messa in atto di comportamenti prosociali e altruistici
è recente.
Essa prende avvio dall’analisi di episodi di mancato soccorso.
1. La probabilità di attuazione di comportamenti altruistici è governata in parte da fattori relativi alla
situazione. Tra questi un ruolo importante è giocato dalla consapevolezza di essere o meno l’unica persona
presente, cioè l’unica possibilità per la vittima di ricevere aiuto. In questo caso intervengono due fenomeni:
l’ignoranza pluralistica o collettiva, e la diffusione della responsabilità, di cui parleremo diffusamente più
avanti.
2. Lo studio del comportamento prosociale si è indirizzato anche verso l’analisi dei tratti associati alla
personalità altruistica; tuttavia si constatò che la dimensione di personalità non era di per sé sufficiente per
prevedere la messa in atto di comportamenti altruistici. Si è visto come l’elemento principale che precede
l’attuazione di una risposta prosociale sia l’empatia, cioè la capacità di farsi prossimo all’altro anche
attraverso l’assunzione della prospettiva altrui e la percezione di somiglianza.
3. Alcuni autori (Cialdini) hanno messo in luce come spesso l’interesse per la sorte dell’altro non sia frutto di
una vera e propria empatia, quanto piuttosto di un proprio stato d’animo negativo che trova nel
comportamento altruistico una modalità di alleviamento: secondo l’ipotesi del sollievo dallo stato d’animo
La psicologia sociale
La psicologia sociale condivide l'idea che il comportamento altruistico può essere fondato sull'interesse
individuale. In particolare la teoria dello scambio sociale sostiene che gran parte delle nostre azioni sono
provocate dal desiderio di massimizzare i guadagni e minimizzare i costi. Dunque le persone aiutano quando
è nel loro interesse farlo, ma non quando i costi superano i benefici. Sembrerebbe così che l'altruismo non
esista. Batson concorda col fatto che in determinate situazioni le persone aiutano per ragioni egoistiche ma
sostiene anche che in altri casi il loro unico obiettivo è aiutare un'altra persona nonostante ciò richieda dei
costi personali. Questo avviene quando si avverte empatia per la persona bisognosa, cioè quando sentiamo il
dolore ed il bisogno che ha l'altro di essere aiutato.
Indipendentemente dalla loro natura, i motivi di base delle persone non sono le uniche determinanti che
spiegano il comportamento prosociale: ci sono fattori situazionali e personali che possono scatenare o
sopprimere tali motivi. Ma come possiamo spiegare il fatto che alcune persone aiutano più di altre? Gli
psicologi si sono interessati alle qualità che portano un individuo ad aiutare gli altri in varie situazioni: la
personalità altruistica.
In realtà, com'è noto, la personalità non è l'unica determinante del comportamento. Infatti le prove sul campo
hanno dimostrato che individui che da un punto di vista personale avrebbero dovuto aiutare di più si
comportavano in maniera completamente diversa, e meno altruisticamente di altri, a seconda delle situazioni.
Sembrerebbe che personalità, fattori situazionali e pressioni ambientali insieme giustificherebbero della
presenza o meno di comportamenti altruistici. Le persone differiscono fra loro nel modo di essere altruiste a
seconda dell’educazione, del sesso e dell’umore. Oltre a ciò, per prevedere se una persona si comporterà in
maniera generosa abbiamo bisogno di considerare la situazione sociale nella quale le persone si trovano.
La personalità dipende dal tipo di educazione ricevuta. Sono importanti i primi anni di vita, ma anche gli
altri momenti del ciclo vitale. Indubbiamente persone più sicure e serene, meno diffidenti, sono più capaci di
prendersi cura degli altri
Le pressioni ambientali agiscono diversamente sul genere. In ogni cultura esistono regole diverse. Per
esempio si assume per gli uomini e per le donne che essi imparino a valutare in maniera differente tratti e
comportamenti. Nelle culture occidentali un aspetto del ruolo sessuale maschile è quello di essere eroico e
cavalleresco, mentre quello delle donne è di essere portate ad allevare la prole, esternare affetto e prediligere
le relazioni intime e a lungo termine. Di conseguenza ci si aspetta che gli uomini prestino maggior aiuto in
situazioni che richiedono gesti eroici e cavallereschi, e che le donne lo facciano quando entrano in gioco
relazioni a lungo termine che presentano meno pericoli, ma più dedizione e coinvolgimento, come può essere
il volontariato o l’assistenza domiciliare. In una rassegna di più di 170 studi sul comportamento altruistico,
Eagly e Crowley hanno trovato che vi è realmente una maggiore probabilità che gli uomini prestino aiuto
quando devono agire in modo eroico e cavalleresco.
L’umore di una persone rappresenta una delle caratteristiche situazionali che favoriscono o meno
l’altruismo: l’atto di aiutare dipenderebbe dall’umore del soggetto. Il nostro umore può variare
repentinamente e proprio questi stati emotivi transitori sono un’altra determinante fondamentale del
Siccome molti di noi valorizzano l’altruismo e il buon umore aumenta l’attenzione nei confronti di questo
valore, ecco allora che essere di buon umore aumenta il comportamento altruistico e di aiuto. Dato che il
sentimento di felicità porta ad un maggiore altruismo, sembrerebbe ragionevole pensare che un sentimento di
tristezza lo faccia diminuire. Sorprendentemente, invece la tristezza può anche portare ad un accrescimento
dell’altruismo, se non altro in determinate condizioni. Questo fenomeno chiamato da Cialdini ipotesi del
sollievo dello stato negativo. È un esempio di applicazione dello scambio sociale dell’ altruismo. Le persone
aiutano qualcun altro allo scopo di aiutare se stesse, ovvero di alleviare le propria tristezza e depressione.
2.2. Alcune determinanti situazionali del comportamento prosociale
Ambienti rurali e urbani
Alcuni studiosi hanno focalizzato i loro studi sulla probabilità di prestare aiuto nelle aree rurali in confronto
con quelle urbane e hanno trovato che le persone delle zone rurali aiutano di più.
Le persone che abitano in piccole città o ambienti rurali sono più portate ad aiutare gli altri. Questo può
dipendere dal più alto grado di socievolezza e fiducia reciproca rispetto agli ambienti urbani.
Alcuni hanno anche ipotizzato che chi abita in città sia sottoposto ad un bombardamento continuo di stimoli
che lo spinge ad un comportamento più introverso ed egoistico (ipotesi del sovraccarico urbano).
Il senso di responsabilità rispetto a una certa situazione
L’analisi della situazione che segue metterà in luce altri aspetti, come il non sentirsi responsabili di una certa
situazione, possano diminuire la possibilità che le persone assumano comportamenti altruistici. Sembrerebbe,
inoltre, che il sentirsi poco responsabili favorirebbe il fatto di non approfondire, per chiarire meglio, cosa sta
succedendo. È come se le persone decidessero di perseverare nell’ignoranza, non assumendosi al
responsabilità di intervenire.
Il caso di Kitty
L'effetto spettatore è un fenomeno ben noto in psicologia sociale che fa riferimento ad comportamento sano
e non patologico, sebbene non sia sempre molto ammirevole. Fu studiato e descritto per la prima volta dagli
psicologi Bibb Latanè e John Darley che presero spunto dalla tragica vicenda di una ragazza di New York:
Kitty Genovese.
New York, 1964. Kitty Genovese era una ragazza che un giorno normale stava tornando a casa quando venne
aggredita e pugnalata. La donna cominciò a chiedere aiuto e qualcuno intimò al malfattore di fermarsi e
questi corse via. Solo un paio di circa una dozzina di spettatori chiamò la polizia fornendo però un resoconto
poco chiaro (un litigio, un furto, ecc.), tanto che la polizia non intervenne immediatamente e nessuno chiamò
l'ambulanza. L'aggressore tornò indietro, trovò la ragazza accasciata davanti al portone di casa, la uccise, la
violentò e la derubò prima di andarsene.
Una volta finita l'aggressione la polizia ricostruì la vicenda e scoprì che almeno 38 persone si erano rese
conto che qualcosa stava accadendo in quei 30 minuti, senza però fermarsi a comprendere la gravità
dell'accaduto e nessuno fu testimone dell'intera aggressione. La vicenda divenne nota perché l'omicidio della
giovane donna fu descritto dalla stampa come esempio di insensibilità e noncuranza verso il prossimo.
