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Psicologia Generale università

Pegaso
Psicologia
Università degli Studi di Catania
301 pag.

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1 Il senso della psicologia
Nella vita quotidiana, di relazione sociale, lavorativa, di rapporti affettivi e familiari ci troviamo nella
condizione di dover interagire con gli altri e nella necessità, per far funzionare in termini positivi
comunicazione e relazione, di doverci mettere dal punto di vista dell’altro. Per dialogare con l’altro
dobbiamo sapere quali linguaggi è in grado di intendere, quali contenuti può condividere ed essere
disponibile ad ascoltare, quali reazioni la nostra azione può determinare. In sintesi, per stabilire un rapporto
positivo e produttivo con qualunque altro soggetto occorre conoscerlo. Ma che dire del rapporto con noi
stessi? Per costruire relazioni, per selezionare situazioni e condizioni di vita più appropriate ai nostri bisogni,
per costruire un progetto di vita che ci soddisfi, per vivere dimensioni di equilibrio psicologico, per essere
sereni e felici dobbiamo conoscere noi stessi: per interpretare le cause delle eventuali disfunzioni, per
comprendere bisogni e aspettative, per sapere come funziona il nostro corpo e la nostra mente, per crescere e
migliorarci.
Conoscere i principi essenziali della psicologia generale aiuta in tal senso.
In particolare occorre conoscere i processi di crescita psicologica dei soggetti nel corso dell’età evolutiva per
accompagnarli e sostenerli in un processo di crescita che inizia ancor prima della nascita e dura tutta la vita.
Tale conoscenza è presupposto essenziale per costruire intorno al soggetto un ambiente favorevole al suo
sviluppo ed al suo benessere.
Più specificamente tale conoscenza va a favorire la ricerca di nuove metodologie e strategie educative e
didattiche che risultino efficaci per sviluppare i potenziali di apprendimento e le intelligenze multiple dei
soggetti.
Occorre, infatti, porre in essere azioni mirate atte a valorizzare capacità e talenti fin dalla prima infanzia.
Un soggetto che riesce ad esprimere tutte le sue potenzialità e ad essere consapevole di ciò è un soggetto che
ha maggiori opportunità di star bene con se stesso e con gli altri.
A tal fine sono necessarie molteplici iniziative e precisamente:
- una riflessione sulle diverse teorie intorno ai processi di sviluppo nell’età evolutiva, sulle teorie prevalenti
fino ad ora circa la struttura della personalità e sui processi di apprendimento per selezionare corretti
presupposti teorici su cui fondare concrete linee di azione;
- la realizzazione - in tutti i contesti formali ed informali dell’educazione - di alcune attività fondamentali,
che permettano di soddisfare le esigenze di formazione dei soggetti in età evolutiva e dei giovani per
selezionare, secondo una visione critica, le migliori pratiche per uno sviluppo integrale della personalità e
per l’inclusione dei giovani nei processi sociali.
- la realizzazione di attività di ricerca-azione per acquisire elementi di innovazione da proporre a tutte le
istituzioni educative;
- la creazione di strutture e servizi centrali e locali per il supporto e la verifica delle attività progettate per la
formazione integrale dei giovani;
- una azione per integrare e rendere congruo il quadro normativo nazionale ed europeo che riguarda
attualmente la qualità degli apprendimenti scolastici, la costruzione delle competenze e lo sviluppo delle
intelligenze multiple, per il benessere personale dei soggetti, l’inclusione e la coesione sociale: obiettivi,
questi, delle politiche dell’Unione Europea.

2 Psicologia e soggettività
Un approccio alla psicologia generale, che intenda affrontare un quadro globale di problematiche utili alla
conoscenza di “come funziona” l’uomo, deve necessariamente coniugare le generalizzazioni delle teorie con
la particolarità delle situazioni soggettive e con gli esiti della ricerca sperimentale.
La problematica della conoscenza dei processi mentali e dello sviluppo degli apprendimenti va espressa,
infatti, in riferimento alla "storia" del soggetto, al percorso attraverso il quale, muovendosi da capacità,
motivazioni ed interessi, una persona giunge ad una collocazione funzionale nella società, con la assunzione
di molteplici ruoli fra loro variamente integrati.
Questo percorso può essere lineare, senza salti o problemi particolarmente gravi; in questo caso viene
realizzata una sequenzialità tra formazione di base, istruzione specialistica, adattamento ad uno specifico
lavoro, aggiornamento e sviluppo di un progetto di vita personale e professionale con eventuali mutamenti
volontari sia nel campo delle relazioni affettive e familiari e sia nel campo delle attività lavorative.

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Quando, invece, tale percorso di sviluppo integrale presenta interruzioni, incongruenze o dissonanze varie,
l’interpretazione e la ricerca delle cause dei momenti di criticità vanno ricondotte alle teorie di sviluppo e dei
disturbi della personalità.
Una formulazione più corretta della problematica della psicologia generale appare quella che esprime il
rapporto fra soggetto e ambiente, tra struttura dell’Io e contesto di vita, tra “sapere” e mutamento sociale e
cioè fra elaborazione e interpretazione di fatti e fenomeni da parte del soggetto, da un lato, e trasformazioni
della società, delle forme di comunicazione e delle relazioni sociali, dall’altro.
I comportamenti dei soggetti, la vita emotiva ed affettiva, le relazioni sociali ed i processi di inclusione
sociale sono determinati dalla struttura della personalità del soggetto che si costruisce fin dalla nascita, trova
nell’età evolutiva opportunità di sviluppo positivo o rischi di devianze e trae dai processi cognitivi strumenti
per “dar forma” a nuovi “saper essere” nella prospettiva dei mutamenti sociali.
Storicamente la psicologia ha avuto un prevalente carattere diagnostico di problematiche ed una dimensione
sperimentale orientata verso la ricerca di strategie trattamentali dei soggetti.
Oggi si guarda alla psicologia come modalità interpretativa dei processi mentali per una valorizzazione dei
potenziali di sviluppo e di crescita di ciascun soggetto. La personalizzazione degli apprendimenti, lo
sviluppo delle capacità, dei talenti e delle eventuali eccellenze di ciascun soggetto pone il singolo individuo,
con la sua specificità e la sua diversità, interpretabile come valore, al centro di un processo di “cura”.
Pertanto ogni struttura avente valenza formativa – famiglia, scuola, agenzie sociali – è chiamata ad attivare
strategie formative che vedano la centralità del soggetto – soprattutto se in età evolutiva - e che mirino a
creare opportunità di crescita e di sviluppo integrale della personalità.
Nell'attuale momento storico, le trasformazioni recenti della società richiedono qualcosa di più della
creazione o del potenziamento delle capacità e dei dispositivi di apprendimento dei soggetti.
Occorre, infatti, considerare la persona nella sua unità e globalità, ovvero adottare una logica ologrammatica,
e considerare tutti gli aspetti del saper essere del soggetto: cognitivi, emotivi ed affettivi, sociali e
relazionali, culturali e di inclusione sociale.
E’ opportuno, inoltre, prendere in considerazione anche il contesto di appartenenza: condizioni socio-
culturali ed economiche della famiglia, risorse ed opportunità del territorio.

“I MODELLI TEORICI”
1 Il modello comportamentista
Il "comportamentismo" è la scuola americana contemporanea di psicologia (ha goduto di un dominio
indiscusso dagli anni '20 agli anni '70), che abbandona i concetti di "io" e "coscienza" e restringe la
psicologia sia animale sia umana allo studio del comportamento.
Si propone come una branca, oggettiva e sperimentale, delle scienze naturali, avvalendosi dei contributi della
fisiologia, della psicologia animale, dell’ipotesi evoluzionistica (L’evoluzione della specie di Darwin).
Pretende di spiegare i fenomeni psichici eliminando ogni elemento introspettivo non suscettibile di verifica
sperimentale .
L’avvio al behaviorismo fu dato dal fisiologo russo Pavlov; fondatore, invece, del behaviorismo americano è
J. B. Watson, che ne formulò (1913) il programma ne "La psicologia così come la vede il comportamentista".
Col tempo, si è tracciata una distinzione tra behaviorismo:
- metodologico: ignora la "coscienza" e sostiene lo studio oggettivo del comportamento
- dogmatico: non nega la coscienza (è perciò una forma di materialismo metafisico)

Il modello comportamentista ha dato due esiti fondamentali:


- teorie della "contiguità" (di stimolo e risposta) [Watson e Guthrie] secondo cui ad ogni stimolo segue una
risposta
- teorie del "rinforzo" [Thorndike, Skinner, N. Miller] secondo cui un’azione che determina successo e
risultato atteso viene rinforzata nel suo reiterato compimento

Solo successivamente [Tolman, Hull e Osgood] si avrà un’apertura anche agli aspetti simbolici e cognitivi e
verrà reintrodotta la separazione, seppur cauta, tra realtà fisica e intellettuale.

2 Il modello fenomenologico: la "psicologia della forma" o "Gestaltpsychologie"

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Un gruppo di psicologi della cosiddetta "scuola di Berlino" (poi, a causa del nazismo, "emigrata" negli
USA): M. Wertheimer, W. Kohler e K. Koffka assegnano particolare valore alla "percezione", quale campo
che consente di cogliere il carattere dinamico e sintetico della vita psichica: un complesso progetto di
ricerche andò a reinterpretare l'intera fenomenologia della vita psichica.
La parola "gestalt" designa un’entità concreta e individuale, che esiste come qualcosa di staccato e che ha
come uno dei suoi attributi la forma, o configurazione. Una "gestalt" è perciò un prodotto
dell’organizzazione psichica del soggetto e tale organizzazione è il processo che produce la "gestalt". In tale
visione, si evita d'assolutizzare il valore dell’oggetto (o mondo) esterno che in tanto è in quanto viene
percepito dal soggetto secondo modalità proprie di quest’ultimo.
Vengono, pertanto, rintracciate strutture o "Gestalten" sia nel mondo fisico sia nel mondo mentale, e tra
questi due domini si cerca di rintracciare la condizione generale che rende possibile una loro interpretazione
omogenea.
Questa visione si articola e si esprime soprattutto:
- nel "postulato dell’isomorfismo", ovvero corrispondenza di forme o strutture tra mondo fisico e mondo
psichico, secondo un procedimento esplicativo di tipo analogico; tali forme diventano fattori strutturanti che
cadono sotto il carattere dell’appartenenza al tutto ("concezione olistica");
- nella "legge della formazione non additiva della totalità": il tutto si comprende solo se viene
abbandonato l’atteggiamento di considerarlo come la risultante di una somma, per progressive aggiunte, di
elementi primitivi: questi cessano di essere considerati meri addendi, ma diventano fattori strutturanti che
cadono sotto il carattere dell’appartenenza al tutto ("concezione olistica");
- nella "legge della pregnanza": la pregnanza è considerata un fattore strutturante della percezione, per cui
forme ambigue, incomplete o leggermente asimmetriche, tendono ad essere percepite come più definite,
complete e simmetriche. Tale legge è detta anche “della buona forma”.

Uno sviluppo interessante dei principi della "gestalt" è rintracciabile nella "teoria del campo“ di Kurt Lewin.
Lewin si occupò di teorie della personalità e di psicologia sociale: l’individuo è inserito in uno spazio vitale
che si configura come un campo di forze, all’interno del quale si sviluppano dinamiche di gruppo.

3 Il modello psicoanalitico e psicodinamico


La Psicoanalisi rappresenta un modello di sviluppo della personalità, una filosofia dell'uomo e un metodo
psicoterapeutico basato sull'interpretazione. Dagli anni '20 fino agli anni '40, le teorie di Freud, nutrendosi
del contributo di analisti come Jung e Adler, ebbero un grande prestigio diffondendosi in Europa e nel Nord
America.
Questa nuova prospettiva dinamica concepisce l'uomo come un essere biologico dotato di una esistenza
psichica, di cui è inconsapevole, caratterizzata sin dalla nascita da spinte pulsionali e istintuali (di tipo
sessuale ed aggressivo) e da desideri che mossi dal principio del piacere premono sulla coscienza per essere
soddisfatti.
Nel tentativo di realizzare il migliore adattamento possibile ad una realtà, che nell'idea freudiana è razionale
ed oggettiva e non può essere modificata, l'io e la coscienza impongono all'uomo di rinunciare a queste
spinte pulsionali e ad autoregolarsi attraverso il principio di realtà. Il modello psicoanalitico si basa
sull'ipotesi dell'esistenza di processi psichici inconsci che influenzano il comportamento, creano conflitti e
sono alla base dei sintomi nevrotici.
Nel tempo si affermarono nuove teorie psicodinamiche: "la psicologia dell'io “ proposta da alcuni
psicoanalisti come Anna Freud, Hartmann, Erikson, metteva in risalto l'importanza dell'ambiente sulla
personalità e nella formazione della nevrosi, come risultato del conflitto tra l'io e le diverse pressioni sociali.
Erikson, in particolare, ha evidenziato la valenza delle motivazioni nei comportamenti dell’uomo.
Per la teoria delle "relazioni oggettuali" i primi rapporti tra bambino e le figure affettive di riferimento
portavano alla formazione di modelli interni, influenzanti le relazioni umane costruite dall'individuo nel
corso della vita; Melanie Klein propose lo sviluppo psicologico come il prodotto di un conflitto amore/odio
nei confronti dell'oggetto(il seno materno), che il bambino avverte come buono o cattivo a seconda della cura
e della disponibilità materna.
Lo sviluppo psicologico secondo Freud, avviene durante l'infanzia, attraverso il superamento di specifici
stadi psicosessuali. In ogni fase il bambino ricerca il piacere e la soddisfazione delle sue pulsioni attraverso
la stimolazione di una determinata zona erogena: nello stadio orale, la gratificazione viene raggiunta

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attraverso la stimolazione della bocca; nel sadico-anale essa avviene attraverso la stimolazione dell'ano e in
relazione all’acquisizione delle abitudini igieniche; nel fallico, prevale la stimolazione dei genitali che
prelude alla tipizzazione sessuale.
In quest'ultimo stadio compare il complesso di Edipo che si ripresenterà e verrà superato nell'età puberale.
Il maschietto, infatti, stabilisce un legame molto stretto con la madre che diventa oggetto d’amore. Quando si
rende conto che la figura paterna condivide attenzioni e cure da parte della madre e gli contende il suo
amore, anche in virtù di un’intesa che egli intuisce diversa e misteriosa, il suo rapporto con il padre diventa
conflittuale, sospeso tra amore e odio. Il papà rappresenta una figura forte, che affronta quotidianamente un
mondo esterno che il bambino interpreta come pericoloso e ritorna vittorioso, è colui che protegge e sostiene
la famiglia, ma è anche colui che gli contende l’oggetto d’amore: la madre. Ma il bambino è anche
consapevole di non poter esprimere la propria aggressività contro il padre in quanto lo percepisce come
soggetto più forte. Allora il bambino supera il complesso di Edipo e la conflittualità delle opposte pulsioni
scegliendo di identificarsi con la figura paterna. Avviene così la tipizzazione sessuale ed il superamento del
complesso di Edipo. Per la femminuccia si manifesta il complesso di Elettra che vede attivare pulsioni
emotive e sessuali verso il padre che diventa oggetto d’amore conteso nel rapporto conflittuale con la madre.
L’identificazione con quest’ultima consente alla bambina di assumere ruoli femminili e di superare le
conflittualità esistenti. Anche la bambina raggiunge la tipizzazione sessuale.
La fase genitale è il momento in cui la sessualità infantile raggiunge la massima intensità per poi subire una
inibizione nello stadio successivo: il "periodo di latenza" in cui l'energia verrà indirizzata in modo maturo
verso mete sociali ed ideali. In questa fase del suo sviluppo, coincidente anche con la frequenza della scuola
primaria, il bambino orienta curiosità, motivazioni ed interessi verso il mondo esterno da conoscere ed
esplorare.
Il mancato superamento di ognuno di questi stadi determina il fenomeno della "fissazione" della libido e
della energia istintuale, che determinerà la patologia nell'adulto.
In quest'ottica l'individuo viene visto come un sistema energetico regolato da tre istanze: Es, Io e Super-io in
costante mediazione.
La dinamica di questo processo, determina la struttura della personalità, il carattere e l'equilibrio psichico
dell'individuo. L' Es rappresenta il processo di personalità alla nascita, ed è sede degli istinti da soddisfare;
l'Io è l'istanza consapevole che regola la personalità mediando tra gli istinti dell' Es e l'ambiente circostante,
è sede dell'intelligenza e della razionalità; il Super-io è la componente regolatrice e giudicante, che permette
di stabilire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, è il soggetto censore dei comportamenti.
L'individuo per sopravvivere ad eventi che non sa gestire svilupperà meccanismi di difesa, considerati forme
di adattamento; sono processi inconsci, per gestire l'angoscia generata dal conflitto tra le tre istanze della
personalità, per il controllo dell'energia psichica all'interno del sistema. Quando l'io utilizza in modo rigido i
meccanismi di difesa, questi saranno disadattivi, generando uno stile di vita problematico.

4 Il modello epistemologico-genetico
Il modello dell’epistemologia genetica mira a spiegare i processi cognitivi umani (percezione, intelligenza,
…: in tal senso è "epistemologia") ricostruendo le fasi (gli stadi) del loro sviluppo nell’individuo (ma anche
nella specie), dall’infanzia all’età adulta (in tal senso è "genetica"): introdotto da J. Piaget (1896-1980) si
oppone alla tradizionale separazione tra logica e psicologia e fonda sulla loro sistematica collaborazione la
possibilità di comprendere il pensiero nelle sue espressioni più evolute e quindi nella sua storia e nel suo
divenire.
Secondo questo modello – subentrato al comportamentismo, in crisi dopo i primi anni ’60 – la mente umana
funziona come un elaboratore attivo delle informazioni che le giungono tramite gli organi sensoriali, in
analogia coi servomeccanismi di tipo cibernetico: i processi cognitivi vengono analizzati in quanto funzioni
organizzative, nell’ambito di un sistema complesso costituito da strutture o schemi mentali di previsione e di
spiegazione dei fenomeni.
Tale modello, dunque, non possiede una propria concezione dell’uomo, ovvero non dà spiegazione o
interpretazione del comportamento umano, ma ne osserva processi e funzioni.
Si tratta di conoscere l’elaborazione interna – costituita dagli eventi che hanno luogo entro l’organismo tra lo
stimolo d’ingresso ("in-put") e la risposta d’uscita ("out-put") – della struttura psichica che forma il
"pensiero" o i "processi mentali".

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Questi eventi interni, naturalmente, non sono direttamente osservabili. Devono essere inferiti, ma si tratta di
inferenze possibili e rilevabili mediante applicazione e confronto di diverse metodologie di indagine..
Il cognitivismo si avvale dell’apporto di molteplici influenze: da un comportamentismo liberalizzato alla
teoria dell’informazione e dei sistemi, dalla neurofisiologia di Hebb all'etologia, dalla linguistica di Chomsky
fino alla stessa teoria della Gestalt.

“I MODELLI TEORICI”

1 La struttura dell’Io
La conoscenza di come funziona la vita psichica non può non considerare i contesti nei quali si sviluppa e
funziona la psiche umana né il complesso delle condizioni che la influenzano e concorrono a determinarla.
Esistono molteplici fattori che influenzano la strutturazione dell’Io. Tali fattori sono:
F 0La
A 7 rappresentazione mentale che la persona ha di se stessa

F 0Il
A 7sistema di valori e significati che vanno a formare l’identità della persona e che vengono strutturati nel

tempo, nell’ambito del gruppo sociale di appartenenza e dei contesti culturali e di vita
F 0L’
A 7 insieme delle opportunità, dei limiti e dei vincoli che esistono nel momento specifico in cui il soggetto

si trova ad agire.
2 Una personalità ben strutturata
Una personalità ben strutturata è armonica ed esente da conflittualità che determinano conflitti e problemi di
comportamento e di adattamento alle situazioni. Essa rende il soggetto capace di:
• Avere una rappresentazione mentale del sé positiva.
• Avere consapevolezza delle proprie caratteristiche personali, delle proprie capacità, delle motivazioni e
degli interessi che muovono il soggetto e del sistema valoriale di riferimento;
• Prendere atto e assumere responsabilità in merito alle proprie scelte;
• Essere pienamente consapevoli delle diverse alternative prima di compiere una determinata scelta;
• Sapere che l’atto stesso di operare una scelta comporta inevitabilmente delle rinunce;
• Dirigersi verso una determinata scelta formativa o lavorativa;
• Aggirare gli eventuali limiti e ostacoli che possono impedire o rallentare il raggiungimento degli obiettivi
fissati;
• Saper evidenziare e delineare progetti futuri.

3 Il problem solving in situazioni critiche


Ulteriore indicatore di una personalità ben strutturata è la capacità di problem solving in situazioni critiche.
Il problem solving in situazioni critiche avviene in ogni età del soggetto ed interessa elementi e processi
cognitivi, emozionali e affettivi, comportamentali e relazionali.
Esso attiva processi che portano al riconoscimento dello stato di criticità nel quale viene a trovarsi il soggetto
ed a porsi domande. Il soggetto quindi cerca le risposte più adeguate al problema nel quale è “inciampato”.
Egli seleziona le diverse opportunità risolutive e pianifica le azioni da porre in essere per la risoluzione
idonea ed adeguata alle necessità del soggetto stesso ed alle esigenze derivanti dal contesto situazionale.

4 Una buona rappresentazione mentale dell’Io


Una rappresentazione mentale dell’Io positiva ed una buona strutturazione della personalità del soggetto
implicano capacità che riguardano la conoscenza di se stessi e della realtà sociale che è sfondo integratore di
esperienze e di processi.
Una struttura positiva dell’Io riguarda la progettualità, la organizzazione ed il coordinamento delle attività, la
gestione delle situazioni complesse, la produzione e la gestione dell’ innovazione, le diverse forme di
comunicazione e di relazione interpersonale.
Le capacità indicate sono rilevanti in un periodo storico nel quale i mondi vitali del soggetto sono indeboliti:
i contesti di vita, infatti, necessitano di una partecipazione sempre più matura ai processi sociali, necessitano
del coinvolgimento di tutti i soggetti istituzionali nei processi educativi . Tutti questi elementi, coniugati in
un quadro di sinergie convergenti sul soggetto, costituiscono componenti necessarie della cittadinanza, del
benessere e dell’inclusione sociale dei soggetti.

“ASPETTI DEI PROCESSI EDUCATIVI”

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1 Aspetti dei processi formativi
Le informazioni sulla storia personale e la conoscenza delle caratteristiche dei soggetti, soprattutto se in età
evolutiva, e la selezione e l’organizzazione degli interventi educativi e delle attività didattiche hanno un
ruolo molto importante nei processi di formazione integrale della personalità .
Aspetti dei processi formativi sono:
a) la conoscenza delle caratteristiche dei soggetti: nella attuale situazione di forte mutamento istituzionale e
sociale, risulta assolutamente necessario che le caratteristiche dei bambini siano adeguatamente conosciute e
diventino elementi per decidere quali sono gli obiettivi educativi e le modalità per raggiungerli
b) la valorizzazione di credenze, esperienze, diversità
c) la personalizzazione dei processi di crescita e di sviluppo integrale della personalità

Decisioni in tal senso sono la sostanza dell'autonomia degli istituti scolastici e delle istituzioni universitarie
e formative.
Autonomia, infatti, significa autoregolazione ed implica la decisionalità immediata circa le scelte rispondenti
ai bisogni formativi specifici e differenziati dei soggetti.
Altro elemento importante nella costruzione della personalità del soggetto e nella formazione di obiettivi
formativi di “saper essere” è l'individuazione di motivazioni personali : è importante che le motivazioni
degli studenti siano chiarite e conosciute sia dagli studenti stessi che dai docenti e siano progressivamente
maturate in modo funzionale all'apprendimento e più in generale all'individuazione di progetti personali di
studio, allo sviluppo di interessi ed alla qualificazione professionale.

2 Le motivazioni
Le motivazioni possono essere rilevate attraverso opportuni strumenti (test, questionari etc.) e nell'ambito
delle attività didattiche possono essere utilizzate varie occasioni per chiarirle e confermarle, collegandole alle
azioni necessarie per tradurle in progetti personali e per rendere gli allievi capaci di realizzare tali progetti.
Questi aspetti assumono dimensione fondamentale nella considerazione che gli educatori ed i docenti devono
assumere nello svolgimento delle loro funzioni.
Le caratteristiche dei soggetti, ovvero il patrimonio genetico e le memorie acquisite negli anni dell’età
evolutiva e nel corso delle prime esperienze familiari e scolastiche sono elementi fondanti il carattere e
l’atteggiamento verso la vita.
Dispositivi di apprendimento e modalità di sviluppo delle funzioni cognitive e delle capacità relazionali,
infatti, costituiscono il fondamento sul quale si fondano interessi e motivazioni all’agire.
L’interesse, infatti, sollecitato soprattutto da curiosità e motivazioni, rende stabile l’attenzione e sostiene
l’impegno.
La motivazione orienta verso attività che diventano, per il soggetto, gradevoli ed accattivanti, e creano
gratificazione nel loro svolgimento. La piacevolezza dello svolgere un compito o un’attività, infatti, è la
chiave per il successo nell’attività stessa.

3 Attività e motivazioni
Quando un lavoro diventa piacevole e sollecita passione, esso diventa anche il centro della vita del soggetto
che vi si dedica con entusiasmo.
Le motivazioni, pertanto, sono fondamentali nell’orientare le scelte dei soggetti.
Esse attribuiscono senso e significato alle azioni che assumono direzioni congruenti con le aspettative ed i
desideri del soggetto stesso.

“LE ATTIVITÀ DIDATTICHE E LA FORMAZIONE ”

1 Le attività didattiche per la formazione


La formazione della personalità integrale dei soggetti dipende sostanzialmente da:
a) le attività didattiche: per quanto riguarda le attività didattiche nelle scuole, i problemi più importanti si
riferiscono alla ridefinizione dei curricula in regime di autonomia, e quindi non più in base ad astratti
principi pedagogici o disciplinari definiti interamente dal "centro“, mediante Programmi Nazionali, con una
normativa universalmente valida e costante nel tempo.

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b) La mediazione didattica: un'altra serie di problemi importanti riguarda le modalità di insegnamento delle
discipline e deriva da carenze di motivazione e di comprensione da parte dei giovani del senso generale di
una prospettiva disciplinare e da difficoltà nell'apprendimento e nella formazione di competenze.
c) I contributi delle scienze dell’educazione: la conoscenza del “come” avvengono i processi di
apprendimento e di “come” si struttura la personalità può contribuire con indicazioni operative e con una
attribuzione di significato generale ed unificante alle varie iniziative di innovazione.

Le attività didattiche in particolare, possono:


F 0sostenere
B7 l'importanza della continuità dei processi educativi, sottolineando la rilevanza dei momenti di
passaggio da un tipo di scuola ad un altro e dalla scuola all'università, o dalle istituzioni formative al lavoro;
F 0riaffermare
B7 la rilevanza della centralità degli studenti nei processi educativi;
F 0porre
B7 adeguata attenzione all'individuazione delle motivazioni ed agli interessi degli studenti, stimolandoli
ad un impegno a conoscere le proprie caratteristiche ed alla progettualità personale riguardo al proprio
futuro;

Ma per ottenere questi risultati è essenziale che le attività didattiche vengano contestualizzate in sfondi
integratori che diano loro senso e significato.
Occorre, in particolare, attivare una didattica di laboratorio che veda i ragazzi impegnati a condividere
problemi da risolvere e progetti da porre in essere.
Così essi apprendono che ogni attività, come ogni lavoro, deve tendere ad uno scopo realizzativo ed utile,
acquisiscono proceduralità operative, imparano a scambiare esperienze, idee ed a collaborare.

2 La didattica di laboratorio
Il superamento della lezione frontale, da parte della scuola, appare strategia essenziale per il rinnovamento
della didattica e per la ricerca di buone pratiche nella mediazione didattica.
La comunicazione unidirezionale da parte del docente che spiega la lezione e l’ascolto passivo da parte degli
allievi non sono più dimensioni da privilegiare in una scuola immersa in contesti sociali che propongono
forme di comunicazione varie e stimolanti quali le comunicazioni multimediali.
La lezione scolastica tradizionale, pertanto, risulta monotona per ragazzi che spesso non sono neanche
educati all’ascolto.
Diversa efficacia, invece, assume la didattica di laboratorio se, però, nelle attività di laboratorio si
“incontrano” e si riconoscono le conoscenze disciplinari e se, attraverso metodologie di ricerca-azione, si
ricostruiscono le discipline stesse.

3 Le ragioni dei cambiamenti in essere


F 0Riconoscere
B7 il valore della persona
F 0Il
B 7rispetto dei tempi di sviluppo del soggetto(dalla logica dell’insegnamento alla logica

dell’apprendimento)
F 0L’importanza
B7 della partecipazione della famiglia (Patto di corresponsabilità)
F 0Il
B 7rispetto dell’identità dell’individuo e del gruppo (senso di appartenenza)

F 0Le
B 7 pari opportunità

F 0La
B 7 formazione etica del soggetto (cittadinanza attiva)

F 0Assicurare
B7 il diritto-dovere all’istruzione ed alla formazione(dalla logica del bisogno alla logica del diritto)

4 Indicazioni Nazionali 2007


Le Indicazioni Nazionali chiedono ai docenti, per realizzare la centralità dell’allievo sia sul piano
organizzativo,sia su quello relazionale e didattico,di predisporre, in sostituzione dei Programmi nazionali e
dei documenti di programmazione didattica, Il CURRICOLO VERTICALE.
Il processo di elaborazione deL CURRICOLO VERTICALE inizia con
• la definizione degli obiettivi formativi, in linea con standard Nazionali ed Europei di qualità dell’offerta
formativa
• La definizione di obiettivi generali del processo formativo
• L’individuazione di Obiettivi di apprendimento disciplinari.
• La definizione di traguardi di competenze

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Il Curricolo verticale coinvolge tutto il gruppo classe con la coralità delle attività, la condivisione, la
partecipazione
Il Curricolo verticale accompagna lo sviluppo ed i processi di crescita degli allievi, realizzando una reale
continuità di processi
Nell’ambito del curricolo verticale, mediante strategie di conduzione della classe che si avvalgono di
dinamiche di gruppo e di didattica di laboratorio, si realizza la personalizzazione dei processi di
apprendimento e di sviluppo.

5 Gli obiettivi del curricolo


• Gli obiettivi generali (es. valorizzare le esperienze degli allievi)
• gli Obiettivi Specifici di Apprendimento (O.S.A. = conoscenze disciplinari che determinano abilità)

diventano
• Competenze (transfert di conoscenze e di abilità) e si traducono in obiettivi formativi nel momento in cui si
trasformano in “saper essere” cittadini delle diverse situazioni (della famiglia, della classe, del territorio,
dell’Europa, del mondo)

Il CURRICOLO VERTICALE è costituito da conoscenze disciplinari, attività, metodologie e tecniche


integrate organizzate in UNITA’ DI LAVORO (Didattica di Laboratorio) integrate .

“IL MODELLO DI GOWIN E L’APPRENDIMENTO ” ’

1 Il modello di Gowin e l’apprendimento


Come si articola il processo di apprendimento?
Secondo il diagramma a V di Gowin l’apprendimento nasce da un problema che pone domande a cui dare
una risposta
• Qual è la domanda di partenza?
• Quali sono i concetti chiave?
• Quali metodi si utilizzano per cercare la risposta?
• Quali sono le principali asserzioni di conoscenza a cui si arriva?
• Quali sono le affermazioni di valore?

V di Gowin • Versante teorico concettuale Versante metodologico • Visioni del mondo Asserzioni di valore •
Teorie Asserzioni di conoscenza • Principi Interpretazioni, credenze • spiegazioni • generalizzazioni •
Costrutti Risultati di • Strutture elaborazioni • concettuali • Enunciati di Fatti, attività • regolarità o •
definizioni di • concetti • Concetti Registrazione di eventi •• Eventi / Oggetti • fenomeni posti al centro •
dell’indagine, percepiti • attraverso i concetti e • le metodologie di • registrazione

Diagramma a V rappresentativo di una UNITA’ DI APPRENDIMENTO-LAVORO PECUP (Profilo


Educativo Culturale Professionale)DELL’ALLIEVO Versante teorico concettuale domande Versante
metodologico focali Obiettivo (/i) gen. del proc. formativo brainstorming con la classe Obiettivo (/i) sp. di
apprendimento colloquio clinico osservazione mappa concettuale (Fase Progettuale) rete concettuale
dell’unità di app. matrice cognitiva della classe Obiettivo (/i) formativo compito di apprendimento attività e
organizzazione metodi e strumenti PECUP Nazionale verifica e valutazione PROBLEMA (Fase attiva) (Fase
Registrazione delle competenze e loro certificazione nel Documento di Valutazione di certificazione e
registrazione)
U.A. n. 1 – Es. mappa concettuale Obiettivi specifici di italiano .Conoscenze: Abilità:

2 Le conoscenze nell’ordine psicologico dell’allievo


2.1. Italiano
Le conoscenze, codificate secondo l’ordine epistemologico e logico delle discipline, vanno riordinate, nel
curricolo, secondo l’ordine psicologico degli allievi: es.
• Organizzazione del contenuto della comunicazione orale

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• Tecniche di lettura (es. Etichettamento)
• Organizzazione del contenuto della comunicazione iconica e scritta secondo il criterio della successione
temporale (prima-dopo)
• Convenzioni di scrittura: l’organizzazione grafica della pagina
• Concordanze
• La frase e le sue funzioni in contesti comunicativi
• Tratti prosodici
• La funzione dei segni di punteggiatura forte

2.2. Abilità
Ogni conoscenza determina un’abilità, ogni “sapere” promuove un “saper fare”:
• Sa narrare brevi esperienze personali
• Sa mantenere l’attenzione sul messaggio orale nella pluralità dei linguaggi gestuali, mimici, iconici
• Comprende, ricorda e riferisce contenuti essenziali dei testi ascoltati collocando le azioni nel tempo
• Utilizza tecniche di lettura(etichettamento/ corrispondenza significante-significato/ scomposizione e
ricomposizione di parole note)
• Legge, comprende e memorizza brevi testi
• Scrive parole, frasi nucleari e le espande
• Struttura brevi testi
• Organizza la comunicazione scritta rispettando le convenzioni di scrittura note

2.3. Competenze
• Sa dialogare in situazioni sociali
• Sa leggere in situazioni e contesti diversificati
• Sa associare significante e significato in ogni contesto
• Sa comprendere e riferire brevi storie narrate e lette
• Sa usare le convenzioni note nell’uso della lingua orale e scritta

2.4. Obiettivi formativi


Conoscenze (saperi), abilità (saper fare), competenze (transfert di conoscenze e di abilità a situazioni nuove)
determinano nel soggetto nuovi domini di situazioni che “danno forma” a nuovi atteggiamenti di sicurezza in
sé, di autostima, ad un nuovo “saper essere” che realizza obiettivi formativi.
2.5. Ragionamento
La capacità di ragionare, ovvero di elaborare contenuti e di trovare soluzioni ai problemi, è insita in ogni
uomo (salvo eventuali deficit) ed è fondamentale ai fini dello svolgimento delle diverse attività in cui l’uomo
si impegna.
Attività cognitive quali apprendimento di dati, elaborazione e sviluppo di conoscenza, nonchè attività sociali
e creative non sarebbero possibili senza la capacità di ragionare, ovvero di razionalizzare le situazioni.
Acquista, quindi, rilevanza lo studio del ragionamento per poter avere il dominio delle situazioni.
Ragionare significa fare inferenze, ovvero operare per transfert.
Il soggetto acquisisce informazioni e, rielaborandole, giunge a nuove conclusioni.
Fare inferenze vuol dire applicare contenuti a situazioni nuove e diverse che, di volta in volta, si presentano.
Significa, in sintesi, avere una gestione mentale autonoma che consente di operare scelte.
L’acquisizione di conoscenza determina competenza.
La competenza è la capacità di applicare il transfert di conoscenze ed abilità a problemi nuovi.
La competenza si sviluppa mediante il problem solving al fine di giungere alla risoluzione dei problemi
quotidiani.
Il ragionamento elabora, guida ed esplicita la competenza.
Mediante il ragionamento il soggetto, applicando conoscenza e competenza, affronta e gestisce le situazioni,
ponendole a proprio vantaggio.
Ragionamento e conoscenza interagiscono in modo ambivalente.
L’uso del ragionamento offre interpretazioni ambivalenti:
Il ragionamento è fondato sulla conoscenza.

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Maggiore è la conoscenza e migliori sono le inferenze che possono essere esplicate,quindi più un soggetto
conosce, meglio può affrontare la vita con i suoi problemi.
L’ambivalenza nasce perchè le conoscenze e le credenze di un soggetto possono influenzare il suo modo di
ragionare, portando anche ad errori e fraintendimenti.
Esistono due tipologie di ragionamento:
F 0Il
B 7ragionamento consapevole è quello che opera a livello esplicito e che i soggetti usano per giungere in

modo consapevole alla soluzione dei problemi.


F 0Il
B 7ragionamento inconscio non è nè esplicito nè consapevole e viene applicato nella maggior parte delle

attività quotidiane.

In una giornata sono infinite le inferenze che si attivano a livello inconscio.


Se un soggetto è a conoscenza di un legame tra due persone, sarà in grado automaticamente di operare
inferenze del tipo “il figlio della moglie è anche il figlio del marito: se viene detto che il figlio è uscito con la
mamma, automaticamente sarà uscita anche la moglie del marito”.
Altra inferenza automatica può essere relativa alle figure geometriche: un quadrato ha 4 lati.
L’inferenza deduttiva determina una conclusione latente, implicita, si tratta di un dato che è già in possesso
del soggetto e che viene portato alla luce, evidenziato dal processo deduttivo.
L’inferenza induttiva vede una conclusione che aggiunge informazioni ai dati già presenti.
Il ragionamento induttivo è il processo di pensiero che permette al soggetto di giungere ad una spiegazione,
partendo da un dato certo: un fatto o un fenomeno che si ripete- ad esempio- conduce ad una
generalizzazione che può diventare regola.
Il concetto di “logos” e di ragionamento nasce con la filosofia greca.
I termini “ragionare” e “ragionamento” vengono interpretati in termini di logicità e di razionalità.
All’inizio del novecento la psicologia sperimentale cominciò ad interessarsi al ragionamento umano ed ai
suoi processi.
Lo psicologo britannico Peter Wason, negli anni sessanta e settanta, ha dato un grande contributo alle
ricerche sul ragionamento umano.
Le ricerche di Peter Wason hanno evidenziato che i soggetti tendono a verificare le loro ipotesi, anzichè
falsificarle.
Questo modo di fare è stato definito “bias (errori) della conferma”.
Wason afferma che gli uomini, nei loro comportamenti e decisioni, sono “non logici”
Non logicità = irrazionalità
Gli studi contemporanei sul ragionamento attraversano due fasi:
Nella prima fase, gli studi riconoscono la logica formale classica come uno standard rispetto al quale
verificare le capacità di ragionamento delle persone, ovvero la razionalità umana.
Con la seconda fase, invece, gli studiosi si sono resi conto del problema degli errori e delle deviazioni degli
uomini dal modello normativo e della necessità di cercare percorsi e modelli diversi, più consoni alle
molteplici sfaccettature della razionalità umana.
La teoria della logica mentale introduce il concetto dell’ esistenza di una “logica” presente nella mente
umana.
Tale logica è, secondo tale teoria, basata su di un sistema, interno al soggetto, di regole formali.
Lo psicologo svizzero Jean Piaget afferma che lo sviluppo cognitivo umano si evolve in stadi, ovvero tappe
di sviluppo e che la tappa finale va individuata nel periodo adolescenziale del soggetto in quanto è in tale
periodo che un individuo acquisisce la capacità di svolgere operazioni formali.
La logica formale si esplica, secondo il Piaget, nella capacità, acquisita dall’adolescente, di apprendere e
svolgere le operazioni matematiche nonchè altre operazioni astratte, comprese quelle logiche.
Secondo tale teoria piagetiana, la mente ha dei sistemi di regole di inferenza che si fondano su di una “logica
naturale”: si tratta di un sistema limitato di regole astratte di ragionamento che viene applicato
inconsciamente per dedurre, nelle varie situazioni, appropriate conclusioni da premesse date.
Lo psicologo anglosassone Philip Johnson-Laird ha delineato la “teoria dei modelli mentali”.
Tale teoria studia il ragionamento umano e trae spunto dalla semantica logica e dalla teoria formale dei
modelli.

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La teoria dei modelli mentali descrive il ragionamento come un processo “semantico”, ovvero un processo
basato su procedure sistematiche per costruire ed analizzare modelli mentali delle proposizioni da cui sono
derivate le conclusioni.
Gli stadi del ragionamento, secondo la teoria dei modelli mentali, sono tre:
1. I soggetti formulano un modello mentale per rappresentare una possibile situazione che sia congruente con
le informazioni presenti nelle premesse.
2. I soggetti formulano una conclusione plausibile dando una descrizione del modello che sia
semanticamente informativa.
3. I soggetti verificano la conclusione costruendo come contro-esempio modelli alternativi in cui le premesse
dell’argomento sono vere, ma la conclusione è falsa: se nessun contro-esempio di questo genere viene
trovato, la conclusione è valida.

Due modelli teorici spiegano ed interpretano il ragionamento in rapporto al contesto ed al comportamento


dei soggetti.
La “teoria degli schemi pragmatici” sottolinea la stretta relazione tra ragionamento e contesto in quanto il
ragionamento è sensibile al contesto e viene da questo influenzato.
Secondo la “teoria degli schemi pragmatici” il ragionamento è altresì in stretto rapporto con gli scopi e le
finalità che i soggetti si propongono di realizzare.
Tale teoria evidenzia, infatti, l’esistenza di schemi formali o “schemi pragmatici”, che vengono attivati dal
contesto e si traducono in regole che possono essere applicate per ragionare in un dominio particolare.
La “teoria degli schemi pragmatici” sostiene, quindi, che gli uomini imparano a ragionare in determinati
contesti e formulano, partendo da tali contesti e dalle esperienze che in essi realizzano, schemi che
consentono di fare astrazione dalle situazioni specifiche rendendo la conoscenza più generale.
Tali schemi assumono la forma di regole di carattere sociale, indicando ciò che si deve e si può fare e ciò che
non si deve e non si può fare.
La “teoria delle euristiche e dei biases” (errori) fa anch’essa riferimento al contesto in quanto considera le
ricerche di Kahneman e di Tversky in campo economico e probabilistico.
Le “euristiche” sono strategie di facilitazione del processo di soluzione dei problemi, in particolare
nell’ambito della teoria della decisione.
2.6. Sviluppo del pensiero logico
I “biases” sono gli errori sistematici commessi dai partecipanti coinvolti in una situazione decisionale o
problematica: l’accessibilità di proprietà caratteristiche di un problema, particolarmente evidenti nel
momento in cui il problema viene presentato, o informazioni associate al problema e recuperate dalla
memoria, influenzeranno le risposte e le relazioni delle persone, spesso dando luogo a dei “biases”.
Le conoscenze disciplinari sono strumento per l’elaborazione del pensiero e per diminuir gli errori
Il pensiero acquisisce ed elabora dati: deve imparare a selezionare.
Individua relazioni e rapporti.
Costruisce relazioni logiche tra i dati codificati nelle discipline.
Orientare il soggetto all’uso della logica, per costruire saperi, saper fare e saper essere è compito della
funzione di orientamento della scuola.
Le discipline sono il fulcro da cui si irraggiano le competenze e lo sviluppo di un pensiero autonomo e
divergente da itinerari consueti.
Le conoscenze disciplinari sono strumento della logica e dello sviluppo delle intelligenze multiple (Gardner).
La scuola, in particolare, deve rivalutare il ruolo dei saperi disciplinari nella formazione dei giovani.
Occorre superare i tradizionali approcci disciplinari (storico per le discipline umanistiche, tematico per
quelle scientifiche, tecnico-operativo per quelle artistiche e tecniche) sia tematizzando le discipline
umanistiche, sia storicizzando e contestualizzando quelle scientifiche e tecniche.
Occorre ricercare nuove modalità (mediazioni didattiche), strumenti, linguaggi congruenti con i nuovi
bisogni culturali, affettivi, professionali degli studenti di una società in profonda trasformazione.
Oggi l’autonomia pedagogica sollecita una riflessione globale, rigorosa e sistematica sulle discipline: alle
singole istituzioni scolastiche è affidato il compito di selezionare le conoscenze disciplinari, individuare i
nuclei tematici e le problematiche da analizzare, selezionare i metodi da adottare per sviluppare conoscenze,
abilità e competenze, gli obiettivi formativi individuati quali mete e finalità del sistema formativo.

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Come stabilisce l’art.16, comma 3 del D.P.R. 8 marzo 1999, n.275, "i docenti hanno il compito e la
responsabilità della progettazione e della attuazione del
Processo di insegnamento-apprendimento".
Essi curano l’elaborazione del POF (piano dell’offerta formativa), documento costitutivo dell’identità
culturale della scuola, che esplicita la progettazione curricolare, extra-curricolare, educativa, organizzativa,
volta a realizzare percorsi formativi funzionali ai bisogni degli allievi.
Nel quadro delle autonomie emergono livelli decisionali e scelte funzionali alla contestualizzazione del POF,
alla personalizzazione dei processi cognitivi nell’ambito del curricolo verticale ed alla flessibilità
dell’organizzazione didattica:
Quali discipline delle aree integrativa e facoltativa si devono scegliere per costruire l’identità culturale della
scuola, creandone un "valore aggiunto"? Con quali modalità e secondo quali criteri devono essere effettuate
tali scelte?
I moduli disciplinari (es. Didattica breve) come devono essere costruiti? Devono essere sviluppati
prevalentemente come unità metodologico-procedurali o anche come unità contenutistico-concettuali?
E l’organizzazione del gruppo classe in gruppi mobili, di livello/attività, sulla base di quali obiettivi o per la
realizzazione di quali progetti deve avvenire?
La costruzione di un curricolo deve considerare:
- le nuove prospettive offerte dalle epistemologie e dalla ricerca nei singoli domini disciplinari, perché tali
prospettive e sviluppi cognitivi possono offrire orientamenti per individuare i nuclei fondanti delle discipline
e le loro valenze formative;
- gli stili di apprendimento di tipo reticolare e fondati sulla comparazione maturati dagli allievi nel rapporto
con situazioni ipercomplesse, che impongono una revisione dei criteri per selezionare le metodologie e le
strategie didattiche più opportune.

Ripensare le discipline significa indagare intorno a diverse aree problematiche per trovare risposta alle
seguenti domande: l’insegnamento disciplinare è coerente con i nuovi approcci epistemologici e con le
innovazioni scientifiche e tecnologiche in atto?
Come utilizzare le discipline per favorire lo sviluppo integrale della persona, contribuendo alla costruzione
dell’identità umana, etica, sociale di un cittadino del mondo consapevole e responsabile?
Quale rilevanza ha ogni disciplina in rapporto alle richieste provenienti dal mondo del lavoro e dalla società
in genere?
Quali competenze ogni disciplina permette di sviluppare per rispondere alle esigenze professionali e sociali
attuali?
Un approccio all’analisi disciplinare implica, in primo luogo, una riflessione sul significato dei termini
"materia" e "disciplina", che non sono sinonimi, anche se nell’ambito scolastico i due termini vengono usati
entrambi nella stessa accezione.
Il significato dei due termini varia a seconda del dominio entro cui ci si muove: quando parliamo di
"disciplina" riferendoci a un ambito di ricerca in senso stretto, intendiamo un ben definito oggetto del sapere,
delimitato nei contenuti e nelle procedure.
Quando parliamo di "discipline" o di "materie" in campo scolastico, invece, intendiamo aree molto vaste,
riconducibili al raggruppamento di un insieme di problemi, principi, operazioni, strumenti... Selezionati in
campi disciplinari affini.
Una riflessione sulle materie scolastiche, così come si sono configurate nel tempo, porta innanzi tutto ad
individuare le discipline che hanno contribuito a costituirle; successivamente sarà necessario indagare la
struttura delle discipline stesse, alla luce delle nuove acquisizioni della ricerca nei singoli ambiti disciplinari,
per individuarne i nuclei fondamentali, intorno ai quali costruire i progetti e i moduli della scuola
dell’autonomia.
Come accade per altre materie scolastiche (v. Geografia o scienze o economia), l’italiano nella scuola si
presenta come una materia complessa, in cui si fondono più discipline, ciascuna delle quali contribuisce in
qualche misura alla costruzione delle conoscenze individuate quali obiettivi specifici di apprendimento del
curricolo verticale.
Anche se con differenze determinate dai livelli di insegnamento/apprendimento, possiamo dire che la materia
"italiano" si pone l’obiettivo di sviluppare competenze relative alla conoscenza e all’uso di due oggetti
specifici: la lingua e i testi.

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Per far questo utilizza conoscenze provenienti da una serie di discipline, che si sono costituite nel tempo, a
mano a mano che emergevano problemi dalle trasformazioni sociali, culturali, scientifiche, tecnologiche che
connotano lo sviluppo sociale.
Tra le discipline che costituiscono l’italiano possiamo individuare: la linguistica (fonologia, grammatica,
teoria del linguaggio) /-la semantica /-la pragmatica /-la socio-/etno-/psico-linguistica /-la semiotica /-la
storia della lingua /-la scienza della comunicazione /-la storia della letteratura /-la teoria della letteratura /-la
critica letteraria /-l’estetica /-la filologia.
Acquisita la consapevolezza di quali e quante discipline hanno contribuito a costituire la materia, si può
procedere alla ricognizione storica delle discipline stesse.
L’analisi disciplinare implica la ricostruzione storica delle discipline che costituiscono la materia, a decorrere
da quando si è incominciato ad indagare nell’ambito di un certo campo di problemi fino ai giorni nostri.
Integrando gli aspetti diacronici con quelli sincronici dello sviluppo delle diverse discipline, la dimensione
storica consente di comprendere quando e perché le singole discipline sono nate, quali sono i loro campi di
indagine, come si sono evolute nel tempo secondo i modelli culturali dominanti nei diversi contesti storici e
sociali, quali procedure, linguaggi , metodi le caratterizzano, secondo quali paradigmi si sviluppa oggi la
ricerca disciplinare...
Da un’attendibile ricostruzione storica delle discipline possono essere tratti i dati necessari per sviluppare
una riflessione disciplinare che consenta di individuare le valenze formative e orientative delle discipline
stesse e la loro rilevanza nello sviluppo sociale, culturale e professionale del soggetto.
Rispetto alle conoscenze disciplinari sembra opportuno assumere la posizione epistemologica di quegli
autori e di quelle scuole di pensiero che considerano la conoscenza come un processo di costruzione di
mondi.
Le teorie di riferimento sono:
• il costruttivismo, in particolare quello di Maturana e Varela;
• la teoria ecosistemica e della complessità, riferite al pensiero di G. Bateson e di E. Morin;
• La psicologia culturale/epistemologia operativa dei post-piagetiani;
• Il neo-cognitivismo.

L’ ipotesi epistemologica più attuale si fonda sul principio della storicità e della circolarità della conoscenza:
soggetto e oggetto sono interdipendenti e formano un sistema di auto-eco-conoscenza, perché il soggetto che
pensa e conosce è inserito in un ambiente naturale, storico, culturale con cui interagisce nel processo di
costruzione del sapere.
La conoscenza non è eteronoma, ovvero una rappresentazione oggettiva del mondo, essa si costruisce in un
rapporto interattivo con l’ambiente ed è prodotto sia della struttura biologica, cognitiva, emotiva del
soggetto, sia del contesto culturale e sociale con cui ciascun soggetto interagisce.
Quest’ultima ipotesi orienta verso la revisione dei saperi disciplinari, perché riconosce alla soggettività degli
individui la capacità di interpretare fatti e fenomeni e di ricostruire e "rivivere" quanto tradizione e culture
hanno veicolato, per selezionare le conoscenze che oggi appaiono fondamentali.
La funzione di orientamento delle scelte si fonda sulla congruenza dell’approccio organizzativo e
metodologico con la conoscenza del reale quale unità molteplice di prospettive disciplinari
(interdisciplinarità/logica ologrammatica).
Le conoscenze disciplinari intervengono sinergicamente ad interpretare fatti e fenomeni resi problematici.
Occorre co-costruire, nel confronto delle prospettive, delle logiche e dei linguaggi, unità di apprendimento/
unità di lavoro interdisciplinari, centrate su problemi, che vadano a mediare ed a favorire l’incontro tra le
ipotesi e le interpretazioni soggettive dell’allievo circa “come funzionano i fenomeni” e le conoscenze
codificate nelle discipline, prodotto della ricerca scientifica e della cultura storicamente determinata.
Sia l’apprendimento del nuovo e sia l’orientamento verso il nuovo (scelta di nuovi percorsi scolastici e
professionali) per non restare lontani dalla percezione del soggetto e per non essere confinati nel limbo delle
teorie e delle astrazioni devono partire da un problema

54 RAPPRESENTAZIONE DELLA DIDATTICA PER PROBLEMI:DIAGRAMMA A V (GOWIN)


VERSANTE CONCETTUALE VERSANTE METODOLOGICO • TEORIE-CURRICOLI - COLLOQUI
CLINICI/BRAINSTORMING • PRINCIPI -SVILUPPO - SIMULAZIONI / ROLE PLAYNG • CONCETTI
(MAPPE CONCETTUALI) - RICERCA-AZIONE/COOPERATIVE • DISCIPLINE

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(INTERDISCIPLINARITA’) LEARNING DOMANDE PROBLEMATICHE V EVENTO
PROBLEMATICO (QUALE SCELTA DI CORSO DI STUDIO/ATTIVITA’ ?)
55 Diagramma a V del Processo cognitivo PECUP DEL SOGGETTO Versante teorico concettuale domande
Versante metodologico focali Obiettivo (/i) gen. del proc. formativo brainstorming con la classe Obiettivo (/
i) sp. di apprendimento colloquio clinico osservazione mappa concettuale (Fase Progettuale) rete concettuale
dell’unità di app. matrice cognitiva della classe Obiettivo (/i) formativo compito di apprendimento attività e
organizzazione metodi e strumenti Traguardi-Standard Nazionali verifica e valutazione (Fase attiva) (Fase
PROBLEMA di certificazione e Registrazione delle competenze e loro certificazione per l’orientamento
registrazione)

2.7. Comprendere la struttura della conoscenza


Diagramma a V: strumento euristico per una metacognizione.
Procedura:
- qual è il problema/domanda di partenza?
- quali sono i concetti chiave / teorie?
- quali metodi si utilizzano per cercare la risposta?
- quali sono le principali asserzioni di conoscenza a cui si arriva?
- quali sono le affermazioni di valore / i giudizi?
riflessione su come si impara/si cercano dati/si operano scelte:
- Dalla logica dell’insegnamento alla logica dell’apprendimento
- Dalla logica del bisogno alla logica del diritto
- Prospettiva dell’allievo = soggetto che apprende (personalizzazione dei processi di apprendimento)
- Centralità del problema da risolvere
(interdisciplinarità = tutte le conoscenze disciplinari intervengono, con le loro idee, a costruire ipotesi
risolutive da falsificare mediante la ricerca-azione)
focus (focus group)
domanda centrale
Integrazione attiva tra versante teorico / concettuale e versante metodologico
Versante teorico consolidamento di:
- visioni del mondo (filosofie)
- teorie / principi / costrutti/ strutture concettuali / regolarità scientifiche / concetti disciplinari
Nel curricolo scolastico verticale, connotato dalla coralità di azione del gruppo e dalla condivisione del
problema da risolvere e dell’azione progettuale centrata su compito, l’unità di apprendimento si traduce in
unità di lavoro che rendono il soggetto consapevole delle potenzialità possedute, delle competenze acquisite
e dei talenti e delle eccellenze da sviluppare
Il curricolo verticale implica: personalizzazione degli apprendimenti- contestualizzazione delle conoscenze
disciplinari modulate su:
- ritmi di apprendimento
- intelligenze multiple (Gardner)
- eccellenze/talenti di ciascun allievo
• Le unità di apprendimento/lavoro (es. Storie – fenomeni – item disciplinari) centrati su problemi) possono
essere rappresentate anche mediante mappe concettuali (modello di Novak)
• Le mappe concettuali visualizzano le relazioni tra i concetti
• Le mappe concettuali individuano le parole-chiave (i concetti fondamentali)
• Le mappe concettuali evidenziano le parole-legame (le relazioni esistenti)
• Le mappe concettuali servono per riflettere ed individuare percorsi
• Scoprire linguaggi (disciplinari, tecnologici, informatici, multimediali)
• Elaborare concetti/produrre idee divergenti
• Selezionare procedure/metodi
• Contestualizzare esperienze / fatti/ fenomeni in sfondi integratori che diano significato e senso alle azioni
• costruzione dell’identità/profilo: educativo, culturale, professionale del soggetto
• certificazione delle competenze per accedere a percorsi scolastici e professionali

Il risultato di tale percorso conduce alla realizzazione di obiettivi formativi:

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Istruzione, formazione ed orientamento “danno forma” al “saper essere” dei soggetti secondo standard di
cittadinanza europea e mondiale per l’inclusione dei soggetti nei processi sociali connotati da
globalizzazione dell’economia e mondializzazione degli eventi.
Conoscenze, abilità e competenze promuovono atteggiamenti di autonomia, sicurezza ed autostima nei
soggetti che “danno forma” a nuovi “saper essere”= si raggiungono, così, gli obiettivi formativi.
Il quadro normativo più attuale pone la centralità degli obiettivi formativi per l’inclusione dei giovani nei
processi sociali:
La cittadinanza attiva e la conoscenza dei principii e dei valori della costituzione sono dimensioni della
crescita degli allievi in tal senso.

“LA FUNZIONE DELL’APPRENDIMENTO NELLA FORMAZIONE DELL’IO” ’’

1 Attività e saperi disciplinari


I processi cognitivi vanno ricondotti ai saperi disciplinari: per evitare l'attuale frammentazione ed estraneità
di questi insegnamenti curriculari, occorre ridefinire organizzazione didattica e metodologie di approccio ai
saperi e ricostruire un quadro unitario di riferimento contestualizzato nell’ambiente di vita dell’allievo.
L'apprendimento, il processo mediante il quale si acquisiscono nuove conoscenze, coinvolge diverse
strutture che interagiscono attraverso processi di accomodamento, composizione, giustapposizione.

2 Strutture di apprendimento
Fra le più importanti ricordiamo:
F 0le
B 7strategie cognitive personali, gli stili di apprendimento, le esperienze individuali e collettive;

F 0il
B 7complesso di fenomeni dell'ambiente circostante, le informazioni e gli stimoli provenienti dalla realtà

esterna,
F 0iBmodelli,
7 i formalismi, le teorie, le dinamiche delle agenzie educative;
F 0iBmezzi
7 di comunicazione ed i percorsi che regolano lo scambio delle informazioni.

3 La costruzione dell’identità
L’IDENTITÀ è la rappresentazione delle caratteristiche dell’IO.
Indica le “attribuzioni” e le “qualità” di un soggetto che lo rendono unico – irripetibile e fondano la sua
diversità come valore della persona.
Il SENSO della propria identità può essere percepito solo nell’incontro con l’altro, nell’ ALTERITÀ.
L’IDENTITA’ si commisura continuamente nella dialettica della similitudine e della distinzione
Appartenenza caratteristiche ad uno schema che rendono di riferimento il soggetto (gruppo sociale) diverso
ed irripetibile Lo sviluppo dell’IO è un punto di equilibrio continuo tra pensiero convergente e
divergente,individualità e comunità , conformità e anticonformità

IDENTITA’ EQUILIBRATA E ARMONICA SODDISFA bisogno bisogno di di soggettività sentirsi alterità


Bisogno di strutturarsi di farsi riconoscere Bisogno di riconoscersi di farsi accettare dagli altri Cerchio
dell’identità IO
Identità e concetto di Sè L’elaborazione del concetto di Sé avviene attraverso delle tappe • Sé come La stima
di Sé come fattore chiave per l’acquisizione dell’identità • persona tra le altre • Unico e originale • amicizia •
Moralità
3.1 Identità positiva ed integrata e processo di costruzione del sé
Una identità positiva ed integrata e un processo di costruzione del sé implicano:
• Rapporto col proprio corpo
• Rilevanza della categoria di “ relazione” nella definizione dell’identità positiva (percezione del sé)
• Collocazione entro il quadro delle responsabilità collettive, pubbliche
• Comunicazione, relazioni dialogiche, interpretazione dei linguaggi e dei messaggi della comunicazione

3.2 Ostacoli alla costruzione dell’ identità


Se il processo di costruzione del Sé non procede secondo le tappe “fisiologiche”individuate, lo sviluppo
dell’individuo può andare incontro a “rischi rilevanti”: identità compromessa

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Una costante discrepanza fra sé reale , sé ideale e sé normativo dà luogo a condotte disadattate e velleitarie,
improduttive, devianti dalle norme di convivenza civile
Intervengono disturbi dovuti a disadattamento ed a disagio.
3.3 La mediazione didattica come variabile nella determinazione dei processi di formazione dell’identità.
La mediazione didattica si configura come variabile importante nella determinazione dei processi di
formazione dell’identità.
FEUERSTEIN nel valorizzare la centralità della mediazione didattica per la formazione dellidentità del
soggetto individua gli elementi costituenti variabili essenziali di processo:
- MODIFICABILITA’ COGNITIVA STRUTTURALE
- INTELLIGENZA EMOZIONALE
- MEDIAZIONE COME VARIABILE NEI PROCESSI DI APPRENDIMENTO E DI FORMAZIONE
INTEGRALE DELLA PERSONA

Emerge la necessità di una mediazione didattica efficace, possibile solo con un quadro armonico di
riforme istituzionali che introducano nelle scuole di ogni ordine e grado:
- ACCOMPAGNAMENTO DA PARTE DEL DOCENTE NELLA PERCORRENZA DEL CURRICOLO
VERTICALE
- SEMPLIFICAZIONE DELLE MODALITA’ DI INCONTRO CON LE CONOSCENZE DISCIPLINARI
(LOGICA OLOGRAMMATICA E PROBLEM SOLVING E METODOLOGIE DI RICERCA-AZIONE)
- REGIA NELL’ORGANIZZAZIONE DELL’AMBIENTE PER L’APPRENDIMENTO
- (DIDATTICA DI LABORATORIO E DINAMICHE DI GRUPPO)
- RICERCA DI MEDIATORI EFFICACI E DI BEST PRACTICES
- UTILIZZO DELLE TECNOLOGIE INFORMATICHE E DELLA COMUNICAZIONE QUALI
FACILITATORI DELL’APPRENDIMENTO

“FORMAZIONE E MEDIA”

1 I media e la violazione dei diritti del bambino


Se è vero che i media, con la prevalenza delle immagini e di una grafica evoluta, con strumentazioni che
possono diventare prolunghe del corpo del bambino ed elementi di compensazione soprattutto delle disabilità
e se è vero che costituiscono, con INTERNET , una finestra affacciata sul mondo e quindi sono validi
facilitatori degli apprendimenti, è altrettanto vero che essi presentano anche aspetti negativi che possono
esercitare violenza verso i diritti dell’infanzia.
Essi, infatti presentano:
• AGGRESSIVITA’ E COMPLESSITA’ DEGLI INPUT DETERMINATE DALLA PLURALITA’ DEI
MEDIA
• DIFFICOLTA’ NELLA DECODIFICAZIONE DEI LINGUAGGI
• LINGUAGGI OCCULTI
• CONDIZIONAMENTI DEI COMPORTAMENTI (ES. MODELLI DOMINANTI - STEREOTIPI)
• ESALTAZIONE DI DISVALORI (ES. PUBBLICITA’)
• DIFFICOLTA’ DI SELEZIONE DELL’INFORMAZIONE MEDIATA DAI RESPONSABILI DEI MEDIA
• DIFFICOLTA’ DI INTERPRETAZIONE CRITICA DELL’INFORMAZIONE
• STRUMENTALIZZAZIONE DEI MEDIA (POLITICA- COMMERCIALE – SESSUALE)

2 Differenziazione delle tecnologie


Nella differenziazione delle tecnologie della comunicazione emerge la responsabilità di chi media
l’informazione ed i messaggi (visivi, sonori, del corpo) e che seleziona i diversi aspetti della realtà secondo i
significati che vuole proiettare o far emergere.
In TELEVISIONE ad esempio la morte ed il dolore sono fatti vedere solo nei casi ineluttabili e naturali:
• La morte del Papa
• Le scene di morte del maremoto

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Si tende, invece, a non far vedere le scene di morte e di dolore della guerra perché c’è la responsabilità di chi
la fa.

3 Informatica
INFORMATICA: AUTOMAZIONE DELLE INFORMAZIONI • INTERNET: OGGETTIVITA’ DEL
MONDO DELLA COMUNICAZIONE DOVE E’ IL SOGGETTO A NAVIGARE ED A SELEZIONARE
LE INFORMAZIONI, IL BENE ED IL MALE IL MONDO ARTIFICIALE E’ COME IL MONDO
NATURALE • INTERNET FINESTRA APERTA SUL MONDO
LE TIC PER LA PERSONALIZZAZIONE DEI PROCESSI E PER L’INCLUSIONE SOCIALE
• INFORMATICA = METODOLOGIA:

TOP DOWN
PROCEDURE
ALGORITMI
• PC = PROLUNGA GRAFICA DEL CORPO
• PC = SUPERAMENTO DI BARRIERE INFORMATIVE
• INTERNET = NAVIGARE NEL MONDO COMUNICARE-CONOSCERE

4 La costruzione delle conoscenze per “saper essere”


Le T.I.C. consentono di:
• SCOPRIRE LINGUAGGI ( DISCIPLINARI, TECNOLOGICI, INFORMATICI, MULTIMEDIALI)
• ELABORARE CONCETTI/ PRODURRE IDEE DIVERGENTI
• SELEZIONARE PROCEDURE/METODI
• DIVENTARE AUTONOMI
• SVILUPPARE ATTIVITA’ DI RICERCA-AZIONE
• NAVIGARE NEL MONDO VIRTUALE
• COMUNICARE IMMEDIATAMENTE E SIMULTANEAMENTE
• SVILUPPARE STILI DI PENSIERO RETICOLARI
• CONTESTUALIZZARE ESPERIENZE / FATTI/ FENOMENI IN SFONDI INTEGRATORI CHE DIANO
SIGNIFICATO E SENSO ALLE AZIONI
• COSTRUZIONE DELL’IDENTITA’/PROFILO: EDUCATIVO, CULTURALE, PROFESSIONALE
dell’allievo
• INTEGRAZIONE SOCIALE –CONVIVENZA CIVILE-
• CITTADINANZA ATTIVA NEL MONDO

Le TIC facilitano:
• Lo sviluppo della creatività intesa come immaginazione scientifica
• un pensiero divergente da itinerari consueti
• la produzione di idee nuove
• la costruzione della cultura ( terzo mondo di Popper: l’uomo è creatore del mondo della cultura –codificato
nei libri e nelle discipline- che retroagisce sul pensiero umano che lo ha prodotto e ne determina l’ulteriore
sviluppo)

“TEORIE DELL’APPRENDIMENTO E QUALITÀ DEI PROCESSI (PARTE I)” ’

1 Le teorie
Per le teorie cognitivistiche (o fenomenologiche) l'apprendimento è un processo conoscitivo che trae origine
dal bisogno di costruzione (e di strutturazione) del reale, implicito nell'interazione io/ambiente, e viene
studiato come fatto "molare", globale e massivo, analizzando i cambiamenti che avvengono nelle strutture
cognitive del soggetto e nella sua personalità.
Nel rapporto fra motivazione ed apprendimento incidono numerosi fattori capaci di condizionare il successo
dell'apprendimento. Esponenti di spicco: Bruner, Lewin, Piaget, Tolman.

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2 Sviluppo, apprendimento, conoscenza e ambiente: quali relazioni?
Lo sviluppo cognitivo, relazionale ed emozionale di un individuo non può prescindere dal contesto
ambientale di riferimento.
Il rapporto uomo – ambiente designa tutta la storia dell’ evoluzione della specie umana in quanto, se si
prendono in considerazione i processi di sviluppo biologico secondo il modello darwiniano, bisogna anche
considerare la misura in cui essi sono influenzati dalla realtà circostante e dagli stimoli, dalle sollecitazioni
che tale realtà presenta.
I livelli di maturazione biologica sono infatti stimolati dalla realtà ambientale circostante intesa come realtà
socio-culturale: il linguaggio simbolico, ad esempio, è fondamentale nello sviluppo cognitivo di un
individuo.

3 Piaget e Vygotskij
Piaget, studioso di epistemologia genetica, analizza i processi mentali che sottendono i comportamenti
infantili e introduce il concetto che “l’ontogenesi ripete la filogenesi” ovvero lo sviluppo del singolo
ripercorre lo sviluppo della specie.
Piaget introduce la psicologia cognitiva ed i concetti di strutture mentali e di schemi di funzionamento del
pensiero atti ad elaborare informazioni sensoriali e percettive.
Lo psicologo studia la logica formale ed il suo rapporto con la psicologia dello sviluppo intellettuale.
I metodi adottati dal Piaget si identificano con:
• Il “metodo dell’osservazione sistematica a carattere quasi sperimentale”
• Il “metodo critico” ovvero il porre il soggetto in situazione “critica” o problematica
• Il “colloquio clinico”

Piaget formula alcune ipotesi:


a) continuità tra adattamento riflesso, adattamento abitudinario ed adattamento intelligente;
b) apprendimento inteso come equilibrio dinamico tra processi di assimilazione e processi di
accomodamento;
c) prevalere di processi di accomodamento nelle attività imitative svolte dai bambini e di processi di
assimilazione nelle attività di gioco
d) egocentrismo e realismo infantile
e) contrapposizione tra pensiero irreversibile e pensiero reversibile o operatorio.
L.Vygotskij sostiene che l’origine del linguaggio è sociale. Le parole esprimono il pensiero e quest’ultimo,
mediante il linguaggio, riflette su se stesso e si arricchisce di nuovi legami logici: produce nuove idee.

“TEORIE DELL’APPRENDIMENTO E QUALITÀ DEI PROCESSI (PARTE II)” ’

1 Jerome Seymour Bruner


Bruner supera la teoria degli stadi evolutivi formulata dal Piaget in quanto li interpreta come segmenti rigidi
di sviluppo nell’ambito dei quali interagiscono processi di apprendimento e processi di maturazione
analizzati al fine di determinare comportamenti e schemi mentali.
Secondo il Bruner tale segmentazione, invece, limita una reale conoscenza dei processi di pensiero infantili
e dei percorsi di apprendimento.
Bruner sottolinea l’importanza del rapporto che il bambino ha con l’ambiente
Bruner individua tre tipi di rappresentazione che il soggetto sviluppa in rapporto all’ambiente:
a) esecutiva
b) iconica
c) simbolica
Lo studioso pone in primo piano l’apprendimento del linguaggio.
Il rapporto che il bambino stabilisce con la madre rappresenta input fondamentale per l’apprendimento del
linguaggio e la costruzione di strutture e costrutti linguistici in quanto la madre rappresenta per il bambino il
contatto primario con l’ambiente che lo circonda.
Il bambino possiede dispositivi di apprendimento per il linguaggio (LAD:Linguage Aquisition Device) che
vengono attivati dall’ambiente linguistico (LASS: Linguage Aquisition System Supporty)

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La scuola deve attivare i dispositivi di apprendimento con sfondi integratori altamente costruttivisti.
Il rapporto che il bambino stabilisce con la madre rappresenta input fondamentale per l’apprendimento del
linguaggio e la costruzione di strutture e costrutti linguistici in quanto la madre rappresenta per il bambino il
contatto primario con l’ambiente che lo circonda.
Bruner, infatti, riprende e supera le teorie di Noam Chomsky sull’ apprendimento del linguaggio.
Chomsky, esponente dell’innatismo, afferma che ciascun individuo possiede già alla nascita un dispositivo
per l’acquisizione del linguaggio o L.A.D. (Language Acquisition Device)
Bruner sottolinea la rilevanza dell’ambiente socio-culturale di appartenenza e afferma che il L.A.D. non può
esplicarsi senza un “Sistema di Supporto per l’Acquisizione del Linguaggio” o L.A.S.S. (Language
Acquisition Sistem Support)
Bruner afferma che l’apprendimento deve essere fondato sulla “scoperta” in quanto sottolinea l’importanza
della “motivazione”: il soggetto, sollecitato dagli stimoli ambientali, attiva in modo naturale la “curiosità”
che gli consente di conoscere ed elaborare, introiettandola, la realtà che lo circonda.
Bruner introduce il concetto di “struttura” e si riferisce alle idee fondamentali di una disciplina.
Per Bruner la categorizzazione costituisce un fenomeno corrispondente ad un raggruppamento per
equivalenza.
Ne “La ricerca del significato” l’Autore fa riferimento alla dimensione soggettiva dell’individuo e al come
egli attribuisce senso e significato a fatti e fenomeni.

2 Novack
Novak propone il modello delle pappe concettuali rappresentative delle conoscenze, delle narrazioni, dei
fenomeni. Le mappe concettuali , infatti, sono rappresentative di reti concettuali dove parole chiave sono
connesse da parole legame: il pensiero reticolare viene così rappresentato in rapporto al proprio contenuto.
Le mappe concettuali visualizzano le relazioni esistenti tra le idee.

3 Elio Damiano
Damiano formula l’ipotesi secondo la quale “la conoscenza consiste nella costruzione e nell’ organizzazione
di concetti”
“I concetti sono conoscenza organizzata secondo regole”
Il bambino elabora concetti fin dalla nascita, in modo naturale e, nel momento in cui apprende, riorganizza i
propri quadri concettuali.
Damiano individua così la “matrice cognitiva” del bambino
L’ Autore sottolinea l’importanza della scuola e della didattica nella costruzione ed elaborazione, da parte del
bambino, di reti concettuali
Elio Damiano individua le fasi di una “didattica per concetti”:
a) costruzione di una mappa concettuale di base
b) conversazione clinica
c) elaborazione della rete concettuale che va a definire l’ unità di apprendimento.
d) La costruzione di una “mappa concettuale” consente di evidenziare le idee “forti” relative all’ argomento
scelto, nonché le “relazioni” e le “funzioni” presenti nel quadro concettuale considerato.

4 Gowin
Il modello a V di Gowin rappresenta il processo di apprendimento: al vertice della V abbiamo un problema
da cui scaturiscono domande focali. Le risposte sono sul versante concettuale delle discipline. Sul versante
metodologico v’è la mediazione didattica

5 Morin
Il contributo di Morin ai Documenti di indirizzo (Indicazioni Nazionali) del M.I.U.R. (Ministero Istruzione
Università Ricerca) è relativo all’unità del sapere. Il reale è infatti unità molteplice di prospettive: ogni reale
viene osservato sulla linea del tempo, nello spazio, viene misurato etc.

6 Howard Gardner

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Gardner individua forme molteplici di intelligenza e afferma che ciascun individuo presenta uno stile
cognitivo unico ed irripetibile, risultante dall’interazione tra i diversi gradi e forme delle intelligenze
possedute.
Lo studioso elabora così la Teoria delle “Intelligenze Multiple”.
Secondo Gardner la cultura riveste un ruolo fondamentale nella costruzione delle “intelligenze”.
L’ Autore afferma che ad ogni intelligenza corrisponde una particolare forma di creatività.
La scuola deve sviluppare le intelligenze multiple degli allievi.

7 D. Goleman
Secondo Daniel Goleman la personalità è costituita anche dall’intelligenza emozionale che ha un ruolo
significativo nei processi di sviluppo.
La gestione ed il controllo delle emozioni assume forte valenza anche nei processi di apprendimento e nelle
prestazioni cognitive.
L’opera principale di Daniel Goleman è “Emotional Intelligence”, testo mirato ad analizzare il ruolo che
hanno le emozioni nell’orientare i comportamenti dei soggetti e nella costruzione dell’identità dei soggetti
stessi.
L’ intelligenza emozionale contribuisce a determinare il “saper essere” del soggetto.
L’ Intelligenza Emozionale consente al soggetto di:
a) imparare a gestire le componenti delle emozioni personali e sociali;
b) acquisire maggiore consapevolezza delle emozioni e dei loro effetti;
c) rafforzare la fiducia in se stesso, l’identità e sviluppare potenziali e capacità;
d) gestire positivamente le emozioni e le energie;
e) approfondire le spinte motivazionali e gli obiettivi professionali;
f) potenziare la capacità di creare relazioni interpersonali empatiche attraverso i canali della comunicazione;
g) ampliare le capacità di promuovere e guidare il cambiamento.

“APPRENDIMENTO E PERSONALITA’ GLOBALE” ’

1 Apprendimento e personalità globale


Altre teorie dell'apprendimento, come quelle emerse nell'ambito dell'approccio fenomenologico umanistico
(Carl Rogers e Maslow), collegano l'apprendimento al bisogno di crescita della personalità che ristruttura se
stessa nell'atto dell'apprendere come fatto globale.
La personalità è quindi coinvolta a livello emotivo/affettivo oltreché cognitivo (intelligenza emozionale di
Goleman).
I processi di apprendimento hanno valenza fondamentale nella costruzione della personalità .
1.1. Transfert di apprendimento
L'apprendimento supera la natura meccanica per avvicinarsi alla comprensione permanente a livello di
ritenzione mnemonica e in particolare spendibile in altri contesti, diversi da quelli in cui ha avuto luogo
(transfer di apprendimento), in virtù della capacità costruttiva di una nuova mediazione didattica.
1.2. Sistema cognitivo dinamico personale
Si tratta di favorire nello studente la costruzione di una rete di strumenti, metodi, correlazioni, abilità generali
capaci di aiutarlo a formare un sistema dinamico autoconsistente di metodi, nozioni, legami, abilità, e quindi
la necessità di sviluppare approcci e strumenti per favorire l'esplorazione, l'autovalutazione, la creazione di
percorsi autonomi .
1.3. Mediazione didattica
Il senso educativo profondo della relazione interpersonale che connota la mediazione didattica è proprio
nella serie di atti linguistici che si sviluppa tra gli interlocutori su tre livelli: logico-formale, esperienziale-
sociale, empirico-scientifico.
Le conoscenze vengono ricercate come risposte a domande emergenti da problemi di vita, vengono
interpretate e selezionate, vengono trasferite a problemi analoghi.
L'allievo, attraverso le fasi della percezione del problema, la comprensione delle soluzioni possibili,la
memorizzazione delle conoscenze disciplinari, costruisce un sistema personale di interpretazione e dominio
della realtà.
L’allievo “impara ad imparare” per la vita.

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1.4. Qualità
La Qualità esprime la condizione di adeguatezza di un percorso formativo rispetto alle esigenze che si
propone di soddisfare: il grado di rilevanza degli obiettivi (fitness of purpose) ed il grado di raggiungimento
degli stessi (fitness for purpose ).
L’assicurazione della qualità definisce il sistema complessivo di scelte e di organizzazione adottato
dall’istituzione per il raggiungimento ed il continuo miglioramento della condizione di adeguatezza.
1.5. Valutazione
La valutazione interna ed esterna (dei risultati, dei processi e delle risorse disponibili) è una delle attività
svolte nell’ambito di un sistema di assicurazione della qualità. Comunica all’esterno la qualità del percorso.
1.6. Standars
Occorre adottare una base condivisa di standards, procedure e linee guida per la valutazione interna ed
esterna dei percorsi di istruzione e di formazione
Occorre procedere ad una continua revisione dei percorsi scolastici per attuare una reale contestualizzazione
delle discipline scolastiche per costruire le competenze necessarie all’inclusione dei soggetti nei processi
sociali e allo sviluppo dell’autonomia di pensiero (Gestione Mentale Autonoma di Antoine de la Garanderie).

“GLI AMBIENTI DI APPRENDIMENTO”

1 Gli ambienti di apprendimento


1.1. Ambiente costruttivista
L'ambiente d'apprendimento costruttivista è un posto in cui gli studenti possono lavorare insieme ed aiutarsi
a vicenda per imparare ad usare una molteplicità di strumenti e risorse informative nel comune
perseguimento di obiettivi d'apprendimento e di attività di problem solving (Wilson).
1.2. Prospettiva situazionista
Una "filosofia" educativa costruttivista interpreta la conoscenza come insiemi di significati costruiti con
l'intelligenza, attraverso l'interazione con il proprio ambiente , ricco di strumenti e di risorse; inoltre, il
soggetto si appropria dei modi di vedere e di agire di un gruppo di cui è parte integrante (prospettiva
situazionista).
1.3. Ambiente di apprendimento
Un ambiente d'apprendimento è determinato, secondo Salomon, dai seguenti elementi:
F 0uno
B 7 spazio fisico,

F 0un
B 7 insieme di attori che vi agiscono,

F 0comportamenti
B7 concordati,
F 0una
B 7 serie di regole o vincoli,

F 0attività
B7 o compiti assegnati o concordati,
F 0tempi
B7 di operatività,
F 0un
B 7 insieme di strumenti oggetto di osservazione, manipolazione, lettura, argomentazione,

F 0un
B 7 insieme di relazioni fra gli attori,

F 0un
B 7 clima determinato dalle relazioni instaurate e dallo svolgimento di attività e compiti,

F 0un
B 7 insieme di aspettative,

F 0un
B 7 modo di vedere se stessi,

F 0lo
B 7 sforzo mentale impegnato nei processi di apprendimento.

1.4. Ambienti minimalisti


Nelle classi tradizionali (minimaliste), prevale la presenza delle banche d'informazione e dei compiti da
eseguire: agli studenti non è permesso di gestire il proprio apprendimento.
1.5. Ambienti costruttivisti
Gli ambienti costruttivisti sono, invece, ricchi. In essi prevale la presenza di strumenti per la simulazione, per
la costruzione di modelli, strumenti di authoring ipermediale: l'allievo è responsabile del suo apprendimento
(generativo, cioè attivo e autonomo, ancorato a problemi autentici, cooperativo), mentre l'insegnante assume
il ruolo di consulente, assistente e guida.
1.6. Atteggiamenti per l’inclusione
Per favorire l’inclusione dei giovani nei processi sociali occorre che gli educatori (familiari, operatori
scolastici e sociali) assumano una serie di atteggiamenti improntati all’assertività ed alla pro socialità.