Perchè nessuno intervenne? L'effetto spettatore secondo Latanè e Darley può essere spiegato attraverso due
fenomeni: ignoranza pluralistica e diffusione di responsabilità.
L'ignoranza pluralistica o collettiva non è nient'altro che l'estremizzazione del normale processo attraverso
cui impariamo a comportarci in un contesto osservando ciò che fanno i consimili. Nel momento in cui
accediamo in un nuovo ambiente prendiamo spunto dagli altri per capire come agire e ci lasciamo guidare da
chi sembra saperne più di noi. Ciò accade anche nelle situazioni ambigue, dove non sappiamo dare
1 Introduzione
L’interesse verso le comunità virtuali e tutto ciò che concerne quest’ambito così moderno e ormai noto, non
ci è sembrato potesse prescindere da un approfondimento fruibile e originale su quel mondo così popolato al
giorno d’oggi soprattutto dagli adolescenti: il mondo dei videogame.
Partendo dall’assunto che i nuovi adolescenti saranno gli adulti di un prossimo e vicino domani, ci è
sembrato utile scegliere un articolo che avesse a che fare con la realtà virtuale e al contempo con
l’aggressività e il disimpegno morale, sempre più spesso riscontrabili nella nostra società.
Se è vero che l’informazione, tramite la tecnologia e i mass media, può ormai raggiungere gran parte della
popolazione e che questo consente a ciascuno di essere messo al corrente di ciò che accade nel mondo, è
anche vero che procede, di pari passo con quest’assunzione di consapevolezza di ciò che accade nella realtà
circostante, la diffusione di realtà parallele e alternative in cui rifugiarsi quando il mondo sembra andarci
stretto o quando le sue regole sembrano troppo rigide da rispettare.
La scelta dei videogiochi, spesso comunemente contestata, sembra ormai consolidata tra i giovanissimi e, in
particolare, la scelta di videogiochi di stampo violento e aggressivo sembra ormai spopolare.
Purtroppo, conseguentemente a questo fenomeno, pare diffondersi anche una maggiore propensione al
disimpegno sociale e a un abbassamento della moralità negli individui presi in considerazione. Nonostante
alcuni studi dimostrino che vi sia una stretta relazione tra l’uso di videogiochi di tipo violento e determinate
caratteristiche di personalità, possiamo dire che sicuramente va dilagando l’influenza che questi ultimi hanno
sugli atteggiamenti generali di chi ne fa (ab)uso.
Nell’articolo scelto emergeranno tali tematiche e si cercherà di far luce su come e quanto i videogiochi
violenti influiscano nel determinare certi comportamenti tutt’altro che prosociali.
3 Sintesi
3.1 Videogiochi e aggressività
1) L’uso dei videogiochi è da circa due decenni una attività ricreativa in diffusione sempre più ampia ma il
problema fondamentale sono i tempi di utilizzo e i contenuti violenti su cui vertono.
2) Diversi sono gli studi che si sono interessati di questo fenomeno in repentina diffusione e diverse le
prospettive degli autori:
F 0Singer
B7 2007: la ricerca non è ancora stata in grado di stabilire con chiarezza la direzione causale nella
relazione fra utilizzo di videogame e comportamento;
F 0Anderson
B7 e Bushman: l’esposizione a videogiochi violenti è correlata con l’aumento temporaneo dell’
aggressione;
F 0recenti
B7 ricerche (Ferguson & Kilburn, 2009): non c’è correlazione tra l’uso di videogiochi a contenuto
violento e il comportamento aggressivo nella vita reale.
3) Molto diffuso e preso in alta considerazione nel panorama scientifico è il modello GAM (General
Aggression Model) che collega l’esposizione a contenuti mediatici violenti a variabili legate alle differenze
individuali, nella spiegazione dello sviluppo di comportamenti aggressivi. Secondo questo modello, variabili
situazionali e componenti individuali interagiscono fra loro, influenzando lo stato d’animo dell’attore sociale
sul piano cognitivo, emotivo e dell’attivazione fisiologica (Anderson & Bushman, 2001)
4) Sulla base delle meta-analisi finora condotte, sembra che gli effetti provocati dai videogiochi siano meno
forti di quelli provocati dalla violenza in televisione; la discrepanza potrebbe però essere dovuta al minor
numero di studi sui videogame (Polman, de Castro, & van Aken, 2008).
5) Diversamente (Anderson et al., 2010; Bushman, 2011) ci sarebbero almeno tre ragioni per cui gli effetti
generati dai videogiochi ad alto contenuto violento siano peggiori rispetto a quelli generati dai mass media:
F 0nei
B 7 videogame il giocatore è diretto protagonista di ciò che accade diversamente da quanto accade quando
è spettatore di violenza trasmessa attraverso i mass media. Inoltre con la nuova tecnologia la possibilità di
essere il protagonista aumentano anche a livello concreto con l’utilizzo di particolari congegni in cui è
possibile dirigere i protagonisti del gioco attraverso il proprio corpo;
F 0èB 7
molto più facile immedesimarsi col personaggio di un gioco violento a maggior ragione se c’è la
possibilità di creare un avatar a proprio piacimento;
F 0all’interno
B7 di un videogame spesso capita che vi sia un premio o una ricompensa per le azioni violente
commesse, il che sicuramente incrementa la messa in atto (virtuale) di queste.
6) alcuni studi sembrano soffermarsi sull’importanza dei giochi a contenuto violento con funzione catartica
e liberatoria nella vita quotidiana. ((Bushman & Anderson, 2002)
7) Sembra che, a confutare ciò che precedentemente è stato detto, i giochi ad alto contenuto violento abbiano
effetti negativi sia sul comportamento prosociale Carnagey & Anderson, 2005) sia sulla sensibilità di
ciascuno rispetto alla violenza (Carnagey & Anderson, 2007), favorendo i pensieri aggressivi ancor prima
che le azioni (Anderson et al., 2004; Anderson & Bushman, 2001; Anderson & Dill, 2000; Bushman &
Anderson, 2002; Greitemeyer & McLatchie, 2011).
3.2 Videogiochi e moralità
8) Negli ultimi venti anni, i progressi tecnologici nell’hardware e nella grafica tridimensionale hanno portato
a esperienze di gioco sempre più realistiche e il contenuto violento non è più l’unico aspetto dannoso degno
“IL POTERE DELLE PAROLE: GLI EFFETTI NEGATIVI DELLE ETICHETTE DENIGRATORIE” :
1 Introduzione
Il Potere delle Parole: Gli Effetti Negativi delle Etichette Denigratorie
Tratto dalla rivista online in-mind.org
Scritto da Fasoli Fabio & Mazzurega Mara
“E la natura, si dice,
ha dato a ciascuno di NOI
due orecchie ma una sola lingua,
perché siamo tenuti ad ascoltare
più che a parlare”
Plutarco
La comunicazione è un’esperienza usuale e continua di relazione con gli altri, tende quindi ad influenzare
reciprocamente le persone in relazione.
La comunicazione è un processo:
- Sistemico in quanto le persone coinvolte fanno parte di un sistema di influenzamento reciproco;
- Pragmatico in quanto ciò che conta sono gli effetti del comunicare, non le intenzioni, conta il messaggio
che l’altro recepisce, la risposta che si ottiene;
- Strategico in quanto la persona che ha chiari obiettivi da raggiungere si dota di una strategia ben precisa.
Paul Watzlawick definisce la comunicazione un “processo di scambio di informazioni e di influenzamento
reciproco che avviene in un determinato contesto”.
3 Sintesi articolo
3.1 Introduzione
1. Paul Watzlawick definisce la comunicazione un “processo di scambio di informazioni e di influenzamento
reciproco che avviene in un determinato contesto”. E’ impossibile non comunicare: anche l’intenzionale
assenza di comunicazione verbale, di fatto, comunica la nostra volontà di non entrare in contatto con l’altro.
Tutto è comunicazione, anche il silenzio, perché anche con il silenzio si comunica qualcosa.
2. Ogni comunicazione contiene un aspetto di contenuto, la “notizia”, i “dati” e un aspetto di relazione che
definisce i rapporti tra gli interlocutori; Ad esempio, si può dire “Bene!” con l’intenzione di lodare qualcuno
o con tono sarcastico per metterlo in ridicolo. L’aspetto di contenuto è cosa si dice, l’aspetto di relazione è
come lo si dice. E’ quindi l’aspetto di relazione che chiarisce il significato del contenuto.