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In particolare occorre che, nella scuola, si promuova una comunicazione creativa, a tal fine bisogna costruire
le condizioni per:
F 0posizione
B7 di ascolto dell’insegnante
F 0osservazione
B7 sistematica dei comportamenti per rilevare i processi (utilizzo del protocollo quotidiano)
F 0accettare
B7 risposte divergenti dalla norma
F 0alternare
B7 tecniche basate sul pensiero razionale-logico e tecniche creative basate sul pensiero divergente

1.7. Tecniche di comunicazione integrate


Occorre attivare Tecniche di comunicazione integrate che favoriscano dinamiche di gruppo, metodologie e
strategie per l’inclusione nei processi sociali :
TECNICHE DI COMUNICAZIONE INTEGRATE • Dinamiche di gruppo: - modellaggio - concatenamento
(comportamentismo) - contrattazione contingenze - rinforzamento -autocontrollo TECNICHE INTEGRATE
• Colloquio clinico (psicoanalisi) DI • Analisi transazionale: - Io Bambino ( modello di Berne) - Io Adulto
COMUNICAZIONE - Io Genitore • La terapia centrata sul cliente Didattica critica ( K. Rogers) (Ausubel)
1.8. Sviluppo della RELAZIONE
Una metodologia che concorre allo sviluppo della comunicazione e della relazione sociale è ilBrain storming
che si avvale di:
F 0confronto
B7 di esperienze e di idee
F 0co
B 7 - costruzione di reti e mappe concettuali

F 0decisionalità
B7 partecipata

Sono molteplici e positivi gli effetti dell’inclusione nel gruppo:


F 0Incremento
B7 delle relazioni interpersonali e delle abilità comunicative
F 0Diminuzione
B7 dei comportamenti/strategie di fuga e/o di evitamento
F 0Incremento
B7 della responsabilità, dell’impegno, delle motivazioni, dei tempi di attenzione
F 0Incremento
B7 della tensione attualizzante
F 0Aumento
B7 dell’autostima e della dignità del soggetto
F 0Clima
B7 disteso e piacevole

1.9. La creatività
La creatività, interpretabile anche come immaginazione scientifica e produttività di idee nuove è prodotto di :
F 0bisogni
B7

F 0esperienze
B7

F 0interessi
B7

F 0abilità
B7

F 0contesti
B7

I docente svolge funzione di facilitatore di apprendimenti e processi e di tutor delle attività. Egli si fa abile
regista di dinamiche comunicative e relazionali nella conduzione della classe.
Vengono facilitati ed attivati, così, i processi di apprendimento e, soprattutto nei soggetti in età evolutiva, si
consolidano e si sviluppano, a livello funzionale, le strutture di apprendimento, consentendo al soggetto di
acquisire competenze, saper risolvere problemi, avere i dominii delle situazioni, “saper essere” cittadini nei
diversi contesti di vita.

“LA COSTRUZIONE DELLE CONOSCENZE E DELLE COMPETENZE”

1 La costruzione delle conoscenze e delle competenze


1.1. Teorie cognitivistiche
Per le teorie cognitivistiche (o fenomenologiche) l'apprendimento è un processo conoscitivo che trae origine
dal bisogno di costruzione (e di strutturazione) del reale, implicito nell'interazione io/ambiente, e viene
studiato come fatto "molare", cioè analizzando i cambiamenti che avvengono nelle strutture cognitive del
soggetto e nella sua personalità.
Nel rapporto fra motivazione ed apprendimento incidono numerosi fattori capaci di condizionare il successo
dell'apprendimento. Esponenti di spicco i già noti: Bruner, Lewin, Piaget, Tolman.

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1.2. Apprendimento e personalità globale
Altre teorie dell'apprendimento, come quelle emerse nell'ambito dell'approccio fenomenologico umanistico
(Carl Rogers e Maslow), collegano l'apprendimento al bisogno di crescita della personalità che ristruttura se
stessa nell'atto dell'apprendere come fatto globale.
La personalità è quindi coinvolta a livello emotivo/affettivo oltreché cognitivo (intelligenza emozionale di
Goleman).
1.3. Transfert di apprendimento
L'apprendimento supera la natura meccanica per avvicinarsi alla comprensione permanente a livello di
ritenzione mnemonica e in particolare spendibile in altri contesti, diversi da quelli in cui ha avuto luogo
(transfer di apprendimento), in virtù della capacità costruttiva di una nuova mediazione didattica.
1.4. Sistema cognitivo dinamico personale
Si tratta di favorire nello studente la costruzione di una rete di strumenti, metodi, correlazioni, abilità generali
capaci di aiutarlo a formare un sistema dinamico autoconsistente di metodi, nozioni, legami, abilità, e quindi
la necessità di sviluppare approcci e strumenti per favorire l'esplorazione, l'autovalutazione, la creazione di
percorsi autonomi.
1.5. Mediazione didattica
A tal fine acquisisce valenza essenziale la qualità della mediazione didattica, ovvero le strategie di aproccio
alle conoscenze codificate nelle discipline, le metodologie di apprendimento, le tecniche, le attività poste in
essere ed i mezzi e strumenti adottati.
Il senso educativo profondo della mediazione didattica è nelle relazioni interpersonali che si attivano
all’interno di un gruppo di apprendimento condotto dall’abile regia del docente che accompagna e guida gli
allievi nel percorso (curricolo) che conduce ad “incontrare” le conoscenze.
Queste ultime, infatti, devono essere percepite dagli allievi come chiave di interpretazione di fatti e
fenomeni, come soluzione dei problemi che ambienti naturali ed artificiali pongono, come risposte a
problemi che situazioni nuove e critiche spesso pongono al soggetto.
Le conoscenze, quindi, non sono cristallizzate nelle discipline che le codificano né nei supporti che le
veicolano (supporti cartacei, informatici etc.), esse sono immanenti nell’ambiente che ci circonda ed è nei
contesti di vita che l’allievo deve incontrarle e riconoscerle.
Tale approccio consente, inoltre, di avere una visione ed una percezione dell’unità del sapere e sviluppare un
apprendimento interdisciplinare che favorisce l’acquisizione del senso e del significato delle conoscenze
stesse.
Si tratta, infatti di sviluppare una logica ologrammatica: la realtà – ogni “reale”- è unità molteplice (Morin)
di prospettive e punti di vista e viene osservata sulla linea del tempo (storia), in rapporto alla categoria dello
spazio (geografia), nell’analisi delle sue componenti (biologia, chimica, scienze naturali etc), viene misurata
ed osservata nelle dimensioni e nelle forme (matematica-geometria etc) viene descritta e narrata nei diversi
linguaggi.
Le discipline, infatti, non esistono in natura, ma sono una codificazione di saperi che sono cresciuti nel
tempo e si sono moltiplicati e differenziati secondo logiche e linguaggi sempre più specifici.
Questa multidisciplinarità, prodotto dell’applicazione della scienza alla tecnica, non deve far perdere, nella
percezione del soggetto, l’unità del sapere, che conferisce senso e significato alla conoscenza.
Occorre, quindi, che la mediazione didattica promuova una conoscenza interdisciplinare: ogni “reale” è di
per sé interdisciplinare come interdisciplinare è il pensiero che pensa la realtà ed utilizza idee provenienti
dalle diverse discipline.
Diventa quindi essenziale, per la costruzione di una conoscenza significativa e contestualizzata, che possa
tradursi in reale competenza, una mediazione didattica che si avvalga di tecniche di comunicazione - la serie
di atti linguistici che si sviluppa tra gli interlocutori su tre livelli: logico-formale, esperienziale-sociale,
empirico-scientifico – e di metodologie di ricerca-azione.
Occorre, pertanto, attivare una didattica di laboratorio centrata su problema e su “compito”: le conoscenze
vengono ricercate come risposte a domande emergenti da problemi di vita, vengono interpretate e
selezionate, vengono trasferite a problemi analoghi, nella “scoperta” continua di “come funzionano i
fenomeni”.
L’allievo, attraverso le fasi della percezione del problema, la comprensione delle soluzioni possibili, la
memorizzazione delle conoscenze disciplinari, costruisce un sistema personale di interpretazione e dominio
della realtà.

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L’allievo, così, sviluppa autonomia di pensiero e di azione ed “impara ad imparare” per la vita.
1.6. La valutazione
La valutazione interna ed esterna (dei risultati, dei processi e delle risorse disponibili) è una delle attività
svolte nell’ambito di un sistema di assicurazione della qualità. Comunica all’esterno la qualità del percorso,
i risultati dei processi di apprendimento, i traguardi di competenze raggiunti, gli obiettivi formativi realizzati.
1.7. Il coaching
Nella personalizzazione dei processi di crescita e di sviluppo dei soggetti il coaching può assumere una
valenza importante, quale valore aggiunto per la qualità dei risultati.
Il coaching è una relazione finalizzata al raggiungimento di obiettivi personali, relazionali o professionali
che, agendo sull'autoconsapevolezza personale e sul proprio senso di autoefficacia, facilita l'espressione e lo
sviluppo delle potenzialità del soggetto.
- Introdurre il coaching nelle scuole può servire a:
- migliorare le possibilità di apprendimento;
- ottimizzare la gestione del tempo;
- migliorare l'abilità comunicativa e relazionale;
- utilizzare proficuamente le emozioni e gestire lo stress;
- acquisire maggior sicurezza personale;
- migliorare le performances operative;
- sfidare i limiti percepiti;
- sviluppare i punti di forza, o gestire un punto di debolezza.
1.8. Come fare per un’azione formativa efficace?
Per ottimizzare i risultati dell’azione formativa occorre organizzare, intorno al soggetto, un ambiente
altamente costruttivista. Principi -secondo Savey e Duffy- per la progettazione di ambienti d'apprendimento
costruttivisti sono:
- ancorare tutte le attività a compiti o problemi più ampi
- sostenere il soggetto che apprende nello sviluppare il possesso personale di qualsiasi problema
- progettare un compito autentico
- progettare un compito ed un ambiente di apprendimento che rifletta la complessità trattata
- dare a chi apprende la possibilità di impossessarsi del processo usato per sviluppare una situazione
- progettare un ambiente di apprendimento per supportare e sfidare il pensiero dello studente
- incoraggiare il testing delle idee con punti di vista e contesti alternativi
- offrire opportunità di supporto alla riflessione sia sul contenuto appreso che sui processi svolti
1.9. Cooperative learning
Nell’ambito di una didattica di laboratorio e di dinamiche di gruppo per la comunicazione e la relazione
assume forte valenza formativa il Cooperative learning.
Si tratta di un Apprendimento cooperativo centrato su problemi condivisi (problem posing e problem
solving) e di dinamiche di gruppo che favoriscono la personalizzazione dei processi di sviluppo globale della
personalità nello svolgimento dei curricoli: gli allievi apprendono gli stessi obiettivi specifici disciplinari
mediante attività, tempi, modi differenti e personali; essi comunicano, collaborano, confrontano idee,
scambiano materiali.
Nel gruppo dei pari ciascuno opera secondo i propri potenziali di sviluppo, assume ruoli e funzioni di cui
avverte la responsabilità, ed ha l’opportunità di esercitare talenti ed eventuali eccellenze.
La didattica di laboratorio favorisce il cooperative learning:
LABORATORI:DIAGRAMMA A V (GOWIN) • COMPRENDERE LA STRUTTURA DELLA
CONOSCENZA • DIAGRAMMA A V: STRUMENTO EURISTICO PER UNA METACOGNIZIONE •
PROCEDURA: - QUAL E’ IL PROBLEMA/DOMANDA DI PARTENZA? - QUALI SONO I CONCETTI
CHIAVE / TEORIE? - QUALI METODI SI UTILIZZANO PER CERCARE LA RISPOSTA? - QUALI
SONO LE PRINCIPALI ASSERZIONI DI CONOSCENZA A CUI SI ARRIVA? - QUALI SONO LE
AFFERMAZIONI DI VALORE / I GIUDIZI? RIFLESSIONE SU COME SI IMPARA • DALLA LOGICA
DELL’INSEGNAMENTO ALLA LOGICA DELL’APPRENDIMENTO • DALLA LOGICA DEL
BISOGNO ALLA LOGICA DEL DIRITTO
Didattica di laboratorio, cooperative learning, metodologia della ricerca fondata sul problem posing e sul
problem solving, procedure di apprendimento secondo il modello a V di Gowin ed una scuola nuova, che
passi dalla centralità dell’insegnamento a nuove logiche centrate sulla soggettività degli allievi e

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sull’apprendimento consentono realmente a ciascun giovane di vedere soddisfatto il suo bisogno di
formazione ma di esercitare il proprio diritto Costituzionale allo studio.

1.10. Costruzione del curriculo verticale e delle Unità di Apprendimento/Lavoro


• PROGETTAZIONE PERSONALIZZATA = MOSAICO DI UNITA’ DI APPRENDIMENTO/LAVORO
INTEGRATE MODULATE SU:
F 0RITMI
A7 DI APPRENDIMENTO
F 0INTELLIGENZE
A7 MULTIPLE (GARDNER)
F 0ECCELLENZE/TALENTI
A7 DI CIASCUN ALLIEVO
• LE UNITA’ DI APPRENDIMENTO/LAVORO SONO CENTRATE SU PROBLEMI (ES. STORIE –
FENOMENI – FATTI -)
• LE CONOSCENZE POSSONO ESSERE RAPPRESENTATE MEDIANTE MAPPE CONCETTUALI
(MODELLO DI NOVAK)
• LE MAPPE CONCETTUALI VISUALIZZANO LE RELAZIONI TRA I CONCETTI
• LE MAPPE CONCETTUALI INDIVIDUANO LE PAROLE-CHIAVE
• (I CONCETTI FONDAMENTALI)
• LE MAPPE CONCETTUALI EVIDENZIANO LE PAROLE-LEGAME ( LE RELAZIONI ESISTENTI)
• LE MAPPE CONCETTUALI SERVONO PER RIFLETTERE

1.11. Continuità – flessibilità


• PERSONALIZZAZIONE DELL’APPRENDIMENTO NEL CURRICOLO ORIENTATO NELLE
SCELTE :

- DALL’ALLIEVO
- - DALLA FAMIGLIA DELL’ALLIEVO
- DALL’OSSERVAZIONE DEI COMPORTAMENTI- DALLE ESPERIENZE /CREDENZE /
ASPETTATIVE DEGLI ALLIEVI

• CURRICOLO ARTICOLATO SECONDO:

- MODULI DI DIDATTICA BREVE


- MODULI DI RECUPERO
- MODULI DI APPROFONDIMENTO
• METE – TRAGUARDI DEL CURRICOLO PRESCRITTIVI= STANDARD EUROPEI
• PERCORSO FLESSIBILE E MODIFICABILE SECONDO VERIFICHE E VALUTAZIONI IN ITINERE

1.12. Unità di apprendimento: diagramma a V


• PROSPETTIVA DELL’ALLIEVO = SOGGETTO CHE APPRENDE

(PERSONALIZZAZIONE DEI PROCESSI)


• CENTRALITA’ DEL PROBLEMA DA RISOLVERE

(INTERDISCIPLINARITA’ = TUTTE LE DISCIPLINE INTERVENGONO, CON LE LORO IDEE, A


COSTRUIRE IPOTESI RISOLUTIVE DA FALSIFICARE MEDIANTE LA RICERCA-AZIONE)
FOCUS (FOCUS GROUP)
DOMANDA CENTRALE
• INTEGRAZIONE ATTIVA TRA VERSANTE TEORICO / CONCETTUALE E VERSANTE
METODOLOGICO
• VERSANTE TEORICO CONSOLIDAMENTO DI:

- VISIONI DEL MONDO (FILOSOFIE)


- TEORIE / PRINCIPI / COSTRUTTI/ STRUTTURE CONCETTUALI /
REGOLARITA’ SCIENTIFICHE / CONCETTI DISCIPLINARI
1.13. La costruzione delle conoscenze

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• SCOPRIRE LINGUAGGI ( DISCIPLINARI, TECNOLOGICI, INFORMATICI, MULTIMEDIALI)
• ELABORARE CONCETTI/ PRODURRE IDEE DIVERGENTI
• SELEZIONARE PROCEDURE/METODI
• CONTESTUALIZZARE ESPERIENZE / FATTI/ FENOMENI IN SFONDI INTEGRATORI CHE DIANO
SIGNIFICATO E SENSO ALLE AZIONI
COSTRUZIONE DELL’IDENTITA’/PROFILO: EDUCATIVO
CULTURALE
PROFESSIONALE
dell’allievo
DOCUMENTO DI VALUTAZIONE ( anche RUBRICHE DI VALUTAZIONE e/o il PORTFOLIO DELLE
COMPETENZE affidato all’AUTONOMIA dei Collegi dei Docenti)
1.14. Autonomia
- Valorizzazione dell’autonomia pedagogica e didattica dei Collegi dei docenti F 0costruiscono
E0 i curricoli,
personalizzano i processi di avvicinamento alle mete educative ed ai traguardi formativi
- Valorizzazione dell’autonomia dell’allievo che partecipa alla costruzione del curricolo
- Valorizzazione della mediazione didattica e della personalizzazione
- Valorizzazione della partecipazione delle famiglie e della contestualizzazione nel sociale.

“PSICOLOGIA MOTIVAZIONALE”

1 Psicologia motivazionale
1.1. Comunicazione e mediazione didattica
Un operatore che si occupa di formazione, e che quindi sostiene i soggetti nell’acquisizione di una
consapevolezza di se’ e delle proprie esigenze, deve essere un buon “comunicatore”.
1.2. La comunicazione
Il processo comunicativo deve rispondere ad un bisogno di trasmissione di messaggi - e quindi di contenuti -
da un soggetto ad un altro e, pertanto, si deve garantire l’efficacia della comunicazione .
La comunicazione, per essere efficace, deve essere lineare e far si che il mittente ed il destinatario del
messaggio trasmettano e ricevano lo stesso contenuto.
Una buona comunicazione favorisce il compito educativo.
1.3. Il modello “SINCOND”
IL TERMINE “SINCOND” E’ UN ACRONIMO CHE SINTETIZZA IL CONCETTO DI “SAGGEZZA IN
CONTINUO DIVENIRE”.
Tale concetto esprime che ogni singola cosa compiuta da un soggetto o che accade puo’ essere utilizzata dal
soggetto stesso per aumentare la sua esperienza del mondo in modo positivo.
1.4. Saggezza in continuo divenire
Il concetto di “saggezza in continuo divenire” insegna anche che si puo’ imparare in qualunque momento
della vita.
Non si è mai troppo giovani o troppo vecchi per fare esperienze ed imparare da esse.
1.5. Saggezza e curiosità
La curiosità è la più grande risorsa dell’uomo in quanto costituisce spinta motivazionale verso
l’apprendimento e l’acquisizione di competenze.
La curiosità da sola, tuttavia, non è sufficiente per consentire l’acquisizione di competenze.
1.6. Curiosità e apprendimento
La curiosità, per esplicarsi, deve avvalersi degli strumenti che il soggetto acquisisce tramite le esperienze che
ha maturato e che continua a maturare nell’arco della sua vita
1.7. Gli strumenti cognitivi
Gli strumenti cognitivi (conoscenze) e la loro dimensione applicativa (abilità), trasferiti, utilizzati ed
elaborati per risolvere problemi nuovi in contesti diversi, determinano competenze.

“BEST PRACTICES E COMPETENZE”

1 Best Practices e competenze


1.1. Atteggiamenti e competenze

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L’acquisizione di competenze provoca nel soggetto la consapevolezza di poter avere i domini delle
situazioni.
Cio’ determina senso di sicurezza, autostima e rappresentazione mentale positiva del se’
I soggetti, pertanto, sono sostenuti nelle scelte e nella determinazione di un progetto di vita.
A tal fine gli educatori ricercano strategie.
1.2. Le buone pratiche didattiche
Vengono cosi’ ricercate buone pratiche didattiche per rendere efficace l’apprendimento:
F 0Cooperative
B7 learning
F 0Peer
B7 tutoring
F 0Didattica
B7 di laboratorio e metodologie di ricerca-azione
F 0Metodologie
B7 di brain storming
F 0Dinamiche
B7 di gruppo

Interessante appare il modello “sincond” che sembra essere particolarmente efficace per promuovere “saper
essere” ovvero obiettivi formativi in tal senso.
Ciascun soggetto, secondo il modello di “saggezza in continuo divenire”, cresce e matura in modo costante
e personalizzato.
1.3. Gli strumenti del modello “sincond”
Il modello “sincond” si avvale del “diario di bordo” quale strumento essenziale per la facilitazione di un
percorso esperenziale teso a far maturare il soggetto e a fargli acquisire competenze ed abilita’ in rapporto
alle proprie esigenze di vita.
1.4. Il “diario di bordo”
Il “diario di bordo” viene tenuto generalmente su supporto cartaceo e consente a ciascun soggetto di
conservare la traccia delle diverse attivita’ ed esperienze della giornata attraverso tecniche via via
consolidate.
1.5. Il protocollo quotidiano
Un protocollo quotidiano registra l’organizzazione e lo svolgimento di tutte le attivita’, facilitando
osservazione sistematica dei comportamenti, registrazione degli aspetti piu’ rilevanti dei processi,
valutazione degli esiti.
1.6. Il continuo miglioramento
L’incremento e lo sviluppo di buone pratiche per l’apprendimento rende concreto al soggetto lo scopo del
“continuo e costante miglioramento”.
Tale prospettiva va a connotare tutto cio’ che il soggetto fa o realizza.
Si applicano Tecniche di bench marking: per individuare tappe di sviluppo in rapporto agli obiettivi
(conoscenze, abilità, competenze, obiettivi formativi) e registrarle.
E’ opportuno, infatti, redigere curve di andamento che rappresentino e visualizzino lo sviluppo dei processi
di apprendimento nel tempo .

“LA VALUTAZIONE”

1 La valutazione
1.1. Introduzione
Per l’efficacia dell’azione formativa occorre promuovere l’analisi, da parte di ciascun soggetto, dei risultati
prodotti dalle proprie azioni.
Tale impostazione consente ai soggetti di separare ciò che si ritiene soddisfacente da ciò che può essere
migliorato.
Con l’attenzione ai processi di crescita – oggetto della valutazione - viene rivalutato il passato dell’individuo,
la cui matrice cognitiva e le cui esperienze divengono il volano di trasformazioni del suo “saper essere”.
Ogni azione di monitoraggio e di valutazione dei processi di crescita, infatti, ha portato ad una sequenza
successiva di azioni volte al miglioramento.
1.2. Vantaggi della valutazione dell’esistente
Il vantaggio principale derivante dalla valutazione dei processi di crescita’ va individuato nella possibilità,
per ciascun soggetto, di correggere gradualmente la realtà che non corrisponde alle proprie aspirazioni in
quanto è sempre possibile migliorare e modificare le situazioni, facendosi forza delle esperienze precedenti.

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1.3. La ricerca delle motivazioni
La ricerca delle motivazioni delle nostre azioni nasce dalla consapevolezza che tutte le azioni di un soggetto
sono motivate da due spinte: la fuga dal dolore e dal disagio o la ricerca del piacere e del benessere.
F 0Occorre
B7 individuare qual è la molla che spinge ad agire per prendere coscienza di sè e sapere quale
atteggiamento è risolutivo in una determinata situazione.

1.4. Rappresentazione ad albero delle motivazioni all’azione


“Alberi indispensabili” possono essere:
F 0“l’albero-io”
B7 con tutte le ramificazioni delle dimensioni della personalità,
F 0“l’albero-famiglia”
B7 con le ramificazioni delle dinamiche affettive e relazionali,
F 0“l’albero-lavoro”
B7 con le ramificazioni relative alle dinamiche sociali e produttive,
F 0“l’albero-studio”
B7 con le ramificazioni relative alle possibili scelte ed indirizzi
F 0“l’albero-affetti”
B7 con le ramificazioni relative alle dimensioni dell’emotional intelligence

Ogni individuo sceglie quali sono le aree della propria vita che lo assorbono quotidianamente e descriverà di
conseguenza le ramificazioni che le sue azioni producono.
“INTRODUZIONE PER UN CORSO DI PSICOLOGIA SOCIALE”

1 La didattica tra teoria e prassi, tra scienza e poesia


In questo corso vorrei trasmettere competenze non solo teoriche ma spendibili anche sul piano concreto.
Mi piace la didattica e sono profondamente convinta che un buon insegnante non è colui che sa tutto, ma
colui che, sapendo molto, riesce a donare tutto quello che sa. Questo perché l’insegnamento teorico possa
trasformasse in prassi.
Parlare della didattica, focalizzata sugli obiettivi operativi dell’allievo, significa fare psicologia sociale
perché dà risalto all’importanza delle relazione e di come una buona relazione faccia crescere creando
benessere individuale e sociale.
Una buona didattica, presuppone la capacità di tenere presente la cultura/società di appartenenza degli
allievi, l’età, quindi il grado di sviluppo psicologico e come le diverse società condizionano tale sviluppo, e,
quando è possibile, anche problematiche legate alle loro storie individuali. Solo così una buona didattica può
interessare.
Senza interesse non c’è apprendimento, non c’è relazione.
Mi piacerebbe che teneste ben presente questo assioma perché solo se riuscite ad interessare, riuscirete nel
vostro lavoro. Mi auguro che questo corso possa fornirvi strumenti per essere più interessanti nella vita e
nella professione.
1.1. Conoscenza tra scienza e poesia
Un relazione sociale si fonda sulla conoscenza personale e interpersonale , in un’accezione più vasta di
quella che normalmente utilizziamo: conoscenza non solo cognitiva, ma anche emotiva, senso-motoria.
Infatti, conosciamo non solo pensando, ma sentendo emotivamente quanto succede intorno a noi.
In una recensione che scrissi qualche anno fa, definii la “conoscenza” come una modalità di comprendere la
vita tra scienza e poesia
Ogni intervento educativo necessita di essere puntuale, ma raggiungere anche il cuore degli allievi. In
questo senso dovrebbe combinare poesia e scienza. Della poesia dovrebbe possedere l’armonia e l’umanità;
della scienza, il rigore e la prevedibilità. Educatore e allievo rappresentano due mondi e due storie
complessi e irripetibili, che per incontrarsi hanno bisogno dell’intensa umanità della poesia e del rigore
prevedibile della scienza.
………..La peculiarità dell’arte è sempre stata quella di dire l’indicibile. La scienza organizza l’evidente.
Ma, la complessità umana è superiore a qualsiasi teoria che l’uomo abbia costruito.
……. Solo una persona che sappia vivere tra gli altri, sapendone coglierne disperazione e speranza, è
capace di coniugare poesia e scienza, in un danza armoniosa, alla quale soltanto un faticoso esercizio e
un’empatica interpretazione della vita permettono di garantire semplicità e profonda umanità. (Anna Falco)
Io credo che per raggiungere il cuore bisogni avere rispetto, e si ha rispetto solo quando siamo in grado di
dedicarci a qualcuno nel senso di capire di cosa veramente ha bisogno quando vogliamo insegnargli
qualcosa.

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Per raggiungere il cuore dobbiamo rispettare storia individuale, e cultura di appartenenza. Questo
atteggiamento crea sintonia. In questo senso un approccio alla psicologia sociale può permettervi di
incontrare meglio gli altri, rendendo gratificante i momenti trascorsi insieme e facendo del vostro
lavoro non solo un momento di doverosa fatica, ma anche di appassionata ricerca di senso e soddisfazione.
Quindi, un secondo assioma da tenere presente per una buona riuscita del vostro lavoro è che:
Ogni comunicazione deve essere ben organizzata razionalmente, ma deve raggiungere il cuore.
AUGURI PER QUESTO CORSO/VIAGGIO.
Partiamo quindi, per usare una metafora a voi cara, per un viaggio. In questa lezione vi mostrerò l’itinerario,
cioè la trama che accomuna le lezioni che ho pensato proprio per voi che vi interessate di turismo. Spero di
aver compreso bene cosa può esservi utile e che quello che imparerete in queste trenta lezioni allarghi il
vostro cerchio di competenze. Mi auguro anche che possa incuriosirvi a saperne sempre di più su come
trattare meglio voi stessi e tutte le persone con cui entrate in contatto. Questo per me è il senso della
psicologia in genere: migliorare la vita dei singoli e della società per diminuire la sofferenza e aumentare la
passione e l’interesse per la vita.
A questo piccolo grande obiettivo sto dedicando la mia vita, costatandone ogni giorni i risultati positivi.

2 Cos’è la psicologia sociale


La psicologia sociale è quella scienza che studia le caratteristiche universali dell’individuo in relazione
all’altro, inserito in un contesto sociale; cioè delle relazioni interpersonali e sociali. Essa si interessa delle
emozioni, pensiero e comportamento degli esseri umani nel contesto delle relazioni sociali con lo scopo di
identificare le proprietà universali della natura umana che, indipendentemente dalle classi o dalle strutture
sociali, rendono ciascuno di noi sensibile all’influenza sociale (Aronson, Wilson, Akert, 2005). L’ influenza
sociale assume numerose forme che vanno oltre il tentativo deliberato da parte degli altri di cambiare il
nostro comportamento; perfino quando non ci troviamo in presenza fisica degli altri, ne restiamo influenzati:
è come se ci portassimo dentro i nostri genitori, gli amici e gli insegnanti, ogni volta che cerchiamo di
prendere decisioni che li dovrebbero rendere orgogliosi di noi. Ad un livello ancora più nascosto, inoltre,
ciascuno di noi si trova immerso in un contesto sociale e culturale. La psicologia sociale si occupa delle
modalità e delle motivazioni secondo cui i nostri pensieri, sentimenti e comportamenti vengono plasmati
dall’ ambiente sociale in generale, di ciò che accade quando più fonti di influenzamento entrano in conflitto
tra loro. Anche l’antropologia e la sociologia studiano il modo in cui le persone si lasciando influenzare
dall’ambiente sociale in cui sono immersi, ma la Psicologia Sociale se ne differenzia per alcuni aspetti. Essa
non è interessata al significato oggettivo delle situazioni sociali, ma al modo in cui le persone vengono
influenzate dalla loro interpretazione, o costruzione, dell’ambiente sociale, (secondo categorie generali).
Proprio per questo, nel tentativo di comprendere come l’ambiente sociale influenzi una persona, risulta più
importante capire come essa percepisca o interpreti tale ambiente, piuttosto che comprenderlo
oggettivamente (Lewin,1943).
Ancora per Doise (1997) “La psicologia sociale può essere definita come la scienza che ricollega l'analisi dei
processi psichici negli individui con l'analisi delle dinamiche sociali a cui questi partecipano: essa studia cioè
il modo in cui le esperienze psicologiche sono interconnesse con l'ambiente sociale”.
Come branca della psicologia, il nostro interesse si concentra radicalmente sugli individui umani, ponendo in
rilievo i processi psicologici che hanno luogo nella loro mente e nel loro cuore. Ad esempio, per capire
perché le persone facciano intenzionalmente male agli altri, ci focalizziamo sui processi psicologici che
stimolano l’aggressività e ci domandiamo in che misura l’aggressività sia preceduta da uno stato di
frustrazione, dovuta a fattori ambientali. La psicologia sociale ipotizza, facendo riferimento all’esempio, che
le leggi che regolano la relazione tra frustrazione e aggressività siano universalmente valide per ogni persona
e luogo, non solamente per alcuni membri di una classe sociale, di una certa età o di una determinata razza. Il
suo scopo è proprio quello di scoprire queste leggi e comprendere fino a che punto esse possano essere
considerate universali. In definitiva, la nostra disciplina, che si basa sulla spiegazione del comportamento
sociale, è racchiusa tra le sue affini, la sociologia e la psicologia di personalità. Con la prima condivide
l’interesse per le influenze situazionali e sociali sul comportamento e con la seconda ha in comune l’interesse
per l’individuo e i processi psicologici che lo rendono sensibile all’influenza sociale.
2.1. In cosa si differenzia dalla sociologia, antropologia e psicologia della personalità
Le tre scienze sociali di base, sono la sociologia, la psicologia sociale e l'antropologia culturale. La
sociologia studia la società, l'antropologia studia la cultura, e la psicologia sociale studia l'individuo nel

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contesto sociale. Detto con più chiarezza: la sociologia focalizzale strutture sociali, le relazioni
interindividuali, i gruppi umani; l'antropologia culturale invece si interessa dellacultura come insieme di
storia,credenze, miti, che producono glischemi impliciti ed espliciti del comportamentoumano; la psicologia
sociale studia l'individuo condizionatodagli altri individui e dalla società. Tutte e tre queste disciplinesonoin
qualche modo confinanti.La psicologia sociale si differenzia dall’antropologia e dalla sociologia in quanto
siinteressa non alle situazioni sociali in senso oggettivo, ma al modo in cui le persone vengono influenzate
dalla loro interpretazione, o costruzione, dell’ambiente sociale. E’ importante quindi capire come una
persona percepisce o interpreta tale ambiente, piuttosto che comprenderlo oggettivamente.(Aronson et al
2005)
A volte la psicologia sociale viene confusa con quelle della personalità. Capita, così, che si tende ad
interpretare il comportamento delle persone in termini di personalità, trascurando l’influenza sociale. Questo
tipo di errore è detto errore fondamentale di attribuzione. E’ invece importante capire che aspetti della
situazione sociale, che possono sembrare anche poco importanti, producono effetti significativi
comportamenti delle persone.
Quindi la psicologia sociale è proprio lo studio della relazione tra l’individuo (nei suoi aspetti generali, cioè
uomini e donne, non Andrea, Angela, Pasquale ecc) e il suo ambiente. Presi isolatamente persona e ambiente/
società diventano un’astrazione senza senso
Un esempio: un adolescente dell’ hinterland napoletano, ha contatto con un ambiente camorristico molto
probabilmente svilupperà un comportamento deviante. Questo risultato è dovuto a due fattori:
1. L’adolescenza è caratterizzate da impulsività (difficoltà di contenimento emotivo per fattori
neurofisiologici e ormonali) e omologazione spiccata verso oil gruppo dei pari (per bisogno di una
stabilizzazione dell’identità sociale e di genere).
2. Il contesto sociale del ragazzo a cui lui tende ad omologarsi è deviante.

Ponendo in relazione tra loro questi due fattori, personale e sociali, è facile prevedere come si comporterà un
adolescente di Scampia.
Un adolescente della borghesia media casertana è pur sempre caratterizzato da una certa impulsività perché
questa di fatto caratterizza l’adolescenza, ma il contesto più sano lo spingerà ad entrare in contatto con
gruppi politici, sportivi, religiosi ecc.
Un contesto sociale diverso dirige diversamente alcuni atteggiamenti caratteristici dello spesso periodo di
sviluppo.
Mio marito ed io gestiamo due comunità per minori (12-18 anni) molto problematici. Il primo anno, nei
primissimi mesi, non avendo ancora chiara la tipologia di pazienti che volevamo ospitare, demmo la
disponibilità per accogliere anche ragazzi provenienti dall’area penale. Una sera mi intrattenni a parlare con
due di loro. Uno in particolare, di 17 anni, era fortemente oppositivo e dichiarava apertamente che il suo
sogno era quello di diventare un rapinatore. Il suo paese di provenienza era proprio Scampia, ed aveva già
fatto alcuni mesi di carcere per rapina. Nella sua logica lavorare era una cosa da “fessi”, stupidi, quando si
può guadagnare molto di più e più velocemente, spacciando o rubando. Avevo lavorato in molti settori:
scuola,sport, con pazienti schizofrenici adulti, insomma vantavo un curriculum notevole, ma non avevo mai
lavorato nelle carceri, quindi, non avevo avuto contatti con persone socialmente devianti. Questa
inesperienza mi condusse a un comportamento molto ingenuo che pagai caro per circa un’ora. Il ragazzo
tutto oppositivo ad un certo punto entrò in confidenza con me e stranamente ma con mio sommo piacere mi
confidò di non volere dormire da solo, che aveva bisogno di stare con qualcuno di notte e di volere tenere
sempre la luce accesa perché aveva paura del buio. La cosa mi inerì molto: uno che sognava di fare il
delinquente era in fondo terribilmente fragile e solo. Molto presa - e non tenendo assolutamente conto del
suo contesto sociale di provenienza- gli dissi: “provo molta pena per te, mi dispiace che hai così tanta paura
la sera!”. Non l’avessi mai detto, le mie parole ebbero l’effetto di una fucilata. Balzò in piedi e prese ad
aggredirmi verbalmente così violentemente che per qualche minuto temetti che mi picchiasse. Si sentiva
fortemente offeso “lui mi faceva pena?!!!” Per la mia cultura sociale di appartenenza “provo pena”
equivaleva a “provo compassione”, nel senso di partecipare al suo dolore, nella sua accezione invece
significava “mi fai schifo” . Impiegai più di un’ora per calmarlo e solo con grande fatica ritornò tranquillo.
Questo è un esempio molto pertinente per quello che stiamo trattando: io non avevo tenuto conto della
diversità di culture di appartenenza tra me e il ragazzo. Questa cosa aveva creato un disastro relazionale.

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Per concludere: la psicologia sociale si differenzia dalla sociologia che studia prevalente le società; quindi
l’ambiente sociale. Si discosta anche dalla psicologia della personalità interessata alle caratteristiche
dell’essere umano. Essa studia le caratteristiche dell’essere umano in relazione alle caratteristiche
dell’ambiente in cui vive, particolarmente ambiente sociale e di come questi due si influenzano
reciprocamente. E’ proprio la loro relazione l’oggetto della psicologia sociale.
Università Telematica Pegaso Introduzione per un corso di psicologia sociale

3 Un approccio “fenomenologico-costruttivista” alla psicologia sociale


PER UN’EPISTEMOLOGIA A QUESTO APPROCCIO DI PSICOLOGIA SOCIALE
Il modello filosofico di riferimento che farà da sfondo a tutto il corso è quello fenomenologico- costruttivista.
è un modello che tiene in massima considerazione il rapporto interpersonale sia relativamente alla
conoscenza che all’essere
3.1. La fenomenologia
L’Io secondo la fenomenologia è sempre coscienza intenzionata, cioè sempre in relazione con un TU (inteso
come altro soggetto, ma anche intero mondo). Husserl eredita questo concetto da Brentano. Egli dà pari
dignità alle forme trascendentali della soggettività e al mondo oggettivo, che esiste al di là del pensiero. Si
oppone così all’idealismo che fa dipendere la conoscenza esclusivamente dal soggetto o (la realtà è
pensiero). Si oppone anche al positivismo che, all’opposto dell’idealismo, esclude la partecipazione attiva
del soggetto dalla conoscenza. Questi è una tabula rasa che legge la realtà per quello che è (oggetto assoluto).
Per la fenomenologia, invece, il soggetto pensante (persona) e la realtà oggettiva esterna (ambiente fisico e
sociale) coesistono, influenzandosi vicendevolmente, nel momento conoscitivo. Questo significa che il
soggetto in base alle sue funzioni percepisce in un certo modo la realtà, ma anche questa, per come è fatta,
condizione la persona e con le sue funzioni.
L’uomo, inteso come “soggetto”, non dovrebbe essere considerato solo un uomo fisico, ma anche uomo
dotato di libertà e responsabilità, in grado di scegliere ( Husserl….). Viversi come soggetto significa che,
qualsiasi cosa faccia, la persona si vive come colei che volontariamente cerca un approccio personalizzato
alla vita. Quindi è condizionata dal contesto culturale in cui è inserita, ma cerca di trascendersi in uno sforzo
continuo, cercando di coniugare aspetti biologici/istintivi e aspetti culturali, all’interno di un atteggiamento
realisticamente critico. Questo aspetto di responsabile libertà è trattato come un categoria umana universale.

3.2. Il costruttivismo
Non solo la conoscenza richiede una coessenzialità tra persona e ambiente fisico e sociale, ma il
costruttivismo afferma anche una cosa in più: persona e ambiente fisico e sociale si costruiscono nel
rapportarsi continuamente l’uno all’altro. Questo significa che l’essere umano non è solo geneticamente
determinato, ma si costruisce anche all’interno di un processo di scambio continuo con il mondo. Quindi, le
sue teorie possono cambiare la realtà fisica (ad esempio hanno permesso di costruire i computer), ma anche
la realtà fisica cambia le sue teorie. Il tutto avviene in un ricorsività continua (le teorie hanno permesso la
costruzione dei computer, ma l’utilizzo dei computer permette la nascite e applicazione di nuove teorie, per il
fatto di accedere a calcoli talmente complessi cui non potrebbe pervenire la mente umana).
Questa visione (Popper 1972) ci pone di fronte ad una realtà dinamica e storica. “Dinamica” perché il Sé
all’interno di continue relazioni sociali si evolve arricchendosi dei diversi incontri. La crescita è data da un
rapporto dialettico tra dare e prendere dall’altro e dalla società. Proprio perché dinamica la realtà e la
conoscenza sono e divengono; in questo senso la verità è “storica” perché ciò che ci orienta non è una verità
assoluta, ma una ricerca di verità condizionata dalle credenze e valori del momento storico in cui si vive.
In sintesi, secondo questa visione della psicologia sociale si terrà conto dalla :
1. Relazione coessenziale tra soggetto e società. Tutto quanto esiste è il frutto di continue relazioni. Siamo
sistemi che per esistere e sopravvivere si nutrono di relazioni. Le identità prese isolatamente non hanno
senso. Parleremo della continua inter-relazione tra individuo e ambiente sociale, e di come i due si
influenzano reciprocamente nell’atto consocitivo (relazione continua tra soggetto e oggetto, sia a livello di
conoscenza che di comportamento).

2. Costruzione e trasformazione di Sé e della società. Questo continuo scambio è in continua evoluzione,


cosicché persona e contesto sociale, condizionandosi continuamente, si costruiscono e trasformano
all’interno di questa interazione tra individuo, famiglia e società. Una società aggressiva centrata sul potere

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genererà individui aggressivi cha a loro volta favoriranno il permanere di una mentalità aggressiva
all’interno dei costumi sociali. Questo concetto è particolarmente utile a proposito dell’età evolutiva, quando
il neonato e poi il bambino si forgiano all’interno di relazioni familiari e sociali

3. Cornice etica che fa da sfondo agli assunti di base della psicologia sociale. Ogni cultura fonda le sue
regole su norme morali. Quindi le regole di una società non sono solo funzionali alla sua organizzazione per
la sopravvivenza, ma sottostanno anche ad alcuni principi etici. Secondo Popper l’uomo è l’unico essere
vivente capace di morire per un’ideologia, quindi per un valore etico.

L’identificazione delle etiche delle diverse culture ci consente di comprendere il funzionamento cognitivo ed
emotivo dell’intera società, nonché dei singoli individui che la compongono. Permette anche di comprendere
le modalità di comunicazione e i suoi progetti pedagogici .

4 Il Sé umano, l’ambiente, la cultura e la loro relazione, in un’ottica fenomenologica/costruttivista


La psicologia sociale studia il modo in cui l’ambiente sociale influenza il comportamento umano. Quindi
noi focalizzeremo l’essere umano e l’ambiente sociale nelle loro caratteristiche generali e come si
influenzano.
La visone costruttivista/dinamica si esplica nel fatto che le varie parti costituenti il Sé umano in senso
generale (livello razionale, fantastico, emotivo e senso-motorio) siano tra loro in rapporto interattivo
influenzandosi reciprocamente. Queste parti sottostanno alle norme morali individuale e sociali, le
influenzano e ne sono influenzate.
LE PARTI COSTITUENTI IL SÉ UMANO E LORO RELAZIONE
1. L’essere umano è caratterizzato da un livello razionale, uno fantastico (pensiero), da emozioni e dal livello
senso-motorio. E’ in interazione con il mondo sociale secondo tutti questi livelli
2. Questi livelli sono inseriti in una cornice etica che li orienta. Non basta che sia arrabbiato per uccidere
qualcuno. L’etica del rispetto mi impone di valutare ed eventualmente accettare le differenze. Non basta che
desideri quell’anello per impossessarmene; il mio senso etico mi dice che appropriarmi indebitamente di
qualcosa significa rubare. L’etica del rispetto tiene in eguale considerazione il sé e l’altro, inteso anche come
cultura di appartenenza

1. LIVELLI RAZIONALE, FANTASTICO, EMOTIVO E SENSO MOTORIO E LORO RELAZIONE

- Il livello razionale (o sfera razionale) rappresenta il "come" una persona legge la realta', piu' banalmente
come pensa. Il pensiero comprende: concetti, giudizi, ragionamento induttivo e deduttivo e memoria.
- Il livello fantastico ( o sfera fantastica) è dato dalle immagini o anche da un pensare logico che non
necessariamente richieda esame di realta'. Io posso fantasticare di cose che non esistono e forse non
esisteranno mai.
- Il livello emotivo ( o sfera emotiva) ci dice chi veramente siamo in quel determinato momento. I nostri
pensieri possono camuffare cosa veramente proviamo, molto piu' difficilmente possono farlo le nostre
emozioni. Esse fungono da motivazione al nostro agire.
- Il livello senso-motorio, esprime quello che sentiamo e pensiamo attraverso posture somatiche, contrazioni
muscolari o parti eccessivamente controllate.
Ciascuno di questi livelli condiziona gli altri: una persona molto spaventata valuterà razionalmente come
pericolose situazioni che oggettivamente non lo sono. Allo stesso modo una valutazione razionale positiva,
come il fatto di pensare di sentirsi ben preparati ad un esame, diminuirà la paura. Una paura intensa si
evidenza con una atteggiamento di chiusura corporea e un livello di reattività alla sensazioni fisiche più alto
rispetto a quando si sta tranquilli. Un momento di pace, quindi di rilassamento muscolare ci rende ottimisti
rispetto alla valutazione delle situazioni prese in esame.
2 . I VALORI.

Va sottolineata la dimensione etica. L’uomo, a differenza di una macchina e di altre specie viventi, è alla
continua ricerca di senso. Questa ricerca ha come presupposto i valori morali.
Da alcuni studi recenti sembrerebbe che il bisogno etico sia, negli esseri umani, geneticamente determinato.

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I valori, per una società democratica del tipo europeo o Americano (Stati Uniti), che sottostanno alla base dei
nostri comportamenti sono:
F 0rispetto
FC per la propria e altrui soggettività (ossia dell’intersoggettività)
F 0sostegno
FC della libertà etica
F 0assunzione
FC di responsabilità rispetto alle proprie scelte e comportamenti.
F 0Rispetto
FC per la propria e altrui soggettività (ossia dell’intersoggettività).

Per la fenomenologia ogni persona è un essere utile e irripetibile. Pur incarnando le regole sociali del
contesto cui appartiene, ciascuno le vive secondo una modalità personale. La soggettività rappresenta,
quindi, il vissuto personale che ciascuno di noi ha rispetto alla vita. In quest’ottica l’influsso sociale sui
nostri comportamenti cambia molto da persona a persona. Le relazioni necessitano del rispetto delle
differenze. Punti di vista diversi creano conflitto. Secondo Cattaneo, ciò che caratterizza una nuova idea è
ch'ella nasce dal conflitto di più menti, e che fra le diversi opinioni si giunga ad un accordo, in una mente
solitaria, non sarebbe nata. Il conflitto può essere superato con una posizione prepotente o collaborativa.
L’atteggiamento intersoggettivo rappresenterebbe proprio la possibilità di trovare compromessi possibili nel
rispetto delle singole società ed è l’atteggiamento richiesto ad una società democratica.
Il rispetto per la soggettività dell’altro è possibile grazie all’empatia che ci permette di cogliere i vissuti del
TU mettendoci nei suoi panni, come se fossimo lui, sapendo, però, di essere una persona diversa
F 0La
F C liberta' etica

La libertà etica rappresenta la capacita' di poter scegliere, non quello che si ritiene comodo, ma quello che si
considera più giusto. Questa è una prerogativa prettamente umana. Solo noi uomini e donne possiamo fare
scelte non solo per la ricerca del piacere o l’evitamento del dolore, ma anche per qualcosa che riteniamo
socialmente giusto. Molte regole sociali si fondano su particolari etiche; per un certo credo siamo disposti a
morire: “Le passioni appaiono dunque da un lato come il volto, la fisionomia concreta del volere, e
dall’altro come la più familiare minaccia alla sua libertà …… Il libero arbitrio sarebbe dunque
essenzialmente il potere di determinarsi in modo diverso da quello dovuto alla passione” (R. De Monticelli,
2003)
Noi siamo condizionati dal nostro DNA, dalla cultura e dal periodo storico/sociale in cui ci troviamo a
vivere. Quanto appena affermato potrebbe farci concludere che l'uomo è tutt'altro che libero. L'unica
possibilita' che l'essere umano ha di riscattare la propria liberta' sta nella consapevolezza sia emotiva che
cognitiva. Più siamo consapevoli ed emotivamente maturi più siamo liberi, più conosciamo più sappiamo
gestire le nostre emozioni più aumentano le possibilità di scelta. Diminuisce, invece, la possibilità di scelte
libere, quanto più siamo ignoranti e in balia dei nostri istinti.
F 0La
F C responsabilita'

La possibilità di scegliere ci rende automaticamente responsabili delle scelte che operiamo. Essa dipende
dalla consapevolezza che abbiamo relativamente alle conseguenze dei nostri comportamenti. Non riteniamo
responsabile un bambino di un anno se brucia la tovaglia con una candela accesa, perchè non sa che il fuoco
brucia. E’ responsabile una madre che lancia un oggetto contro il figlio perché sa che può fargli molto male.
Quindi, per stabilire la responsabilità di una persona per una certa azione, è necessario che egli abbia
consapevolezza delle conseguenze.
RELAZIONE TRA SÉ UMANO E IL CONTESTO SOCIALE
Ogni società ha le sue regole quindi influenza in un certo modo i singoli individui. Anche questi ultimi, però,
influenzano le società. Essendo diversi sono diversamente influenzati.
Norme sociali e culturali condizionano i livelli razionale emotivo e senso-motorio. Ci sono culture ad
esempio che favoriscono il contatto fisico ed altre che lo aborriscono. Una volta si diceva che i bambini non
bisognava toccarli mai. E’ evidente che questo tipo di atteggiamento creava difficoltà nella vicinanza fisica
come anche nella dimensione sessuale. Alcune culture permettono l’espressione emotiva altre tendono ad
inibirla. Allo stesso modo alcune culture favoriscono la dipendenza altre l’indipendenza.
Così, semplificando:
- Le società orientali sono più centrate sul “divenire”, quindi sul fluire dell’esperienza. Per la conoscenza
razionale, l’intuizione quindi è preferita alla riflessione; nelle relazioni la comunione alla differenziazione,

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l’interdipendenza all’autonomia. Per tale ragioni le società occidentali sostengono maggiormente valori di
cooperazione, aborrendo atteggiamenti troppo aggressivi.
- Le società occidentali al contrario sono più centrate sull’ “identità” . Per la conoscenza razionale
prediligono la riflessione analitica. Quindi un’analisi delle situazioni che richiedono una presa a distanza
dall’esperienza diretta. Nelle relazioni preferiscono l’autonomia (non per i bambini ma per gli adulti),
facilitando la competizione, l’individualismo, la rincorsa al potere individuale.

Poiché gli esseri umani hanno bisogno di collaborazione ma anche di realizzazione personale, il fatto che
oriente e occidente abbiano privilegiato solo uno dei due aspetti potrebbe creare delle disfunzioni.
Un’eccessiva remissività della cultura orientale potrebbe trovare momenti di trasgressione di altro tipo, con
vissuti rabbiosi più subdoli. Allo stesso modo l’eccessivo individualismo legato a forte competitività, delle
società occidentali, potrebbe creare solitudine con aspetti ansiosi/depressivi, impedendo spesso alle persone
di rilassarsi.
Sempre a mo’ di esempio di come valori diversi regolano società diverse proviamo a paragonare le diversità
tra le società autoritarie e quelle democratiche.
Nella società governate dalla dittatura la libertà individuale è intesa come un pericolo. La persona non è
trattata come soggetto ma è preferibile che si perda nell’anonimato. L’unica responsabilità è quella di
rispettare le regole imposte dal regime.
Al contrario le società governate dalla democrazie esaltano la soggettività, l’individualità e la libertà. La
responsabilità è estesa a qualsiasi scelta si compia.

5 Un programma di psicologia sociale pensato per chi opera nel turismo


Ho pensato ad un programma di psicologia sociale utile per chi opera in campo turistico. Ho, quindi, cercato
di passare concetti teorici in modo tale che potessero anche essere spesi sul piano pratico. Parleremo di
psicologia sociale analizzando gli aspetti caratterizzanti l’essere umano nei suoi aspetti generali come essi
siano influenzati dalla cultura di appartenenza.
Parleremo per cominciare della nascita della psicologia sociale, focalizzando il passaggio da un approccio
positivista oggettivo, quale quello comportamentista, ad uno che, prendendo le mosse dalla fenomenologia,
dà pari dignità a soggetto e oggetto. Quindi parleremo di Lewin e della Gestalt. Un piccolo riferimento sarà
fatto al passaggio dalla psicologia di comunità a forme di interazione telematica, visto che molti dei rapporti
relazionali nella cultura contemporanea sono governati dalle reti telematiche. Procederemo a parlare del Sé
in relazione: nascita, prima e seconda infanzia e adolescenza, focalizzando come lo sviluppo umano dipende
in gran parte dalle relazioni che il bambino e poi l’adolescente instaurano con il mondo sociale ristretto
(famiglia) e allargato (società). Uno sguardo particolare sarà dato alla teoria dell’attaccamento di Bowlby,
per comprendere le motivazioni innate alla relazione sociale. Vi saranno presentati un paio di modelli di
psicologia di personalità letti in chiave sociale, perché mi sono sembrati molto utili sul piano pratico per
relazionarvi ai vostri clienti. Propongono tecniche semplici ed efficaci per intervenire sulle interazioni umane
rendendole più efficaci.
Sempre in riferimento al Sé in relazione, parleremo della comunicazione verbale e non verbale in genere e
come essa dipenda dalla cultura di appartenenza. La psicologia sociale si interessa del rapporto tra identità ed
autostima e lo sviluppo sociale.
Focalizzeremo i sistemi sociali quali famiglia e gruppi più estesi. Parleremo dei rapporti prosociali del
prendersi cura, quindi dell’empatia, della responsabilità e dell’aggressività. Concluderemo parlando di ciò di
cui si interessa la psicologia sociale del turismo, facendo un piccolo riferimento al problem-solving, utile
nella aziende per attingere soluzioni ai problemi delle risorse umane.

“STORIA DELLA PSICOLOGIA SOCIALE”

1 Introduzione
La Psicologia Sociale nasce nel primo decennio del 1900 con la pubblicazione del libro “La Psicologia dei
Popoli” di W. Wundt (in ted. Völkerpsychologie, 10 vol., 1900-1920). Lo scopo dell’autore era quello di
delineare l'evoluzione filogenetica della mente umana a partire dai suoi prodotti collettivi (linguaggio,

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società, religione, arte, cultura, politica, ecc.), osservati comparativamente in diverse condizioni storiche e
socioculturali, secondo un'ottica centrata sulla comunità e non sull'individuo.
Inizia così a essere posto l’accento sulla situazione sociale, che produce spesso effetti profondi e
sorprendenti sul comportamento umano. Ma cosa intendiamo effettivamente per situazione sociale? Nel
tentativo di dare una risposta a questo quesito, potrebbe essere utile specificare le proprietà oggettive della
situazione, ad esempio quali vantaggi offre alle persone, e quindi osservare i comportamenti che ne derivano.
Gli psicologi sociali, pur ponendosi le stesse domande dei filosofi e di altri cultori della saggezza, tentano di
rivolgervi uno sguardo scientifico: proprio come un fisico compie gli esperimenti per mettere alla prova le
sue ipotesi sulla natura del mondo fisico, così lo psicologo sociale li esegue per verificare quelle sulla natura
del mondo sociale.
In quanto scienza del comportamento, la psicologia sociale si fonda su teorie specifiche; nel tentativo di fare
una rassegna storica dell’evoluzione della psicologia sociale, ci si rende conto che non è possibile
comprenderla senza fare riferimento ai paradigmi teorici più importanti che nel corso degli anni hanno
cercato di spiegare i meccanismi alla base del comportamento umano.
Il primo corpus teorico consistente è quello del comportamentismo, che paragona l’uomo a una macchina,
che agisce in maniera passiva all’interno dell’ambiente, proprio sulla base delle caratteristiche ambientali. Il
modello comportamentista non ha avuto lunga vita all’interno del panorama della psicologia sociale, in
quanto ritenuto troppo meccanicistico e semplicistico: non si può ridurre il comportamento a mera risposta a
stimoli ambientali, ma è necessario considerare valori, aspettative, atteggiamenti e valutazioni
dell’individuo. È necessario dunque, analizzare variabili “cognitive”. Proprio il cognitivismo si oppone con
forza al comportamentismo. Nella sua formulazione iniziale, costituita da costellazioni di singole teorie,
emerge una visione dell’uomo come calcolatore: la mente analizza ed elabora le informazioni in ingresso per
trasformarle in altro. Il soggetto non è allora più passivo, ma riscopre la sua natura creativa, intesa come la
capacità di operare nell’ambiente circostante, modificandolo. Tra i due “macrosistemi teorici” si collocano
altre impostazioni teoriche, non meno importanti, quali la psicologia della Gestalt, il cui oggetto di studio è il
dato fenomenico immediato, cioè la realtà così come si presenta all’esperienza, distinta dalla realtà fisica.
Ciò che, ad esempio vediamo, dipende non solo dalle proprietà degli stimoli ma anche da quelle del sistema
percettivo, cioè da alcuni principi che organizzano gli stimoli in un modo anziché in altri possibili. Tali
principi sono stati applicati in maniera originale anche alla psicologia sociale, portando alla formulazione di
teorie (di particolare rilievo la teoria di Lewin) che sono state spunto di numerose riflessioni successive.

2 Comportamentismo
Negli Stati Uniti, dal 1910 si stabilizza il paradigma del comportamentismo sulla base delle tesi di John
Watson, e Burrhus Skinner. Secondo questo modello, l'individuo è alla nascita una tabula rasa, sulla quale le
influenze ambientali hanno la possibilità di incidere qualsiasi cosa. Per i comportamentisti, quindi, il
comportamento umano non viene più spiegato facendo riferimento a contenuti mentalistici, bensì viene
ricondotto al risultato di catene causali di stimoli e risposte secondo un modello di “connessione Stimolo-
Risposta” (S-R). Il comportamentismo nasce ufficialmente nel 1913 con la pubblicazione dell’articolo di
Watson “Psychology as the behaviorist wiews it” (“La psicologia così come la vede un comortamentista”),
dall’ idea centrale di costruire una Psicologia obiettiva, fondata sul tangibile e l’osservabile. Rifiuta
l’introspezionismo come metodo e l’oggetto stesso dell’introspezione, la coscienza, e pone al centro
dell’osservazione il comportamento manifesto. Stimolo (S) e Risposta (R) in questo quadro divengono due
elementi essenziali: il comportamento è infatti definito come una serie di risposte che l’organismo dà ad una
serie di stimoli esterni (S F 0R).
E 0 Tutto il comportamento può essere considerato come un continuo processo di

apprendimento finalizzato all’adattamento. Prima all’interno di una concezione fondata sul modello “prove
ed errori” (legge dell’ effetto di Torndike, 1911), poi nell’ambito del condizionamento classico (Pavlov,
1923) e operante (Skinner, 1938)
2.1. Condizionamento classico
Secondo il condizionamento classico il comportamento degl’individui è frutto di un apprendimento: l’uomo
impara a rispondere a determinati stimoli a cui non era abituato a rispondere, per effetto di un
“condizionamento”. Pavlov (1966), a partire da alcuni studi sperimentali condotti sugli animali, osserva che
l’organismo possiede dei riflessi innati collegati alla comparsa di un determinato tipo di risposta. Lo stimolo
che elicita tale risposta è definito “incondizionato” (SI), in quanto non determinato da precedenti
apprendimenti; la risposta a tale stimolo è detta “incondizionata” (RI). Quando uno stimolo neutro (SN),

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chiamato così perché normalmente non elicita la risposta, è presentato ripetutamente in concomitanza con un
SI, il primo finirà per elicitare a sua volta, anche senza più presentare SI, una risposta molto simile alla RI.
Lo SN si è cosi trasformato in uno stimolo condizionato (SC), cioè in uno stimolo che è in grado di evocare
quel particolare tipo di risposta, non perché possieda questa capacità in natura, ma perché l’ha acquisita
grazie a un condizionamento. La risposta elicitata dallo SC è detta risposta condizionata (RC). A titolo
esemplificativo, riportiamo un famoso esperimento di Pavlov: la vista del cibo (SI) normalmente elicita nel
cane una risposta di salivazione (RI). Facendo precedere ripetutamente il suono di un campanello (SN) al
cibo, il cane emette una risposta di salivazione (RC) al suono del campanello, senza presentazione di cibo.
Elemento centrale del condizionamento è l’intervallo di tempo che intercorre tra la presentazione dello SC e
dello SI:
F 0Quando
B7 SC precede SI F 0molto
E0 efficace
F 0Quando
B7 SC è concomitante con SI F 0pocoE0 efficace
F 0Quando
B7 SC è successivo a SI F 0inefficace
E0

La massima efficacia nel condizionamento si ha quando SC precede SI di 0,5 secondi. Se l’intervallo


aumenta, diminuisce l’efficacia del condizionamento sino a scomparire quando raggiunge un secondo.
Secondo il condizionamento classico l’apprendimento di un comportamento segue inevitabilmente
determinati principi:
F 0Generalizzazione:
B7 una RC a un dato SC è evocata anche da stimoli fisicamente simili allo SC
F 0Discriminazione:
B7 stimoli simili allo SC non elicitano RC
F 0Condizionamento
B7 di ordine superiore: lo SC può essere associato a un altro stimolo, che diventerà un
nuovo SC capace di attivare la RC, benchè non sia stato mai associato direttamente allo SI. Ad esempio,
associando al suono del campanello un flash, viene elicitata una risposta di salivazione anche solo in
presenza del flash.
F 0Estinzione
B7 e recupero spontaneo: se dopo un certo numero di tentativi con lo SC, si tralascia lo SI, può
succedere che il comportamento appreso continui per un pò di tempo, ma poi scompaia o si estingua.
Tuttavia, se dopo un periodo di tempo, nel corso del quale non sono stati presentati SC e SI, RC ricompare se
viene presentato lo SC che l’aveva precedentemente evocata (“recupero spontaneo”).

2.2. Condizionamento operante


La teoria del Condizionamento Operante deriva dagli studi di Thorndike (1911) sull’apprendimento per
prove ed errori che lo condussero a formulare la legge dell’effetto e la legge dell’esercizio.
A partire dagli studi sugli animali, Thorndike ha ritenuto che l’individuo nell’apprendimento procede a caso
fino al raggiungimento dello scopo, dunque non c’è un “intervento intelligente” da parte del soggetto nel
trovare la soluzione. Le azioni che producono effetti soddisfacenti hanno più probabilità di essere ripetute
quando si presenta la stessa situazione e quindi di essere apprese (Legge dell’effetto). Le azioni che
producono effetti spiacevoli o sono prive di effetti hanno sempre meno probabilità di essere ripetute e quindi
apprese.
Anche l’apprendimento per prove ed errori è sensibile alla ripetizione ed al consolidamento
dell’apprendimento (Legge dell’esercizio).
A partire da ciò, Skinner distingue i comportamenti operanti (emessi spontaneamente dall’organismo) dai
comportamenti rispondenti (derivati da riflessi innati o appresi tramite il condizionamento classico). Il
condizionamento operante è la procedura necessaria ad apprendere risposte operanti, cioè comportamenti
finalizzati a uno scopo. Tali risposte impongono un’interazione attiva e funzionale con l’ambiente.
I comportamenti operanti aumentano in funzione del rinforzo (termine con cui Skinner indica qualsiasi tipo
di evento conseguente ad una risposta e in grado di incrementare la probabilità che essa venga prodotta) e
diminuiscono in funzione della punizione. Il rinforzo può essere positivo (qualsiasi stimolo successivo a una
risposta la cui presenza aumenti la probabilità di emissione della risposta) o negativo (qualsiasi stimolo
successivo a una risposta la cui eliminazione aumenti la probabilità di emissione della risposta). Ad esempio,
se un bambino piccolo che non ha ancora sviluppato un buon linguaggio vocale, si accorge che indicando
(comportamento) un oggetto desiderato che non riesce a raggiungere da solo, ottiene dalla mamma
quell’oggetto (rinforzo positivo), tenderà a riproporre tale comportamento anche in futuro per ottenere ciò
che vuole. Altro esempio: se ho freddo e chiudo la finestra, cessa la mia situazione di disagio; il
comportamento (chiudere la finestra) avrà maggiori possibilità di essere emesso in futuro in una situazione

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simile perché ha avuto come conseguenza un rinforzo negativo, ovvero la rimozione di una condizione
aversiva (non ho più freddo). I rinforzi possono essere anche primari o secondari: i rinforzi primari
fanno riferimento a bisogni primari o fisiologici (es. bere, mangiare), i rinforzi secondari fanno riferimento a
bisogni secondari (es. nell’uomo rinforzi sociali quali lodi, sorrisi, o simbolici come il denaro).
La punizione indica qualsiasi evento conseguente ad una risposta e in grado di diminuire la probabilità che
essa venga prodotta: come per il rinforzo, essa può essere positiva e negativa. Se un bambino che non ha
messo in ordine i propri giochi (comportamento) riceve un rimprovero dal papà (punizione positiva), tenderà
a non rimettere in atto tale comportamento, cioè cercherà di sistemare i giochi prima che arrivi il papà, per
paura di ricevere un altro rimprovero e, quindi, per evitare la sensazione emotiva spiacevole che ne deriva.
Per capire meglio invece il concetto di punizione negativa, si immagini un bambino che a scuola girovaga
per la classe (comportamento) e ha come conseguenza che gli viene negato di svolgere a fine ora un’attività
piacevole preventivamente concordata (punizione negativa); per poter svolgere l’attività piacevole, il
bambino tenderà allora a non emettere in futuro il comportamento di girovagare.
In definitiva il comportamentismo, nato dalle osservazioni svolte su specie di animali inferiori, cercava di
spiegare che ogni apprendimento si verifica attraverso il rinforzo: in altre parole, si associano eventi positivi
o negativi dell’ambiente a comportamenti specifici. Gli psicologi appartenenti a questa tradizione
ipotizzarono che:
1. la spiegazione dell’intero comportamento umano potesse avvenire mediante l’esame delle ricompense e
delle punizioni riservate dall’ambiente al soggetto;
2. non vi fosse quindi alcun bisogno di studiare i pensieri o i sentimenti. I comportamentisti non utilizzano
termini e concetti come cognizione, pensiero o sentimento, in quanto reputati troppo generici e mentali e non
direttamente collegati al comportamento osservabile.
3. la conoscenza è data da una totalità sempre riducibile alle sue parti, intesa come sommatoria di esse
(positivismo)1.

1 A questo concezione si opporrà Lewin per il quale la totalità è qualcosa di diverso dalle sue aprti quindi
non riducibile ad esse
La maggior parte degli attuali psicologi sociali è giunta a credere che, al di là dei meriti che ha avuto,
l’approccio comportamentista sia troppo semplicistico e riduzioni stico per poter fornire una comprensione
completa e accurata del comportamento sociale.

3 La psicologia della Gestalt


Negli anni quaranta, viene importata negli Stati Uniti la Psicologia della Gestalt che apre la strada
all'importanza dell'elaborazione percettivo-cognitiva degli stimoli da parte degli individui e dà un imponente
rilievo all’interpretazione degli stimoli da parte dell’individuo. La teoria della Gestalt pone cioè l'enfasi sui
fenomeni così come l'individuo li percepisce e li vive, contribuendo così a far abbandonare l'idea della
“tabula rasa” e il paradigma della scuola di Wilhelm Wundt (1875), la quale voleva ricondurre l'esperienza
psicologica a singoli elementi costitutivi. Avanzata inizialmente come una teoria sulle percezioni
dell’individuo del mondo fisico, la psicologia della Gestalt studia il modo soggettivo in cui un oggetto
appare alla mente delle persone (la “Gestalt”, o forma), piuttosto che la combinazione degli attributi fisici
oggettivi: secondo questa teoria non è possibile comprendere il modo in cui viene percepito un oggetto
unicamente dallo studio degli elementi costituiti della percezione. L’intero è diverso dalla somma delle sue
singole parti. Bisogna concentrarci sulla fenomenologia del soggetto della percezione- vale a dire, sul modo
in cui un oggetto si presenta alle persone- piuttosto che sui singoli elementi dello stimolo dell’oggetto. L’
approccio della Gestalt venne formulato per la prima volta in Germania nella prima parte del 1900 da parte
di Kofka, Kohler, Wertheimer e i loro studenti e colleghi. Sul finire degli anni ’30, alcuni di questi
personaggi emigrarono negli Stati uniti per sfuggire alle persecuzioni naziste. Wolfgang Köhler diede
evidenza empirica a quanto affermato dalla Gestalt, dimostrando che il funzionamento della mente di fronte
ad un problema è un processo “produttivo”, che non avviene sulla base di tentativi ed errori, ma attraverso un
preciso atto mentale che porta a cogliere la relazione tra gli elementi presenti nel campo percettivo così da
strutturarlo cognitivamente. Famoso è il suo esperimento su uno scimpanzè, Sultano, chiuso in una gabbia al
di fuori della quale vi è della frutta, non direttamente raggiungibile. Sultano arriva col braccio fino ad un
bastoncino che è troppo corto per permettergli di recuperare direttamente il cibo; fuori della gabbia c'è un
bastone più lungo che può essere recuperato solo avvicinandolo con il bastone più corto. Dopo un certo

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periodo di irrequietezza in cui l'animale cerca invano di sporgersi per arrivare a prendere la frutta ed esplora
l’ambiente, improvvisamente recupera il bastone corto e si avvia dalla parte della gabbia in cui c’è il bastone
lungo: lo avvicina per mezzo di questo e una volta procuratosi il bastone adatto si rivolge verso la frutta e
riesce a prenderla. Grazie all’apprendimento delle relazioni tra i diversi elementi a sua disposizione,
l’animale ha identificato una soluzione nuova al problema.

3.1. Lewin e la teoria del campo


Kurt Lewin, allievo di Kohler, è ritenuto da tutti il padre fondatore della moderna psicologia sociale
sperimentale. Lo studioso potè vivere in prima persona la crescente intolleranza per la diversità culturale già
nella sua condizione di giovane professore ebreo nella Germania degli anni ’30. Questa esperienza non solo
ebbe un influsso fondamentale sul suo pensiero ma, dopo l’emigrazione in America, contribuì a modellare la
psicologia sociale statunitense, facendola crescere con un profondo interesse per l’esplorazione delle cause e
dei rimendi del pregiudizio e dello stereotipo etnico. L’iniziativa più audace da parte di Lewin fu quella di
applicare i principi della Gestalt alla percezione sociale, al modo in cui le persone percepiscono gli altri e
alle loro motivazioni, intenzioni e comportamenti. Lewin fu il primo scienziato a comprendere appieno
l’importanza di assumere la prospettiva della persona che si trova in qualsiasi situazione sociale, per poter
vedere come essa contribuisce (percepisce, interpreta, cambia) l’ambiente sociale. Gli psicologi sociali
cominciavano a concentrarsi sull’importanza delle situazioni soggettive e su come esse vengano costruite
dalle persone. Lewin si oppone al casualismo lineare che dominava la ricerca behaviorista e, facendo
riferimento alla sua formazione gestaltista, elabora la Teoria del campo, attorno alla quale e per mezzo della
quale costruisce la sua psicologia sociale.
La teoria del campo di Lewin spiega il comportamento in relazione alla situazione in cui lo stesso si
verifica. I motivi del comportamento di una persona non si ricercano in ciò che è accaduto alla stessa nel
corso della sua vita passata, ma si prendono in esame le interrelazioni attuali tra la persona e l'ambiente.
Generalmente la teoria del campo è sintetizzata con la formula:
C = f (P, A)
in cui si mette in risalto che il comportamento (C) di un individuo è una funzione regolata da fattori
interdipendenti costituiti dalla sua personalità (P), e dall'ambiente (A) che lo circonda. Persona e ambiente
sono considerati come un insieme interconnesso che va a formare lo spazio vitale di ogni soggetto. Per
comprendere o prevedere il comportamento di una persona, secondo Lewin, la sua personalità e l’ ambiente
devono essere considerati come un'unica costellazione. Per descrivere queste interrelazioni, Lewin utilizza
metafore di tipo spaziale (psicologia topologica), poichè misurare in cifre le situazioni umane risulta essere
estremamente complesso. Egli ritiene che ogni oggetto (materiale e non), ha una sua valenza, positiva o
negativa. Queste valenze sono forze psicologiche che ci spingono in una direzione piuttosto che in un'altra.
Ci avviciniamo così alle forze positive e tendiamo ad allontanarci da quelle negative. L'ambiente (definito
anche “spazio vitale” o “campo psicologico” o “ambiente psichico”), avendo anch'esso una valenza, può
determinare il comportamento della persona che in esso si relaziona. Esiste un equilibrio tra la persona ed il
suo ambiente e quando quest'equilibrio è compromesso si crea una tensione, volta a ristabilire l'equilibrio
stesso. Il campo psicologico presenta un insieme di fatti interdipendenti (passati, presenti e futuri), che
coesistono e che possono influire sulla persona. Essi sono: - lo spazio di vita (dato dalla rappresentazione
psicologica soggettiva che la persona ha dell'ambiente) - i fatti sociali e/o ambientali (ciò che accade
oggettivamente senza che ciò influenzi in quel momento lo spazio di vita della persona) - la zona di
frontiera (dove lo spazio di vita ed il mondo esterno si incontrano; rappresenta quindi il confine tra
oggettività e soggettività). Questa divisione ha condotto ripetutamente a sottolineare, come caratteristica
della concezione lewiniana, che il comportamento è funzione sia del mondo interno personale che del mondo
esterno. Il campo psicologico è diviso in regioni separate da frontiere (ambiente psicologico, regione
percettivo-motoria, regione della personalità….); esse non sono staticamente stabilite ma variano col variare
del campo. Riassumendo possiamo ritenere che la vera caratteristica del campo lewiniano è
l’interdipendenza dei fatti:
- le proprietà di ogni fatto derivano dalla relazione di tutti gli altri fatti presenti
- ogni fatto trova la sua spiegazione e la sua funzione nel partecipare alla dinamica stessa del sistema.
In questo quadro di correlazioni e interdipendenze, si colloca il comportamento, che dovrebbe essere
considerato non solo in funzione di P e A, ma anche come elemento attivo nella loro costruzione. L’azione,

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promossa da un soggetto attivo, presenta risultati che modificano la situazione sia in senso sociale che in
senso psicologico (processo circolare).

3.2. Dinamiche di gruppo e Action Research


Proprio la teoria del campo porta necessariamente Lewin verso il gruppo che, in generale, è il vero ambiente
sociale con cui l’individuo entra in contatto in molti momenti della sua esistenza: nel gioco, nella scuola, nel
lavoro, nella vita religiosa, nella politica. Nell’analisi lewiniana il gruppo è un fenomeno, non una somma di
fenomeni rappresentati dall’agire e pensare dei suoi singoli membri; è un’unità che la psicologia sociale può
assumere nel suo studio così come altre unita quali, ad esempio, la persona. Il gruppo è un sistema dinamico:
Il gruppo è qualcosa di più o, per meglio dire, qualcosa di diverso dalla somma dei suoi membri ha struttura
propria, fini peculiari e relazioni particolari con gli altri gruppi. Quel che ne costituisce l’essenza non è la
somiglianza o dissomiglianza riscontrabile tra i suoi membri, bensì la loro interdipendenza. Esso può
definirsi come una totalità dinamica. Ciò significa che un cambiamento di stato di una sua parte o frazione
qualsiasi interessa lo stato di tutte le altre. Il grado di interdipendenza delle frazione del gruppo varia da
una massa indefinita a un’unità compatta. Dipende, tra gli altri fattori, dall’ampiezza, dall’organizzazione e
dalla coesione del gruppo. (Lewin,1940).
Lewin definisce lo stato di equilibrio sociale nei termini di un equilibrio quasi stazionario, caratterizzato cioè
da oscillazioni intorno ad una linea di equilibrio, compiute da forze uguali e contrarie, tendenti o
all’innalzamento o all’abbassamento dello standard di vita sociale. Un mutamento nella struttura di tale
campo di forze può avvenire o con l’aggiunta di forze nella direzione desiderata o con la diminuzione delle
forze opposte. D’altra parte la scelta dell’una o dell’altra alternativa non è del tutto indifferente, nella misura
in cui gli effetti secondari dei due processi, che pure conducono allo stesso livello di equilibrio, sono
abbastanza diversi. Infatti l’equilibrio sarà raggiunto nei due casi ad uno stato di diversa tensione (alta nel
primo caso, bassa nel secondo). Ciò significa che, nel caso in cui aumentino le forze nella direzione
desiderata, si verificherà un aumento di tensione nel campo, accompagnato, al di sopra di un certo grado, da
una più alta aggressività, da una maggiore emotività e da una più bassa costruttività. D’altra parte Lewin non
è così ottimista circa la possibilità di un’azione di mutamento psicosociale che non tenga conto anche di
certe resistenze interne iniziali, dovute ad “abitudini cristallizzate” che ancorano gli individui agli standard di
gruppo. Un processo di cambiamento riuscito consta di tre tappe, una di rottura, una di spostamento, una di
ricostruzione. Il gruppo, dunque, si caratterizza per la stretta interdipendenza delle sue parti ed i loro rapporti
reciproci determinano le proprietà strutturali della totalità. Questa prospettiva comporta una definizione di
gruppo sempre valida, indipendentemente dalla sua composizione, grandezza e finalizzazione. Per quanto
riguarda l'interrelazione tra le parti di un gruppo, Lewin fa riferimento all'interdipendenza del destino e del
compito. L'interdipendenza del destino costituisce un elemento macroscopico d'unificazione, nel senso che
qualunque aggregato casuale d'individui può diventare gruppo, se le circostanze ambientali attivano la
sensazione di condividere la stessa sorte. A tal proposito, si può citare un episodio noto alla letteratura
scientifica e denominato "sindrome di Stoccolma": nel 1973, quattro impiegati di una banca furono presi in
ostaggio da due banditi per cinque giorni. Tra i sequestrati ed i sequestratori s'instaurò una sorta d'atmosfera
di gruppo così forte da non spezzarsi con la liberazione: infatti, i primi testimoniarono a favore dei secondi al
processo, li andarono a trovare in carcere e si celebrò addirittura un matrimonio tra un'impiegata ed un
bandito. Tale accadimento ha una duplice interpretazione: per la psicologia clinica, esso deriva
dall'attaccamento della vittima al carnefice, mentre, per l'approccio psicosociale, è un'esemplificazione
estrema di come un insieme di persone possa costituirsi in un gruppo, sotto la spinta d'eventi stressanti e
imprevedibili che generano la sensazione del comune destino. L'interdipendenza del compito costituisce un
elemento più forte e diretto d'unificazione, perché lo scopo determina tra i membri un rapporto di
ripercussione circolare degli esiti. L'interdipendenza del compito può essere positiva o negativa: nel primo
caso, si ha collaborazione ed il successo di tutto il gruppo; nel secondo, invece, si ha competizione e la
riuscita di un membro a detrimento degli altri. Entrambi i tipi d'interdipendenza creano dinamiche che
incidono sulla produttività del gruppo e sul suo clima interno.
La speculazione teorica di Lewin trova applicazione pratica in una particolare metodologia di ricerca, che
l’autore stesso introdusse negli anni Quaranta: la Ricerca-Azione (Action Reserch). Alla base di questa
metodologia, vi è l’assunto che le teorie scientifiche e la pratica trasformativa debbano necessariamente
intrecciarsi per produrre cambiamento, in modo che le ipotesi guidino le azioni e queste ultime modifichino
le conoscenze stesse. La ricerca-azione è, dunque, un processo ciclico che implica diverse fasi: a) è

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necessario identificare e definire in maniera operazionale i problemi per i quali è necessario l’intervento; b)
la raccolta dei dati permette di determinare gli obiettivi dell’intervento; c) gli obiettivi sono tradotti in
programmi di azione da implementare; d) vengono valutati i risultati dei programmi di intervento, in modo
da e)dare inizio a un nuovo ciclo.
Facciamo un esempio pratico. Una delle situazioni nuove che la scuola e l’insegnante sono chiamati oggi a
fronteggiare è quella della presenza, sempre più crescente nelle classi, di discenti non italofoni. Si presentano
all’insegnante e alla scuola in generale degli scenari linguistici e culturali del tutto nuovo e che riguardano
questioni quali l’inserimento, l’apprendimento e modalità di insegnamento. Sono questioni urgenti e la
modalità di ricerca azione può consentire un approfondimento “consapevole” di diverse tematiche e indicare
dei percorsi d’azione da intraprendere. Il primo passo da compiere è scegliere quale sia l’obiettivo
dell’intervento, ad esempio favorire l’inserimento dell’alunno straniero all’interno del gruppo classe. Si
passa allora alla raccolta di dati, attraverso vari strumenti, quali ad esempio questionari di autovalutazione
circa la percezione degli altri e delle altre culture, grazie ai quali è possibile definire obiettivi ancora più
specifici, ad esempio incrementare negli studenti l’accettazione dell’altro e l’apertura al dialogo. Per il
raggiungimento di questi obiettivi vengono implementati programmi specifici, come ad esempio laboratori di
scrittura e forum cinematografici centrati sul tema della diversità culturale, con conseguente discussione da
parte dell’intero gruppo classe. Terminate le attività si passa a valutare i risultati ottenuti, di modo da
verificare la presenza di cambiamenti di atteggiamento nei confronti degli alunni stranieri. Sulla base di
questa valutazione si da vita, se necessario, a un altro intervento, in quanto l’azione (prassi), nata da una
particolare ipotesi teorica ha modificato la teoria stessa, portando alla luce nuove ipotesi teoriche.
L’innovazione di questo modello di intervento sta, dunque, nel rapporto circolare tra teoria e prassi (grazie al
quale si generano processi continui di trasformazione) e nella partecipazione attiva più o meno estesa dei
soggetti cui l’intervento di cambiamento è diretto.

4 Neo-comportamentismo
Già dagli anni Trenta, il comportamentismo inizia a modificarsi e a essere messo in discussione dagli
studiosi del tempo. In quegli anni, le numerose scoperte delle neuroscienze sull’attività cerebrale portano a
disconfermare l’assunto di base del comportamentismo, ovvero che i processi mentali non devono essere
presi in considerazione, in quanto non conoscibili e osservabili. Nasce così il Neo-comportamentismo, il cui
obiettivo è rintracciare dei meccanismi di mediazione tra stimolo e risposta, che diano conto delle differenze
di riposte e, in generale, dei fenomeni più complessi di comportamento. Il modello S-R, si trasforma così in
S-O-R: tra stimolo e risposta si interpone, cioè, la mediazione dell’ “organismo”. Tale mediazione, per alcuni
autori (come ad esempio Hebb), è di natura neurologica, mentre per altri è di natura più squisitamente
psicologica. Tra questi, uno dei più noti è sicuramente Hull, che del comportamentismo di prima generazione
condivide la funzione adattiva del comportamento e di ogni sistema di apprendimento; per Hull, tuttavia, un
certo comportamento è messo in atto non solo per rispondere a un determinato stimolo ambientale, ma per
ridurre specifici “bisogni” dell’individuo. Con il termine “bisogno”, Hull vuole indicare la motivazione o
pulsione dell’individuo per mettere in atto uno specifico comportamento: si tratta dunque di un fattore
interno all’organismo e non presente nell’ambiente esterno. Hull, inoltre, sottolinea l’importanza del
meccanismo dell’ abitudine, ossia la tendenza a rispondere sempre nello stesso modo ad uno stesso stimolo.

5 La svolta cognitivista
La fine degli anni Cinquanta vede un profondo dibattito in psicologia sociale, determinato dalla presenza di
nuove riflessioni teoriche accanto a quelle comportamentiste e neo-behavioriste. Il versante che si profila con
maggior decisione come valida alternativa al comportamentismo è quello che accentua l’interesse per i
processi cognitivi. Inizia a delinearsi un nuovo modo di intendere l’uomo e di spiegarne i comportamenti,
sulla base non solo delle influenze ambientali (ambiente vs organismo) ma anche delle sue motivazioni,
aspettative e valutazioni (organismo vs ambiente). In altri termini, l’individuo cessa di essere considerato un
elemento passivo, il cui comportamento è plasmato dall’ambiente che lo circonda, per divenire presenza
attiva. Non sono più gli eventi esterni ad agire sull’uomo, ma è la percezione di essi a costituire la principale
fonte di influenza del comportamento. L’attenzione della ricerca, quindi, è sulla comprensione di come gli
individui costruiscono la loro realtà soggettiva. Oggetti di studio divengono il modo in cui le informazioni
che provengono dal mondo esterno sono codificate, immagazzinate e, all’occorrenza, estratte dalla memoria,

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come le conoscenze sociali vengono strutturate e rappresentate, quali processi si mettono in moto quando gli
individui elaborano le informazioni e prendono le decisioni.
Fondamentali per la svolta cognitivista sono le teorizzazioni di Tolman e Bandura, che, seppur ispirandosi
alla decennale tradizione comportamentista, conducono quest’ultima a un punto di rottura. Secondo Tolman,
gli stimoli non bastano a dirigere il comportamento, che è invece guidato da “scopi” e “intenzioni”. In altre
parole, le persone prevedono le conseguenze di specifici comportamenti, che vengono messi in atto solo se
conducono al raggiungimento di uno scopo specifico. Quindi, per Tolman, oltre al carattere intenzionale, il
comportamento possiede anche una dimensione cognitiva, frutto dello scambio con l’ambiente e della
capacità dell’individuo di creare delle “mappe cognitive”, che definiscono la relazione tra scopo e mezzi per
raggiungerlo. Tali mappe si costituiscono sulla base delle aspettative del soggetto in relazione alle
conseguenze di un comportamento specifico, piuttosto che sulla sua storia d’apprendimento. Il
comportamento sarebbe frutto di un “apprendimento latente”, dato dalla conoscenza dell’ambiente
all’interno del quale il soggetto agisce.

5.1. Bandura e l’apprendimento sociale


L’applicazione del neo-comportamentismo in psicologia sociale aveva come obiettivo quello di determinare
le modalità attraverso cui l’individuo acquisisce nuove abilità e comportamenti. Negli anni Cinquanta, inizia
così un nuovo filone di ricerche sull’apprendimento per imitazione, che portano l'attenzione sui diversi modi
in cui le esperienze sociali contribuiscono alla personalità e alla regolazione della condotta. All’interno di
questo nuovo filone, risulta centrale lo studio di Bandura e la sua teorizzazione sull’apprendimento sociale.
Bandura sottolinea come l'apprendimento non avvenga solo per contatto diretto con gli elementi ambientali
che influenzano il comportamento, ma anche per contatto indiretto, attraverso l'osservazione di altre persone:
il comportamento sarebbe allora frutto di un processo di modellamento. . Affinchè si verifichi
l’apprendimento di un dato comportamento è necessario che l’individuo che osserva riesca ad utilizzare il
comportamento osservato in una situazione analoga a quella in cui è avvenuto l’apprendimento. L’uso di
testimonial nelle campagne pubblicitarie si basa proprio sui principi dell’apprendimento per imitazione. Per
esempio, acquistare gli stessi prodotti che utilizza il proprio idolo significa avere gli stessi benefici che egli
dichiara di ricevere dal consumo di tali prodotti e significa anche potersi identificare con il protagonista dello
spot e con i valori che incarna.
La teoria è stata formulata sulla base dei risultati di numerose ricerche sperimentali; tra queste una delle più
famose è “ l’esperimento della bambola Bobo” (1961), con la quale
fu dimostrato che il comportamento aggressivo dei bambini può essere modellato, cioè appreso per
imitazione. L’esperimento riguardava bambini con un’età compresa tra i 37 e i 69 mesi. Bandura formò tre
gruppi: nel primo gruppo inserì uno dei suoi collaboratori che si mostrò aggressivo nei confronti di un
pupazzo gonfiabile chiamato Bobo. L’adulto picchiava il pupazzo mostrando un comportamento aggressivo
e violento; nel secondo gruppo, un altro collaboratore, intento a giocherellare con le costruzioni di legno e
altri giochi presenti nella stanza, non manifestava alcun tipo di aggressività; infine, il terzo gruppo, era
formato da bambini che giocavano da soli e liberamente, senza alcun adulto con funzione di modello. Si poté
verificare che i bambini che avevano osservato l’adulto picchiare Bobo manifestavano un’incidenza
maggiore di comportamenti aggressivi, sia rispetto a quelli che avevano visto il modello non aggressivo sia
rispetto a quelli che avevano giocato da soli. L’esperimento ci fa capire l’importanza dell’imitazione e lo
stretto rapporto tra la persona che funge da modello e quella che si lascia modellare da essa. Questo studio
sottolinea inoltre l’importanza dell’apprendimento sociale in relazione ai diversi ambienti di vita.
Entro questa prospettiva, l'accento inizia ad essere posto sulle strutture cognitive alla base dei
comportamenti, in termini di aspettative, attribuzioni causali, valutazioni sulle capacità proprie ed altrui.
Ma la rottura profonda di Bandura con il comportamentismo avviene con la formulazione del concetto di
“autoefficacia percepita”, costrutto che troverà successive revisioni e riformulazioni da parte dell’autore.
L’autoefficacia può essere definita come una capacità generativa la cui funzione è di organizzare elementi
particolari in modo da orientare le singole sottoabilità cognitive, sociali, emozionali e comportamentali in
maniera efficiente per assolvere a scopi specifici. In termini pratici, essa si riferisce a) alle percezioni
soggettive circa qualità personali possedute rispetto alle richieste di un compito, tenendo conto della sua
complessità e delle condizioni per svolgerlo; b) aspettative di ottenere un esito positivo; c) salienza del
compito e della situazione rispetto alle proprie abilità. L’autoefficacia, dunque, corrisponde alla convinzione
di “sapere di saper fare”; essa deriva da fattori di esperienza e di apprendimento sociale. In genere le persone

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con un basso senso di autoefficacia percepita evitano i compiti impegnativi, perchè percepiti come elementi
di minaccia; hanno bassi livelli di aspirazione, si impegnano moderatamente nel perseguimento degli scopi e
in situazioni problematiche tendono a focalizzarsi sulle proprie debolezze, sugli ostacoli delle situazioni e
sull’avversità degli esiti. Al contrario, gli individui che hanno un alto livello di autoefficacia percepita sono
generalmente attratti da compiti difficili, che rappresentano occasioni per mettere alla prova le proprie
capacità; queste persone posseggono spesso alti livelli di aspirazione e di impegno nelle attività volte al
raggiungimento di scopi prefissati.
5.2. Il dibattito sul linguaggio
Un enorme contributo al clima culturale del cognitivismo è dato, negli anni Cinquanta, dai lavori di Jerom
Bruner (1956) e di Noam Chomsky (1957), con la riscoperta del “soggetto creativo”, che agisce non solo in
risposta a specifici stimoli ambientali, ma anche sulla base di competenze innate.
Bruner, nel suo pioneristico “A study of thinking” (1957), scritto insieme a Goodnow e Austin, analizza i
processi con cui si ottengono, mantengono e comunicano le informazioni. Si tratta di comprendere come gli
individui raggruppino il mondo circostante intorno a concetti, ovvero classi ordinate e categorie che
permettono di dare al mondo un ordine coerente e controllabile. Secondo l’autore è necessario andare oltre le
informazioni per inferire le categorie generali cui esse appartengono. Tutto quello che pensiamo è frutto di
categorizzazioni effettuate sulla base di esperienze precedenti. Tali categorizzazioni sono rese possibili dal
linguaggio, che rappresenta così il mezzo tramite il quale la mente struttura la “realtà”.
Proprio il linguaggio diviene il centro di un acceso dibattito. Per Bruner esso è uno dei principali strumenti di
cui il pensiero si serve, senza tuttavia ipotizzare che dipenda dal pensiero o che quest’ultimo sia subordinato
al linguaggio; la sua acquisizione avviene attraverso l’interazione con gli altri e permette di comunicare
esperienze e ordinare gli eventi in modo tale che acquisiscano una forma narrativa.
Al contrario, Chomsky, all’interno di “Le strutture della sintassi” (1957) ipotizza l’esistenza di un dispositivo
innato per l’acquisizione del linguaggio (LAD– Language Acquisition Device), che presuppone l’esistenza di
una “grammatica universale”, contenente la descrizione degli aspetti strutturali condivisi da tutte le lingue
naturali; l’acquisizione del linguaggio non consiste nell’imitazione degli adulti, ma è un processo attivo di
scoperta di regole e di verifica di ipotesi. La riflessione di Chomsky sul linguaggio rappresenta una feroce
critica all’impostazione comportamentista del linguaggio.
Skinner infatti, nel suo “Verbal Behavior” (1957), aveva indicato come il linguaggio, al pari degli altri
comportamenti, fosse dipendente dagli stimoli ambientali e fosse modellabile da rinforzi e punizioni. Per
Skinner il linguaggio non è un processo cognitivo innato o relativo allo sviluppo, ma è piuttosto paragonabile
a qualsiasi altro tipo di comportamento; il “comportamento verbale” è definito dunque come “un
comportamento rinforzato attraverso la mediazione di altre persone”, che può quindi essere spiegato al
meglio attraverso le stesse variabili ambientali che spiegano qualunque altro comportamento. Di
conseguenza il comportamento verbale, proprio in quanto comportamento, è meglio studiato sulla base delle
contingenze in cui si verifica, ovvero sulla base degli stimoli ambientali antecedenti e conseguenti, anziché
sulla forma (topografia) in cui è espresso. In altri termini, la parola non è definita in base alla sua forma ma
per la sua funzione, cioè in considerazione delle variabili che ne controllano l’emissione. Da qui la
classificazione del linguaggio in categorie funzionali, definite da Skinner “operanti verbali”.
Appare molto chiara la netta contrapposizione tra la concezione di Skinner (linguaggio modellato
dall’ambiente) e quella di Chomsky (linguaggio innato e universale).
4.3. Il paradigma dello “Human Processing”
Il 1954 è l’anno di pubblicazione di “Handbook of Social Psychology”, in cui Sheerer espone l’ottica
cognitiva in psicologia sociale, sottolineando che “la teoria cognitiva si occupa soprattutto del problema di
come l’uomo raccolga informazioni e conoscenze del mondo che gli sta attorno e come agisca nell’ambiente
e sull’ambiente circostante in base a queste conoscenze” (Sheerer, 1954). Tuttavia, ben presto la psicologia
sociale di stampo cognitivo si discosta dall’impostazione auspicata da Sheerer, per indirizzarsi in maniera
specifica e quasi assoluta allo studio dei processi mentali in termini di “ trattamento dell’informazione”. Un
proliferare di modelli derivati dalla teoria della comunicazione e della cibernetica fa sì che prenda forma un
paradigma per l’analisi della sequenza input-elaborazione-output. Tale paradigma prende il nome di Human
Information Processing (HIP), in quanto, come il nome suggerisce, si propone di analizzare i processi di
elaborazione delle informazioni. L’interesse, dunque, è sul soggetto attivo che opera nel mondo, non per
mezzo di stimoli e apprendimenti, ma sviluppando le proprie capacità mentali. La mente umana è
considerata un elaboratore di informazioni provenienti dall’ambiente. Il principale oggetto di studi del

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cognitivismo è, quindi, la mente come sistema complesso di regole, indipendente dai fattori biologici,
sociali, culturali, emozionali, etc. In tale prospettiva la ricerca su cui il cognitivismo si concentra è l’analisi
dei processi di raccolta e trattamento dell’informazione; in questo senso, i modelli derivati dalla cibernetica
risultano i più adeguati a descrivere questo tipo di analisi. I computer, con i loro meccanismi di ingresso
dell’informazione e di uscita del dato elaborato, e con le loro memorie, rivelano una somiglianza con l’uomo
che riceve, elabora e trasforma l’informazione e con i processi cognitivi umani che sono sempre uno scambio
di informazione tra individuo e ambiente.

Cambiano quindi radicalmente l’approccio COGNITIVISMO


teorico e l’oggetto di studio rispetto al
Comportamentismo:
COMPORTAMENTISMO
Oggetto di studio: comportamento Oggetto di studio: mente
Orientamento: associazionista Orientamento: innatismo
Spiegazione: lineare Spiegazione: multi-lineare
Apprendimento: S-R Apprendimento: attività mentale di
rielaborazione/ esperienza

“NASCITA DELLA PSICOLOGIA SOCIALE”

1 Premessa: Le Mini-teorie e la Psicologia europea


La nascita del cognitivismo avviene per mezzo di un distacco graduale del modello comportamentale, che
fino agli anni Cinquanta aveva rappresentato la cornice epistemologica di riferimento della ricerca
psicologica. Nell’ambito specifico della psicologia sociale, la riflessione teorica risulta influenzata, da un
lato dall’eredità di Lewin e dall’altro dal modello neo-comportamentista S-O-R. Questi modelli cercano di
dare risposte generali sul comportamento umano in relazione.
Ad un certo punto si avverte la necessità di una ricerca obiettiva, che fornisca leggi universali, su attività
specifiche della psiche. Questa bisogno conduce alla creazione di diversi modelli teorici che cercano di
spiegare aspetti specifici dell’attività psichica e i comportamenti ad essa connessi, piuttosto che fornire
modelli di funzionamento “generale” dell’individuo.
Nascono così molteplici “mini-teorie”, alcune destinate ad essere velocemente rimpiazzate e dimenticate,
altre destinate a ricoprire un ruolo importante all’interno del panorama della psicologia sociale. Esempi
emblematici di queste ultime sono la Teoria della Dissonanza Cognitiva di Festinger (1957) e la Teoria
dell’Attribuzione di Heider (1970). Dopo la seconda guerra mondiale il panorama mondiale della Psicologia
Sociale era completamente retto dal filone americano mentre quello europeo era privo di una propria
istituzionalizzazione. Solo negli anni ’60 comincia a sistematizzarsi e diffondersi, trovando la sua massima
espressione nella Teoria dell’identità sociale di Tajfel e nella Teoria delle Rappresentazioni Sociali di
Moscovici.

2 Teoria della dissonanza cognitiva


La teoria della dissonanza cognitiva, elaborata da Leon Festinger alla fine degli anni ’50, rappresenta uno dei
capisaldi della psicologia sociale. Essa ruota intorno alla constatazione che l’uomo ha una tendenza naturale
a ricercare una coerenza tra ciò che fa o dice e ciò che pensa, cioè tra comportamenti (ciò che fa) e
atteggiamenti (ciò che pensa). Tuttavia, quando la coerenza tra atteggiamenti e comportamenti viene a
mancare, si genera una situazione di disagio, definita da Festinger “dissonanza”. La dissonanza si riferisce a
relazioni tra coppie di elementi appartenenti alla cognizione di un determinato individuo. È necessario
specificare che con il termine “cognizione”, l’autore non intende l’insieme dei processi cognitivi di
elaborazione delle informazioni, bensì ogni conoscenza, opinione, credenza che riguardi l’ambiente, la
propria persona e il proprio comportamento. Quando viene a mancare la coerenza, si crea uno stato di
disagio psicologico, che l’attività mentale tende a ridurre. Ad esempio penso di essere una persona onesta e
mi ritrovo a non restituire il resto maggiorato. Oppure scappo dopo avere urtato una macchina al parcheggio.
Secondo Festinger, due elementi possono essere dissonanti tra loro per motivi di:

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logica interna (“fumo” e “il fumo fa male”)
F0B7

contrasto con norme culturali (“mangio carne di maiale” e “sono musulmano praticante”)
F0B7

F 0contrasto
B7 con precedenti esperienze personali (“sono stato campione olimpionico” e “sono sedentario”).

L’esistenza quotidiana abbonda di situazioni conflittuali determinate dalla necessità di scegliere tra
alternative più o meno tutte gradevoli: voler dimagrire e mangiare dolci, andare al mare e preferire la
montagna, sono solo alcuni esempi di situazioni in cui si sperimenta la dissonanza.
Per ridurre tale fastidio si tende a riportare coerenza tra atteggiamento e comportamento, agendo sull’uno o
sull’altro. Affinchè si elimini la dissonanza tra due elementi, è possibile:
F 0produrre
B7 un cambiamento nell’ambiente, se è questo uno degli elementi dissonnanti;
F 0cambiare
B7 il proprio comportamento;
F 0effettuare
B7 una “ristrutturazione cognitiva” (ovvero, modificare il proprio mondo di opinioni e credenze in
merito agli elementi causa di dissonanza, attraverso ad esempio l’aggiunta di nuove informazioni e
l’eliminazione di altre informazioni contrastanti).
In altre parole, per recuperare uno stato di equilibrio psicologico, o ci convinciamo che ciò che facciamo
vada bene (“i dolci non sono poi così calorici”), oppure ci decidiamo a comportarci diversamente (limitiamo
il consumo di zuccheri). In genere, se non mutiamo né opinione, né comportamento, l’incoerenza permane e
con essa il disagio psicologico. Quando la dissonanza diventa insostenibile, l'elemento cognitivo meno
resistente viene modificato e la dissonanza scompare.
2.1. La decisone e la dissonanza
Una delle occasioni in cui più frequentemente l’individuo sperimenta la dissonanza è in concomitanza di una
decisione, in quanto l’atto del decidere provoca sempre conseguenze concrete. La decisione comporta la
valutazione di alternative e la scelta di una piuttosto che l’altra: a) prima della decisione si analizzano le
caratteristiche di ciascuna alternativa e le si pongono a confronto; b) il momento della scelta obbliga a
preferire un’alternativa all’altra; c) dopo aver scelto, si continuano a valutare gli elementi di attrazione
dell’alternativa scartata e quelli meno positivi dell’alternativa selezionata. La dissonanza insorge dunque nel
momento post-decisionale, perché il soggetto continua a possedere, a livello cognitivo, elementi che
riflettono le caratteristiche favorevoli delle alternative rifiutate e le caratteristiche sfavorevoli delle
alternative prescelte. L’ampiezza della dissonanza dipende da diversi fattori; in particolare essa aumenta:
- all’aumentare dell’importanza della decisione per la persona,
- del numero delle alternative in gioco,
- della valenza (positiva/attrattiva) che le alternative hanno per il soggetto,
- dell’irrevocabilità della decisione.

Risulta invece minore, quanto più le alternative sono simili tra loro. È importante sottolineare che dissonanza
non è sinonimo di conflitto e con esso non deve essere confuso: al contrario della dissonanza, che, come
abbiamo visto, è un processo post-decisionale, il conflitto sorge in una fase pre-decisionale, quando bisogna
scegliere tra due possibili tipi di azione.

2.2. Dissonanza cognitiva e Accordo Forzato


Oltre che in condizioni di libera scelta, la dissonanza può originarsi anche in caso di accordo forzato, ossia
quando siamo costretti ad agire in modo non coerente con le nostre opinioni personali. In questo caso si può
produrre il comportamento richiesto senza un effettivo mutamento dell’opinione personale: si verifica cioè
acquiescenza. Tale situazione può generare dissonanza. Si può produrre acquiescenza attraverso l’offerta di
una ricompensa oppure la minaccia di punizioni. Questo aspetto è stato valutato sperimentalmente da
Festinger, in diversi famosi esperimenti. In uno, condotto da Festinger e Carlsmith (1959), 71 studenti furono
sottoposti ad un compito noioso e monotono per circa 1 ora; al termine della prova, era chiesto loro di dire ad
altri, che stavano per eseguire lo stesso compito, che esso era piacevole, interessante e divertente. Per fornire
l’informazione falsa, a un gruppo veniva data una somma di denaro irrisoria (1 dollaro), a un altro una
somma consistente (20 dollari). Tutti i soggetti accettarono di mentire, ma coloro che avevano ricevuto solo
1 dollaro, nel valutare la gradevolezza dell’esperimento in una scala da -5 a +5, mostrarono di avere
cambiato atteggiamento al riguardo: valutavano cioè il compito positivamente, al contrario di coloro che
avevano ricevuto 20 dollari e che continuavano a valutarlo in termini negativi. In altri termini, il
cambiamento di atteggiamento dei soggetti era stato inversamente proporzionale alla consistenza della

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ricompensa ricevuta. Festinger spiega i risultati ottenuti, sostenendo che aver ricevuto 20 dollari giustificava
la menzogna e riduceva la dissonanza tra dire che il compito era piacevole e pensare a quanto invece fosse
noioso, a differenza di chi aveva ricevuto un dollaro, in cui l’ampiezza della dissonanza era maggiore perché
la ricompensa non poteva essere ritenuta una giustificazione sufficiente per mentire.
In generale, si può affermare che più è basso l’incentivo per costringere una persona all’accordo, maggiore è
la dissonanza cognitiva. Quest’evidenza mette in crisi l’importanza del rinforzo, sostenuta dai
comportamentisti. Non è infatti un alto rinforzo a produrre modifiche di opinioni e atteggiamenti, ma il
bisogno di trovare una coerenza tra ciò che si fa e ciò che si pensa. Questo effetto è stato rilevato anche nel
caso di decisioni importanti nella vita reale. Basti considerare che tutte le società si reggono sul concetto che
una pena o una sua minaccia possa contrastare l’infrazione delle regole sociali da parte dei singoli (ad
esempio, una multa nel caso si superino i limiti di velocità). Nell’ottica della teoria della dissonanza
cognitiva, non è però il timore di una pena pesante che ci fa evitare di correre in auto (azione piacevole), ma
rallentiamo per evitare di essere colti in flagrante, in modo da ridurre la dissonanza tra quello che ci piace
fare e il volere adempiere ad una norma sociale che ci fa percepire come persone oneste.
2.3. Dissonanza cognitiva e libera scelta
La presenza di dissonanza cognitiva è stata verificata anche in bambini lasciati liberi di scegliere. Nel 1963,
Aronson, Turner e Carlsmith hanno inaugurato una serie di ricerche comunemente note sotto il titolo di “Il
giocattolo proibito”. Il primo esperimento, condotto su bambini in età prescolare, nella sua formulazione
originale, prevedeva che i bambini dovessero inizialmente identificare il loro giocattolo preferito, tra quelli
messi a disposizione. Veniva allora proibito loro di giocare proprio con quel giocattolo, minacciandoli di
ricevere una punizione nel caso in cui avessero trasgredito. Tuttavia la minaccia era di entità variabili: per
alcuni bambini si trattava di una minaccia lieve (“Mi arrabbierei un po’ se disubbidissi”), per altri la
minaccia era più grave (“Mi arrabbierei molto e sarei costretto a prendere tutti i giocattoli e a portarli via con
me”). Subito dopo, lo sperimentatore lasciava la stanza, ricordando ai bambini che potevano giocare con tutti
i giocattoli tranne quello proibito. Tutti i bambini resistettero alla tentazione e nessuno giocò con il giocattolo
che era stato proibito. Una volta rientrato nella stanza, lo sperimentatore chiedeva di nuovo quale fosse il
giocattolo preferito: i bambini che erano stati minacciati in modo lieve valutarono il giocattolo proibito in
maniera meno attraente rispetto a prima, perché non essendo stati in grado di trovare sufficienti
giustificazioni esterne per non giocarvi, si erano convinti che in realtà non era poi così gradito; al contrario, i
bambini che avevano ricevuto una minaccia forte continuavano a valutare il giocattolo proibito come
altamente desiderabile, in quanto la minaccia esterna era sufficiente a giustificare il non giocare con
l’oggetto. In altri termini “la svalutazione del giocattolo è un mezzo di riduzione della dissonanza insorta
durante il periodo di tentazione, in cui i soggetti sottoposti a debole minaccia non avevano una
giustificazione sufficiente per trattenersi dal giocare con il giocattolo desiderato e dovevano procedere a
una modificazione cognitiva (cambiamento d’atteggiamento) per giustificare il loro comportamento
contrario all’atteggiamento. Nella situazione di forte minaccia le ragioni fornite dall’adulto sono sufficienti
a giustificare il divieto e sembrano non creare modificazione nel mondo cognitivo di preferenze del bambino,
anche se la forte minaccia provoca un aumento dell’attrattività del giocattolo critico.” (Amerio et al., 1978)
All’interno della discussione aperta dalla teoria festingeriana, Brehm e Cohen (1962) introducono il concetto
di commitment (impegno): più della scelta imposta (che genera sempre problemi), quello che influisce sulla
creazione di situazioni di dissonanza è il senso soggettivo della scelta, ovvero la decisione di impegnarsi in
una determinata azione. Ne consegue che la dissonanza aumenta all’aumentare della percezione da parte
della persona di essere libero di scegliere e di impegnarsi e all’aumentare del senso di “responsabilità” verso
la scelta da fare.
2.4. Applicazione pratica della Teoria della Dissonanza Cognitiva
Alcune tecniche di persuasione, utilizzate da venditori di un prodotto, sono state messe a punto sulla base dei
principi della teoria di Festinger. Tali tecniche operano creando nel potenziale acquirente dissonanza
cognitiva. Vediamo in pratica come ciò può avvenire, prendendo in considerazione la cosiddetta “tecnica del
colpo basso”. Immaginiamo che una coppia si rechi in agenzia per l’acquisto di un pacchetto-vacanze. Viene
proposta un’offerta molto vantaggiosa ai clienti, che si mostrano sempre più motivati all’acquisto. Tuttavia al
momento di concretizzare l’acquisto il venditore contravviene ai vantaggi offerti in partenza; a questo punto,
i clienti sono ovviamente liberi di recedere, ma in molti casi si procede comunque nell’effettuare l’acquisto
e aggiudicarsi la tanto desiderata vacanza. Lo scopo di tutti questi metodi di valorizzazione o di
presentazione di un prodotto è far prendere una decisione di acquisto, dando l'illusione che costituisca un

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vantaggio per il cliente. Nel momento in cui la decisione di acquistare è stata presa, la rinuncia all'acquisto
diventa altamente improbabile nonostante le mutate condizioni. Questo accade perché l’acquisto rappresenta
una soluzione alla dissonanza cognitiva che si è generata nel soggetto tra la motivazione all’acquisto
(innescata dalle condizioni vantaggiose) e la presenza di minori vantaggi rispetto a quelli presagiti.
3 La psicologia ingenua: Heider e la folkpsychology
Nel panorama delle mini-teorie, oltre a quella di Festinger, spicca la riflessione teroica di Franz Heider
(1958), che stupisce il panorama culturale americano in relazione al modo di ragionare, riflettere e
sperimentare sui fenomeni psicosociali, in quanto fa ricorso a quella che viene definita “psicologia ingenua”.
Il tema della psicologia ingenua (folkpsychology) si occupa dell’attitudine delle persone ad interpretare in
termini di stati mentali i nostri comportamenti e i comportamenti degli altri a partire dalle informazioni
derivanti dal senso comune e dalla nostra esperienza. Questa tendenza che abbiamo di conoscere gli altri è
una funzione adattiva: capire gli altri ci permette di prevedere il loro comportamento e di interagire con loro
in maniera funzionale.
Gli esseri umani non hanno generalmente bisogno di seguire corsi di psicologia all’università per interpretare
il comportamento degli altri individui, dotandolo di un senso.
Un esempio pratico:
“Siete nel vostro caffè preferito a sorseggiare una tazza di the quando, improvvisamente, inizia a piovere.
Dalla vostra posizione privilegiata, al riparo dalla pioggia, vedete uomini e donne aumentare il passo sui
marciapiedi, mentre alcuni di loro si riparano sotto ai portoni.”
Come interpretate questo comportamento? Benchè non lo formuliate esplicitamente, il vostro pensiero
dovrebbe essere qualcosa del genere: “X crede che piova e desidera non bagnarsi e crede che riparandosi
sotto il portone non si bagnerà ”.
Per giungere a queste conclusioni avete presupposto che:
- X sia un agente razionale, che ha degli scopi e agisce in modo da raggiungerli
- stati mentali, quali credenze e desideri, per altro inosservabili, siano la causa del comportamento di X.

Un principio fondamentale alla base della psicologia ingenua è la credenza che l’uomo sia in grado di
padroneggiare la realtà, grazie alla previsione e al controllo delle situazioni, collegando determinati
comportamenti (es. correre ) a particolari condizioni (es. ripararsi dalla pioggia).
Generalmente noi: cerchiamo sempre di attribuire un senso a tutto ciò che osserviamo. andiamo alla ricerca
delle cause di quanto avviene attorno a noi, compiendo delle attribuzioni di causalità
Heider è stato l’autore che ha contribuito maggiormente a gettare le fondamenta per lo studio dei processi di
attribuzione, sebbene egli non abbia mai formulato una teoria sistematica al riguardo.
Per Heider “la psicologia ingenua guida il nostro comportamento verso le altre persone. Nella vita quotidiana
noi ci formiamo delle idee sugli altri individui e sulle situazioni sociali; interpretiamo le azioni degli altri
individui e cerchiamo di prevedere come si comporteranno in date circostanze.”
Però “sebbene queste idee non siano, in genere, chiaramente formulate, esse tuttavia funzionano spesso in
modo adeguato, realizzando in una qualche misura ciò che si suppone qualsiasi scienza realizzi: una
descrizione adeguata del fenomeno in esame che renda possibile fare delle previsioni”
Heider esamina il modello di individuo come scienziato ingenuo, dimostrando che, come uno scienziato,
l’individuo, dotato di capacità logico-razionali, raccoglie i dati necessari alla conoscenza di un certo oggetto
e giunge a conclusioni logiche sui fenomeni. Su questa base, l’attribuzione causale diventa quel processo che
le persone mettono in atto quando cercano spiegazioni per il proprio e per l’altrui comportamento, ossia
quando inferiscono le cause che stanno dietro specifiche azioni.
3.1. La teoria dell’attribuzione
La teoria dell’attribuzione descrive il modo in cui la psicologia e la sociologia, ma anche il senso comune,
tendono a spiegare le cause e gli effetti, diretti e indiretti, degli eventi e dei comportamenti umani.
L’attribuzione causale è un insieme di schemi e di processi cognitivi che gl’individui utilizzano per spiegare
la causa del comportamento proprio e altrui. Gli elementi che vengono analizzati sono:
- Le informazioni prese in considerazione per spiegare un evento
- Le conseguenze di tale spiegazione

Il primo studioso che si è occupato dell’attribuzione causale è stato Heider (1958). Egli considerava la
persona profana come uno scienziato ingenuo, che, nel tentativo di spiegare il comportamento (proprio e

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altrui) collega il comportamento osservabile a cause non osservabili. Secondo Heider, il criterio per
interpretare il comportamento consiste nel decidere il locus della causalità, ossia nello Università
Telematica Pegaso Nascita della psicologia sociale
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è
severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul
diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 11 di 19

stabilire se la causa del comportamento risiede nella persona che lo ha prodotto o nell’ambiente
circostante. Proprio per questo l’autore distingue tra:
- Cause interne alla persona
1. Permanenti (disposizioni, tratti di personalità, abilità, intelligenza…)
2. Temporanee (stato di salute, fatica, umore, motivazione…)
- Cause esterne alla persona (situazione)

1. Permanenti (difficoltà del compito, norme sociali, disposizioni dell’ambiente sociale..)


2. Temporanee (cattivo tempo, umore delle altre persone…)
Immaginatevi la seguente situazione:
“Nella vostra azienda viene messo in palio un premio per il migliore dipendente e voi vi sentite, in base ai
vostri risultati, ai commenti dei colleghi e valutando la concorrenza, che la vittoria sarà vostra. Il premio
viene invece assegnato, con vostra grande delusione, al vostro collega, quello nuovo e molto ambizioso”
Generalmente sono due le più probabili reazioni per sfogare la delusione ad una situazione come questa: ve
la prendete con voi stessi (“dovevo fare di più, non mi sono impegnato abbastanza”) o con il collega (“tanto
lo sapevo già che finiva così, lui è raccomandato!”). Secondo l’autore vengono maggiormente utilizzate le
attribuzioni relative ai fattori personali : i soggetti tendono ad attribuire a se stessi le cause del
comportamento
3.2. Gli errori di attribuzione
Le persone di solito non seguono la logica dello scienziato quando fanno delle attribuzioni causali, ma
analizzano in modo rapido le informazioni, tendendo a servirsi di certi tipi di spiegazioni piuttosto che di
altre. Questo tipo di analisi situazionale induce l’individuo a commettere spesso errori o bias di attribuzioni:
tendenze distorsive che avvengono abitualmente nei processi di interazione sociale. Tra questi errori quelli
che più comunemente un individuo compie sono:
- l’errore fondamentale di attribuzione
- la divergenza attore osservatore
- l’errore Self-Serving e Group-Serving
L’errore fondamentale di attribuzione si riferisce alla tendenza generale delle persone a sovrastimare
l’impatto dei fattori disposizionali (cioè, attribuire le cause a fattori interni) e sottostimare i fattori
situazionali (cioè attribuire le cause a fattori esterni).
Facciamo un esempio:
Dopo l’estate giunge alla nostra agenzia turistica una coppia profondamente insoddisfatta della propria
vacanza. Secondo la teoria dell’errore fondamentale, il direttore dell’agenzia tenderà più facilmente ad
attribuire la causa del “fallimento” all’operatore che ha erogato il servizio (troppo giovane, inesperto,
irresponsabile, disimpegnato, superficiale) che a fattori situazionali (ha piovuto per tutti i 10 giorni di
permanenza, proprio in quel periodo l’hotel in cui la coppia alloggiava stava compiendo lavori di
ristrutturazione, molte sagre sono state annullate per motivi politico-economici)
Esisterebbe, dunque, un processo quasi interamente automatico, non cosciente, immediato, che fa connettere
le condotte a fattori disposizionali interni alla persona piuttosto che a fattori ambientali-situazionali.
Un altro tipo di errore che tipicamente viene compiuto nei processi di attribuzione causale è quello della
divergenza attore-osservatore: esiste una tendenza diffusa che porta gli attori ad attribuire il proprio
comportamento a fattori situazionali, mentre gli osservatori spiegano lo stesso comportamento in termini di
fattori disposizionali-personali. Tale tendenza viene anche definita divergenza sé-altro, poiché quando si
deve fare un’attribuzione su se stessi si preferiscono le spiegazioni situazionali, mentre quando bisogna fare
attribuzioni sugli altri, si preferiscono spiegazioni disposizionali. Una possibile spiegazione di tale effetto
deriva dalla discrepanza sulla quantità di informazioni che abbiamo a disposizione. Infatti, le informazioni

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che abbiamo sul nostro comportamento passato e sulla sua variabilità sono molto maggiori rispetto alle
informazioni che abbiamo sul comportamento di altre persone.
Un’altra possibile spiegazione dipende dalla differenza tra punti di vista che esiste tra attore e osservatore.
L’esperimento di Storm (1973) riproduce in una condizione sperimentale la conversazione tra due estranei (A
e B). Ciascuno dei due estranei osservato da un’altra persona (Osservatore di A e Osservatore di B) ed è
ripreso da una telecamera (Telecamera di A e Telecamera di B). Secondo l’ipotesi di partenza è possibile
modificare l’interpretazione del comportamento cambiano la prospettiva da cui lo si guarda. I risultati
dimostrano che:
- Quando gli attori vedevano la videoregistrazione del proprio comportamento, assumendo, quindi, un
diverso punto di vista, facevano attribuzioni meno situazionali, rispetto a quando non vedevano la
videoregistrazione.
- Quando gli osservatori vedevano la videoregistrazione dell’altro partecipante, assumendo, quindi, un
diverso punto di vista, facevano interpretazioni più situazionali, relative al partecipante che stavano
osservando, rispetto a quando non la vedevano.

Un altro bias d’attribuzione è quello del self-serving (giudizio tendenzioso a favore del sé): la tendenza
sistematica a sopravvalutare le proprie prestazioni positive, riconducendole a tratti o abilità stabili, e a
sottovalutare le prestazioni negative, riconducendole, invece, a fattori esterni.
Si attribuisce, dunque, il successo a se stessi e l’insuccesso a fattori esterni.
Il giudizio tendenzioso a favore del proprio gruppo (group-serving bias) è la tendenza sistematica ad
attribuire i fallimenti del proprio gruppo (ingroup) e i successi del gruppo estraneo (outgroup) a fattori
esterni. I successi dell’ingroup e i fallimenti dell’outgroup, invece, vengono attribuiti a fattori interni. Tale
bias ha la funzione di conservare e proteggere lo stereotipo (positivo) dell’ingroup e quello (negativo)
dell’outgroup.

4 La psicologia sociale europea


Dopo la seconda guerra mondiale la Psicologia Sociale Europea era priva di una propria
istituzionalizzazione, solo negli anni ’60 gli americani presero l’iniziativa di riunire ad Oslo Sociologi e
Psicologi sociali provenienti da tutta Europa, fondando così l’ European Association f Esxperimental Social
Psychology. In The Making of Social Psychology, Moscovici e Markova (2006) distinguono, dunque, tra due
fonti della psicologia sociale moderna:
- la psicologia sociale americana, detta anche “psicologia sociale psicologica” per le sue connessioni con il
cognitivismo e il comportamentismo
- la psicologia sociale auropea, detta anche “psicologia sociale sociologica” che deriva principalmente dal
contributo di Kurt Lewin
Le differenze teoriche di riferimento si PSICOLOGIA SOCIALE EUROPEA
possono cosi riassunte: PSICOLOGIA
SOCIALE AMERICANA
- approccio riduzionista: i fenomeni sono - incorpora la parte (individuo) nel tutto
spiegati riducendoli alle loro unità minime (società): tenta di rendere la psicologia
- descrive le persone come esseri razionali “sociale” veramente sociale
- pone l’accento sull’individuo - si occupa del conflitto sociale: è attenta ai
problemi dell’epoca (sfruttamento,
disuguaglianza sociale, guerre…)
- pone l’accento sulla società, studiandone le
dinamiche

“PSICOLOGIA DI COMUNITÀ E COMUNITÀ VIRTUALE”

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1 Sintesi
La psicologia di comunità studia l’individuo in relazione alla società e non avulso dall’ambiente in cui vive,
partendo dal presupposto che l’identità personale non può prescindere dalla “rete sociale” in cui siamo
immersi. In questo capitolo vengono analizzati i principali riferimenti teorici che nel corso degli anni hanno
indagato la relazione persona-società, ponendo grande attenzione ai due obiettivi fondamentali della
psicologia di comunità: la prevenzione e l’empowerment. La prevenzione intesa come l'insieme di azioni
finalizzate ad impedire o ridurre il rischio, ossia la probabilità che si verifichino eventi non desiderati.
L’empowerment come un processo dell’azione sociale attraverso il quale le persone, le organizzazioni e le
comunità acquisiscono competenza sulle proprie vite, al fine di cambiare il proprio ambiente sociale e
politico per migliorare l’equità e la qualità di vita (Wallerstein, 2006). Nell’indagine “comunitaria” viene
inclusa una dimensione che nell’epoca del post-modernismo ha modificato la visione del comportamento
individuale e sociale, dando nuovo assetto all’interazione e allo sviluppo di dinamiche interpersonali, sociali,
politiche ed economiche: le comunità virtuali. Ad una lettura più approfondita ci si concentra sui pregi e
difetti di queste nuove modalità di “gruppo” e di comunicazione, lasciando ampio spazio alla visione
filosofica del più grande sociologo dei giorni nostri: Zygmunt Bauman.

2 La psicologia di comunità
2.1. Definizione e oggetto di studio
La psicologia sociale, a partire dagli anni Venti conosce rapida diffusione in America e in Europa seguendo
fasi più o meno produttive. Negli Stati Uniti, le sempre maggiori ipotesi circa le modalità con cui gli
individui si relazionano tra loro, portano a chiedersi quali siano le leggi che regolano non solo i rapporti tra
le persone, ma anche tra il singolo e i suoi contesti di appartenenza. È con questo spirito che nel 1965 nasce
negli Stati Uniti la Psicologia di Comunità.
La psicologia di comunità “definisce i problemi cogliendoli nell’interfaccia tra la loro dimensione
individuale-soggettiva e la loro dimensione sociale oggettiva” (Amerio, 2003). Oggetto di studio di questa
nuova disciplina è l’interazione tra gli individui e le strutture sociali più o meno ampie, quali gruppi,
organizzazioni e comunità. Essa si presenta dunque come un tentativo di indagare in maniera congiunta le
dimensioni individuale e sociale. Fa propria, da un lato, l’ottica della tradizione clinica che considera l’essere
umano come portatore di un “problema” e, dall’altro, considera l’uomo in quanto membro della società e
non individuo singolo. Studiare l’individuo nel suo contesto di vita quotidiana permette allora di cogliere
l’interdipendenza costante tra i “campi della persona” e i “campi dell’ambiente” (Orford, 1992). L’elemento
fondante la psicologia di comunità è dunque la credenza che l’identità del soggetto sia connessa con la rete
sociale cui appartiene. È bene specificare che il concetto di comunità cui si fa riferimento non è quello di
un’entità collettiva che trascende l’individuo e che su di esso si impone quale unica dimensione in cui egli
può trovare dignità, identità e completezza psicologica. Si tratta invece di una comunità intesa come entità
sociale globale i cui i membri sono legati da un senso di appartenenza, radicato nelle tradizioni; essa è altresì
depositaria di un bene comune che può garantire e tutelare il singolo, in quanto in essa vigono diritti e
doveri comuni. In tale accezione si identifica uno stato particolare che ogni collettività può assumere e non
necessariamente una collettività concreta (Gallino “Dizionario di sociologia”, Torino, 1993).

2.2. Riferimenti teorici


La cornice concettuale di riferimento della psicologia di comunità è costituita da una commistione di principi
mutuati da tre grandi sistemi teorici: la teoria del campo di Lewin, l’approccio ecologico e la teoria dei
sistemi. A questi, si aggiunge il contributo della psicologia umanistica, che pone enfasi sulle potenzialità e
sulle risorse positive dell’individuo.
2.2.1. L’eredità di Lewin
Dell’ampia teorizzazione di Lewin, la psicologia di comunità fa propri la teoria del campo, la metodologia di
ricerca e l’uso del piccolo gruppo. Ricordiamo brevemente che per “campo”, Lewin intende la totalità dei
fattori (individuali e ambientali) che interagiscono in uno specifico momento. Comportamento e ambiente
sono strettamente interconnessi, in quanto il primo è determinato dalla percezione soggettiva dei fattori
ambientali. Il soggetto è dunque attivo.
Alla luce della teoria del campo, i fenomeni psicosociali possono essere spiegati attraverso la comprensione
delle dinamiche delle forze presenti in un contesto in un dato momento. Teoria e prassi devono

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necessariamente intrecciarsi per produrre cambiamento, in modo che le ipotesi guidino le azioni e queste
ultime modifichino le conoscenze stesse. Tutto questo si concretizza in una particolare metodologia di
intervento, la Ricerca-Azione (Action- Reserch), che è di fatto la metodologia che trova maggiore
applicazione all’interno di interventi di psicologia di comunità.
L’eredità lewiniana si palese infine nell’utilizzo del “piccolo gruppo”, considerato come un insieme
dinamico diverso dalla somma dei singoli elementi che lo compongono. Tra i membri del gruppo c’è una
reciproca influenza, tale che ogni cambiamento di una delle parti trasforma la dinamica del gruppo e,
viceversa, ogni cambiamento del gruppo produce effetti sui singoli membri.

2.2.2. Il contributo della psicologia ecologica


Secondo l’approccio ecologico, il comportamento dell’individuo è frutto dell’adattamento della persona alle
risorse e alle condizioni di vita. L’ambiente umano presenta notevoli opportunità a cui l’individuo si adatta e
che a sua volta modifica. In questo interscambio continuo tra individuo e ambiente sociale le persone
crescono.
Barker (1968) definisce i behavior setting come l’unità ambientale minima in cui si attuano comportamenti
intenzionali significativi. Nei suoi studi (1968, 1978), egli ha mostrato come all’interno di un setting, il
comportamento e l’ambiente sociale siano in sincronia. Pensando, ad esempio, ai comportamenti e alle
azioni che si svolgono durante una funzione religiosa, in una spiaggia o più semplicemente a ciò che accade
in una piazza intorno ad un semaforo, l’autore mostra come il significato sociale di un setting integra in un
sistema ordinato i comportamenti dei singoli. In altri termini, sapere in quale contesto ambientale le persone
agiscono, consente di comprenderne e prevederne il comportamento anche avendo scarse informazioni sulle
caratteristiche dei singoli individui. Le aspettative e i modelli comportamentali di un certo setting tendono a
rimanere stabili anche quando le persone nel setting mutano. In questo senso il cambiamento di ambiente ad
esempio il trasferimento da una grande metropoli ad un piccolo centro di provincia porterà quella persona a
riadattare i propri comportamento secondo gli usi e costumi del nuovo contesto.
L’analisi del’autore si spinge a valutare il “sovradimensionamento” e il “sottodimensionamento”. Questi
definisce “sovradimensionamento” l’eccessiva presenza di persone ad occupare poche posizioni in un setting
e “sottodimensionamento” un setting nel quale non ci sono le persone sufficienti per occupare le posizioni
essenziali.
L’autore che forse più degli altri ha influenzato la psicologia di comunità è Brofenbrenner, il quale propone il
famoso modello processo-persona-contesto-ambiente. Per l’autore, l’ecologia dello sviluppo umano implica
lo studio scientifico dell’adattamento progressivo e reciproco tra lo sviluppo attivo dell’essere umano e le
proprietà mutevoli degli ambienti nei quali l’individuo, che si sta sviluppando, vive. L’ambiente ecologico,
che si considera rilevante per i processi di sviluppo, non è limitato ad una unica situazione ambientale
immediata, ma comprende le interconnessioni tra le diverse situazioni ambientali e i diversi meccanismi
relazionali e istituzionali che ne definiscono il funzionamento e l’organizzazione. Quindi anche i contesti
non direttamente sperimentati possono produrre modificazione dei comportamenti degli individui. Quando
un individuo è soggetto a cambiamenti di ruoli, situazione ambientale, si ha una transizione ecologica.
E’ importante per questo autore che i diversi sottosistemi che vanno a definire l’intero ambiente
dell’individuo siano tra loro in relazione. Solo in questo caso il rapporto individuo ambiente sociale è
funzionale, creando salute e benessere, quando invece i diversi sistemi (ad esempio per il bambino: famiglia,
scuola, gruppo dei pari) non comunicano e non sono tra loro coerenti, allora la relazione persona/ambiente
sociale genere malessere e malattia
2.2.3. La teoria dei sistemi
La psicologia di comunità fa proprio il concetto di sistema, in quanto la comunità si configura come un
insieme di sistemi di tipo formale (le organizzazioni strutturate) e informale (i gruppi spontanei, i quartieri,
ecc) che interagiscono tra loro.
In tale ottica, Murrell (1973) definisce la Psicologia di comunità come la disciplina che “studia le transazioni
tra i sistemi sociali, popolazioni e individui; sviluppa e valuta metodi di intervento che migliorino gli
adattamenti persona-ambiente; pianifica e valuta nuovi sistemi sociali; cerca di aumentare le opportunità
psicosociali dell’individuo”
Secondo Murrel, il benessere dipende dall’ “accordo psicosociale”, cioè dalla coerenza tra richieste, vincoli
e opportunità del sistema di appartenenza e aspettative, bisogni, e risorse della persona. Dato che l’individuo
appartiene a più sistemi, affinchè vi sia benessere è necessario che vi sia “accomodamento intersistemico”.

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Facciamo un esempio pratico: quando un bambino inizia a frequentare la scuola, viene sottoposto a nuove
richieste e aspettative, alcune delle quali possono essere diverse o in conflitto con aspettative e norme del
contesto familiare.
In base alle transizioni (scambio) tra i diversi livelli sociali si possono pianificare interventi miranti a
migliorare l’accordo psicosociale. Murrel descrive sei livelli di intervento:
1. Ricollocamento individuale: spostare il soggetto in un altro sistema, quando l’adattamento all’interno di
altri è altamente problematico (ad esempio, l’affidamento di un bambino a nuovi genitori se quelli naturali
non sono in grado di prendersene cura)
2. Intervento sull’individuo: favorire lo sviluppo delle risorse o le strategie della persona, affinchè possa
meglio inserirsi nel sistema (ad esempio, psicoterapia)
3. Interventi sulla popolazione: incrementare le risorse di una popolazione “a rischio” (ad esempio,
programmi di preparazione alla crisi, formazione di gruppo adolescenziali o di gruppi di adulti che si
interessano di adolescenti)
4. Interventi sul sistema sociale: mutare gli aspetti strutturali dei sistemi, in modo da facilitare la gestione dei
problemi di coloro che appartengono al sistema (ad esempio, consulenza a persone-chiave, innovazione delle
regole e dei vincoli, distribuzione di compiti e responsabilità, riformulazione degli obiettivi)
5. Interventi intersistemici: creare una connessione maggiore tra più sistemi (ad esempio interventi finalizzati
su enti locali, servizi sociali)
6. Interventi sull’intera rete: mettere a punto programmi rivolti alla comunità nel suo insieme, ad esempio
attraverso i media.
2.2.4. La psicologia umanistica
Nasce agli inizi degli anni Settanta negli U.S.A. ad opera di Abraham Maslow e di Carl Rogers che
individuarono nel bisogno di autorealizzazione la principale motivazione per ogni comportamento umano.
L’autostima è il presupposto fondamentale dell'equilibrio personale. In contrasto con una visione
meccanicista la psicologia umanista valorizza l’autorealizzazione umana, intesa nella sua creatività e libertà
di scelta. C’è una particolare attenzione alle emozioni e all’esperienza soggettiva. Il gruppo come momento
di confronto e di crescita rappresenta un aspetto importantissimo del percorso formativo e terapeutico di ogni
persona
Secondo Rogers, lo sviluppo sano avviene solo se una persona può esprimere al meglio le proprie
potenzialità. Quando, la tendenza attualizzante presente in ogni essere umano viene bloccata da un contesto
poco attento e sensibili alle inclinazioni individuale, si ha uno sviluppo patologico. Al contrario si ci è
accordo tra gli attributi che la persona possiede e una comunità che ne permette l’espressione allora abbiamo
uno sviluppo sano. Atteggiamento fondamentale per uno sviluppo sano è, quindi, l’empatia, cioè la capacità
di mettersi nei panni dell’altro cogliendone i bisogni ed esaltandone, così, la soggettività. E’ l’accettazione
positiva e incondizionata, non il giudizio svalutante che permetterebbero al bambino di sviluppare al meglio
le proprie potenzialità e all’adulto di esprimerle. I gruppi e le comunità che riescono a promuovere questo
atteggiamento permettono uno sviluppo sano, dove persona e contesto vivono nel reciproco rispetto
Maslow, altro notevole esponente della psicologia umanistica, definisce sano l’individuo che liberamente
sviluppa le proprie potenzialità, non un semplice adattato. Gli individui sani,secondo questo autore, hanno un
buon senso di realtà, sono autentici, semplici e poco difensivi, perché capaci di accettarsi per quello che sono
senza il timore di dovere apparire in un certo modo eccessivamente conformistico. Sono anche differenziati
e capaci di affermazione critica e originale. Propongono gruppi e comunità basati su valori di collaborazione
sulla base della libertà e creatività

3 Obiettivi della psicologia di comunità


Sulla base dei principi delle correnti appena menzionate gli obiettivi principali della psicologia di comunità
sono:
• Prevenzione del disagio
• Promozione del benessere, della salute e dell’empowerment dei singoli e della comunità, ovvero
miglioramento della qualità della vita
3.1. Prevenzione
Come visto, la psicologia di comunità si propone di studiare la relazione circolare esistente tra le persone e i
diversi livelli di complessità dei sistemi sociali (gruppi, organizzazioni, comunità). In questa prospettiva, si

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modifica anche la concezione di disagio individuale e di problema sociale. Nella spiegazione di questi due
concetti si possono differenziare due teorie: eccezionalista e universalista.
La teoria eccezionalista sostiene che il disagio e la patologia sono determinati da fattori individuali (genetici)
escludendoli dai meccanismi di evoluzione.
Secondo la teoria universalista, invece, il disagio sociale è una funzione dei rapporti sociali presenti nelle
società in cui c’è una errata distribuzione delle risorse. Secondo questa teoria, quindi, le cause del disagio
sono prevedibili e quindi è possibile prevenirle. Proprio la prevenzione del disagio, in un’ottica universalista,
è uno degli obiettivi della psicologia di comunità.
La prevenzione è l'insieme di azioni finalizzate ad impedire o ridurre il rischio, ossia la probabilità che si
verifichino eventi non desiderati. Tale concetto è stato approfondito dalla medicina sociale, la quale distingue
tre tipi di prevenzione:
• prevenzione primaria
• prevenzione secondaria
• prevenzione terziaria
La prevenzione primaria è diretta all’eliminazione dei fattori che si presume possano provocare o favorire
l’insorgenza di disagio. Si tratta di un’operazione tutt’altro che facile, in quanto tali fattori sono molteplici,
non facilmente isolabili dal contesto e, soprattutto, non sempre passibili di modificazioni. La prevenzione
primaria è rivolta dunque alla popolazione in generale. Caplan (1964) ha individuato nei diversi livelli
sociali, le azioni che consentono di incrementare la prevenzione primaria: nella società ogni iniziativa che
promuove la qualità della vita, il benessere sociale, le possibilità di istruzione e lavoro; nella comunità, la
consulenza volta a migliorare la programmazione di un sistema o la formazione rivolta a persone chiave e a
operatori non profesionisti; nei piccoli gruppi e per gli individui, gli interventi che accrescono le competenze
e consentono di affrontare le crisi prevedibili (Francescato e Tomai, 2005).
La prevenzione secondaria va intesa come quell’insieme di misure e azioni mirate ad un intervento precoce
sui primi sintomi di un disturbo o di una situazione di disagio. A tal proposito, è importante giungere
all’identificazione di gruppi di individui a rischio per il fatto che, per varie ragioni connesse con determinate
fasce d’età (infanzia, adolescenza, vecchiaia), con condizioni sociali specifiche (soggetti economicamente
svantaggiati, barboni, ecc.) con problemi relativi alla cultura dominante (minoranze etniche, religiose, ecc.),
essi sono esposti, più degli altri, all’effetto di determinati agenti causa di un particolare disagio. Si è, infatti,
costatato che, per certe categorie di individui, è presente una vulnerabilità particolare in funzione di fattori di
rischio connessi alle condizioni di vita presenti in quel momento.
La prevenzione terziaria mira invece al miglioramento delle condizioni di vita di soggetti che già esperiscono
condizioni di disagio. Gli interventi di prevenzione terziaria includono la riabilitazione dell’individuo per la
messa in atto di comportamenti funzionali a un positivo reinserimento, il cambiamento di mentalità nella
comunità per evitare l’isolamento di chi è portatore del disagio, ecc.
Per capire meglio la differenza tra i tre tipi di prevenzione, facciamo un esempio pratico, immaginando di
voler “prevenire” il fenomeno della violenza sulle donne. Strategie di prevenzione primaria, rivolte alla
popolazione in generale, potrebbero essere studiare e sviluppare conoscenza e informazione sul fenomeno in
tutti i suoi aspetti, le caratteristiche e le conseguenze; approfondire le cause delle violenza, per comprenderne
eventuali correlazioni, fattori di rischio e fattori protettivi; promuovere una nuova cultura dei rapporti
interpersonali e familiari attraverso programmi di psicoeducazione all’affettività, alla sessualità, alla
genitorialità rivolti ai giovani.
Azioni di prevenzione secondaria, rivolte alle donne già in difficoltà e/o a rischio, prevedono la
predisposizione di progetti operativi di osservazione del disagio femminile e di vigilanza, al fine di
evidenziare situazioni di rischio (ad es. le donne emarginate o le famiglie multiproblematiche); programmi
da parte delle agenzie formali ed informali con interventi organici anche di tipo domiciliare.
Nei confronti di donne che hanno già subito violenza, sono messe in atto misure di prevenzione terziaria,
quale il contenimento dei danni fisici e psicopatologici; si tratta quindi di interventi e di misure di tipo
reattivo e riparativo.
3.2. Empowerment
Dall’inglese to empower (favorire l’acquisizione di potere), il termine empowerment indica un processo
dell’azione sociale attraverso il quale le persone, le organizzazioni e le comunità acquisiscono competenza
sulle proprie vite, al fine di cambiare il proprio ambiente sociale e politico per migliorare l’equità e la qualità
di vita (Wallerstein, 2006). Questo processo porta ad un rovesciamento della percezione dei propri limiti in

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vista del raggiungimento di risultati superiori alle proprie aspettative. Il termine si riferisce dunque, sia a un
processo che a un risultato, in quanto si riferisce sia al percorso per ottenere un preciso risultato, sia al
risultato stesso (Swift e Levine,1987).
Il concetto di empowerment è divenatato oggetto di interesse della psicologia di comunità dalla età degli anni
Ottanta; da allora le definizioni fornite dagli autori sono state numerosissime (ad es. Rappaport, 1981; Kiefer,
1982). Le varie definizioni, sulle quali non ci sembra il caso di soffermarci in dettaglio, differiscono tra loro
per alcuni aspetti, legati soprattutto all’ambito di utilizzo del costrutto. Ad ogni modo, tutte concordano che
si tratti di un costrutto multidimensionale; tale approccio multilivello è stato originariamente proposto da
Rappaport (1984) ed elaborato approfonditamente da Zimmerman, che ha dato una chiara descrizione dei tre
livelli di analisi: psicologico, organizzativo, sociale e di comunità. Zimmerman (2000) sottolinea che i tre
livelli di
analisi, benché descritti separatamente, sono strettamente interconnessi, in quanto ognuno è causa e al tempo
stesso conseguenza dell’altro.
L’empowerment psicologico (individuale) scaturisce dalla combinazione di tre componenti: a) la
convinzione soggettiva di poter influire sulle decisioni che incidono sulla propria vita (componente
intrapersonale); b) la capacità di comprendere il proprio ambiente socio-politico (componente
interpersonale); c) la partecipazione ad attività collettive mirate a influenzare l’ambiente socio-politico
(componente comportamentale).
L’empowerment organizzativo include i processi e le strutture organizzative che aumentano la partecipazione
dei membri e migliorano l’efficacia dell’organizzazione nel raggiungere i propri scopi.
L’empowerment di comunità è relativo all’azione collettiva finalizzata a migliorare la qualità di vita e alle
connessioni tra le organizzazioni e le agenzie presenti nella comunità. Questa dimensione dell’empowerment
è orientata alla promozione della partecipazione dei cittadini alla vita sociale e politica della loro comunità.
Le numerose definizione di empowerment rintracciabili in letteratura presentano delle caratteristiche
comuni:
• si articola, come già detto, su più livelli (individuale, organizzativo e di comunità)
• possiede una costruzione evolutiva non necessariamente lineare, cioè un soggetto (individuo, gruppo,
organizzazione o comunità) può sperimentare evoluzioni o regressioni del suo livello di empowerment
• è specifico rispetto alla cultura, alla società e alla popolazione e quindi richiede che l’azione sia calata nel
contesto locale
• è una interazione dinamica tra l’acquisizione di maggiori competenze interne e il superamento degli
ostacoli esterni per accedere alle risorse
• si basa sull’assunto che gli assetti culturali della comunità sono rafforzati attraverso il dialogo e l’azione.
Un esempio può essere rappresentato dalle nuove agenzie di collocamento che includono molteplici
iniziative sociali/locali, come ad esempio corsi di formazione professionali di ogni tipo. L’obiettivo comune
è quello di aumentare la forza lavorativa della comunità locale, fornendo al gruppo nuove conoscenze e
competenze in ambito professionale e agganciando i membri direttamente alle aziende e all’imprese.

4 Le comunità virtuali
Nell’epoca post-moderna si diffondono sempre più nuovi modi di pensare al “gruppo sociale” che si legano
strettamente alle nuove invenzioni nel campo della comunicazione di massa. Una comunità virtuale o
comunità online è, nell'accezione comune del termine, un insieme di persone interessate ad un determinato
argomento, o con un approccio comune alla vita di relazione, che corrispondono tra loro attraverso una rete
telematica, oggigiorno in prevalenza Internet, e le reti di telefonia, costituendo una rete sociale con
caratteristiche peculiari. Infatti tale aggregazione non è necessariamente vincolata al luogo o paese di
provenienza; essendo infatti questa una comunità online, chiunque può partecipare ovunque si trovi con un
semplice accesso alle reti, lasciando messaggi su forum , partecipando a gruppi di discussione, o attraverso le
chat room e programmi di messaggistica istantanea.
Negli ultimi anni si è molto dibattuto riguardo ai reali effetti emancipatori ed egualitari delle reti telematiche.
Oltre alla questione generale della disuguaglianza nell’accesso, si è discusso sulla possibilità che le reti
telematiche potessero favorire nuove modalità di relazione sociale nell’ambito delle cosiddette comunità
virtuali, portando ad un rafforzamento della posizione e della partecipazione delle persone più svantaggiate.
Tali comunità sicuramente possono favorire la nascita di diverse relazioni interindividuali che si sviluppano
al suo interno, creando diversi ambienti comunicativi dove la persona può esprimere le proprie opinioni e

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posizioni. Il cyberspazio crea i presupposti per la formazione di situazioni sociali diversificate per cultura,
finalità, utilizzo degli strumenti di interazione, andando a favorire la nascita di relazioni in rete che possono
mutare a seconda degli obiettivi, dei focus di attenzione, delle preferenze di ciascun individuo. Nella sua
analisi il principale ricercatore sulla sociologia di Internet, Wellman (1999), arriva a confrontarsi con la
realtà attuale, sempre più filtrata e condizionata dalle nuove tecnologie, ponendo sullo stesso piano le
relazioni sociali realizzate attraverso l’incontro fisico e i rapporti interpersonali che si verificano in un
ambito virtuale. Nelle sue conclusioni egli afferma come le comunità virtuali non debbano essere
contrapposte a quelle fisiche, trattandosi di comunità diverse, con regole e dinamiche proprie, che
interagiscono nell’ambiente virtuale con altre forme di comunità. La sempre crescente interazione e
interdipendenza fra reale e virtuale contribuisce a creare per l’individuo un nuovo ambiente sociale,
caratterizzato dall’appartenenza a molteplici reti di relazioni, fisiche e non, che determinano la nascita di
quelle che Wellman definisce “comunità personali” di ogni individuo,
ossia reti sociali caratterizzate da legami interpersonali informali, dove le nuove tecnologie, in particolare
Internet e la multimedialità, finiscono con il modificare profondamente l’interazione sociale tra gli stessi
individui. Gli utenti di Internet si uniscono a reti o a gruppi on-line sulla base di interessi e valori condivisi;
con il tempo, molte che iniziano come reti strumentali e specializzate, finiscono per fornire sostegno
personale, sia materiale che affettivo, verso chi ha bisogno, come le persone anziane o soggetti emarginati.
Pertanto, l’interazione su Internet sembra essere sia specialistica/funzionale che generale/di sostegno, a
mano a mano che l’interazione nelle reti espande lo scopo della comunicazione. Un esempio potrebbe essere
rappresentato dalla comunicazione specialistica/professionale nell’ambito di forum e blog. Un forum virtuale
che accoglie le domande degli utenti, collegandole con le risposte dei professionisti (es. disagio psicologico/
consulenza psicologica) può diventare un’opportunità per gettare le basi di un futuro legame terapeutico
paziente/professionista che dalla rete passa al mondo reale.
Il vantaggio della rete è che permette la costituzione di legami deboli con estranei, secondo uno schema
d’interazione egualitario, in cui le caratteristiche sociali hanno meno peso nel frenare, o addirittura bloccare,
la comunicazione. Infatti, i legami deboli facilitano il collegamento di persone con caratteristiche sociali
differenti, determinando così, l’espansione dei legami sociali in una società che sembra allontanarsi sempre
più dalla collettività e dall’impegno civico. Infatti le chat, a differenza della vita reale, non sono luoghi in cui
il “gruppo” è determinato da fattori socio/economico/culturali ma semplicemente dall’ “interesse
comune” (vendere/acquistare un prodotto, scambiare informazioni su un argomento, conoscere nuove
persone…). La comunicazione on-line favorisce una discussione disinibita, dando luogo a sincerità nel
processo. Per quanto riguarda l’impatto della comunicazione via Internet sulla vita sociale reale, Wellman
ritiene che i timori di un impoverimento della stessa siano infondati, poiché lo stabilirsi di legami deboli, o
anche forti, nel virtuale possono rafforzare, più che sminuire, le relazioni “fisiche”. Le reti personali di
relazioni diventano una delle possibili forme di aggregazione sociale nella società attuale; esse si estendono
attraverso una molteplicità di ambienti sociali, rappresentano un’unione complessa, come la società in cui
viviamo, all’interno della quale si confondono vincoli forti e vincoli deboli, individualismo e bisogno di
confronto, scambio. In definitiva le comunità virtuali, sono sì comunità, ma si differenziano da quelle “reali”
dal fatto che non seguono gli stessi schemi di comunicazione e di interazione. Le comunità virtuali sono reti
sociali interpersonali, gran parte delle quali basate su legami deboli, estremamente diversificati e
specializzati, e tuttavia in grado di generare reciprocità e sostegno attraverso le dinamiche dell’interazione
prolungata nel tempo. Le comunità virtuali superano le distanze, presentano, normalmente, una natura
asincrona, combinano la veloce disseminazione dei mass media con la diffusione pervasiva della
comunicazione personale, ed inoltre vivono in comunione, e non in isolamento, dalle altre forme di socialità.
Sembra che le comunità virtuali favoriscano la comunicazione di alcuni gruppi oppressi nella società che
diventano più inclini ad esprimersi apertamente grazie alla protezione che il mezzo offre (Castells, 2002,
pp.413-415). La rete e le comunità che si formano in seno ad essa, simboleggiano il luogo dove vengono
confrontate e scambiate le identità di ciascuno, dove le somiglianze tra i membri rappresentano una delle
condizioni essenziali per determinare quel comune senso di appartenenza e lo stabilirsi di legami significativi
che permettono di sperimentare virtualmente il reale senso di comunità (Lavanco, 2001, pp. 50-51).
Nel momento in cui dall’interazione virtuale si passa ad un rapporto nella realtà, faccia a faccia, allora si
realizza l’ipotesi di partenza, che vedeva la rete come un possibile strumento di rafforzamento della
partecipazione e, quindi, della democrazia. La condizione di isolamento ed esclusione che caratterizza la
realtà di alcuni individui, può ridursi attraverso l’utilizzo consapevole degli strumenti delle nuove tecnologie,

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che devono essere considerate, da tali soggetti, come opportunità di espressione formalmente riconosciuta
(Freschi, 2002). Le comunità virtuali (BBS , mailing list, newsgroup, weblog, ecc.) - che studiosi come
Rheingold (1994) e Castells (2002) considerano uno dei fenomeni “rivoluzionari” che hanno contribuito alla
nascita della società dell’informazione – contribuiscono ad accelerare la dissoluzione dei legami fra società,
identità culturali tradizionali e politica. Indeboliscono il potere dello stato nazione, accelerando i processi di
deterritorializzazione e sviluppando forme di aggregazione sociale che non si fondano sull’appartenenza a
contesti geopolitici e sulla condivisione di radici etniche, linguistiche e religiose, bensì sulla cooperazione
volontaria fra individui che condividono determinati interessi, passioni e valori. Contribuiscono a dissolvere
le appartenenze di classe, mettendo gli individui al centro di legami sociali che essi stessi costruiscono,
seguendo gusti personali, opzioni ideologiche, e desideri. Partecipano alla formazione del mercato globale e
ne modellano le stratificazioni: configurando nicchie di mercato articolate per età, appartenenza di genere,
hobby condivisi; alimentando il consumo di servizi e prodotti che esse stesse “inventano”; sostenendo lo
sviluppo delle imprese a rete che ne sfruttano l’intelligenza collettiva (Formenti, 2002, pp.4-5). Per questo si
parla anche dell’esistenza nella rete di gruppi di interesse, o comunità di clienti, soprattutto con la
progressiva trasformazione di Internet in un grande mercato, all’insegna del commercio elettronico. Dalle
relazioni umane tra le persone, alle transazioni commerciali tra azienda e cliente. Poiché la gente attribuisce
un particolare valore all’andare in rete e al sentirsi parte di una comunità, allora un’impresa che voglia fare
profitti, deve cercare di raccogliere questi desideri e di creare attorno a sé, e ai propri prodotti, una comunità
di clienti. Per far ciò però non basta realizzare una buona pagina web, l’impresa deve cercare di aprirsi a
interazioni vere con il suo pubblico, accettando critiche, seguendo consigli e praticando il massimo della
trasparenza (Hagele e Armstrong, 1997).
La sensazione generale, però, è che le cosiddette comunità del commercio elettronico siano soprattutto una
grande metafora, efficace per spiegare alle aziende che, se vanno in rete, dovranno prepararsi ad un’intensa
dose di interazioni sociali. Simboleggiano una nuova applicazione del marketing nel virtuale, ma poco hanno
a che fare con l’intenso dilagare di idee e sentimenti che caratterizza le diverse esperienze all’interno della
rete (Carlini, 1999). Le comunità virtuali sono delle realtà che, pur nella loro eterogeneità, condividono una
serie di valori, principi e obiettivi: assicurare a tutti gli utenti un’assoluta libertà comunicativa, per esprimere
le proprie idee, scambiare informazioni, dati e conoscenze; garantire che il flusso di dati, notizie e
informazioni scorra in tutte le direzioni, senza incontrare filtri o censure politiche, ideologiche, religiose o di
qualsiasi altro tipo; sostituire il paradigma “verticale” dei media broadcast - da uno a molti – con quello
“orizzontale” – da molti a molti – della comunicazione via Internet. In conclusione, le comunità virtuali
possono restrittivamente essere interpretate come reti sociali virtuali relativamente compatte e aperte. La loro
capacità di esaltare le attitudini proprie di ogni elemento che le costituisce, e la loro apertura verso l’esterno,
verso nuove identità che possono contribuire al raggiungimento degli obiettivi, rafforzano le possibilità di
partecipazione sociale. Le comunità virtuali, comunque, non sono l’unico modo per potenziare la
partecipazione sociale, anche se è indubbio che rappresentino una risorsa importante soprattutto per quei
gruppi svantaggiati dal punto di vista dell’accesso alle risorse informative, e che sono portatori di modelli
culturali importanti che non riescono ad esplicitare nella realtà (Freschi, 2002).

5 Comunicazione e società liquida nel postmodernismo: Zygmunt Bauman


«Abbandonate ogni speranza di totalità,
futura come passata, voi che entrate
nel mondo della modernità liquida»
Oggi grazie alla rapidità di internet possiamo sperimentare nuove forme di comunicazione e persino
realizzare quello che sembrava reso impossibile dalla “lentezza “ dei vecchi mezzi di comunicazione, ovvero
la democrazia diretta. Mai come in questi anni siamo stati testimoni più o meno consapevoli delle rivoluzioni
che si sono compiute nelle regioni del Medio Oriente, del vicino Oriente e del Nord Africa. Ma la
rivoluzione del social network non si è fermata qui, stravolgendo il vecchio modo di fare marketing,
imponendo un cambio di rotta radicale alle aziende che hanno dovuto fare i conti anche qui con una fitta rete
di relazioni (feedback) tra gli utenti/clienti sui loro servizi/prodotti che prescindeva dal loro controllo e che
gli imponeva di rendere conto della qualità e dell’attendibilità di quanto da loro garantito. Naturalmente
laddove c’è tanto luce deve esserci una zona d’ombra. Rischi che vanno dall’assuefazione alla dipendenza,
alla sostituzione della vita reale con quella virtuale fino alle nuovissime patologie introdotte da questo
potentissimo e quindi pericolosissimo strumento che se non saputo gestire rischia da mezzo di divenire un

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fine. Sia il positivo che il negativo di questa seconda rivoluzione digitale, però, possono essere conosciuti
solo se si opera sospendendo il giudizio evitando, cioè, un approccio pregiudiziale per portare a galla i rischi
della navigazione, insegnandoci a mantenere la rotta in questo potente mare di internet.
Bauman sostiene che l'annullamento delle distanze spazio temporali, resa possibile dalle nuove tecnologie,
tende a polarizzare la globalizzazione. La comunicazione all’interno delle comunità virtuali è una
comunicazione sempre più veloce ma sempre più incapace di tradurre la complessità di un messaggio,
confondendone pericolosamente una parte con il tutto; è una comunicazione consumistica, priva di un reale
valore di scambio ma destinata all'"usa e getta", senza impegno e senza responsabilità reciproche tra
comunicanti.
Bauman distingue la vita online da quella offline: è dimostrato che il 50% del nostro tempo lo trascorriamo
di fronte a un qualche tipo di schermo, ma che la vita offline possiede delle caratteristiche che la vita online
non potrà mai offrire: viene sacrificato molto tempo alla relazione faccia a faccia con gli altri, anche se
Bauman sostiene che questo fenomeno è ancora molto controllato in Italia, dove i vincoli famigliari sono
molto forti, a differenza di molte nazioni dell'Europa Settentrionale. In realtà, i social network, ovvero le
nuove forme di comunicazione, sono solo un modo per perpetrare la solitudine individuale, illudendosi di
avere degli amici molti dei quali, in realtà, sono solo virtuali. Per Bauman, i giovani reagiscono alla
solitudine tramite la depressione clinica o con l'aggressività, mentre la reazione all'umiliazione deve spingere
a un'unione, un lavoro collettivo (portato avanti anche grazie all'impiego delle nuove tecnologie e i nuovi
metodi educativi) volto alla realizzazione di un mondo migliore. Insomma la comunicazione moderna è
liquida, come liquida è la società fotografata dal sociologo polacco.
“Il consumismo ha trasformato il senso degli oggetti, chiamati solo a soddisfare desideri. Abbiamo
trapiantato i rapporti consumistici anche tra gli individui. Oggi il fine è sempre la soddisfazione personale
senza reciprocità. Ma ciò genera ansia di abbandono, timore di essere sostituibili, che certo non si placa
attraverso l'uso di Facebook o Twitter, che sono strumenti senza colpa, ma oggi utilizzati per creare relazioni
inaffidabili e prive di aspetto morale”
La perdita di senso del tempo - tipica della condizione umana nella ‘modernità liquida’ - è uno degli aspetti
fondamentali dello scenario nel quale Bauman vede persone e gruppi sociali muoversi in un dinamismo
frenetico che travolge ogni dimensione della vita. Nella società liquida prevalgono quelle che Bertman, citato
in Vite di corsa, ha definito 'cultura dell’adesso‘ e ‘cultura della fretta’ che insieme mettono in crisi anche le
dimensioni costitutive più intime della personalità e del comportamento, come le aspirazioni e le potenzialità
di “costruirsi persone”, cioè soggetti capaci di pensare, di aderire a principi e obiettivi di autoregolazione e
soddisfazione, di instaurare relazioni interpersonali gratificanti e portatrici di un equilibrio emotivo non
effimero. Quella che fino a qualche anno fa caratterizzava la vita dei soli giovani e giovanissimi, presi in un
perpetuo presente in cui tutto è affidato all’esperienza del momento, sembra ormai la condizione umana
generalizzata. Dopo intensi studi di questioni di filosofia politica e di sociologia generale, da diversi anni
Bauman va dedicando un’attenzione sempre più specifica ad atteggiamenti e comportamenti umani,
soggettivi e collettivi, nella società postmoderna e globalizzata, che egli preferisce definire liquida, con una
suggestiva connotazione metaforica che in opere successive riferisce alla vita, alla paura, all’amore. Cosa
significa “liquida”? Significa che, mentre nell’età moderna tutto era dato come una solida costruzione, ai
nostri giorni (post-modernismo), invece ogni aspetto della vita può venir
rimodellato artificialmente. Dunque nulla ha contorni nitidi, definiti e fissati una volta per tutte. Questa
“liquidità” influenza fortemente le relazioni umane, divenute ormai precarie in quanto non ci si vuole sentire
ingabbiati; le influenze non mancano anche nel mondo politico: non si cerca più di costruire il “mondo
perfetto”, seguendo un rigido e predeterminato sistema politico, forte di una consolidata ideologia, come era
nel passato. Non è difficile ritrovarsi nelle analisi descrittive di una quotidianità diffusa con le quali, di volta
in volta, egli sostiene la sua tesi. Viene facile vedervi più o meno riflessi aspetti della vita di persone e gruppi
sociali che si lasciano trascinare da una sorta di coazione consumistica che sospinge verso un ruolo
ineluttabile di consumatori, mettendo in crisi identità e possibilità di esercitare spazi ragionevoli di
autonomia, di decisione soggettiva, di rapporti umani significativi e di interessarsi a problemi comuni e
collettivi. Il senso di insoddisfazione e di incertezza ( già delineato in Società dell’incertezza e voglia di
comunità) che consegue ad un ritmo/scenario di vita consumistico e competitivo, dove per occupare la scena
bisogna cacciare via gli altri, ha indotto Bauman a ribadire in seguito che ‘siamo condannati a vivere in
un’incertezza permanente’, che è causa ed effetto di precarietà emozionale e instabilità relazionale e
valoriale. In un processo continuo di ampliamento/specificazione dei suoi campi di analisi, sul finire del

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secolo Bauman con Modernità liquida apre il ciclo che gli ha procurato maggiore notorietà, a livello
mondiale, quello della ‘liquidità’, caratteristica emblematica della postmodernità. Da allora il sociologo
polacco, con ritmo incalzante, ha analizzato aspetti specifici della condizione umana nella società liquida
vischiosamente connessa alla vita liquida.
“Vita liquida” e “modernità liquida” sono profondamente connesse tra loro. … Il carattere liquido della vita
e quello della società si alimentano e si rafforzano a vicenda. La vita liquida, come la società liquido-
moderna non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo”. (Vita liquida,
Introduzione, pag. VII).
E più recentemente preso atto che la sindrome consumistica è fatta tutta di velocità, eccesso e scarto
(Consumo, dunque sono, pag. 108) riprende l’analisi delle ripercussioni del consumismo sui comportamenti
delle persone nella società globalizzata.
Tra le poche ‘vie’ percorribili, Bauman a un certo punto ipotizza anche un "Empowerment", che egli vede ed
auspica come "capacità di compiere scelte ed agire efficacemente in base alle scelte compiute".
"Guardo il mondo globalizzato. È pieno di uomini costantemente in cerca di qualcosa d'altro. Sembra che
corrano invece sono fermi, in una condizione di angosciante staticità. Credono di intercettare, di interpretare
il cambiamento. Stanno bene solo quando arrivano prima degli altri, e questo indipendentemente da quale sia
la meta. Ma pensiamoci un attimo: in realtà non progrediscono mai. Inseguono qualcosa che è fuori da sé, un
modello che non esiste e che non possono raggiungere, perché non ha radici nella propria identità: un nuovo
taglio o un nuovo colore di capelli, una nuova macchina, un nuovo lavoro, un nuovo corpo, una casa nuova.
Una volta conquistati, sono già vecchi. E la corsa non finisce mai."
"Proviamo a riflettere su un concetto semplice: la globalizzazione ci ha alienati ma ci ha fornito anche
conoscenze fino a qualche anno fa insospettabili. E la conoscenza è di per se stessa libertà. Le nostre
possibilità di scelta sono cresciute a dismisura. Adesso tocca capitalizzare questa libertà: invece di
uniformarci a comportamenti sociali stereotipati abbiamo tutte le carte in regola per trovare una morale fatta
di solidarietà e capacità di comprendere che ciascuno gioca un ruolo insostituibile. Il meccanismo della
delega ad autorità sociali e religiose altre da noi è crollato? Bene, fatta tabula rasa di tutto ciò, possiamo dare
alla modernità una valenza positiva. Non sta nei diktat eterodiretti la nostra possibilità di riscatto, né in una
religiosità da hooligans, capaci di dichiararsi cristiani e devoti di Giovanni Paolo II e anche di uccidere, ma
in un nuovo socialismo. Abbiamo inseguito il mito dell'Io. Non dimentichiamo che la portata etica di una
società si misura nella sua capacità di offrire a tutti pari opportunità di scelta e pari libertà, di proteggere i
deboli, gli emarginati. Io ce l'ho un sogno, è quello di perseguire l'ideale rinascimentale di armonia. Per Leon
Battista Alberti la bellezza era strettamente connessa all'equilibrio fra le parti. La centralità dell'individuo è
una risorsa. Felicità non è correre e poi fermarsi di botto. Ma saper star fermi, progredire, lentamente,
consapevolmente. È una felicità solo all'apparenza più difficile da perseguire. In realtà sta lì, alla nostra
portata. E riguarda tutti."
Una sintesi tra pro e contro della comunità virtuale
Indubbiamente la comunità virtuale presenta pro e contro.. Se il processo di globalizzazione si risolve in una
imitazione acritica allora Bauman ha ragione, ci siamo persi nel vuoto. Ogni medaglia ha un risvolto
negativo. Negativo e positivo dipende da come contestualizziamo le cose. Una carezza può essere usata per
consolare e per manipolare.
Il processo di globalizzazione è utile se viene salvaguardata la coscienza individuale, se diventa una spinta
per un confronto critico e costruttivo. E’ pericoloso se spersonalizza e aliena.
Sta a noi come singoli e come società dare una giusta direzione ad un processo che può essere positivo o
negativo a seconda dell’uso che ne facciamo. Ovviamente questi percorsi sono lunghi e richiedono tempi di
maturazione. Non è detto che, dopo una fase di perdita acritica dell’individualità, non si possa poi passare al
ricostituirsi di personalità autentiche, in un mondo a cui tutti possono partecipare molto più velocemente,
che, grazie ad un’apertura di così ampia portata, permetta un controllo incrociato, che porti ad evidenziare
manipolazioni sotterranee e concorra a creare benessere per tutti, dando a ciascuno la possibilità di dire
qualcosa ed essere ascoltato.
Questo è l’augurio ….. questa la speranza ……
Un caso
Nell’ambito del vostro lavoro di operatori turistici in un’agenzia di viaggi vi potrebbero capitare tipi di
clienti completamente differenti, a seconda che afferiscano al bacino della “comunità reale” o a quello delle
“comunità virtuali”. Proprio per questo è opportuno comprendere le dinamiche che entrano in gioco in questi

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due diversi tipi di “persone appartenenti” e rispondere in maniera più appropriata alle loro eventuali
esigenze. E’ verosimile che le richieste degli utenti che tendenzialmente non utilizzano il web siano:
- meno articolate, poiché accedono generalmente ad un numero di informazioni inferiori rispetto all’altro tipo
di cliente
- meno attente al vostro lavoro e ai feedback degli utenti che rilasciano recensioni sulla vostra pagina web
- orientati ad una vacanza in cui l’elemento “relazionale” fondamentale si colloca su una dimensione “real”:
animazione, visite guidate, spa, possibilità d’interagire con un gruppo di pari, etc….
E’ altrettanto verosimile che le richieste degli utenti che appartengono a comunità virtuali siano:
- particolarmente attente a tutte le opportunità turistiche che il luogo di vacanza può offrire (poiché
generalmente le controllano ancor prima che voi gliele proponete)
- molto attente alla qualità delle vostre prestazioni (poiché quasi sicuramente hanno visualizzato i feedback
positivi e negativi che gli utenti rilasciano)
- orientati ad un tipo di vacanza in cui non si può prescindere dai comfort della tecnologia. Sarà dunque
fondamentale suggerire hotel con “wi-fi zone”, internet point, etc. Così come sarà opportuno rilasciare
brochure, mappe e carte dei servizi della città. Si potrebbe mantenere una comunicazione interattiva e
continua tra voi e il cliente, tramite una piattaforma virtuale che connette l’agenzia e i clienti accogliendo e
rispondendo alle richieste provenienti direttamente dal turista in vacanza!