3.6 Conclusioni
12. Le etichette denigratorie non sono solo parole. Le ricerche qui presentate mettono in luce che ciascuno di
noi, anche solo come spettatore inconsapevole, può esserne pesantemente influenzato. Certo, il nostro
atteggiamento personale e il contesto possono fare la differenza, ma ciò non toglie il potenziale effetto
negativo che le etichette denigratorie possono indurre nelle relazioni interpersonali e intergruppi.
4 Glossario
Contesto. Si intende sia il luogo e il momento in cui l’etichetta denigratoria è utilizzata, sia le persone
coinvolte, ossia chi la usa, chi la subisce e chi assiste.
Destinatario. Per destinatario dell’etichetta denigratoria si intende sia l’individuo sia il gruppo sociale a cui
l’epiteto fa riferimento.
Etichette denigratorie. Singole parole che veicolano un atteggiamento negativo nei confronti della persona
o del gruppo a cui si riferiscono
Spettatore/Ascoltatore. Si intende colui che assiste, legge o ascolta una etichetta denigratoria e non fa parte
del gruppo offeso. L’esposizione a questi epiteti può essere sia volontaria che involontaria.
2 Sintesi dell’articolo
2.1 La psicologia morale
Significato e funzioni del comportamento prosociale
1)Il comportamento prosociale, classicamente inteso, riguarda «azioni dirette ad aiutare o beneficiare
un’altra persona o gruppo di persone».
2) Studi hanno dimostrato come la capacità di aiutarsi e di operare per la collettività siano maggiormente
funzionali non solo per il singolo individuo, ma per la stessa sopravvivenza della specie.
3) Orientare i membri della società verso comportamenti socialmente adeguati (piuttosto che avversare quelli
inadeguati), è stato dimostrato essere più utile ad attivare strategie idonee a prevenire atti di violenza e di
aggressività.
Sviluppo morale e dimensioni della moralità
4) La questione di cosa sia morale o immorale, della divisione tra bene e male, tra giusto e sbagliato è stata al
centro del pensiero filosofico occidentale fin dalle sue origini.
5) In psicologia è stato Piaget (1932) a parlare per primo di “sviluppo morale” nel bambino, evidenziando
come la capacità di discernere fra giusto e sbagliato nascerebbe tra gli 8 ed i 10 anni con lo sviluppo del
gioco cooperativo, quando, cioè, il bambino impara a mettersi nei panni degli altri.
6) La psicologia dello sviluppo morale ha individuato due principali dimensioni della moralità: una riguarda
il far male e la cura degli altri (Gilligan), l’altra riguarda la giustizia e la reciprocità (Piaget).
Valori morali e cultura
7) Gruppi diversi, culture e nazioni diverse, così come persone con ideologie diverse, basano i propri valori
morali su fondamenti diversi.
8) Le persone con ideologie liberali considerano più importanti i valori legati al danno/cura degli altri e
all’uguaglianza, mentre i conservatori basano i propri valori morali maggiormente sui principi di rispetto
dell’autorità, lealtà verso il proprio gruppo e purezza (Graham et al., 2011). Similmente, le culture orientali
(ossia collettiviste) valorizzano maggiormente i principi legati alla purezza e alla lealtà verso l’ingroup
rispetto alle culture occidentali (individualiste).
Moralità, socievolezza e competenza
9) La moralità, intesa come volontà individuale e privata del bene si contrappone alla socievolezza, intesa
come l'abilità di formare connessioni sociali con gli altri e definita da caratteristiche quali amichevole e
piacevole, e alla competenza, che riguarda l’efficacia e l’abilità delle persone di svolgere con successo
determinati compiti.
10) Numerosi studi hanno dimostrato che la moralità, rispetto a socievolezza e competenza, è la dimensione
predominante attraverso cui giudichiamo sia gli individui sia i gruppi.
11) Per sopravvivere, le persone devono comprendere se gli altri siano animati da buone o cattive intenzioni
verso di loro, ossia se siano morali e socievoli, così come se siano in grado di mettere in atto tali intenzioni,
ossia se siano competenti.
2.2 Il linguaggio degli insulti
Gli insulti
12) Gli insulti rappresentano una pratica sociale relativamente frequente nelle interazioni tra persone, tesa a
rendere l’altro oggetto di disprezzo, negando ciò che è a lui vicino e caro e colpendolo nell’onore e nella
reputazione.
3 Glossario
Giudici indipendenti. Persone esperte sul tema oggetto di indagine e all’oscuro delle ipotesi di ricerca e
delle condizioni sperimentali, la cui attività consiste nel codificare o valutare le risposte dei partecipanti ad
un determinato compito.
Sviluppo cognitivo. Riguarda il modo in cui si sviluppano le capacità del bambino di pensare e comprendere
il mondo fisico e sociale. Sviluppo morale. Riguarda la nascita e lo sviluppo del concetto di moralità
dall’infanzia all’età adulta.
Teoria dei Fondamenti Morali. Secondo questa teoria i valori morali si basano su fondamenti innati e
universali, che però rivestono un’importanza diversa in culture diverse. La teoria riconosce cinque principali
fondamenti che riguardano: Prendersi cura vs. Fare del male, Onestà vs. Disonestà; Lealtà vs. Tradimento;
Autorità vs. Sovversione; Santità vs. Degradazione.
1 Introduzione
Nella lezione sul “Sé cognitivo in relazione” abbiamo affrontato il tema di quanto sia importante l’influenza
esercitata dagli altri sul pensiero e sul comportamento del singolo individuo. Gli studi di Psicologia Sociale
dimostrano, infatti, che i nostri pensieri e le nostre percezioni riguardo agli altri, a noi stessi ed alla società
nel suo complesso, anche se non necessariamente riflettono la realtà con esattezza, ci guidano, comunque, a
crearla. Le nostre azioni sarebbero, dunque, guidate dalle nostre convinzioni che abbiamo imparato a
formarci sugli altri e noi stessi, veritiere o meno che siano.
Abbiamo, inoltre, visto che l’insieme organizzato delle nostre informazioni e percezioni su un evento o una
persona qualsiasi prende il nome di “schema”. Gli schemi sono strutture cognitive attraverso cui vengono
organizzate le conoscenze sociali in memoria e costituiscono i filtri attraverso cui “leggiamo” noi stessi ed il
mondo, guidandoci nella comprensione della realtà, nelle scelte e nei comportamenti.
3 Sintesi
3.1 La percezione sociale
1. I nostri pensieri e le nostre percezioni riguardo agli altri, a noi stessi ed alla società nel suo complesso,
anche se non necessariamente riflettono la realtà con esattezza, ci guidano, comunque, a crearla.
2. L’insieme organizzato delle nostre informazioni e percezioni su un evento o una persona qualsiasi prende
il nome di “schema”. Gli schemi sono strutture cognitive attraverso cui vengono organizzate le conoscenze
sociali in memoria e costituiscono i filtri attraverso cui “leggiamo” noi stessi ed il mondo, guidandoci nella
comprensione della realtà, nelle scelte e nei comportamenti.
3. Comprendere ciò che ci circonda risulta essere fondamentale per la sopravvivenza; dal punto di vista
evoluzionistico è utile, dunque, potersi formare un giudizio sociale in tempi rapidi, escogitando alcune
strategie per riuscire a dare un senso all’ambiente sociale nel minor tempo possibile.
5. La ricerca empirica ha mostrato che queste due dimensioni, insieme, determinerebbero oltre l’80% delle
impressioni positive o negative del sociale; inoltre, tali dimensioni sembrerebbero essere rilevanti in tutte le
culture.
6. Rispetto alla dimensione “competenza”, il “calore” sembra giocare un ruolo più centrale nella percezione
sociale. È stato, infatti, dimostrato che gli osservatori interpretano il comportamento altrui più nei termini di
calore che di competenza (Wojciszke, 1994), che il calore è più importante quando si valuta il
comportamento degli altri (Abele & Wojciszke, 2007), che le persone percepiscono il calore di qualcuno più
rapidamente rispetto alla competenza e che ciò avviene in una frazione di secondo.
7. Capire se le intenzioni di una persona sono buone o cattive è prioritario rispetto a comprenderne la
capacità di metterle in atto facilitando la fiducia, facilita la comunicazione e l’assorbimento delle idee, e
aiuta dunque a connettersi con chi ti circonda.
8. Nella valutazione di noi stessi, invece, gli aspetti relativi alla competenza risulterebbero più rilevanti;
quanto più il target da valutare è vicino al sé, tanto più la valutazione sulle due dimensioni sarà simile alla
percezione di sé. Il calore risulterebbe, quindi, la dimensione più importante quando si valutano persone
distanti da noi, ma tale pattern si invertirebbe quando ad essere valutati siamo noi stessi o persone a noi
molto vicine.
11. Come per la percezione di singoli individui, anche la percezione dei gruppi risente del contesto nel quale
la valutazione avviene; quando una persona viene valutata positivamente su una dimensione, viene valutata
positivamente anche sull’altra (un fenomeno noto in psicologia sociale come effetto alone). Esprimere
valutazioni in contesti comparativi fa emergere, invece, un fenomeno diverso, noto come processo di
compensazione (Judd et al., 2005). In altre parole, percepire un gruppo (o un individuo) come migliore di un
altro su una delle due dimensioni porta a compensare tale valutazione sull’altra dimensione.
12. Un gruppo valutato positivamente su entrambe le dimensioni suscita in noi sentimenti di ammirazione e
orgoglio (soprattutto se si tratta dell’ingroup), ma gruppi stereotipizzati in modo negativo su entrambe le
dimensioni suscitano disprezzo e disgusto.
13. I gruppi valutati come calorosi ma non competenti solitamente sono visti in modo benevolo perché
inoffensivi, elicitando sentimenti di pietà e compassione. Al contrario, gruppi percepiti come competenti ma
privi di calore sono rispettati per la loro competenza ma temuti per l’assenza di calore, suscitando sentimenti
di invidia e gelosia.
3.4 Conclusioni
14. Questo articolo evidenzia quanto e come calore e competenza, due tratti umani apparentemente
universali, guidino la nostra percezione degli altri e svolgano un ruolo nella sopravvivenza degli esseri
umani. Se qualcuno entra nel nostro ufficio, si avvicina in un vicolo buio, si siede accanto a noi in autobus,
abbiamo bisogno di capire il prima possibile se questo individuo può essere una minaccia e se è in grado di
mettere in atto le proprie intenzioni.
4 Glossario
Cluster. Il termine inglese cluster viene utilizzato prevalentemente in ambito scientifico e tecnico e indica
generalmente un gruppo di unità simili o vicine tra loro, dal punto di vista della posizione o della
composizione.
Percezione Sociale. La Percezione sociale è quella parte della percezione che permette alle persone di capire
le altre persone nel loro mondo sociale. Ci consente dunque di esprimere giudizi e impressioni su altre
persone.
Pregiudizio. Si ha un pregiudizio quando si ha un’emozione, un’opinione, una valutazione negative di un
individuo basandosi unicamente sull’appartenenza di gruppo di tale individuo.
Stereotipi. Sono immagini relativamente statiche che possediamo di varie categorie di persone. Quando
utilizziamo gli stereotipi per esprimere un’opinione su un gruppo sociale tendiamo ad attribuire una serie di
tratti e caratteristiche a tutti i suoi membri senza considerare le variabilità individuali.
“LA NEGOZIAZIONE”
La maggior parte delle negoziazioni comprende per forza di cose sia la dimensione di value claming
(pretendere concessioni come se fosse un diritto), sia quelle definite di value creating (cooperare per creare
opportunità per più concessioni reciproche). Questo stato di fatto provoca una tensione tra le strategie e la
dimensione interpersonale nel processo negoziale. Infatti non esiste una negoziazione totalmente
competitiva, che impedirebbe la realizzazione di risultati e accordi, così come non esiste nessuna
negoziazione che sia completamente cooperativa. C’è sempre una certa competizione soprattutto nel
processo organizzativo delle proprie priorità e obiettivi che evidentemente sono diversi dagli obiettivi della
controparte (Aquilar, Galluccio, 2009). Come sottolinea Gallucci in un intervista del Febbraio 2002: “La
prima cosa da fare è quella di avere delle priorità precise, capire qual è l’interesse vitale in gioco, se ne esiste
uno; capire gli obiettivi. E’ interessante inoltre conoscere il proprio posto e ruolo nel contesto del sistema
internazionale (chi potrebbe essere dalla tua parte e chi no). Questa è la cosa più importante”.
Fisher e Ury nel loro libro Gettind to Yes pubblicato nel 1981 sintetizzano 3 tipi fondamentali di
negoziazione: negoziazione morbida o soft, negoziazione dura e negoziazione principled (per principi
ragionati). Gli autori enfatizzano le caratteristiche della negoziazione per principi ragionati delineandone gli
elementi da applicare nei diversi contesti negoziali: “ogni negoziazione è diversa, ma gli elementi di base
non cambiano”. I negoziatori principled sono risolutori di problemi e persone cooperative, che hanno come
fine principale il raggiungimento di risultati “saggi”. Secondo gli autori questo tipo di risultati potrebbe
essere ottenuto rispettando le seguenti norme:
1) Separare le persone dai problemi;
2) Investigare gli interessi reciproci e non impuntarsi per difendere i propri;
3) Evitare una linea di confine troppo rigida;
4) “Ampliare la torta”, attraverso un processo di creazione di nuove opzioni e possibilità;
5) Cercare di giungere a dei risultati basati su standard non troppo elevati;
6) Investire sui principi e non sulla pressione sotto cui mettere la controparte
(Fisher e Ury, 1981; Fischer, Ury e Patton, 1991; Fisher e Shapiro, 2005).
Risulta intuitivamente evidente che la semplice conoscenza di queste utili indicazioni non basta per diventare
negoziatori principled, essendo centrale un adeguato assetto personale di base per poter mettere in pratica
queste istruzioni.
2.1 Aspetti cognitivi ed emotivi nella negoziazione
La cognizione è intesa come un processo attraverso il quale un individuo costruisce le rappresentazioni del
suo ambiente, parti di esso o di se stesso; oppure come il prodotto di questo processo. I processi cognitivi,
cioè le modalità con le quali ogni individuo struttura la conoscenza di sé e del mondo, si compongono di
sensazione e percezione, coscienza e attenzione, memoria, apprendimento, pensiero, linguaggio. Le
F 0Può
B 7 essere sviluppata la capacità di cogliere le differenze tra individui in termini di organizzazione
mentale attraverso esercizi che consentono di sperimentare la presenza di sistemi di credenze e di emozioni
e di sperimentare la modificabilità di questi sistemi di credenze-emozioni
F 0Possono
B7 essere osservate e ampliate le strategie di problem solving
F 0Possono
B7 essere migliorate le abilità comunicative
In primo luogo, la crisi dovrebbe essere ben definita per aumentare le probabilità di formulare una risposta
adeguata.
2.8 Conclusioni
In definitiva appare evidente come alcuni fattori psicologici possano giocare un ruolo importante nei processi
di negoziazione, di intensificazione del conflitto, per quanto rappresentino soltanto una parte delle varie
componenti che intervengono in questo processo. Il problema delle controversie, del pregiudizio, dei conflitti
e malintesi sembra non solo risiedere nell’inabilità di capire le altre persone, ma anche nell’abitudine a
considerare soltanto un lato delle cose. Se più persone potessero considerare almeno la possibilità di vedere
differentemente le cose, la comunicazione tra esseri umani probabilmente migliorerebbe in modo rilevante,
sia al livello di relazioni intime sia al livello più globale.
2 Sintesi
1) La negoziazione è “un processo di interazione tra due o più parti in cui si cerca di stabilire cosa ognuna
dovrebbe dare e ricevere in una transazione reciproca finalizzata al raggiungimento di un accordo
mutuamente vantaggioso”. (Rubin, Brown 1975).
2) Diverse teorie evidenziano l’importanza della cooperazione nelle interazioni e nelle negoziazioni come
strategia di prevenzione del conflitto. La Psicologia risulta essere la disciplina che maggiormente mette in
luce gli aspetti alla base dell’atteggiamento cooperativo, essendo questo determinato da fattori cognitivi,
emotivi e relazionali oltre che situazionali.
3) Le modalità con cui gli individui interpretano sé stessi e il mondo (processi cognitivi) e le emozioni
conseguenti a tale valutazione degli eventi (processi emotivi) siano centrali nei processi negoziali.