“LA TEORIA ETOLOGICA DI BOWLBY”

La ricerca in ambito sociale e psicologico utlizza numerosi metodi e tecniche di indagine qualitativa, a volte
anche prendendole in prestito da altre discipline. Questo è il caso dell'Etologia di Konrad Lorenz, nata come
metodo di ricerca del comportamento degli animali e poi utilizzata per l'osservazione del comportamento
umano. In questa lezione mostreremo le modalità attraverso le quali l'etologia sta apportando il suo
contributo alla piena comprensione del comportamento umano soffermandoci in maniera particolare
sull’impianto teorico elaborato da John Bowlby. Questa teoria dimostra come i primi legami affettivi
possono o meno creare una personalità sicura

1 Introduzione
L’etologia è quella disciplina scientifica che studia il comportamento animale nel suo ambiente naturale.
Essa analizza le modalità attraverso le quali l’animale interagisce con l’ambiente e aiuta a chiarire sia il ruolo
della componente istintiva sia quello della capacità innata di rispondere alle situazioni. Dall’interazione di
queste due forze nasce il motore dell’apprendimento che, utilizzato per la prima volta durante lo sviluppo,
marcherà in maniera indelebile il carattere dell’animale per tutto il resto della sua vita.
L'etologia si interessa di vari aspetti legati al comportamento animale, e tra questi, in particolare :
l’apprendimento, il corteggiamento, le cure parentali, l’organizzazione sociale e il comportamento sessuale.
Konrad Lorenz è universalmente considerato uno dei padri fondatori della moderna etologia. Celebri sono i
suoi studi sull’imprinting, effettuati nel 1930, attraverso i quali osservò quella particolare modalità di
apprendimento che si stabilisce in un determinato periodo della vita del cucciolo, detto fase sensibile. In
questo periodo il cucciolo è biologicamente predisposto ad apprendere ed in lui si fissano degli specifici
modelli di comportamento. Nel cucciolo esistono degli schemi comportamentali innati che se sono stimolati
a manifestarsi nella fase sensibile si rafforzano in lui. Affinché ciò è accada è necessaria la presenza di alcuni
stimoli esterni. L’episodio che portò Lorenz alla scoperta di questo fenomeno fu la nascita della sua ochetta
Martina. Appena l'ochetta ruppe col becco l'uovo e guardò fuori, Lorenz si accovacciò e si allontanò facendo
il verso delle oche selvatiche. La cosa stupefacente è che l'ochetta lo seguì immediatamente e che, da quel
momento in poi, non volle più essere posta accanto alla madre: per lei la madre era Konrad Lorenz e lo
seguiva ovunque andasse. Da qui il grande etologo comprese che le oche identificano come propria "madre"
il primo essere che vedono in movimento appena nascono. Non importa se ha la barba bianca, non ha le ali e
nemmeno le zampe palmate: per le ochette la loro madre è, irreversibilmente, il primo essere che si è mosso
davanti ai loro occhi quando sono venute al mondo.
Sulla scia di questa pioneristica intuizione ne seguirono molte altre e, a poco a poco, l’etologia andò
affermandosi sempre più come fonte privilegiata a cui attingere per la comprensione del comportamento

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umano in tutte le sue sfaccettature. Così, a partire dagli anni Cinquanta, i principi dell'etologia sono penetrati
gradualmente nelle scienze sociali arrivando a esercitare, negli ultimi decenni, una forte influenza in svariati
campi. Quali sono questi principi? Tra i più importanti vi è l'idea secondo la quale lo studio del
comportamento debba iniziare con osservazioni e descrizioni accurate effettuate in condizioni che siano
naturali per le specie considerate, e che questo tipo di analisi debba essere unita alla consapevolezza che
l'insieme è qualcosa di più della semplice somma delle parti. Inoltre gli etologi hanno ritenuto che la piena
comprensione di un aspetto del comportamento richieda una risposta a quattro domande fondamentali: "Che
cos'è che determina il comportamento?" (in questo caso riferendoci a fattori sia interni sia esterni
all'organismo); "Come si sviluppa nell'individuo?"; "Come si è evoluto?" e "Qual è o qual è stata la sua
funzione?" ovvero, per essere più precisi "Quali sono le conseguenze adattative per cui tale comportamento
si è, o si era, conservato nel repertorio comportamentale di una specie?".
Un campo nel quale l'approccio etologico ha avuto implicazioni di ampia portata è quello del ruolo del
rapporto tra genitore e figlio nello sviluppo della personalità (Bowlby). Nel caso invece delle scienze sociali
dell’uomo come la psicologia sociale, l’antropologia e la sociologia il contributo dell’etologia è stato quello
di ampliare il punto di vista su fenomeni come: le relazioni tra i comportamenti degli individui, i rapporti
interindividuali e la struttura sociale del gruppo.

2 John Bowlby e Mary Ainsworth


Sia Mary Ainsworth che John Bowlby si interessarono allo sviluppo della personalità e al ruolo
fondamentale che hanno gli scambi tra genitori e figli in questo percorso di crescita. John Bowlby (Londra,
1907 – Isola di Skye, 1990) si laureò in medicina per poi specializzarsi in psichiatria. Partendo da
un’esperienza di volontariato in una scuola residenziale per bambini disadattati nacque in lui il desiderio di
diventare uno psichiatra infantile. Negli anni della seconda guerra mondiale lavorò come psichiatra
dell’esercito, e al suo ritorno ottenne la direzione del dipartimento infantile della Tavistock Clinic. I suoi
interessi principali ovvero lo sviluppo infantile e la psicoanalisi, lo avvicinarono inizialmente alla scuola
Kleiniana da cui però ben presto si allontanò. Dal suo punto di vista l’autrice poneva un’attenzione eccessiva
sulle vicende del mondo interno. Concetti come pulsioni, conflitti e fantasie, tipici dell’approccio
psicoanalitico tradizionale, lo portarono a nutrire un’insoddisfazione sempre maggiore verso quel quadro di
riferimento teorico.
Le numerose contaminazioni intellettuali che interessarono i suoi studi e le sue ricerche lo portarono ad
interessarsi agli sviluppi delle nuove scienze del comportamento in particolare, la psicologia evolutiva di
Piaget, il cognitivismo, la biologia evoluzionistica, la cibernetica e ,soprattutto, l’etologia di Niko Tinbergen
e Konrad Lorenz che andranno assumendo nel suo impianto teorico un’importanza fondamentale. I concetti
etologici infatti, interessandosi a fenomeni almeno in parte simili a quelli che gli psicoanalisti cercano di
comprendere nell’uomo, e cioè, ad esempio, la formazione di legami fra genitori e figli, il comportamento fra
partner sessuali ed il conflitto se utilizzati con le dovute cautele avrebbero potuto dare un nuovo impulso alla
comprensione dello sviluppo della personalità. Gli strumenti i concetti ed i metodi della nuova prospettiva
etologica, nelle intenzioni dell’autore, avrebbero potuto aiutare la psicoanalisi ad iniziare una indagine
ancora più completa ed efficace dello sviluppo affettivo precoce.
In un articolo del 1991 pubblicato sull’ “American Psychologist “ John Bowlby e Mary Ainsworth
definiscono la teoria dell’attaccamento come un approccio etologico allo sviluppo della personalità.
All’interno di questo percorso evolutivo, Bowlby sottolinea il primato dei legami emotivi tra il bambino e le
sue figure di accudimento, in particolar modo la madre. Egli fu molto colpito, dagli effetti negativi sullo
sviluppo del bambino che sono provocati da carenze in queste precoci relazioni d’attaccamento e perciò
iniziò ad interessarsi alla loro natura e alla loro origine. Notò in particolare i lavori di Harlow (1958, 1959)
sui piccoli di scimmie Rhesus; questi esperimenti mostravano che, quando ai piccoli veniva offerta
l’occasione di scegliere tra due surrogati materni, essi preferivano trascorrere la maggior parte del tempo
aggrappati alla madre che offriva il piacere del contatto, piuttosto che a quella che offriva nutrimento. Il
termine attaccamento definisce perciò la relazione, il legame tra quello specifico bambino e le persone che si
prendono cura di lui. Bowlby affermò a gran voce che l’attaccamento fosse un sistema motivazionale
fondamentale. Riflessioni di questo tipo ponevano Bowlby nella scomoda posizione di andare ad intaccare
uno dei cardini della teoria freudiana : il primato dell’oralità, opponendovi il “primato dei legami emotivi
intimi” ( Bowlby, 1988). Per la psicoanalisi classica infatti, il bambino ricerca il piacere, e quindi il legame
che egli stabilisce con la madre è soltanto una conseguenza diretta del soddisfacimento di una pulsione.

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Nella teorizzazione classica quindi, il legame di attaccamento è secondario e subordinato al soddisfacimento
orale. E’ con la pubblicazione di Attaccamento e perdita, che Bowlby espone in maniera più chiara e
completa il piano concettuale della teoria dell’attaccamento sostenendo che : “L’attaccamento è un sistema
motivazionale primario con i suoi modi di operare e si interfaccia con gli altri sistemi motivazionali”. L’
attaccamento determina la vicinanza tra il bambino e l’adulto di riferimento. Ma in che modo avviene ciò ?
Avviene attraverso l’uso di alcuni segnali tipici come ad esempio il pianto, che ha proprio la funzione
richiamare l’attenzione della madre, ed altri come il chiamare, il seguire e l’aggrapparsi. Questi sono tutti
comportamenti innati del bambino, ma allo stesso tempo sono anche influenzati dall’ambiente. Tale sistema
si è evoluto proprio per assolvere la funzione biologica di assicurare protezione sostengo e conforto ai
membri più giovani all’interno di alcuni gruppi di primati. Nonostante quindi il bambino abbia una capacità
innata a formare dei legami di attaccamento, egli svilupperà uno specifico legame, che risulterà funzionale o
disfunzionale, proprio a causa delle cure genitoriali a cui è esposto nei primi anni di vita. Quello che emerge
quindi dalla pagine scritte dall’autore è che lo sviluppo dell’organizzazione infantile dell’attaccamento ha
basi esperenziali interattive e reali. La realtà una volta per tutte si sostituisce alla fantasia.
Mary Ainsworth (Glendale, 1913 – Charlottesville, 1999) nata nell’ Ohio si trasferì a Toronto dove si
specializzò in psicologia. Nel 1950 un nuovo trasferimento, questa volta a Londra, le diede l’occasione di
diventare membro dell’unità di ricerca di Bowlby alla Tavistock Clinic; tra i due autori inizio così una lunga
e felice collaborazione. I numerosi dati raccolti permettevano di sostenere le ipotesi fatte in precedenza sul
ruolo centrale che ha nello sviluppo del bambino il suo forte attaccamento alla madre. Evidenze empiriche
che vennero ulteriormente avvalorate da alcuni studi effettuati tendendo in considerazione gli effetti negativi
che possono provocare le esperienze di separazione dalla madre, come ad esempio, periodi di permanenza in
istituto o di malattia. I lavori osservativi condotti con il Ganda Project in Uganda e, successivamente, quelli
del Baltimore Project, insieme al perfezionamento della Strange Situation Procedure(di cui ci occuperemo a
breve) confermarono la piena adesione dell’autrice all’approccio etologico della teoria dell’attaccamento.

3 La relazione madre – bambino e la formazione dei modelli operativi interni


I modelli operativi interni sono rappresentazioni mentali che il bambino si costruisce in base all’esperienza
interattiva che vive. Con le relazioni il bambino impara come rappresentare la realtà e com’è la relazione con
l’altro e la coscienza di sé. È un sistema di conoscenza che il bambino costruisce nel corso delle relazioni
ripetute con il proprio ambiente e forniscono informazioni non solo sul mondo fisico e sociale ma anche su
di sé e sulle figure di attaccamento : si costruiscono sulla base dell’esperienza vissuta rispetto a figure verso
cui il bambino ha sviluppato attaccamento e rispecchiano la qualità della relazione vissuta con questa
persona; per dirla con le parole di Bowlby: “ Nessuna variabile ha sullo sviluppo della personalità effetti di
maggiore portata delle esperienze fatte da bambini in famiglia; infatti, a partire dai primi mesi nei suoi
rapporti con la figura materna, proseguendo poi negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza nei suoi rapporti
con entrambi i genitori, il bambino si costruisce modelli operativi interni del modo in cui le figure di
attaccamento si potranno comportare nei suoi riguardi in ciascuna di più situazioni diverse; e su tali modelli
sono basate tutte le sue aspettative, e pertanto tutti i suoi programmi, per il resto della vita ( Bowlby,1973).
I modelli operativi interni, sono come una guida interna e inconsapevole che il bambino possiede, e che
quindi non fa altro che guidare appunto i suoi sentimenti e i suoi comportamenti nei confronti degli altri. Un
bambino che fa esperienze positive nella sua infanzia svilupperà un senso di sé come persona amata degna di
amore protezione e conforto e, contemporaneamente, un senso degli altri come di persone di cui poter avere
fiducia. Un bambino invece che invece sperimenta cure inadeguate oppure esperienze traumatiche come lutti
o abusi percepirà un senso di sé e degli altri generalmente negativo.
Bowlby afferma che, una volta interiorizzati, i modelli operativi interni siano fondamentalmente stabili e
restii al cambiamento. L’unica eccezione può essere costituita da esperienze talmente significative e ripetute
che, contraddicendo i vecchi schemi acquisiti, determinano la formazione di una nuova struttura che meglio
si adatta alle mutate condizioni delle realtà.
Anche Bowlby sosteneva che : “ Esiste nel primo periodo di vita una fase sensibile, trascorsa la quale
sviluppare una capacità di instaurare attaccamenti sicuri e diversificati diventerebbe sempre più difficile; in
altri termini, il modello secondo il quale si è organizzato il comportamento di attaccamento tende a
persistere e , man mano che il bambino cresce, a modificarsi meno facilmente”(Bowlby, 1969).

4 L’individuazione dei pattern di attaccamento infantili

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L’apporto decisivo che Mary Ainsworth fornì alla teoria dell’attaccamento fu quello di aver individuato, per
la prima volta, tre modelli tipici di attaccamento, attraverso la messa a punto di una accurata procedura
sperimentale su base osservativa : la Strange Situation Procedure (SSP).
Questo strumento si proponeva di valutare l’equilibrio tra il sistema di attaccamento e il sistema di
esplorazione del bambino. Si tratta di una procedura standardizzata effettuata in un laboratorio che consiste
nell’osservazione di otto sequenze, per una durata totale di circa mezz’ora. Le sequenze in questione sono
costanti e stabiliscono che il bambino sia in compagnia, congiunta o alternata, della madre e di una persona
estranea. Si passa quindi ad osservare le reazioni del bambino alla separazione e al ricongiungimento alla
madre e l’intera sequenza viene videoregistrata.
I bambini presi in considerazione hanno un’età non inferiore ai dodici mesi, che corrisponde all’inizio della
deambulazione. La peculiarità della procedura ovvero, l’ambiente nuovo nel quale il bambino si trova, la
presenza di un adulto estraneo e il successivo allontanamento della madre sono tutti fattori di stress per il
bambino che non fanno altro che promuovere in lui la comparsa di un comportamento d’attaccamento. I
momenti cruciali sui quali si focalizza l’attenzione sono quelli della separazione del ricongiungimento alla
madre.
4.1. La procedura della Strange Situation ( Ainsworth, Wittig, 1969)
1) La madre e il bambino vengono accompagnati in una stanza.
2) La madre e il bambino vengono lasciati da soli e il bambino è libero di esplorare l’ambiente ( 3 minuti).
3) Entra un’estranea, si siede, parla con la madre e cerca di mettersi a giocare con il bambino ( 3 minuti).
4) La madre esce dalla stanza. Il bambino e l’estranea rimangono soli ( al massimo 3 minuti).
5) Prima riunione. La madre ritorna e l’estranea esce in maniera discreta. La madre consola, se necessario, il
bambino e cerca di mettersi a sedere ( 3 minuti).
6) La madre esce dalla stanza. Il bambino rimane da solo ( massimo 3 minuti).
7) L’estranea ritorna e cerca, se necessario, di consolare il bambino. Poi si accomoda sulla sedia ( al massimo
3 minuti).
8) Seconda riunione. La madre ritorna e l’estranea esce dalla stanza in maniera discreta. La madre consola il
bambino, se necessario, e cerca di ritornare sulla sedia ( 3 minuti).

(Ainsworth,Wittig,1969) Categoria del Categoria della madre


bambino
Attaccamento sicuro (B) Disponibilità emotiva- capacità di rispondere
Attaccamento ansioso-evitante(A) Rifiuto
Attaccamento ansioso-ambivalente(C) Vicinanza insoddisfacente
( intrusività- distanza)
Attaccamento disorganizzato(D) Spaventata/ spaventante

“PSICOLOGIA SOCIALE E PROGRAMMAZIONE NEURO- LINGUISTICA”

1 Premessa
Ogni persona, nel corso della giornata, viene inondata di informazioni. Molte di queste vengono ignorate,
altre vengono invece acquisite. Di questo passaggio noi siamo inconsapevoli e allo stesso modo produciamo
risposte inconsapevoli, agiamo cioè AUTOMATICAMENTE, creiamo delle abitudini.
Alcune di queste sono importanti, altre possono essere un rischio.
Non essendo spesso consapevoli di quello che facciamo e del perché lo stiamo facendo, non siamo sempre in
grado di valutare quali di queste abitudini siano funzionali e quali possono invece danneggiarci.
Gli obiettivi proposti nella seguente lezione sono:
• Aumentare la consapevolezza personale, al fine di comunicare in maniera più efficace;
• Aumentare la consapevolezza circa i comportamenti degli altri;
• Riuscire ad influenzare e persuadere le persone con cui abbiamo a che fare;
• Acquisire una maggiore flessibilità di comportamento.

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Aggiungiamo che la Programmazione Neuro-Linguistica non ha validità scientifica ed è considerata una
“pseudoscienza”, priva di riscontri e fondamentalmente erronea.
Il motivo per cui la proponiamo è che ci sembra essere un’utilissima fonte di consigli, suggerimenti e spunti
di riflessione molto concreti e spendibili nella vita quotidiana, soprattutto per quanto riguarda la sfera
lavorativa di chi si deve interfacciare con il pubblico. Facciamo qui riferimento a chi lavora in alberghi,
dirige ristoranti, lavora in agenzie di viaggio o come guide turistiche.
I principi base della PNL vengono tuttora impiegati da molti psicologi e sono stati proprio questi principi a
renderli famosi. Un esempio a questo proposito ci viene offerto da Lillian Glass, laureata in psicologia e
scienze delle comunicazioni, oltre che docente alla University of Southern California; è autrice di saggi
scientifici su riviste specializzate. Annovera tra i suoi pazienti uomini d'affari, politici e star hollywoodiane,
come Dustin Hoffman, Julio Iglesias, Nicholas Cage, Sean Connery, Keanu Reeves, Rene Russo e tanti altri
ancora. Dice la Glass nell’introduzione del suo libro “So cosa stai pensando”: “I miei clienti hanno imparato
a comunicare con maggiore efficacia, a migliorare il loro modo di presentarsi in pubblico, esaltare la
qualità della voce, correggere un lessico mediocre, imparare un accento, modificare un dialetto e sviluppare
una grande autostima. Sono diventati comunicatori migliori sia nella loro vita lavorativa sia nelle loro
relazioni personali”. Ella aggiunge che il segreto del suo successo sta nel fatto che: “il corpo e il volto non
mentono. Potevo dire quello che passava nella testa dei miei clienti, soltanto ascoltandoli e osservandoli e
moltissimo mi era rivelato dal modo in cui stavano in piedi o dal modo in cui mi guardavano“.
In breve, proponiamo una panoramica su cosa sia la Programmazione Neuro-Linguistica e sul perché possa
essere utile; la PNL inoltre offre un’utile classificazione dei diversi tipi di persone che possiamo trovarci
davanti. Questo può esserci utile per capire meglio come aiutare una persona che ci chiede informazioni
circa un servizio da noi offerto, come fronteggiare situazioni complesse, come ad esempio delle critiche o dei
veri e propri attacchi. In ultimo, ci soffermiamo su tutti quei principi fondamentali da seguire se si vuole
costruire un buon rapporto col cliente, ottenere la sua fiducia e attenzione.

2 Cos’è la PNL
La Programmazione Neuro – Linguistica (PNL) è un approccio alla comunicazione, allo sviluppo personale
e alla psicoterapia, nata agli inizi degli anni ’70 dalla collaborazione di John Grinder (della cattedra di
linguistica dell’Università di Santa Cruz, in California) e Richard Bandler (studente esperto di informatica).
Insieme iniziarono a studiare il lavoro di alcuni tra i più famosi terapeuti dell’epoca: Fritz Perls, creatore
della Gestalt, Virginia Satir, terapeuta familiare, e Milton Erickson, ipnoterapeuta di fama mondiale. Il tutto,
sulla scia degli studi di Gregory Bateson, antropologo inglese esperto di comunicazione e teoria dei sistemi.
I due studiosi sono partiti da una domanda di base: come fanno questi terapeuti a conseguire risultati così
eccellenti?
Sebbene gli approcci utilizzati siano molto diversi tra loro (e alle volte persino incompatibili) alcuni elementi
sono sorprendentemente ricorrenti. Hanno così provato a decodificare le strategie utilizzate e a
“rimodellarle”, cioè ad applicare gli stessi processi ad altre situazioni.
Nasce così la PNL.
La Programmazione Neuro-Linguistica essenzialmente è lo studio dell’ESPERIENZA SOGGETTIVA.
Per «esperienza soggettiva» si intende il modo in cui l’individuo percepisce ed interpreta se stesso ed il
mondo che lo circonda.
La inseriamo in un corso di psicologia sociale per quella parte di questa branca che si interessa a come i
singoli individui, sulla base di capacità personali, interpretano il mondo sociale e anche perché riteniamo
utili alcune sue tecniche, per migliorare le relazioni professionali
2.1. Perché si chiama così
L'idea di base è che ci sia una connessione fra:
F 0IF processi
C neurologici ("neuro"),
F 0il
F Clinguaggio ("linguistico"),

F 0gli
F C schemi comportamentali appresi con l‘esperienza ("programmazione").

Questi schemi possono essere organizzati per raggiungere specifici obiettivi nella vita.
2.2. Perché si parla di “Programmazione”
Dice Bandler: «Siamo auto-programmabili. Possiamo impostare programmi deliberatamente progettati e
automatizzati che funzionano da soli per occuparsi di noiose mansioni terrene, liberando così le nostre menti
per fare altre cose più interessanti e creative.» (Bandler, R., 2008).

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Partiamo dal presupposto che in qualsiasi situazione ci troviamo, noi non siamo passivi recettori di stimoli,
ma ne “selezioniamo” ed “elaboriamo” solo alcuni, ignorandone altri. Tutto questo però senza averne
consapevolezza. Questo meccanismo viene attivato per rispondere ad un principio economico
dell’organismo: per vivere bene raccogliamo solo le informazioni che ci sono utili, evitandone altre, per
evitare il sovraccarico di informazioni inutili.
2.3. A cosa serve?
Il motivo per cui la PNL ha riscosso enorme successo (sia in termini di diffusione di manuali e testi, ma
anche di corsi e seminari) risiede proprio in quelli che sono gli obiettivi che essa si pone: migliorare la
comunicazione interpersonale e controllare alcuni processi del nostro cervello che nonostante siano
“automatici”, possono essere riportati alla coscienza per essere modificati in accordo con i propri obiettivi.
Secondo i fondatori del movimento, il matematico Richard Bandler e il linguista John Grinder, la PNL
sarebbe strumentale "all'individuazione delle modalità per aiutare le persone ad avere vite migliori, più
complete e più ricche" (Dalla copertina di Bandler and Grinder, 1975)

3 I canali sensoriali e i “tipi umani”


Nella nostra mente, le rappresentazioni interne sono percepite attraverso i nostri sensi, anche definiti "canali
sensoriali". Infatti quando immaginiamo, noi vediamo nella nostra mente, udiamo nella nostra mente etc...
I canali Visivo - Uditivo - Cinestesico sono i più usati nel prendere le decisioni e nell'analizzare le situazioni
consciamente.
Quello olfattivo e quello gustativo sono invece percepiti in maniera più inconscia.
I canali sensoriali sono importanti non solo perché permettono di cogliere informazioni dall’esterno: secondo
la PNL, infatti, le persone sviluppano una preferenza per un canale sensoriale che, intorno ai 12 anni, diventa
la corsia preferenziale attraverso cui transitano le informazioni che provengono dall'esterno.
Alla luce di quanto detto, la Programmazione Neuro-linguistica ha elaborato un modello che identifica tre
tipi "umani", ovvero tre principali gruppi di persone che interpretano la realtà secondo un canale sensoriale
privilegiato: il Visivo (V) l’Auditivo (A) ed il Cinestesico (K). Quest'ultimo fa riferimento alla preferenza
per il tatto, il gusto e l'olfatto. La presenza di una via privilegiata per alcune tipologie di stimoli significa solo
mettere in ordine i dati secondo un preciso criterio, per ritrovarli ed utilizzarli con facilità. Il nostro cervello,
infatti, utilizza comunque anche gli altri sensi, anche se lo fa in misura minore. Ad esempio, se preferisco
memorizzare le esperienze come fotografie (tipo Visivo), potrò anche aggiungere suoni o profumi, ma il
primo ricordo sarà sempre fatto di forme e colori.
Ecco un esempio più concreto: Una persona con sistema preferenziale visivo darà maggior peso alle
immagini (il concetto di ‘automobile’ richiama l’immagine del veicolo); una persona di tipo auditivo è
sintonizzata sui suoni (dell’auto percepisce il rombo del motore); una persona cinestesica, è concentrata sulle
sensazioni (la prima cosa che percepisce è il tocco dei sedili in pelle).

3.1. I canali di accesso


I segnali d’accesso costituiscono il modo in cui i cinque sensi si interfacciano alla realtà immagazzinando
l’informazione che poi verrà raccolta nella memoria. Andremo brevemente qui a considerare i SEGNALI
OCULARI D'ACCESSO (basandoci sul libro di Bandler R., Grinder J., “La Struttura della Magia” del
1975).
Esiste un stretto legame tra corpo e mente: nel corpo riflettiamo i nostri processi mentali attraverso macro e
micro movimenti delle mani, degli occhi e di tutto il corpo. Quindi, come sottolineato più volte, secondo la
PNL è possibile comprendere il comportamento ed i processi mentali di chi ci sta di fronte a partire da indici
non verbali, come i movimenti oculari. Questo perché, se osserviamo la persona con cui stiamo parlando,
noteremo che raramente ci fisserà in modo continuo, spesso le sue pupille si muoveranno in varie direzioni,
soprattutto quando è lei a parlare.
Tutti quanti, infatti, mentre stiamo parlando, manifestiamo brevi movimenti delle pupille a destra, sinistra, in
alto ed in altre direzioni senza apparente correlazione con l'osservazione di un oggetto nell’ambiente
circostante.
Questo succede perche i nostri processi mentali influenzano anche il movimento dei nostri occhi. A seconda
della direzione presa dalla pupilla, possiamo sapere che informazione in questo momento la persona sta
probabilmente utilizzando. Per un essere umano è impossibile rimanere con gli occhi fissi su un punto, senza

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battere le palpebre. Se dovesse riuscirci, le frasi saranno comunque spezzate e con lunghe pause. Il
movimento di battere le palpebre è sempre accompagnato da movimenti oculari.
Riportiamo di seguito un’immagine esemplificativa:
Di
K
Ar
Ac
Vr
Vc
V
V = visualizzazione. Quando una persona guarda in avanti con lo sguardo sfocato sta creando delle
immagini. Un esempio tipico riguarda gli studenti che sembrano guardare e vedere l'insegnante che sta
spiegando, mentre in realtà pensano ad altre cose.
Vc = Visivo costruito. Il movimento in alto a destra dei bulbi oculari indica un accesso all’emisfero sinistro
del cervello durante le operazioni di costruzione delle immagini.
Vr = Visivo ricordato. Il movimento in alto a sinistra dei bulbi oculari indica un accesso all’emisfero destro
del cervello durante le operazioni di richiamo delle immagini effettivamente viste.
Ac = Auditivo costruito. Il movimento in orizzontale a destra dei bulbi oculari indica un accesso
all’emisfero sinistro del cervello durante le operazioni di costruzione o immaginazione dei suoni.
Ar = Auditivo ricordato. Il movimento in orizzontale a sinistra dei bulbi oculari indica un accesso
all’emisfero destro del cervello durante le operazioni di richiamo dei suoni effettivamente uditi.
K= Cenestesico. Il movimento in basso a destra indica il richiamo di sensazioni cenestesiche.
Di = Dialogo interno. Il soggetto sta dialogando tra sé e sé.

4 I processi mentali di analisi dell’informazione


L'evento esterno arriva attraverso i nostri canali sensoriali e viene "filtrato", vale a dire che la nostra mente
esamina ed opera delle modifiche sulla percezione dell'evento.
Mentre processiamo l'evento cancelliamo delle parti, distorciamo, generalizziamo le informazioni che
arrivano, sulla base di una serie di elementi che operano da "filtro". Si tratta di un processo naturale della
mente per evitarci un sovraccarico di informazioni. Tuttavia tale processo avviene inconsciamente e quindi
ne rimaniamo influenzati senza rendercene conto.
4.1. I processi mentali di filtraggio
I processi mentali di filtraggio delle informazioni vengono raccolti, dalla PNL, in tre categorie:
DISTORSIONE – CANCELLAZIONE – GENERALIZZAZIONE.
1) DISTORSIONE:

Capita quando facciamo cambiamenti nella nostra percezione della realtà sensoriale. La distorsione ci aiuta
nel processo di motivazione, il quale avviene nel momento in cui modifichiamo parte delle informazioni che
ci arrivano dai canali sensoriali. La distorsione è anche la ragione per la quale un evento ci può apparire
diverso da quello che è.
2) CANCELLAZIONE:

Significa attenzione selettiva a certi aspetti della nostra esperienza e non ad altri, che lasciamo fuori dalla
nostra coscienza. Senza la cancellazione, la nostra mente conscia avrebbe troppe informazioni da analizzare.
3) GENERALIZZAZIONE:

Consiste nel trarre conseguenze generali sulla base di due o tre esperienze. Questo ci capita spesso con le
persone: se ad esempio entra nel mio ufficio la stessa signora tre volte diverse nel giro di una settimana, e
tutte e tre le volte è molto nervosa, attiverò la generalizzazione pensando che questa persona sia nervosa di
carattere, che quindi lo sia sempre.

5 Come creare relazioni efficaci


Tutto quello che abbiamo detto finora ci serve per capire meglio come funzioniamo. Possiamo quindi
cogliere nuovi aspetti, non solo nel nostro modo di raccogliere informazioni, ma anche nei processi che

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avvengono durante la comunicazione. Tutto questo vale non solo per la nostra persona, ma anche per chi ci
troviamo di fronte.
5.1. Il «Rapport»
Questo è uno dei principi della PNL: se ci troviamo in accordo, in allineamento (dal punto di vista verbale e/
o non verbale) o se c’è somiglianza con l’altra persona, allora il rapporto sarà di armonia, affinità e
concordanza, ovvero si è in uno stato di rapport con quella persona (Richardson, 2002).
In base a quanto detto finora, possiamo passare ad analizzare alcuni punti essenziali per costruire relazioni
efficaci.
5.2. Principi
Esistono dei principi validi per tutte le situazioni e che sono particolarmente importanti per tutte quelle
persone che, nella loro quotidianità lavorativa, devono avere a che fare con molte persone, ad esempio
devono accontentare le richieste di un cliente, devono convincere ad acquistare un prodotto e così via. Questi
principi facilitano la comprensione el’interazione
F 0Principio
B7 1: In che modo vediamo le persone? Mettere in risalto le somiglianze tra noi e gli altri aiuta a
creare sintonia, armonia, accordo. Soffermarsi invece sulle differenze rende più difficile stabilire affinità.
Questo vale anche per le piccole frasi del tipo: “Anche io ho una figlia della stessa età”, “Ah ma guardi,
anch’io sono originario di questa città”. Basta poco per sviluppare un senso di vicinanza tra le persone e
creare i giusti presupposti per una relazione aperta e all’insegna della fiducia.
F 0Principio
B7 2: Consapevolezza circa il proprio modo di comunicare. Rendersi conto se il proprio modo
di comunicare è efficace, cioè se quello che diciamo viene accettato o meno.
F 0Principio
B7 3: Flessibilità. Facciamo riferimento alla capacità di saper attuare correzioni, essere disposti al
cambiamento. Non «intestardirsi» sul proprio approccio se si vede che non funziona.
F 0Principio
B7 4: Non pretendere di cambiare l’altro. Non puoi cambiare l’altra persona, ma sii consapevole
del fatto che puoi influenzarlo
F 0Principio
B7 5: Partire da sé Se cambi qualcosa in te stesso, l’altro reagirà cambiando a sua volta (esempio:
se passi da un modo di porti ostile ad uno più accogliente, l’altro risponderà in maniera più rilassata).

Se voglio cambiare il comportamento dell’altro, dovrò per prima cosa cambiare il mio. Questo indurrà
spontaneamente l’altro a cambiare per stabilire un equilibrio e avere l’illusione di possedere il controllo della
relazione. A tal fine, durante la conversazione userò parole e immagini che utilizza l’altro, senza sembrare
però forzato nel compiere questa operazione. Non cercherò di imitarne il dialetto o la cadenza, per evitare
effetti negativi, come il sentirsi preso in giro da parte del mio interlocutore, che a quel punto sarà meno
disposto ad ascoltarmi o accettare una mia eventuale proposta. È utile anche evitare di parlare con un
linguaggio tecnico, se mi accorgo che la persona con cui sto parlando non condivide la mia stessa
padronanza.
F 0Principio
B7 6: Il «ricalco». Ricalchi una persona quando sei in sintonia con lei, quando vi assomigliate. Il
ricalco consiste nell’essere o diventare come l’altro, in modo da ottenere la sua attenzione, la sua fiducia, il
suo consenso. F 0andiamo
E0 a sviluppare un clima di empatia F 0riusciamo
E0 a costruire il rapport.

Questo perché:
o Scegliamo e ci piacciono le persone che sono più simili a noi.
o Se piacciamo ad una persona, essa tenderà a voler essere d’accordo con noi.

Dice Richardson: “Se sono come te, ti piacerò” F 0“SeE 0 ti piacerò, vorrai essere d’accordo con me” (2002).

F 0Principio
B7 7: Somiglianza nello stato d’animo. Le persone trovano maggiore affinità con chi vive lo
stesso stato d’animo (se siamo persone allegre, tenderemo a cercare amici così). Questo ha grandi ricadute
nelle relazioni col cliente. Può capitare che se siamo di cattivo umore allontaniamo il nostro cliente.
F 0Principio
B7 8: Se vogliamo avvicinare il cliente, comportiamoci “come se” fossimo di buonumore.
Spesso sorridere, mantenere la schiena eretta e le spalle larghe ecc può portare a vivere realmente
un’esperienza migliore e permette al cliente di avvicinarsi perché avverte un clima disteso e positivo.
F 0Principio
B7 9: Attenzione al non verbale. Quando linguaggio verbale e non verbale si contraddicono, il
secondo è sempre quello a cui si attribuisce maggiore credibilità (Mehrabian, 1971).

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Molte volte, anche se non ce ne accorgiamo “ricalchiamo” il non verbale delle persone, soprattutto quelle
con cui siamo in uno stato di rapport. Questo meccanismo può indurre cooperazione.
F 0Principio
B7 10: Attuare il «ricalco» anche per la comunicazione verbale. Usare ad esempio, la stessa
velocità dell’eloquio del cliente (se lui parla lentamente, rallentare anche la propria esposizione), il volume
delle sue parole.
F 0Principio
B7 11: Ricalcare le convinzioni e le opinioni. Diamo una conferma all’altra persona sulla
correttezza delle proprie opinioni per poi portarli a riflettere, e magari accettare, altre possibilità. Nel caso in
cui non si condivida quanto detto dal proprio interlocutore, va ricalcata la sensazione che sta vivendo: frasi
come «Se fossi nei tuoi panni, mi sentirei proprio come te» apre la mente dell’altro, che si sente capito e
avverte come positiva la relazione.

È chiaro quindi che il ricalco è una tecnica utilissima per sviluppare accordo e creare le giuste premesse per
una comunicazione efficace.
Se vogliamo poi indurre il cambiamento, si intraprende il passo successivo: la guida. Guidare vuol dire fare
qualcosa di diverso e offrire all’interlocutore nuove possibilità.
Non dimentichiamo che, qualora quello che stiamo facendo per instaurare una buona relazione non funziona,
è necessario essere flessibili, cioè smettere di fare quello che si sta facendo e provare con qualcosa di
diverso.
• Principio 12: Adottare l’»ascolto attivo». Assicurarsi di capire ciò che l’altra persona intende dire, vedere
ciò che vede lei, sentire ciò che sente lei. Tutto questo significa collocarsi in una posizione di empatia, in
modo da condividere l’esperienza dell’altro e comprendere pienamente ciò che l’altro vuole trasmetterci.
• Principio 13: Il ricalco sul futuro. Anticipare i problemi che potrebbero verificarsi o le obiezioni che
l’interlocutore potrebbe sollevare e fornire un’adeguata soluzione (Dilts, R., Grinder, J., Delozier , J., and
Bandler, R, 1980) trasmette un senso di efficacia personale.

5.3. Domande e comandi nascosti.


Sono formulazioni implicite ed inserite in un contesto più ampio. Un esempio di comando nascosto da
adottare con un cliente può essere: “Sarebbe saggio prenotare immediatamente il viaggio”.
Esse sono efficaci perché funzionano a livello inconscio, per questo trovano difficilmente resistenza.
Vanno usate soprattutto con le persone che sembrano sempre troppo impegnate per concedere la loro
attenzione.
5.4. Cosa fare in caso di attacchi verbali
La prima cosa che dobbiamo fare è neutralizzare la rabbia e l’ostilità verbale, solo in un secondo momento ci
concentriamo sui contenuti dell’attacco.
Evitiamo di metterci sulla difensiva: l’interlocutore potrebbe leggerlo come un contrattacco e ciò non farebbe
altro che accrescerne il livello di rabbia.
Si potrebbe invece procedere allineandosi con la sua ostilità, col suo livello di energia e poi provare a re-
indirizzarla altrove.
Una buona strategia consiste nell’ascoltare le lamentele, provare a capire il suo punto di vista e proporre
soluzioni.
Esempio:
Cliente: In quest’albergo il servizio è scadente!
Receptionist: Come mai non si trova bene? Cosa posso fare per aiutarla?
Cliente: Ma è mai possibile che devo aspettare così tanto per il servizio in camera? Sono già 15 minuti!
Receptionist: Capisco il motivo del suo nervosismo. Ha ragione, mi dispiace per l’attesa. Provvederemo
immediatamente. Nell’attesa posso fare altro per lei?
Mostrare comprensione e far sentire che si capisce il punto di vista dell’altro aiuta a neutralizzare la
rabbia.
Per fare questo si può: mostrare accordo col contenuto (se riesci sinceramente a condividere quanto
l’interlocutore sta dicendo) o col sentimento (qualora risulti più difficile trovare qualcosa di giusto, dal
proprio punto di vista, in ciò che dice l’altro: “Capisco come si sente” oppure: “Al suo posto anche io mi
arrabbierei”).

6 Programmazione Neuro – Linguistica e la questione scientifica

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Questa sezione è dedicata al tema della validità scientifica. Abbiamo già detto che la PNL è una disciplina
ritenuta non sufficientemente valida da questo punto di vista secondo molti scientisti, ovvero coloro che
hanno elevato a fede la scienza e sostengono il primato del “misurabile” sul “vero”. Secondo una tale visione
una cosa è vera se è misurabile. Tutte le discipline neuroscientifiche o psicologiche combattono da sempre
contro questo ostacolo che spesso tende a porle in antitesi a una visione razionalista e meccanicista ormai
radicata. L’assunto di base secondo cui una cosa è reale in quanto può essere misurata e riprodotta all’infinito
ha una pecca evidente per quanto riguarda le discipline che si occupano dell’uomo, inteso nella sua
complessità di essere pensante, che vive emozioni e produce comportamenti: ogni uomo è unico, ogni uomo
è diverso dall’altro. Ciò determina che nessun esperimento effettuato sull’uomo è veramente e perfettamente
ripetibile in modo sempre uguale. Condurre uno stesso studio sullo stesso uomo in momenti diversi comporta
una serie di ben note difficoltà (basti pensare che nel corso della stessa giornata una persona può cambiare il
suo umore, può cambiare il livello di stanchezza che porta con sé e così via) che si cerca di combattere
“standardizzando” le condizioni dello studio (esempio: condurre lo studio sempre nella stessa fascia oraria
ecc) ma le infinite variazioni non potranno mai essere controllate e gestite perfettamente.
Veniamo a noi: la Programmazione Neuro – Linguistica non si vuole imporre come disciplina certa, vuole
semplicemente offrire una propria interpretazione del comportamento umano.
Perché approfondiamo questo tema? Come già anticipato nella premessa, essa fornisce interessanti spunti per
la creazione di rapporti all’insegna della comprensione e della fiducia; inoltre è stata fonte di guadagno per
chi l’ha praticata e resa protagonista di una serie di manuali e libri, seminari e corsi a pagamento, che
attirano una grande folla di spettatori incuriositi e speranzosi di apprendere i segreti di una comunicazione di
successo. Molti però sono gli scettici.
Il nostro scopo qui non è arrivare a definire quale sia la giusta posizione in merito, vogliamo soltanto
mostrare come esistano dei principi, delle tecniche e delle teorie che hanno l’obiettivo di migliorare le
relazioni, in speciale modo quelle di tipo lavorativo. Vogliamo allora riportare alcuni esempi di studi che
danno un sostegno a questa teoria. Esaminiamone alcuni riguardanti i movimenti oculari. Perché sono
ritenuti importanti?
Ricordiamo brevemente che una premessa della PNL è che spesso non siamo consapevoli del perché
facciamo qualcosa o di cosa stiamo facendo. Ecco perché la PNL guarda a quelli che sono definiti i segnali
d’accesso, di cui abbiamo parlato in precedenza.
F 0“Eye
76 movement as an indicator of sensory components in thought”, Buckner Michael, Mera Naomi.
Journal of Counseling Psychology, 1987. Questo studio ha riguardato la correlazione tra movimenti oculari e
l’accesso ad una specifica componente sensoriale. Ai quarantotto soggetti partecipanti è stato chiesto di
concentrarsi su un singolo pensiero, mentre i loro occhi venivano videoripresi. Successivamente è stato
chiesto loro di indicare se il pensiero su cui si erano concentrati conteneva componenti visive, auditive o
cenestesiche. Due osservatori indipendenti hanno poi visto i filmati e si sono occupati di registrare la
presenza o l’assenza dei movimenti oculari così come teorizzato dalla PNL. I coefficienti di accordo tra le
indicazioni tratte dai due osservatori indipendenti e le dichiarazioni dei quarantotto soggetti sul proprio
pensiero, ha indicato che il valore ottenuto (K = 0.82) supportava l’assunto di partenza relativamente alla
correlazione tra movimenti oculari e la componente sensoriale associata.
F 0“Representetional
76 systems and eye movements in an interview”. Ellickson, Judy L. Journal of Counseling
Psychology, 1983. Lo studio si proponeva di verificare l’assunto teorizzato da Bandler, Grinder e DeLozier
nel libro “Programmazione Neuro - Linguistica” relativamente al significato dei movimenti dei bulbi oculari.
Allo studio hanno partecipato settantadue volontari sottoposti a due interviste: una prima intervista in cui gli
intervistatori ricalcavano congruentemente il sistema rappresentazionale usato dal soggetto e indicato dai soli
movimenti oculari; una seconda intervista in cui gli intervistatori volutamente ricalcavano gli intervistati
incongruentemente, utilizzando sistemi rappresentazionali diversi da quelli indicati dai movimenti oculari.
Nel corso di questo esperimento sono stati misurati alcuni indici, quali: i livelli di ansia, empatia, stress e
ostilità. A questo scopo sono stati utilizzati: il Barrett-Lennard Relationship Inventory – Empathic
Understanding Scale, il Multiple Affect Adjective Check List e infine l’Ease of Communication Inventory.
L’analisi dei risultati ha dimostrato che il rapport aumentava quando gli intervistatori dialogavano con gli
intervistati utilizzando congruentemente i canali sensoriali dei soggetti e indicati dai loro movimenti oculari.
Questi sono solo pochi esempi. Ne esistono molti altri in letteratura, che però non riporteremo qui, in quanto
l’obiettivo di questa lezione non è accertare la validità di questa disciplina, ma semplicemente aprire la
mente alla riflessione.

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“LA NASCITA DEL SÉ E LA RELAZIONE SOCIALE”

1 Premessa
L’attenzione all’età evolutiva nasce nel 1800 con Jean Jacques Rousseau.
Prima di allora tra il piccolo e l’adulto non veniva fatta alcuna differenza. I bambini lavoravano, spesso
schiavizzati, erano responsabilizzati alla stessa stregua dei genitori. L’ideologia di Rousseau stravolge negli
anni l’atteggiamento sociale relativamente all’infanzia. Questo capovolgimento politico - sociale ha dato
largo spazio a studi sull’età evolutiva.
E’ emerso così che il neonato, il bambino e poi l’adolescente differiscono dall’adulto non solo per capacità
quantitativamente ma anche qualitativamente diverse.
I nuovi atteggiamenti sociali hanno sviluppato competenze diverse: il bambino dell’800 era diverso da quello
del 900 e ancora di più da quello del 2000.
A loro volta i bambini moderni stanno cambiando l’andamento della società che si avvale sempre di più di
soggetti capaci di esprimere idee, opinioni, di avere e pretendere una dignità personale .
La psicologia sociale in ambito evolutivo dovrebbe interessarsi di come le culture sociali influenzano
l’ambiente del bambino e il bambino stesso nella sua crescita e nei suoi cambiamenti, e di come il piccolo,
crescendo, a sua a volta, condizioni lo sviluppo della società, il tutto in un ottica ricorsiva.
Il bambino nella cultura occidentale è iperprotetto i suoi diritti sono fortemente regolamentati e garantiti.
Non succede lo stesso in altre culture. Ad esempio quando Davide aveva 1 anno e mezzo circa, la sua baby-
sitter ucraina lamentò con me il fatto che non mangiasse ancora da solo. I suoi figli a quell’età avevano
questa abilità, visto che a 6 mesi dovevano essere necessariamente portati al nido.

2 Diversi modelli per lo sviluppo del Sé


I diversi approcci allo sviluppo del sé sottendono filosofie diverse rispetto all’uomo. Per alcuni l’uomo è
solo condizionato dall’ambiente. Per altri è un essere capace di esistere e sopravvivere solo all’interno di
relazioni funzionali. Il bisogno di relazione è quello di cooperazione, di armonia nell’unità che si costruisce
lavorando insieme.
a. APPROCCIO COMPORTAMENTISTA

- Il Sé è condizionabile e docile (Skinner). Il bambino cresce per opera di condizionamenti. La relazione non
è centrale come possibilità di interscambio. Gli attori di questa relazione con le loro capacità individuali non
vengono presi in nessuna considerazione.
- Lo sviluppo è prodotto da cause ambientali. Il bambino quindi è passivo rispetto ad un ambiente attivo. Se
il piccolo viene continuamente ed eccessivamente punito svilupperà un atteggiamento fobico rispetto alle
situazioni. La libertà individuale non è esaltata. Le scelte del bambino riguardano prevalentemente la ricerca
del piacere e l’evitamento del dolore (libertà limitata)
- Per la ricerca psicologica il metodo ottimale è la sperimentazione e l’osservazione con il massimo del
controllo. Il controllo è massimo perché si cerca di neutralizzare la variabile osservatore. È come se si
potesse studiare in modo oggettivo il comportamento cercando di limitare qualsiasi interferenza
dell’osservatore

I limiti dell’approccio skinneriano relativo alla psicologia sociale dello sviluppo furono evidenziati dalle
teorie di Chomsky e Piaget. Secondo il primo la creatività viene considerata come una delle caratteristiche
fondamentali del modo di usare il linguaggio: noi tendiamo a creare qualcosa di nuovo, non riducibile in
maniera meccanica alle regole grammaticali, anche se da esse, in qualche modo, "generato". La conoscenza
di una lingua è per Chomsky capacità di produrre e comprendere un numero virtualmente infinito di frasi,
cioè anche frasi nuove, mai prodotte o udite prima.
(Logical Structure of Linguistic Theory, Chicago: 1975). Piaget dimostrò che il concetto di capacità
cognitiva, e quindi di intelligenza, è strettamente legato alla capacità di adattamento all'ambiente sociale e
fisico. Ciò spinge la persona a formare strutture mentali sempre più complesse e organizzate che si
modificano negli anni. Infatti c’è una differenza tra l’intelligenza del bambino e quella dell’adulto. Lo

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sviluppo ha quindi una origine individuale e fattori esterni come l'ambiente e le interazioni sociali possono
favorire o no lo sviluppo, ma non ne sono la causa (al contrario, ad esempio, di ciò che pensa Vygotskij).
B. APPROCCIO ORGANISMICO

- Il Sé è un organismo attivo spontaneo volto alla realizzazione delle proprie potenzialità (Piaget, Vytoskij,
Werner). Neonato/bambino e mondo, interagendo costruiscono insieme la realtà (approccio costruttivista);
- Il bambino costruisce la propria esperienza grazie ad un continuo interscambio con l’ambiente. Il Sé
infantile è quindi attivo rispetto ad un ambiente attivo (libertà esaltata in base a capacità legate al momento
dello sviluppo);
- Il metodo sperimentale ottimale è dato dall’osservazione con grado moderato di controllo. Questo perché
l’osservatore non può essere neutro ma è sempre coinvolto nell’osservazione dei fatti. Due osservatori
diversi riporteranno analisi, anche se di poco tra loro diverse (ogni relazione è unica).

C. APPROCCIO PSICOANALITICO

- Il Sé simbolico è capace di attribuire significati a sé e al mondo. La crescita è l’esito di conflitti interni. Ad


esempio, il bambino intorno ai 3 anni si innamora della madre. La vuole tutta per sé e vorrebbe estromettere
da questa relazione il padre. Visto che questo non è possibile, anche perché è legato al padre, solo il
superamento di questo conflitto gli permetterà di approdare ad un rapporto più maturo ed equilibrato con
entrambi i genitori;
- Lo sviluppo è un cambiamento qualitativo che procede per stadi. Tre sono le istanze che governano la
crescita: ES o aspetto istintuale, Super-Io, cioè regole e limiti imposti dal mondo esterno; IO, come
mediatore tra bisogni istintivi e realtà esterna;
- Il metodo sperimentale di ricerca è l’osservatore col minimo di controllo e l’osservazione della relazione
osservatore osservato.

3 Un approccio della psicologia sociale allo sviluppo del Sé


Secondo Baldwin il bambino si sentirebbe inizialmente parte di un tutto più vasto rappresentato dalla cultura
sociale. La società è intesa da questo autore come un insieme di prodotti mentali e relazioni psichiche che
plagiano il bambino dalla nascita . Egli osserva numerose situazioni relativamente a varie forme di
imitazione, di suggestione, abitudine e adattamento, mediante le quali il piccolo si inserisce in una tradizione
culturale, da cui viene influenzato e che a sua volta influenzerà nell’arco della sua evoluzione.
Piaget, seguendo le orme di Baldwin, pensa che una cooperazione democratica favorisca lo sviluppo del
pensiero logico. In seguito Piaget, si concentrerà quasi esclusivamente sul modo in cui l'individuo elabora
strumenti cognitivi sempre più complessi, prescindendo dalle condizioni sociali di tali elaborazioni. La
psicologia dello sviluppo non ha assolto, nelle sue correnti dominanti, il compito che Baldwin le aveva
assegnato: specificare le varie forme di interazione sociale che permettono a un individuo di svilupparsi e di
partecipare a interazioni sempre più complesse, capaci di causare ulteriori progressi. Si spera che in futuro si
ponga rimedio.
L. S. Vygotskij, è diventato, da qualche anno, un punto di riferimento importante per la psicologia sociale
dello sviluppo. Secondo questo autore “tutte le funzioni superiori nascono come relazioni concrete tra
individui" . Se un bambino nel fare un’azione verso un oggetto, fallisce il suo comportamento, suscita una
reazione da parte della persona non dell’oggetto. Quindi, il significato primario di un tale fallimento è
sancito dalla persona, non dall’oggetto; quindi è l’altro soggetto a plasmare il modo in cui il piccolo impara
a leggere i propri comportamenti, il mondo ed il proprio rapportarsi ad esso.
Secondo una teoria sociogenetica (in Doise,’ 97) esisterebbe un rapporto ricorsivo tra regolazioni sociali e
individuali: in ogni momento dello sviluppo, sono certe competenze acquisite che consentono al piccolo di
partecipare a interazione sociali relativamente complesse, che a loro volta creano nuove competenze
individuali, che permettono nuove interazioni sociali e così all’infinito.
Ad esempio, il sorriso specifico del bambino viene corrisposto da quello della madre che porta il bambino a
sporgesi verso di lei e così via. Perché vi sia uno sviluppo cognitivo nel bambino occorre che le sue
competenze siano sostenute a più riprese da costruzioni sociali.

4 La nascita del Sé e la relazione

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Cooley (1902) riconosce che la costruzione del Sé deriva innanzitutto dalle attribuzioni che gli altri fanno su
noi stessi, introducendo il concetto del “sé visto allo specchio”; Mead (1934) sottolinea anch’egli
l’importanza delle interazioni personali nella costruzione del Sé attraverso delle generalizzazioni sulle
valutazioni che gli altri danno della persona1.
1Shavelson, Hubner, &Stanton,1976; Shavelson&Marsh, 1986
Molte le dispute sulla nascita del Sé e sue caratteristiche :
- se il bambino alla nascita sia un Sé nucleare minimante separato (Stern 1985);
- il neonato presenta un Sè simbiotico completamente inglobato nel TU materno (Maheler 1978);
- il Sé si costruisce utilizzando l’esperienza senso-motoria come precursore di quella cognitiva (Piaget 1968);
- sono le esperienze sociali ad essere precursori di quelle intrapsichiche (Vjgotskj 1974);
- le esperienze sociali sono un bisogno innato del lattante (etologi…..)

Stern vuole salvare il concetto di identità del neonato all’interno della relazione, quindi il suo essere molto
precocemente un elemento attivo nella formazione del Sé (Sé agente). Sembra inoltre volere porre un’enfasi
maggiore sullo sviluppo olistico rispetto a quello associazionistico.
Piaget, dal canto suo, in una visone costruttivista, cerca di focalizzare l’importanza delle parti che creano
strutture superiori emergenti. Dà una particolare enfasi allo sviluppo neuropsicologico a cui l’ambiente fa da
supporto, ma è attore secondario.
Gli psicoanalisti delle relazioni oggettuali vogliono evidenziare il fatto che il bambino nasca all’interno di
una relazione, dove è la capacità intersoggettiva della madre a porre le basi per quella del bambino.
Gli etologi pongono l’accento su alcuni bisogni innati che, come quello di accudimento, se soddisfatti,
creerebbero una base sicura per lo sviluppo psicologico del bambino, ovvero la sicurezza del Sé.
Volendo provare una sintesi tra tutte queste teorie , potremmo dire che il Sè alla nascita esiste nel senso di
unità minima molto dipendente dall’ambiente. Tale unità è prevalentemente formata da comportamenti innati
di tipo riflesso. Questo Sè è molto diverso dal Sé umano che diventerà negli anni successivi. Ci vorranno 5/6
anni perchè il Sè del bambino arrivi a sviluppare, anche se in modo limitato, un po’ tutte le potenzialità di un
Sè umano.
A. TRA GENETICA E AMBIENTE
Sembra che il bambino abbia la capacità innata di cogliere unità, ma che le unità elementari siano solo
piccolissimi frammenti di realtà. Infatti, da studi condotti su neonati sembra che questi siano in grado di
riconoscere i visi rispetto a figure non strutturate; il neonato ha la possibilità di complessificare tali unità
minime2. La capacità di cominciare a creare strutture di conoscenza più complesse e stabilizzare quelle
semplici dipende molto dall’interazione sociale del neonato.
2 A tre mesi e mezzo secondo alcuni studi condotti da Haith, Hazan e Goodman (1988) il neonato sarebbe
capace di agire sulla base di schemi organizzati, cioè scoprire regolarità in una serie spazio temporale e
sviluppare aspettative anche quando quelle azioni non hanno effetto sugli eventi stimolo.
3 Flavel, 1997
Il piccolo alla nascita coglie piccoli frammenti/unità, come gli occhi della madre, la voce della madre, ecc.
Ha la capacità di rappresentarsi delle immagini3. Sono, perciò, unità molto elementari. All’inizio la
conoscenza è molto ridotta e il neonato impiegherà del tempo perché le unità più elementari si trasformino in
quelle più complesse. Il tempo da solo è una condizione necessaria ma non sufficiente, in quanto è anche il
tipo di esperienza con le figure di riferimento e con l’ambiente in genere a condizionare il tipo di sviluppo
delle strutture elementari innate che si complessificano. Ciò che questo piccolo Sé sarà da adulto è dato
dall’insieme di conoscenze innate e apprese. Sebbene il neonato abbia una potenzialità genetica indiscussa,
molte di quello che svilupperà dipende dall’esperienza con il contesto sociale, molti studi comprovano
questa affermazione . Il neonato possiede, a livello genetico, tutte le potenzialità dei livelli psichici quali
pensiero, emozioni sensazioni e motricità, ma il loro sviluppo dipende dall’ambiente sia familiare che
sociale. Ad esempio, il bambino possiede la capacità di percepire un oggetto, di coglierlo in modo
approssimativo nelle sue parti non ordinate e, per piccoli frammenti, ma solo se giustamente stimolato
imparerà ad afferrarlo, se eliminiamo dal suo spazio tutti gli oggetti, imparerà poco, se eliminiamo le figure
di riferimento, che sostengono continuamente i suoi gesti lo sviluppo sarà limitato.
Per lo sviluppo umano, a seconda dei momenti storici si è data più enfasi al condizionamento biologico o
ambientale. Oggi si tende a sostenere la teoria dei tre fattori: modello bio-psico sociale, secondo il quale lo

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sviluppo umano è condizionato biologicamente, ma anche fortemente dalla storia personale e dall’ambiente
sociale in cui cresce.

5 L’ importanza della relazione sociale per lo sviluppo del Sé


Per tutti i modelli che studiano lo sviluppo del Sé non è possibile considerare tale sviluppo se non all’interno
di una relazione familiare e sociale.
U. Bronfenbrenner definisce ecologia dello sviluppo umano lo studio dell’adattamento continuo reciproco tra
l’essere umano e l’ambiente in cui vive. Per ambiente questo autore non intende solo l’ambente più
prossimo, quale la famiglia, ma anche contesti più ampi, come famiglia allargata e società. Non solo la
relazione tra i genitori condiziona lo sviluppo del bambino ma anche la relazione che questi hanno con i
propri genitori e quest’ultimi con il contesto sociale. Ci sono adulti molto dipendenti dalle proprie famiglie
d’origine. In questo caso, i nonni hanno un potere diretto sui genitori. Allo stesso modo ci sono persone
molto dipendenti dal contesto nel quale vivono, si sentono continuamente giudicati, lasciandosi invadere da
tutti, vicini e amici. Il bambino, in questo caso, si sente in balia del mondo, poco protetto. Altre persone,
invece, non hanno una rete di amicizie, in questo caso il piccolo, vive esperienze limitate, non può
confrontarsi con il diverso.
Bronfenbrenner definisce “ecosistema” l’insieme delle situazioni ambientali che agiscono direttamente sullo
sviluppo umano.
L’autore identifica diversi tipi di ecosistemi: microsistema, mesosistema, esosistema e macrosistema .
IL MICROSISTEMA
Un esempio di microsistema é la famiglia, dove ogni persona ha un suolo. Un altro microsistema è ad
esempio l’asilo nido.
IL MESOSISTEMA
Rappresenta la interrelazione tra due o più situazioni ambientali alle quali l’individuo in via di sviluppo
partecipa: per un bambino è rappresentato dalle relazioni tra famiglia, scuola e gruppo dei pari. Per un
adulto, dalla relazione tra ambiente familiare, lavorativo e sociale (amici).
L’ESOSISTEMA
Riguarda la relazione indiretta tra alcune situazioni ambientali e il bambino/individuo. Ad esempio, la
situazione lavorativa dei genitori e le relazioni all’interno di questa possono influire sul bambino. Ad
esempio un genitore che lavora molto ed ha quindi poco tempo da dedicare ai figli.
IL MACROSISTEMA
È rappresentato dalle varie situazioni sociali , credenze e ideologie che sono l’espressione del tipo di società
in cui vive il bambino o l’adulto.
A. COME LA FAMIGLIA E IL CONTESTO SOCIALE INFLUENZANO LO SVILUPPO DEL SÈ

Sviluppo del Sé e personalità dei genitori


Lo sviluppo del neonato risente degli stati cognitivi ed emotivi dei genitori e in modo particolare delle
aspettative che questi riversano su di lui. I tratti caratteriali di mamma e papà sviluppano atteggiamenti di
dipendenza o autonomia nel piccolo, al di là della cultura di appartenenza. Sempre declinati con la struttura
di personalità dei genitori. Ad esempio, ci sono genitori molto bravi a gestire la dipendenza, ma con molti
problemi a confrontarsi con l’autonomia. In questo caso i momenti della crescita, che necessitano di estrema
dipendenza come il primo anno di vita, potrebbero svilupparsi adeguatamente, ma dal secondo anno in poi,
quando c’è bisogno di iniziare a conquistarsi l’autonomia, la coppia bambino/ genitore potrebbe trovarsi in
difficoltà. Ricordo una mia paziente che aveva molta difficoltà a fare sperimentare autonomamente il figlio;
A un anno, questo bambino non sapeva gattonare e a 15 mesi non camminava. Questo atteggiamento troppo
apprensivo della madre, che lo assecondava in ogni richiesta, stavano creando un ritardo motorio. Il mio
intervento sbloccò la situazione. A tre anni questo bambino era vivacissimo e a scuola era considerato uno
dei più intelligenti.
Da alcuni studi si è visto che le aspettative dei genitori influenzano lo sviluppo del bambino. Se, ad esempio,
un genitore è molto centrato sullo sviluppo delle capacità cognitive, molto probabilmente il figlio parlerà
presto e bene, guarderà la Tv già a un anno e, quando intorno ai tre anni comincerà a ragionare, lo farà
adeguatamente. Se, al contrario, il genitore è più attratto dallo sviluppo fantastico-emotivo, ritenendo che un
bambino debba ragionare di meno, il figlio giocherà di più, muovendosi, sarà più creativo, ecc. Le

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aspettative dei genitori dovrebbero tenere conto anche delle predisposizioni innate del piccolo per non crear
dentro di lui un eccessivo conflitto.
Problemi trans-generazionali
A volte possono nascere conflitti tra relazione familiare e contesto sociale allargato per problemi trans-
generazionali, laddove le diverse generazioni sono portatrici di valori diversi. A partire dagli anni 50, negli
stati Uniti e in Europa si è verificato un cambiamento di atteggiamento pedagogico. Secondo un approccio
umanistico, il bambino doveva crescere spontaneamente (vedi metodo Montessori), in quanto avrebbe avuto
una naturale propensione a trovare soluzioni utili allo sviluppo delle sue potenzialità. Educazioni troppo
restrittive ne avrebbero solo danneggiato l’aspetto creativo. Ovviamente questa visione pedagogica urtava
notevolmente contro le mentalità precedenti molto più rigide nell’impartire guide educative. Io stessa potevo
verificare la diversità di aspettative tra me ed i miei genitori rispetto a mio figlio: se lo prendevo troppo in
braccio mi accusavano di viziarlo, se lo sfamavo finchè lui voleva lo avrei fatto deperire e così via.
Quando il bambino è più grande diviene più autonomo rispetto al primo anno di vita; ora il contesto rimane
significativo con modalità diverse. Intorno ai 20 mesi, a causa dello sviluppo del pensiero riflessivo (si
riconosce allo specchio = scissione del Sé in soggetto e oggetto, cioè io osservo le mie stesse azioni e so che
mi appartengono), il bambino si rende più conto della complessità della realtà: ad esempio capisce che il
genitore non è sempre presente come lui vorrebbe, come lo è stato, in modo onnipotente, nel primo anno di
vita. Quando Davide aveva circa venti mesi e si presentò il fatale momento della paura, sentivo che il
bambino veniva continuamente deriso dai miei genitori. Mi sentivo dispiaciuta per lui, avrei voluto
proteggerlo, ma a nulla valsero i miei tentativi di spiegare loro che è normale, in quella fase dello sviluppo,
essere spaventati di tutto. I miei genitori continuavano a deriderlo ogni volta che il bambino mostrava paura.
Notai che mio figlio prese un po’ distanza da loro e questa cosa servì per sottolineare un altro limite: era
antipatico, a differenza del cuginetto sempre affettuoso e simpatico. La cosa per circa un mese mi turbò
molto, e a nulla servirono le mie razionalizzazioni sul fatto che è giusto che un bambino si scontri con realtà
diverse. Ancora una volta c’era uno scontro trans- generazionale: la generazione precedente tendeva a
controllare le emozioni, in modo particolare la paura in un maschietto. Noi post-sessantottini eravamo invece
innamorati della spontaneità. Questo diverso atteggiamento rispetto al vissuto emotivo tra due generazioni
comportava giudizi e comportamenti assolutamente diversi rispetto allo stesso vissuto del bambino. Stessa
sorte, purtroppo, toccò ad Emanuele, il figlio di mia sorella di 7 mesi più piccolo di Davide, quando,
avvicinandosi ai due anni, iniziò ad avere paura di tutto.
Problemi trans-culturali
Si è per molto tempo studiato il rapporto madre/figlio. Senza voler negare la massima importanza a questa
relazione per lo sviluppo del bambino, è necessario notare che il mondo di questi è arricchito anche da altre
presenze: padre, nonni, baby-sitter, amici intimi, e, negli ambienti rurali, anche dal vicinato. Oggi televisione
e internet partecipano significativamente a questo sviluppo di relazioni sociali.
Il bambino si trova quasi immediatamente a dovere fare riferimento e confrontarsi con personalità diverse
che hanno aspettative diverse, a volte con culture diverse. Quando mio figlio aveva un anno cambiai la baby-
sitter filippina con un’altra ucraina. Tra l’una e l’altra ospitai per un mese una baby- sitter indiana. Un giorno
trovai Davide solo nella sua stanzetta che a momenti si impiccava. Spaventatissima corsi dalla ragazza
chiedendole di non lasciare solo il bambino. Lei molto semplicemente mi rispose, con fare rassegnato, che
suo fratello era morto annegato in una piscinetta a casa, a tre anni. Non era risentita, per la sua cultura “i
bambini li guarda il cielo”, queste cose possono accadere, fa parte della vita. Questo tipo di atteggiamento
per noi occidentali è inaccettabile. Consapevole che la ragazza fosse assolutamente in buona fede, ma che i
nostri valori erano toppo distanti, decisi di cambiare baby-sitter.
Mentre la donna filippina tendeva ad adattarsi al bambino, senza spingerlo né stimolarlo troppo, la nuova
baby-sitter ucraina era molto esigente: a un anno e mezzo i bambini devono mangiare da soli, non devono
portare il pannolino. La cultura sovietica, nella quale si era formata, impartiva un’educazione più severa
della società filippina molto più delicata e accomodante.
E’ evidente che culture così diverse condizionino diversamente l’andamento della crescita dei bambini.
Studiarne le conseguenze dovrebbe essere uno degli obiettivi della psicologia sociale. Questo
approfondimento potrebbe migliorare i nostri progetti educativi complessificandoli.
Il neonato, anche per povertà di capacità, predilige relazioni duali. Non dimentichiamo, però, che contesto
allargato non significa solo rapporto tra madre e bambino, ma anche tra madre e i punti di riferimento di
questa che indirettamente ricadono sul bambino.

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B. UN ATTEGGIAMENTO EQUILIBRATO DA PARTE DEI GENITORI PER LO SVILUPPO
FUNZIONALE DEL BAMBINO

Esiste un temperamento di base della persona che verrà strutturato sulla base di capacità innate e apprese.
Come abbiamo visto ogni temperamento è in parte condizionato geneticamente ma anche rinforzato
positivamente o negativamente dal contesto. Così, un bambino con un temperamento mite potrebbe essere
stimolato in modo tale da potenziarlo o ridurlo. Allo stesso modo, un neonato con temperamento esuberante
potrebbe essere bloccato. Se si iperstimola un temperamento mite o si blocca troppo un temperamento
esuberante, si potrebbero avere importanti disfunzioni nello sviluppo del Sè accompagnate da sofferenza.
Se lo sviluppo è funzionale il neonato strutturerà i propri comportamenti e bisogni in modo adeguato,
congruentemente con il proprio temperamento di base.
La forza del Sé, quindi, è data da un temperamento di base che si strutturerà positivamente in un ambiente
favorevole. Se l’integrazione è armoniosa avremo un Sé forte. Un prevalere di energia incapace di
strutturarsi in bisogni e comportamenti finalizzati darà un certo tipo di disfunzione sul versante di una
personalità poco organizzata nei bisogni e comportamenti. Al contrario, un’energia bloccata, significherà
comportamenti e bisogni rigidi e vuoti, poco intensi.
C. COSA SI INTENDE PER BUONA RELAZIONE CHE RENDE UN SÉ FORTE

Si definisce buona, una relazione quando permette lo sviluppo integrato di tutte le parti del Sè, quindi, del
pensiero, emozioni, sensazioni motricità nonché la capacità di essere liberi e responsabili
Un atteggiamento pedagogico tollerante
Il piccolo vive in un mondo imperfetto con genitori imperfetti. Sbagliano, quindi, quei genitori che sono
disinteressati ai figli, ma sbagliano anche coloro i quali pretendono da se stessi un interesse perfetto e
costante. Noi ci auguriamo di essere attenti e presenti, ma anche tolleranti relativamente ai moltissimi errori
che facciamo con i nostri piccoli. Come madre, mi piace essere attenta, mi piace rimediare quando ho fatto
male in un modo non costruttivo a mio figlio per la sua crescita, ma qualche volta mi piace anche, rispettare
la mia stanchezza e la mia voglia di fare per quello che so, anche quando questo non perfetto o come credo di
dover fare.
Questa premessa, mi auguro, sgombri la via a quegli enormi sensi di colpa che genitori con bambini
problematici spesso si portano dietro; anzi, mi piacerebbe mettere a fuoco qualcosa che, evitando inutili
vissuti disperanti, possa aiutare tutti a porre dei rimedi funzionali. Un genitore che ha appena vissuto un lutto
devastante, oppure uno che a sua volta ha avuto un’infanzia difficile e tormentata, indubbiamente, si pone
rispetto al neonato con un atteggiamento senso-motorio di tensione, emotivo di angoscia come insieme di
tristezza paura e rabbia, e al livello fantastico, si presume, con pensieri non positivi. Molto probabilmente, il
contatto fisico di questo genitore con il suo bambino sarà poco sereno, carico di angoscia e
fantasmaticamente negativo; cioè le fantasie rispetto alla vita, alla maternità o paternità potrebbero essere
buie. Il bambino simbiotico, del primo anno, vive un modello relazionale molto frustrante. Non possiamo
parlare di colpe, visto che il genitore in questione, molto probabilmente, non è consapevole di quanto agisce.
Ciò non esclude, però, che il suo comportamento, seppure inconsapevole, generi dei danni. Per tale ragione,
quando vi accorgete che il piccolo manifesta dei disagi, cercate di farvi aiutare.
Alcuni disagi della prima infanzia, non sono dovuti ad un atteggiamento negativo da parte dei genitori, al
contrario, questo comportamento disfunzionale sembrerebbe secondario a problematiche fisiologiche del
bambino. Se, infatti, il neonato ha un problema organico, non ben diagnosticato, è nervoso ed irascibile.
Questa volta è il suo nervosismo ad innescare quello della madre o del padre, che, provandole tutte e non
riuscendo a risolvere il problema, corrono il rischio di agitarsi o deprimersi.
Se a livello sociale si vive un momento di recessione economica, come quello attuale, la perdita del lavoro di
un genitore oppure l’allontanamento di questi per andare a guadagnare altrove, creano indubbi stati di
tensione all’interno del nucleo familiare che si ripercuotono sul bambino
Quindi volte è l’ambiente a creare problemi ai bambini altri il bambino a creare tensione all’ambiente.
Piccole regole per un comportamento pedagogico adeguato
Un comportamento pedagogico adeguato richiede:
- Abbastanza coerenza tra e diverse figure che se ne prendono cura a partire dal padre e dalla madre
- alternanza tra lasciarlo libero e proteggerlo

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- buona capacità ematica che significa comprendere il bambino nelle sue esigenze declinando gratificazione
frustrazione in modo adeguato all’età
- equilibrio tra frustrazione e gratificazione

- Non solo la madre ma l’intero contesto nel quale è inserito il bambino, integrandosi, possono permettere
uno sviluppo sano o disfunzionale. Questo non significa che dobbiamo aspettarci che tutte le parti del
contesto siano sempre d’accordo, perché non aiuteremmo il bambino a sopportare la frustrazione di non
essere capito, cosa questa normale nella nostra vita quotidiana. Ci auguriamo, però, che le diversità non siano
così estreme da non permettere al bambino di trovare soluzioni creative, possibilmente anche con il supporto
di noi genitori. Speriamo che il piccolo non rimanga imprigionato in messaggi eccessivamente contraddittori,
che creando confusione, sia a livello emotivo che cognitivo, con genitori non capaci di trovare una sintesi, lo
paralizzino nella crescita;
- E’ importante un’alternanza armoniosa tra attenzione e lasciarlo libero di esplorare gli consentono di
confrontarsi continuamente con l’ambiente. I limiti che questo propone, lo aiutano a differenziarsi sempre
meglio. Se la madre è troppo preoccupata dell’autonomia imprigiona il bambino nell’ignoranza. Se poco
preoccupata della dipendenza lo lascia in balia di se stesso. Questi si terrorizza e si blocca.
- Il genitore empatico permette una crescita normale e favorisce lo sviluppo dell’empatia. Questo
atteggiamento presuppone due cose: che il bambino sia visto e accudito nei suoi bisogni a partire dalle prime
esperienze senso-motoria a seguire; che un genitore faccia da modello, interagendo con il piccolo lui in
modo adeguato all’età e, quindi, alle sue esigenze e competenze. Solo un adulto capace di empatia può
insegnarla ad un bambino, questi infatti impara per imitazione. Capire non significa fare sempre vincere.
Solo un alternanza armoniosa tra gratificazione e frustrazione aiutano per una crescita sana.
- Un buon genitore è capace di declinare gratificazione e frustrazione. Bisogna tener conto del grado di
frustrazione tollerabile relativamente alle capacità di sviluppo raggiunte. E’ anche importante non aggiungere
una frustrazione quando ce ne è già in atto un’ altra. Ciò evita che un accumulo eccessivo di dolore, invece di
tradursi in apprendimento della capacità di sopportazione della sensazione spiacevole, diventi agitazione
incontrollata non funzionale alla capacità di gestire i limiti. Se un genitore lascia piangere a lungo un neonato
affamato, non lo sta abituando alla frustrazione, cioè alla capacità di differire il bisogno di qualche minuto,
lasciandolo, però intatto. Questo genitore sta semplicemente uccidendo il bisogno del bambino. Un buon
genitore è anche colui che sa dare limiti che tengano conto della maturità raggiunta e nello stesso tempo la
spingano un po’ più avanti.
La capacità di gestire la frustrazione e la gratificazione è un apprendimento molto importante. Il bambino
può vivere con eccitazione eccessiva la gratificazione sfociando in un senso di onnipotenza che non lo aiuta
a relazionarsi ai limiti. La frustrazione, invece, può essere così angosciante da sopraffarlo. Nella paralisi non
costruisce un’identità. Se la madre gratifica al punto giusto evita l’onnipotenza; se contiene l’angoscia aiuta
il bambino a superarla. Quando il bambino supera l’angoscia sta imparando ad affrontare i problemi con i
loro disagi; quando contiene l’eccitazione sta imparando a immedesimarsi nella realtà con i suoi limiti.

“LA PRIMA INFANZIA E LA RELAZIONE SOCIALE”

1 Il Sé prenatale e alla nascita


Il mondo sociale del neonato è molto ridotto. Egli è capace di relazione duale e solo intorno ai 4 mesi
comincia a essere capace di avere interazioni a tre. La cultura di appartenenza incide sul progetto educativo
materno; in questa primissima fase della vita, molti dei comportamenti interpersonali sono dettati da
esigenze innate, da limiti nelle abilità. Le risposte materne sono importantissime nel condizionare lo sviluppo
senso motorio, emotivo e cognitivo del neonato.
Diversi studi hanno evidenziato il fatto che, già nei primissimi mesi, il neonato sia già un essere sociale, cioè
alla ricerca di relazioni.
A) IL SÉ PRE-NATALE
LO SVILUPPO NEUROPSICOLOGICO
II neonato presenta un sistema nervoso non solo quantitativamente ma anche qualitativamente diverso da
quello di un adulto. Esiste una maturità ridotta dei sensi, della motricità, affettività e cognizioni.

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Lo sviluppo prenatale. Il piccolo già nel grembo materno sembrerebbe sensibile al contesto. In qualche
modo, gli ultimi studi parlerebbero di un feto-sociale. Il feto sviluppa, dopo circa tre settimane, il midollo
spinale, il cui compito è quello di mediare le risposte riflesse. Subito dopo, inizia a formarsi l’encefalo. A
circa sette settimane dalla fecondazione si forma il prosencefalo da cui si formeranno gli emisferi cerebrali, l
’85% del peso cerebrale. Le ultime ricerche, quindi, evidenzierebbero che il feto riceve numerose
stimolazioni e che queste siano funzionali al suo sviluppo1. Già a ventotto settimane circa, il feto
sembrerebbe in grado di discriminare odori, sapori, suoni, luminosità2. La sensibilità tattile sarebbe invece
presente fin dall’inizio della vita fetale. Ciò è ulteriormente confermato dal fatto che alla nascita il neonato
preferisce il suono della voce materna, attutito, come nella vita intrauterina, a quello di altri3. Il neonato di
quattro giorni si orienta preferibilmente verso l’odore del liquido amniotico rispetto a quello del latte
artificiale4.
2 Il primo anno di vita e il mondo sociale
Il primo anno di vita è un momento di fondamentale importanza per lo sviluppo globale del Sé umano.
L’assenza del linguaggio verbale e il fatto che il pensiero sia ancora poco evoluto fanno dell’esperienza
senso-motoria quella più significativa per lo sviluppo globale del bambino. E’ il corpo del bambino che
interagisce con il corpo degli altri. La conoscenza è prevalentemente affidata ai sensi.
2.1. La memoria somatica
C’è una credenza molto pericolosa da sfatare, quella secondo cui il primo anno di vita non sia molto
significativo per lo sviluppo della persona, perché tanto il piccolo non “capisce nulla”.
Attenzione a questo “non capisce nulla”: la memoria di questo periodo non è legata al pensiero ma al corpo.
E’, quindi, una memoria molto più potente, nel senso che il piacere e il dolore, non sono ricordati, ma
incarnati. Se troppo spaventato, il bambino assumerà posture di tensione e respiro bloccato. Questa memoria
senso-motoria è molto più difficile da modificare perché i nostri vissuti esperienziali si scrivono nei nostri
muscoli e nelle viscere, non nei nostri pensieri . In questo senso, il bambino, nel primo anno di vita, sarebbe
un bambino sociale, poco cognitivo ma molto senso-motorio. Respira come la madre, è teso e rilassato come
le sue figure di riferimento, molto di più di un adulto.
2.2. Il cervello alla nascita
La cosa interessante è che il cervello di un feto e un neonato hanno un numero notevole di neuroni e assoni
in più, rispetto a quello di un bambino più grande . Questo potrebbe spiegare gli effetti dell’ambiente sul
cervello. Sulla base dell’esperienza vengono eliminati i circuiti non utilizzati. E’ come se avessimo una
potenzialità maggiore di quella che esprimiamo. Più l’ambiente crea stimoli più i circuiti si stabilizzano. Il
sovrappiù neuronale, alla nascita, non consente funzioni altamente differenziate. Ad esempio, si è visto che
la visione nel neonato è altamente sfuocata; la crescente selettività dipenderà dalle potature dei neuroni in
sovranumero, che permetterà la formazione di circuiti specifici. Quindi, esisterebbe una moltitudine non
specializzata, che aspetterebbe di essere indirizzata, pena il consolidamento di funzioni approssimative e
poco precise.
Queste ricerche evidenziano come la cultura sociale possa dirigere molte delle abilità che andremo poi a
sviluppare.
La migrazione dei neuroni nel feto avviene ad ondate. Si formano prima gli strati più interni della corteccia
e poi quelli più esterni. La formazione dei neuroni è un processo molto delicato suscettibile a fattori
ambientali. Così, le madri che assumono molto alcool possono danneggiare la formazione del cervello del
feto.
A proposito dell’influenza dell’ambiente sullo sviluppo cerebrale, mi viene in mente ciò che diceva mia
nonna e che allora mi sembrava strano. Lei, che è vissuta cento anni, (1906-2006), spesso diceva, che i
bambini di oggi, già alla nascita, sono diversi. Osservava che, ai suoi tempi, essi apparivano “più
addormentati, meno intelligenti”; i nostri bambini, invece, sono già vivaci, sostenendo che nascessero già
“maliziosi”. Alla luce delle nuove scoperte, sento di poter ipotizzare che le osservazioni di mia nonna
potessero essere giuste: probabilmente, i feti ed i neonati di oggi, più stimolati di quelli di una volta, sono più
reattivi, quindi, evidentemente più vivaci. Non dimentichiamo che, fino agli anni 60, i neonati venivano
fasciati in modo tale che non potessero muovere le gambe! Gli studi di Piaget ed altri ricercatori dell’età
evolutiva hanno dimostrato che la prima forma di intelligenza è quella motoria e che questa condiziona
quella cognitiva. Il bambino moderno, forse, è più intelligente, come giustamente notava mia nonna, perché,
tra le altre cose, può muoversi di più.