4) Le emozioni svolgono un potentissimo ruolo nelle interazioni e nella comunicazione, orientando le
risposte delle parti e determinando, quindi, l’esito stesso dei processi interattivi.
5) Oltre a quello delle emozioni può essere sottolineato il ruolo della cognizione nei processi interattivi e
negoziali. Le convinzioni su sé stessi, sugli altri e sulle interazioni, infatti, influenzano la percezione delle
varie situazioni, e spesso sono talmente radicate e profonde da risultare rigide verità assolute. Quindi alla
base di negoziazioni con esito negativo o conflittuale possono esserci forme di distorsione
dell’interpretazione della realtà.
6) Alla base del fallimento di una negoziazione possono esservi alcune distorsioni cognitive quali: pensiero
dicotomico, ipergeneralizzazione, astrazione selettiva etc. etc.
7) Le consapevolezze necessarie per avere delle negoziazioni soddisfacenti e per evitare i conflitti possono
essere riassunte in una serie di fattori:
F 0Ogni
76 essere umano, piuttosto che vivere “nella realtà”, vive in una sua “rappresentazione della realtà” che
può essere più o meno aderente alla realtà comune percepita;
F 0Questa
76 “rappresentazione della realtà” è influenzata da aspetti biologici, antropologici, sociali e
psicologico-individuali;
F 0Da
7 6 questa “rappresentazione” derivano potenti emozioni che possono determinare comportamenti
“LA PROSSEMICA”
1 “Fra me e te”
Il testo che di seguito verrà presentato è una rielaborazione dell’articolo dal titolo “Fra me e te” di Marco
Costa e Ricci Bitti scaricato dal sito http://it.scribd.com
Titolo: “Fra me e te”
Autori: Marco Costa, Pio E. Ricci Bitti
Fra le tante caratteristiche che rivelano qualcosa delle persone c’è anche il modo in cui ci collochiamo nello
spazio o regoliamo le nostre distanze rispetto agli altri e all’ambiente. Queste distanze non hanno solo la
funzione di proteggerci, ma ci permettono anche di comunicare. Il modo in cui occupiamo e gestiamo il
nostro spazio personale rivela, infatti, la nostra posizione sociale, il nostro sesso, la nostra personalità e il
tipo di relazione che stiamo intrattenendo o desideriamo intrattenere, il nostro grado di soddisfazione,
insoddisfazione, disagio.
1.1 La prossemica
Dal punto di vista fisico i nostri confini sono definiti dalla pelle, o tutt'al più dai vestiti. Non così dal punto di
vista psicologico. In questo caso essi vanno al di là sia della pelle che dei vestiti e formano una sorta di
"bolla" che ci circonda e ci segue continuamente, regolando silenziosamente i nostri rapporti con gli altri.
Come tipicamente avviene in qualsiasi comportamento non verbale, nella grande maggioranza dei casi noi
non scegliamo consapevolmente a che distanza stare dagli altri, o in che punto metterci in un gruppo. Tutto
avviene in modo inconsapevole, spontaneo, veloce e fluido. Ciò nonostante, nelle relazioni di tutti i giorni le
distanze che stabiliamo sono un preciso indice della nostra situazione sociale, del nostro sesso, del tipo di
rapporto che stiamo intrattenendo, del nostro disagio o della nostra soddisfazione, ecc. La prossemica è
quella branca della psicologia che studia i comportamenti spaziali, ovvero il modo in cui ci collochiamo
nello spazio e regoliamo le nostre distanze rispetto agli altri e all'ambiente. Il primo studioso a fare ricerche
estensive in questo ambito è stato l'antropologo E.T. Hall il quale, al termine della seconda guerra mondiale,
venne incaricato di studiare come riavvicinare le culture "nemiche" tedesca e giapponese a quella degli Stati
Uniti, così che la successiva cooperazione per la ricostruzione procedesse con maggiore collaborazione e
senza incomprensioni. La storia, del resto, si ripete: terminato il conflitto in Iraq, gli Stati Uniti hanno dovuto
affrontare un problema analogo, quello di farsi accettare da una cultura, quella arabo-musulmana, che è
molto diversa dalla cultura americana, anche in termini di prossemica. Osservando la Figura 1, facendo
attenzione all'organizzazione spaziale della triade di amici formata da due ragazze e un ragazzo. Secondo i
risultati dei nostri studi, quello che avviene comunemente in questi casi è che il ragazzo si siede a lato delle
due ragazze, alla loro destra o sinistra, e non al centro. In questo modo sottolinea il fatto che è un maschio.
Se si mettesse in mezzo alle femmine si assimilerebbe maggiormente a loro e ne andrebbe un po' della sua
mascolinità. Guardando attentamente, poi, vedete che questa distinzione è sottolineata in altri due modi: il
ragazzo mantiene con le ragazze una distanza maggiore rispetto a quella che tengono le ragazze fra di loro,
che siedono molto vicine l'una all'altra. Inoltre, mentre le ragazze sottolineano la loro similarità allineandosi,
il ragazzo non è seduto esattamente di fianco, ma con un angolo di circa 45 gradi. Tutti questi elementi
permettono di scomporre questa triade in due distinte componenti, il gruppo delle due ragazze e il ragazzo.
Fig.1.
Fig.7.
1.5 Spazio personale e ambiente
Le caratteristiche fisiche dell'ambiente e degli edifici possono influenzare la nostra percezione di
sovraffollamento e l'entità degli spazi personali. Alcune ricerche hanno dimostrato, ad esempio, che quando
i soffitti sono bassi le persone richiedono un maggiore spazio personale rispetto alla situazione in cui i soffitti
sono alti. Lo stesso vale nel caso in cui le stanze sono strette e lunghe, ossia a forma di corridoio, anziché
quadrate, e in presenza di oscurità. Pensate ad una discoteca in cui, improvvisamente, si accendessero tutte le
2 Sintesi
1) La prossemica è quella branca della psicologia che studia i comportamenti spaziali, ovvero il modo in cui
ci collochiamo nello spazio e regoliamo le nostre distanze rispetto agli altri e all'ambiente.
2 Sintesi
2.1 La famiglia mutevole
1) Dagli anni 60’ in poi si è assistito a profonde trasformazioni sociali che hanno portato a modificare i
tradizionali rapporti di coppia e familiari. La crisi dell’istituzione matrimoniale e le recenti trasformazioni
della famiglia trovano conferma in rilevanti fenomeni demografici: l’aumento delle convivenze, l’aumento
dei divorzi, il calo e la posticipazione dei matrimoni, il calo delle nascite, l’aumento di famiglie ricomposte
e di persone che vivono sole.
2) I sociologi attualmente descrivono diverse forme familiari: famiglie di fatto, famiglie con un solo genitore,
famiglie ricomposte e ricostituite, famiglie uni personali, famiglie miste. Tale molteplicità delle forme
familiari dimostra non solo la variabilità dei confini della famiglia, ma segnala anche come la struttura della
F 0l’ambiguità
B7 nei rituali di corteggiamento
F 0le
B 7modalità di approcciare al potenziale partner
F 0l’utilizzo
B7 dei social network come mezzo per corteggiare
F 0il
B 7criterio utilizzato per la scelta del partner.
Nel primo esempio, come potete osservare, io ho aggiunto uno stimolo sgradito (ovvero un dolore o un
disagio); nel secondo esempio ho tolto invece qualcosa di gradito (il cibo). Non importa il valore “morale” di
ciò che si aggiunge o si toglie: contano solo i segni + e -. E' evidente (ed intuitivo) che un rinforzo negativo
comporterà la sottrazione di qualcosa di sgradevole ("negativo” in senso morale), mentre una punizione
negativa comporterà la sottrazione di una cosa “buona”, gradita. Però quello che è gradito/sgradito al cane
non sempre lo è anche per gli umani, e viceversa: il che a volte manda in confusione gii allievi. Perché, per
esempio, potremmo avere un cane masochista (ne conosco un migliaio! penso anche voi!) che si diverte un
casino a prendere pacche violente sulle spalle o sul sedere.
La stessa pacca, se venisse data sul sedere a me, sarebbe (in senso morale) sgraditissima e negativissima, ma
a lui piace. La considera un gioco esattamente come la pallina o il salamotto. Mettiamo, quindi, che io mi sia
accorta che quando smetto di dargli pacche il cane si mette ad abbaiare (perché ne vuote ancora): e, guarda
caso, io vorrei proprio insegnargli ad abbaiare a comando.
Quindi, dico "abbaia!" e smetto di dargli pacche sul culo. Che cos'è? E' un rinforzo (perché spero di fargli
ripetere il comportaménto abbaiante) negativo (perché ho "tolto" qualcosa, in questo caso la pacca). Non
conta che la pacca sia "buona" (come la vede lui) o "cattiva" (come la vedremmo noi): conta solo il
significato matematico. Altrimenti ci si incasina! Dopo che il cane, scocciatissimo perché gli ho tolto le
pacche, si mette effettivamente ad abbaiare, io posso dargli un bocconcino: in questo caso, che cos'è?
Sempre un rinforzo (perché spero che ripeta l'abbaio), ma stavolta positivo (perché ho "aggiunto" il
boccone).
Chiaro, fin qui? Spero di si.
Ma non è finita, perché il solito Skinner, dopo aver compreso il meccanismo di rinforzo, si domandò anche
quale importanza avesse la frequenza con cui i rinforzi venivano somministrati. Era meglio dare un rinforzo
continuo (ti do un boccone ogni volta che metti in atto un comportamento corretto) oppure variabile (ogni
tanto te lo do ed ogni tanto no) ? Curiosamente, la risposta degli animali utilizzati negli esperimenti di
Skinner fu: "funziona meglio il rinforzo a tasso e intervallo variabile". Tradotto in cinofilese: se vogliamo
rinforzare la risposta di sedersi quando il cane sente l'ordine "seduto", è meglio premiare col bocconcino
qualche seduto si e qualcuno no. Ma non, per esempio, "uno sì e uno no, uno si e uno no", con regolarità e
dando sempre lo stesso premio...bensì, magari, quattro sì e uno no, tre sì e due no. .e cosi via. E ancora
meglio se una volta ti do il bocconcino, una volta niente e la volta dopo, tadannnn! DIECI bocconcini!
(quello che nell'educazione cinofila chiamiamo "il jackpot”). Ovvero, tasso e intervallo variabile. Questo,
quando si lavora con un cane, è davvero importante (quasi quanto capire la funzionedi rinforzi e punizioni),
perché fa la differenza tra creare un cane "automatizzato" e pure un po' scazzato (che penserebbe qualcosa
come: "faccio una condotta perfetta, mo' mi da un wurstel, faccio una condotta perfetta, mo' mi dà un
Wurstel... uffa, sono quasi stufo di ingurgitare wurstel, quasi quasi me ne vado per gli affari miei..".) e un
cane pieno di gioiosa aspettativa e di desiderio di migliorare ("faccio una condotta perfetta, chissà cosa mi
darà? Un wurstel, nessun wurstel, millemila wurstel? Vediamo, vediamo, sono proprio curioso di scoprirlo!
Azz... stavolta non mi ha dato niente, riproviamo, magari se cammino ancora più vicino alla sua gamba mi
sgancia il wurstel!"). Ovviamente è fondamentale che la variabilità sia studiata in modo efficace e
funzionale, perché per esempio, se troppi comportamenti di fila non venissero premiati, si rischierebbe di
scivolare verso l'estinzione del comportamento ("mi siedo, non mi da un tubo. Mi siedo, non mi da un tubo.
Mi siedo, non mi da un tubo. Ma vaffanculo, eh... io non mi siedo più!"), tramutando in pratica un rinforzo
positivo... in una punizione negativa. E qui non c'è Skinner a dirci quanto, quando, come dobbiamo
rinforzare: qui c'è solo ia nostra sensibilità ed il nostro buon senso, da applicare ad ogni singolo soggetto in
modo adeguato. Perché c'è il cane che ha bisogno di una frequenza più "densa" e di una minima variabilità,
mentre c'è il cane che reagisce meglio ad una minor frequenza, ma accompagnata magari dajackpot più
ricchi.
2 Sintesi
F 0L’apprendimento,
D8 secondo il comportamentismo, avviene mediante processi molto complessi sottesi ai
meccanismi del condizionamento classico ed operante
F 0Verranno
D8 presentati esperimenti esemplificativi presi in prestito da attività di addestramento cinofilo.
a) ogni comportamento può essere analizzato considerandolo come una contingenza a tre termini, in cui un
evento o stimolo antecedente (A) precede un comportamento (B) che avrà una conseguenza (C);
b) ogni comportamento può essere rinforzato o indebolito, cioè ripresentarsi con maggior frequenza e
maggior forza oppure presentarsi sempre meno, fino a scomparire del tutto o quasi;
c) la probabilità che si manifestino gli operanti (che sono semplicemente le risposte fornite dall'organismo)
aumenta o diminuisce a seconda che l'operante stesso sia seguito da un rinforzo o da una punizione.
6. RINFORZO (significa +, cioè aggiungere) è tutto ciò che fa sì che una risposta (operante), ovvero un
certo comportamento, venga ripetuta, si verifichi il più spesso possibile.
7. PUNIZIONE (significa -, cioè sottrarre) è tutto ciò che fa sì che una risposta (operante), ovvero un certo
comportamento, NON venga ripetuta, dimuisca e vada ad estinguersi.
8. Esempio: io dico "seduto!” al cane. Se lui effettivamente si siede, la risposta sarà quella che io volevo: e
siccome la volevo, cerco di fare in modo che la ripeta ogni volta che sentirà il suono "seduto!”. Per questo
motivo gli darò un rinforzo (qualcosa che induce la ripetizione dei comportamento).
Se io dico "seduto!” e il cane mi morde, la risposta non è precisamente quella che volevo. Anzi, non voglio
proprio che reagisca mai più così! In questo caso somministrerò una punizione (qualcosa che induce
l'estinzione del comportamento).
9. Il rinforzo è positivo quando faccio qualcosa che “aggiunge” (il cane si siede quando gli dico “seduto” ed
io per premiarlo e far sì che possa in futuro riemettere lo stesso comportamento al mio comando gli do un
bocconcino di carne)
10. Il rinforzo è negativo quando “tolgo” all’animale qualcosa di spiacevole (voglio che il cane apra la
bocca ma lui non ne vuole sapere.. allora potrei stringergliela lateralmente, anche causandogli fastidio e
appena la apre, tolgo la mano, sottraendolo a quella sensazione sgradevole. Un altro es. di rinforzo negativo
è dato dal fastidioso suono, in alcune automobili, quando non mettiamo la cintura di sicurezza. Una volta
messa il suono scompare, cioè viene sottratto il fastidio. Capita, quindi, che entrando in macchina ci
affrettiamo a mettere la cintura per evitare di sentire il fastidioso suono); la punizione è positiva quando
aggiungo un comportamento volto a far sì che l’animale non faccia più quella cosa (do uno schiaffo) oppure
negativa, quando tolgo qualcosa (se il cane mi ringhia quando gli porgo la ciotola, gliela tolgo).
F 0Skinner,
71 dopo aver compreso il meccanismo di rinforzo, si domandò anche quale importanza avesse la
frequenza con cui i rinforzi venivano somministrati. Era meglio dare un rinforzo continuo (ti do un boccone
11. Skinner, al termine di tutti i suoi studi, stabilì anche che il rinforzo positivo è lo strumento più
adeguato a modellare il comportamento, rispetto alla punizione.
“TECNICHE NEGOZIALI”
1.5 La guida
All’interno di un rapporto soddisfacente diventa possibile orientare la negoziazione verso il raggiungimento
di un obiettivo. All’interno di questo processo, svolgono un ruolo determinante gli aspetti sia verbali che non
verbali della comunicazione. Da un punto di vista della comunicazione non verbale dove, attraverso una
serie di domande specifiche, possiamo orientare e guidare una persona nel percorso di analisi delle sue
motivazioni principali rispetto ad un obiettivo specifico. Di seguito saranno descritte alcune fasi che possono
aiutare a comprendere qual è l’obiettivo in un dato momento di una persona, o in ambito lavorativo di un
cliente. La guida può essere non-verbale ed in questo caso può servire a due cose:
1. Test: dopo aver effettuato il ricalco (di qualsiasi tipo) effettuate un piccolo cambiamento, per esempio
tirandovi leggermente su con il busto, oppure spostate un poco la gamba accavallata, oppure vi schiarite la
voce e osservate cosa accade. Se la persona vi segue, cioè effettua lo stesso cambiamento, significa che avete
raggiunto il vostro obiettivo relazionale. A questo punto mantenendo un ricalco di base potrete passare di
fatto alle fasi successive. Altrimenti effettuate un ricalco più approfondito adeguandovi in qualche altro
parametro. Se, per esempio, avevate curato solo la voce, adeguatevi anche alla postura.