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Lo sviluppo della zona limbica e della corteccia cerebrale. Il neurologo H. Chugani (1998), mediante la
misurazione del metabolismo degli zuccheri effettuato con la PET, aveva rilevato che, nel neonato, il
metabolismo degli zuccheri era più elevato nella Corteccia senso-motoria e nel Talamo (adibito alla
sensibilità grossolana), insieme all’ Ippocampo implicato nei processi di memorizzazione. Solo intorno ai tre
mesi aumenterebbe il metabolismo del glucosio nella Corteccia
Temporale, Occipitale e Parietale, utili allo sviluppo della funzione visiva, nel Cervelletto e Gangli della
Base, adibiti agli automatismi motori. Solo tra i sei e i dodici mesi, il metabolismo degli zuccheri
aumenterebbe nella Corteccia Frontale, devoluta alle funzioni cognitive più complesse.
Studi effettuati con la Risonanza Magnetica hanno evidenziato che le zone di Sostanza Bianca
aumenterebbero non in tutte le zone negli stessi tempi. La Sostanza Bianca, rispetto alla Grigia,
perfezionerebbe il calibraggio cerebrale (maggiore mielinizzazione). La mielinizzazione dell’encefalo giunge
a maturazione intorno ai diciotto anni. Per alcune aree dei lobi frontali si arriva a circa ventidue anni (Giedd
e coll. 1999). Sembra infatti che nei bambini l’impulsività sia dovuta ad uno sviluppo non ancora adeguato
della corteccia frontale, funzionale al loro controllo.
2.3. L’esperienza seno-motoria in una relazione positiva per uno sviluppo globale sano
L’esperienza senso-motoria sembra essere la più significativa nel periodo neonatale. Essa condiziona lo
sviluppo dell’intelligenza emotiva e cognitiva. Non nel senso che le seconde si sviluppino dalla prima;
infatti, ognuna delle tre ha una propria autonomia. Esiste, però, un condizionamento reciproco, che vede
l’esperienza senso-motoria all’interno della relazione, nelle primissime fasi della vita, come il livello capace
di dare una connotazione positiva e negativa a tutta l’esperienza del neonato. Questa caratterizzazione
“piacevole-spiacevole”, determinata dalle primissime esperienze somatiche, condiziona lo sviluppo
corporeo, emotivo, fantastico e cognitivo, a livello intrapsichico e interpersonale.
Non esiste sviluppo sano, se non all’interno di una relazione sana. Nel neonato, probabilmente, esiste
un’aspettativa innata di percezioni serene e calde, che non sono ancora pensieri, cui si lega il piacere. Queste
percezioni si integrano con l’aspetto della sensibilità muscolare (propriocezione). La percezione di un viso
rilassato e di un tono di voce sereno, combinate con l’esperienza di un contatto con un corpo normalmente
tonico e forte, aiutano il bambino a riprodurre un tono muscolare simile e gli permettono di costruire
rappresentazioni mentali della madre positive: il volto della madre percepito visivamente si lega ad
un’esperienza di piacere.
Allo stesso modo, quando il neonato è affamato e piange, se la madre arriva sufficientemente in tempo, il
piccolo fa un’esperienza positiva di gratificazione. Se al contrario la mamma tarda eccessivamente il
bambino si dispera, poi si deprime. La tensione conseguente ad una continua frustrazione darà luogo ad un
atteggiamento somatico costantemente teso. Troveremo un corpo in relazione sempre in tensione. Un po’ più
grandicello, quando dovrà afferrare e poi gattonare, la tensione corporea nata nei mesi precedenti, non
permetterà ai muscoli di muoversi agilmente, sia quando inizierà ad afferrare, che scalciare e poi camminare.
Questi bambini avranno poca sensibilità corporea, quindi urteranno facilmente, si faranno male, non perché
siano distratti ma perché hanno sviluppato una tensione cronica che non permette alla sensibilità interna di
rendere fluidi e armonici i movimenti. La poca agilità nei primissimi mesi rende impacciata l’esplorazione. Il
bambino in questo periodo impara esplorando soprattutto con i sensi, guarda, prende, porta alla bocca, ecc.
Questa esplorazione permette la conoscenza del mondo, quindi, la formazione dei primi concetti. E’ evidente
che a causa di una tensione corporea eccessiva potrebbe essere bloccata l’esplorazione, quindi, anche la
formazione del pensiero razionale seguirebbe strade diverse.
Una madre/genitore eccessivamente frustrante, oltre a creare schemi senso-motori rigidi, alimenterebbe,
probabilmente, nel bambino sentimenti di paura e di rabbia. Il bambino potrebbe essere, a sua volta, molto
nervoso e aggressivo. Si suppone che una madre di questo tipo non sappia contenere tale agitazione, per cui
può diventare o più aggressiva o più assente; il bambino, a sua volta, potrebbe essere sempre più agitato e,
probabilmente, sul piano emotivo, ma anche cognitivo, potrebbe manifestare due diversi comportamenti: a)
inibire i bisogni e quindi le emozioni e i pensieri piacevoli ad esso collegati; b) essere sopraffatto da
emozioni e pensieri troppo distruttivi. Nell’uno e nell’altro caso i pensieri e le emozioni, o per cattiva
capacità di contenimento o perché bloccati, sono disfunzionali. La prima modalità reca al bambino molto
dolore; la seconda lo rende spento e poco reattivo.
Quindi, il passaggio da un movimento semplice ad uno più complesso richiede, già in un’età precoce, il
miglioramento del trofismo e del tono muscolare, nonché della sensibilità interna ed esterna, che aiutano il
neonato negli accomodamenti tra sistema muscolare e ambiente. Allo stesso modo, un buon funzionamento

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dinamico facilita la crescita e l’elasticità muscolare. Quando questo sistema di funzionamento a feedback si
interrompe in qualche punto, tutto il comportamento motorio subisce un danno. Man mano che il bambino
cresce, le strategie motorie di comportamento vengono integrate con le strategie cognitive di evitamento di
situazioni pericolose. Più il bambino è dinamico nei movimenti, più ha la necessità, per salvaguardarsi, di
mettere in atto strategie cognitivo-motorie per evitare situazioni pericolose.
Un’alternanza armoniosa, in cui la gratificazione sia superiore alla frustrazione, aiuta il bambino a
stabilizzare gli schemi senso motori delle emozioni, la qual cosa consente un’espressione e un controllo
emotivo. Tensione e rilassamento, se armonizzati, permettono movimenti elastici. Più sa muoversi, più ha
voglia di muoversi. Quindi, il piccolo ha molte più possibilità di trasformare la sua esperienza senso-motoria
(percezioni) in pensieri figurativi (concetti). Questi, a loro volta, lo eccitano, spingendolo ad esplorare di più.
In questa esplorazione il piccolo prova tutte le emozioni legate alla frustrazione (paura, tristezza e rabbia).
Tale processo ricorsivo permette la complessificazione delle strutture iniziali minime e frammentate. Al
contrario, se la relazione è troppo frustrane, il rischio è che si inneschi una ricorsività negativa che influisce
sulla crescita globale del bambino.
Ecco un esempio per chiarire quanto finora detto. Mio figlio intorno agli otto mesi e mezzo camminava
poggiandosi lungo il divano. Mio marito aveva spostato la pianta più in là in modo che non fosse
raggiungibile, visto che il bambino la rompeva. Davide, arrivato alla sponda estrema del divano, cercava di
raggiungere il suo obiettivo, allungando prima un braccio e poi l’altro. Nel fare questo e, trovando quindi il
modo di avvicinarsi di più, fece un piccolo saltello, riuscendo ad afferrare il bordo del vaso. Mi aveva colpito
la strategia per tentativi ed errori con cui si era avvicinato alla pianta, fino al punto in cui aveva potuto
valutare che la distanza spaziale, combinata con la sua capacità motoria, gli permetteva di fare un piccolo
salto senza cadere. Oltre ad una buona capacità di organizzare i suoi muscoli nel tempo e nello spazio,
Davide aveva una paura realistica che non lo portava a buttarsi, ma a sperimentare il movimento giusto, per
raggiungere lo scopo senza farsi male. In questo accomodamento motorio si evidenzia anche un tentativo di
strategia cognitiva, cioè la capacità, vedendo (vista) e sentendo (tatto), di valutare la distanza e capire se
poteva raggiungere o meno il suo obiettivo. Qualche giorno dopo, notai che la stessa cosa veniva fatta con
una strategia diversa, più complessa e meno rischiosa. Aveva smesso di camminare appoggiandosi e aveva
preso a gattonare per raggiungere il vaso. Una volta raggiunto lo scopo, si era rialzato e aveva preso a
impasticciare con la terra, soddisfatto. Era riuscito ad integrare due movimenti, quindi, più schemi motori e
cognitivi.
L’agilità fisica e mentale richiedono una buona fiducia in sé, quindi, la capacità di gestire la paura, legata alla
sperimentazione di cose nuove. Una paura realistica, che rende il bambino prudente, è giusta. Avere
sperimentato con successo un strategia motoria lo aveva eccitato e reso più sicuro predisponendolo a
riprovarci.
La prima volta che Davide si cimentò in questa esperienza era presente anche mio padre, che, preoccupato,
corse per aiutarlo. Lo fermai, rassicurandolo del fatto che ero a pochi centimetri per intervenire, ma che,
nello stesso tempo, era importante lasciarlo sperimentare. Essere presenti, con attenzione, è giusto, facilitare
troppo, invece, significa impedire al bambino di fare esperienza e, quindi, di sforzarsi per trovare strategie
corporeo-cognitive minime, che rappresentino il punto di partenza per lo sviluppo dell’intelligenza globale
più complessa.
2.4. Alcuni studi sul neonato e le sue relazioni sociali
Il bisogno di relazione sembra innato. Da esperimenti condotti, si è visto che intorno alle 6 settimane cambia
il modo di piangere del neonato che diviene più modulato da fattori ambientali5. Alla nascita il Sé è
organizzato prevalentemente secondo comportamenti istintivi- riflessi, ma tali atteggiamenti rispondono già
ad un’esigenza relazionale: i bambini cercano il seno, rivolgono lo sguardo, hanno aspettative ecc. L’altro
comunque non è molto differenziato da se stesso.
Oltre che volti umani, i neonati prefersicono i volti con gli occhi aperti rispetto a quelli con gli occhi chiusi,
indice, questo, di una ricerca di relazione precoce. La capacità del neonato di tre quattro ore a prediligere il
volto materno sembra essere possibile grazie a una percezione intermodale in cui egli associa il volto al
timbro della voce della madre6.
In altri esperimenti7, si è visto che neonati di due giorni riuscivano non solo a ripetere un’espressione per
imitazione, ma a ripetere lo stesso gesto anche successivamente a quando lo sperimentatore lo aveva
interrotto. Ciò sarebbe a supporto dell’ipotesi che il neonato, già alla nascita, cercherebbe attivamente una
risposta da parte dell’interlocutore.

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Sembrerebbe che lattanti di 3-4 settimane orientino la testa e lo sguardo sugli occhi dell’interlocutore. Quindi
già dal primo mese di vita i neonati reagiscono all’approccio di un adulto orientando la testa sugli occhi e la
bocca di questi. Esisterebbero dei meccanismi che regolano la
comunicazione del lattante sin dal primo mese di vita8. E’ stato provato che il neonato sorride più facilmente
quando la madre sorride che non quando la madre non sorride9 .
Con uno studio longitudinale con lattanti tra le 3 e le 25 settimane, è stato evidenziato che a partire dalle 7
settimane, momento in cui comincia la codifica dei suoni sillabici, il lattante emette più suoni sillabici in
presenza di figure animate, soprattutto quando l’interlocutore parla attivamente, piuttosto che quando assume
atteggiamenti passivi. Segno questo di come anche lo sviluppo del linguaggio abbia una componente
relazionale10. In alcuni esperimenti si è notata un’esagerazione dei movimenti, del tono vocale, delle
espressioni facciali quando un adulto parla con un lattante. Esiste una sorta di baby-talk cioè un linguaggio
particolare con cui gli adulti si rivolgono ai bambini. Questi studi concordano con la teoria sociogenetica del
condizionamento reciproco tra lattante e figure di riferimento, nel modulare la crescita umana.
Studi condotti 11su bambini di 6 mesi hanno mostrato una correlazione tra le risposte del neonato e il
cambiamento degli sguardi della madre. Il bambino passa dalla gioia, alla protesta al ritiro passivo quando la
madre da attenta diviene inespressiva.
Alcuni esperimenti hanno evidenziato che inizialmente è il comportamento del bambino ad innescare il riso
nell’adulto; invece, nella seconda metà del primo, anno sono i comportamenti paradossali dell’adulto ad
attivare il riso nel lattante, come ad esempio quando la figura di riferimento si porta il biberon alla bocca 12.
La presenza del gioco guidato tra i 4 e i 6 mesi sembra confermare l’ipotesi che è il rapporto interpersonale
con la madre ad aprire la strada alla relazione con il mondo e tutto ciò che vi appartiene13. Dai quattro mesi
in poi il neonato inizia a fare delle cose “con” in modo più differenziato. La capacità manipolativa gli
consente di utilizzare non solo la relazione faccia a faccia ma anche fare delle cose con.
Tra i 7 e gli 8 mesi il neonato è capace di sensibilità mirata verso espressioni del partner perciò comincia a
coinvolgersi attivamente nel gioco sociale con l’adulti (Bruner, 1983). Questa crescente differenziazione e
selettività culmina tra gli otto e i nove mesi con comportamenti di circospezione rispetto alle figure estranee.
Cambia, notevolmente, il modo di relazionarsi. Prima andava con tutti ora solo con chi conosce. In questo
periodo, via via che i suoi comportamenti diventano più finalizzati, secondo una prevedibilità dei rapporti di
causa ed effetto, anche l’interazione con l’altro diventa una danza di stimoli e risposte maggiormente
discriminata.
2.5. Il bambino dall’ egocentrismo all’intersoggettività
Il primo anno vede il bambino massimamente egocentrico. Cosa significa egocentrico? non certamente che
non è capace di relazione, ma che tutto quanto avviene dentro e fuori di lui è inteso soprattutto a soddisfare i
propri bisogni. E’ solo in questa accezione che intendo il bambino autocentrato. Autocentrato non significa
egoista. Questo concetto richiede competenza decisamente superiori a quelle del bambino di questo periodo.
Soprattutto una differenziazione maggiore Sé-altro e una capacità di valutazione di quello che fa male
all’altro .
2.6. Cosa fare per aiutare il neonato a stimolare l’intersoggettività
In questo periodo, il bambino/individuo pone le basi, per creare una soggettività e riconoscerla e una
intersoggettività. La madre è la fonte da cui prende gli stimoli utili a tale scopo. Il bambino non è la madre,
ma ne è molto condizionato, soprattutto, come abbiamo visto, dai vissuti senso-motori ed emotivi di questa.
Se la madre è calda e accudente il piccolo impara a rilassarsi a vivere la relazione come momento positivo e
gratificante. Al contrario se la madre è sempre tesa il bambino tenderà ad evitarla, quindi assumerà un
comportamento ritirato .
Il bambino di questo periodo ama essere stimolato, ma anche visto. Ci sono genitori che stimolano troppo,
incuranti della stanchezza e disagio del piccolo. Altri stimolano troppo poco, abituando il neonato alla
pigrizia.
Il piccolo del primo anno è prevalentemente senso-motorio. Quindi tutti i giochi che stimolano i cinque sensi
sono per lui molto graditi. L’ideale sarebbe non trascurarne nessuno: stimolatelo quindi a vedere, ascoltare,
toccare, odorare, gustare.
Stimolare molto o poco dipende anche dalla cultura di appartenenza delle famiglie oltre che dal carattere
delle persone. Dalla cultura dipende anche il tipo di stimolo. La mia baby-sitter filippina stimolava secondo
una modalità prevalentemente senso-motoria, cullava, toccava delicatamente e anche quando parlava
modulava la voce come se cantasse. La baby-sitter ucraina, invece, parlava molto a mio figlio, prediligendo,

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quindi, una stimolazione più cognitiva che emotiva , oppure lo spingeva molto a fare più che a stare come
invece faceva la prima.

3 Il secondo e terzo anno di vita


Identità. Dopo il primo anno, il bambino inizia a percepirsi come unità e riconosce le proprie parti del corpo.
Quindi, è più differenziato rispetto all’altro. Dopo i due anni, inizia ad adoperare il pronome personale “IO”,
quindi si riconosce anche cognitivamente come unità, diversa dall’altro. Una cosa è intuirsi come unità
(primo anno), altra è saperlo (secondo anno).
Empatia. Il bambino dopo il I anno, inizia a comprendere che le sue azioni provocano risposte emotive
nell’altro: nasce l’empatia. Intorno ai due anni, la capacità empatica comincia a proporsi come una modalità
di “prendersi cura di”, se la cosa non richiede una frustrazione: ad esempio il piccolo può chiedere che venga
data una caramella ad un amichetto, ma non rinuncia alla propria. Intorno ai due anni e mezzo, invece, può
sopportare una frustrazione cedendo qualcosa di suo a qualcuno che glielo chiede.
Emozioni. Intorno ai 18 mesi, la comparsa delle emozioni sociali, come la vergogna, la colpa, l’imbarazzo,
legate alla socializzazione e al contesto culturale, ne fanno un individuo sociale. La competizione nasce un
po’ più tardi dopo i tre anni.
Relazioni sociali. In questo periodo, i rapporti con gli altri sono più schivi. Il bambino di un anno corre da
tutti basta che gli si dà un po’ di attenzione. A diciotto mesi il piccolo diventa più selettivo, così come
l’attenzione in genere.
Ora è sufficientemente capace di capire che le sue azioni (fisiche) possono fare bene o male ad un altro.
Intorno ai due anni, la relazione diviene sempre più desiderata ed allargata ad altre persone. Nasce la
categoria degli amici. Il bambino di questa età non è ancora capace di organizzare un gioco con un coetaneo.
Per tale ragione può giocare con bambini più grandi o con adulti. Due bambini di due anni nella stesa stanza
giocano separatamente, al massimo litigano perchè non riescono ad organizzare un gioco comune. Questo
tipo di difficoltà sociale dipende dal fatto che mancano competenze cognitive ed emotive adeguate. Questa
osservazione va ha sostegno dell’ipotesi sociogenetica che le relazioni sociali risentono del livello di
sviluppo del bambino.
Nel primo e secondo anno il piccolo sperimenta molto la propria autonomia sul piano motorio e inizia a
cimentarsi con il linguaggio. L’esplorazione motoria e sensoriale è quella che lo eccita di più. Toccano,
rompono, portano tutto alla bocca, poi odorano. Se volete renderli felici lasciate che esplorino l’ambiente
autonomamente con tutti i sensi. Si divertono e diventano più intelligenti.
A due e tre anni, sapendo stare più in relazione, amano giochi più complessi ma sempre prevalentemente
imitativi. Se un gioco è di loro gradimento vi chiedono di ripeterlo tutti i giorni e anche più volte al giorno.
In questo periodo non è importante che creino, ma che sappiano stare piacevolmente in relazione ed inizino
a rispettare semplici regole sociali.
Pensiero, linguaggio e relazione. A un anno, subentra il linguaggio verbale, la relazione può avvalersi
anche di questo tipo di comunicazione, migliorando la differenziazione e l’identità del bambino. L’ipotesi
sociale fa riferimento alle capacità del bambino di comunicare prima di saper parlare utilizzando gesti e
vocalizzi. Bruner (1983), ispirandosi a Vygotskij, sostiene che i piccoli apprendono il linguaggio all’interno
di relazioni importanti grazie a giochi routinari che includono parole e gesti comunicativi.
Intorno ai due anni si acquisisce la capacità di riflettere su .Percepisce la stabilità degli oggetti, per cui, ora,
può avere rappresentazione mentali di oggetti e persone indipendentemente dalla esperienza sensoriale
diretta (Piaget). Questa nuova capacità influenza molto le relazioni sociali, perché l’altro esiste nel suo agire
al di là dell’ essere presente .
Intorno ai tre anni si presentano i primi ragionamenti. I piccoli argomentano bene e vi sfidano ragionando. E’
l’inizio della competizione sul piano logico-verbale, con un bisogno maggiore di affermare la propria identità
Il piccolo dice ma non sempre capisce.
Esiste uno stereotipo culturale nella nostra società secondo il quale, quando qualcuno dice verbalmente una
cosa in modo logicamente corretto l’ha anche compresa. Niente di più sbagliato per il bambino di quest’età
che molto frequentemente ripete in modo imitativo senza avere di fatto compreso veramente quanto sta
dicendo. Mio figlio era bravissimo a dire al cuginetto “Non si tocca pianta”, imitando quanto veniva detto a
lui. Di fatto pochi secondo dopo lo trovavo a spezzare le foglie della pianta, cosa, tra l’altro, che gli piaceva
tantissimo. Un giorno mia madre assistendo alla scena che si ripeteva spesso, andò verso mio figlio
dicendogli arrabbiata “Ah! Fai il furbo. Sai che non si deve rompere al pianta e mi prendi in giro….” Davide

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non prendeva in giro nessuno, semplicemente ripeteva, senza aver compreso. Lo aiutai cercando di spiegargli
che le foglie della piante erano come le sue dita. Premendo piano sul suo dito gli feci sentire un po’ di dolore,
quindi anche la pianta avrebbe sofferto. Cominciò così ad avvicinarsi alla pianta e poi trattenersi dicendo
“Pianta bua, mamma pianta bua, piange!”.
Questi pregiudizi sono pericolosi perché possono portare a ritenere responsabile un bambino per cose che
non comprende. Non bisogna punire quando il bambino non sa fare, ma solo quando non vuole fare (nel
senso di rispettare le regole adatte alla sua età).

4 Il quarto e quinto anno di vita


Identità. Una maggiore capacità di reggere la frustrazione e anche la possibilità di ragionare meglio,
prevedendo, consentono al bambino di 3-4 anni di pervenire a compromessi argomentando e sostenendo i
propri punti di vista alla ricerca di un’identità più stabile.
Anche un anno e mezzo prima possono accettare piccoli compromessi, ma l’accettazione è abbastanza
passiva se la proposta dell’adulto contiene la frustrazione del piccolo. Il bambino si affida di più. Dopo i due
anni il confronto comincia ad essere più impegnativo, la competizione sul piano logico-verbale è
decisamente più forte.
La teoria della mente. Secondo questa teoria il bambino al di sotto dei cinque anni, se pone l’oggetto in una
scatola in presenza di un Tu e poi lo sposta quando il Tu è assente, è convinto che il Tu si aspetti di trovarlo
nella seconda posizione (che non ha visto). Ciò significa che egli attribuisce all’altro le proprie percezioni,
sebbene sia evidente che l’altro, non presente, non le possa percepire. Intono ai cinque anni invece il
bambino è in grado di comprendere che possono esistere valutazioni diverse dalla sua, rispetto alla stessa
situazione. Questo rappresenta un grosso passo in avanti nel superamento dell’egocentrismo.
Ad esempio, dissi a Davide, quando aveva circa quattro anni che la pizza era finita, alzando la carta che la
nascondeva disse: “Tu pensi che è finita, io penso che non è finita. Guarda!”
Intorno ai cinque anni il bambino prende consapevolezza della morte. Prima ne parla ma come se non ne
cogliesse il significato profondo. Mio figlio, in seguito ad un lutto familiare importante, a 5 anni, realizzò
cosa fosse la morte, entrò in un angoscia fortissima. Ancora oggi che ha quasi tredici anni, non ricordo un
momento di angoscia così forte in Davide come quando avvenne questo insight. Per tre giorni non parlammo
d’altro .
Il bambino ora è molto più capace di ragionare quindi anche di creare. E’ il momento della creatività. Ora
comincia a divertirsi a creare semplici giochi che vi propone. Non siate molto critici rispetto alla loro qualità,
è invece importante non inibirli nella creatività perché questo tipo di sperimentazione nel tempo farà loro
produrre anche cose qualitativamente interessanti.
Il bambino di questo periodo comprende quello che dice. Anzi se c’è qualcosa di non chiaro cerca di andare
fino in fondo, vi inonda di perché, sottolinea tutte le contraddizioni, ricorda quello che avete detto ieri e non
avete mantenuto. Quindi ha più senso punirlo quando trasgredisce cosa che verbalmente ha dimostrato di
sapere.

“PSICOLOGIA SOCIALE DELLA SECONDA INFANZIA E ADOLESCENZA (5-18 ANNI)”

1 Seconda infanzia (dai 5-6 anni all’adolescenza)


E’ la fase in cui comincia la relazionalità tra pari portatori di diritti simili, delle regole definite all’interno del
gruppo. E’ la fase del “non è giusto”.
1.1. Acquisizioni sociali
Fino ai sei anni il bambino è più decisamente autocentrato, e il valore degli scambi con gli adulti è enorme.
F 0Sono
B7 gli adulti che impongono la loro visione del mondo, definiscono le regole e organizzano il gioco tra
bambini (che non sanno mettersi regole tra loro e organizzarsi).
F 0E’
B 7 dagli adulti che il piccolo apprende cosa è giusto o sbagliato; ma il valore etico non è ancora capito fino

in fondo. Ad esempio nella prima infanzia la bugia è tale perché inverosimile, non perché non sia giusto dirla
(ad esempio, è più grave dire di avere un elefante a casa che mentire sull’aver mangiato le caramelle). La
bugia è tanto più grave quanto più inverosimile.

A 6-7 anni

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F 0il
B 7bambino comincia a comprendere che ciò che non è giusto per lui non lo è neanche per l’altro. Vede gli

altri bambini in modo diverso: cominciano a essere considerati portatori di diritti simili ai suoi. Cominciano
i giochi di regole condivise tra pari, finora impossibili (ogni bambino fino ai sei anni gioca spontaneamente
“in parallelo” agli altri, ma la possibilità di fare, senza un adulto, un gioco con regole è molto limitato).
Grazie ai giochi di regole il senso morale si fa più sofisticato e le regole diventano tali se condivise, e si
possono cambiare, se il gruppo lo vuole. Le regole diventano un modo concreto per organizzarsi tra pari.
F 0Si
B 7 comprende come la persona sociale, con proprie etiche e valori condivisi, comincia a nascere a questa

età. Essa coincide con la frequenza della scuola primaria, con i giochi di squadra, con le prime “lotte” per
l’autonomia.

1.2. Acquisizioni psicologiche


Queste importanti acquisizioni sociali vanno di pari passo con l’evoluzione biologica e psicologica.
Psicologicamente il bambino di 6-7 anni non riesce ancora a ragionare in modo astratto, è legato al pensiero
concreto, ma, in modo più raffinato rispetto al bambino piccolo: introduce nel suo ragionamento la
reversibilità, cioè la capacità di ricostruire le azioni attraverso processi mentali all’inverso. Ad esempio sa
che due palline di plastilina uguali per dimensioni restano tali anche se facciamo loro cambiare forma (una a
bastoncino lunghissimo e una a palla), oppure che due quantità d’acqua restano tali anche se le mettiamo in
contenitori di forma assai diversa.
Attraverso queste acquisizioni psicologiche il bambino comincia a poter fare esercizi matematici, sempre più
complessi con l’avanzare dell’età.

2 Psicologia sociale dell’adolescenza


2.1. Introduzione
Qualche citazione sull’adolescenza:
“Mio figlio di 16 anni è un impulsivo, manca di giudizio, non pensa alle conseguenze di quello che fa”
“Raramente i ragazzi valutano le conseguenze a lungo termine e il loro senso del futuro è diverso da quello
degli adulti” (Giorgio Maria Bressa)
“L’adolescenza è una impresa evolutiva congiunta di genitori e figli per rendere possibile il reciproco
distacco senza rotture irreparabili”
“Non mi parla più, è sempre in lotta con qualcosa o qualcuno”
“I due grandi problemi dell’adolescenza sono: trovarsi un posto nella società e, allo stesso tempo, trovare se
stessi” (Bruno Bettelheim)
“L’adulto visualizza all’adolescente le fasi del divenire e le mete che dovrà raggiungere”
“Ciascuno cresce solo se sognato” (Danilo Dolci)
“Vuole sempre avere ragione, crede di sapere tutto lui”
“Che stagione l’adolescenza. Senti di poter essere tutto e ancora non sei nulla e proprio questa è la ragione
della tua onnipotenza mentale” (Eugenio Scalfari)
Queste citazioni descrivono alcuni aspetti peculiari dell’adolescenza: l’impulsività, il ruolo dei genitori e del
mondo adulto nel sostenere questa fase di passaggio, la sensazione di onnipotenza, le speranze, la meraviglia
e la gioia connesse con la crescita.
Cosa significa studiare l’adolescenza dal punto di vista della psicologia sociale?
a. Implica, in prima battuta, studiare in che modo i sistemi sociali, da quelli più distali al giovane (società) a
quelli più prossimali (famiglia, gruppo dei pari), influiscano sulle strutturazioni biologiche e psicologiche
responsabili del comportamento dei giovani in molteplici aspetti (ad esempio rispetto all’autonomia/
dipendenza dai genitori, normalità/devianza, atteggiamenti rispetto al lavoro, preoccupazioni rispetto al
futuro, consumo di alcol e droghe, costumi e consumi..).

Infatti, nell’ultimo decennio, si è sempre più considerata l’adolescenza non più come una fase della vita
deterministicamente orientata da mutamenti biologici sempre uguali, ma come fortemente influenzata da una
importante azione dei contesti sociali che fungono da “trama della crescita”1.
b. Implica inoltre il valutare la funzione psico - sociale dei giovani nella nostra realtà (ad esempio i giovani
sono innovatori o solo sismografi dell’esistente?2 ; qual è il ruolo sociale dei giovani adolescenti e post
adolescenti nella nostra società?... )

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Come si vede la psicologia sociale, che si pone nell’interfaccia tra sociologia (che studia le relazioni sociali
e il loro significato) e la psicologia (che studia le relazioni tra le componenti psichiche dell’individuo e il
loro significato), dà una molteplicità di contributi alla comprensione del periodo adolescenziale.
I suoi studi hanno molta importanza per definire quali siano le politiche sociali ed educative più adeguate
allo sviluppo dell’adulto sano e felice.
Ma ci dicono molto anche relativamente al ruolo degli adolescenti quali consumatori di beni e cultura, in che
modo orientano mode e tendenze.
E’ impossibile per qualunque trattazione prendere in considerazione tutti questi aspetti. Ci limiteremo a
definirne alcuni, di interesse più generale.
In particolare cercheremo di rispondere alle seguenti domande:
F 0Cosa
B7 è l’adolescenza?
F 0In
B 7 che modo da bambino ad adolescente cambiano le strutture biologiche, psicologiche e il ruolo sociale

della persona. In che modo la società, il contesto familiare e il gruppo dei pari sono importanti per la
definizione di un’identità adulta?
F 0IB giovani
7 si differenziano dai genitori o ne assumono i valori e gli atteggiamenti esistenziali? I giovani
sono innovatori rispetto all’esistente?

2.2. Cos’è l’adolescenza?


Adolescere = crescere
E’ una fase dello sviluppo che va dalla pubertà (tra gli 8 e i 13-14 anni, secondo le epoche e le culture,
perché legata all’alimentazione e alle condizioni igienico-sanitarie, che comportano differenze nel ritmo di
crescita) e l’acquisizione dell’autonomia –es. scelta lavorativa o lavoro, con variazioni imposte dalle culture-
in genere tra i 18-20 anni.
Si caratterizza per modificazioni biologiche (endocrinologiche, neurologiche, corporee), acquisizione di una
identità psicologica (sé, identità sessuale), inizio di una identità sociale (autonomia, valori, identità
lavorativa…).
E’ un periodo di enormi cambiamenti di mente, corpo e comportamenti che vanno definendosi in maniera
adulta.
Va letta secondo il paradigma bio-psico-sociale poiché i tre fattori la determinano influenzandosi in maniera
reciproca.
2.3. Mutamenti biologici
L’inizio dell’adolescenza (11-12 a. per le ragazze e 13-14 per i ragazzi) e i primi 3 anni di vita sono le fasi
della vita in cui vi è il più tumultuoso rimaneggiamento endocrinologico, cerebrale e corporeo nel suo
complesso.
Si completa la maturazione degli organi riproduttivi. Aumenta la pulsione sessuale.
Sotto l’influenza degli ormoni sessuali il cervello si sviluppa in senso maschile o femminile, contribuendo,
assieme ai fattori ambientali/esperienziali, alle differenze di comportamento non solo sessuale.
Grazie alle modificazioni biologiche cambiano le capacità cognitive.
Nel bambino il pensiero è induttivo (cioè concreto, legato alla osservazione e percezione della realtà quale
essa è).
Nel preadolescente comincia a maturare il pensiero ipotetico-deduttivo (si fanno ipotesi e deduzioni, si
ipotizza il futuro e si è capaci di sviluppare progettualità).
Il bambino, e l’adolescente disturbato, imparano e agiscono nel mondo del qui ed ora legato, in gran parte,
alle esigenze immediate: non sanno collegare le proprie azioni a principi generali; l’adolescente, posto
davanti a un problema, può cominciare a ipotizzare diverse soluzioni, vagliando lo sviluppo futuro
dell’azione immediata; comincia a ragionare di politica, filosofia…
Nell’adolescente il pensiero e il comportamento sono impulsivi, cioè dominati, più che nell’adulto, da
dinamiche emotive. Non è un problema solo educativo, ma neurobiologico. In questa età, infatti, il sistema
limbico (che si trova sotto la corteccia cerebrale ed è responsabile delle emozioni) si sviluppa più
velocemente della corteccia frontale e prefrontale e delle sue connessioni con il sistema limbico (che servono
per il controllo delle emozioni). Nel bambino, invece, c’è maggiore equilibrio tra emozioni e sistema di
controllo.

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Nel sistema limbico c’è anche il “centro cerebrale di rinforzo”, cioè il centro del “piacere” che, senza un
controllo corticale, è più “disinibito”. Da qui la possibilità di comportamenti (sessuali, droghe, alcool, sport
estremi, azioni pericolose…) che “attivano” questi centri.
La biologia (cioè lo sviluppo delle connessioni tra i neuroni) è influenzata anche dall’ambiente. E’
importantissimo, nello sviluppo biologico, l’ambiente educativo e culturale in cui cresce il ragazzo. Compito
di educatori e genitori è fornire modelli di confronto, stimolare il controllo e il pensiero logico-deduttivo. Il
controllo corticale delle aree limbiche ha molto a che fare con le regole morali e sociali e con la capacità di
tollerare la divergenza di opinioni.
Il processo di “maturazione” del cervello si completa tra i 20 e i 25 anni con l’aumento della sostanza bianca
e il decadimento delle connessioni neuronali “ridondanti”. In tal modo sia la coordinazione motoria, che il
controllo degli impulsi sono migliori.
NON DIMENTICHIAMO il ruolo dell’educazione/ambiente/cultura sul favorire queste connessioni.
L’educazione e il sostegno alla crescita, devono stimolare acquisizioni vicine, per struttura psicologica, a
quelle presenti e non possono spingersi oltre le possibilità biologiche di quel momento, anche se gli stimoli
influenzano lo sviluppo biologico (è il concetto di stimolazione prossimale).

2.4. Mutamenti psicologici


L’adolescenza è il momento della differenziazione e della definizione dell’identità.
Identità = Definirsi come persona dotata di idee, sentimenti, interessi, modalità di azione e di interazione
con il mondo propri e peculiari
Il ragazzo deve separarsi da vecchi legami, sentimenti, valori e credenze maturati nella relazione con i
caregivers per acquisirne di “suoi”. Si oppone, ma ha paura.
Conflitto interno tra la necessità di individuarsi e di essere autonomo, e la paura di separarsi. E’ una vera
“guerra d’indipendenza”, dominata dall’ambivalenza.
Non ce la fa da solo. Per non sentire l’angoscia della solitudine e tollerare la dispersione dell’io tra mille
potenzialità, in una fase intermedia, tende a legarsi a gruppi, passando da una relazione asimmetrica – es.
padre-figlio - a relazioni apparentemente simmetriche, infarcite però spesso di dipendenza. Sono il gruppo di
pari, il partner il suo riferimento. E’ il momento delle grandi idealizzazioni e dell’identificazione in miti
esterni, anche molto distanti dal contesto socio-culturale di provenienza. L’idealizzazione lo porta a
identificarsi totalmente in modelli anche controculturali. Può far sua un’ideologia, anche in maniera acritica.
Anna Freud parla di spostamento dell’investimento libidico da figure genitoriali a figure o gruppi
extrafamiliari (cambiamento delle relazioni oggettuali infantili).
A un livello più profondo l’adolescente ha paura, e sente di dover contare su famiglia ed educatori che non
devono pensare a questo periodo come una “crisi”, ma come un momento evolutivo fondamentale. Mentre
infatti, per la prima e seconda infanzia il mondo sociale del bambino è prevalentemente quello familiare o
comunque questo funge molta da filtro con il mondo sociale esterno. A partire dalla preadolescenza il mondo
sociale assume un significato molto più importante e la famiglia comincia a passare in secondo piano, deve
esserci, ma è il ragazzo che inizia ad imparare a mediare i suoi rapporti con il mondo sociale
Come già detto gli adolescenti devono affrontare questi cambiamenti con un apparato psicologico e
neurobiologico non del tutto sviluppato. L’ambivalenza emotiva, l’angoscia della separazione e della non
completa individuazione, l’elevata impulsività non ben controllata, l’insicurezza di fondo necessitano, a
livello psicologico, del ricorso a “meccanismi di difesa”.
Gli adolescenti ne possono usare molti: alcuni più adattivi (cioè che favoriscono l’adattamento all’ambiente
e vanno verso la norma), altri più disadattivi (che possono andare cioè verso la disfunzionalità).
Adattivi: sublimazione (es. invece di aggredire sublimo l’impulso nello sport), altruismo, umorismo…
Meno adattivi: idealizzazione, inversione dell’affetto (odio quello che prima amavo –per favorire la
separazione/individuazione-), rimozione (escludo dalla consapevolezza), proiezione (dico che l’altro è
respingente, rabbioso…ma sono io ad essere così)…
Disadattivi: regressione (invece di rompere la simbiosi con i genitori regredisce a fasi precedenti dello
sviluppo), acting out (perdita di controllo nella rabbia, ad esempio…), somatizzazione…
Psicotici: proiezione delirante, distorsione psicotica.
Adolescenti normali possono usare tutti questi meccanismi di difesa. Tuttavia se il ricorso a meccanismi
disadattivi è esteso questo è indice di problematicità.

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Qualche volta il terrore della separazione e delle relazioni di transizione verso l’identità adulta è molto
elevato. L’adolescente, allora, può ritirarsi (in modo disadattivo) su di sé.
Ad esempio vi può essere un investimento:
- sulla fantasia: idee di onniscienza e onnipotenza, fantasie di grandezza e di potenza; - sulla razionalità:
“intellettualizzazione” (discutere dei massimi sistemi in modo irrealistico…);
- sul corpo, per la paura di perdersi nell’impulsività: disturbi alimentari restrittivi, controllo rigido della
sessualità, attività fisica praticata in modo ossessivo…
2.5. Adolescenza considerata sociologicamente
L’adolescenza sociologicamente è la preparazione all’età adulta.
E’ adulto chi sa gestire il lavoro come impegno stabile e l’amore come responsabilità verso entità definite.
L’essere adulti è anche legato al completamento del processo della acquisizione della consapevolezza e della
responsabilità.
Si identifica anche con l’uso della libertà per optare tra varie possibilità di valore e di vita, con senso della
propria identità personale.
Nelle varie culture ed epoche cambia sia il concetto che il corso dell’adolescenza. Non solo: come già visto
nello sviluppo biologico e psicologico, il contesto è importantissimo per il percorso di acquisizione
dell’identità adulta, tanto da far dire ad alcuni psicologi sociali che non esiste l’adolescenza, ma gli
adolescenti, che affrontano i compiti di sviluppo caratteristici di quest’età in modo fortemente differenziato
e personale a seconda dei contesti in cui si trovano a vivere3.
Non tutte le culture identificano l’adolescenza con il disagio emotivo, né con il cambiamento repentino di
personalità. In alcune culture tradizionali il passaggio all’adolescenza è brusco, e segnato da veri e propri
“riti di passaggio”, dopo i quali nulla è più come prima (ad esempio nella tribù etiope dei Mursi alla ragazze
a 15 anni nel corso di un rito di passaggio viene praticata un’incisione sul labbro inferiore nella quale
vengono inseriti dischi di legno decorati sempre più grandi, che sono un segnale di raggiunta maturità
sessuale; in altre tribù i maschi adolescenti vengono sottoposti a prove di forza e coraggio). In altre, di
contro, il passaggio è inavvertito sociologicamente (es. nelle società preindustriali o dell’inizio
dell’industrializzazione l’adolescenza era già quasi un’età adulta, e i minori erano impegnati in compiti
sociali spesso sovrapponibili a quelli dei grandi).
Nelle nostre società occidentali si sono verificati nell’ultima generazione importanti cambiamenti che hanno
reso differente il passaggio all’età adulta.
Molti sociologi rilevano una mancanza di un sistema sufficientemente stabile e trasmissibile di regole e
valori che identificano la comunità (società liquida, modernità liquida)4.
Grazie alle grandi possibilità di accesso a informazioni e modelli di vita molto distanti, anche per lo sviluppo
della rete digitale, ciascuno può “comporre” la propria identità prendendo pezzi da culture diverse: vi può
essere la mancanza della possibilità di confrontarsi/diversificarsi con chiarezza dalla “cultura dei padri”.
Il problema dell’ingresso posticipato al mondo del lavoro e della non differenziazione identitaria dai
caregivers, provoca, anche, l’adolescenza prolungata, che è un vero problema sociale. Abbiamo persone
biologicamente adulte, ma sociologicamente adolescenti (i “bamboccioni”).
Novità sociologiche per gli adolescenti di oggi e di domani:
F 0Comunità
B7 (intesa come sistema definito di relazioni, valori, etiche individuali legate al contesto di crescita
e di vita) sostituita dal network5.
F 0Più
B 7 etiche; più modelli di vita, spesso influenzati dalle pubblicità, ma non trasmessi dai genitori; minore

trasmissione di comportamenti strutturati.


F 0Mancanza
B7 di sistemi di contenimento e di riferimento stabili. Si ritiene che la comunità sia, assieme alla
famiglia sana e alle istituzioni, un sistema di mediazione importante per aiutare il giovane adulto a
scongiurare i rischi di devianza e disagio favorendo, attraverso la stabilità dei sistemi di riferimento,
l’autoregolazione6.
F 0La
B 7 sostituzione della famiglia autoritaria/etica con quella possibilista/liquida può attenuare la

contrapposizione tra generazioni (padri e figli sono simili e perseguono stessi gusti, visioni…), con risultati
di difficoltà identitaria e separazione.

2.6. Adolescenti e adulti

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In genere i giovani vengono identificati nelle società come elementi di rottura rispetto al passato, come
promotori di cambiamenti culturali responsabili di nuovi stili di vita, costumi, idee politiche innovative. Non
tutti gli studiosi la pensano così.
“Qual è la funzione dei giovani nei cambiamenti culturali? Sono degli innovatori, cioè dei promotori di
cambiamento, o dei sismografi, che registrano i cambiamenti in atto nella società?”7.
I ricercatori, analizzando attentamente l’atteggiamento dei gruppi giovanili post adolescenziali nei
comportamenti ideologici nelle fasi di mutamento della società, sono arrivati alla determinazione che, più
che innovatori, i giovani sembrano essere degli ottimi “sismografi”, abilissimi a percepire e interpretare i
cambiamenti in atto nella società. Questo spiegherebbe lo spostamento ideologico massiccio verso idee più
conservatrici o più progressiste in tempi anche molto brevi, in linea con gli umori emergenti nel sociale8.
Anche l’idea che i giovani siano responsabili, nelle società occidentali in crisi, della loro emarginazione dai
processi culturali e produttivi, viene messa in crisi dalle ricerche degli psicologi sociali.
Con l’espressione conflitto (o gap) generazionale invertito ci si riferisce alla tendenza del mondo “adulto” a
tenere ai margini e ritardare l’ingresso dei giovani nei processi produttivi e decisionali, salvaguardando il
proprio status sociale9.
Altra opinione abbastanza comune è che i giovani abbiano una cattiva opinione del mondo adulto. Le
ricerche evidenziano, al contrario, che i giovani hanno opinioni sugli adulti mediamente migliori di quanto
gli adulti le abbiano sui giovani. Ulteriore esempio di conflitto generazionale invertito.

3 Cosa cambia nell’esperienza tra seconda infanzia, preadolescenza e adolescenza


Vorrei sintetizzare brevemente come cambia l’esperienza tra la seconda infanzia, preadolescenza e
adolescenza e quali dovrebbero essere i comportamenti consigliati in questo periodo dello sviluppo in modo
che il contesto sociale possa fungere da stimolo costruttivo alla crescita, sana anziché un elemento
disturbante
3.1. Il bambino tra i 5- 10-anni
In questo periodo il bambino è prevalentemente imitativo/dipendente dall’adulto. Il proprio pensiero, i propri
vissuti spesso imitativi di quelli delle figure di riferimento, sono vissuti come veri in assoluto. Con il
bambino dobbiamo essere attenti alle scelte che noi operiamo per lui, proprio perché non sa essere critico e
sufficientemente forte nell’opporsi alle nostre decisioni. Se quindi sbagliamo gli avremo imposto stili e
comportamenti che non gli appartengono, con le ovvie conseguenze che questo comporta. Se da una parte
non dobbiamo imporre scelte lontane dei bisogni e capacità dei piccoli, nello stesso tempo, non dobbiamo
nemmeno proteggerli troppo quando con troppa facilità chiedono, ad esempio, di abbandonare una qualsiasi
attività abbiano iniziato e crei loro problemi come ad esempio la scuola e lo sport. A scuola potrebbe
diventare passivo e pigro; potrebbe invece decidere di abbandonare l’attività sportiva. Non dico che sia facile
capire le motivazioni sottese alle loro richieste. Teniamo presente che gli ambienti extra- familiari
rappresentano il luogo in cui il bambino agisce emozioni, si arrabbia ed impara a contenere la frustrazione
del senso di sconfitta, in situazioni molto meno protette rispetto all’ambiente domestico. A volte è più facile
scappare, ed è a questo punto che una collaborazione attenta e di supporto tra genitori ed educatori potrebbe
permettere al bambino di superare, paura e frustrazione sperimentando la possibilità di farcela, cosa che lo
rende più sicuro e fiducioso di potere attingere da se stesso e dalle persone che se ne prendono cura le risorse
per superare le difficoltà. A volte, imprudentemente facilitiamo un atteggiamento perdente, senza accorgersi
che la piccola rinuncia di oggi può divenire la grande rinuncia domani. Queste decisioni non sono né banali
né facili, perciò il confronti tra noi genitori e genitori ed educatori rappresenta un ottimo sostegno funzionale
alle scelte più utili per i bambini.
3.2. Preadolescente 9-14 anni
Questa è la fase della ribellione onnipotente, con scarso senso realistico. Ho notato che a 11 anni è in certo
senso come a 1. Ricordate quando in quel periodo il bambino si allontanava con l’aspettativa onnipotente che
bastava voltarsi a cercarvi, per credere che saresti apparsi lì? Con un complessità diversa ora si comporta un
po’ come allora, riponendo eccessiva fiducia nella sua autonomia che riguarda senz’altro altre sfere e abilità
diverse. Prima erano i genitori ad essere onnipotenti; ora crede di poter competere con loro anche se di fatto
né è ancora dipendente. Il preadolescente, non è ancora capace di valutazioni autonome, sebbene convinto di
esserlo: “So cosa è giusto fare, tu non capisci!”. Questo è il motivo per cui possiamo assistere, all’inizio della
scuola media, a fenomeni di bullismo: il senso di forza onnipotente che non riconosce i propri limiti, in una

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personalità aggressiva e poco equilibrata, porta a comportamenti di prepotenza e prevaricazione, con la
convinzione che le proprie “idee contro e devianti” siano le vincenti.
In questa fase uno sviluppo fisiologico, comporta che si cominci a sperimentare la diversità di modi di
pensare e vissuti emotivi anche sul versante ipotetico/ deduttivo; prevale, però, ancora la modalità
egocentrica, visto che non ha ancora una buona dimestichezza con il pensiero astratto ed è fragile sul
controllo emotivo. Inoltre, a questa età, i ragazzi fanno fatica a contestualizzare (questa competenza, richiede
la capacità di muoversi tra livelli logici diversi,); così, ad esempio, la richiesta disattese di mettere le loro
scarpe a posto che per pigrizia vengono lasciate nel soggiorno, viene posta sullo stesso piano di quella di un
genitore stanco, che sta preparando per loro. La scuola, lo sport il gruppo dei pari che iniziano a frequentare
con sempre crescente autonomia, rappresentano il luogo per accrescere la stima di sé nei confronti degli altri.
L’atteggiamento dell’adulto con il preadolescente richiede che il primo, pazientemente lasci un po’ fare e
molto sorvegli. Con questi bisogna tenersi l’ansia e lasciare che un po’ sperimentino sulla base delle loro
idee, mettendo chiari paletti, una sorta di libertà molto vigilata. L’errore a mio modo di vedere va sottolineato
ma non perseguitato. Quando sono spaventati per avere fallito in una loro valutazione, è inutile stare lì ad
infierire, questo serve solo a minare la fiducia di base. Basta aiutarli a vedere in cosa le loro previsioni sono
state disattese e trovare strategia più adeguate. In questi momenti li scoprirete che sono più disposti a
seguirvi e anche grati e fiduciosi nei vostri confronti. Nella misura in cui sono consapevoli dei propri errori,
perchè semplicemente molto spaventati, frasi del tipo “hai visto, non capisci nulla, sbagli sempre”, sono
troppo scoraggianti e creano sfiducia nella relazione, con il risultato di promuovere, relativamente a futuri
errori, atteggiamenti arroganti e neganti l’evidenza. Dire “hai sbagliato, ma alla tua età può capitare,
cerchiamo insieme una soluzione per rimediare”, li rende più intelligenti e aperti ad un confronto
3.3. Adolescente 14-18/20 anni
Ora il ragazzo diviene sempre più cosciente di una verità relativa, della precarietà dei propri pensieri e
vissuti, (fase depressiva = “questo mondo è ingiusto sono terribilmente solo, ma lotterò contro tutti e ce la
farò!) . Un po’ per volta durante la preadolescenza i limiti si impongono scalfendo così il senso di
onnipotenza. L’adolescente è un po’ come il bambino di 3 anni che impone il proprio senso di identità
ragionando. Grazie al pensiero ipotetico-deduttivo è divenuto intellettualmente molto più abile e si cimenta
nel confronto con gli adulti e i pari su temi sociali e politici.
A 14 anni il ragazzo sa che la realtà si impone ai suoi bisogni, che spesso non ce la fa a superare gli ostacoli,
il mondo appare più ingiusto, gli altri possono progettare volutamente di fargli del male e lui ha imparato a
prevederlo. Questo crea molto dolore e senso di precarietà. Da qui l’angoscia esistenziale, la ricerca di senso,
la valutazione del limite e della morte. Il mondo emotivo è ancora molto fragile per gestire questo momento
luttuoso, perciò l’adolescente per difendersi utilizza l’idealizzazione onnipotente, diversa a mio modo di
vedere da quella del periodo precedente molto più ingenua. Ora c’è più la ricerca di un mondo idealizzato,
più che la consapevolezza che esso sia alla sua portata, come nella preadolescenza. L’adolescente è capace
di contestualizzare, di prevedere come un adulto, ma non ha la giusta maturità emotiva per sostenere le
nuove valutazione sulla realtà. Perciò passa da momenti depressivi a altri di idealizzazione onnipotente
Con l’adolescente dobbiamo imparare ad accettare il dolore, aiutandoli a sopportare il senso di impotenza. E’
importante dare spazio al confronto. Bisogna cercare di mantenere il proprio punto di vista nei momenti di
idealizzazione onnipotente e sostenerli nei momenti depressivi;. mostrare competenza laddove la si possiede
ma anche provare a sopportare il senso di frustrazione di fronte a problemi non facilmente risolvibili.
La scuola, lo sport, altre attività ludiche-creative, con la possibilità che cii siano figure di riferimento
allargate, a volte rappresentano degli ottimi contenitori a comportamenti che possono dirigersi vero mete non
desiderate, come ad esempio droga, devianza sociale ecc. Un po’ per volte l’adolescente imparerà a
relazionarsi alle difficoltà della vita senza deprimersi né avere bisogno di idealizzare. Questo momento
segnerà il passaggio al periodo adulto, che vede ogni persona capace di comprende che la vita è fatta di
momenti sereni, ma anche di situazioni dolorose non sempre risolvibili.
Credo che se si comprendono le diverse fasi dello sviluppo e come vanno trattate, se si trova la forza da
parte di genitore ed educatori di confrontarsi e sostenersi, certamente i bambini e gli adolescenti non
diventeranno tutti geni, ma ciascuno di loro sarà un piccolo campione nella vita, cioè una persona
impegnata e soddisfatta, relativamente a qualcosa da realizzare. Allora avranno vinto tutti insieme!

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“IL SÉ COGNITIVO IN RELAZIONE”
1 Introduzione
Gli studi sulla “Cognizione Sociale” si occupano dell’influenza esercitata dagli altri sul pensiero e sul
comportamento del singolo individuo. Un punto già messo in luce dalla Psicologia Sociale è che i nostri
pensieri e le nostre percezioni riguardo agli altri, a noi stessi ed alla società nel suo complesso non
necessariamente riflettono la realtà con esattezza, nonostante ci aiutino comunque a crearla. Le nostre azioni
sono guidate dalle nostre convinzioni che abbiamo imparato a formarci sugli altri e noi stessi, veritiere o
meno che siano (schemi di sé, schemi di persona, schemi di ruolo, schemi di eventi). In quest’ottica, uno dei
contributi più rilevanti che la Psicologia può dare al benessere dell’umanità sta nell’individuare i processi e
le distorsioni sistematiche sottostanti alle convinzioni sociali. Lo studio specifico di questi processi e di
queste distorsioni prende il nome di Cognizione Sociale.
Nella moderna terminologia cognitivista, l’insieme organizzato delle nostre informazioni o convinzioni su un
evento o un’entità qualsiasi prende il nome di “schema”. Gli schemi sono strutture cognitive attraverso cui
vengono organizzate le conoscenze sociali in memoria e costituiscono i filtri attraverso cui “leggiamo” noi
stessi ed il mondo, guidandoci nella comprensione della realtà, nelle scelte e nei comportamenti.

2 Cosa si intende per <<cognizione sociale>>


Gli esseri umani hanno sorprendenti facoltà logiche e cognitive, che usano per costruirsi una propria visione
del mondo. Lo studio del modo in cui gli esseri umani concepiscono il loro mondo è detto approccio
cognitivo alla psicologia sociale, o cognizione sociale.
Il termine “cognizione” si riferisce all’insieme delle attività attraverso le quali le persone elaborano le
informazioni provenienti dai sensi e dalla memoria.
La “Social Cognition” studia le modalità con cui gli individui attribuiscono un senso alla loro esistenza e
interpretano il comportamento proprio e degli altri; si occupa, quindi, dello studio scientifico dei processi
attraverso cui le persone acquisiscono informazioni dall’ambiente, le interpretano, le immagazzinano in
memoria e le recuperano da essa, al fine di comprendere sia il proprio mondo sociale, sia loro stesse, ed
organizzare di conseguenza i propri comportamenti.
Il compito però non è sempre facile o immediato, perché spesso il problema è la non conoscenza di tutti gli
elementi necessari a giudicare una data situazione. Ogni giorno prendiamo tantissime decisioni, anche se
non disponiamo di dati sufficienti.
Il focus di principale interesse è relativo alle strutture cognitive interessate nel giudizio e nel comportamento
sociale e dei processi mediante i quali tali strutture operano (attribuzioni di causalità, la categorizzazione
sociale, gli schemi cognitivi, le euristiche (scorciatoie mentali di ragionamento) del pensiero sono i
principali temi d’interesse della social cognition).

3 I principi base della Social Cognition


I principi cardine della ricerca sulla Cognizione Sociale possono essere così categorizzati: 1. La realtà non
esiste indipendentemente dalla mente che la percepisce e la modella: l’individuo è un elaboratore attivo di
informazioni, le INTERPRETA E le ORDINA. È UN ORGANISMO PENSANTE CHE UTILIZZA LA
PROPRIA ATTIVITÀ COGNITIVA PER RELAZIONARSI ALL'AMBIENTE IN CUI VIVE; 2. I diversi
elementi della realtà sono raccolti, nella mente, in unità di significato (approccio olistico) che servono a dare
un senso a ciò che osserviamo; 3. Il significato che attribuiamo a ciò che osserviamo, dipende dal nostro
personale modo di interpretare il reale; 4. Cognizione e motivazione sono interdipendenti (l’interpretazione
cognitiva del reale, ci guida nelle scelte e nei comportamenti). La cognizione è lo strumento per costruire
l’interpretazione del mondo e aiuta l’individuo ad identificare ciò che egli deve fare e quale direzione
intraprendere nel porre in essere un certo comportamento. La forza della motivazione ci dice se è possibile
predire se un certo comportamento si realizzerà e in che misura. Facciamo un esempio: se ho deciso di
iscrivermi in palestra per rimettermi in forma, non mi basterà fermarmi solo all’intenzione, ma dovrò
impegnarmi con costanza (motivazione) a seguire regolarmente il mio programma di allenamento.
Nel tempo sono state proposte quattro diverse concezioni di uomo come organismo pensante:
Ricercatore di coerenza (anni 60): Tra gli anni '50 e '60 studiosi come Festinger con la sua teoria della
dissonanza cognitiva (1957) e Heider (1958) autore della teoria dell'equilibrio propongono una concezione
dell'uomo come ricercatore di coerenza teso a cogliere l'equilibrio, da un lato, tra le credenze che possiede,
dall'altro, tra il proprio sistema di credenze ed i propri comportamenti.

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Secondo questa prospettiva, l'individuo avvertendo una incongruenza tra un suo atteggiamento ed un suo
comportamento proverebbe una sgradevole attivazione fisiologica, spinta motivazionale per ricercare
l'equilibrio e la coerenza cognitiva (la realtà sociale risulta quindi orchestrata non solo da fattori puramente
cognitivi, ma
anche da fattori di natura strettamente motivazionale);
Scienziato ingenuo (anni 70): A partire dagli anni '70, si afferma una nuova prospettiva che propone una
concezione dell'individuo inteso non più come ricercatore di coerenza, ma come uno scienziato ingenuo.
Lo scienziato ingenuo, al fine di spiegare gli eventi, mette in atto un'analisi cognitiva delle informazioni
riguardanti quegli eventi (es:incontro un amico che mi saluta freddamente e mi do le seguenti spiegazioni :
“probabilmente era di corsa”, oppure “era preoccupato per qualcosa” o ancora “era imbarazzato dal non
rivedermi da tanto”)
Fin quando tale analisi non viene distratta da fattori esterni e fin quando le risorse cognitive sono disponibili,
allora l'individuo sarà in grado di spiegare correttamente gli eventi; d'altra parte, una errata esecuzione dei
passaggi razionali necessari comporta un'inadeguata definizione della realtà.
In quest'ottica i fattori cognitivi giocherebbero un ruolo decisivo (1).
Economizzatore di risorse cognitive (anni 80): Successivamente, ci si è resi conto che l'individuo, avendo
a disposizione limitate risorse cognitive, deve ricorrere a delle strategie di elaborazione delle informazioni, le
cosiddette euristiche (dette anche scorciatoie mentali), che gli consentono di risparmiare tempo e sforzi e,
contemporaneamente, di ottenere delle informazioni sufficientemente attendibili su quanto sta accadendo
attorno a lui. Il modello di uomo che ne deriva è quello dell'economizzatore di risorse cognitive.
Stratega motivato (dagli anni 90 ad oggi): In anni più recenti, le ricerche psicosociali hanno sottolineato
che l'individuo, nell'elaborare le informazioni, sceglie le strategie che preferisce in base alle sue necessità ed
ai suoi obiettivi.
Il modello di uomo come economizzatore di risorse cognitive si perfeziona, pertanto, in un modello che vede
l'individuo come uno stratega motivato, un soggetto che sceglie le sue strategie cognitive più adeguate ai
suoi scopi e alle sue motivazioni.
(Arcuri e Castelli, 2000; Pendry e Macrae, 1994).

4 Le origini del concetto di schema


Il contributo delle strutture cognitive è cruciale nel rendere significativa l’esperienza sociale dell’individuo,
il quale di norma è convinto che le sue esperienze del mondo abbiano un certo “colore” ed una certa “forma”
perché il mondo è fatto proprio così ed egli si limita a registrarne le caratteristiche.
Ma la maggior parte della psicologia sociale può dirsi erede della psicologia gestaltiana e, come tale, il
carattere ricostruttivo della percezione ed il ruolo del contesto nel favorire la modificazione di significato che
gli elementi in esso inseriti subiscono diventano fondamentali.
Nella nostra vita quotidiana, formuliamo costantemente teorie su noi stessi e sul mondo circostante ed, in
base ad esse, comprendiamo ed interpretiamo noi stessi, gli altri ed ogni interazione o contesto sociale in cui
ci troviamo.
Le nostre teorie sul mondo sociale o schemi (Bartlett 1932; Markus 1977; Taylor e Crocker 1981)
influenzano profondamente le informazioni che registriamo, su cui riflettiamo e che, successivamente,
ricordiamo.
Gli schemi sono strutture cognitive che organizzano le informazioni su determinati temi o argomenti, come
le persone, noi stessi, i ruoli sociali.
Dal momento in cui formiamo uno schema, si producono effetti interessanti sul modo in cui elaboriamo e
memorizziamo nuove informazioni. Esso agisce da filtro, rifiutando le informazioni che sono contraddittorie
o incoerenti rispetto al tema prevalente (Fiske 1993; Higgins e Bargh 1987; Stangor e McMillan 1992).
Le ricostruzioni che avvengono in memoria tendono ad essere coerenti con il nostro schema. Sarà, dunque,
più probabile che sceglieremo di attuare dei comportamenti o fare delle scelte che si concilino con i nostri
preconcetti, piuttosto che sulla effettiva evidenza dei fatti (Darley e Akert 1993; Markus e Zajonc 1985).

5 Funzione degli schemi: perché esistono?


Se gli schemi possono non di rado condurci ad una percezione errata del mondo, perché mai dovrebbero
esistere? Proviamo ad immaginare in quale condizione saremmo senza schemi sul nostro mondo sociale:
cosa accadrebbe se qualsiasi cosa in cui ci imbattessimo fosse un’inspiegabile fonte di confusione, qualcosa

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di radicalmente diverso da quanto già incontrato? Gli schemi assumono una notevole rilevanza perché
riducono l’ambiguità che, a volte, incontriamo con informazioni suscettibili di più interpretazioni. Le
persone impiegherebbero, dunque, gli schemi per completare le loro lacune informative allorchè non del
tutto sicure di ciò che stanno osservando. Essi ci guiderebbero altresì nella costruzione di nuove conoscenze
(influenzano l’elaborazione, la codifica in memoria e l’interpretazione delle informazioni) e nella scelta dei
comportamenti da mettere in atto in determinate situazioni (se nella mia mente esiste uno schema che mi
dice che una particolare situazione potrebbe essere pericolosa, sceglierò di mettere in atto dei comportamenti
adeguati a far sì che possa tenermi lontano dall’ipotetica minaccia). Il vero problema è che le persone spesso
vedono il mondo in maniera tale da credere di aver invocato lo schema giusto anche quando ciò non è
esattamente vero.
Esistono diversi tipi di schemi sociali, a seconda del genere di informazioni contenuti in essi (Taylor e
Crocker 1981) :
- Schemi di persone
- Schemi di sé
- Schemi di ruolo
- Schemi di eventi (script)

Gli schemi di persona sono strutture di conoscenza che contengono le informazioni che ci aiutano a
descrivere le persone in base ai loro tratti di personalità e i loro scopi. Sulla base dell’attivazione di specifici
schemi di persona siamo in grado di concettualizzare i nostri simili usando termini generali per rappresentare
particolari combinazioni di attributi ( autoritario, loquace ecc.).
Gli schemi di sé sono strutture in cui il soggetto, pensando a se stesso, costruisce categorie grazie alle quali
struttura la propria autocoscienza. Essi contengono i tratti particolarmente centrali per la descrizione di sé.
Servono per rappresentare l’oggetto di conoscenza al quale siamo più vicini: noi stessi. Rappresentano il
giudizio che quotidianamente l’individuo impiega per considerare se stesso.
Gli schemi di ruolo definiscono i comportamenti previsti in relazione alle posizioni che le persone occupano
in una data realtà sociale. Si riferiscono a quell’insieme di comportamenti che ci si attende che una persona,
che occupa una particolare posizione in una struttura sociale, metta in atto. E’ la struttura cognitiva che
organizza la conoscenza che una persona ha a proposito dei comportamenti più appropriati connessi ad una
specifica prestazione di ruolo (professioni, gruppi politici, sesso, razza).
Gli schemi di eventi contemplano le conoscenze relative al modo con cui ci si comporta nelle diverse
situazioni sociali, comprese le aspettative che abbiamo sul modo in cui si comporteranno gli altri (scripts o
copione).

6 Determinanti culturali degli schemi


La cultura in cui siamo cresciuti costituisce una fonte fondamentale dei nostri schemi, che ci guideranno
nell’interpretare noi stessi ed il nostro mondo sociale. Frederic Bartlett (1932) osservò che culture diverse
possiedono schemi fra loro molto differenti in funzione di ciò che è ritenuto importante in quella determinata
cultura.
In molte culture occidentali le persone hanno una visione di sé indipendente che esalta l’individualismo
(Kitayama e Markus 1994) : gli occidentali imparano, dunque, a definire se stessi in chiave di netta
separazione dagli altri, valorizzando la loro unicità. Le culture non occidentali, invece, possiedono una
visione di sé interdipendente, in cui viene valorizzata l’associazione fra le persone. L’indipendenza e
l’unicità sono disapprovate. Ciò non implica che ogni membro della cultura occidentale abbia una visione di
sé come individuo indipendente e che ogni rappresentante della cultura asiatica abbia una visione di sé come
individuo interdipendente. Anche all’interno delle culture vi sono differenze nel concetto di sé e queste
differenze hanno più probabilità di acuirsi con l’aumentare del contatto fra le culture. La differenza del senso
di sé tra cultura occidentale ed orientale oltre che una sua realtà, avrebbe delle conseguenze interessanti
anche sulla comunicazione fra culture.
1. Problematicità relative all’utilizzo degli schemi:

errori e scorciatoie
a. Errori

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Il grande valore degli schemi è che ci aiutano a filtrare le informazioni del contesto che riteniamo importanti.
Può capitare, tuttavia, di incorrere, talvolta, in errori di valutazione. Esemplificativo, in questa direzione, il
cosiddetto “effetto precedenza (primacy)” [Jones et al., 1968], per cui l’individuo si lascerebbe influenzare
dalle primissime impressioni su un dato evento e, dunque, guidare nelle interpretazioni successive (ad
esempio, arriva un cliente in agenzia di viaggi che mi appare un po’ indeciso e questa cosa mi condiziona
nelle successive interazioni, impedendomi di relazionarmi a lui in maniera serena ed assertiva, per il timore
di non riuscire ad aiutarlo nella scelta del viaggio, tralasciando, dunque, la possibilità che questa
confusione possa essere del tutto normale all’inizio e che ciò non significhi necessariamente che
l’operazione fallirà, anche se, il giorno prima, con un cliente simile, non ero riuscito). Altro errore potrebbe
essere quello del cosiddetto “effetto recenza (recency)”, per cui le informazioni ricevute per ultime
produrrebbero l’impatto maggiore (sono una guida turistica e quasi alla fine del tour, noto un gruppetto di
persone che sembrano distrarsi e penso che tutto il mio lavoro non sia stato poi così apprezzato ed efficace,
magari trascurando il fatto che, invece, per tutte le due ore precedenti, l’intero gruppo si era mostrato
attento e soddisfatto e focalizzandomi solo sull’ultimo fotogramma dell’evento) .
Altro errore consueto è quello detto “effetto persistenza” (Ross, Lepper e Hubbard, 1975) che si
verificherebbe quando le credenze dei soggetti persistono anche dopo che ne sono state confutate le prove a
sostegno; quando, cioè, nonostante le prove siano contrarie al mio pensiero, per confermarlo, vado a ritroso
nella mia memoria alla ricerca di fatti accaduti in passato, dove, in circostanze simili, non sono riuscito (o, al
contrario, sono riuscito) in quella determinata performance (commetto un errore a lavoro e non lo ammetto
perché mi ripeto di non aver mai sbagliato in passato in compiti simili).
Altre volte, può succedere, invece, di creare innavertitamente delle prove che sostengono il nostro schema,
processo definito “profezia che si autoavvera” (Rosenthal e Jacobson, 1968). Questo significa che, anche
quando le persone cercano di relazionarsi agli altri in maniera imparziale e priva di condizionamenti, sono le
loro aspettative ad intromettersi ed a modificarne il comportamento, il quale, a sua volta, modifica il
comportamento della persona con cui stanno interagendo (se un cliente non ci sta molto simpatico ci
porremo nei suoi confronti in una maniera tale da suscitare in lui una reazione analoga alla nostra [vedi
tono della voce freddo e distaccato, postura rigida e trattenuta], creando un circolo vizioso che si
automantiene e che, in un certo senso, ci conferma la nostra idea iniziale).
b. Scorcoiatoie

Sovente, le persone, nel compiere delle scelte si avvalgono di scorciatoie mentali che faciliterebbero le loro
decisioni. Non è detto, però, che queste scorciatoie portino sempre alla scelta migliore. Con il termine
“euristica” ci si riferisce, dunque, ad un insieme di regole che gli individui seguirebbero per formulare
giudizi in maniera rapida ed efficiente (“euristica del giudizio”).
- Euristica della disponibilità: quando formuliamo giudizi sulla base della facilità con cui riconduciamo
esempi alla mente (Manis et al., 1993; Schwarz et al., 1991). Un esempio potrebbe essere quello in cui ci
ritroviamo in comitiva al ristorante e ad un nostro amico viene portato un piatto che non aveva ordinato ed
egli lo accetta lo stesso. Si apre quindi una discussione se egli sia o no una persona capace di imporsi. Un
modo per rispondere a questa domanda è richiamare un opportuno schema preconfezionato. Se però non ci
siamo mai posti una simile domanda sul nostro amico, allora siamo costretti a pensare a come rispondere. In
questa situazione, spesso ci affidiamo alla facilità con cui ci vengono in mente esempi diversi.
Concluderemo, pertanto, che il nostro amico è capace o no di imporsi a seconda di quali esempi riusciamo ad
evocare con maggiore facilità.

Numerose sono le situazioni in cui questa ci appare una buona strategia da usare. Un problema insito in essa
è però che, qualche volta, ciò che con più facilità viene ricondotto alla memoria non è caratteristico del
quadro generale e può condurci, quindi, a conclusioni errate.
- Euristica della rappresentatività (Kahneman e Tversky, 1973): un’altra scorciatoia mentale viene
impiegata quando le persone cercano di categorizzare qualcosa di nuovo, giudicando quanto questo possa
essere simile al loro concetto di caso tipico (sono un portiere d’albergo e mi arriva un cliente inglese a
chiedere una stanza. In base al concetto che ho di “persona inglese”, magari fredda e distaccata, tenderò a
farmi un’opinione di chi ho di fronte, basandomi sui miei schemi precostituiti o stereotipi).

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- Euristica dell’ancoraggio e dell’accomodamento (Tversky e Kahneman, 1974) : è una strategia con cui
le persone utilizzano un numero o un valore come punto di partenza e quindi precisano la loro risposta
rispetto ad esso. Spesso però i valori da cui si parte sono frutto di esperienze personali atipiche, e perciò non
sono affatto rappresentative del reale. Quando si generalizza partendo da un campione di informazioni per
arrivare alla sua totalità, viene messo in atto un processo chiamato campionamento tendenzioso.

c. Euristica e cultura

Sono stati effettuati diversi studi per stabilire se i “biases” attribuzionali siano tipici di determinate culture
oppure si possano considerare universali. In fondo la cultura può essere considerato il “fattore situazionale di
base”, quello che ci condiziona fin dalla nascita.
Gli studi hanno dimostrato che le persone appartenenti a culture individualiste (ad es. USA e occidente in
genere) sembrano preferire le attribuzioni disposizionali, mentre gli appartenenti a culture che pongono in
risalto l'appartenenza di gruppo e l'interdipendenza (soprattutto orientali) tendono a fare attribuzioni
situazionali.
In realtà anche i membri di culture collettiviste fanno attribuzioni disposizionali, ma sono maggiormente
predisposti a considerare i fattori situazionali. Essi quindi sono in grado con più probabilità di combattere
l'errore fondamentale di attribuzione, che comunque è presente universalmente.

7 Il pensiero automatico ed il pensiero controllato


Si devono distinguere due tipi di cognizione sociale:
F 0un
B 7 tipo di pensiero veloce e automatico, che interviene quando agiamo “senza pensare”, ovvero senza

riflettere coscientemente;
F 0un
B 7 pensiero controllato, deliberato, che interviene quando dobbiamo prendere decisioni importanti

riguardanti la nostra vita e riflettiamo su queste consapevolmente.

A. IL PENSIERO AUTOMATICO

Il pensiero sociale possiede, dunque, un’ importante proprietà che facilita notevolmente la nostra
comprensione del mondo sociale: la capacità di elaborare informazioni in maniera rapida ed inconscia. Il
nostro modo di pensare può diventare automatico, proprio come le nostre azioni. Quanto più ci siamo
addestrati a pensare in un certo modo, tanto più naturale ed automatico diventa quel genere di pensiero, fino
a potervi accedere senza alcuno sforzo, quasi senza accorgercene.
Questa modalità di pensiero inconscia, non intenzionale, involontaria viene definita “elaborazione
automatica”.
Categorizziamo, senza sforzi, persone ed eventi in base ad i nostri schemi preesistenti. Questo,
indubbiamente ci agevola nella velocità e nella fatica, ma c’è un prezzo da pagare: vi sono, infatti, dei rischi
nel categorizzare automaticamente un oggetto o una persona in maniera erronea . Noi riponiamo rapidamente
ogni persona nella sua casella sulla misura dei nostri schemi evocati automaticamente in base a razza, sesso,
età e bellezza (Devine, 1989; Fiske, 1989).
F 0Pensiero
B7 automatico e stereotipi

Il pensiero automatico ci aiuta a comprendere situazioni nuove collegandole alle nostre esperienze
precedenti. Per fare questo utilizziamo gli schemi, ovvero strutture mentali che organizzano la nostra
conoscenza del mondo sociale. Tali strutture influenzano profondamente le informazioni che registriamo, su
cui riflettiamo e che successivamente ricordiamo.
Quando vengono applicati ai membri di un gruppo sociale, al genere o all’etnia, gli schemi vengono definititi
come stereotipi.
Numerosi esperimenti hanno dimostrato che gli stereotipi influiscono in maniera notevole anche sulle
percezioni, portando a comportamenti distorti ed errati. Ciò accade quando le persone utilizzano il pensiero
automatico, anche se consciamente non si riconoscono nei pregiudizi incarnati dagli stereotipi.
F 0Pensiero
B7 automatico e schemi

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Gli schemi, anche se ci possono portare ad una visione distorta del mondo, in realtà sono fondamentali per
poter affrontare le situazioni nuove, riducendo l’ambiguità interpretativa e permettendoci di selezionare le
informazioni che ci vengono dal mondo esterno. Il problema si pone quando ci si aggrappa eccessivamente a
schemi che non sono rappresentazioni accurate del mondo.
Gli schemi inoltre fungono da guide della memoria: la memoria umana è ricostruttiva, e le persone
riempiono gli spazi vuoti con le informazioni coerenti con i propri schemi.
La scelta dello schema da applicare alle diverse situazioni dipende dall’accessibilità. Esistono due tipi di
accessibilità:
F 0in
B 7 base all’esperienza passata: questi schemi sono sempre accessibili

F 0in
B 7 base ad un evento contingente che ha fissato uno schema in memoria: in questo caso l’accessibilità

può essere temporanea, e indotta.

Il “priming” è appunto il fenomeno per cui esperienze recenti aumentano l’accessibilità di uno schema.
Il priming è un ottimo esempio di pensiero automatico, in quanto le persone non sono consapevoli del fatto
che stanno applicando concetti o schemi cui è capitato di pensare poco prima.
B. IL PENSIERO CONTROLLATO
A frenare e riequilibrare l’elaborazione automatica ci viene in soccorso l’ “elaborazione controllata”, fatta di
pensieri consapevoli, intenzionali, volontari e deliberati.
A differenza dell’elaborazione automatica, il pensiero controllato richiede motivazione ed impegno: quando
la posta in gioco è bassa e noi non siamo particolarmente interessati all’accuratezza di una decisione o di un
giudizio, lasciamo spesso che sia il nostro pensiero automatico ad occuparsene, senza curarci di controllarlo
o di correggerlo.
Gilbert (1991) sostiene che le persone sono programmate per credere automaticamente in tutto ciò che
vedono e che sentono. Questo processo sarebbe insito negli esseri umani perché gran parte di quanto
osserviamo è vero. La vita diventerebbe veramente difficile se dovessimo fermarci e decidere ogni volta
sulla veridicità di ciò che incontriamo. Di tanto in tanto, tuttavia, ciò che sentiamo e vediamo non è vero:
abbiamo pertanto bisogno di un freno e di un successivo riequilibramento che ci renda capaci di “non
accettare” ciò che avevamo inizialmente creduto (Gilbert, Tafarodi e Malone, 1993).
2. Conclusioni

Le abilità cognitive del pensiero umano possono portare a grandi risultati culturali e intellettuali, ma anche a
compiere errori fondamentali.
E’ tuttora in corso un dibattito su quale dei due tipi di pensiero (automatico o controllato) sia più importante
per il nostro funzionamento. Ciò che è chiaro è che entrambi sono estremamente utili. Forse la migliore
metafora del pensiero umano è quella secondo cui le persone sono “scienziati imperfetti”, che cercano di
scoprire la natura del mondo sociale in maniera logica, ma che non ci riescono alla perfezione. Possiamo
ancora migliorare.
Viste le conseguenze spiacevoli, e a volte tragiche, del ragionamento umano, ci si deve porre il problema di
come rimediare, insegnando alle persone come migliorare le proprie inferenze.
Uno dei possibili metodi è quello di spingere le persone a considerare con maggiore modestia le loro
capacità di ragionamento: spesso infatti ci sentiamo infallibili.
Un'altra possibilità è quella di insegnare alle persone alcuni dei principi statistici e metodologici
fondamentali relativi al ragionamento corretto, nella speranza che poi li applichino nella loro vita quotidiana.

“IL PENSIERO RIFLESSIVO: METACOGNIZIONE E TEORIA DELLA MENTE” :

1 Introduzione
La Metacognizione rappresenta la consapevolezza ed, insieme, la capacità delle persone di riflettere sui
propri stati interni, cognitivi ed emotivi. Tale capacità sarebbe strettamente collegata alla Teoria della Mente
che, allo stesso modo, costituisce l’abilità di comprendere la mente altrui ed accompagnerebbe il bambino a
non confondere il proprio mondo interno con quello delle altre persone. Queste due funzioni rappresentano
un sistema di monitoraggio che regola il comportamento umano, sociale e affettivo del futuro adulto. Grazie
al loro corretto sviluppo il bambino giunge a comprendere la relazione tra eventi ed emozioni, arrivando a

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definirne il significato. Sarà capace di associare il nome corretto alle emozioni e a comprenderne la natura
contestuale e transitoria.
Lo sviluppo della capacità metacognitiva è strettamente legato alle specifiche modalità con cui il bambino si
relaziona alle proprie figure di accudimento. La relazione che il bambino instaura con il suo caregiver
(persona che viene riconosciuta in grado di prendersi cura di lui ) verrebbe, pertanto,“mentalizzata”,
configurandosi come “base” per comprendere come rispondere affettivamente agli stimoli esterni ed interni
e, quindi a come gestire i propri stati interni e a cosa aspettarci dagli altri.
Un deficit nella capacità di mentalizzazione causerebbe nell’individuo una grande vulnerabilità e a livello
affettivo e sociale. Conseguenze importanti potrebbero essere una ridotta comprensione di sé stessi e
dell’altro, una incapacità nel contestualizzare gli eventi all’interno di una storia relazionale condivisa e
difficoltà nel problem solving, sia personale che relazionale.

2 La Metacognizione
La nozione di metacognizione viene complessivamente definita da Flavell (1981a, cit. in Flavell et al., 1993)
come “ogni conoscenza o attività cognitiva che prende come oggetto, o regola, ogni aspetto di qualsiasi
impresa cognitiva”. “Meta” significa etimologicamente “al di là”, “al di sopra”; in riferimento ad un livello
meta che ha come termine di specificazione i processi di pensiero, ci si riferisce alla metacognizione come ad
una attività di riflessione su questi stessi processi, sulla loro natura e sul modo in cui si verificano (Petter,
1996). Il suo significato centrale è quindi quello di “cognizione della cognizione”. Le prime ricerche
nell’ambito della metacognizione si concentrarono soprattutto sulle abilità di metamemoria di bambini in età
prescolare (Flavell et al., 1970, cit. in Semerari, 1999). Successivamente, altri studi di matrice cognitivista si
sono affacciati alla conoscenza sociale e alle capacità di attribuzione di stati mentali, a cui viene
generalmente dato il nome di Teoria della Mente.
Altri autori hanno concettualizzato il dominio della metacognizione in modi diversi. In particolare, Cornoldi
(1995) la definisce come “l’insieme delle attività psichiche che presiedono al funzionamento cognitivo”, ma
distingue due ambiti di applicazione: i processi metacognitivi di controllo, che guidano l’effettivo
funzionamento cognitivo e la conoscenza metacognitiva (o metaconoscenza) sul funzionamento mentale.
2.1. Conoscenza metacognitiva
La conoscenza metacognitiva si riferisce all’insieme delle idee che un individuo possiede sul funzionamento
mentale; è costituita da quelle credenze e conoscenze conservate nella memoria a lungo termine aventi come
oggetto gli atti della mente umana. Mentre la capacità razionale è presente anche nelle specie inferiori la
capacità di pensare i propri pensieri, i propri comportamenti i propri sentimenti in modo critico è una
prerogativa strettamente umana. Stiamo parlando dell’autocoscienza. Un cane non avrebbe mai potuto
inventare la teorie della relatività perché manca della capacità di riflettere sulle proprie teorie, sebbene sia
capace di valutare se prender il biscotto o il pezzo di carne, non potrebbe però riflettere se gli fa più bene
l’uno o l’altro.

2.2. Processi metacognitivi di controllo


I processi metacognitivi di controllo si sviluppano in interazione con la metaconoscenza e consistono
nell’osservazione, monitoraggio e autoregolazione dei processi cognitivi. Tali meccanismi comprendono
principalmente la consapevolezza di una situazione come problematica, la capacità di stimare correttamente
la propria prestazione, la pianificazione dell’attività cognitiva e la facoltà di guidare l’attività cognitiva verso
un fine prefissato (Brown, 1987, cit. in Cornoldi, 1995) Es: devo preparare un esame in nemmeno due
settimane e, dato il pochissimo tempo a disposizione (consapevolezza della situazione problematica), valuto
la necessità di creare un programma di studio intensivo, magari avvalendomi anche della collaborazione dei
miei colleghi, al fine di raggiungere il risultato sperato, quello ciòè di superare l’esame al meglio delle mie
possibilità (pianificazione).