2. Apertura: immaginate che la persona con la quale state parlando abbia assunto la famosa posizione di
chiusura che tanto preoccupa i venditori. Ricorderete che suggerivamo di assumere la stessa posizione. A
questo punto cominciate a cambiare. Spostatevi in modo quasi impercettibile in avanti, lasciate le gambe
incrociate ma aprite le braccia, oppure da una posizione a braccia conserte passate a tenere solo le dita
intrecciate, e via dicendo.
2 Sintesi
1) Gli elementi non verbali che consentono di sviluppare sintonia nei confronti dell’interlocutore sono quelli
di apertura, da manifestare con gradualità a partire dal rispecchiamento della condizione corporea
dell’interlocutore. Questo porterà con molta probabilità l’interlocutore a fare un passo di apertura verso
l’altro e in generale a creare sintonia con questo.
2) Ricalcare” significa, dopo aver individuato con la calibrazione le modalità espressive dell’interlocutore,
riproporre a questo tali modalità, creando così una sensazione di confidenza, di identità di vedute e
comportamento. In altri termini, significa “entrare in risonanza” con l’interlocutore.
3) Ricalco formale: questo tipo di ricalco può essere definito anche rispecchiamento o mirroring, in quanto si
riferisce alla forma della comunicazione. Esso corrisponde alla riproduzione della fisiologia, degli
atteggiamenti corporei e delle posture dell’interlocutore: è un ricalco, quindi, non verbale.
4) Ricalco paraverbale: consiste nell’adottare uno stile di conversazione simile, con il medesimo tono di
voce, ritmo di parola, volume.
5) Ricalco emotivo: utilizzare tale ricalco significa cercare di vivere e manifestare le emozioni vissute
dall’altro, intanto che racconta un fatto, un’esperienza o una sensazione.
6) Ricalco culturale: mira invece ad adeguarsi al registro (stile e livello di discorso) dell’interlocutore. Esso
prevede l’utilizzo di particolari terminologie, stili espositivi e argomentazioni specifici della persona.
7) Ricalco verbale e ricalco profondo: quest’ultimo tipo di ricalco riguarda valori e convinzioni che si
riflettono nelle modalità espressive del linguaggio attraverso l’uso prevalente di alcuni termini o locuzioni
specifiche. Il ricalco profondo riguarda le radici della personalità. Agisce sui valori interiori, sulle
convinzioni maturate in una vita, sui contenuti delle esperienze. Per questo esso si dice anche ricalco
contenutistico.
8) Ricalco della distanza: riguarda la distanza tra le persone. Rispettare le preferenze dell’interlocutore e
rivolgersi a lui nei modi che gli vede mettere in pratica può essere utile per entrare in sintonia con lui. E’
molto importante rendersi conto dell’origine di questi comportamenti, per non giudicare l’interlocutore in
modo sbagliato. Il concetto di territorio va sempre tenuto presente, come la reazione alla sua minaccia, vera
o presunta, che è sempre di scontro o di fuga.
9) Ricalco del contatto visivo: è relativo al contatto visivo tra due interlocutori. Questo è fondamentale per
far capire all’interlocutore di essere compreso, e adeguare il contatto visivo all’interlocutore favorisce la
costruzione di un rapporto positivo.
10) La guida: all’interno di un rapporto soddisfacente diventa possibile orientare la negoziazione verso il
raggiungimento di un obiettivo. All’interno di questo processo, svolgono un ruolo determinante gli aspetti sia
verbali che non verbali della comunicazione
11) L’attuarsi della comunicazione prevede innanzitutto che vi siano due soggetti in gioco: un emittente e un
ricevente. Ciò significa che la parola comunicazione definisce una dinamica relativa a un contenuto (parole,
gesti, sguardi…) che “passa” da un polo a un altro: nel caso che qui ci interessa – la comunicazione tra esseri
umani -da un individuo all’altro. Questo implica un carattere imprescindibile della comunicazione : la
bidirezionalità. La comunicazione va distinta dall’informazione dato che, a differenza di questa, prevede un
feedback da parte del soggetto che la riceve, che può essere sia verbale che non verbale. Elemento centrale
della comunicazione è che implica una relazione.
12) Paul Watzlawick, noto studioso americano, elaborò una teoria della comunicazione umana: teoria che –
come tale – è costruita sulla base di assiomi, ovvero, proprietà semplici della comunicazione, da cui discende
la teoria della comunicazione con le sue implicazioni:
F 0Primo:
76 non è possibile non comunicare
F 0Secondo:
76 la comunicazione trasmette sempre un informazione
2 Glossario
Antropomorfismo. L’antropomorfismo è il processo di attribuzione di caratteristiche unicamente umane ad
altri animali, entità non animate, fenomeni, oggetti tecnologici, o altri concetti astratti quali organizzazioni,
governi, o entità sovraordinate. Il termine deriva dalla combinazione dei termini greci ánthrōpos (umano) e
morphē (forma).
Euristica. Le euristiche sono scorciatoie o strategie cognitive che forniscono alle persone la capacità di
produrre inferenze abbastanza accurate; nei processi decisionali, le euristiche aiutano a tradurre un problema
complesso in più semplici operazioni di giudizio. Le euristiche più studiate sono quelle della
rappresentatività, della disponibilità, ancoraggio e accomodamento.
Proiezione sociale. La proiezione sociale è la tendenza ad aspettarsi delle somiglianze tra sé e gli altri.
Partendo dalle proprie disposizioni o preferenze, le persone fanno rapidamente delle previsioni su come sono
gli altri o su cosa hanno intenzione di fare. Più gli altri sono valutati come simili (ad es., i membri
dell’ingroup) più alta la proiezione delle proprie caratteristiche nel giudicarli.
3 Sintesi
Mentalizzazione
1. Il processo di percezione di mente è stato chiamato mentalizzazione (Frith & Frith, 2003). La
mentalizzazione consiste nell’inferire l’esistenza di stati mentali ed eventi interni sulla base di indici esteriori
o di una simulazione dell’esperienza dell’altro.
2. Riconoscere una mente agli altri individui è una componente essenziale della vita sociale nelle società
umane, necessaria per raggiungere due importanti obiettivi per la sopravvivenza della specie: comprendere,
prevedere, e controllare il comportamento degli altri e sviluppare una connessione sociale con i membri del
proprio gruppo
3. La percezione di mente varia lungo un continuum. Ad un estremo, gli individui falliscono nel riconoscere
nell’altro intenzioni, cognizioni, ed emozioni; questa tendenza viene chiamata dai ricercatori
“dementalizzazione.” All’estremo opposto del continuum, gli individui riconoscono pienamente gli stati
mentali degli attori sociali, ciò che viene chiamato “mentalizzazione.”
4. Se ad un essere umano viene negata la mente, di conseguenza gli sono negati anche i diritti umani e può
essere trattato come un animale o un oggetto
5. È quindi importante conoscere i meccanismi psicologici che portano a percepire la mente dell’altro. Gli
individui attribuiscono una mente a sé e agli altri. Quando pensano agli altri in termini di credenze,
atteggiamenti, pensieri, o emozioni ma anche quando cercano di prevedere il comportamento altrui sulla base
di caratteristiche mentali siamo di fronte all’attribuzione di mente.
Ciò può dipendere dal fatto che gli stereotipi che abbiamo appreso sono inaccurati o dal fatto che emozioni,
desideri, e aspettative guidano la nostra percezione tanto da rendere impossibile decriptare correttamente gli
stati mentali altrui.
10. È più probabile che ci affidiamo ad una prospettiva egocentrica quando attribuiamo una mente a persone
che percepiamo come simili a noi piuttosto che diverse da noi: un processo chiamato “proiezione sociale”.
11. Le persone che vivono in culture che enfatizzano la prospettiva dell’altro (cioè, le culture collettivistiche)
sono più abili a superare il default egocentrico, rispetto alle persone che vivono in culture che enfatizzano il
sé (culture individualistiche).
Agency e Experience
15. Due sono le dimensioni di percezione di mente: la capacità di sentire, chiamata “experience” (ad es.,
dolore e piacere), e la capacità di fare, pianificare, chiamata “agency” (ad es., autocontrollo e pianificazione).