3 Un modello di comprensione della funzione metacognitiva


Semerari e i suoi collaboratori (Semerari, 1999) hanno proposto una valutazione delle funzioni
metacognitive a partire da una suddivisione delle stesse in quattro sottoclassi organizzate in modo gerarchico
(in relazione al grado di complessità implicato nella conoscenza del proprio funzionamento mentale):
autoriflessività, comprensione della mente altrui, decentramento e mastery. Tale ripartizione permette di
evidenziare tipologie di contenuti metacognitivi distinti e specifici, tuttavia tra loro interrelati.

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3.1. Autoriflessività
L’autoriflessività “si riferisce alla capacità dell’individuo di rappresentare eventi mentali e di compiere
operazioni cognitive euristiche sul proprio funzionamento mentale” (ibid.).
Questa capacità comprende:
1. la capacità dell’individuo di percepirsi e riconoscersi come vita mentale separata e autonoma “Io penso
questo ... tu pensi quest’altro”
2. capacità di pensare i propri pensieri ed emozioni “io penso che sei buono… sono contento di pensare che
sei buono”
3. capacità di mettere in relazione se stesso e l’ambiente circostante “mi sto comportando bene e noto che
questo ti fa piacere

3.2. Comprensione della mente altrui


Comprensione della mente altrui e decentramento sono implicati entrambi nella comprensione del
funzionamento mentale dell’altro, ma utilizzano meccanismi differenti.
La comprensione della mente altrui si riferisce “alla capacità del soggetto di rappresentare eventi mentali e
di compiere operazioni cognitive euristiche sul funzionamento mentale altrui” (ibid.).
Questa capacità comprende:
1) la capacità di riconoscere nell’altro l’esistenza di una mente autonoma “tu pensi questo…”;
2) la capacità di distinguere tra ciò che l’altro pensa e ciò che prova “ l’altro pensa questo e prova
(sentimento) questo…”
3) la possibilità di considerare come soggettive ed ipotetiche le proprie rappresentazioni circa il
funzionamento mentale dell’altro “Marco mi ha salutato freddamente quando mi ha visto stamattina…forse
era preoccupato per qualcosa” è diverso da “Marco mi ha salutato freddamente quando mi ha visto
stamattina perché non gli sono simpatica”.

3.3. Decentramento
Il decentramento si riferisce “alla capacità del soggetto di rappresentare eventi mentali e di compiere
operazioni cognitive euristiche sul funzionamento mentale altrui non riferendosi esclusivamente alle
conoscenze sul proprio funzionamento mentale e non essendo necessariamente coinvolto nella
relazione” (ibid.). Rispetto alla funzione sopra descritta, nel decentramento l’individuo percepisce in modo
consapevole ciò che è soggettivo, riuscendo a discriminare le proprie operazioni cognitive da quelle altrui e
di non essere al centro dei pensieri e dei sentimenti dell’altro, il quale è mosso da scopi e motivazioni in gran
parte indipendenti dalla relazione con il soggetto stesso. Colui che riesce a decentrare riconosce il proprio
punto di vista e lo colloca tra gli altri possibili. Nella capacità di comprendere la mente altrui, invece, le
caratteristiche del funzionamento cognitivo vengono inferite esclusivamente in maniera egocentrata senza
differenziazione e reciprocità. (si veda a tale proposito il concetto di egocentrismo elaborato da Piaget,
1926). Es: Posso comprendere che non ti piaccia dire bugie sebbene a me piaccia molto.

3.4. Mastery
La funzione di mastery si riferisce alla “capacità dell’individuo di rappresentare ambiti psicologici in
termini di problemi da risolvere e di elaborare strategie adeguate alla risoluzione del compito a livelli
crescenti di complessità” (ibid.).
ES: inquadrare i propri pensieri non come dati di fatto, ma in termini di compiti da eseguire e problemi da
risolvere, definendo in modo plausibile i termini del problema ( ricerca di sostegno nel contesto relazionale,
l’accettazione dei propri limiti, ecc…).

4 La Metacognizione e la Psicologia Sociale


Questa capacità si sviluppa all’interno di una relazione duale prima e sociale dopo. Essa influenza
notevolmente l’organizzazione delle società umane che di fatto, grazie a questa funzione, sono molto più
efficienti e complesse di quelle animali. Né è a sua volta influenzata. Lo sviluppo tecnologico delle culture
occidentali dipende molto dal fatto che questo tipo di cultura, grazie alla filosofia, cioè alla possibilità di
riflettere su una serie di problematiche relative all’uomo e alla vita, ha iniziato un processo di riflessione che
negli anni ha portato allo sviluppo delle scienze. Lo sviluppo delle scienze e della tecnologia a sua volta ha
influenzato lo sviluppo del pensiero riflessivo. Come ovvia conseguenza si verifica che negli ambienti

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socialmente più avvantaggiati le famiglie utilizzano di più la riflessione e la comunicazione come scambio di
riflessioni. Quindi i figli sono più abili a scuola e in tutte le attività che richiedono questo tipo di
comportamento. Al contrario in quelle famiglia dove l’agire è più spontaneo i figli sono meno portati a
riflettere quindi più carenti anche negli studi, dove questa competenza è indispensabile.

5 La Teoria della Mente e la relazione sociale


I concetti di “Metacognizione” e “Teoria della Mente” hanno conosciuto un forte sviluppo nell’ambito delle
scienze cognitive degli ultimi trent’anni. In particolare, per “Teoria della Mente” si intende un settore di
ricerca sviluppatosi a partire dagli studi sulla capacità degli scimpanzé di prevedere il comportamento di un
attore umano in situazioni finalizzate verso uno scopo (Premack e Woodruff, 1978). Tale nozione riguarda
quegli aspetti specifici della conoscenza metacognitiva relativi al “possesso di una rappresentazione
dell’evento mentale e alla capacità di attribuire a sé e agli altri stati mentali (emozioni, desideri, credenze e
intenzioni) e di prevedere e/o spiegare il comportamento manifesto sulla base di questi dati” (ibid.).
In un’ottica evoluzionistica, si può facilmente comprendere come per gli esseri umani questa capacità di
inferire ciò che è nella mente dell’altro sia stata una tappa fondamentale nello sviluppo di modalità sempre
più complesse di interazioni umane e di costruzione di forme di convivenza sociale. D’altra parte,
considerando lo sviluppo ontogenetico dell’individuo, vi è una letteratura crescente ed interdisciplinare
(psicologia dell’età evolutiva, psicologia cognitiva, neuropsichiatria infantile) che sostiene come questa
competenza cognitiva sia distinta e non riconducibile “tout court” ad altre funzioni cognitive, peculiare della
specie umana ed acquisita secondo tappe maturative. In questo senso, il concetto di “Teoria della Mente” è
strettamente connesso a quello più generale di “Metacognizione” (“cognizione della cognizione”); ovvero, la
Teoria della Mente sarebbe un aspetto specifico di più ampie “capacità metacognitive” acquisite nel corso
dello sviluppo ontogenetico.
5.1. Sviluppo della Teoria della Mente
Gli scimpanzé hanno una Teoria della Mente? In altre parole, sono in grado di attribuire stati mentali a sé e
agli altri? Nel loro articolo (“Does the chimpanzee have a Theory of Mind?”), Premack e Woodruff (1978)
dimostrarono che scimpanzé addestrati al linguaggio sono in grado di mettere in atto comportamenti
intenzionali e quindi di stabilire una connessione tra le proprie azioni e gli scopi altrui. Tuttavia non riescono
ad attribuire stati mentali ad altri conspecifici. E’ probabile che i primati non umani si limitino al “tentativo
di influenzare quello che l’altro fa (il comportamento), ma non provano ad influenzare ciò che l’altro
crede” (Karmiloff-Smith, 1992). L’acquisizione di una Teoria della Mente è, quindi, una prerogativa della
mente umana normale. Dagli studi sulla comprensione del funzionamento mentale dei primati presero avvio
molte ricerche sul compito della falsa credenza. Questa nozione è diventata un criterio evolutivo molto
importante per stabilire in che momento i bambini sviluppano completamente una Teoria della Mente
strutturalmente simile a quella adulta. Heinz Wimmer e Joseph Perner (1983) furono i primi a utilizzare una
procedura sperimentale per verificare la capacità di “comprendere la nozione di falsa credenza”: il False
Belief Task. Nel loro esperimento, i ricercatori mostravano e spiegavano ai bambini una scenetta in cui vi
erano due personaggi. Uno di loro metteva della cioccolata sotto una tazza e se ne andava dalla stanza dove
erano entrambi. L’altro cambiava la cioccolata di posto, in assenza del primo. Nella scena seguente, si faceva
tornare il primo personaggio nella stanza, e si domandava al bambino dove il primo personaggio avrebbe
cercato la cioccolata nascosta. La ricerca evolutiva ha dimostrato che verso i quattro anni i bambini normali
distinguono chiaramente lo stato reale delle cose (“la cioccolata è sotto la seconda tazza”) dalla
rappresentazione del personaggio (“la cioccolata è sotto la prima tazza”) e predicono il comportamento del
personaggio non in funzione dello stato di fatto, ma in funzione della rappresentazione mentale che gli
attribuiscono. In altre parole intorno ai quattro anni di età il bambino riesce a rappresentarsi che l’oggetto
verrà cercato dove il personaggio crede che sia e non dove realmente è. Questi bambini differenziano bene
le loro rappresentazioni da quelle altrui in situazioni di “falsa credenza di primo ordine”. Wimmer e Perner
(1983) conclusero che tali risultati non potevano essere attribuiti soltanto all’“effetto collaterale di un
aumento delle capacità di memoria e di elaborazione centrale”, ma andavano collegati all’emergere di una
“nuova abilità cognitiva”. La capacità di comprendere relazioni rappresentazionali di falsa credenza sembra
essere universale e indipendente dalla cultura, all’interno di un processo evolutivo più generale, che sembra
indicare che verso questa età i bambini normali sviluppano quella struttura essenziale del sistema di concetti
e inferenze mentalistiche che è detto “Teoria della Mente”. Tuttavia, è possibile riconoscere in alcune abilità
già presenti nei primi due anni di vita gli antecedenti di tale funzione metacognitiva.

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5.2. I precursori della Teoria della Mente
Il percorso verso l’acquisizione di una Teoria della Mente passa attraverso la capacità di attribuire stati
mentali intenzionali/volitivi (desideri, emozioni, intenzioni) a sé e agli altri, fino alla possibilità di ascrivere
stati mentali epistemici (credenze, pensieri e modi di “far finta”) e di utilizzarli per prevedere e spiegare il
comportamento manifesto. Se si guarda allo sviluppo del bambino prima dei quattro anni è possibile
individuare nell’attenzione preferenziale del neonato per il comportamento umano un prerequisito
essenziale per lo sviluppo di una Teoria della Mente. Alla nascita infatti, il cucciolo d’uomo si rivolge
preferibilmente a quegli stimoli che presentano elementi disposti a forma di volto (Johnson e Morton, 1991,
cit. in Karmiloff-Smith, 1992). Non solo, un’attenzione particolare viene prestata a tanti altri comportamenti
messi in atto da conspecifici come l’andatura, il discorso, le modalità di interazione e altri ancora. Oltre a un
riconoscimento di tipo visivo, gli infanti manifestano un ascolto maggiore di stimoli uditivi di origine umana
e in particolare mostrano una preferenza verso la voce materna. Se si pensa ai bambini autistici, questi non
manifestano alcun interesse preferenziale per tali stimoli (Karmiloff-Smith, 1992). Con l’interazione sociale
si viene a realizzare un’attenzione condivisa mediante il contatto visivo. L’“attenzione condivisa” (Baron-
Cohen, 1989, 1991, cit. in Camaioni, 1995) e la “comunicazione intenzionale di tipo proto-
dichiarativo” (Camaioni, 1992, 1993 e Gomez, 1991, cit. in Camaioni, 1995) sono due importanti precursori
della Teoria della Mente alla fine del primo anno di vita. Nelle comunicazioni proto-imperative il bambino
utilizza l’attenzione condivisa (indicando o usando lo sguardo) come mezzo per ottenere un oggetto
attraverso una richiesta non-verbale. Tali gesti si trasformano in comunicazioni proto-dichiarative nel
momento in cui il gesto di indicare ha la funzione di esprimere un commento non-verbale su un determinato
stato di cose. Non si tratta più soltanto di influenzare il comportamento dell’altro, ma l’indicazione proto-
dichiarativa ha lo scopo di modificare l’attenzione o lo stato mentale di un’altra persona (ES: quando il
bambino indica un oggetto sulla tavola affinchè la madre glielo renda).
Secondo Baron-Cohen (1994, cit. in Camaioni, 1995) proprio il mancato sviluppo della comunicazione
intenzionale nei bambini autistici, porta a ipotizzare che il meccanismo dell’attenzione condivisa sia un
precursore fondamentale per il successivo sviluppo di una Teoria della Mente.
Sempre verso la stessa età si può inoltre osservare quello che viene definito “riferimento sociale”: il
bambino è in grado di utilizzare la madre come base per decodificare la valenza emozionale di un evento
nuovo o sconosciuto e utilizza la sua reazione emotiva per la propria azione (Klinnert et al., 1983, cit. in
Camaioni, 1995) [ES: “Se mamma si mostra spaventata, vuol dire che ciò che è successo è pericoloso”].
Verso i diciotto mesi compare un altro precursore della Teoria della Mente: il gioco simbolico. Il gioco
simbolico consiste nella capacità di utilizzare oggetti o situazioni presenti in funzione di altri non presenti.
Secondo Lesile (1985, cit. in Cornoldi, 1995) deve essere caratterizzato da almeno una delle seguenti
condizioni: 1) il bambino utilizza un oggetto in luogo di un altro; 2) vengono attribuite all’oggetto proprietà
che questo non possiede; 3) c’è un riferimento a oggetti assenti come se fossero presenti. In generale, viene
sovrapposta intenzionalmente una situazione ipotetica su una situazione reale. Ad esempio, un bambino può
prendere una banana e “fare finta” che sia un telefono, sovrapponendo la rappresentazione di un telefono a
quella reale di una banana.
Un altro aspetto legato all’acquisizione di una Teoria della Mente riguarda la manifestazione del pensiero
narrativo intorno ai ventiquattro mesi. Tale paradigma è stato sviluppato da Bruner e Feldman (1993), che lo
hanno definito come la capacità di interpretare narrativamente la realtà. Il pensiero narrativo è una forma di
narrazione mentale di eventi riguardanti l’azione e l’intenzionalità umana. Secondo Bruner (1992) inserendo
gli eventi in una cornice temporale, il bambino interpreta e dà coerenza alla sua conoscenza del mondo (ES:
“Mamma mi sta preparando la pappa perché è ora di mangiare”).
5.3. Postulati alla base della Teoria della Mente
Secondo Flavell (1988) nel corso dello sviluppo il bambino acquisisce alcuni “postulati di base” che
scandiscono l’evolversi e la strutturazione della sua “teoria”. Sinteticamente questi postulati sono:
- la mente esiste (“Io penso…l’altro pensa…)
- la mente ha connessioni con il mondo fisico (comprensione del rapporto tra fenomeni mentali, eventi e
comportamenti ES: “Sento un forte rumore, penso a qualcosa di spaventoso, provo paura e piango”)
- la mente è separata dal mondo fisico e differisce da esso (i pensieri non sono realtà fisiche ed in quanto
“non osservabili”, non sono pubblici e quindi non sono direttamente accessibili);

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- la mente può rappresentare gli oggetti e gli eventi in maniera accurata o non accurata (non essendoci
corrispondenza diretta tra rappresentazione mentale e realtà rappresentata, ad ogni stato di cose può
corrispondere più di una rappresentazione).

6 Principali approcci teorici


Alla base delle spiegazioni relative allo sviluppo metacognitivo del bambino, si dividono due grandi filoni di
ricerca: la prospettiva interindividuale e quella sociale.
6.1. Prospettiva interindividuale
F 0Teoria
B7 modularista

Meccanismi innati specializzati, che si attivano a seguito della maturazione biologica, riconducibili a
specifiche aree del cervello (Leslie, 1994).
• Teoria della teoria (Theory theory)
Bambino come piccolo scienziato che avanza supposizioni che utilizza per dare significato alla propria
esperienza; a fronte di prove contrarie riformula nuove ipotesi (Meltzoff, 1997).
• Teoria della simulazione
Il bambino utilizza l’esperienza come fonte di conoscenza dei propri stati interni. Quando vede un adulto o
un compagno compiere certe azioni vi attribuisce il medesimo significato come se fosse lui a compiere
quelle azioni. Poiché è in grado di identificarsi con l’altro, può comprenderne il comportamento (Harris,
1996; Tomasello, 1999)
Teoria, quest’ultima, avvalorata dalla scoperta dei neuroni mirror o specchio (Rizzolatti 1996; Fogassi e
Ferrari, 2004).
6.2. Prospettiva sociale
Nel corso degli ultimi anni, gli studi sulla metacognizione si sono spostati dalla ricerca di una definizione
chiara di Teoria della Mente e del suo sviluppo verso l’osservazione di quei fattori in grado di influenzare
tale sviluppo. In questa direzione, particolare rilevanza è stata data all’interazione del bambino con
l’ambiente fisico, sociale e culturale. L’intelligenza cognitiva nascerebbe, dunque, dalle esperienze socio-
relazionali del bambino, secondo la cosiddetta “Concezione multilaterale” che definisce la Teoria della
Mente un’impresa relazionale che si struttura all’interno dei contesti emotivamente significativi per il
bambino (famiglia e scuola).
F 0Sviluppo
D8 metacognitivo ed interazioni familiari

Nello studio della relazione tra attaccamento e Teoria della Mente, molti ricercatori si sono orientati verso
l’osservazione delle interazioni familiari.
- Presenza o meno di fratelli

La particolare natura dei rapporti intrafamiliari sollecita lo sviluppo della capacità di intuire i sentimenti, le
intenzioni degli altri. In particolare è nell’interazione con i fratelli che i bambini vivono le esperienze sociali
più intense (Dunn, 1990)
- Ordine di genitura

I bambini con almeno un fratello maggiore sono risultati più abili nei compiti di Teoria della Mente rispetto
ai bambini con fratelli minori. I fratelli maggiori sembrano fungere da “maestri” nella comprensione della
mente dell’altro (Perner, Ruffman, Leekam, 1995)
- Tipologia di attaccamento

La sicurezza dell’attaccamento è un predittore delle abilità di comprendere la mente altrui. Un bambino, che
ha stabilito con il caregiver un tipo di attaccamento sicuro, sembra mostrarsi più attento alle credenze e ai
desideri che motivano le condotte degli altri (Fonagy, Redfern, Charman, 2001).
- Espressività emotiva del caregiver

La manifestazione di calore emotivo nei confronti del figlio si è mostrata positivamente correlata alle
prestazioni del bambino nella comprensione della mente. Tale variabile risulta più significativa per le

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femmine rispetto ai maschi, i quali sembrano essere maggiormente influenzati dallo stile disciplinare
(Hughes, 1999).
- Linguaggio in famiglia

La pratica nell’uso di termini riferiti a sentimenti, credenze e desideri in famiglia risulta associata
positivamente con le prestazioni del soggetto nei compiti sulla Teoria della Mente. E’ stata pertanto verificata
l’esistenza di una connessione positiva tra la pratica discorsiva, l’uso del linguaggio mentale e la
comprensione delle credenze (Dunn, 1996).
- Stile disciplinare genitoriale

Lo stile autorevole o “centrato sulla vittima” si è dimostrato il migliore nella promozione della Teoria della
Mente, a differenza di quello autoritario, risultato del tutto inefficace (Fitzgerald, White, 2003).
F 0Sviluppo
D8 metacognitivo e scuola

- Scolarizzazione

Il confronto tra soggetti scolarizzati e non scolarizzati ha mostrato un effetto positivo della scolarizzazione su
alcuni aspetti della Teoria della Mente, come la capacità di risolvere compiti di falsa credenza. La scuola
propone al bambino attività che enfatizzano fortemente il mondo interiore dei pensieri, come scrivere i propri
pensieri o leggere il pensiero di altri (Vinden, 1999).
- Rapporto con i pari

Il contesto scolastico è visto come setting favorevole all’analisi delle interazioni sociali con i pari e del
rapporto tra Teoria della Mente e abilità sociali. I bambini più competenti dal punto di vista sociale sono
anche quelli più abili nel superamento delle prove di falsa credenza, dimostrando l’esistenza di uno stretto
legame tra comprensione della mente ed interazioni sociali tra pari (Lalonde, Chandler, 1995).
- Relazione bambino-insegnante

Relazione madre-bambino sostituita da quella più ampia adulto-bambino. In quest’ottica si ipotizza una
continuità tra la relazione bambino-caregiver e le successive relazioni con figure di attaccamento multiple,
tra cui sicuramente gli insegnanti, figure di attaccamento in grado di fornire al bambino un contesto
importante di crescita e sviluppo. La relazione bambino-insegnante rappresenta uno strumento di
apprendimento, base affettiva sicura e spazio mentale in cui il bambino può esercitare le sue abilità di
mentalizzazione (Lecciso, Liverta, Sempio, Marchetti, 2005).

7 Stili di attaccamento e funzionamento metacognitivo


“Le esperienze vissute con i genitori possono modificare non solo i contenuti della mente infantile, ma anche
la capacità di operare su di essi” (Main, 1991).
John Bowlby (1969), ideatore della “Teoria dell’Attaccamento”, aveva osservato che le esperienze precoci
del bambino, relative alle sue figure di attaccamento (genitori ed, in particolar modo, la madre), sono di
particolare importanza per le loro implicazioni sulla padronanza di sé, sulla regolazione emotiva e sulla
vicinanza interpersonale. Secondo l’autore, lo sviluppo di questi aspetti è basato sulla qualità e sulle modalità
delle prime cure. Se la mamma sarà stata in grado di rispondere adeguatamente ai bisogni del b. ed in
presenza di un equilibrio emotivo sereno, il b. svilupperà un adeguato senso di efficacia (“ce la posso
fare”), la capacità di regolare le proprie emozioni (piango, mamma mi consola) e aspettative positive
riguardo ai rapporti interpersonali (“l’altro mi sarà vicino e si prenderà cura di me”, “posso fidarmi degli
altri”, “gli altri non mi abbandoneranno”).
All’interno di questo processo di sviluppo, l’individuo è visto come attivo, in grado di adattarsi e far fronte
alle proprie esperienze. In seguito alle prime relazioni il bambino comincia a rappresentare cosa si aspetta
dal mondo e dalle altre persone e a generare delle previsioni sulle risposte altrui rispetto al suo
comportamento ES: “Se mamma si prende cura di me, anche gli altri lo faranno”.Il bambino si
rappresenterà se stesso (CHI SONO?), il mondo e gli altri, in base a come la madre (mondo del neonato) sarà
stata in grado di rispondere ai suoi bisogni (“Se mamma mi cura, vuol dire che valgo; se valgo per mamma,
vuol dire che valgo per tutti”) .

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Differenze individuali nella sicurezza dell’attaccamento, a causa del loro impatto sull’equilibrio emotivo e
sull’esplorazione, furono viste da molti studiosi (Robertson e Robertson, 1971; Sroufe, 1986) come
importanti, sia per lo sviluppo della personalità che per la psicopatologia. Inoltre, attraverso il
comportamento del caregiver nei primi mesi di vita il bambino si sposta progressivamente da un modello
riflessivo comportamentale ad uno mentalistico. Questo passaggio avviene tramite l’interazione con il
genitore, che dà rilevanza e attenzione agli stati interni e sintonizza i suoi comportamenti alle risposte e ai
bisogni del piccolo, creando un collegamento tra realtà osservabile e stati mentali sottostanti (Fonagy e
Target, 1997). Anche il linguaggio è un forte mediatore tra realtà interna e comportamento osservabile.
Scambi comunicativi orientati metacognitivamente possono facilitare lo sviluppo di una Teoria della Mente
e delle conoscenze metacognitive generali del bambino. La capacità riflessiva permette al genitore di
comprendere con cura le attitudini intenzionali del bambino, che avrà così l’opportunità di “trovare se stesso
nell’altro” come soggetto capace di mentalizzare. La responsività e la sensibilità materna sembrerebbero
dunque, in considerazione di ciò che abbiamo esposto, due fattori basilari nella comprensione della mente
altrui. Se si considerano questi due elementi come essenziali nella determinazione della particolare relazione
attaccamento-accudimento tra bambino e caregiver, è presumibile aspettarci differenze nelle abilità di
mentalizzazione dipendenti dal pattern di organizzazione.

8 Conclusioni
La metacognizione permette all’individuo che la possiede di vedere e capire se stesso e gli altri in termini di
stati mentali (sentimenti, convinzioni, intenzioni e desideri), e pensare e compiere riflessioni sul proprio e
altrui comportamento.
Attribuendo stati mentali agli altri, il bambino rende significativo e prevedibile il loro comportamento.
Inoltre, una volta imparato a comprendere il comportamento altrui, diviene gradualmente capace di attuare il
comportamento più appropriato per rispondere in modo adattivo ai singoli scambi interpersonali.
Tale capacità (metacognizione) è caratterizzata da una componente autoriflessiva e da unainterpersonale,
grazie alle quali l’individuo può distinguere la realtà interna da quella esterna, i processi intrapsichici da
quelli relazionali.
Nel bambino, lo sviluppo della metacognizione, conosciuta anche come funzione riflessiva del Sé, ha inizio
durante l’infanzia, momento evolutivo in cui avviene gradualmente un passaggio dai modelli mentali
teleologici a quelli mentalizzati: tale passaggio dipende principalmente dalla qualità delle relazioni
interpersonali tra il bambino e l’adulto che si prende cura di lui.
La mentalizzazione, infatti, fa parte di un processo intersoggettivo tra bambino e adulto di riferimento
(generalmente la madre), e avviene attraverso l’esperienza che il bambino fa di quanto i propri stati mentali
siano stati capiti e pensati grazie a interazioni affettuose con il genitore; pertanto, l’emergere e il completo
sviluppo della funzione riflessiva dipendono dalla capacità del genitore di percepire più o meno
accuratamente le emozioni, i bisogni, le esperienze del bambino.
Pertanto, quando la madre riflette uno stato affettivo del bambino, questa percezione organizza l’esperienza
del bimbo che così conosce ciò che sta provando: con il suo comportamento attribuisce uno stato mentale al
figlio e lo tratta come un agente mentale. Il rispecchiamento della madre diviene la rappresentazione
dell’esperienza del bambino.
Facciamo un esempio concreto. In seguito a un rumore improvviso, il bambino si spaventa, sgrana gli occhi
e inizia a piangere. La madre, che collega la reazione del figlio con l’evento accaduto, lo abbraccia, lo
consola, lo tranquillizza accompagnando il contatto fisico con parole di rispecchiamento e conforto (“era un
rumore, ti sei spaventato”, “non preoccuparti, è passato”); il bambino si calma e smette di piangere. In tal
modo, grazie al comportamento di rispecchiamento della madre, egli può comprendere la sua esperienza
emotiva (paura) e conoscere lo stimolo che l’ha causata (rumore improvviso).
L’esempio illustrato mostra, dunque, una risposta materna adeguata al disagio sperimentato dal bambino, e
presuppone che la madre stessa abbia sviluppato una buona metacognizione: pur non spaventandosi in
seguito al rumore improvviso, può immaginare che un’altra persona, nello specifico un bimbo piccolo, possa
percepire le cose in modo diverso (sentire paura). Ripetute esperienze di relazione positiva tra madre e figlio
creano un contesto favorevole per l’acquisizione e lo sviluppo della metacognizione.

“LE EMOZIONI NELLE RELAZIONI SOCIALI”

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1 Premessa
Le emozioni sono un ottimo strumento di comunicazione non verbale e rappresentano il cuore e la
spontaneità delle persone. Oltre la ragione, abbiamo bisogno anche delle emozioni per comunicare, per
conoscere, per incontrare gli altri. Mentre la ragione organizza, mette ordine, le emozioni ci fanno vibrare, ci
fanno intuire quella parte della conoscenza più immediata, più istintiva, più spontanea. Alcune volte sono
una spinta al fare, al cambiare, ad agire in una direzione positiva e funzionale. Altre volte però, quando
diventano troppo intense, possono bloccare l’individuo e diventare una prigione che ci impedisce di
rispondere in maniera adeguata agli eventi, ad esempio se uscite con una ragazza/o e avete paura o siete
imbarazzati, per quanto cerchiate di nascondere quest’emozione, essa balzerà fuori e si renderà evidente,
producendo effetti non desiderati se non siamo capaci di prendercene cura e controllarla. Jung, il famoso
filosofo, diceva che le emozioni in qualche modo, rappresentano tutto ciò che motiva la vita umana.

2 La funzione adattiva delle emozioni


Secondo la prospettiva evoluzionistica (Darwin 1872) gli stati emotivi guidano il nostro comportamento
secondo due principi vitali: quello dell’auto-conservazione e quello della salvaguardia della specie. Le
emozioni, infatti, svolgono fondamentali funzioni adattive:
• Determinano le risposte fisiologiche, cognitive e comportamentali adeguate ad affrontare la situazione che
le ha determinate: per esempio la paura predispone fisicamente e mentalmente ad un evitamento dell’evento
che l’ha suscitata; la rabbia sollecita una reazione difensiva nei confronti di un danno subito ritenuto
ingiusto.
• Orientano l’esplorazione dell’ambiente fisico e relazionale all’interno dei quali si vive, nel senso che le
emozioni positive sollecitano l’avvicinamento a ciò che le ha determinate, e quelle negative un
allontanamento.
• Regolano le relazioni interpersonali ed affettive con gli altri: è più probabile, per esempio, che si decida di
trascorre una vacanza con una persona che diverte piuttosto che con una che fa venire l’acido lattico alle
orecchie.
• Comunicano agli altri significativi i propri stati interni.
• Sostengono i processi di apprendimento: è più facile ricordare la canzone del nostro cantante preferito,
quello che da anni ci conforta con le sue melodie e i suoi versi, che il teorema di Pitagora che con tono
austero ci aveva spiegato alle medie l’insegnante di matematica.
• Favoriscono i processi decisionali e la formulazione di valutazioni: tendenzialmente una cosa che piace
perché alimenta un’emozione di gioia viene giudicata desiderabile e ricercata; una che invece determina
angoscia viene ritenuta da evitarsi.

3 Le emozioni e il cervello
Per meglio comprendere la grande influenza delle emozioni sulla mente razionale- e capire come mai il
sentimento e la ragione entrino in conflitto così tanto facilmente- bisogna considerare il modo in cui si è
evoluto il cervello umano. Nell’arco di milioni di anni di evoluzione il cervello ha sviluppato i suoi centri
superiori elaborando e raffinando le aree inferiori, più antiche. La parte più primitiva del cervello, che
l’uomo ha in comune con tutte le specie dotate di un sistema nervoso relativamente sviluppato, è il tronco
cerebrale. Esso regola funzioni vegetative fondamentali come il respiro e il metabolismo degli altri organi, le
reazioni e i movimenti stereotipati. Non si può affermare che questo cervello sia in grado di pensare o di
apprendere; piuttosto si tratta di una serie di centri regolatori programmati per mantenere il corretto
funzionamento e l’appropriata reattività dell’organismo, in modo da assicurarne la sopravvivenza. Da questa
struttura molto primitiva, il tronco cerebrale, derivano i centri emozionali. Poiché questa parte del cervello
circonda e delimita il tronco, venne chiamata “sistema limbico” (dal latino limbus, “anello”). Dunque
quando siamo stretti nella morsa del desiderio o dell’ira, follemente innamorati o terrorizzati a morte, siamo
in balia del sistema limbico. Milioni di anni dopo, nel corso dell’evoluzione, da questi centri emozionali si
evolsero le aree del cervello pensante, ossia la “neocorteccia”. Il fatto che il cervello pensante si sia evoluto
da quello emozionale ci dice molto sui rapporti tra pensiero e sentimento: molto prima che esistesse un

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cervello razionale, esisteva già quello emozionale. Quando si evolse, il sistema limbico perfezionò due
strumenti potenti: l’apprendimento e la memoria. Queste conquiste consentivano ad un animale di essere più
intelligente nelle sue scelte per la sopravvivenza: se un tipo di cibo si era rivelato nocivo la volta successiva
poteva essere evitato. Questa nuova componente del cervello, la neocorteccia, consentì l’aggiunta di
altrettante nuove sfumature alla vita emotiva. Prendiamo ad esempio l’amore. Le strutture limbiche generano
sentimenti di piacere e di desiderio- ossia, le emozioni che alimentano la passione sessuale. Ma fu l’aggiunta
della neocorteccia e delle sue connessioni con il sistema limbico, a permettere il legame affettivo madre-
figlio e cioè quel sentimento che rende possibile lo sviluppo umano rappresentando la base dell’unità
familiare e della dedizione a lungo termine necessaria per allevare i figli. Le aree emozionali sono
strettamente collegate a tutte le zone della neocorteccia attraverso una miriade di circuiti di connessione. Ciò
conferisce ai centri emozionali l’immenso potere di influenzare il funzionamento di tutte le aree del cervello,
compreso i centri del pensiero. È stato ipotizzato che negli schizofrenici tali connessioni non funzionino bene
infatti questi soggetti non sanno controllare le loro emozioni, diventando in alcuni casi molto aggressivi o
spaventati. Allo stesso modo anche gli adolescenti non hanno ancora ben definito i collegamenti tra la
neocorteccia e sistemi sottocorticali ed è normale quindi nel loro caso parlare di immaturità emotiva.
L’amigdala, che fa parte del sistema limbico, è coinvolta nella risposta emotiva; se viene resecata dal resto
del cervello, il risultato è un’evidentissima incapacità di valutare il significato emozionale degli eventi-
condizione che viene a volte indicata con l’espressione “cecità affettiva”. I soggetti con l’amigdala resecata,
ad esempio, possono descrivere una città, una persona, ma non sono più in grado di dire se a loro questa città
piace oppure no: viene persa la connotazione emotiva. Private del loro significato emozionale, anche le
interazioni umane perdono di interesse. Un giovane al quale era stata rimossa chirurgicamente l’amigdala per
controllare i gravi attacchi epilettici cui era soggetto perse completamente ogni interesse per le persone, e
preferiva starsene seduto da solo senza aver alcun contatto umano. Sebbene fosse completamente in grado di
conversare, non riconosceva più i suoi amici, i parenti e nemmeno sua madre, e rimaneva impassibile di
fronte all’angoscia che il suo comportamento indifferente suscitava in loro. Privato dell’amigdala, egli
sembrava non solo aver perduto tutta la sua capacità di riconoscere e provare sentimenti: l’amigdala funziona
come un archivio della memoria emozionale ed è quindi depositaria del significato stesso degli eventi; la vita
senza amigdala è un’esistenza spogliata di significato personale.

4 Le emozioni tra innatismo e apprendimento


Nel corso degli anni sono stati vari gli autori che con le loro teorie e i loro studi sperimentali hanno deposto
a favore dell’innatismo delle espressioni emotive. Secondo Darwin, alcune emozioni primarie vengono
espresse attraverso il volto in modo identico in tutte le culture del mondo. Anche Lorenz nel 1965,
dedicandosi allo studio degli animali, ha sostenuto l'innatismo delle emozioni, ritenendo che negli animali e
negli esseri umani ci sono espressioni emotive e atteggiamenti molto simili. Altrettanti studi hanno tuttavia
confermato che sono anche, e soprattutto, fattori socioculturali ad influire sul modo in cui le persone
manifestano le proprie emozioni
Eckman elabora una teoria bilanciata tra genetica ed apprendimento e ritiene che, nonostante siano
fondamentali i fattori innati, sicuramente i processi di socializzazione incidono sul nostro modo di vivere le
emozioni (ad esempio il mascheramento delle emozioni non è un processo innato ma il risultato di un
apprendimento culturale). Nel suo esperimento “multietnico” su due gruppi culturalmente diversi di soggetti
(americani e giapponesi) scopre che l’atteggiamento emotivo di tutti i partecipanti in assenza dello
sperimentatore nella stanza è relativamente simile. In presenza dello sperimentatore, tuttavia, i giapponesi
sembrano essere un popolo molto più “inibito” da un punto di vista emotivo: questo dimostra l’ effetto
dell’influenza sociale sul vissuto emotivo.
Da studi recenti si è visto che le emozioni primarie quali rabbia, felicità, sorpresa, paura, disgusto e tristezza
sono innate: esse sono simili in tutte le culture. Ciò che cambia è la loro modalità di espressione: questo
potrebbe essere il risultato di influenze sia di tipo sociale che di tipo personale.
Gli studi sperimentali dimostrano che l’espressività emotiva è fortemente condizionata dai valori culturali e
dalle credenze d’appartenenza, per esempio a Thaiti la rabbia non è accettata perché la cultura del posto
impone di essere sempre gentili. In Giappone invece sembra esserci una modalità di “dipendenza”,
sottomissione che in culture occidentali viene invece rifiutata. Le culture occidentali favoriscono più
comportamenti indipendenti e quindi di assertività; nelle culture orientali, invece, si incoraggiano di più
comportamenti interdipendenti, la rabbia è abolita e c’è più un’espressione di sentimenti d’accoglienza. Per

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gli operatori del turismo è importante sapere le diverse modalità di comunicazione e gli atteggiamenti
emotivi dei diversi Paesi del mondo cosicchè possano informare i loro clienti e far si che abbiano un
soggiorno favorevole e accogliente nel Paese che li ospiterà durante le loro vacanze.

5 Emozione e azione
Sommariamente, il razionale informa e le emozioni aiutano ad agire. In molte situazioni, soprattutto quelle
che stimolano comportamenti automatici è la motivazione emotiva che ci spinge ad agire in un certo modo,
ad esempio, se io sto guidando, e all’improvviso un cane mi attraversa la strada, quello che mi fa agire non è
il pensiero “io sto guidando, un cane sta attraversando la strada, devo frenare” ma un’emozione: la paura di
uccidere il cane determina una risposta comportamentale, un’azione. Le risposte automatiche non sono
uguali in tutte le persone: una persona equilibrata tende ad avere risposte emotive equilibrate mentre una
persona non equilibrata tende ad avere risposte emotive non equilibrate. Nel caso dell’esempio, anche
quest’ultima avrà la risposta istintiva di frenare tuttavia insieme ad altre risposte meno equilibrate come
piangere, urlare in modo esagerato. Tutte le emozioni sono, essenzialmente, impulsi ad agire; in altre parole
piani di azione dei quali ci ha dotato l’evoluzione per gestire in tempo reale le emergenze della vita. Nel
nostro repertorio, ogni emozione ha un ruolo unico:
• Quando siamo in collera, il sangue ci affluisce alle mani e questo rende più facile afferrare un’arma o
afferrare un pugno all’avversario; la frequenza cardiaca aumenta e una scarica di ormoni, fra i quali
l’adrenalina, genera un impulso di energia abbastanza forte da permettere un’azione vigorosa
• Se abbiamo paura, il sangue fluisce verso i grandi muscoli scheletrici, ad esempio quelli delle gambe,
rendendo così più facile la fuga e al tempo stesso facendo impallidire il volto, momentaneamente meno
irrorato
• Nella felicità, uno dei principali cambiamenti biologici sta nella maggiore attività di un centro cerebrale che
inibisce i sentimenti negativi e aumenta la disponibilità di energia, insieme all’inibizione di centri che
generano pensieri angosciosi.
• L’amore, i sentimenti di tenerezza e la soddisfazione sessuale comportano il risveglio del sistema
parasimpatico; in altre parole, si tratta della mobilitazione opposta a quella che abbiamo visto nella reazione
di “combattimento o fuga ”tipica della paura e della collera. Si attiva una risposta di “rilassamento” che
induce uno stato generale di calma e soddisfazione tale da facilitare la cooperazione
• Nella sorpresa il sollevamento delle sopracciglia consente di avere una visuale più ampia e di far arrivare
più luce sulla retina. Questo permette di raccogliere un maggior numero di informazioni sull’evento inatteso,
contribuendo alla sua comprensione e facilitando la rapida formulazione del migliore piano d’azione
• In tutto il mondo l’espressione di disgusto è la stessa, e invia il medesimo messaggio: qualcosa offende il
gusto o l’olfatto, anche metaforicamente. Come già aveva osservato Darwin, l’espressione facciale del
disgusto- il labbro superiore sollevato lateralmente mentre il naso tende ad arricciarsi- indica il tentativo
primordiale di chiudere le narici colpite da un odore nocivo o di sputare un cibo velenoso
• La tristezza ha la funzione di farci adeguare ad una perdita significativa, ad esempio a una grande delusione
o alla morte di qualcuno che ci era particolarmente vicino. Essa comporta una caduta di energia ed
entusiasmo verso le attività della vita- in particolare per le distrazioni e i piaceri-e, quando diviene più
profonda e si avvicina alla depressione, ha effetto di rallentare il metabolismo. La chiusura in se stessi ci da
l’opportunità di elaborare il lutto per una perdita o per una speranza frustrata, di comprendere le conseguenze
di tali eventi nella nostra vita e, quando le energie ritornano, di essere pronti per nuovi progetti.
Queste inclinazioni biologiche ad un certo tipo di azione vengono poi ulteriormente plasmate dall’esperienza
personale e dalla cultura. Ad esempio, la perdita di una persona amata suscita universalmente tristezza e
dolore. Ma il modo in cui esterniamo il nostro lutto- il modo in cui le nostre emozioni sono esibite in
pubblico o trattenute in modo da esprimerle solo in privato- è forgiato dalla cultura.

6 L’ intelligenza emotiva
L'intelligenza emotiva è un aspetto dell'intelligenza legato alla capacità di riconoscere, utilizzare,
comprendere e gestire in modo consapevole le proprie ed altrui emozioni. L’intelligenza emotiva è stata
trattata la prima volta nel 1990 dai professori Peter Salovey e John D. Mayer nel loro articolo “Emotional
Intelligence”. Definiscono l’intelligenza emotiva come “La capacità di controllare i sentimenti ed emozioni
proprie ed altrui, distinguere tra di esse e di utilizzare queste informazioni per guidare i propri pensieri e le

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proprie azioni”. Nella sua fondamentale definizione di intelligenza emotiva, Salovey include cinque ambiti
principali:
• Conoscenza delle proprie emozioni: L’autoconsapevolezza- in altre parole la capacità di riconoscere un
sentimento nel momento in cui esso si presenta- è la chiave di volta dell’intelligenza emotiva. La capacita di
monitorare istante dopo istante i sentimenti è fondamentale per la comprensione psicologica di se stessi,
mentre l’incapacità di farlo ci lascia alla loro mercè. Le persone molto sicure dei propri sentimenti riescono
a gestire molto meglio la propria vita; esse infatti hanno una percezione più sicura di ciò che realmente
provano riguardo a decisioni personali che possono spaziare dalla scelta del coniuge all’attività professionale
da intraprendere.
• Controllo delle emozioni: la capacità di controllare i sentimenti in modo che essi siano appropriati si fonda
sull’autoconsapevolezza. Coloro che ne sono privi o scarsamente dotati si trovano a dover perennemente
combattere contro sentimenti tormentosi, mentre gli individui capaci di controllo emotivo riescono a
riprendersi molto più velocemente dalle sconfitte e dai rovesci della vita.
• Motivazione di se stessi: la capacità di dominare le emozioni per raggiungere un obiettivo è una dote
essenziale per concentrare l’attenzione, per trovare motivazione e controllo di sé. Il controllo emozionale. La
capacità di ritardare la gratificazione e di reprimere gli impulsi- è alla base di qualunque tipo di realizzazione
• Riconoscimento delle emozioni altrui: l’empatia, un’altra capacità basata sulla consapevolezza delle
proprie emozioni, è fondamentale nella realizzazione con gli altri. Le persone empatiche sono più sensibili ai
sottili segnali sociali che indicano le necessità o i desideri altrui. Questo le rende più adatte alle professioni
di tipo assistenziale, all’insegnamento, alla vendita e alla dirigenza.
• Gestione delle relazioni: l’arte delle relazioni consiste in larga misura nella capacità di dominare le
emozioni altrui. La competenza sociale aumenta la popolarità, la leadership e l’efficacia nelle relazioni
interpersonali. Coloro che eccellono in queste abilità riescono bene in tutti i campi nei quali è necessario
interagire in modo disinvolto con gli altri: in altre parole, sono veri campioni delle arti sociali
Naturalmente le persone hanno capacità diverse in ognuna di questi cinque ambiti; può darsi, ad esempio,
che alcuni di noi riescano a controllare benissimo la propria ansia ma siano relativamente incapaci di
controllare i turbamenti altrui. L’intelligenza emotiva molto importante e funzionale: sembrerebbe che i
venditori di successo, i leader, i professionisti capaci, siano persone fortemente dotate di questa forma di
intelligenza interpersonale. Le persone molto competenti ma con una bassa intelligenza emotiva, ottengono
risultati lavorativi e sociali molto più bassi rispetto alle persone con molte conoscenze e con un elevata
intelligenza emotiva. Anche nel caso degli operatori del turismo, nell’ottica di un’agenzia di viaggio, il
rapportarsi alle persone in una modalità emotivamente “calda” ed affabile contribuirà ad “agganciare” i
clienti con una potenza nettamente superiore: solo immedesimandovi nelle emozioni e nei desideri del
cliente riuscirete a comprendere le loro esigenze rispondendo ad esse in maniera produttiva e funzionale.
Il quoziente intellettivo (l’intelligenza in generale) e l’intelligenza emotiva non sono concetti separati: le
persone con un elevato QI ma con un’intelligenza emotiva bassa sono relativamente rare. Nonostante ciò la
correlazione tra i due elementi è abbastanza piccola da dimostrare come si tratti di entità in larga misura
indipendenti. Jack Block, uno psicologo della California University di Berkeley, ha misurato quella che egli
chiama “resilienza dell’ego” e che-comprendendo le principali competenze sociali ed emozionali- è
abbastanza simile all’intelligenza emotiva; nei suoi studi Block ha confrontato due tipi teorici puri:
- Quelli dei soggetti con un elevato QI
- Quello degli individui con grandi doti emozionali
Il tipo dotato di un elevato QI (lasciando da parte l’intelligenza emotiva) è quasi una caricatura dell’
intellettuale, abile nel regno della mente ma inetto in quello personale. I profili sono leggermente diversi a
seconda che si tratti di uomini o di donne. Il maschio con un elevato QI è caratterizzato- il che non
sorprende- da un’ampia gamma d’interessi e di capacità intellettuali. E’ ambizioso e produttivo, fidato e
ostinato, e non è turbato da preoccupazioni autoriferite. Tende anche ad essere critico e condiscendente,
esigente e inibito, a disagio nella sfera della sessualità e delle esperienze sensuali, distaccato e poco
espressivo, freddo e indifferente da un punto di vista emozionale. Invece, gli uomini dotati di una grande
intelligenza emotiva solo socialmente equilibrati, espansivi e allegri, non soggetti a paure o al rimuginare di
natura ansiosa. Hanno la spiccata capacità di dedicarsi ad altre persone o a una causa, di assumersi
responsabilità, di avere concezioni e prospettive etiche; nelle loro relazioni con gli altri sono comprensivi,
premurosi e protettivi. La loro vita emotiva è ricca ma appropriata; queste persone si sentono a proprio agio
con se stesse, con gli altri e con l’universo sociale nel quale vivono. Passando alle donne, il tipo puro con

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elevato QI ha la prevedibile sicurezza intellettuale, è fluente nell’esprimere i propri pensieri e un’ampia
gamma d’interessi intellettuali ed estetici a cui attribuiamo molto valore. Queste donne tendono anche ad
essere introspettive, soggette all’ansia, ai ripensamenti e ai sensi di colpa, ed esitano ad esprimere
apertamente la propria collera. Le donne emotivamente intelligenti, invece, tendono ad essere sicure di sé, ad
esprimere i propri sentimenti in modo diretto e a nutrirne di positivi riguardo a se stesse; per loro la vita ha
un senso. Come gli uomini con il profilo corrispondente, esse sono estroverse e gregarie, ed esprimono i
propri sentimenti in modo equilibrato; si adattano bene allo stress. Questo equilibrio sociale consente loro di
stringere facilmente nuove conoscenze; si sentono abbastanza a proprio agio con se stesse da essere allegre,
spontanee ed aperte alle esperienze dei sensi. A differenza delle donne con un profilo di tipo puro con elevato
QI, raramente si sentono in ansia o colpevoli, e raramente sprofondano nel rimuginare.
Queste ricerche sul QI e l’intelligenza emotiva dimostrano che è proprio la seconda quella che contribuisce
di più alle qualità che ci rendono pienamente umani.
L'intelligenza emotiva, infatti, garantisce una buona gestione delle relazioni: più avete intelligenza emotiva
più sapete gestire le relazioni e più avete successo in tutte quelle attività professionali che richiedono la
capacità di stare in relazione. Ma da cosa dipende questa buona intelligenza interpersonale che compromette
o facilita la buona gestione della relazione? Dipende dalla conoscenza delle proprie emozioni: dal
autoconsapevolezza; dal controllo delle emozioni, dalla capacità di riconoscerle e differenziarle. Molte
persone hanno emozioni ma non le riconoscono né differenziano, non hanno consapevolezza dei loro vissuti
emotivi. Questo fatto pone molti pericoli: ad esempio se io so che ho paura, posso prendermi cura di questa
emozione e affrontarla positivamente con tutta una serie di strategie di contenimento. Chi non riconosce le
emozioni, invece, non riesce nemmeno a controllarle.
Attualmente anche in occidente si stanno diffondendo tecniche di controllo emotivo e di autoconsapevolezza
altamente funzionali e benefiche, come la mindfulness. Essa è un buon esercizio che spesso aiuta a gestirsi
meglio e prendere consapevolezza di se stessi nell’ hic et nunc, è la capacità di volgere volontariamente la
propria attenzione su uno specifico elemento. Ad esempio chiudiamo gli occhi focalizzare la nostra
attenzione su sul respiro e stiamo attenti a come il respiro entra nelle narici, passa attraverso il collo, arriva
nel torace e nella pancia e rimaniamo in questa situazione per 3 4 minuti. L’attenzione può essere poi
focalizzata sulle gambe, sulla testa, sulle braccia.
La mindfulness vi aiuta ad avere una consapevolezza e quindi un controllo maggiore della vostra reattività.
Essa inoltre consente di allontanare le preoccupazioni, ridimensionare opportunamente le proprie aspettative
e aspirazioni, sviluppare attitudini ottimistiche e positive e vivere nel presente (Montano, 2007)
Il riconoscimento delle emozioni altrui è un altro elemento importantissimo. L’empatia (a cui dedicheremo
una lezione) è la capacità di conoscere continuamente cosa provano gli altri. Il cosciente emotivo delle
emozioni altrui facilita la buona gestione delle relazioni: questo consente agli agenti del turismo di vendere
meglio un prodotto e di soddisfare le reali richieste dei clienti.
Le emozioni servono anche come retro feedback. Ad esempio, se voi state portando in viaggio un gruppo di
persone e avete il dubbio se farli intrattenere o meno in un determinato posto, basta guardarli per capire se si
stanno annoiando o sono contenti: fare ciò è utile per il vostro lavoro, poichè incentiva le persone a ritornare
da voi. Esiste un altro metodo per avere un feedback sullo stato emotivo dell’altro ma è più complicato.
Quando noi interagiamo, le risposte emotive dell’altro evocano in noi altrettante emozioni: in questo caso
consideriamo, come informazione fondamentale per comprendere l’altro, anche ciò che accade dentro di noi.

7 Differenze interindividuali
Meyer ritiene che le persone siano classificabili in diverse categorie a seconda del modo in cui percepiscono
e gestiscono le proprie emozioni:
- Gli autoconsapevoli: Consapevoli dei propri stati d’animo nel momento in cui essi si presentano, queste
persone sono comprensibilmente alquanto sofisticate riguardo alla propria vita emotiva. La loro chiara
visione delle proprie emozioni può rafforzare altri aspetti della personalità: si tratta di individui autonomi e
sicuri dei propri limiti, che godono di una buona salute psicologica e tendono a vedere la vita da una
prospettiva positiva. Quando sono di cattivo umore, costoro non continuano a rimuginare e a ossessionarsi, e
riescono a liberarsi dello stato d’animo negativo prima degli altri. In breve, il loro essere attenti alla propria
vita interiore li aiuta a controllare le emozioni.
- I sopraffatti: Si tratta di persone spesso sommerse dalle proprie emozioni e incapaci di sfuggir loro, come se
nella loro mente loro avessero preso il sopravvento. Essendo dei tipi volubili e non pienamente consapevoli

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dei propri sentimenti, questi individui si perdono in essi invece di considerarli con un minimo di distacco. Di
conseguenza, rendendosi conto di non aver alcun controllo sulla propria vita emotiva, costoro fanno ben
poco per sfuggire agli stati d animo negativi. Spesso si sentono sopraffatti e incapaci di controllare le proprie
emozioni.
- I rassegnati: Sebbene queste persone abbiano spesso idee chiare sui propri sentimenti, anch’esse tendono
tuttavia ad accettarli senza cercare di modificarli. Sembra che in questa categoria rientrino due tipi di
soggetti: in primo luogo quelli che solitamente hanno stati d’animo positivi e perciò sono scarsamente
motivati a modificarli; e in secondo luogo coloro che, nonostante siano chiaramente consapevoli dei propri
stati d’animo, e siano suscettibili a sentimenti negativi, tuttavia li accettano assumendo un atteggiamento di
laissez-faire, senza cercare di modificarli nonostanze che essi comportano- una situazione che si riscontra, ad
esempio, nei depressi che si sono rassegnati alla propria disperazione
Generalmente le persone possono essere divise, da un punto di vista emozionale, in due grandi
macrocategorie: appassionate e indifferenti. Per alcune persone la consapevolezza delle emozioni è
travolgente, mentre per altri a mala pena esiste. Consideriamo, ad esempio, il caso di uno studente
universitario che una sera scopre un incendio nella sua camera, va a cercare un estintore, lo trova e con
quello spegne il fuoco. Niente di strano, direte voi; sì, certo, tranne il fatto che mentre lo studente va a
cercare l’estintore e torna nella sua stanza per spegnere l’incendio, non corre ma cammina tranquillamente.
Non ritiene ci fosse alcun urgenza alcuna. Questo tipo di uomo è essenzialmente senza passioni, attraversa le
vicissitudini della vita provando poche emozioni- o addirittura senza provarne affatto- perfino nei casi di
emergenza (come quello dell’incendio). Un altro esempio potrebbe essere quello di una donna che, talmente
eccitata alla notizia che un magazzino di scarpe dai prezzi solitamente troppo alti ha messo i saldi, lascia
perdere tutto quello che stava facendo per farsi tre ore di viaggio e raggiungerlo, anche solo per dare
un’occhiata. Diener ritiene che, in genere, le donne sentano sia le emozioni positive che le emozioni
negative, con maggiore intensità rispetto agli uomini. Nella cultura odierna le cose sembrano cambiare: gli
uomini possono piangere e le donne possono essere più assertive grazie all’eguaglianza dei ruoli raggiunta
negli ultimi anni. Fortunatamente, oggigiorno, sia uomini che donne possono esprimere più liberamente ciò
che sono. In ogni caso, al di là di queste differenze di sesso, la vita emozionale è più ricca per chi le presta
maggiore attenzione. Negli individui più sensibili alle emozioni, il minimo stimolo può provocare vere e
proprie tempeste emozionali- che possono rivelarsi infernali o paradisiache; all’estremo opposto ci sono
individui che quasi non avvertono emozione alcuna, nemmeno nelle circostanze più critiche. In alcuni casi
estremi, gli autori hanno parlato di “alessitimia”: la difficoltà o anche l’incapacità di alcune persone ad
esprimere verbalmente i propri stati emotivi e le emozioni che vengono sperimentate (dal greco a = non,
lexis = parola, thymos = sensazione o un'emozione). Può essere esteso anche ai rapporti interpersonali,
caratterizzandosi quindi come l’incapacità di percepire e riconoscere i diversi stati emotivi sperimentati da
un’altra persona e di rispondervi, pertanto, in modo adeguato. Non è che gli alessitimici non provino
sentimenti: il fatto è che non riescono a sapere di che sentimento si tratti, e soprattutto sono incapaci di
esprimerlo in parole. Come osservò Henry Roth nel suo romanzo Chiamalo sonno parlando di questo potere
del linguaggio: “Se riesci a tradurre in parole ciò che senti, ti appartiene”. Naturalmente il dilemma
dell’alessitimico non è che il corollario di quest’affermazione: non avere parole per descrivere i sentimenti
significa non potersi appropriare di essi.

8 Le culture e le emozioni
Studi recenti confermano che, almeno per sei emozioni (rabbia, felicità, sorpresa, paura, disgusto e tristezza),
le espressioni facciali sono le stesse in tutte le culture umane.
Cambiano, invece, le modalità di espressione delle emozioni e il valore positivo e negativo che viene loro
dato
I vissuti emotivi sono condizionati dai valori culturali delle diverse società (Harrè 1990)
Le emozioni hanno la funzione di esprimere le credenze, regole e valori sociali di una certa società (Armon-
Jones 1986)
In oriente, ad esempio, a Tahiti la rabbia non è accettata perché la cultura del posto impone di essere gentili
(Levy 1973). In Giappone c’è una modalità di dipendenza/ sottomissione negli adulti , che nella civiltà
occidentale è rifiutata (Doi 1971) o promossa solo nei bambini. Anche altre società orientali come Cina,
Giappone, Polinesia, Groenlandia incoraggiano comportamenti di tipo interdipendente

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Le culture occidentali favoriscono lo sviluppo di comportamenti più indipendenti, più competitive e basate
sulla ricerca e affermazione del potere personale . In alcune di queste si esprime la rabbia per controllare
l’eccitazione (Pennebaker, 1982)
Le emozioni:
Nei paesi mediterranei : sono esternate
Nei pesi anglosassoni: si tendono ad inibire
Per gli asiatici: sono più bloccate
Per gli americani e africani: sono esternate
Sapere stare bene con gli altri nel vostro lavoro è fondamentale

Poesia sulle emozioni


Quando una mia parola è cascata giù dalla voce con la paura di dirsi,
l’hai tenuta stretta tra le tue labbra perché io l’ascoltassi senza consumarla.
Quando le mie lacrime hanno liberato emozioni senza forma
le hai fatte volare dentro di te
perché trovassero il loro cielo infinito.
Quando i miei occhi sono inciampati nella mia solitudine
mi hai prestato i tuoi perché io vedessi aldilà dei sogni stanchi di sognarsi
la vita …. sul sorriso
Anna Falco
Adesso vedete dopo la poesia cosa cambia nei vostri vissuti emotivi.

“ANALISI DELLE EMOZIONI E LORO ESPRESSIONE”

1 Le emozioni Primarie
Gioia , amore, tristezza, rabbia, paura sono definite emozioni primarie. Tali emozioni sono identificate come
primarie perché ritenute alla base delle emozioni più sociali e complesse che da loro vengono determinate.
Alcuni autori a queste prime emozioni uniscono il disgusto, l’interesse e la sorpresa. In questa sede,
tratteremo le prime: la gioia, intesa come amore, la tristezza, la rabbia e la paura. Le emozioni secondarie o
sociali sono la vergogna, la gelosia, la colpa, l’orgoglio, la competizione e la timidezza e sono strettamente
dipendenti dalla cultura e dall’educazione ricevuta. Per alcuni autori, è dalla combinazione delle emozioni
primarie che derivano le altre. Uno studioso che si è particolarmente dedicato alle emozioni è Robert
Plutchik (1928-2006) (7). Egli distinse le emozioni in primarie e complesse. Il suo punto di partenza è di
natura evolutiva. Infatti la tesi su cui si fondano le sue ricerche è che le emozioni siano risposte evolutive per
consentire alle specie animali di sopravvivere (Plutchik, 1980). Argomenta infatti che ognuna delle emozioni
primarie agisce come interruttore per un comportamento con un alto valore di sopravvivenza (es. paura:
risposta di lotta-o-fuga / fight-or-flight response). Per l’autore, ogni emozione primaria ha il suo opposto e
dalle intersecazioni di queste ultime nascerebbero le secondarie .Non esistono emozioni buone o cattive
esistono le emozioni, la loro positività o meno dipende dal contesto in cui esse vengono vissute e talvolta
manifestate e dall’etica che è propria del soggetto.
Secondo Plutchik, vi sono 8 emozioni primarie, definite a coppie:
1. Gioia – Dispiacere (o Tristezza)
2. Approvazione (o Fiducia) – Disgusto
3. Rabbia – Paura
4. Sorpresa – Aspettativa (o Anticipazione)

Ognuna di queste emozioni può variare di intensità creandosi così delle sfumature diverse che si
distribuiscono secondo un continuum di tipo verticale come nell’esempio che segue:
La ruota delle emozioni da lui creata evidenzia gli opposti e l’intensità delle emozioni, via via decrescente
verso l’esterno, più i vari stati intermedi (decrescendo di intensità le emozioni si mescolano sempre più
facilmente). Si ottiene così quello che è stato definito, direi in modo azzeccato, “il fiore di Plutchik”:
Dove il secondo cerchio contiene le emozioni primarie (in senso orario dall’alto: gioia, fiducia, paura,
sorpresa, tristezza, disgusto, rabbia, anticipazione). Nel cerchio centrale abbiamo le manifestazioni di

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maggiore intensità di ognuna delle emozioni primarie (rispettivamente: estasi, ammirazione, terrore, stupore,
angoscia. schifo, collera, vigilanza). Nel cerchio più esterno invece ci sono le corrispondenti manifestazioni
di minore intensità (rispettivamente: serenità, accettazione, apprensione, distrazione, pensosità, noia,
irritazione, interesse). Le emozioni poi si combinano tra loro. Così tra gioia e fiducia avremo l’amore, tra
fiducia e paura la sottomissione, tra paura e sorpresa la soggezione, tra sorpresa e tristezza la
disapprovazione, tra tristezza e disgusto il rimorso, tra disgusto e rabbia il disprezzo, tra rabbia e
anticipazione l’aggressività, e tra anticipazione e gioia l’ottimismo. Queste ultime sono tutte emozioni
secondarie o complesse, date dalla combinazione delle emozioni semplici (innate) tra loro, ma anche da altri
fattori, come la combinazione con l’intelligenza, la memoria, l’esperienza ecc.
In questa tabella vediamo sinteticamente degli esempi di queste relazioni:

2 Cosa stimola le emozioni ?


Le interpretazioni teoriche di come si articolano e producono le emozioni sono state numerose, ciascuna
dando un peso differente alle diverse componenti neurofisiologiche, comportamentali e cognitive. Che cosa
fa sì che proviamo delle emozioni? Quali sono le componenti di un’emozione che vengono per prime e
provocano le altre? I primi studiosi cercarono di scoprire la sequenza, o ordine causale, di tre componenti: la
sensazione soggettiva di un’emozione, le modificazioni fisiologiche e il comportamento espressivo. Oggi
l'interesse si è focalizzato in larga misura sulla connessione causale fra due componenti: la valutazione
cognitiva (i pensieri) e le emozioni soggettive (le sensazione). Verso la fine degli anni ’50, gli psicologi
cognitivisti hanno ampliato questo punto di vista, suggerendo che il fattore scatenante più importante
dell’emozione che sentiamo è il modo in cui valutiamo ed interpretiamo le situazioni. In altre parole, non è
l’ambiente in sé che influisce su di noi, bensì il modo in cui ci rappresentiamo l’ambiente stesso. La prima
teoria chiara e coerente sull’emozione è quella elaborata da James (1884); nella visione di James l’emozione
è vista come il risultato di una pregressa modificazione di parametri fisiologici. Gli elementi valutativi-
cognitivi non precedono le risposte espressivo-motorie ma, al contrario, queste ultime determinano i primi.
James propose per primo una definizione empirica e verificabile di emozione; egli ritenne di identificare
l’emozione nel «sentire» le modificazioni periferiche dell’organismo (teoria periferica o teoria del
feedback); di conseguenza: «non tremiamo perché abbiamo paura, ma abbiamo paura perché tremiamo».
James propone una radicazione biologica dell’emozione (concetto di attivazione fisiologica), soprattutto nei
visceri.
Diverse furono le teorie cognitive. Una delle prime teorie cognitiviste dell’emozione è stata quella formulata
da Magda Arnold (Arnold, 1960; Mandler, 1982; Sommers e Scioli, 1986). La sua teoria della valutazione
cognitiva suggerisce che quando ci imbattiamo per la prima volta in una situazione la valutiamo
spontaneamente come buona o cattiva, utile o dannosa. Secondo Arnold le valutazioni, a loro volta,
introducono delle "tendenze ad agire". Cosa determina un nostro comportamento, quello che sentiamo e
dunque pensiamo o quello che pensiamo ci fa sentire? Spesso ciò che sentiamo condiziona il nostro modo di
pensare. Ad esempio svegliarsi di cattivo umore, sentirsi nervosi, ci farà pensare tutto in termini negativi ; se
ci svegliamo solari e contenti tutto il nostro buon umore ci farà fare pensieri positivi. Lo stesso traffico se
siamo di buon umore può farci stare bene pensando che è bellissimo che per strada ci sia tanta gente. Le
emozioni determinano i nostri pensieri, ma a volte succede il contrario. Per la comprensione delle emozioni
è fondamentale capire cosa le determina .Le emozioni sono causate da fattori interni cosi come da fattori
esterni; interni come ricordi, pensieri, sensazioni che possono anche farci stare male o esterni come il lavoro,
la scuola. Anche se vado a correre per divertirmi inciampo, cado e quello influirà sul mio umore e la mia
giornata comincerà male.

3 Analisi particolareggiata delle diverse emozioni


Di ciascuna emozione valuteremo cos’è e quali sono gli schemi senso-motori ad essa associati (in linea di
massima, per imparare a leggerli nel corpo degli altri) e come possono esserci utili anche quando non ci sono
riferiti e gli altri non li raccontano e capire a cosa serve un emozione.
3.1. La Paura
“Quello che caratterizza di più gli esseri umani”.
La paura è il sentimento che ci accompagna di più nel percorso della vita. La nostra vita è costantemente in
pericolo per questo la paura ci protegge. A cosa serve in realtà la paura : ci invita alla prudenza ,se c’è una
scossa di terremoto ci fa posizionare in un posizione per salvarmi la vita; se mi trovo in macchina e sta

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piovendo è giusto che rallenti, mi fa studiare di più per un esame che sto preparando facendomi
preoccupare ,se sono su un parapetto al sesto piano è giusto che mi sposti dal bordo. La paura in tutti questi
casi come in molti altri è produttiva. Se vissuta in modo equilibrato ci protegge!
La paura è il sentimento che ci fa avere consapevolezza dei nostri limiti, rispetto ad un ostacolo pericoloso
per noi e ci aiuta ad evitarlo o ad affrontarlo nel migliore dei modi e nella salvaguardia della nostra
incolumità.
I modi di esprimere la paura sono molteplici.
I suoi schemi senso motori sono:
- muscoli paralizzati
- occhi sbarrati
- respiro affannoso e corto
-corpo più chiuso
Nel modo più usuale, in posizione in piedi, la paura si sente come voglia di scappare, di andare avanti e
indietro, o ancora, nel sentirsi svenire.
In posizione seduta, ci si sente come se si volesse sprofondare nella poltrona, fino a scomparire se il pericolo
è vissuto come esterno; se, invece, il pericolo è vissuto come proveniente dall’interno (es: respirare più
profondo), si tende a rannicchiarsi quasi a ritornare in una posizione fetale (=raggomitolarsi).
Nella paura, il sistema muscolare può collassarsi fino allo svenimento o irrigidirsi fino alla paralisi. Il cuore
batte più forte , la pelle diventa bianca e bagnata dal sudore. Il sudore è freddo. La respirazione tende a
bloccarsi nell’espirazione; la posizione in fase inspiratoria causa un senso di soffocamento. L’intestino è
contratto, si possono avere reazioni di voler urinare e defecare.
Le persone spaventate hanno difficoltà a respirare di pancia.
Se non è troppo intensa, ma gestita, invita alla prudenza realistica, non paralizza; questa è una cosa molto
importante! non farsi paralizzare dalla paura, è un sentimento importantissimo.
Ancora oggi viviamo in una cultura del “maschile”, dell’uomo forte che non deve avere paura; tale visione
non è una visione realistica. Tutti abbiamo paura; più la sentiamo, più la viviamo in modo saggio, più
riusciremo a gestirla e sarà utile e funzionale alla nostra esistenza. Quando è troppo intensa diventa
paralizzante e crea problemi e disagi. Dobbiamo avere paura, ma anche la forza di gestire tale paura perchè
ci indichi la prudenza. Non avere paura non significa essere coraggiosi, ma incoscienti.
“L'importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi
condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza.”
Giovanni Falcone.

3.2. La Rabbia
La rabbia è un emozione che ci difende: è difensiva. Tu mi stai attaccando, io mi difendo attaccandoti.
Spesso ci sentiamo attaccati e all’attacco rispondiamo con sentimenti di rabbia. Con la rabbia difendiamo i
nostri valori, con la rabbia difendiamo i nostri spazi personali, con la rabbia difendiamo la volontà di
cambiamento, la voglia di esistere, la rabbia difende le rivoluzioni, la rabbia difende l’assertività. Ma è
soprattutto con una rabbia che viaggia verso la difesa di questo (rabbia intesa come assertività), che la rabbia
può dirsi costruttiva . Non è il sentimento che spacca tutto, non è un sentimento distruttivo. Guai se non ci
fosse. La rabbia è anche il sentimento dell’autonomia e della differenziazione: è arrabbiandoci che andiamo
verso l’autonomia. Nonostante la società moderna sia una società molto centrata sulla competizione, il
sentimento della rabbia spaventa molto. Di esso, si focalizza più l’aspetto distruttivo che costruttivo;
probabilmente, l’espressione fisica di quest’emozione ed il suo essere legata con la decisione di distruggere
qualcosa o qualcuno è il motivo dell’averne paura.
I suoi schemi senso-motori sono:
-Agitazione
-Aumento della forza e tensione in tutto il corpo
- Aumento Battito cardiaco
- Viso crucciato.
In genere, quando si sente rabbia, se si è in piedi, il corpo si raddrizza sulla colonna vertebrale, i piedi si
ancorano al suolo, la testa è ben poggiata sulle spalle, come se si fosse pronti per l’attacco. Se si sta seduti, si
poggiano bene i piedi a terra e tra gambe e coscia si forma un angolo retto. Le braccia se la poltrona ha i
braccioli, sono poggiate su di essa.

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Quando si sente rabbia, il sistema cardiaco si accelera e pompa più sangue nelle vene, procurando un calore
ed un rossore della pelle, specie di quella delle guance. I muscoli del sistema digerente e gli addominali si
irrigidiscono. Il respiro si rallenta e diventa profondo. Nella mimica facciale, si notano le sopracciglia
inarcate (=aggrottare le sopracciglia); gli occhi sono spalancati e guardano fisso il “bersaglio”. La mandibola
sporge in avanti, mantenendo i denti stretti.
Possiamo riconoscere una persona arrabbiata guardando queste modalità di presentarsi. Se prevalente,
inibisce lo sviluppo degli schemi senso-motori e c’è pericolosità in questo. Persone troppe soggiogate dalla
rabbia hanno un corpo tropo teso, perennemente in tensione, e non sanno godersi i momenti di rilassamento.
Diversamente persone troppo rilassate sono persone che non sono sempre tese. Quindi se armonica sviluppa
assertività e autonomia. Se è disarmonica rende le persone sempre irascibili fino a farle diventare prigioniere
della rabbia. Essere prigionieri della rabbia non ci permettere di sentire e vivere armonicamente le altre
emozioni.
3.3. La Gioia
La gioia è il sentimento della comunione profonda. Ci incontriamo con gli altri grazie alla gioia. Sono qui,
sono con te, sono con me; riesco a godermi il momento sia rispetto a quello che sento, sia rispetto a quello
che senti tu. È un’ esperienza molto soddisfacente quando la gioia è autentica vera profonda. È questo il
sentimento che ci permette di avere un incontro con gli altri. Ma non è, contrariamente a quanto si pensa, un
sentimento facile. Spesso ciò che proviamo è euforia, una sorta di gioia superficiale e riduttiva. Molte
persone non sanno gioire. La gioia profonda richiede una grande pace ed una grande forza, ma soprattutto,
fiducia in sè stessi, una sincera autostima e autorganizzazione. Spesso è nel bambino che possiamo osservare
una gioia autentica, una gioia auto-centrata visibilmente dal suo corpo e dal suo modo di respirare; il
bambino ad esempio nei momenti di gioia respira a pieni polmoni. Nell’adulto è meno funzionale in quanto
si lega inevitabilmente ad un senso etico. Nell’adulto molto spesso la gioia è legata alla possibilità di aiutare
gli altri. Stare attenti alle risposte emotive degli altri in modo da poter prendersene cura può dare una gioia
autentica e una modalità adulta della gioia.
Schemi corporei:
- leggera tensione a livello neurovegetativo
- muscoli rilassati , valenza positiva
- Respiro profondo
- Buon contatto con gli altri
- sorriso spesso presente
La gioia si sente nel corpo, come eccitazione che spinge a muoversi, ballare, saltellare, battere le mani,
avvicinarsi, stringere, voler toccare. I muscoli sono elastici e tonici ed a livello propriocettivo si sente un
formicolio in tutto il corpo. Il cuore batte più profondo ed in modo più ampio. Se la gioia è molto intensa, il
ritmo si accelera ed anche la forza. Il respiro tende ad allargarsie rallentarsi, interessando sia il torace che
l’addome. La pelle si riscalda è diventa più colorata. L’atteggiamento generale del corpo è orientato
all’apertura: le braccia e le gambe, in genere, stanno in posizione allargata; la mimica facciale tende a portare
tutti gli organi verso l’alto; i muscoli della fronte sono rilassati e lisci.
3.4. La Tristezza
La tristezza ci rende autonomi. Questo è il sentimento della separazione .I bambini aboliscono la tristezza
perché ne hanno molta paura. Questo perché hanno paura della solitudine, dell’ autonomia, vivendola come
un sentimento pericoloso. I bambini quando non riescono a farti sorridere tendono a provocarti perché tra la
tristezza e la rabbia preferiscono la rabbia. Molti adulti che non hanno imparato a vivere la tristezza tentano
di provocare, trasformando la loro tristezza in un sentimento a loro più conosciuto e che riescono a tollerare
e a vivere.
Specie nel mondo moderno, è importante focalizzare la positività della tristezza, sia come sentimento di
crescita, sia come sentimento con cui bisogna imparare a stare.
Tristezza è saper stare con una parte di noi o degli altri che apprezziamo, ma da cui siamo costretti a
separarci per motivi contingenti. Essa procura dolore, ma ignorarla inaridisce e fa soffrire di più.
Gli schemi senso motori sono:
- Muscoli eccessivamente rilassati
- Ipotono
- il corpo assume una posizione di ritiro

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L’espressione più forte della tristezza è il pianto; anche se la nostra cultura lo rinforzi negativamente, esso,
anche se in forme ed intensità diverse, è presente negli adulti e nei bambini, negli uomini e nelle donne.
Nella tristezza, il corpo è portato a chiudersi in sé o ad appoggiarsi ad un altro corpo. I muscoli tendono ad
essere flaccidi. Il cuore ed il sistema digerente sembrano assenti e rallentano le loro funzioni. La pelle tende
al bianco, con poca irrorazione. Essa è fredda e può avere dei tremolii. La respirazione è rallentata e si ferma
più nell’inspirazione. La postura del corpo tende a chiudersi verso la posizione fetale, quasi aspettando delle
braccia che lo raccolgano. La mimica facciale presenta le rughe sulla fronte, le palpebre sono abbassate, gli
occhi umidi e velati da lacrime. Le guance, la mascella, gli angoli della bocca e le labbra sono cadenti verso
il basso.
Le persone sagge vivono una sana tristezza con una prospettiva di speranza; chi raggiungere la capacità di
vivere una sana tristezza può dire di essere saggio. Sono poche le persone che raggiungono una sana
tristezza. Quando questo sentimento non è gestito e vissuto in maniera armonica può trasformarsi in
disperazione, fino a diventare qualcosa di negativo e non più funzionale.

4 Come possono essere le emozioni?


In un mondo che non è chiaro anche le nostre emozioni non si presentano spesso in maniera chiara e pura.
Queste possono presentarsi o chiare e differenziate o miste o confuse e ambivalenti. Nessun problema
quando sono chiare e differenziate, quando sono cioè vissute consapevolmente da chi le esperisce; ad
esempio, se al semaforo mi bussano e mi sorpassano, io mi arrabbio e infierisco contro.. io so perché, so cosa
provo, posso imparare a gestire la mia rabbia, ma non ho nessuna contaminazione con altre emozioni. Un po’
più difficile è quando le emozioni sono miste. Ad esempio, mi offrono un nuovo lavoro e la mia prima
emozione è la gioia ma non riesco davvero a sentirla perché contaminata da altre emozioni come la paura, la
paura di non sapere se con il nuovo lavoro posso farcela perché sono molto impegnata, non so se lasciare
davvero il vecchio lavoro dove ormai ho creato una posizione relazionale e lavorativa. Molto probabilmente
proveremo un misto di paura e rabbia e gioia. Ma so cosa provo, cosa mi fa paura, perché lo provo e troverò
la soluzione migliore ; prenderò una decisione; ma fino a quel momento, in maniera armonica, mi terrò
entrambe le emozioni. Le emozioni miste caratterizzano la maggior parte delle nostre esperienze emotive.
Nessuna situazione è mai pura, è spesso mista a metà. Le emozioni “confuse e ambivalenti” sono molto
difficili da gestire: ad esempio, sono appena stata lasciata da mio marito, sono molto triste e spaventata e
molto arrabbiata. Posso essere consapevole delle mie emozioni e sarà per me molto più facile gestirle
riconoscerle capirle e capire me stesso . È proprio la consapevolezza del mio vissuto emotivo a facilitarmi i
miei vissuti. Se, invece, non sono consapevole, non mi prendo la responsabilità di capire, di sentirmi e mi
sposto da un’ emozione all’altra perchè c’è un misto di emozioni che non riconosco; rendo difficile la mia
vita e non riesco ad arginare e gestire le mie emozioni e in qualche modo le scarico sull’altro. Inoltre, le
emozioni possono essere vere, incarnate, di copertura o recitate. Cosa significa questo?
Le emozioni sono sentite, vere e incarnate quando sono sentite in un modo congruo al contesto.
Ad esempio, son spaventata perché sto tenendo una lezione che per me può risultare difficile; il mio corpo è
in un atteggiamento di paura , i miei occhi sono un po’ sbarrati, la mia postura è chiusa, il mio respiro è
bloccato allo sterno, ma la situazione è coerente, è sentita ben contestualizzata, soprattutto se è la prima volta
che faccio lezione a questo pubblico. Questa è un’emozione vera.
L’emozione recitata parte da un giudizio: “non devo mostrare ai miei allievi che sono spaventata”, quindi
inizio a recitare che sto bene. Mi impongo, allora, di stare diritta, il mio corpo incarna molto male, c’è una
tensione.. magari la mia bocca sorride, ma i miei occhi no . Le emozioni giocano uno scherzo, non riuscirete
a controllare tutto! in qualche parte del corpo si vedrà la tensione. Anche il migliore attore ha bisogno di
immedesimarsi nella sua parte affinchè risulti vera e possa trasmetterci il senso di quello che sta recitando.
Esistono talvolta, le emozione di copertura che sono abbastanza sentite ma poco congrue al contesto. Ad
esempio, devo andare ad un party e mi spavento, o vado ad un funerale e rido. Io sono vera in quella risata .
Spostiamo emozioni al posto di altre emozioni perchè non riusciamo a sentire quelle che sembrerebbero più
congrue al contesto. Generalmente, sono quelle persone che hanno paura delle proprie emozioni. Se ho paura
di arrabbiarmi mostro tristezza, se ho paura di gioire mostro rabbia, questi sono solo due dei possibili esempi
di emozioni che stanno al posto di altre, perchè non riesco a vivere le mie emozioni. Numerose sono le
persone che hanno paura dei propri vissuti emotivi . Gli atteggiamenti emotivi sono giusti ma non sono
congrui alla situazione.

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5 Regole per un buon funzionamento emotivo
Una delle regole principali per un buon funzionamento emotivo è sicuramente essere capaci di vivere tutte le
emozioni nella loro stupenda complessità. Nessuno di noi è perfetto nel vivere emozioni. Numerose persone
hanno difficoltà con una o più delle emozioni. Potremmo essere persone che hanno difficoltà nell’arrabbiarsi
e quindi ogni volta che ci arrabbiamo mostriamo tristezza e piango. Persone con difficoltà con la paura, che
fanno fatica a gestire la paura trasformandola in terrore, altre molto in difficoltà con la tristezza. Molte
persone, per quanto possa sembrarvi strano, hanno paura di gioire trasformando la loro paura in quella che
comunemente viene definita “la capacita di rovinare sempre tutto”. Questa è una classica persona che non sa
stare nella gioia .Una seconda importante regola è la gestibilità delle emozioni .Le emozioni devono essere
gestibili, controllabili . Devo provare paura ma non farmi sopraffare dalla paura, devo arrabbiarmi ma non
spaccare tutto, non devono essere esplosive ma vissute in modo adeguato, come la situazione lo richiede. Le
persone che sanno gestire le loro emozioni sono persone autorevoli, che sanno imporre fiducia, non con la
coercizione, ma perché sono capaci di modulare le proprie risposte emotive. Le emozioni devono essere
anche superabili altrimenti rischiano di irrigidirci. Vivere le emozioni per un certo tempo e superarle.
L’individuo consapevole del sentimento, nel momento in cui insorge l’emozione presta attenzione ai propri
stati interni e sa attribuirgli un nome. Dall’autoconsapevolezza si sviluppa la capacità di autocontrollo.

6 Un caso concreto
Adele ha circa 45 anni, entra affannata in un’ agenzia di viaggi . La richiesta è di un viaggio all’estero per un
breve periodo con un gruppo di single suoi coetanei, misto ovviamente, sia di uomini che di donne. È
visibilmente agitata; un suo possibile identikit è quello di una donna da poco separata che sta cercando di
superare il momento difficile dandosi una possibilità. Le viene proposto un viaggio al Cairo ma la donna lo
rifiuta dicendo di avere paura di andare in Egitto e richiedendo qualcosa di più tranquillo per questo
momento. Le viene proposta la città di Londra, ma anche Londra viene rifiutata perchè troppo fredda in
questo momento e le metterebbe tristezza. Le viene proposta Parigi, ma anche questa città viene scartata: la
donna infatti rifiuta riferendoci che per motivi personali non vuole recarsi a Parigi e che in quella città ci
sono cose da dimenticare. Il responsabile si sente in difficoltà e sente di non gestire la situazione e di non
riuscire a soddisfare le esigenze stressanti e quasi insostenibili della cliente e le chiede se ha una vaga idea di
dove andare. La donna si infastidisce e abbastanza sgarbatamente riferisce di aver bisogno di una persona
competente altrimenti non si sarebbe rivolta ad un’ agenzia e avrebbe programmato e prenotato il suo viaggio
da internet. Allora il responsabile le chiede ulteriori informazioni sulla situazione che gradirebbe ma la
signora esplode affermando di star perdendo solo tempo. Il proprietario le propone altri viaggi, ma la donna
sembra incontentabile. Lui ancora a provare, ma la signora è sempre più nervosa e sgarbata . La signora è
spaventata, non vuole dirsi che si è spaventata quindi si arrabbia con un’emozione di copertura; non vuole
decidere, ma neanche essere aiutata e si dimena tra paura e rabbia, tra il bisogno di aiuto e di essere
rassicurata. Continuare ad insistere per l’operatore turistico è una cosa che ha senso? è produttivo? Nel
nostro caso non ha senso insistere, ma molto garbatamente, quasi comprendendo le sue paure e la sua rabbia,
la invitiamo a pensarci meglio restando a sua disposizione come agenzia per un aiuto più concreto dopo che
si sia chiarita, rassicurandola con molta calma e decisione. Insistere ci metterebbe in un ruolo “down” per chi
è già molto confuso. Essere decisi, calmi e rassicuranti, ci metterà sicuramente in una posizione di vantaggio
e serenità lavorativa funzionale non solo per noi ma anche per il cliente.

“L’IDENTITÀ SOCIALE E L’AUTOSTIMA” ’’

1 Introduzione
Nella letteratura psicologica italiana e internazionale si utilizza molto frequentemente il termine Sé cui
spesso si accompagna la parola “identità”. In questi ultimi vent’anni, alcuni manuali (Leary&Tangney, 2003
b Jackson & Goossens, 2006) e diversi contributi teorici (Fornaro, 2001; Harter, 2003; Alsaker& Kroger,
2006) hanno tentato di problematizzare e successivamente di fornire una chiarificazione circa l’utilizzo dei
due termini che troppo frequentemente vengono affiancati, interscambiati o trattati senza alcuna distinzione.
Accostarsi allo studio dell’Identità e del Sé è senza dubbio un percorso difficoltoso, soprattutto nella ricerca
di un orientamento comune tra gli autori e nella comprensione dei loro contributi. La difficoltà più evidente
sta nell’impossibilità di individuare, tra i numerosi scritti sull’argomento, delle regole precise e condivise

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circa utilizzo dei due termini. Quindi, se da un alto il concetto di Sè è legato all’esperienza soggettiva,
intima, introspettiva dell’individuo, dall’altro implica, per sua stessa definizione, una dimensione
interpersonale cui riferirsi: in atre parole il se esiste, assumendo significato e forma solo all’interno di una
relazione che ne individui i confini e gli attributi. Costruiamo, infatti, le nostre prime percezioni di noi stessi
dal modo in cui gli altri ci percepiscono e dal modo in cui ci percepiamo nei rapporti con gli altri.
Strettamente collegato al se, e l’identità personale. Allora nel presente lavoro, cercheremo di comprendere
come le interazioni sociali aiutino nel costituirsi di un’ identità funzionale e di una buona autostima. Lo
studio della psicologia sociale, (scienza che studia le caratteristiche universali dell’individuo sull’altro,
inserendolo in un contesto sociale), ci aiuterà a comprendere maggiormente come l’individuo si pone nella
relazione, considerandolo sempre in un’ottica biologica, psicologica e sociale.

2 Il Sé
Il Sè, è l’agire sociale che si fonda sul progetto individuale che ognuno – più o meno coscientemente - tende
a costruirsi. E’ la vita di ogni uomo. Un lavoro continuo alla ricerca di soddisfazioni (brevi o importanti),
capace di gestire sconfitte e delusioni, necessariamente teso alla coerenza (non assoluta, ma necessaria) e ad
una specificità (il valore che ci attribuiamo). Un lavoro che si fonda su come il soggetto lavora sulle sue
conoscenze ed esperienze diverse maturate fino a quel punto. Il Sé si costruisce nella relazione sociale,
(internalizzazione della comunicazione tra individui). Il Sé nasce dalla consapevolezza dell’individuo,
ovvero, dall’atto mediante il quale esso prende se stesso come oggetto. Lo sviluppo del concetto di sé
avviene in stretta connessione alle idee proprie dei gruppi e del contesto culturale rispetto a cosa significhi
essere una persona “come si deve.”
Il concetto di Sé nelle diverse culture
Secondo Oyserman e Markus (1998): le varie culture elaborano diverse rappresentazioni sociali che
riguardano le caratteristiche ritenute appropriate e positive del Sé. Le differenze sono evidenti se si
confrontano le culture sulla base della dimensione individualismo – collettivismo
Culture individualiste:
F 0Il
B 7Sé è l’unità di base

F 0Il
B 7principale compito di sviluppo è il raggiungimento di un senso di realizzazione personale

F 0L’elaborazione
B7 della propria unicità è alla base dell’identità
F 0Sono
B7 valorizzate caratteristiche come intelligenza e competenza
F 0La
B 7 distinzione più saliente è fra Sé e non-Sé, e in seconda istanza fra ingroup e outgroup

Culture collettiviste:
F 0Il
B 7gruppo è l’unità di base

F 0Il
B 7principale compito di sviluppo è il raggiungimento di obiettivi comuni

F 0L’identità
B7 è organizzata intorno al senso di affiliazione
F 0Sono
B7 valorizzate caratteristiche come costanza e persistenza
F 0La
B 7 distinzione più saliente è fra ingroup e outgroup; ostilità a priori nei confronti dell’outgroup

2.1. Il sè e l’identità
Spesso la nozione di sé e di identità vengono usati in modo interscambiabile. Diciamo che il sè, riguarda le
componenti più intrapsichiche e individuali, mentre l’identità, riguarda le componenti più sociali
(appartenenza sociale).
L’identità concerne il sentimentodi continuità del Séche il soggetto prova pur essendo in una tempesta di
mutamenti, in ogni momento in cui è più evidente l’esperienza e la realtà oggettiva del cambiamento
(vecchiaia, cambiamento di lavoro, pensionamento).Nel concetto di identità , sono presenti tutte le
componenti proprie anche del concetto di Sé è più accentuato il significato di continuità temporale.
L’identità è strettamente legata al concetto di Sé:l’identitàèl’unità delle varie componenti del Sé in un
insieme strutturato permanente.

3 L’identità
Il termine identità diviene popolare nelle scienze sociali solo negli anni ’50 del secolo scorso (Gleason
1983), anche se le sue radici filosofiche hanno origini molto più antiche e si collegano a un insieme
articolato di riflessioni relative soprattutto ai dilemmi della permanenza nel mezzo del continuo mutamento

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e dell’unità e della specificità nel mezzo della manifesta diversità. È comunque caratteristica dell’identità,
nel momento del suo successo, collocarsi a un “crocevia” (Lévi-Strauss: 1980, 11) che interessa praticamente
tutte le scienze sociali, dalla psicanalisi all’antropologia, dalla filosofia alla sociologia, dalla psicologia
sociale alla critica letteraria.
Uno dei primi psicoanalisti a cercare di legare lo sviluppo dell’identità alla relazione sociale è Erikson (1950,
1968). È al lavoro di questo autore – e alla sua introduzione del concetto di crisi d’identità – che si devono
gran parte dell’interesse verso l’identità e la sua rapida popolarità. Il concetto d’identità serve a Erikson
soprattutto per legare lo sviluppo evolutivo della personalità – intesa nei termini freudiani come relazione tra
es, io e super io – alla situazione relazionale e sociale in cui tale sviluppo ha luogo. Il senso d’individualità,
di unicità, risultato finale di un corretto sviluppo della personalità e fonte indispensabile per un’azione
sociale consapevole e adeguata, può svilupparsi solo in un costante dialogo con il contesto esterno,
interiorizzando le sue norme culturali, interpretando differenti ruoli e ottenendo continui riconoscimenti. Lo
sviluppo interiore della personalità individuale e dell’esperienza sociale va di pari passo, anzi rappresentano
due facce di un medesimo processo (Erikson: 1968, 22).
Identità è qui intesa come un armonico e adeguato sviluppo relazionale di un nucleo stabile e persistente di
disposizioni innate; il processo in cui le materie prime grezze ereditate come bagaglio unico e personale sono
affinate, ordinate e adattate in una continua relazione con il contesto sociale che si contribuisce in questo
modo a costruire e modificare.
L’agire sociale si fonda sul progetto individuale che ognuno circa coscientemente tende a costruirsi. È la vita
di ogni uomo.
Un lavoro continuo alla ricerca di soddisfazioni (brevi o importanti), capace di gestire sconfitte e delusioni,
necessariamente teso alla coerenza (non assoluta, ma necessaria) e ad una specificità (il valore che ci
attribuiamo). L’IDENTITÀ DÀ STABILITÀ, RENDE COERENTI I NOSTRI COMPORTTAMENTI E LE
NOSTRE SCELTE VERSO GLI ALTRI.
Un lavoro che si fonda su come il soggetto lavora, sulle sue conoscenze ed esperienze diverse maturate fino
a quel punto. “il fine ultimo di ogni individuo è la costruzione di un’identità che si mantenga stabile
nonostante i cambiamenti inevitabili posti dalle condizioni storiche, sociali, culturali…” (Erikson, 1982). Di
tale processo psico-sociale, “l’identità è intesa come un’entità dinamica costituita da più dimensioni, un
sistema di tensione” (Palmonari, 1997, ) dove gli aspetti biologici, le esperienze personali, l’ambiente di vita
famigliare, sociale e culturale, concorrono a dare significato, forma e continuità all’esistenza (Kroger, 1996).
L’Identità diventa quindi una configurazione di aspetti diversi che forniscono all’individuo la sensazione di
essere sempre gli stessi nella propria continuità.
3.1. La psicologia sociale e l’identità
Un altro ambito rilevante di sviluppo del concetto d’identità è rappresentato dalla psicologia sociale e, più in
generale, dalle riflessioni relative ai concetti di ruolo, di senso di appartenenza e di pregiudizio (Allport:
1954).
Identità viene qui a indicare un fenomeno specificamente collettivo; i legami di aspettative sociali e di
solidarietà che hanno origine dall’inclusione in una particolare rete di relazioni. L’identità si costituisce ed
evolve grazie alle continue relazioni sociali.
L’identità è sinonimo d’identificazione e rimanda al senso di unione emotiva con gli altri, percepiti come
parte del medesimo gruppo (Gleason: 1983). L’identità risulta inoltre un concetto fondamentale per rendere
conto della dimensione non strumentale dell’azione: gli attori agiscono socialmente in base alla loro identità
– cioè in base al loro legame emotivo e profondo con il gruppo di cui si sentono parte e con i vincoli che si
assume derivino da tale legame – e non solo in base a calcoli razionali e a motivazioni utilitaristiche
(Pizzorno: 1983, 1986).
Identità viene qui a indicare un fenomeno specificamente collettivo; i legami di aspettative sociali e di
solidarietà che hanno origine dall’inclusione in una particolare rete di relazioni. Fin dai primi momenti della
loro esistenza, tramite i processi di socializzazione primaria, gli individui acquisiscono un senso di
appartenenza, di similitudine e di legame con altri, che costituisce la base di riferimento indispensabile.
Identità serve a segnalare la necessità concettuale di uno spazio intermedio tra individuo e società, uno
spazio che consenta di superare la dicotomia tra un soggetto autonomo, dotato di esistenza presociale e che
si scontra continuamente con i vincoli a lui imposti dalle strutture sociali esterne, e, dall’altro, un forte
determinismo sociologico, che trasforma gli individui in riproduttori acritici di ruoli, atteggiamenti e valori
creati dalle strutture sociali in base a una generale esigenza funzionale dell’intera società.

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L’attenzione si rivolge a una serie di processi, ritenuti universali, che connettono il lato più personale,
istintivo e creativo della soggettività individuale alle regole e alle istituzioni della società nel suo complesso.
Segnala che si può essere “individui” solo se (e in quanto) inseriti in relazioni sociali. L’identità è così un
continuo processo comunicativo e relazionale che consente agli individui di percepirsi e di comprendersi
come soggetti autonomi nel momento in cui sono così percepiti e compresi dagli altri.
In tutti questi ambiti, l’identità tende a segnalare un nucleo o un processo sostanzialmente caratteristico di
ogni essere umano universale e costante nelle sue dimensioni generali.
Attraverso l’identità si possono più chiaramente cogliere le specificità, le novità e le contraddizioni della vita
moderna, in cui i processi di individuazione, l’autonomia soggettiva e la capacità di scelta autonoma sono
divenuti le caratteristiche più rilevanti.
L’identità è il continuo risultato di interazione con un ambiente relazionale specifico, un processo di
attribuzione di senso sempre parziale, incompleto, legato al contesto. Più che un nucleo unitario e costante, si
caratterizza per la trasformazione, la negoziazione e la crisi continua. L’identità diviene la caratteristica
principale e fondamentale per un’azione sociale consapevole e per un pieno sviluppo delle proprie
potenzialità umane. I gruppi e gli individui a cui viene negata la loro identità subiscono un danno reale
perché il mancato riconoscimento della propria specificità impedisce l’autostima e la fiducia di sé,
condizioni indispensabili per agire in modo autonomo (Taylor: 1993, 1998). L’identità è la base che consente
ai soggetti di riconoscersi e di agire, di partecipare alla vita sociale, costituisce il bagaglio più solido e
profondo con cui sviluppare in modo originale e autonomo la propria biografia o la propria storia collettiva.
Perdere l’identità o non vedersela collettivamente riconosciuta significa perdere i punti di riferimento, la
capacità di collocarsi nella mappa sociale e di muoversi verso un obiettivo preciso, con un progetto originale.
Fin dai primi momenti della loro esistenza, tramite i processi di socializzazione primaria, gli individui
acquisiscono un senso di appartenenza, di similitudine e di legame con altri, che costituisce la base di
riferimento indispensabile. Identità serve a segnalare la necessità concettuale di uno spazio intermedio tra
individuo e società. Da una parte siamo condizionati dal contesto dall’altra, c’è un senso di libertà che
attuiamo. Essere critici rispetto ai ruoli imposti dalla società = identità matura

3.2. L’identità in divenire, cioè della crescita, del cambiamento


Si enfatizza il carattere dinamico dell’identità. Le identità, più che un nucleo durevole e profondo, sono
“concessioni sociali” (Berger: 1963), sono costituite da immagini e discorsi sociali che «svolazzano
liberamente e sta ai singoli individui afferrale al volo usando le proprie capacità e i propri
strumenti» (Bauman:2003, 31). Ogni identità in questo senso è in continuo divenire, grazie alle continue
interrelazione sociali che condizionano il cammino di crescita individuale.
Conservare la propria identità significa conservare un nucleo di base che però continuamente diviene perché
ciascuno di noi è in costante relazione con altri. E’ una danza in cui c’è uno sforzo continuo tra il mantenere
salde le proprie radici, senza farsi facilmente fagocitare da altre identità o pressioni sociali di altro tipo, e
ascoltare con disponibilità e una certa elasticità, in modo da prendere dagli altri in modo differenziato.
Questo significa che da un lato non dobbiamo subire il mondo sociale, dall’altro dobbiamo fare lo sforzo di
ascoltarlo e integrarlo in modo critico. Se, ad esempio, essere onesta con qualcuno secondo un’etica da me
scelta, mi indica di non mentire, è giusto che io mi sforzi in questa direzione; se però mi rendo conto che mio
padre ha un cancro senza speranze e non è in grado di sostenere l’angoscia di dover morire, è bene che io
non mi irrigidisca nelle mie posizioni e modifichi il mio concetto di onestà allargandolo. In questo modo non
ho annullato la mia identità l’ho semplicemente complessificata avendo ascoltato l’esigenza di un altro molto
fragile e incapace di potere reggere una certa consapevolezza. Questo significa mantenere un identità in
mutamento costante, via via che la realtà mi impone la soluzione di nuovi e più complessi problemi.
Perdere l’identità è molto angosciante. L’identità diviene la caratteristica principale e fondamentale per
un’azione sociale consapevole e per un pieno sviluppo delle proprie potenzialità umane. Perdere l’identità o
non vedersela collettivamente riconosciuta significa perdere i punti di riferimento, la capacità di collocarsi
nella mappa sociale e di muoversi verso un obiettivo preciso, con un progetto originale.
Es.: se provate a chiamare un bambino di 3 anni con un altro nome, lo mandate in un forte stato di angoscia,
i bambini molto piccoli non amano cambiare ambiente come anche gli anziani.
Da queste considerazioni, risulta centrale la capacità di sentirsi unici e differenziati da altri soggetti, la
capacità di selezionare le esperienze che maggiormente ci fanno crescere come individui all’interno di una
vasta rete di relazioni con altri individui, per accrescere la propria autostima, bisognerebbe quindi avere una

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buona considerazione di sé come individuo ,attribuirsi il merito dei buoni risultati e respingere il biasimo per
i cattivi (Eiser: 1983; Sciolla: 1983 b).
Il concetto di self o di identità psicologica consentirebbe di superare la dicotomia creatività individuale/
determinismo sociologico per sottolineare il legame inscindibile tra individuo e società, per portare in primo
piano i processi attraverso cui individuo e mondo sociale si costituiscono contemporaneamente e
reciprocamente. Permetterebbe di evidenziare come l’individuo si possa pensare solo come soggetto sociale,
allargando il campo interpretativo dell’azione alle dimensioni affettive ed emotive che trascendono la pura
dimensione strumentale e l’interesse egoistico.
Identità è, in questo caso, il risultato di una costruzione sociale, in cui se da una parte gli altri mi impongono
un ruolo e mi condizionano con i loro comportamenti io sono parte attiva nel definire anche la loro identità.
Così si potrebbe pensare ad esempio, come per un operatore turistico sia fondamentale considerare l’identità
della persona che ha di fronte, il contesto in cui vive, le aspettative rispetto ad una meta turistica, i suoi
precedenti viaggi, il lavoro che svolge, se ha famiglia o è solo, al fine di proporgli un viaggio che possa
soddisfare i suoi bisogni e le sue aspettative, solo entrando in relazione con l’altro, sarà possibile
comprenderne le aspettative; ma per riuscire in questo, bisogna avere una buona conoscenza di se stessi; nel
senso che se quel turista ama l’avventura spericolate mentre io ne sono terrorizzate è bene che
comprendendo le nostre differenze gli proponga un collega più audace.
A tal proposito, sarebbe auspicabile, porsi delle domande rispetto ad esempio:
a) Che tipo di operatori vorremo essere?
b) Quali caratteristiche bisognerebbero avere per entrare in sintonia con gli altri?
c) Se ho una bassa considerazione di me, ad esempio, l'altro potrebbe intuirlo?

Queste e tante altre domande, possono essere comprese solo attraverso un’attenta lettura di quelle che sono
definite: dinamiche relazionali.
3.3. L’identità e il confronto
IDENTITÀ= SOMIGLIANZA + DIFFERENZA
L’identità, cioè si costituisce perché cogliamo lo somiglianze con un gruppo, una comunità di
appartenenza e ma anche per quello che ci differenzia da altri/e.
L’identità presuppone anche la differenziazione
Da queste considerazioni, risulta centrale la capacità di sentirsi unici e differenziati da altri soggetti. Così si
potrebbe pensare ad esempio, come per un operatore turistico sia fondamentale considerare l’identità della
persona che ha di fronte, il contesto in cui vive, le aspettative rispetto ad una meta turistica, i suoi precedenti
viaggi, il lavoro che svolge, se ha famiglia o è solo, al fine di proporgli un viaggio che possa soddisfare i suoi
bisogni e le sue aspettative, solo entrando in relazione con l’altro, sarà possibile soddisfarlo; ma per riuscire
in questo, bisogna avere una buona conoscenza di se stessi; nel senso che se quel turista ama l’avventura
spericolata, mentre io ne sono terrorizzata, è utile che, comprendendo, le nostre differenze, che gli proponga
un collega più audace.
Ecco allora un’idea di coloro che svolgono professioni in cui la relazione, la comprensione, l’ascolto,
l’accoglienza e l’incontro, sono gli ingredienti indispensabili senza dei quali il risultato non potrebbe essere
raggiunto: Disponibili e desiderosi di rimettersi in gioco in ogni situazione di novità, in ogni incontro;
trasformarsi e lasciarsi trasformare della situazione, entrando in sintonia, in empatia con l’Altro, lasciandosi
invadere le frontiere della propria identità dal suo volto, in una relazione che è prossimità. L’Altro, il diverso,
il nuovo, l’ignoto, lo straniero; è tanto una persona (un “volto”, direbbe Emanuele Levinas), un gruppo, una
comunità, quanto un territorio, un luogo, una situazione vissuta e abitata da persone. Entrando in contatto –
visivo, sensoriale, fisico e psicologico - con quest’altro, in una relazione d’aiuto, in un’azione di
cooperazione, in un contesto umanitario, in un gruppo di lavoro, in una distribuzione di aiuti, in un ufficio o
in un tavolo di concertazione, progettazione, programmazione l’operatore si mette in gioco, umanamente e
professionalmente. Non esistono manuali, codici di condotta o “buone prassi” che definiscano approcci alla
relazione – sarebbe un po’ presuntuoso pretendere che una formula magica, seguita da chiunque, garantisca
la comunicazione e il successo dell’incontro. È in sostanza impossibile pensare e raccontare la società
attuale, la sua struttura, il suo funzionamento, le sue discrasie, i suoi conflitti, le sue prospettive e il nostro
posto in essa, senza ricorrere all’idea di “identità”. Il concetto d'identità, nella sociologia e nelle altre scienze
sociali, riguarda la concezione che un individuo ha di sé stesso nella società.

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L’ identità, nasce anche dal confronto, cioè dal modo in cui l'individuo considera e costruisce se stesso come
membro di determinati gruppi sociali: nazione, classe sociale, livello culturale, etnia, genere, professione, e
così via; e, per l'altro, il modo in cui le norme di quei gruppi fanno sì che ciascun individuo si pensi, si
comporti, si situi e si relazioni rispetto a se stesso, agli altri, al gruppo a cui afferisce e ai gruppi esterni
intesi, percepiti e classificati come alterità.
L’identità è il nostro essere presenti a noi stessi e agli altri, il nostro riconoscerci quotidiano, il tratto più
distintivo, unico e profondo, la nostra specifica particolarità, la nostra specifica biografia. Ma è anche il
nostro essere dentro il gruppo, il nostro modo di sentire il legame che ci unisce ad altri, le nostre abitudini e
le nostre tradizioni: vincoli e solidarietà, memoria e storia. È ciò che ci distingue dagli Altri, è l’evidenza
della nostra diversità. Tutti hanno un’identità; anche se, forse, molti ne vorrebbero una diversa, migliore.
Perché l’identità si avverte maggiormente quando ci lascia insoddisfatti, la sua rilevanza si fa evidente
quando è in “crisi”.
3.4. Identità come faccia, individuazione e identificazione
Valuteremo alcuni concetti che sono stati utilizzati in letteratura per definire quello di identità sociale,
secondo un visione più dettagliata: faccia, individuazione e identificazione.
Il termine di faccia rimanda al lavoro di Erving Goffman (1959. 1961, 1967) e vuole evidenziare la capacità/
necessità di gestire una particolare immagine di sé entro specifiche situazioni sociali.
La capacità/necessità di gestire i codici sociali appropriati nei diversi momenti di interazione per presentare
se stessi come soggetti che possiedono certe qualità desiderabili e per dimostrare agli altri il nostro
apprezzamento nei loro confronti.
Il termine faccia può essere definito come il valore sociale positivo che una persona rivendica per se stessa
mediante la linea che gli altri riterranno che egli abbia assunto durante un contatto particolare. Per faccia si
intende quindi un’immagine di se stessi, delineata in termini di attributi sociali positivi; un’immagine,
tuttavia, che gli altri possono condividere, come avviene quando una persona conferisce prestigio alla propria
professione o religione comportandosi in modo da ricevere l’approvazione degli altri (Goffman: 1967, 8-9).
Ha inoltre un carattere relazionale e di costruzione sociale: è qualcosa che è attribuito dagli altri, è legata al
riconoscimento concesso dalle situazioni e dai pubblici.
Il concetto di faccia consente di concentrare l’attenzione sui rituali della vita quotidiana, sugli incontri e sulle
occasioni sociali che incorniciano le relazioni interpersonali e sui giochi di coordinamento che regolano
l’interazione creando, come loro effetto strutturale, uno spazio che consente l’immagine di sé, uno spazio
morale che fa dell’individuo un oggetto degno di rispetto e considerazione. Per comprendere meglio cosa
intendiamo per faccia, sarà utile fare un esempio, se io mi considero un buon operatore turistico, credo
profondamente nel mio lavoro e ho una buona valutazione delle mie capacità, sicuramente le mie relazioni
saranno positive, di conseguenza gli altri mi rimanderanno un impressione positiva di me.
Con individuazione, si tratta di porre in primo piano : «l’immagine che l’individuo si è fatto di se stesso
attraverso la sua irripetibile esperienza di vita e la memoria narrativa che fonda la sua continuità nel
tempo» (Crespi: 2004, 81). Pone in primo piano le condizioni e gli strumenti relazionali a disposizione degli
individui, in un particolare contesto storico e sociale, per rispondere alla domanda “chi sono?”.
L’individuazione mette in evidenza la necessità di collegare le esperienze passate e presenti e le prospettive
future in un insieme dotato di senso e di un certo grado di stabilità e coerenza che ne consenta il
riconoscimento e la narrazione. L’individuazione pone enfasi sulla dimensione contestuale, sulle relazioni
storiche e sociali che agiscono come vincoli e come risorse per forme specifiche di riconoscimento di sé.
Senso, stabilità e coerenza che non sono garantiti da un’essenza interiore, ma da attivi processi comunicativi
e relazionali. La narrazione e l’esperienza del narrare sono gli elementi principali che consentono di produrre
un senso di sé che sia contemporaneamente distinto, riconoscibile, con dei confini percepibili ma anche
aperto, capace di includere i mutamenti, di rielaborare gli eventi, di ricomporre la frammentarietà
dell’esperienza e della memoria (Melucci: 2000; Holstein, Gubrium: 2000).
Il carattere processuale dell’individuazione ne evidenzia anche il carattere riflessivo, progettuale (Giddens:
1991): più che “conoscere se stessi” si tratta di “costruire se stessi” e l’individuazione prodotta dovrà essere
continuamente esplorata, analizzata e costruita come parte di un processo riflessivo attraverso cui mantenere
uniti il cambiamento personale con quello dei contesti sociali in cui ci si trova ad agire. Un individuo che è ”
individuato”, sarà in grado di raccontare la propria storia di vita, di riconoscere ad esempio le proprie
modalità di relazione con la famiglia di origine, di comprenderne i limiti e le risorse, di conseguenza un
individuo che sarà in grado di fare dei progetti, così alla domanda chi sono, sarà in grado di rispondere

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coerentemente alla propria storia di vita. Infine, con il termine identificazione – o collocazione sociale – si
intende fare riferimento alla dimensione della partecipazione e del coinvolgimento. Vengono posti in primo
piano gli elementi che consentono agli individui di collocarsi entro uno spazio morale, cioè di tracciare le
coordinate– giusto/ sbagliato, bene/male, bello/brutto, vicino/lontano, degno/indegno, ecc. – che strutturano
il senso delle situazioni di cui si fa esperienza (Taylor: 1993). È connessa ai processi di categorizzazione e di
classificazione, a come gli individui arrivano a tracciare distinzioni e confini che ritengono significativi,
quali panorami complessivi tali confini sono in grado di rappresentare, come, quando, in che condizioni e a
chi è concesso attraversare i confini, chi ne rimane escluso e con quali conseguenze.
Il concetto di identificazione rimanda alla capacità/necessità di situarsi, riguarda l’esperienza di sentirsi
incorporati, inclusi, interessati – o, specularmente, dell’essere esclusi. Implica la sensazione di “essere
toccati” o di essere in presenza di persone, situazioni, valori e oggetti che “mi riguardano”.
Rimanda all’idea di essere coinvolti, di “avere a che fare”, di essere parte, di essere in relazione. Richiama,
inoltre, la dimensione della stima, del rispetto e della considerazione; “avere riguardo” implica trattare
adeguatamente, con la giusta cura, ciò che si ritiene dotato di valore. Nella sua accezione riflessiva, infine,
significa avere cura di sé, concedersi le necessarie attenzione perché il sé sia protetto e valorizzato.
L’attenzione alla dimensione relazionale, collettiva, consente infatti di evidenziare il carattere di costruzione
sociale. Il termine identificazione è fortemente collegato a quello di individuazione, infatti se un individuo si
individua attraverso la conoscenza della propria storia, conseguentemente sarà in grado relazionarsi ad un
contesto variegato e di adeguarsi alle diverse situazioni e persone che incontrerà, solo tramite la cura di se
stessi e l’attenzione verso sé, sarà possibile comprendere gli altri e sentirsi accolti dagli altri.

4 L’Autostima
La stima di sé, elemento capace di misurare la capacità di collaborazione sociale, aumenta nella misura in cui
si è accettati o scelti dagli altri, mentre l’esclusione tende ad abbassarla. Bisogno di intrattenere e mantenere
ampie relazioni sociali [Baumeister e Leary 1995]. Le persone con un’alta autostima si costruiscono migliori
aspettative sul loro futuro si mostrano capaci di affrontare in modo positivo le situazioni di stress. Un’alta
stima di Sé contribuisce ad una costruzione identitaria più ricca (cioè un Sé strutturato su un maggior numero
di dimensioni).
Partiamo dall’etimologia, il verbo stimare derivante dal latino “aestimare” che significa “valutare” nella
duplice accezione:
- determinare il valore di …
- avere un opinione su …

Quindi il concetto di autostima comprende come ciascuno vede se stesso, come si giudica e che tipo di
valore si attribuisce. L’individuo comincia a formare i concetti di sé – ossia il proprio modo di considerarsi e
definirsi, in senso più o meno positivo – ad un’età molto precoce.
4.1. Il bisogno di mantenere un’immagine
Il bisogno di mantenere un’immagine di sè stabile e positiva è una causa molto potente del comportamento
umano. Non è però sempre facile salvaguardare questa credenza, nella vita reale ci sono situazioni che
costituiscono delle vere e proprie sfide.
In altre parole gli esseri umani cercano di mantenere una visione di se stessi relativamente favorevole,
soprattutto quando si imbattono in prove che contraddicono questa immagine di sè tipicamente rosea.
L'autostima è fondamentale per ottenere il meglio dalla vita. Poiché il proprio livello di autostima nasce da
un confronto fra sé e il mondo circostante, se il confronto è errato, errate sono le conclusioni. In termini
molto pratici, è il voto che ci si dà. Poiché è un concetto soggettivo, ecco che dal di fuori il giudizio dato dal
singolo su sé stesso che noi percepiamo possa essere del tutto diverso da quello che oggettivamente
pensiamo essere corretto. Per esempio, un debole può avere una bassa autostima e ritenersi sempre mediocre
anche quando non lo è. Viceversa un apparente può pensare che nulla gli è precluso perché in quel momento
ha un notevole successo.
Quest'ultimo esempio ci fa capire come l'autostima non sia un concetto statico, ma dinamico. Come una
grande azienda che normalmente è abbastanza stabile, ma può avere alti e bassi, generati da eventi che
accadono in essa o fuori di essa. Ovviamente sarebbe auspicabile che l'autostima rimanesse sempre ai
massimi livelli.
4.2. Sviluppo dell’autostima

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Secondo E.H. Erikson, ai fini della comprensione dell’origine della stima di sé, risulta particolarmente
importante focalizzare l’attenzione su quanto avviene nella fase che comincia alla nascita e si conclude
all’incirca durante il primo anno di vita. Compito fondamentale di tale fase è quello di acquisire un buon
equilibrio tra fiducia di base e sfiducia di base, in se stessi e negli altri. Fiducia e sfiducia, secondo Erikson,
originano dalla qualità della relazione che il bambino sperimenta con la propria madre e devono essere
modulate dalla speranza che i propri bisogni e le proprie richieste non verranno disattesi, almeno non più di
tanto, non fino al punto, cioè, di perdere la speranza. Grazie ad un’equilibrata integrazione di fiducia,
sfiducia e speranza, il bambino può imparare a tollerare la frustrazione e le delusioni, a ridefinire
continuamente i propri progetti e le proprie aspirazioni, a proiettarsi nel futuro e a mantenere nel tempo
un’equilibrata stima di sé.
Alcuni autori come Sullivan (1892-1949), Freud (1856-1938) e Horney (1885-1952), ritengono che le
immagini di sé che i bambini sviluppano durante la prima infanzia – in base alla percezione di una positiva o
negativa relazione con le principali figure di accudimento e in base all’essersi sentiti o meno bambini degni
d’amore e d’importanza – avranno un’influenza per tutta la vita. Essi sostengono che durante i primi sei anni
di vita si formano le inclinazioni fondamentali all’amore o all’odio verso se stessi. Tali tendenze
influenzeranno poi lo stile di vita dell’individuo, il suo modo di considerarsi e anche la sua autostima.
Secondo Bowlby “… il modo in cui siamo stati o non siamo stati accolti, riconosciuti, nutriti genera la
nostra organizzazione del mondo e il nostro modo di stare nel mondo…” Gli attaccamenti affettivi sono il
risultato di come siamo stati allevati nella nostra famiglia, dall’imprinting della nascita.
Da una parte quindi la qualità delle relazioni primarie ha un peso fondamentale per la costruzione della
propria autostima, dall’altra difficilmente l’immagine che ciascuno ha di sé stesso rimane fissa ed
immutabile. Fortunatamente (o sfortunatamente nel minore dei casi) quest’ultima è soggetta a modificazioni
sia per le esperienze che di volta in volta si fanno, sia per la qualità delle relazioni che intrecciamo con le
persone significative incontrate nell’arco dell’intera nostra esistenza. L’autostima si costruisce sin da
bambini con ciò che i genitori, i nonni, i maestri e compagni dicono di noi e va a modificarsi in positivo o in
negativo grazie ai piccoli primi risultati che otteniamo. Ogni persona la costruisce negli anni, grazie alle
interpretazioni che da di ciò che accade attorno a sé. La nostra autostima “filtra” gli eventi esterni e
attribuisce un significato agli stimoli (successi, fallimenti, dialoghi, sguardi, ecc..), va a costruire,
consolidare l’opinione che abbiamo di noi stessi, il nostro potenziale, i nostri standard, quelli che pensiamo
siano i nostri limiti. L’immagine che ognuno ha di sé è composta come un mosaico che lentamente prende
forma in base alle risposte che riceviamo dagli altri e a come noi le percepiamo e interpretiamo. L’autostima
può essere bassa, alta, positiva o negativa; è qualcosa di attivo, un processo e non qualcosa di che noi
abbiamo nella testa di immutabile.
4.3. Il concetto di autostima
Il concetto di autostima si può riassumere in tre aspetti concatenanti:
a) L’AMORE PER SE STESSI: è ciò che ci consente di apprezzarci ed accettarci nonostante i nostri difetti
ed indipendentemente dalle nostre prestazioni pur continuando a sforzarci nel modificare ciò che di noi può
essere reso migliore. E’ necessario riuscire ad accettarsi, evitando di pretendere da se stessi la perfezione. Se
io valgo, mi amo e mi voglio bene = io merito di ascoltare i miei bisogni e i miei desideri e di prendermi cura
di me stesso. Se valgo e mi voglio bene, non mi punisco e non pratico comportamenti autolesivi o
masochistici. non sono vittima di me stesso o degli altri. se mi amo, so amare anche gli altri e sono capace di
stare nella relazione, cioè di prendermi cura anche dell’altro da me. la difficoltà ad aprirsi all’amore verso se
stessi e verso l’altro, molto spesso è il risultato di ostacoli affettivi vissuti nell’infanzia.
b) L’AUTOIMMAGINE: una visione positiva di noi stessi, ci consente di sentirci all’altezza nell’affrontare
ciò che la vita ci riserva.
c) LA FIDUCIA IN SE STESSI: essere fiduciosi significa pensare che si è capaci di agire in maniera
adeguata nelle situazioni importanti, essere consapevoli di avere in sé tutte le risorse necessarie per
affrontare le sfide che ci poniamo. Essere sicuri che daremo tutto il possibile per quell’obbiettivo che ci sta
tanto a cuore. L’autostima viene meno negli stati di depressione in cui l’individuo disprezza e svaluta se
stesso (la colpa), mentre aumenta negli stati maniacali ,in cui si sperimenta l’onnipotenza. Nel narcisismo
l’immagine di sé è talmente bassa che è necessario avere relazioni che siano improntate a specchio per un
ritorno dell’immagine di sé grandiosa che dovrà coprire quella deficitaria. La stima che abbiamo di noi stessi
influisce sul nostro comportamento, sulle relazioni sociali e lavorative, sulla vita affettiva e familiare.

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4.4. Come migliorare l’autostima
Esistono diverse modalità per migliorare l’autostima:
a. Una buona immagine di sé, favorisce dei rimandi positivi;
b. Lavorare sui sensi di colpa fino a quello più ancestrale del non essere stati amati e quindi non avere avuto
la fiducia di base;
c. Riequilibrare il principio del dovere e principio del piacere;
d. Favorire lo sviluppo di un buon principio di realtà rispetto ai nostri punti di debolezza e ai nostri punti di
forza.

Oggi, purtroppo l’autostima si tende a farla provenire dal fuori di sé, attraverso la chimera del successo, visto
sotto le sue innumerevoli forme: ricchezza, carriera, prestigio, vittoria. Si vale se si ottiene qualcosa nel
campo in cui si opera o si vive. Niente di più assurdo perché in tal modo si demanda la propria felicità a un
risultato, spesso nemmeno del tutto dipendente da noi (condizioni facilitanti, fortuna ecc.). Tale risultato è
sovente talmente materiale da fare a pugni con un concetto così spirituale come la felicità. Quello che si
ottiene è un surrogato di autostima. La persona non sviluppa una vera forza di volontà anevrotica, ma la sua
forza è orientata solo al raggiungimento dell'obiettivo, è quindi nevrotica .Esistono per esempio molte
tecniche per accrescere l'autostima, addirittura molte scuole con corsi ed esami (per esempio la PNL). In
genere tutte queste discipline tendono a utilizzare un accrescimento dell'autostima per avere successo nella
vita, svincolando ogni discorso etico e/o esistenziale dal miglioramento del soggetto. In realtà si tratta
sempre di "convincere" il soggetto aumentandone la fiducia in sé stesso.
Questo meccanismo può portare a qualche risultato, ma se leggete la definizione di autostima ne capirete i
limiti: posso avere una bassa autostima perché ho poca fiducia in me stesso, quindi "mi do un voto basso".
Se alzo la fiducia aumenta anche l'autostima, ma ciò è completamente scorrelato con il mondo esterno e può
provocare danni più che apportare vantaggi. Vediamo l'esempio classico. Carlo è un operatore turistico con
bassa autostima. Ciò lo penalizza molto nel suo lavoro. Decide perciò di iscriversi a un corso di SIG (Sei
Immensamente Grande), una nuova tecnica infallibile per aumentare la sua autostima. Dopo sei mesi la
fiducia in sé stesso è triplicata e sente dentro di sé un entusiasmo mai provato. Si getta con grande dedizione
nel lavoro, migliorando i suoi risultati. Ottiene un aumento del 15% delle vendite (la SIG funziona!). Tutto
bene? Analizziamo oggettivamente la situazione. Carlo è così pieno della sua nuova attività che lavora il
30% più di prima, per lui non c'è che il lavoro, l'unico campo in cui sente di "valere" qualcosa. L'unica che ci
ha guadagnato da questa situazione è sicuramente l'azienda (+15% di fatturato con piccolo bonus a Carlo),
ma Carlo è lo scarso di prima, una specie di "secchione" del lavoro che ottiene qualcosa in più perché è stato
"programmato" a lavorare molto di più. Al primo insuccesso Carlo crolla e ritorna quello di prima. Carlo
avrebbe dovuto capire che nel lavoro (come in ogni attività dove c'è un risultato) basta dare il meglio di sé,
buttare il cuore oltre il traguardo, senza avere l'ansia della vittoria. Se i risultati sono comunque scarsi,
possiamo accontentarci oppure scegliere un'altra strada più facile (per esempio il ridimensionamento nel
lavoro o nello studio), senza per questo sentire lo stupido peso della sconfitta.
Per liberarsi dall'autostima da successo e orientarsi verso un autostima più autentica, occorre tenere in conto
quello che per noi è veramente importante, come senso della vita e valori da seguire.
Ecco alcuni suggerimenti:
1) Il tuo valore è indipendente da ciò che gli altri pensano di te.
Chi rincorre il successo e pensa di esistere solo se diventa famoso, in realtà non esiste, non brillando di luce
propria. È come la luna: bellissima da lontano perché la illumina il sole, ma deserta e spettrale vista da
vicino. Il punto 1) è quello che ci permette di affrontare un esame in tranquillità o di dichiararci alla persona
che amiamo.
Nel primo caso è importante ciò che abbiamo fatto "prima", sentirsi con la coscienza a posto, non il voto che
prenderemo. Dobbiamo vedere l'esame come un ulteriore mezzo di imparare qualcosa, non come un giudizio
sulla nostra personalità.
Nel secondo caso, a prescindere dalla risposta, noi rimaniamo ciò che siamo: se la risposta è negativa, è
inutile disperarsi (con la classica frase: "senza di lei/lui la mia vita non ha senso": ma allora ammazzati
subito! Chi non sa vivere da solo come può pretendere che un'altra persona risolva la sua vita?), abbiamo
capito che stavamo sbagliando puntando sulla persona sbagliata. Possiamo rivolgerci altrove per migliorare
la nostra vita.
2) Nessuno deve ritenersi meno importante di un’altra persona.

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Questo concetto è importantissimo. Ognuno di noi ha la propria dignità e non la si può perdere
rimpicciolendo la propria identità di fronte a quella di un'altra persona. Si può stimare, ma non adorare o
temere. Troppe persone si annullano di fronte a un superiore o presunto tale; ricchezza, nobiltà, gerarchia,
successo: nulla di tutto ciò può giustificare il sentirsi in inferiorità di fronte a qualcuno, chiunque esso sia. Ci
può essere rispetto, ma non sottomissione. Chi si spersonalizza in un mito spesso non stima abbastanza sé
stesso. Pensiamo al fan che attende per ore il suo cantante o il suo attore preferito, pensiamo al tifoso che si
spersonalizza nella squadra. Chi vince non è il tifoso, anche se con il suo tifo pensa di avere una parte nella
storia di un successo sportivo. Sono i giocatori che sono ricchi e famosi: anche se la squadra vince il
massimo trofeo, il tifoso resta solo un anonimo zero. Chi tifa dovrebbe farlo per amore dello sport che sta
osservando, non per esaltare la propria personalità in una vittoria che erroneamente crede sua.
3) Nessuno deve ritenersi più importante di un'altra persona.
Ovviamente non bisogna incorrere nell’errore opposto: chi si sovrastima (e pensa di essere migliore degli
altri e fa di tutto perché ciò appaia) è fondamentalmente uno stupido. In antitesi alla ragazza che si crede
brutta, è la donna che pensa di essere bellissima e non riesce a vedere tutti i difetti per cui gli uomini la
evitano. Il concetto di autostima non ha nulla a che fare con la superba supervalutazione della propria
personalità. Chi si crede importante (la classica frase: "Lei non sa chi sono io!") in realtà non ha stima di sé
in quanto il più delle volte si rende ridicolo o, nel caso dei potenti o presunti tali, si rende antipatico o odioso.
Nessuno può impormi un segno di stima nei suoi confronti, chiunque esso sia. Chi pensa di avere anche il
più piccolo privilegio per la posizione sociale raggiunta, per il successo ottenuto, per il grado gerarchico in
cui si trova ecc. non ha una vera stima di sé; infatti se ragiona in questo modo si riterrà inferiore rispetto a
chi sta sopra di lui.
4) Chi deve dimostrare di valere qualcosa non vale nulla.
Un mediocre giocatore di scacchi quando perde è solito accampare scuse come cali di concentrazione,
varianti sfortunate o altro, mentre quando vince si autocompiace delle sue splendide partite e se ne vanta con
chiunque incontri: non considera mai nemmeno lontanamente il fatto che quel giorno era l'avversario a
essere poco concentrato! Uno sportivo pratica il suo sport non perché lo ama, ma perché gli consente di
emergere in un gruppo di persone, gruppo all'interno del quale ha le sue vittime che deride pesantemente
ogni volta che riesce a batterle. Un adolescente sfida un coetaneo in una prova di coraggio e, se lo sfidato
rifiuta (perché più furbo), lo deride dandogli del codardo. Tre brevi esempi per mostrare come siano comuni
le persone che sono sempre in competizione, perché pensano che il confronto con gli altri sia il metro per
misurare il proprio valore. Spesso queste persone non amano veramente ciò che fanno, ma lo fanno solo per
emergere, per sentirsi importanti. Il più delle volte ottengono risultati superiori solo di poco alla media, ma li
ingigantiscono per ingigantire la loro immagine: sono gli scarsissimi. Chi vale veramente non ha bisogno di
dimostrare il proprio valore.
Da quanto emerso, l'autostima deve provenire dal dentro di sé, per essere positiva e duratura.
Un caso
Due amici entrano in un’agenzia di viaggio. L’operatore turistico li fa accomodare. La prima richiesta è
quella di una meta poco costosa e divertente. L’operatore propone un viaggio ad Ibiza in quanto meta ambita
per giovani ragazzi e che al momento presenta un’offerta economica vantaggiosa.
Uno dei ragazzi, Antonio, accetta perché ha sentito dire che i ragazzi “fichi” vanno a Ibiza (identità imposta
dal contesto sociale). L’altro, Alessandro, cerca di capire cosa si fa in questo posto turistico per valutare se
gli piace (senso di identità personale buona, perché basata su una scelta personale dei propri valori). Parla
con l’operatore mostrando una buona capacità di conoscenza di cosa sia convenite e no. L’operatore gli
conferma che è molto competente (concetto di identità come “faccia”), dice che per lui è importante capire
cosa veramente gli piace perché non vuole rovinarsi la vacanza (concetto di identità come “identificazione”)
e preferisce non trovarsi in contesti dove si fa solo chiasso, perché il senso di vuoto di alcune situazioni lo
deprime (concetto di identità come “individuazione”). L’altro ascolta ma non riesce a mettere insieme le sue
aspettative con quello che propone l’operatore (fa fatica a trovare unità tra le parti del Sé). L’operatore cerca
di spingere entrambi a capire bene cosa desiderano per evitare che uno dei due si sente insoddisfatto
(alimenta l’autostima e l’identità). Antonio considera Alessandro superiore, lo guarda ammirato e decide di
sottostare alla sua scelta.
Alessandro, avendo capito l’atteggiamento dell’amico lo invita a dare valore alle sue idee (si dà il giusto
valore evitando di sentirsi superiore = buon senso di forza interiore). Quindi inizia a fare semplici domande
del tipo “hai voglia di discoteca fino alle cinque o di conoscere persone interessanti con cui scambiare

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informazioni? Cerca di creare autostima facendolo partire da sé, evitando che si affidi a miti o idealizzando
gli altri. Inoltre è un atteggiamento che dimostra come lo sviluppo dell’identità nasce da un confronto dove si
stabiliscono similitudini e differenze.

“LA COMUNICAZIONE VERBALE”

1 La comunicazione e i suoi codici


La parola comunicazione deriva dalla lingua latina: da communico – che significa “mettere in comune” – e
da communicatio – che significa “comunicazione, partecipazione”. Quando comunichiamo, infatti, mettiamo
in comune messaggi e
informazioni con altre persone. Il processo comunicativo è stato studiato in maniera approfondita dalla
Scuola di Palo Alto, la quale ha elaborato cinque principi che ne definiscono le caratteristiche. Il primo
assioma formulato asserisce che “non si può non comunicare”1 : in qualsiasi situazione ci troviamo i nostri
comportamenti esprimono sempre qualche cosa, indipendentemente dalla nostra volontà e a questo
fenomeno non possiamo sottrarci. Possiamo eliminare una forma o un’altra di comunicazione, ma non la
comunicazione stessa.
La comunicazione non è semplicemente parlare ma presuppone necessariamente una relazione e quindi uno
scambio.
Vari sono i tipi di comunicazione e, tralasciando quelli non umani ( animali, multimediali, ecc.) la
comunicazione umana di distingue in:
F 0Comunicazione
B7 sociale
F 0Comunicazione
B7 interpersonale

La comunicazione sociale più nota come comunicazione di massa viene realizzata da una o poche persone
ed è rivolta a molti individui (televisione, stampa, radio, pubblicità, utenti e riceventi).
La comunicazione interpersonale coinvolge 2 o più persone e si basa sempre su una relazione in cui gli
interlocutori si influenzano sempre l’un l’altro, anche quando non se ne rende conto.

La comunicazione interpersonale si suddivide a sua volta in :


Comunicazione verbale

Che avviene attraverso l’uso del linguaggio sia scritto che orale e che dipende da precise regole sintattiche e
grammaticali.
Comunicazione non verbale

Che avviene senza l’uso delle parole attraverso vari canali: mimiche facciali, sguardo, gesti, posture,
andature, abbigliamento.
Comunicazione para verbale

Che riguarda soprattutto la voce (tono, volume, ritmo), ma anche le pause, le risate, il silenzio ed altre
espressioni sonore (schiarirsi la voce, tamburellare, far suoni) e il giocherellare con oggetti.
Sia il non verbale che il paraverbale inviano messaggi spesso inconsapevoli di tipo emotivo. Ad esempio è
stato dimostrato che per scoprire un mentitore basta ascoltare il tono della sua voce che vibra, ma non è
facile distinguerlo ad orecchio nudi (con delle attrezzature sì).
1.1. Le parole della comunicazione
Roman Jakobson2 ha descritto il processo comunicativo indicandone sei elementi essenziali, ricorrenti in
qualsiasi forma di comunicazione: mittente (o emittente), destinatario (o ricevente), messaggio, referente,
canale e codice
2 Roman Jakobson (1896 – 1982), linguista statunitense di origine russa, è considerato uno dei principali
iniziatori della scuola del formalismo e dello strutturalismo. A lui si deve lo studio della teoria della
comunicazione linguistica.
§ Mittente – anche detto trasmittente, è chi invia il messaggio, dando così inizio alla comunicazione.
§ Destinatario – anche detto destinatario, è colui a cui viene inviato il messaggio.

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§ Messaggio – anche detto contenuto, riguarda ciò che viene comunicato e può essere di varia natura.
§ Referente – la realtà (oggetto, situazione, fatto, …) a cui il messaggio Si riferisce
§ Canale – mezzo attraverso il quale il messaggio è trasmesso (i segni grafici, se il messaggio è scritto; l’aria,
se mittente e destinatario sono vicini; il telefono, se invece sono lontani; …)
§ Codice – linguaggio usato per la comunicazione, che può essere verbale o non verbale: perché la
comunicazione sia efficace e, quindi, il messaggio sia compreso, è indispensabile che mittente e destinatario
usino gli stessi codici3.
3 Goffman ( 1959)
Altra parola importante è il contesto: il quadro d’insieme delle informazioni e conoscenze (linguistiche,
storiche, culturali e situazionali) che, essendo comuni sia al mittente sia al destinatario, consentono l’esatta
comprensione del messaggio.
Si ha una situazione comunicativa solo quando tali elementi sono tutti presenti: se ne manca anche uno non
si può parlare di comunicazione.
A volte si può verificare che, pur alla presenza di tutti i requisiti, la comunicazione risulti disturbata e il
messaggio non raggiunga il destinatario in modo chiaro.
Per spiegare tale fenomeno, si ricorre ad un’altra parola, rumore: qualunque disturbo o interferenza che
altera il processo comunicativo (uso di termini non appropriati, cattivo funzionamento dell’impianto di
diffusione audio o della linea telefonica, uso distorto della punteggiatura, …).
Un altro fattore che incide sulla comunicazione e del quale si deve tenere conto quando si formula un
messaggio è quello indicato con la parola ridondanza, vale a dire l’eccesso di elementi che rinforzano il
messaggio, ripetendo le informazioni.
La ridondanza può essere utile, quando ripetere un concetto contribuisce a chiarire il messaggio; al contrario,
troppe ripetizioni o rafforzare più volte in modi diversi l’idea espressa, può appesantire la comunicazione e
distrarre il destinatario dalle informazioni essenziali del messaggio.

1.2. Modelli di comunicazione


• Comunicazione lineare

Un segnale (messaggio) passa da un emittente (mittente), attraverso un trasmettitore, a un destinatario


(ricevente), attraverso un recettore, lungo un canale fisico (supporto materiale).
• Comunicazione circolare

Ogni messaggio o comportamento è insieme effetto e causa di altri messaggi e comportamenti


Gli elementi della comunicazione agiscono in modo circolare perché il ricevente, se risponde, diventa a sua
volta emittente e il processo continua fino al termine della conversazione.
Fondamentale è che l’emittente e il ricevente abbiano in comune lo stesso codice per potersi capire.
L’emittente codifica mentalmente il messaggio e lo invia, attraverso canali verbali, non verbali, paraverbali,
al ricevente. Durante la trasmissione del messaggio quasi sempre intervengono filtri fisici e/o psicologici che
agiscono sia nell’emittente che nel ricevente e ciò rischia di alterare la comunicazione4. Quando il
messaggio arriva al ricevente questi deve codificarlo, cioè capirlo mentalmente per poi rispondere dando così
inizio alla nuova comunicazione. A questo punto il primo ricevente diventa l’emittente2 e il primo emittente
diventa il ricevente2 e così via fino al termine della comunicazione.
4 Ricci-Bitti, P.E., Zani, B., La comunicazione come processo sociale, Bologna 1983.
Durante un corso sulla comunicazione che ho ripetuto per due edizioni, mi è capitato spessissimo che le
persone messe a confronto per comunicare si fraintendessero. Tecnica della rifocalizzazione. Se volete
essere sicuri di essere stati capiti, relativamente ad un proposta importante che state facendo, vi consiglierei
di chiedere cosa avete detto, ovviamente lo fate in modo delicato: “Mi scusi, giusto perché non ci siano
fraintesi che poi possano disturbarla volgiamo provare e focalizzare quanto abbiamo appena detto?” . Lo
stesso vale per voi: provate a ripetere quanto vi ha detto il cliente per verificare che abbiate capito proprio
bene: “Mi scusi sta dicendo che preferisce una mezza pensione perchè vuole rimanersene in giro tutto il
giorno senza avere vincoli per il pranzo”. E potreste sentirvi rispondere qualcosa che non avevate chiaro:
“Non proprio una mezza pensione, grazie per avermi aiutato a spigarmi meglio, vorrei una colazione a sacco
per pranzo”

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La comunicazione interpersonale è sempre coinvolgente, in quanto produce, a breve o a lungo termine,
effetti psicologici che possono essere positivi o negativi, ma mai indifferenti. Inoltre, nel rapporto
comunicativo gli interlocutori stabiliscono, man mano che la comunicazione va avanti, la natura della loro
comunicazione (confidenziale, formale).
Ognuno di noi ha un proprio stile di comunicazione che dipende da vari fattori:
F 0Esperienze
B7 sociali fatte (apparteniamo a una cultura in cui si parla molto o poco, veniamo da un ambiente
che imponeva il silenzio, ecc,)
F 0Conoscenze
B7 (abbiamo a disposizione un grosso vocabolario, abbiamo o meno una buona cultura)
F 0Valori
B7 e abitudini di vita (preferiamo parlare o ascoltare, siamo introversi o estroversi, ecc.)

Nei primi approcci è normale essere cauti, ma se tale atteggiamento diventa vera e propria diffidenza ciò può
creare gravi problemi di comunicazione che, alla lunga, potrebbero anche causare disturbi comportamentali.
Secondo molti psicologi e sociologi la comunicazione interpersonale tende oggi ad essere scarsa e
superficiale in quanto:
1) Non si è capaci di comunicare
2) Si ha poco tempo di dedicare agli altri
3) Si è sempre più individualisti
4) Si preferiscono altri mezzi di comunicazione

1.3. Qual è la differenza tra parlare e comunicare?


PARLARE -> dire qualcosa a voce per mezzo di parole
COMUNICARE -> dal latino: [communicare], mettere in comune, derivato di [commune], propriamente,
che compie il suo dovere con gli altri, composto di [cum] insieme e [munis] ufficio, incarico, dovere,
funzione.
PARLARE NON SIGNIFICA COMUNICARE
Consapevole delle proprie responsabilità e forte del proprio ruolo, la comunicazione è un'espressione sociale,
un mettere un valore al servizio di qualcuno o qualcosa fuori da sé: per comunicare non basta pronunciare,
scrivere o disegnare; la comunicazione avviene quando arriva, quando l'espressione è compresa e diventa
patrimonio comune per la costruzione di una discussione, di un sapere, di una cultura. La comunicazione è
condivisione, è interazione, è feed back. Non è, quindi, solo passaggio unidirezionale di notizie e di
informazioni, non è neppure divulgazione. Nel processo comunicativo si trasferiscono significati da una
persona ad altre per influenzarne reciprocamente il pensiero e il comportamento5.

2 Linguaggio
I linguaggi sono i mezzi attraverso i quali vengono soddisfatte le esigenze comunicative; sono, in altre
parole, sistemi di segni mediante i quali si comunica. Ciò significa che tali segni acquistano senso logico
solo se organizzati e collegati tra loro da regole precise, da una serie di rapporti per cui ogni segno è definito
dai collegamenti con gli altri segni.
Si distinguono in verbali e non verbali (dal vocabolo latino verbum, che significa “parola”) a seconda che i
segni di cui sono composti siano o no parole.
Linguaggio non verbale – caratteristiche
§ È usato dall’uomo e dagli animali
§ Gli animali comunicano con suoni, movimenti, odori, colori
§ L’uomo lo usa alternandolo o insieme alle parole: immagini, uso dei colori, gesti, atteggiamenti, movimenti
del corpo, suoni, odori, profumi, uso dello spazio e della disposizione in esso di cose o persone
§ È semplice, immediato, sintetico e rafforza il linguaggio verbale
§ Non è adatto a comunicare messaggi complessi
§ È difficilmente controllabile
Linguaggio verbale – caratteristiche
§ È il linguaggio dell’uomo ed è formato di parole
§ Può essere parlato o scritto
§ Trasmette il messaggio con precisione e completezza
§ Descrive il linguaggio non verbale
§ Si manifesta attraverso le lingue

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§ Si rinnova continuamente
§ È controllabile
Non si deve confondere il linguaggio verbale, definito come sistema organizzato di parole, con la lingua, che
è il prodotto di un determinato gruppo etnico o sociale di persone in una precisa situazione storico-
ambientale: nel mondo le lingue parlate sono oltre 3.000. La lingua è il più complesso sistema di segni (le
parole) – organizzato tramite una rete di relazioni e di combinazioni – per mezzo del quale gli appartenenti
ad una collettività comunicano tra loro (lingua italiana, inglese, tedesca, cinese, …)6.

2.1. Le abilità verbali


Le abilità verbali consistono, a seconda delle situazioni, di saper utilizzare: domande chiuse, aperte, riflesse,
libera informazione, autoapertura, cambio di argomento.
Le domande chiuse richiedono una risposta brevissima, in genere un “si” o un “no” e sono necessarie
talvolta per iniziare una conversazione o agganciare l’interlocutore. Non consentono uno scorrere della
conversazione, se non con ulteriori domande; è necessario quindi un nuovo impegno da parte di chi
interroga. Esse costringono l’interlocutore a tacere, a porre un’altra domanda o a rispondere con un minimo
grado di partecipazione e informazione, ad esempio “ Dove vai?” “A casa”.
Un loro uso continuato ed insistente costringe alla ricerca affannosa di nuovi argomenti di conversazione,
creando un’atmosfera da inquisizione che determina un rapporto di squilibrio nella trasmissione e nello
scambio di informazioni.
La domanda aperta, invece, è strutturata in modo da ricavare una maggiore quantità di informazioni
dall’altro. Essa ha il vantaggio di stimolare attivamente il destinatario nel fornire più informazioni, dalle
quali potranno essere tratti spunti utili a continuare il dialogo, ad esempio: “Che cosa ne pensi di…?”. Le
domande aperte possono cominciare con chi, che cosa, quando, dove, come o perché ed elicitano spiegazioni
piuttosto dettagliate da parte dell’individuo, forniscono l’opportunità di maggiori spunti per continuare la
conversazione.
Nella domanda riflessa, infine, la persona può riconoscere all’interno dei segmenti finali dell’intervento
altrui degli stimoli di aggancio intorno ai quali costruire un’informazione da rilanciare, ad esempio: “Hai una
sorella? Anch’io. La mia è molto più giovane di me. Tra noi, per la differenza di età, non c’è grande
affiatamento”.
Passando alla libera informazione, possiamo dire che si tratta di una informazione che eccede in qualche
modo la domanda o è data senza essere sollecitata: la strategia consiste nel porre una domanda e nell’offrire
al contempo una o più informazioni di carattere generale o anche personale, a cui l’interlocutore possa
agganciarsi. Una volta instaurato il contatto, la conversazione avviata può protrarsi mediante il ricorso a
tecniche di dialogo, di concatenazione di domande chiuse, aperte e riflesse.
L’autoapertura è un’informazione libera o sollecitata che si dà su se stessi: mette a proprio agio
l’interlocutore e crea una comunicazione estremamente calda. È opportuno, quindi, mettersi in gioco, talvolta
esponendosi, ma sempre calibrando l’auto apertura a seconda delle situazioni.
Infine, la volontà di cambiare argomento oppure di concludere la conversazione dovranno essere espresse
con chiarezza e decisione: è un bene far precedere il congedo da una affermazione rassicurante e gratificante
circa l’incontro avuto.
Nell’ambito dello scambio verbale, anche il silenzio (momenti di pausa e di assenza di parola) costituisce un
modo strategico di comunicare e il suo significato varia con le situazioni, con le relazioni e con la cultura di
riferimento: in generale, il valore comunicativo del silenzio è da attribuire alla sua ambiguità e può essere
l’indizio di un ottimo rapporto, di una comunicazione intensa oppure il segnale di una pessima relazione e di
una comunicazione deteriorata; infatti parlare deve rappresentare una necessità ed un piacere, non un
obbligo, ascoltare e tacere non sono necessariamente abilità di tipo passivo. Momenti di pausa o di silenzio
possono essere vissuti in modo ansiogeno da chi vi legge il risultato della propria incapacità di relazione,
anche se in realtà essi sono parte integrante del dialogo ed hanno una loro pregnanza e valenza semantica.
2.2. I linguaggio verbale specialistici o di settore – il burocratese
Sono linguaggi creati per soddisfare le esigenze comunicative di alcuni settori di attività. Il linguaggio,
strumento flessibile, si adegua ai bisogni provenienti dai diversi ambiti di studio e di azione dell’uomo e si
specializza creando espressioni e parole con nuovi significati. Il fenomeno della settorialità e della
specializzazione interviene soprattutto sul piano lessicale (delle parole, dei vocaboli) e dei modi di dire con i

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cosiddetti tecnicismi: di questi, alcuni sono necessari, perché nel linguaggio comune non esistono espressioni
equivalenti, mentre altri potrebbero essere sostituiti con parole più diffuse e conosciute.
Un esempio è dato dal linguaggio burocratico o burocratese, usato dalle pubbliche amministrazioni.
“Burocrazia” deriva dall’unione della parola francese bureau, che significa “ufficio”, con quella della lingua
greca cratia, che significa “potere”: questo linguaggio è espressione di un potere, quello esercitato
dall’apparato degli uffici amministrativi pubblici.
Caratteristiche
- È un linguaggio di tipo misto, perché si configura come un incrocio di diversi linguaggi specialistici, come
quello giuridico, economico e finanziario – con largo uso di parole ed espressioni latine (esempio di parole:
idem, extra, omissis, quorum, vademecum, curriculum, rebus; esempio di espressioni: in primis, ad hoc, ad
personam, ad abundantiam, ex aequo)
- È complesso, formale, caratterizzato da un lessico (parole) tecnico, antiquato, difficile e da una sintassi
(organizzazione delle frasi e del periodo) involuta e complicata, che non tiene in nessun conto il destinatario
a cui si rivolge, il cittadino medio, disconoscendo completamente il concetto di efficacia comunicativa
- Usa tecnicismi non giustificati da reali esigenze comunicative (“obliterare” invece di “timbrare”,
“oblazione” invece di “pagamento”, …).

Tali caratteristiche hanno portato a definire il burocratese come esempio di linguaggio anti-comunicativo, di
ostacolo alle relazioni e ai rapporti tra le persone: rappresenta una delle maggiori difficoltà che il cittadino
incontra nell’adempimento dei suoi doveri e nell’esercizio dei suoi diritti.
2.3. Linguaggio, comunicazione e cultura
Si stima che oggi esistano nel mondo oltre cinquemila lingue e almeno altrettante culture di riferimento.
Siamo così abituati a vivere nel nostro mezzo culturale che lo riteniamo “naturale”, ovvio e scontato, come
se fosse universale. Ogni cultura, infatti, tende a porsi al centro del mondo e a pensarsi come metro di
valutazione e di misurazione di tutte le altre culture. Inoltre, è proprio la cultura che ci guida nell’attribuzione
del significato alla realtà.
Secondo Geertz (1983), l’ essere umano “è un animale sospeso nella ragnatela dei significati che egli stesso
ha tessuto” e la cultura è questa ragnatela.
La cultura è comunicazione, è un prodotto dell’interazione umana, per esistere o sopravvivere deve essere
trasmessa da una generazione all’altra: essa è pubblica e non è unicamente nascosta nella mente degli
individui. Insomma l’uomo crea la cultura ma, allo stesso tempo, deve essere capace di interpretarla.
E qual è il mezzo privilegiato dell’interazione (ed interpretazione) umana? È certamente il linguaggio.
Fra il linguaggio e la cultura esiste un rapporto molto stretto, al punto tale che si può affermare che la
lingua incarna la cultura. (L.Anolli, Psicologia della cultura, Mulino, Bologna, 2004) Imparare a parlare
una lingua significa anche imparare a usare le categorie mentali, le forme del pensiero, certe espressioni
caratteristiche per una certa cultura. I termini in questione sono tre: la lingua, il pensiero, la cultura. Essi
sono interconnessi. Ad esempio i termini del dialetto napoletano come “strizzichea” o “scunucchia”, non
sono precisamente traducibili in italiano, ma incarnano appieno la cultura partenopea fatta di gesti di mimica.
Questi termini sono la traduzione verbale di immagini e comportamenti difficilmente traducibili nella lingua
italiana.
In psicologia abbiamo due filoni di ricerca che si sono occupati del complesso rapporto fra lingua e cultura,
cercando di individuare le connessioni intrinseche e reciproche di questo rapporto. Si sono realizzati aspri
dibattiti scientifici fra la posizione innatista di Chomsky, da un lato, e la teoria della relatività linguistica di
Sapir-Worf, dall’altro.
Come impara a parlare il bambino?
2.4. La prospettiva innatista di Chomsky
La posizione innatista e anticulturalista di Chomsky presuppone la presenza di una proprietà della mente
umana che consente a una persona di acquisire una lingua in condizioni di semplice esperienza e che può
spiegare l’omogeneità dei processi linguistici in tutti gli esseri umani. Egli parla di un “organo del
linguaggio” definito geneticamente, il cosiddetto LAD – dispositivo di acquisizione linguistica. La sua
posizione è che sia il pensiero a condizionare il linguaggio
Egli suddivide ogni lingua in due strutture: superficiale e profonda. La prima riguarda l’articolazione e la
seconda spiega la capacità di ogni bambino di imparare una lingua nell’arco di due o tre anni e la capacità di
produrre e comprendere un’infinità di espressioni nuove mai incontrate prima. Senza questo dispositivo

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innato il bambino non avrebbe né tempo sufficiente né stimoli per poter imparare una lingua. È secondo
questa prospettiva che Chomsky presuppone che il pensiero dia forma al linguaggio.
2.5. I fondatori della teoria della relatività linguistica: l’ipotesi di Sapir – Whorf
Opposta è la visione di Whorf, fondatore della teoria della relatività linguistica. Egli postula che sia lingua
a condizionare lo sviluppo cognitivo:
“Gli esseri umani segmentano la natura secondo le linee indicate dalla loro lingua materna, il mondo si
presenta come un flusso caleidoscopico di impressioni che devono essere organizzate dalle nostre menti e ciò
avviene attraverso i sistemi linguistici. I parlanti delle lingue diverse sono orientati dalla loro lingua verso
differenti tipi di osservazione e differenti valutazioni di eventi esterni simili, di conseguenza essi giungono,
in qualche modo, a una differente visione del mondo.“
Ne consegue:
1) il mondo è concepito in modo diverso da coloro che si servono di linguaggi dalla struttura dissimile;
2) la struttura del linguaggio è causa di queste diverse concezioni del mondo.
Oggi molti studiosi si pongono questo tipo di domanda, è sostenibile l’ipotesi lingue diverse pensieri
diversi ?

Una delle più autorevoli figure in questo campo è Anna Wierzbicka In uno dei suoi ultimi lavori “ Capire le
culture attraverso le loro parole-chiave. Inglese, Russa, Polacca, Tedesca e Giapponese” [Understanding
Cultures Throught Their Key Words], edito dalla Oxford University, esamina come alcune parole universali
amicizia, libertà, verità, giustizia, potere, patria ecc., assumano significati assai diversi nelle varie culture.
Vediamo la parola libertà.
Nella cultura latina libertas, denota lo stato giuridico, in altre parole, una persona non è schiava e le sue
decisioni dipendono da lei stessa e non da altri o dalle forze esterne, e infine, libertas significa anche avere il
controllo della propria vita.
Al termine inglese freedom, oltre al significato latino di libertà in senso positivo, si aggiunge il significato di
libertà in negativo, cioè non fare le cose che non desidero fare.
Il termine russo svoboda, oltre a significare libertà in positivo che in negativo, implica anche il concetto di
rilassamento, di benessere, di facilità, di essere a proprio agio. È potersi muovere in uno spazio infinito, di
“estendersi ovunque”, senza restrizioni né vincoli di qualsiasi tipo. Questa particolarità di significato nella
lingua russa, tra l’altro, richiama il famoso concetto dell’anima russa, della russianità, spesso citato nei
lavori dell’ importante filosofo Nicolaj Berdiaev: “ …gli spazi infiniti russi si trovano all’interno dell’anima
russa e hanno su questa un potere enorme”. E poi: ”L’uomo russo è vasto, vasto come la terra russa, come i
campi russi”. E ancora: “Il russo non conosce la strettezza dell’europeo, il quale concentra la sua energia
nello spazio limitato della sua anima, il russo non sa che cos’è la parsimonia, l’economia del tempo e dello
spazio, l’intensità della cultura. Il potere della vastità sull’anima russa fa nascere una serie di qualità e difetti
tipicamente russi. La pigrizia russa, la spensieratezza, la mancanza di iniziativa, lo scarso senso di
responsabilità sono collegati proprio a questo.” Infine, nella cultura polacca il temine wolność, oltre a
indicare la libertà personale, come nelle culture appena citate, significa indipendenza nazionale e libertà
politica. A sua volta anche il lessico emotivo è molto differente da una lingua all’altra e da una cultura
all’altra. Le parole tristezza in italiano e tristesse in francese rappresentano un sentimento più che
un’emozione vera e propria, la stessa cosa in russo per il termine grust’. In inglese, invece, sadness è
un’emozione a tutti gli effetti.
(Rispetto ai sentimenti le emozioni, infatti, sono meno durature e la loro attivazione dipende da un evento. I
sentimenti, invece, non sono dipendenti dagli eventi, per questo motivo possiamo soffrire di non poterci
rallegrare quando un evento è gioioso, o viceversa.) Un’altra ipotesi che conferma la teoria di lingue diverse
pensieri diversi è che la lingua coincide con il mondo dell’esperienza in quella data cultura. Cioè, i limiti del
linguaggio sono i limiti del mondo. Un esempio classico è rappresentato dal grande numero di termini che la
lingua eschimese possiede per descrivere la neve. E anche se si può affermare che non tutto il pensiero si
manifesti attraverso il linguaggio, che il pensiero sia qualcosa di assai più complesso di quanto il linguaggio
possa esprimere e che alcuni processi come percezione, rappresentazioni senso-motorie, immaginazione,
esperienze emotive costituiscano forme di pensiero che rimangono, almeno in parte, indipendenti dal
linguaggio, nonostante ciò, si può sostenere che i parlanti elaborino dei modi di pensare differenti fra loro
(L.Anolli, op.cit). Perciò diventa evidente che imparare una lingua straniera significa anche acquisire

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un nuovo punto di vista sulle cose, essere più ricchi di risorse e potenzialmente capaci di interpretare e
comprendere diverse situazioni ed eventi della vita.

3 Fattori che facilitano la comunicazione


Un fattore fondamentale è la motivazione a comunicare che può essere dovuto spesso al solo desiderio di
essere ascoltati da qualcuno. Se la motivazione è assente la comunicazione non ha neanche inizio e si blocca
sul nascere. Se la motivazione è scarsa, la comunicazione fa fatica ad andare avanti, creando tensioni o
incomprensioni fra gli interlocutori. Tuttavia, anche una motivazione eccessiva è disturbante in quanto chi
ascolta potrebbe non avere voglia in quel momento di comunicare o di trattare quel determinato argomento.
Se invece la motivazione iniziale è discreta, il desiderio di comunicare tende ad aumentare progressivamente
anche se ciò dipende molto dal tipo di relazione.
Un’altra condizione fondamentale per comunicare in modo efficace è l’autenticità, intesa come la reale
disponibilità verso gli altri. Essere autentici vuol dire anche saper esprimere pensieri ed emozioni con
semplicità e sincerità facendosi così conoscere dall’altro per quello che effettivamente si è, si pensa e si
prova.
Un altro fattore facilitante è la congruenza, ossia la coerenza tra ciò che si esprime a parole e ciò che si
manifesta al livello non verbale e paraverbale.
Anche ad essere attenti ai bisogni degli altri facilita la comunicazione poiché si tende a prendere
l’iniziativa e di solito a parlare per primi, ponendo così le basi per una possibile futura comunicazione.
Avere frequenti rapporti sociali è sicuramente un fattore positivo poiché consente di apprendere vari stili di
comunicazione, oltre che ad arricchire sul piano dell’esperienza e delle conoscenze.
Non avere pregiudizi nei confronti di chi parla è basilare perché possa esserci comunicazione, relazione e
comprensione.

3.1. La comunicazione efficace


L’ENTUSIASMO è l’autentica forza della comunicazione: “parliamo con la mente ma comunichiamo con il
cuore”. Una comunicazione efficace, davvero interattiva e produttiva è una comunicazione che genera un
rapporto e con questo una possibilità di cambiamento, una nuova prospettiva, una nuova apertura che può
diventare spesso un miglioramento.
Entrare in comunicazione ed in relazione con il nostro interlocutore vuol dire cercare di far combaciare la
mappa del nostro mondo con quella di chi ci sta di fronte, significa andare al passo con i suoi ragionamenti.
Ascolto attivo significa giungere alla conoscenza del nostro interlocutore, calibrarci su di lui. E’ chiaro che
una qualsiasi conoscenza dell’altro presuppone una preventiva conoscenza di noi stessi. Ma la conoscenza
dell’altro non avviene soltanto tramite l’osservazione o l’ascolto passivo che possiamo attuare. Perché,
affinché la comunicazione produca una reale e profonda conoscenza del nostro interlocutore, è essenziale
entrare in un rapporto di empatia con lui.
Il DIALOGO presuppone:
1) Parità morale dei 2 interlocutori, quindi, reciproco rispetto.
2) Tutti possono imparare e tutti possono insegnare qualcosa; in altri termini, non ci sono ruoli
unidirezionali.
3) La disponibilità ad imparare attraverso la ricerca comune .
4) La reciprocità: ognuno può porre domande, fare osservazioni ed ascoltare le risposte.
La comunicazione efficace deve combattere alcune BARRIERE
OSTACOLI ALLA BUONA COMUNICAZIONE
Interrompere. Sovrapporsi.
MESSAGGI IMPLICITI (significati relazionali)
Sono io che comando.
OSTACOLI ALLA BUONA COMUNICAZIONE
Seguire il proprio pensiero. Parlare a fiume. Invadere lo spazio. Fare un monologo.
MESSAGGI IMPLICITI (significati relazionali)
Non mi interessa dialogare con te.
Le mie idee sono più importanti.
Non meriti attenzione.
OSTACOLI ALLA BUONA COMUNICAZIONE

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Contraddire.
ESEMPI PRATICI
No. Non è così!
MESSAGGI IMPLICITI (significati relazionali)
Ne so più di te. Ti sbagli!
OSTACOLI ALLA BUONA COMUNICAZIONE
Correggere.
ESEMPI PRATICI
Non hai capito. Ora ti spiego…
MESSAGGI IMPLICITI (significati relazionali)
Ne so più di te. Non sei capace.
OSTACOLI ALLA BUONA COMUNICAZIONE
Spiegare.
Interpretare.
ESEMPI PRATICI
Ora ti spiego.
Ti faccio capire.
Ti succede così perché…
MESSAGGI IMPLICITI (significati relazionali)
Sei stupido, incapace
OSTACOLI ALLA BUONA COMUNICAZIONE
Dare consigli (non chiesti).
ESEMPI PRATICI
Devi fare così.
MESSAGGI IMPLICITI (significati relazionali)
Predominio.
Chi riceve messaggi barriera come quelli sopra descritti riceve in ogni caso dei racket. I racket hanno lo
scopo di togliere energia, indebolire l’altro e rafforzare il sé e non sono certo tra i presupposti di un colloquio
che vuole essere una comunicazione efficace ed autentica. La conversazione dunque è tanto più produttiva
quanto più è fluida e bidirezionale. È tanto più costruttiva quanto più le persone si aprono tra loro e sono
pronte ad assumere temporaneamente il punto di vista e l’emozione dell’altro.
Presupposti per poter comunicare in maniera efficace
- Ascoltare in modo attento, empatico e interessato
- Osservare e valutare la comunicazione non verbale
- Comprendere le pause di silenzio e saperle gestire
- Accettare tutto ciò che l’interlocutore dice, anche quando contrasta con le nostre opinioni
- Essere realmente disponibili a comunicare
- Non imporsi in nessun modo
- Considerare l’interlocutore come persona degna di essere ascoltata

I fattori che sostengono una BUONA COMUNICAZIONE EFFICACE sono invece:


FACILITATORI DI BUONA COMUNICAZIONE O DIALOGO
Segnali di sintonizzazione.
Risonanza.
Matching (combaciare con la mappa del mondo dell’atro).
Pacing (andare al passo).
Calibrazione.
Attenzione ai feedback.
MESSAGGI IMPLICITI (significati relazionali)
Simpatia ed amicizia.
Fiducia e accettazione.
I tuoi bisogni e sentimenti sono importanti.
La nostra relazione è importante.
FACILITATORI DI BUONA COMUNICAZIONE O DIALOGO

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Segnali di invito.
MESSAGGI IMPLICITI (significati relazionali)
Disponibilità ed apertura.
Sono pronto ad ascoltarti.
FACILITATORI DI BUONA COMUNICAZIONE O DIALOGO
Segnali di ricezione del messaggio.
MESSAGGI IMPLICITI (significati relazionali)
Attenzione. Mi interessa quello che dici.
FACILITATORI DI BUONA COMUNICAZIONE O DIALOGO
Comprensione empatica.
MESSAGGI IMPLICITI (significati relazionali)
Accettazione incondizionata. I tuoi valori e sentimenti sono importanti
FACILITATORI DI BUONA COMUNICAZIONE O DIALOGO
Sottolineare gli aspetti positivi e i punti di accordo.
MESSAGGI IMPLICITI (significati relazionali)
Vicinanza e amicizia. Stima e valore.
FACILITATORI DI BUONA COMUNICAZIONE O DIALOGO
Messaggi di genuinità e trasparenza.
MESSAGGI IMPLICITI (significati relazionali)
Autocoinvolgimento.
Apertura all’altro.
Impegno nella relazione.
FACILITATORI DI BUONA COMUNICAZIONE O DIALOGO
Contributing: offrire nuove prospettive da una posizione di parità.
MESSAGGI IMPLICITI (significati relazionali)
Dedizione e cura.
Interesse all’altro.
In sintesi le RACCOMANDAZIONI per una COMUNICAZIONE EFFICACE
Nel rapporto con il tuo interlocutore:
1) NON PRE-GIUDICARE, NON GIUDICARE
2) NON PRE-CLASSIFICARE
3) NON AGGREDIRE VERBALMENTE, INTERROMPENDO O SOVRAPPONENDOTI
4) METTITI AL SUO PARI, IMMEDESIMATI, NON INTERPRETARE QUANDO VERBALIZZI
COME SE LUI NON PENSASSE ADEGUATAMENTE
5) ASCOLTA, ASCOLTA, ASCOLTA E POI ASCOLTA TOTALMENTE, SENZA FRAINTENDERE
IL DISCORSO
6) COGLI ED ESALTA I PUNTI POSITIVI DEL DISCORSO
7) SII TOLLERANTE ED APERTO AL CAMBIAMENTO E ALL’ACCETTAZIONE DELL’ALTRO
E DELLA SUA OPINIONE ESPRESSA VERBALMENTE
8) CONCEDI TEMPO ALL’INTERLOCUTORE IN MODO CHE POSSA PENSARE PRIMA DI
PARLARE
9) NON DARE NIENTE PER SCONTATO, INTERPETANDO IL DISCORSO DELL’ALTRO
TUTTO QUESTO È IMPEGNATIVO MA MOLTO APPAGANTE.

4 CASO
State facendo un lavoro di gruppo e ci tenete a fare bene. Uno dei partecipanti non è puntuale, non si
impegna e ciò crea difficoltà alle dinamiche interne. A causa di ciò Voi siete costretti a subire le lamentele
degli altri componenti. Dopo diverse settimane nelle quali avete cercato di stabilire un equilibrio decidete di
affrontare il vs. collega, e dopo avergli riferito quanto accaduto gli dite:
“Sono stufo di beccarmi reclami da parte dei colleghi per i tuoi ritardi, datti una mossa perché questa non è
serietà nel lavoro! Se continua così dovrò parlarne con i responsabili”.
Secondo voi avete parlato o comunicato?
Come impostereste una comunicazione più efficace ?