16. Nel giudizio sociale (Fiske, Cuddy, Glick, & Xu, 2002), si utilizzano le due dimensioni fondamentali:
calore (simile a experience) e competenza (simile a agency).
17. È emerso, ad esempio, che Dio viene giudicato basso in experience e alto in agency; animali e bambini
alti in experience e bassi in agency; un robot basso in experience e moderatamente alto in agency
1 La fiducia
Fiducia: Il Dilemma Sociale Essenziale
Joachim I. Krueger1 e Anthony M. Evan2 1 Brown University 2 Tilburg University
In-Mind Italia V 13–18 http://it.in-mind.org ISSN 2240-2454
Un organismo sociale di qualsiasi tipo, grande o piccolo che sia, è ciò che è perché ogni componente fa il
suo dovere fidandosi del fatto che tutti gli altri faranno il loro William James (2007/1897, p. 24)
Fidati di me, fidati di me. Chiudi gli occhi e fidati di me. Kaa a Mowgli nel Libro della Giungla
La decisione se fidarsi o meno degli altri pervade la vita umana. Queste decisioni sono inevitabili in una
specie sociale i cui membri sono in grado di assumere la prospettiva degli altri. Le persone apprezzano che
3 Sintesi
1. La decisione se fidarsi o meno degli altri pervade la vita umana; anche le persone che si conoscono bene
non possono dare per scontato l’affidabilità altrui. Il tradimento potrebbe essere improbabile, ma non
impossibile.
Libertà
2. La fiducia è “uno stato psicologico che include l’intenzione di rendersi vulnerabile, sulla base
dell’aspettativa positiva circa le intenzioni o il comportamento di un’altra” (Rousseau, Sitkin, Burt, &
Camerer, 1998)
3. Nel mondo reale, il comportamento è prevedibile solo entro certi limiti; si può preferire un comportamento
prevedibile da parte degli altri, ma se il nostro desiderio si avverasse, anche il nostro comportamento
diverrebbe prevedibile e di conseguenza, non saremmo più liberi
4. La libertà è la capacità di comportarsi in modo inaspettato: la libertà comportamentale implica la
libertà di tradire, imbrogliare e ingannare
5. Dove vi è una capacità limitata di prevedere il comportamento altrui, la fiducia e la diffidenza diventano
fattori importanti: tutti gli esseri umani devono fidarsi, almeno parte del tempo. Una persona che è sempre
sospettosa, che si aspetta sempre l’inganno e il tradimento, non può prosperare in una specie sociale. Allo
stesso modo, una persona che si fida sempre non può prosperare perché sarà, prima o poi, sfruttata.
6. Le persone che si fidano accettano la possibilità che possano essere tradite in quanto pensano che questa
possibilità sia remota.
7. La fiducia si distingue dalla speranza, un sentimento che nasce quando una persona non ha alcuna
possibilità di evitare un comportamento rischioso; la ragione per cui la fiducia è un problema è che stimare la
probabilità di un tradimento da parte di un’altra persona è difficile, e la causa di questa difficoltà è la libertà.
Potere
8. Fiducia e potere s’intrecciano. Se il comportamento degli individui predicesse perfettamente le risposte dei
potenti (ad esempio Dei, genitori, dirigenti), il loro potere, allo stesso tempo, verrebbe meno.
Coloro che vogliono proteggere la loro libertà o il loro potere devono talvolta deludere chi si fida di loro.
Il Gioco
10. In psicologia sperimentale ed economia comportamentale la fiducia e l’affidabilità, sua controparte, sono
studiati in un paradigma preso in prestito dalla teoria dei giochi; essendo prevedibili solo in parte, i giocatori
affermano la loro libertà comportamentale e il potere di dire di no. Sembra che nel gioco, la fiducia si
equilibri con libertà e potere.
Oltre l’equilibrio
11. La fiducia richiede un equilibrio tra forze e motivazioni strategiche in competizione tra loro, ma questo
equilibrio è fragile. Società con alti livelli di fiducia sono più coese e produttive di società con bassi livelli di
fiducia. Coloro che non si fidano o smettono di interagire dopo una delusione, sottovaluteranno in seguito
l’affidabilità di individui o gruppi. Coloro che sono disposti a fidarsi impareranno col tempo a percepire più
accuratamente l’affidabilità, anche se in un primo momento sopravvaluteranno la sua presenza.
Aumentare la fiducia
12. Sono quattro strategie per aumentare la fiducia; la prima strategia consiste nello stimolare una proiezione
sociale attraverso l’aspettativa di vedere gli altri agire come si farebbe personalmente; la seconda strategia è
aumentare l’efficienza del guadagno prodotto dalla fiducia; la terza strategia consiste nel rendere la fiducia
default; la quarta strategia consiste nel segnalare l’affidabilità attraverso un comportamento non verbale in
occasione di interazioni face-to-face.
“IL PERDONO”
2 Glossario
Attribuzioni. Processi cognitivi attraverso i quali si identificano le cause e le responsabilità di eventi o
comportamenti.
Prosociale. Processo o comportamento a vantaggio di un’altra persona o di un gruppo di persone
3 Sintesi
Premessa
1. Un’esperienza dalla quale nessun uomo o donna è purtroppo in grado di esimersi nel corso della propria
vita è quella del venire feriti, offesi o amareggiati. In tali circostanze, così come nei casi più gravi di violenza
ed abuso, tre risposte adattive, funzionali alla salvaguardia del benessere nostro e/o delle relazioni sociali di
cui facciamo parte, sono particolarmente ricorrenti: la vendetta, la fuga (o evitamento) ed il perdono
2. Quando la rabbia e il rancore hanno la meglio, tendiamo a riaffermare il nostro potere sull’altro, a
salvaguardare la nostra “faccia” compromessa dall’offesa subita e a tutelarci dal ripetersi di azioni simili
attraverso atti di rivalsa che fungano da deterrente e da monito
3. Nel caso in cui la paura prevalga sulla rabbia e la vendetta ci paia troppo rischiosa o difficilmente
praticabile, siamo invece soliti scongiurare il ripetersi di episodi analoghi fuggendo da chi ci ha fatto del
male, estraniandoci il più possibile, psicologicamente e fisicamente, da lui/lei
4. Uno dei risvolti negativi della vendetta e della fuga è, tuttavia, quello di compromettere, talvolta
irrimediabilmente, il rapporto con chi ci ha ferito. Il perdono, se opportunamente inteso e non equivocato con
forme di pseudo-perdono, è invece in grado di tutelare, a prescindere dalla gravità dell’offesa subita, non
solo il nostro benessere di vittime, ma anche quello delle relazioni in cui siamo coinvolti, compreso il legame
con l’offensore
Che cosa il perdono non è
5. Perdonare non significa dimenticare, sminuire, giustificare o scusare l’accaduto, né abdicare al diritto di
ottenere giustizia, né riconciliarsi; il perdono è tale se la vittima, pur arrivando col tempo a fare attribuzioni
(si veda glossario) più favorevoli nei confronti di chi l’ha ferita, ne riconosce comunque le responsabilità e le
colpe, così come la natura biasimevole delle azioni compiute, senza sminuirle o giustificarle
6. È però generalmente persuasa che, invece di una giustizia retributiva, finalizzata a punire il colpevole in
modo proporzionale al danno arrecato, sia opportuno perseguire una giustizia ricostituiva, orientata a
ricomporre la controversia e a ristabilire una comunanza con l’offensore attraverso l’ammissione ed il
riconoscimento concorde del torto compiuto e subito
7. Esistono tuttavia circostanze in cui non è auspicabile riconciliarsi con chi si è perdonato, poiché così
facendo si perpetuerebbe e alimenterebbe un legame fonte di sofferenze (ad esempio, nel caso di abusi
familiari); anche laddove una riconciliazione sia opportuna, non è inoltre detto che riesca di fatto ad avere
luogo; fare pace è per molti versi più complesso che perdonare. Mentre il perdono può essere un atto
unilaterale e incondizionato, la riconciliazione presuppone l’impegno e gli sforzi congiunti di entrambe le
persone coinvolte, non solo della vittima che perdona, ma anche dell’offensore, che deve assumersi le
proprie responsabilità e offrire rassicurazioni circa la propria moralità e le proprie intenzioni future