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“Mi dispiace doverti comunicare un disagio che avverto in gruppo. Sono però sicuro che tu possa
comprendermi. Ho notato che i tuoi ritardi stanno creando malumore. Forse hai delle difficoltà che fai fatica
a comunicarci. Mi piacerebbe potere condividere con te eventuali problemi; ma come responsabile devo
prendermi cura di tutto il gruppo. Ti chiederei quindi di essere più attento a rispettare l’orario e sono sicuro
che ci aiuterai ad andare insieme più d’accordo. Grazie per avermi ascoltato”

“COMUNICAZIONE NON VERBALE”

1 Introduzione
Sguardi, gesti, movimenti del corpo, smorfie e quant'altro fungono da indicatori di significato, consentendo
agli individui di comprendere sentimenti, pericoli, emozioni, informazioni. La comunicazione non verbale
accompagna di regola il linguaggio verbale (vuoi come sostegno, vuoi talvolta fornendo informazioni
contrastanti); più raramente essa si presenta come unica forma comunicativa. Con un cenno del capo si può
dare o negare approvazione; con un movimento della mano si comunica l'"arrivederci"; se si strizza l'occhio
ci si dichiara di essere d'accordo; con l'inchino si riconosce l'autorità altrui e così via. Nell'analisi del
linguaggio non verbale ci si è spesso chiesti se esso sia uguale per tutti gli esseri umani. Secondo gli studi di
Irenaus Eibl-Eibesfeldt, in tutti gli esseri umani si riscontrano non solo espressioni fondamentali quali il riso
e il pianto, ma anche numerosi altri segnali non verbali costanti. Così l'ira viene generalmente manifestata
attraverso l'apertura degli angoli della bocca, l'aggrottamento degli occhi, i pugni serrati e i piedi che pestano
il terreno e, a volte, colpiscono oggetti. L'universalità di tali comportamenti sarebbe innata oppure dovuta a
condizioni comuni nella prima infanzia, che hanno incanalato l'apprendimento secondo le stesse modalità.
Diversi autori riconoscono l’esistenza di gesti che si possono riscontrare in tutte le razze e le popolazioni,
come, per esempio, il muovere le mani verso il naso o il toccarsi i capelli in momenti di perplessità e di
imbarazzo. Se tuttavia consideriamo i condizionamenti sia psicologici sia culturali che intervengono nella
comunicazione non verbale, possiamo comprendere che la facoltà di esprimersi non verbalmente è sì
universale, ma la sua funzione e il suo significato variano a livello individuale, culturale e linguistico. Se
infatti alcuni aspetti della comunicazione non verbale sono comuni a tutte le culture (tutti i membri della
specie umana usano a scopo comunicativo il volto, gli arti, la postura, la voce), non tutti gli esseri umani
ricorrono agli stessi segnali con la medesima frequenza e con la medesima ricchezza espressiva. I segnali
non verbali veicolano gli stessi messaggi in tutte le culture (le emozioni, gli atteggiamenti interpersonali, le
informazioni su di sé), sia pure in modo diverso. Secondo l'ipotesi di Paul Ekman, le espressioni universali
tipiche delle emozioni fondamentali, che dipendono dall'attivazione di determinati muscoli facciali, sono
soggette all'influenza dell'ambiente culturale che controlla le circostanze che le suscitano, le regole per
manifestarle e le conseguenze che ne derivano. Nelle società occidentali si presta, per esempio, maggiore
attenzione ai movimenti della testa e delle mani che a quelli delle gambe.
Nel primo paragrafo viene data una definizione generale di comunicazione non verbale sottolineando il peso
e il ruolo che questa assume nelle interazioni e viene descritto il rapporto tra le due forme di comunicazione,
verbale e non verbale, attraverso la descrizione di studi sull’ argomento.
Nel secondo paragrafo viene descritto il rapporto tra comunicazione e comportamento, facendo riferimento
a diverse teorie che si sono susseguite nel tempo.
Nel terzo paragrafo viene affrontato il tema degli aspetti innati e appresi della comunicazione non verbale,
distinguendo quelli universali che hanno una forte connotazione innata da quelli che si differenziano a
seconda della cultura in cui si manifestano.
Nel quarto paragrafo vengono descritte le principali funzioni del comportamento non verbale e i diversi
livelli rispetto ai quali si è focalizzato lo studio di questa modalità di comunicazione.
Nel quinto, sesto e settimo paragrafo sono state approfondite le contraddizioni tra le parole e il linguaggio
del corpo, l’ importanza della comunicazione non verbale come rivelatrice di pensieri e stati d’animo, e le
differenze di genere.
Nei paragrafi otto, nove, dieci e undici, vengono descritti alcuni dei gesti che hanno maggiore capacità
comunicativa e che sono stati a lungo oggetto di studi e osservazione.

2 Comunicazione non verbale

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La comunicazione non verbale è quella parte della comunicazione che comprende tutti gli aspetti di un’
interazione che non riguardano il livello puramente semantico del messaggio, quindi il significato delle
parole, ma che fanno riferimento al linguaggio del corpo, a quella parte della comunicazione non parlata tra
le persone. I messaggi verbali costituiscono solo una parte limitata della comunicazione interpersonale. I
messaggi inviati per mezzo di parole e di frasi sono accompagnati abitualmente da un ampio gruppo di
segnali non verbali, i quali sostengono, modificano o persino sostituiscono completamente il messaggio
verbale. Alcuni incontri sociali particolarmente complessi possono essere realizzati completamente tramite
tali messaggi non verbali. In situazioni nelle quali la comunicazione verbale esplicita è per qualche ragione
difficile o impossibile (presenza di forti rumori di fondo, distanza), essa può essere sostituita da uno scambio
complesso di segnali non verbali composti da sguardi, sorrisi, gesti, cambiamenti posturali, e così via. In una
soddisfacente interazione sociale la capacità di inviare e ricevere efficacemente tali messaggi risulta cruciale.
Alcuni autori considerano questa abilità come una competenza che viene appresa come tutte le altre (Argyle,
1969). ). Gli scienziati sociali hanno dedicato molto tempo ad osservare gli effetti del nostro linguaggio
corporeo, o il linguaggio corporeo di altre persone, sui giudizi. Le persone costantemente formulano giudizi
affrettati e fanno deduzioni a partire dalle informazioni che ricevono dal linguaggio del corpo. In uno studio
condotto dallo psicologo sociale Albert Mehrabian nel 1971, confrontando l’efficacia dei messaggi verbali e
non verbali nelle quotidiane relazioni interpersonali è stato elaborato un modello del processo comunicativo
che rimane valido ancora oggi e che è considerato una sorta di riferimento universale per comprendere il
modo in cui deduciamo il significato dei messaggi altrui. Lo studio evidenziava l’esistenza di tre elementi
che sono alla base di qualunque atto comunicativo: il linguaggio del corpo, la voce e le parole. Da questo
studio è emerso che il 55% del significato di qualsiasi messaggio viene dedotto dal linguaggio visivo del
corpo (gesti, posture, mimica facciale); il 38% viene dedotto da elementi vocali del parlato (tono, volume e
ritmo della voce); mentre il 7% dalle parole (Mehrabian, 1971).
L’antropologo Ray Birdwhistell, ha valutato la comunicazione non verbale tra esseri umani stimando che la
persona media pronuncia parole in totale per 10- 11 minuti al giorno e che una frase media richiede circa 2,5
secondi per essere detta. Ha inoltre stimato che l’uomo è in grado di fare e di riconoscere
approssimativamente 250.000 espressioni facciali. Analogamente a Mehrabian, Birdwhistell ha rilevato che
la componente verbale della comunicazione è inferiore al 35% e che più del 65% è di natura non verbale. Da
alcune analisi di trattativa di vendita e di negoziazione effettuate negli anni settanta e Ottanta è emerso che il
linguaggio corporeo contribuisce per il 60-80% all’ impatto dell’ incontro e che le persone si formano un
opinione iniziale dell’interlocutore (nella misura del 60-80%) in meno di quattro minuti (A. Pease, 2008).
Nalini Ambady, un ricercatore della Tufts University, mostra che quando le persone guardano un video senza
audio di 30 secondi di reali interazioni tra paziente e medico, il loro giudizio sulla gentilezza del medico
predice se il medico verrà citato in giudizio o meno. Risulta evidente come il giudizio che questi si creano
non dipende dalla reale competenza o incompetenza del medico ma da quanto quella persona ci piace e da
come interagisce. (N. Ambady, 2006). Alex Todorov dell' Università di Princeton mostra come i giudizi sui
visi dei candidati politici mostrati per un solo un secondo predicano il 70% dei risultati elettorali. La
comunicazione interpersonale rappresenta da decenni un tema di grande interesse per le scienze umane e
sociali. In psicologia sociale, l’affermarsi di un ottica che riconosce l’interdipendenza dinamica e processuale
tra individuo e ambiente e considera i modi dell’essere sociale come costitutivi del divenire individuale, ha
favorito una concezione della comunicazione come processo sociale (Emiliani e Zani, 1998). L’ analisi della
comunicazione non è indirizzata ai soli atti comunicativi, ma all’interazione e alla relazione che si instaura
tra gli interlocutori. Le due principali forme di comunicazione, verbale e non verbale, costituiscono aspetti
complementari di uno stesso processo, in una prospettiva unitaria della comunicazione in cui i diversi aspetti
dal repertorio comunicativo, sia verbali che non verbali, sono considerati interdipendenti (Ricci Bitti e
Caterina, 1994). La definizione di comportamento non verbale sembra implicare una separazione rispetto al
sistema linguistico, tuttavia si è ampiamente diffusa la prospettiva che vede questi due sistemi comunicativi
come due aspetti complementari di uno stesso processo. L’attività conversazionale, infatti, si svolge
attraverso uno scambio che colloca i partecipanti in uno spazio in cui i corpi si muovono, interagiscono e
producono gestualità in modo non casuale ma in base a significati specifici (O’ Neill, 1989).

3 Rapporto tra comunicazione e comportamento


Al centro dell’ analisi del rapporto tra comunicazione e comportamento è il concetto di intenzionalità, la
distinzione tra segno e simbolo e tra comportamento espressivo e simbolico (Anolli, Ciceri, 1992). Il segno

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è un segnale che ha una relazione intrinseca con ciò che significa e in genere non richiede l’attivazione di un
processo intenzionale. Il segno non ha un carattere specificamente comunicativo e può essere l’espressione
di una risposta comportamentale fisiologica, o una caratteristica dello stile personale. Il simbolo, invece, è
un segnale che sta per qualcos’altro, il cui uso richiede un atto intenzionale, essendo il risultato di una
convenzione sociale (Eco, 1975). La psicologia ha prodotto diverse prospettive teoriche rispetto alla
distinzione tra comportamento espressivo e simbolico che spesso sono opposte tra loro. Gli studiosi della
scuola di Palo Alto, Watzlawick, Beavin e Jackson (1967), affermano che qualsiasi comportamento agito in
presenza di un'altra persona, indipendentemente dal grado di intenzionalità che comporta, diviene
comunicazione, sostenendo che all’interno di un interazione non sia possibile non comunicare (Ricci Bitti e
Caternina, 1994). Altri autori, tra cui Fraser, considerano la comunicazione come qualcosa che implica
sempre “un codice socialmente condiviso e un azione intenzionale di chi codifica e decodifica”, affermando
la necessità di distinguere tra comportamento e comunicazione (Ricci Bitti e Caterina, 1994). A queste
prospettive se ne aggiungono altre considerate intermedie rispetto alle posizioni precedenti. Ekman, Friesen
e Von Cronach nel 1969, infatti, hanno proposto una divisione del comportamento non verbale in
informativo, comunicativo e interattivo. Il comportamento non verbale informativo, comprende gesti che
hanno un significato condiviso e generano interpretazioni simili tra gli osservatori (Emiliani e Zani, 1998). Il
comportamento non verbale comunicativo, raggruppa gesti che consentono, in maniera consapevole, di
inviare specifici segnali al ricevente. Il comportamento non verbale interattivo, invece, include i gesti
utilizzati per influenzare il comportamento interattivo degli altri. Secondo i modelli intermedi il linguaggio
del corpo non rappresenta ne una modalità solo espressiva, né una modalità solo comunicativa, ma presenta
diversi livelli che vanno dai comportamenti espressivi a quelli comunicativi (Ricci Bitti e Caterina, 1994).
“L’intenzione di comunicare e l’esistenza di un codice socialmente condiviso sono elementi presenti solo in
una particolare classe di comportamenti non verbali: i gesti simbolici o emblemi, che possono sostituire in
tutto e per tutto le parole del linguaggio e che possono essere utilizzati quando la comunicazione verbale è
ostacolata” (Ricci Bitti e Caterina, 1994).

4 Ontogenesi del comportamento: aspetti innati e appresi


Per lungo tempo il tema dell’ origine della comunicazione non verbale è stato al centro di controversie tra
studiosi innatisti che ne ipotizzavano l’origine genetica e studiosi ambientalisti che enfatizzavano
l’importanza dell’ apprendimento e di fattori culturali. Tali controversie hanno portato poi all’elaborazione di
un modello che considera l’origine del linguaggio del corpo come né innata né esclusivamente appresa, ma
assume forme differenti in rapporto ai diversi segnali del repertorio comunicativo. All’interno del processo
comunicativo, infatti, si possono rintracciare sia aspetti universali con una forte componente innata sia
elementi che scaturiscono dall’ apprendimento sociale del soggetto. Tra i vari costrutti comunicativi a
valenza biologica ce ne sono alcuni che possono essere rintracciati sia negli uomini che nelle scimmie
antropomorfe, come i segnali di saluto. Questi hanno una struttura universale composta da tre fasi principale
in cui la fase mediana comporta un contatto corporeo. Tuttavia le variazioni tra le culture riguardo al modo in
cui eseguire i saluti sono considerevoli e possono essere senza dubbio messe in relazione alla storia delle
diverse culture ed agli aspetti della società (Argyle, 1978).
Segnali come l’ espressione facciale delle emozioni hanno una forte connotazione biologica e innata e
presentano similitudini con i segnali utilizzati dai primati non umani.
Fig 1
Fig 2: gesto che indica perplessità
I segnali non verbali con spiccata valenza innata si osservano anche in culture differenti e nei bambini nati
sordi e ciechi (Eibl-Eibesfeldt, 1976).
Fig 3: gesto che indica forza e vittoria
Fig 4: gesto che indica chiusura
Il carattere universale e innato della comunicazione corporea è dimostrato anche dalla corrispondenza
neurofisiologica tra emozioni e muscoli facciali (Ekman, 1982). La cultura di appartenenza stabilisce le
circostanze e gli eventi che provocano determinate emozioni e governa l’espressione e le reazioni che esse
possono suscitare. Le emozioni fondamentali sono innate e si manifestano sin dalla nascita, mentre quelle
intenzionali o complesse sono maggiormente influenzate dall’ apprendimento e dalla cultura di appartenenza
(Ekman, 1982). La coesistenza di modalità comunicative arcaiche e di altre più raffinate può essere
rintracciata anche nell’evoluzione delle strutture cerebrali della nostra specie. Diversi studi neurofisiologici

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mostrano, infatti, la presenza di diversi centri cerebrali alla base delle espressioni delle emozioni (Ricci Bitti,
1998; Caterina, 1998).

5 Funzione della comunicazione non verbale


I comportamenti non verbali assumono ruoli molto diversi a seconda delle situazioni e dei contesti interattivi
in cui si manifestano. Questo rende molto difficile descriverne la funzione (Ricci Bitti, 1998). In alcune
circostanze assume un ruolo predominante la comunicazione corporea su quella verbale, mentre in altre
svolge una funzione di sostegno e di integrazione. Una delle principali funzioni è legata all’espressione delle
emozioni attraverso il comportamento esteriore. I segnali emessi dal corpo manifestano gli stati emotivi
degli individuo, molto spesso in modo più chiaro che con le parole. Molte ricerche dimostrano che i segnali
non verbali sono molto più efficaci delle parole nel comunicare le emozioni (Mehrabian, 1972). Ciò che
viene espresso con le parole può spesso essere contraddetto con l’espressione corporea delle emozioni,
rendendo il corpo più efficace nell’ efficacia comunicativa. Il soggetto pone maggiore attenzione alla
componente non verbale soprattutto quando c’è incongruenza tra i due canali comunicativi. Probabilmente in
caso di incongruità tra i diversi canali del repertorio comunicativo, il linguaggio del corpo riesce a sovrastare
la dimensione linguistica, grazie alla sua maggiore visibilità e alle scarse possibilità di essere dissimulata.
Tuttavia ci sono delle circostanze sociali che impongono un inibizione e un controllo delle espressioni
emozionali attraverso l’utilizzo di “regole di ostentazione” (Ekman, Friesen, 1969). La funzione espressiva
della comunicazione non verbale è duplice, riguardando da un lato la comunicazione degli atteggiamenti
interpersonali, dall’ altro aspetti della propria presentazione personale. I segnali non verbali che comunicano
atteggiamenti interpersonali possono essere intenzionalmente controllati per nascondere o simulare i reali
sentimenti che si nutrono verso gli altri (Ekman e Friesen, 1968; Watzlawick, Jackson e Beavin, 1967).
Rispetto alla maggiore efficacia comunicativa dei segnali non verbali relativamente al linguaggio, è stato
osservato che questi influenzano 5 volte di più il giudizio di superiorità/inferiorità e di amicizia/ostilità che i
soggetti mostrano nei confronti degli altri (Argyle, Salter, Nichloson, Williams e Buergess, 1970; Argyle, et
al., 1972). Anche in questo caso il linguaggio non verbale risulta più credibile a causa della sua natura
spontanea e poco falsificabile. Un ulteriore funzione è quella di coordinare le sequenze interattive
(linguaggio paraverbale), attraverso elementi non verbali di tipo vocale (intonazione, pause,
vocalizzazioni), lo sguardo, i gesti, che permettono agli interlocutori di ottenere importanti informazioni
sull’interazione in corso e sulle sequenze da rispettare. Anche gli aspetti cinesici come il movimento delle
mani sono rilevanti nella regolazione delle sequenze interattive. I cambiamenti del corpo seguono quelli del
flusso discorsivo, inoltre, è stata osservata una coordinazione reciproca nei movimenti degli individui
definita sincronia dell’ interazione (Condon e Ogston, 1966). Di conseguenza è possibile per l’individuo
regolare il proprio comportamento continuando nell’ interazione iniziata o modificandola, al fine di
raggiungere lo scopo che si era prefissato nel modo più efficace (Ricci Bitti e Caterina, 1994). Un ulteriore
funzione è quella di feedback attraverso cui l’emittente può monitorare la ricezione e interpretazione del
messaggio. Il linguaggio del corpo è stato studiato a diversi livelli: intrapersonale, interpersonale,
situazionale, posizionale e ideologico.
Il livello intrapersonale concentra l’attenzione sulla dimensione individuale del comportamento non verbale
e sui processi interni alla persona, focalizzandosi sul legame tra i sistemi di rappresentazione mentale e
aspetti non verbali della comunicazione. Attraverso questo livello di analisi è possibile inferire, da alcuni
segnali del corpo, le rappresentazioni mentali attive in un determinato momento in una persona. Il livello
situazionale analizza le dinamiche delle relazioni che si stabiliscono in un dato momento da determinati
individui in una situazione (Doise, 1989). Studi in questo settore hanno, ad esempio, dimostrato che un
aumento della frequenza di sguardi da parte del soggetto verso l’interlocutore è associato ad un sentimento di
dipendenza verso quest’ ultimo (Efran, 1968). Il livello posizionale esamina la regolazione dei processi
comunicativi non verbali in rapporto a variabili quali lo status e il ruolo, prendendo in esame le differenze di
posizione sociale preesistenti all’ interazione non verbale. Studi in quest’ ambito hanno evidenziato che nelle
interazioni di gruppo la persona che ha uno status più elevato riceve più sguardi dagli altri ed è preferita dai
partecipanti (Speltini e Palmonari, 1999). Alcune ricerche affermano che nei piccoli gruppi è possibile
individuare la persona che occupa il posto più elevato attraverso la sola analisi del comportamento non
verbale (Harper, 1985). Nell’interazione di gruppo, è stato osservato che la persona che detiene più potere
sociale ha una postura eretta, mantiene il contatto visivo con gli altri, parla con voce ferma e senza esitazioni.
Inoltre, colui che domina socialmente l’altro controlla l’interazione stessa anche guardando di più il

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dominato di quanto quest’ultimo riesca a fare nei suoi confronti (Argyle, 1970). Un esempio di questo
comportamento molto frequente nell’ attualita è la tendenza a distogliere lo sguardo in presenza di un
superiore in ambito lavorativo. Il livello ideologico spiega come le rappresentazioni e le credenze
ideologiche possano portare i soggetti a sviluppare determinati pattern di comportamento non verbale.
L’utilizzo dei vari canali comunicativi è regolato da norme culturali che ne modulano l’utilizzo. Ad esempio
è stato osservato che gli arabi tendono stare molto più vicini rispetto agli Europei e agli Americani, e a
rivolgere agli altri molti più sguardi. Sempre rispetto al comportamento visivo i Greci tendono a guardare di
più degli Inglesi e degli americani. I Giapponesi invece presentano una particolarità legata agli oggetti che
guardano. Essi infatti più che guardare gli occhi dell’altro, tendono a guardargli il collo (Argyle, 1970). Fin
dall’ antichità lo sguardo ha assunto precise connotazioni culturali. Già dai Romani veniva attribuita grande
importanza e potere allo sguardo, a tal punto da generare la cosiddetta tradizione popolare del “malocchio”.

6 Contraddizioni tra parole e linguaggio del corpo


In tutto il mondo il linguaggio corporeo dei politici è oggetto di grande interesse, essendo persone che
passano gran parte del proprio tempo a eludere, evitare, fingere, mentire e nascondere i propri sentimenti, a
usare paraventi e salutare amici inesistenti nella folla, ma spesso il linguaggio del corpo tradisce svelando le
loro reali intenzioni. Spesso però le persone sono poco attente agli aspetti non verbali. Alcuni studiosi hanno
condotto un interessante studio in collaborazione con un ufficio turistico. I turisti entravano nell’ufficio per
chiedere informazioni sulle attrazioni e sulle escursioni organizzate nella zona e venivano indirizzati e
venivano indirizzati ad un banco dove parlavano con un uomo con i capelli biondi, i baffi, la camicia bianca
e una cravatta. Dopo alcuni minuti l’impiegato si chinava sotto il banco per prendere vari opuscoli, ma al suo
posto ricompariva un altro impiegato moro, senza baffi, con una camicia azzurra, che consegnava il
materiale e riprendeva la conversazione da dove era stata interrotta. Sorprendentemente la metà circa delle
persone non notava il cambiamento: in particolare la percentuale di uomini che non ha rilevato variazioni è
risultata il doppio delle donne (A. Pease, 2008).

7 Il linguaggio del corpo rivela stati d’animo e pensieri


Il linguaggio del corpo è il riflesso dello stato emozionale di un soggetto. Ogni gesto o movimento può
essere un indizio importante per capire cosa stia provando e quali siano le intenzioni di una persona in un
determinato momento. Osservando il linguaggio del corpo di alcuni individui è possibile cogliere indizi delle
sue intenzioni o delle proprie emozioni. Ad esempio, osservando i gesti di alcuni personaggi pubblici è stata
rilevata una incongruenza tra il contenuto verbale di ciò che dicevano e i gesti utilizzati. Il presidente
francese Jacques Chirac, l’ex presidente Regan e il primo ministro australiano Bob Hawke mostravano la
tendenza ad utilizzare le mani per indicare l’entità dei problemi di cui discutevano: in un occasione pubblica
Hawke difese l’aumento dello stipendio dei politici confrontandolo con quello dei manager, sostenendo che
gli emolumenti di questi ultimi erano aumentati in misura considerevole, mentre l’incremento proposto per i
politici era relativamente più contenuto. Però ogniqualvolta citava il reddito dei politici, teneva le mani
divaricate alla distanza di circa un metro, mentre quando parlava di quello dei dirigenti, le teneva ad una
distanza di circa 30 centimetri (A. Pease, 2008). Ciò mostra una incoerenza tra il contenuto verbale e
l’espressione gestuale che potrebbe suggerire che in realtà giudicava il trattamento economico dei politici
migliore di quanto fosse disposto ad ammettere.

8 DIFFERENZE DI GENERE
Numerosi psicologi hanno condotto diverse ricerche in cui è stata riscontrata una maggiore abilità delle
donne nel riconoscere e valutare i segnali del linguaggio corporeo. In uno di questi studi, ad esempio, sono
stati mostrati ad un gruppo di persone dei brevi filmati privi di sonoro, in cui un uomo e una donna
comunicavano tra loro. Ai partecipanti è stato poi chiesto di ricostruire l’argomento del dialogo utilizzando
come informazioni le espressioni della coppia, ed è emerso che l’87% delle donne ha interpretato in maniera
corretta la scena, mentre gli uomini sono nel 42% dei casi (A.Pease, 2008). Questa differenza di genere è
stata supportata da studi che utilizzano le scansioni cerebrali, in cui, attraverso l’utilizzo della risonanza
magnetica, è stato osservato che il cervello delle donne vi sono dalle 14 alle 16 aree cerebrali preposte a tali
funzioni rispetto alle 4-6 dell’uomo. Tale differenza è stata spiegata anche in riferimento alla necessità da
parte delle donne di sviluppare la capacità di interpretare i segnali non verbali, dovendosi affidare quasi

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esclusivamente a questi nell’ accadimento del bambino nei suoi primi anni di vita per comunicare. Proprio
questo “addestramento” potrebbe essere alla base di questa maggiore capacità.

9 Espressione del volto


Il volto rappresenta l’area del corpo più significativa da un punto di vista comunicativo ed espressivo e il
segnale non verbale su cui si può esercitare un maggiore controllo. Si può ipotizzare che le espressioni
facciali e i muscoli mimici corrispondenti, si siano evoluti per l’elevato valore adattivo che essi assumono
nella vita di gruppo dei mammiferi. L’espressione delle emozioni attraverso il volto costituisce un importante
fattore di regolazione della vita degli individui all’ interno del gruppo sociale. “L’espressione e il
riconoscimento di determinati stati emotivi rendono possibile una maggiore capacità comunicativa tra
individuo e gruppo assicurando così una maggiore probabilità di sopravvivenza ad entrambi” (Caterina,
1998). Il comportamento mimico del volto partecipa, in stretto rapporto con il linguaggio, all’interazione
sociale. Infatti, da una parte il locutore accompagna il discorso con espressioni facciali che enfatizzano o
modificano il messaggio verbale, dall’ altra chi ascolta segnala ciò che sente (interesse/disinteresse; accordo/
disaccordo), attraverso cenni del capo, movimenti delle sopracciglia, delle labbra, della fronte, fornendo, in
questo modo, un commento continuo al discorso e alla produzione verbale (Argyle, 1974). I segnali facciali
connessi al discorso, sono usati per completare i significati delle espressioni verbali e per ottenere
informazioni di ritorno (feedback), partecipando, inoltre, alla regolazione delle sequenze interattive, alla
alternanza dei turni e alla sincronia discorsiva. Oltre alle espressioni facciali connesse alla situazione
comunicativa, ne esistono altre che sono più permanenti e stabili, radicate nel volto delle persone
indipendentemente dall’interazione in corso. In questo caso si parla di “mimica acquisita”, per fare
riferimento ai cosiddetti “solchi di malumore o alle rughe di tristezza” che generalmente si ritrovano in
persone inconsapevoli di provare determinati stati d’animo (Cozzolino, 2003). Esistono espressioni facciali
tipiche di una persona, che sviluppate come frutto di atteggiamenti e sentimenti vissuti, si sono poi strutturate
come modelli espressivi stabili. Un’ espressione facciale persistente può indicare lo stato d’animo in cui si
trova la persona il più delle volte.
Da un punto di vista delle espressioni manifestate, il volto può essere suddiviso in tre aree distinte:
superiore, mediana e inferiore. L’area superiore include la fronte con le sopracciglia e le varie possibilità
mimiche che realizzate dalle sue pieghe, che possono essere orizzontali e verticali. Le pieghe orizzontali
indicano, il più delle volte, che la nostra attenzione è fortemente attratta da qualcosa, e scaturiscono
generalmente in corrispondenza di una serie di stati mentali: spavento, ansia, difficoltà di comprensione,
stupore, meraviglia, sorpresa. Le pieghe verticali segnalano che l’attenzione è interamente è interamente
concentrata sul discorso in atto o su qualcuno, fornendo molteplici informazioni sul soggetto che le
manifesta: collera, irritazione, malumore, preoccupazione, elevata concentrazione in attività mentali difficili
o faticose (Cozzolino, 2003). L’area mediana del volto comprende la regione degli occhi e racchiude le
diverse espressioni che lo sguardo può assumere. L’area inferiore comprende il mento e la bocca. L’area del
mento è in relazione con la capacità di affermazione-dominio. Quando la persona cerca di farsi valere tende
a spingere il mento in avanti, mentre in uno stato di benessere tende a ritrarre il mento all’indietro. La bocca
è una delle aree che ha una maggiore funzione espressiva e comunicativa e presenta alcune configurazioni
specifiche che generalmente indicano determinati stati mentali. La bocca aperta, parzialmente o
completamente, generalmente si presenta in occasione di un acuto desiderio di conoscere, di capire, di
comunicare o in una situazione in cui la persona sperimenta stupore e sorpresa. Al contrario le labbra si
chiudono, si rimpiccioliscono, e sono risucchiate all’interno quando la persona sperimenta ostilità, collera o
indisponibilità alla percezione (Cozzolino, 2003). Diversi studi sono stati effettuati sulla funzione del sorriso,
considerato essenziale per definire la nostra disponibilità nei confronti dell’ altro e il nostro desiderio di
conciliazione, essendo particolarmente efficace nell’annullare la minaccia competitiva. Nei diversi studi sulle
emozioni sono state individuate delle specifiche espressioni e microespressioni che segnalano determinati
stati emotivi. In particolare per le emozioni fondamentali o di base, paura, rabbia, tristezza, felicità, disgusto,
sorpresa, sono state individuate delle specifiche espressioni con cui si manifestano, in modo chiaro e
universale.
Fig 5: emozioni fondamentali (sorpresa, paura, collera, disgusto, tristezza, felicità)
Mentre le emozioni sociali complesse, come la vergogna, la colpa e l’orgoglio risultano dall’ articolazione
anche di altri indicatori corporei (Ekman, Friesen, 1969). A partire dagli studi di Darwin ripresi poi da
Ekman e Friesen è stata riconosciuta quindi l’universalità delle emozioni fondamentali e delle caratteristiche

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con cui queste si manifestano attraverso specifiche espressioni del volto. Questi programmi innati di
espressione delle emozioni vengono poi controllati dalle persone attraverso meccanismi che regolano e
modulano il modo in cui queste emozioni vengono esternalizzate. Questi meccanismi, appresi durante il
processo di socializzazione, sono chiamati display rules o regole di esibizione, che dipendono dal contesto
sociale in cui il soggetto è inserito (Cozzolino, 2003). Queste regole di esibizione definiscono chi può
manifestare una determinata emozione, nei confronti di quale stimolo, e in quale situazione possono essere
espresse. Alcune società richiedono che l’espressione delle emozioni sia collocata esclusivamente in una
sfera privata ed esclusa dal contesto pubblico. I Giapponesi, ad esempio, di fronte ad emozioni negative
tendono a controllare la propria espressione facciale.

10 Movimenti delle mani


Uno dei segnali del corpo meno evidenti ma più efficaci da un punto di vista comunicativo è il palmo delle
mani per impartire ordini o direttive, nonché nella stretta di mano.
Fig 6 : gesto di rifiuto
I principali gesti di comando manifestati attraverso le mani sono: palmo verso l’alto, verso il basso e la mano
chiusa col dito puntato. Il palmo verso l’alto è un gesto non minaccioso, di sottomissione, che ricorda quello
di un mendicante e che, da un punto di vista evolutivo, suggerisce che il soggetto non possiede armi.
Generalmente le persone a cui viene fatta una richiesta attraverso un gesto del genere non si sentono costrette
o intimorite. Così come quando questo gesto viene utilizzato per dare la parola a qualcuno durante una
conversazione facendogli capire di essere disposti ad ascoltarlo. Al contrario il gesto del palmo rivolto verso
il basso da generalmente l’impressione di ricevere un ordine, generando spesso sentimenti competitivi.
Questo gesto è riconducibile, ad esempio, a quello utilizzato da Hitler nel saluto nazzista, simbolo di potere
e di tirannia durante il Terzo Reich.
Questo gesto si è rivelato essere uno dei più irritanti quando viene usato all’interno di una conversazione,
soprattutto quando viene usato per scandire le parole. A livello inconsapevole, tale gesto suscita sentimenti
negativi perché è il precursore del “braccio sollevato oltre la spalla”, gesto che gran parte dei primati usano
per aggredire. Anche attualmente, in alcuni paesi quali la Malesia e le Filippine additare le persone è
considerato un insulto, ed è un gesto che viene utilizzato solo con gli animali, mentre utilizzano il pollice per
designare le persone e dare indicazioni (A. Pease, 2005). In un esperimento è stato chiesto ad otto oratori di
utilizzare i tre gesti descritti in una serie di discorsi di una decina di minuti, di fronte ad un pubblico sempre
diverso, in modo da documentare l’atteggiamento dei partecipanti nei confronti di ciascuno. È stato
osservato che gli oratori che usavano per lo più il palmo verso l’alto ottenevano l’84% dei consensi dal
pubblico, percentuale che scendeva al 52% quando pronunciavano lo stesso discorso col palmo rivolto verso
il basso. Quando utilizzavano il gesto della mano chiusa con il dito puntato il consenso scendeva al 28%; in
quest’ultimo caso alcuni ascoltatori avevano addirittura abbandonato la sala (A. Pease, 2005). È stato inoltre
osservato che il gesto del dito puntato, oltre ad essere quello meno gradito, ha indotto anche il pubblico a
dimenticare più facilmente i temi discussi. Al contrario da diverse osservazioni è emerso che unendo indice
e pollice durante una conversazione (quasi come nel gesto ok) si favorisce negli ascoltatori l’impressione di
autorità ma non di aggressività. Si è osservato, infatti, che oratori, politici e uomini d’affari a cui veniva
chiesto di usare questo gesto, venivano definiti dal pubblico “seri”, “dotati di uno scopo” e “concentrati”;
quelli a cui veniva chiesto di puntare il dito venivano considerati “aggressivi”, “battaglieri” e “scortesi” e i
loro discorsi erano meno ricordati dal pubblico, che, nel caso del dito puntato, tendeva più a formulare un
giudizio sulla persona che ad ascoltare le parole.

11 Lo sguardo
Lo sguardo è un potente segnale non verbale che rappresenta uno dei più importanti codici comunicativi, di
cui gli occhi svolgono una funzione chiave. L’occhio anatomicamente comprende un ampia struttura di
terminazioni nervose ed è circondato da muscoli extraoculari che possono contrarsi migliaia di volte al
giorno in altrettanti modi diversi. Nel corso di una conversazione, in concomitanza delle sequenze degli
scambi, lo sguardo regola l’alternanza dei turni, segnala l’intenzione di prendere parola, comunica che si è
finito di parlare.
Alcuni spunti pratici:
1. Occhiata di traverso comunica interesse, incertezza o ostilità;

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2. Battito delle palpebre se fatto con frequenza comunica può denotare imbarazzo e menzogna, oppure può
rappresentare un tentativo di escludere qualcuno dalla propria visuale per noia, disinteresse, o senso di
superiorità;
3. Sguardi fulminei, quando gli occhi sguizzano da una parte all’altra, rappresentano il tentativo di una
persona di cercare vie di fuga e segnala insicurezza in ordine agli eventi in corso (Pease, 2005).

12 Distanza interpersonale e sistema prossemico


La prossemica è lo studio della percezione e dell’uso dello spazio (fisico, psicologico ed emotivo) da parte
degli uomini, ovvero l’insieme delle teorie che riguardano la vicinanza e la distanza, intese come una
specifica elaborazione della cultura. Un primo concetto è quello di territorialità, cioè l’area che viene difesa
e personalizzata dal soggetto, uno spazio individuale che indica un allargamento all’esterno del proprio corpo
fisico, detta anche “bolla d’aria”. Un secondo concetto chiave della prossemica è quello di distanza spaziale,
vicinanza-distanza interpersonale, un segnale significativo da un punto di vista sociale, poiché da
immediatamente conto del tipo di rapporto tra gli attori, delle relazioni di dominanza e dei ruoli sociali. Un
terzo aspetto è il posizionamento nello spazio sull’asse frontalità-affiancamento, aspetto che da solo può
indurre condizioni di competizione e cooperazione. L’antropologo E.T. Hall che nel 1963 ha introdotto tale
termine, lo definisce come “lo studio dei modi con cui l’uomo acquista conoscenza dei contenuti delle menti
degli altri uomini, attraverso giudizi su modelli di comportamento, associati a gradi di vicinanza ad essi” e
individua quattro differenti distanze tra le persone (E.T.Hall, 1969) La distanza intima, dal contatto fisico
fino a 45 cm, che si instaura quando c’è un rapporto di estrema confidenza come tra la mamma e il bambino,
persone innamorate o anche per comunicare affetto in particolari situazioni sociali come ad esempio il saluto
tra amici che non si vedono da tempo. Questa distanza consente di rimanere a stretto contatto con
l’interlocutore, potendone percepire il respiro, l’odore della pelle, il profumo ed anche vivere situazioni
emotive molto intense. La distanza personale, nelle due varianti di vicinanza (tra i 45 e i 75 cm) e
lontananza (tra i 75 ed i 120 cm), è quella più frequentemente utilizzata nella vita di relazione dell’uomo
quando abitualmente chiacchiera con gli altri, spiega un problema, discute un evento. Solitamente la
vicinanza, senza mai diventare intima, è direttamente proporzionale al grado di conoscenza e di confidenza
con l’altro ed è ancora tale da poterne consentire, allungando una mano, un contatto. Tipica e ricorrente nelle
situazioni di rapporto professionale è la distanza “sociale” (da m 1,20 a m 3,50) che non impone
necessariamente una relazione diretta con chi sta di fronte (F.Casolo, S.Melica, 2005). La distanza
“pubblica” è una variante della distanza sociale che porta lo spazio di relazione ad una distanza superiore ai
3,50 m, utilizzata prevalentemente per situazioni comunicative generalmente monodirezionali (lezione
universitaria, rappresentazioni teatrali, concerti, comizi).
Fig 9: distanza tra le persone
Quando in una situazione di comunicazione interpersonale si modificano le distanze tra gli interlocutori
cambiano anche i rapporti tra gli stessi e possono aver luogo fenomeni di invasione (nel caso in cui si
riducono), esclusione o minor interesse (come avviene quando una persona sta parlando ad un'altra
allontanandosi progressivamente). La prossemica, quindi, è connotativa di una situazione espressivo-
comunicativa indotta dallo spazio di relazione tra persone; la distanza diventa comunicazione significativa di
quanto le persone in modo più o meno consapevole intendono esprimere.

“LA PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE UMANA”

1 Introduzione
“Per capire se stesso l’uomo ha bisogno di essere capito dall’altro; per essere capito dall’altro ha bisogno
di capire l’altro”
(Paul Watzlawick)
La comunicazione è il fondamento di tutti i rapporti umani e pur facendone un uso quotidiano, non sempre
siamo consapevoli delle logiche sottese, dei processi che innesca e delle incredibili potenzialità. E’
importante che le persone che devono comunicare per professione, si pongano il problema di farlo in
maniera efficace.
La comunicazione ha molteplici funzioni.

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La funzione emotiva o espressiva relativa all’esprimere i sentimenti e i pensieri; la funzione informativa, di
trasmissione di dati ed informazioni; la funzione di “contatto” che si utilizza per entrare in contatto, per
mantenerlo o interromperlo (pensiamo ai saluti, alle esclamazioni, ad esempio). Consideriamo infine la
funzione poetica, cioè centrata sulla bellezza e complessità della propria costruzione, metalinguistica, cioè la
capacità della lingua di descriversi, di parlare di sé spiegandosi, come quando descrive le proprie regole
grammaticali e quella persuasiva usata per convincere gli altri, come in pubblicità e nei discorsi politici.
La comunicazione è, innanzitutto, un’attività sociale che avviene all’interno di un gruppo o tra due persone,
in altri casi si parla di monologo interiore. La comunicazione è partecipazione, in quanto presuppone
l’accordo su significati condivisi e negoziati all’interno di un gruppo o comunità: pertanto ha una matrice
culturale e una natura convenzionale. Possiamo poi asserire che è un’attività cognitiva, perché c’è una stretta
interdipendenza tra il pensiero e la comunicazione stessa. La comunicazione, infine, è connessa all’azione,
poiché chi comunica ha uno scopo e agisce per arrivare al proprio obiettivo. Si possono individuare ed
apprezzare tutte queste sfumature della comunicazione, ma è nella relazione vis à vis in cui maggiormente si
realizzano tutte le potenzialità e la ricchezza comunicativa: in questa occasione avviene un passaggio di
informazione (da-a) ma, soprattutto, avviene un’inferenza tra coloro che comunicano, poiché vengono offerti
e contemporaneamente accolti gli indizi riguardanti ciò che non è esclusivamente informazione.
Alcune delle più interessanti riflessioni sulla comunicazione umana risalgono agli anni 70 del secolo scorso,
dovute alle ricerche dell’antropologo e psichiatra Gregory Bateson e a Paul Watzlawick, Don Jackson e Jay
Haley del gruppo del Mental Research Institute di Palo Alto in California (conosciuta in seguito come Scuola
di Palo Alto). E’ alle loro ricerche che faremo sostanzialmente riferimento in questa lezione.

2 Gli elementi della comunicazione, un po’ di vocabolario


Gli elementi della comunicazione sono le parti che, secondo Bateson, costituiscono le sequenze
comunicative e permettono la trasmissione del contenuto.
Il primo modello di comunicazione (teorizzato da Shannon e Weaver nel 1948), è il modello tradizionale,
definito “emittente-messaggio-ricevente” che si pone in un’ottica lineare (cioè io do il messaggio, tu lo
ricevi), non focalizzandosi sulle comunicazioni “di ritorno” (il cosiddetto feedback).
Questa importante caratteristica verrà studiata nel successivo modello dialogico nel quale la comunicazione
viene vista in un’ottica circolare (il messaggio parte da me, arriva a te che mi rimandi altre informazioni
verbali o anche non verbali –il feedback- che influiscono sulla mia successiva comunicazione in modo
circolare…).
L’emittente e il ricevente, cioè colui che comunica e il destinatario del messaggio, possono essere costituiti
da una o più persone.
Il messaggio, cioè il contenuto di ciò che si comunica può essere una informazione, un dato, una notizia o
più semplicemente una sensazione.
Il codice è il sistema di segni che si usa per comunicare, senza il quale non avviene la trasmissione del
messaggio. Può essere una lingua, un gesto, un grafico oppure un disegno. Questo elemento è distinto dal
canale che può essere inteso sia come il mezzo tecnico esterno al soggetto con cui il messaggio arriva
(telefono, fax, posta ecc.) sia come il mezzo sensoriale coinvolto nella comunicazione (principalmente udito
e vista). L’emittente svolge un’importante attività, denominata codifica, in cui trasforma idee, concetti e
immagini mentali in un messaggio comunicabile attraverso il codice. Parallelamente, il ricevente svolge la
decodifica, cioè la trasformazione del messaggio da codice in idee, concetti e immagini mentali. Ulteriore
elemento è il feedback, cioè la “informazione di ritorno” che parte dal ricevente e va all’emittente; il
feedback da’ informazioni all’emittente: se il messaggio è stato ricevuto e capito, cosa ha provocato
emotivamente nel ricevente, o quali idee ha stimolato. Infine c’è il contesto o ambiente: è il “luogo”, fisico
o sociale, dove avviene lo scambio comunicativo; esso può incentivare o al contrario disincentivare la
comunicazione.
È importante sottolineare che non tutto quello che viene comunicato arriva al ricevente. Mediamente infatti,
attribuendo al messaggio che si vuole comunicare un valore 100, l’emittente riesce a comunicare solo 70. A
causa dei disturbi o ostacoli nello scambio comunicativo (come rumore, disattenzione, scarso interesse,
stanchezza, limiti culturali o fisici del ricevente, distacco o eccessivo coinvolgimento emotivo) il ricevente
viene a contatto solo con il 40% del messaggio e ne capisce il 20%.
E’ importante aggiungere che viene ricordato dal ricevente solo il 15-20% di ciò che ascolta (ad esempio in
una lezione frontale), il 30-35% di ciò che vede (il canale visivo è molto più potente dell’uditivo per

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memorizzare): la percentuale di ricordo sale al 60-70% se il canale uditivo viene supportato da quello visivo
(come in una lezione frontale corredata da una presentazione di diapositive e video).
Non bisogna quindi dare per scontato che si comunica davvero tutto ciò che si vuole, e che tutto ciò che si
comunica viene percepito per intero dal ricevente.
Cosa fare per cercare di ovviare a questi problemi comunicativi?
L’emittente dovrebbe
a. definire l’obiettivo della comunicazione: se il ricevente sa qual è la finalità della comunicazione, saprà
coglierne più facilmente gli aspetti salienti.
b. dare precedenza alle informazioni riguardanti i fatti rispetto alle opinioni, evitando così di confondere gli
uni con le altre.
c. usare un linguaggio adeguato al ricevente.
d. esprimere con precisione semantica e sintattica il proprio pensiero, cioè essere chiaro.
e. sottolineare e ripetere i concetti fondamentali perché se un concetto viene ripetuto, vi sarà una probabilità
più alta che venga ricevuto e ricordato.
f. accompagnare le parole con i gesti per aiutarne il ricordo.
g. usare quando è possibile immagini, a supporto della comunicazione verbale.
h. è anche importante essere obiettivi, e interagire con il ricevente cogliendone, attraverso il linguaggio
verbale e non verbale, i feedback (le informazioni di ritorno) per verificare l’efficacia della comunicazione.
i. l’efficacia comunicativa passa anche attraverso un’adeguata comunicazione corporea (guardare il
ricevente, mostrarsi sereni e ben disposti), l’alleggerire la comunicazione con pause, battute, esempi…

Il ricevente dovrebbe
a. essere ben disposto alla comunicazione.
b. avere capacità di ascolto.
c. essere in grado di capire e interpretare i significati simbolici dei messaggi.
d. comprendere gli schemi di riferimento dell’emittente.
e. porre domande affinché l’emittente precisi il suo pensiero.

3 I cinque assiomi della comunicazione


Uno dei primi studi scientifici sulla comunicazione può essere fatto risalire a Paul Watzlawick il quale,
all’interno del volume “La pragmatica della comunicazione umana” (1971), ha concettualizzato i principi
fondamentali della comunicazione, definendola come: “uno scambio interattivo fra due o più partecipanti,
dotato di intenzionalità reciproca e di un certo livello di consapevolezza, in grado di far condividere un
determinato significato sulla base di sistemi simbolici e convenzionali di significazione e di segnalazione
secondo la cultura di riferimento”. In parole più semplici la comunicazione è uno scambio intenzionale e
consapevole di informazioni attuato con simboli (o linguaggi) verbali e non verbali –anche del contesto- che
hanno un certo significato all’interno di una determinata cultura.
F 0Per
B 7 “funzione pragmatica della comunicazione”, si intende la capacità del linguaggio d’avere conseguenze

sui comportamenti umani nei contesti in cui agisce. Non esiste comunicazione senza un comportamento, né
un comportamento che non comunichi qualcosa. Secondo l’autore bisogna indagare le due modalità
attraverso cui la comunicazione espleta questa funzione e cioè il linguaggio verbale e non verbale.

Waslawick sottolineò come anche “le nevrosi, le psicosi e in generale le forme di psicopatologia non nascono
nell’individuo isolato, ma nel tipo di interazione patologica che si instaura tra individui”, ponendo quindi
l’accento sull’importanza dell’interazione esistente tra le persone che comunicano anche in patologia e
sull’influenza esercitata su di esse dalla cultura, attraverso i segni e i simboli cui vengono attribuiti
significati.
Watzlawick basa la sua elaborazione teorica su cinque assiomi, affermazioni basilari che riflettono i
meccanismi che si innescano nell’interazione tra segni e simboli.
PRIMO ASSIOMA: non si può non comunicare
Qualsiasi comportamento (verbale = parole; o non verbale = espressioni del viso o azioni o contesto)
comunica qualcosa alle persone presenti.
Anche la passività e i silenzi, esplicitando la volontà di non comunicare, inviano un messaggio e, quindi,
comunicano di non voler comunicare.

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Non può quindi esistere una non-comunicazione perché non esiste un non-comportamento.
Esempi
F 0Da
B 7 cliente entro in un bar e il cassiere, pur essendo io in attesa, non mi degna di uno sguardo e continua a

parlare al telefono, non salutandomi e non dandomi retta. Comunicazione: disinteresse


F 0Nel
B 7 mio ufficio il contesto è accogliente, la musica soffusa dà benessere, il mio abbigliamento e i toni

della mia voce sono friendly, i modi di tutti i collaboratori sono affabili. Anche prima che ci sia lo scambio
verbale l’insieme di contesto e modalità non verbali è strutturato per comunicare accoglienza e interesse per
il cliente.

SECONDO ASSIOMA: I messaggi possiedono un aspetto di contenuto ed uno di relazione


Questo assioma ci dice che in ogni interazione comunicativa dobbiamo identificare due aspetti: l’aspetto (o
livello) del contenuto (che notizia sta passando) e l’aspetto (o livello) della relazione (all’interno di quali
ruoli relazionali?).
Il livello della relazione risponde alla domanda “chi ha diritto di dire cosa? e come lo deve dire per stare nel
suo ruolo?”.
Se il capoufficio chiede a un collaboratore di svolgere un lavoro, con questo messaggio stabilisce una
relazione caratterizzata dal potere che egli ha, per ruolo, su un altro individuo. Il collaboratore non troverà
nulla di strano in questo.
Se la stessa richiesta viene da uno da uno sconosciuto o da un collaboratore sarà considerata non consona,
fuori contesto.
Questo aspetto relazionale, il più delle volte implicito, del messaggio è definito “metacomunicazione”.
Sincronicamente o addirittura prima di analizzare il contenuto manifesto dei sistemi verbali, esiste un
“tendere a” codefinire le regole del gioco relazionale implicito.
Perché l’aspetto metacomunicativo sia congruo con la comunicazione verbale e non verbale ci dovrebbe
essere reciproca consapevolezza dei ruoli relazionali.
Se questo processo non viene condiviso da entrambi gli interlocutori, ci si può ritrovare a giocare una partita
a scacchi senza comprendere le regole e l’obiettivo del gioco.
Nella vita di tutti i giorni ci può capitare di intraprendere vere e proprie lotte, consapevoli o non, per
ristabilire una congrua relazione di ruolo tra noi e i nostri interlocutori.
Esempi.
F 0Un’anziana
B7 signora entra nel mio ufficio. Mi alzo in piedi e la faccio subito accomodare. “Le chiedo scusa,
ma sono impegnato in una telefonata che cerco di concludere al più presto per potermi dedicare alle sue
richieste”. Esaurisco al più presto la telefonata e cerco di dedicarmi subito alla signora, che si mostra
contenta del fatto che l’abbia trattata come si aspettava –una cliente anziana e con modi d’altri tempi-.
F 0Stessa
B7 situazione, ma entrano un gruppo di ragazzi, molto giovani. Vado subito al tu, non stupito del modo
informale e speculare col quale i ragazzi si rivolgono a me. Mi scuso della telefonata in corso e li invito a
pazientare, dando loro nel frattempo la possibilità di esaminare materiali e video affinchè possano orientarsi
ed essere parte attiva nella costruzione di una possibile offerta. I ragazzi sono ben disposti anche perché
l’atteggiamento informale e più alla pari, cooperativo anzichè strettamente consulenziale (video e giornali
che li aiutano ad autodeterminare le richieste) li mette a loro agio, non li intimorisce.
F 0La
B 7 stessa affermazione “Fai attenzione” può volere dire cose diverse a seconda della relazione in cui è

inserita:

se detta dalla madre a un figlio può essere intesa come una raccomandazione;
se pronunciata dall’insegnante rivolta all’alunno è una richiesta o un ordine;
se detta da un delinquente può diventare una minaccia.
Penso sia chiaro come l’aspetto metacomunicativo, che possiamo tradurre come “chiarezza e rispetto
relazionale dei ruoli” (responsabile-collaboratore, cliente-professionista, anziano-giovane, giovane-
giovane…) sia forse anche più importante, talvolta, dell’aspetto contenutistico della comunicazione, perché
può o non fare sentire le persone a loro agio, nel giusto ruolo relazionale.
Le informazioni relative al ruolo relazionale privilegiano il canale non verbale, che sarà meglio spiegato nel
4° assioma.
Quando i due interlocutori sono d'accordo sia sugli aspetti di relazione che di contenuto, la comunicazione è
fluida.

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Quando c'è accordo sui contenuti, ma disaccordo sulla relazione, il contenuto può diventare un pretesto di
discussione, da cui si crea uno stato di disorientamento, che sfocerà in soluzioni precarie.
Quando c'è disaccordo sui contenuti e accordo sulla relazione, si confrontano le diverse idee, nella stima e
nel rispetto reciproci, ottenendo risultati stabili.
Quando c'è disaccordo su entrambi i piani, si arriva allo scontro aperto e alla rottura, squalificando
l'interlocutore.
Dunque, se non vi è accordo a livello relazionale, il contenuto della comunicazione è solo un pretesto di
discussione; se, invece, c'è volontà di intesa, qualsiasi disaccordo è risolubile. In una situazione di conflitto
o polemica è importante riuscire a separare il livello dei contenuti da quello della relazione, ed affrontarli
separatamente.
TERZO ASSIOMA: la comunicazione dipende dalla punteggiatura (dalla mappa) utilizzata dai soggetti
che comunicano
La realtà in quanto tale non esiste. Esiste la mappa (=punteggiatura) che ciascuno di noi ha per leggerla e che
può differire da persona a persona.
Lo slogan che riassume efficacemente questo assioma è “La mappa non è il territorio!”
E’ evidente che le personali letture della realtà comunicativa influenzano moltissimo il passaggio dei
contenuti dell’informazione.
Ma da cosa dipende la mappa o punteggiatura della realtà?
Dall’insieme di convinzioni, credenze e valori che si formano all’interno di ciascuno di noi per cultura,
esperienze, strutturazione psicologica e biologica.
Un disaccordo su come punteggiare una sequenza di eventi può essere all’origine di un conflitto di relazione.
Un tipico errore di punteggiatura è rappresentato dalla profezia che si autoavvera in cui il soggetto crede di
reagire ai comportamenti altrui mentre in realtà li provoca.
Esempi.
F 0Da
B 7 Watzalwick. Il topo ha una punteggiatura della realtà diversa da quello dello sperimentatore e pensa:

“Ho addestrato il mio sperimentatore. Ogni volta che premo la leva mi dà da mangiare”
F 0Marito
B7 e moglie credono entrambi di “leggere bene” la realtà e che i problemi siano provocati dal partner.
F 0Un
B 7 adolescente insicuro ritiene d’essere antipatico. La sua punteggiatura degli eventi fa si che qualsiasi

atteggiamento, azione o parola degli altri siano letti come un mettere distanza nei suoi confronti. Ma
anch’egli, così facendo mette in realtà distanza, con il risultato di ottenere proprio quello che temeva: essere
antipatico agli occhi degli altri. E’ l’esempio classico di profezia che si autoavvera.
F 0La
B 7 mia distrazione viene letta dal cliente come un disinteresse nei suoi confronti.

F 0Un
B 7 cambio di programma o di opinione del mio interlocutore viene letto da me come un tentativo di

fregarmi.

La punteggiatura dirige, dunque, il flusso comunicativo e le modalità di interpretarlo. La cultura,


organizzando e codificando esperienze comuni e frequenti, ci permette di ottenere la condivisione degli
aspetti basilari (le mappe diventano condivise).
QUARTO ASSIOMA: Gli esseri umani comunicano sia in modo simbolico (o numerico, o logico, o
digitale) sia analogico.
L’uomo, unico tra gli animali, comunica in due modi:
F 0Simbolico,
B7 attraverso le parole, organizzate in lingue, che per essere recepite nel loro contenuto
necessitano di una intermediazione della cultura (se io non conosco una lingua non ne colgo i contenuti
comunicativi!). E’ il linguaggio verbale. Il linguaggio simbolico serve a scambiare informazioni e a
trasmettere la conoscenza nel tempo (se non ci fosse il modo simbolico di comunicare non esisterebbero
giornali e libri, né la matematica –anche i numeri sono simboli!-).
F 0Analogico,
B7 attraverso una rappresentazione diretta della realtà, che non richiede intermediazione culturale.
E’ il linguaggio non verbale. Cosa è il linguaggio non verbale?
Per Watzlawick include le espressioni del viso, le inflessioni della voce, la sequenza e il ritmo delle parole, i
gesti, le posizioni del corpo e il contesto ove avviene la comunicazione.

Gli animali usano il modo analogico per comunicare tra loro e con l’uomo, cogliendo il non verbale e non
capendo il significato delle parole che diciamo –non hanno la capacità di accedere a una comprensione dei
simboli attraverso i quali parliamo del mondo-.

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E’ chiaro, come si può comprendere anche da quanto già detto nelle pagine precedenti, che
F 0il
B 7modo simbolico-verbale (parole e numeri) si presta soprattutto a veicolare il contenuto della

comunicazione;
F 0il
B 7modo analogico-non verbale (espressioni corporee e contesto della relazione) è quello più idoneo a

veicolare la definizione dei ruoli relazionali.

Tuttavia sia il contenuto che la definizione dei ruoli passano nella relazione attraverso entrambi i modi
comunicativi. Prima cogliamo il non verbale e il contesto e, sulla base di questi, diamo significato e valore al
verbale. I gesti hanno talvolta il potere di sostituire lunghi messaggi verbali (“Vale di più un gesto che mille
parole”). E un chiarimento sulle reciproche valenze di ruolo in una relazione di lavoro richiede talvolta
chiarimenti verbali.
Il modo non verbale di comunicare è estremamente potente. Il linguaggio analogico ci dà spesso la chiave di
lettura del linguaggio verbale. Nella storia dell’uomo è un modo di comunicare certamente più arcaico e
spesso in gran parte istintivo. Ciò nonostante possiamo consapevolmente porre attenzione al nostro non
verbale perché la comunicazione sia più efficace e “specializzarci” nella lettura del non verbale rimandatoci
da contesti e persone.
Alcune ricerche americane hanno messo in luce che l'incidenza di un messaggio è imputabile per il 7% alla
componente verbale (le parole usate ed il loro senso), per il 38% a quella paraverbale (come diciamo le cose)
e per il 55% alla componente non verbale (ciò che il nostro corpo comunica mentre parliamo). Ciò significa
che siamo maggiormente influenzati dall’aspetto non verbale o paraverbale di un messaggio, anziché dal suo
contenuto verbale.
Esempi.
F 0Ci
B 7 fermiamo a chiedere un’informazione su come raggiungere una via ad un passante: ci dice di andare a

destra ma con il braccio ci indica la sinistra. Nella quasi totalità dei casi, siamo portati a seguire la direzione
del braccio (non verbale).
F 0In
B 7 un breafing di lavoro il capo, pur senza parlare, mostra un interesse maggiore per una proposta piuttosto

che per un’altra (sorride, annuisce).


F 0La
B 7 hall di un albergo comunica accoglienza (luci, piante, caramelle a disposizione del cliente); quella di un

altro la troviamo “respingente” (arredi essenziali e poco “caldi”, scarsa cura…)


F 0Dal
B 7 viso di un cliente leggiamo una contraddizione tra il linguaggio verbale (sono disposto a spendere quel

che serve) e quello non verbale (il viso esprime preoccupazione quando si rende conto che la spesa può
essere superiore al suo budget). In tal caso ci potremmo trovare disorientati e con cautela cercare di indagare
meglio e mettere fine all’ambivalenza del cliente.
F 0Una
B7 nostra presentazione in un meeting può essere molto curata dal punto di vista della comunicazione
non verbale: sguardo diretto sulle persone, gesti con le mani che sottolineano il verbale, sorrisi e clima
disteso, in piedi e fronte sala, ritmo e tono esprimono accoglienza…

Il doppio legame
E’ di fondamentale importanza che ci sia accordo tra il livello verbale e non verbale per evitare quello che
viene definito . una madre che dice al fglio con tono rabbioso”tivlio bene” sta mandando un doppio legame.
Se il figlio ribadisce non è vero, la donna smentirà e il bambino non avrà argomenti per difendere la sua tesi,
anche perché spesso il messaggio non verbale potrebbe essere inconsapevole per chi lo emette
Il doppio messaggio o doppio legame normalmente genera molto stress nella comunicazione. Per uscire da
un doppio messaggio dobbiamo porci ad un livello meta-comunicativo; dobbiamo cioè esplicitare che c’è
una doppia informazione, altrimenti rimaniamo paralizzati e sbagliamo comunque ci comportiamo. Altre
volte possiamo relazionarci a quello verbale, tenendo conto di quello non verbale anche se decidiamo di non
esplicitarlo.

QUINTO ASSIOMA: Gli scambi comunicativi possono essere simmetrici o complementari a seconda che
siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza.
Le comunicazioni possono essere simmetriche o complementari.
F 0Relazione
B7 simmetrica: l’interazione è alla pari (=basata sull’uguaglianza)
F 0Relazione
B7 asimmetrica o complementare. In questo caso, un membro della coppia relazionale assume una
posizione primaria, detta one-up, superiore; mentre l’altro partner è complementare a questa posizione,

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assumendo una posizione one-down, inferiore. Denotare un membro della coppia come superiore o inferiore
non è un giudizio etico o di merito (buono - cattivo o forte – debole).

Tipi di relazione simmetrica sono quelle fra coniugi, colleghi, compagni di classe, amici, clienti.
Tipi di relazione complementare sono quelle insegnante-alunno, padre-figlio, datore di lavoro-impiegato,
medico-paziente.
I posizionamenti relazionali possono variare da contesto a contesto anche fra le stesse persone. Se, ad
esempio, un meccanico accusa un malore e si reca dal medico, la posizione one-up è assunta dal medico. Ma
se, dopo un'ora, sulla tangenziale cittadina, lo stesso meccanico interviene per aiutare il medico, con il
motore dell'auto in panne, il ruolo up sarà del meccanico e quello down del medico. Il medico che volesse
sentenziare anche su questo sarebbe solo presuntuoso, poco flessibile.
I posizionamenti relazionali tendono ad essere flessibili anche all’interno di una relazione che a un primo
livello è complementare, proprio perché all’interno di una relazione in un tempo dato cambiano
continuamente le condizioni di contesto che ne determinano o meno la complementarietà.
Esempi.
F 0Un
B 7 utente di una certa età si confronta con il giovane impiegato per la definizione di una proposta di

soggiorno (ma vale anche per il cliente di un ristorante o il paziente di un medico). A un livello generale
l’impiegato è up rispetto al cliente; a un altro livello, e quindi con possibili slittamenti in caso di variazione
minima del contesto, il cliente può avere maggiore esperienza di vita dell’impiegato, e nello scorrere
temporale della relazione può trovarsi a dare consigli all’impiegato, mettendosi per un certo tempo up.
F 0Marito
B7 e moglie in una relazione sostanzialmente simmetrica in alcuni momenti, ad esempio per malattia
o difficoltà varie, possono supportarsi a vicenda, assumendo alternativamente ruoli up.

4 Conclusioni
“Noi creiamo il mondo che percepiamo, non perché non esiste realtà fuori dalla nostra mente, ma perché
scegliamo e modifichiamo la realtà che vediamo in modo che si adegui alle nostre convinzioni sul mondo in
cui viviamo”
(Gregory Bateson)
Fraintendimenti, inefficacia comunicativa, interpretazioni personali delle comunicazioni, profezie che si
autoavverano, discordanza tra buone intenzioni e comunicazione non verbale.
Sono davvero tante le insidie della comunicazione umana.
Abbiamo visto come nella comunicazione ciascuno proponga se stesso, un proprio ruolo e contenuti della
comunicazione, la propria punteggiatura e definisce la relazione che ha con l’interlocutore. Di questo
dobbiamo essere consapevoli per essere efficaci e non creare fraintendimenti.
Ancora due cose prima di concludere.
I messaggi che un soggetto esprime per autodefinirsi o per esprimere la relazione con l’altro possono essere
accolti in modo diverso dall'interlocutore. L’altro può rispondere con una conferma, un rifiuto oppure una
disconferma.
F 0La
B 7 conferma, ovvero l’accettazione del ruolo che l’altro ha fornito di sé;

F 0Il
B 7rifiuto, che comunque implica il riconoscimento della presenza dell’altro. Il rifiuto equivale a “Stai

sbagliando”. Se ti contesto è perché esisti, anche se penso che stai sbagliando.


F 0La
B 7 disconferma è un ritiro relazionale sintetizzabile nell’espressione “Tu non esisti, non vali il mio

interesse nei tuoi confronti”. Questo tipo di risposta può essere particolarmente problematica per
l’interlocutore perchè non essere considerati può creare reazioni di ansia e di insicurezza molto dolorose.

Evitare di usare la disconferma, che certamente non è efficace se si intende restare comunque nella relazione.
Durante gli incontri e le riunioni sarebbe bene rispettare alcuni semplici principi: massima di quantità, cioè
dare un contributo efficace senza eccedere nella quantità; massima di qualità, ossia dare un contributo vero;
massima di relazione, ovvero essere pertinenti; massima di modo, quindi essere chiari, evitando espressioni
ambigue e oscure.
Spesso la cattiva qualità della comunicazione all’interno dei posti di lavoro è la vera causa di problemi che
generano stress nei lavoratori, che sono all’origine del mobbing e del graduale deteriorarsi di un buon clima
aziendale.

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La comunicazione è essenziale per far arrivare con chiarezza il nostro messaggio e vivere in modo
“assertivo”, riducendo così i nostri livelli di stress.

“IL CONFLITTO”

1 Introduzione
Cominciamo col porci una domanda: cosa si intende per conflitto? Sembrerebbe esserci quasi una risposta
scontata, tanto questa parola è, purtroppo, inflazionata nel linguaggio comune, attraverso i media, nei
rapporti interpersonali, nei gruppi.
La lingua latina, come sempre soccorre il bisogno esplicativo: il vocabolo conflitto è una parola colta che
riprende il latino CONFLICTUS dal verbo CONFLIGERE, composto da CUM, con e di un raro FLIGERE,
urtare, sbattere contro.
Il prefisso CUM indica che l' "urto" non è unilaterale. Ma coinvolge almeno due parti: è così definita una
lotta, un contrasto, un coinvolgimento di due o più persone.
Kurt Lewin, psicologo tedesco, pioniere della Psicologia Sociale, così lo definisce:
"Il conflitto è quella situazione in cui le forze di valore, approssimativamente uguali ma dirette in senso
opposto, agiscono simultaneamente sull'individuo".
Quando esiste un conflitto pertanto, siamo in presenza di assetti motivazionali contrastanti rispetto alla meta.
In altri termini il conflitto in psicologia sociale indica uno scontro tra ciò che la persona, o il proprio gruppo
di appartenenza desidera e un'istanza INTERIORE, INTERPERSONALE o SOCIALE CHE IMPEDISCE
LA SODDISFAZIONE DEL BISOGNO o dell'obiettivo connessi a tale desiderio.
Possiamo pertanto parlare di vari tipi di conflitto: conflitto di potere, conflitto ideologico, economico, di
interessi.
Il termine è onnicomprensivo e può rimandare a vari livelli.
A noi interessa precipuamente riflettere sui conflitti che rimandano alla sfera psicologica e sociale di un
individuo: i conflitti psichici e i conflitti interpersonali che possono talora turbare in maniera consistente il
comportamento del singolo e del gruppo.
Nella nostra cultura la parola conflitto è spesso associata allo scontro, a emozioni negative quali la rabbia o,
peggio, l'odio verso gli altri.
Molto raramente si pensa che esso, al contrario, possa divenire motivo di confronto e di crescita tra gli
individui, occasione per creare conoscenza dell'altro diverso da me,
un momento costruttivo di scambio reciproco.
In realtà il conflitto è un'esperienza comune a tutti gli uomini, che può nascere in tutti i gruppi di
appartenenza. In qualsiasi relazione di due o più persone molteplici cause legate a diverse aspettative dei
singoli coinvolti possono generare occasioni di incomprensione, disaccordo e lite.
Ma il conflitto spaventa, la gente ne ha spesso paura e tende preferibilmente a rimuoverlo più che ad
affrontarlo.
Quante volte si sente dire, da amici, conoscenti e colleghi: non voglio litigare, preferisco il "quieto vivere",
meglio evitare...
Questo perché viviamo tutti in realtà complesse ma, diciamolo, più portate allo scontro che al dialogo, alla
prevaricazione sull'altro più che all'accettazione della diversità. Per
questo pensiamo sia meglio negare i conflitti piuttosto che affrontarli.
E cosi ne perdiamo tutto il potenziale creativo insito.
Si sprecano risorse per eludere i conflitti come se fossero portatori di sventura: e intanto aumentano le liti, le
discussioni, le lacerazioni nei gruppi.
Ma cosa genera un conflitto? Come s'instaura?
Un ruolo importante lo gioca una certa permalosità sociale assai stratificata.
Da un lato essa segnala una legittima esigenza di far rispettare il proprio spazio vitale, dall'altro però
evidenzia come senza una sorta di alfabetizzazione relazionale, una rieducazione delle emozioni, sia sempre
più difficile risolvere le controversie relazionali.
Le emozioni giocano un ruolo primario. Nel gruppo possono nascere meccanismi patologici che favoriscono
la conflittualità.

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Questi ed altri motivi obbligano ad una necessaria gestione positiva del conflitto che possa favorire un'
evoluzione costruttiva dello stesso.
Ognuno di noi ha più risorse di quello che crede: l'esperienza conflittuale consente di mettersi alla prova.
Così si impara, si acquista forza.
Dobbiamo imparare a sostare nel conflitto, a mediare, a gestirlo in maniera nuova.
Per farlo però è necessario: conoscere le proprie emozioni, essere empatici, avere una gestione creativa del
conflitto
Nei gruppi, ancora, possono esserci difetti comunicazionali che possono favorire incomprensioni: per es.
parlare tutti insieme, squalificare l'altro, passare da un argomento all' altro, farsi influenzare reciprocamente,
trascurare la turnazione.
Sarebbe opportuno effettuare periodicamente una verifica sulla comunicazione
verbale e non dei sottesi giochi di potere agiti nelle relazioni.
Si potrebbe ad es. effettuare un piccolo esercizio: annotare quante persone intervengono in una discussione,
se più di l-2 volte, se sempre le stesse, quante interruzioni si oppongono, quanto ci si prolunga nel tempo
(voracità intellettuale), quante volte un intervento comincia con "non sono d'accordo”?
Si può osservare la comunicazione non verbale di chi non interviene attraverso la mimica, la postura, i gesti:
qualcuno prova noia, irritazione, chiusura?
Distoglie lo sguardo dall' interlocutore?
Questo esercizio può veicolare e chiarire i vissuti all'interno del gruppo, raffinando
così tecniche di conoscenza e d'intervento utili per l'esperto osservatore.

2 Tipologie generali di conflitto


Molte correnti della psicologia ha adottato diverse sfumature del concetto di conflitto per adattarlo meglio
alle proprie teorie che si sono evolute nel tempo.
Il conflitto, in psicologia, può essere definito come la presenza, nel comportamento di un individuo, di
assetti motivazionali contrastanti rispetto alla meta. In altri termini il conflitto indica uno scontro tra ciò che
una persona, o il proprio gruppo di appartenenza, desidera e un'istanza interiore1, interpersonale2 o sociale3
che impedisce la soddisfazione del bisogno, dell'esigenza4 o dell'obiettivo connessi a tale desiderio.
1 In campo psicoanalitico ad esempio il super-io, la paura.
2 In campo psicosociale ad esempio un genitore, un amico, un insegnante, il datore di lavoro ("il capo"), in
generale una persona percepita come autoritaria o autorevole.
3 In campo antropologico e psicosociale ad esempio il conflitto tra i commercianti e i consumatori, tra i
lavoratori, il sindacato e la dirigenza aziendale, o in generale la pressione
4 Massimo Fagioli attua un distinguo, considera i bisogni come «pulsioni infantili ed isolate che tendono alla
soddisfazione diretta», mentre le esigenze evolutive o di sviluppo come «tendenze ad un rapporto oggettuale
evolutivo, nel quale le pulsioni istintuali (sessuali e di morte) vengono contenute, orientate verso la fusione
e l'integrazione, utilizzate per uno sviluppo della conoscenza e delle possibilità di pensare».
Va inoltre distinto un conflitto interiore (nella mente della singola persona) da un conflitto sociale (tra due o
più persone o gruppi) tenendo anche conto delle varie sfumature del concetto di conflitto date dalle varie
correnti della psicologia.
In termini classificatori il conflitto, nell'ambito della psicologia generale, è suddiviso in 3 tipi: emotivo,
cognitivo e motorio. Tuttavia il termine si è evoluto negli anni seguendo lo sviluppo delle diverse
prospettive, teorie e prassi che caratterizzano la psicologia, cosicché oggi si può attuare una divisione anche
ponendo come discriminante la sua natura sociale, ottenendo così due tipologie.
Conflitto intrapsichico
Viene anche chiamato conflitto intrapersonale; riguarda i desideri o mete contrastanti di cui il soggetto è
normalmente consapevole, mentre, soprattutto in psicanalisi, si usa il termine di conflitto psichico o
conflitto dinamico5 per indicare il conflitto tra istanze mentali di una persona ad un livello non cosciente
che solo successivamente può emergere ad un livello conscio, spontaneamente o a seguito di una
psicoterapia, ed essere verbalizzato, interpretato, interiorizzato e possibilmente risolto. Generalmente il
conflitto intrapsichico interessa aspetti di natura pulsionale, profondi, esistenziali, intimi alla persona, e
quindi soltanto secondariamente collegati alla sfera sociale. Questo tipo di conflitto è prevalente nei settori
della psicologia dinamica, dello sviluppo, comportamentale ma anche nella psicologia cognitiva (teoria della
dissonanza cognitiva).

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Conflitto interpersonale
Questo tipo di conflitto si sviluppa tra due o più persone quando la soddisfazione di un desiderio o il
conseguimento di un obiettivo da parte del singolo entra in contrasto con i desideri o gli obiettivi di altre
persone. Può definirsi anche conflitto sociale se interessa due o più gruppi sociali in lotta tra loro per
ottenere risorse esclusive o per uno scopo prettamente difensivo di conservazione o ancora, in generale,
quando si instaura una situazione competitiva inter-gruppi. Il conflitto interpersonale riguarda generalmente
i rapporti problematici che intercorrono tra le persone, gli scontri tra diversi ruoli sociali, quindi è collegato
solo secondariamente agli aspetti intimi o esistenziali della persona. Ricorre maggiormente nei settori della
psicologia sociale e del lavoro ma anche nella sociologia e nell'antropologia.
Un conflitto interpersonale è una situazione in cui
- due o più persone
- frustrano o offendono ciascuno l’altro
- allo stesso tempo
- attraverso pensieri, sentimenti, valutazioni o approcci incompatibili o contraddittori

È il risultato di differenze sentite, che sono in opposizione e richiedono una soluzione.


_ I conflitti sono visti come perturbazioni che lasciano effetti e che interrompono la
solita routine.
_ I conflitti sono parte integrante di qualsiasi convivenza.
_ L’atteggiamento di una persona verso il conflitto è di grande importanza e dipende
delle esperienze di conflitto avute.
_ L'atteggiamento influisce sulla percezione, i sentimenti e l'approccio.
_ La percezione, i sentimenti e l'approccio contribuiscono al successo o al fallimento
di risoluzione dei conflitti.
Percezione: mi rendo conto in tempo che sta sorgendo un conflitto o ne ignoro i segni? (auto-comunicazione
positiva o negativa)
Sensazioni: devo reagire con ansia e maldestramente o con coraggio e con forza?
Approccio: approccio il conflitto attivamente, in modo aperto e cooperativo o lo evito, me ne difendo e
agisco in modo aggressivo?

3 Alcune teorie sul conflitto


Passiamo ora in rassegna alcune teorie che hanno affrontato il tema del conflitto, le sue cause e possibili
soluzioni
3.1. Approccio psicanalitico al conflitto
Uno dei primi a parlare di conflitto è Sigmund Freud ne L'interpretazione dei sogni in cui distingue un:
F 0conflitto
B7 manifesto quando esistono due sentimenti contrapposti dei quali la persona è sufficientemente
conscia;
F 0conflitto
B7 latente se gli elementi manifesti, ammesso che ve ne siano6, svolgono funzione di copertura,
spesso deformata, nascondendo il reale conflitto tra Es e super-io.

6 Inizialmente possono anche esserci solo sintomi indifferenziati la cui specificità può essere evidenziata
solo successivamente con opportune stimolazioni alla riflessione verbale come le libere associazioni e/o altre
tecniche di rilassamento, anche non verbali.
Freud considera il conflitto un elemento centrale della sua teoria: “Noi non vogliamo semplicemente
descrivere e classificare i fenomeni, ma concepirli come indizi di un giuoco di forze che si svolge nella
psiche, come l'espressione di tendenze orientate verso un fine, che operano insieme o l'una contro l'altra. Ciò
che ci sforziamo di raggiungere è una concezione dinamica dei fenomeni psichici. Nella nostra concezione i
fenomeni percepiti vanno posti in secondo piano rispetto alle tendenze, che pure sono soltanto ipotetiche”7
Si possono identificare tre diverse modalità di conflitto nell'opera Freudiana che ripercorrono l'evoluzione
del suo pensiero:
1. conflitto tra principio di piacere e principio di realtà;
2. conflitto tra pulsioni sessuali e pulsioni di autoconservazione (dette anche pulsioni dell'io);
3. conflitto tra pulsioni di vita (Eros) e pulsioni di morte (Thanatos).

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L'ultimo tipo è quello maggiormente sviluppato nell'odierno panorama psicoanalitico.
In psicologia, quando si parla di conflitto si allude ad un processo in cui si verifica una contrapposizione tra
istanze contrastanti. Freud, quindi, descrive il conflitto in termini di dualismo tra il principio di piacere e il
principio di realtà regolato dalla rimozione, in termini di contrapposizione tra pulsioni sessuali e pulsioni
di autoconservazione e, infine, in termini di dualismo tra pulsioni di vita e pulsioni di morte. Freud,
dunque, descrive il conflitto soprattutto in termini di contrapposizione tra entità psichiche o pulsioni.
La prospettiva dinamica considera i processi psichici come prodotti del conflitto fra pulsioni inconsce.
Secondo Freud, la sofferenza dell'individuo è sempre la risultante del conflitto intrapsichico, di cui il
sintomo è espressione. Il conflitto primario è, egli diceva, tra Es - istanza istintuale che tende a realizzare le
pulsioni - e Super-Io - che esprime il dover essere e quindi gli imperativi. Questo conflitto oppone due forze
che possono incrinare l’equilibrio psichico. Freud ipotizza che proprio da questo antagonismo profondo
prenda avvio un’altra istanza, l’ Io, che tende a rendere compatibile lo scarico delle pulsioni (l’Es) con le
regole morali, e quindi con il Super-io. Tra le tre istanze vi è potenzialmente continuo conflitto; ma anche
tra il principio del piacere e quello di realtà c'è conflitto. Per il primo, infatti, si dovrebbe ottenere
l'immediato piacere che si scorge come possibile e desiderabile, mentre il secondo trattiene dall’attuare
comportamenti socialmente inaccettabili. Freud ravvisò una "censura" psichica nei confronti di impulsi e
desideri istintuali primitivi che entrano in conflitto con le istanze della coscienza morale.

II conflitto genera angoscia e, nelle degenerazioni patologiche, l'insorgere di sintomi nevrotici. Il


conflitto stesso, infine, ha prevalentemente origine da desideri di carattere sessuale o più in generale
erotico. Suscitando forti critiche e opposizioni, Freud sostenne per primo l'esistenza di bisogni sessuali
(sebbene non ancora localizzati nella sfera genitale) nell'infanzia. Il bambino é attratto dal genitore di sesso
opposto e sviluppa sentimenti ambivalenti di amore e odio, nonché sentimenti di colpa, nei confronti del
genitore del suo stesso sesso (conflitto edipico).
La teoria psicanalitica ha identificato alcuni modi di affrontare i conflitti interiori che prendono il nome di
meccanismi di difesa la scelta di uno dei quali dipende dal conflitto in causa. Essi sono la rimozione, lo
spostamento, la proiezione, la sublimazione, l’identificazione, la regressione e la formazione reattiva.
Riconoscere e saper gestire i propri conflitti non è semplice; talvolta le reazioni contraddittorie sono così
complesse che una soluzione soddisfacente si trova con molta difficoltà. Inoltre, può accadere che le
tendenze in conflitto abbiamo origini talmente profonde nella psiche dell’individuo da risultare sconosciute
all’individuo stesso.
3.2. Approccio sociale al conflitto
Il conflitto in psicologia sociale può essere definito come “una situazione in cui forze di valore
approssimativamente uguale ma dirette in senso opposto agiscono simultaneamente sull’individuo” (K.
Lewin).
In ogni situazione conflittuale si possono rintracciare tendenze verso almeno due forme di comportamento:
- Tendenze rivolte al raggiungimento di un obiettivo (tendenze appetitive).
- Tendenze rivolte all’evitamento di eventi indesiderati (tendenze avversative).
Da questa distinzione emergono 4 possibilità di conflitto:
1) Conflitto tra due tendenze appetitive (attrazione-attrazione): il soggetto dovrà scegliere tra due obiettivi
ugualmente positivi ma la situazione è tale per cui può raggiungerne soltanto uno; questo è il tipo di conflitto
più innocuo in quanto i due obiettivi non si equivalgono mai in maniera completa e perché, al tempo stesso,
l’individuo nutre, in partenza, qualche preferenza rispetto ad uno dei due obiettivi, o ancora perchè un
cambiamento della situazione sposta l’interesse su uno dei due.
2) Conflitto tra una tendenza appetitiva ed una avversativa (attrazione-avversione): se le due tendenze sono
di forza simile, il soggetto rimane sospeso ed indeciso. In questo tipo di conflitto rientrano tutte le situazioni
nelle quali il soddisfacimento di un desiderio è condizionato al pagamento di un prezzo elevato.
3) Conflitto tra due tendenze avversative (avversione-avversione): nel conflitto di questo tipo il soggetto si
trova di fronte a due oggetti o situazioni ugualmente negativi o spiacevoli. Se la ritirata non è possibile, di
solito si opera la scelta del male minore.
4) Conflitto tra due tendenze che sono in sé sia appetitive che avversative: il soggetto si trova di fronte ad
oggetti o situazioni che evocano contemporaneamente attrazione e repulsione.

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E’ importante sottolineare che i conflitti più acuti si verificano allorché tendenze incompatibili sono
caratterizzate dalla medesima intensità.8
Queste situazioni di conflitto si presentano nella vita di tutti i giorni. Alcuni studiosi hanno cercato di
riprodurre, per poi studiarla, la dinamica del conflitto in situazioni sperimentali con la possibilità di
controllare le variabili in gioco e l’intensità della forza delle tendenze in conflitto. Un es. classico del
conflitto riprodotto in laboratorio è quello di Pavlov. Durante i suoi studi sul condizionamento Pavlov
osservò l’insorgere di “nevrosi” sperimentali indotte negli animali, osservò cioè la comparsa di turbe del
comportamento quando ad una tendenza appetitiva (il cibo) associava una tendenza avversativa (uno stimolo
elettrico). I sintomi riguardavano turbe generali del comportamento ( si osservavano disturbi del
comportamento alimentare, aumento dell’emotività, condotte fobiche rivolte verso un oggetto diverso da
quello che originariamente provocava la crisi nevrogena, riti ossessivi, comportamenti allucinatori…), turbe
dei rapporti sociali (alterazioni nei rapporti con il personale di laboratorio e modificazioni di posizione
gerarchica nel gruppo sociale), le manifestazioni psicosomatiche. La situazione si complica nell’uomo.
Infatti, oltre alla natura “viscerogenetica” dei bisogni che portano l’animale al conflitto, l’uomo avverte
anche dei bisogni “derivati” e legati soprattutto ai rapporti familiari e sociali. Anche la sintomatologia del
conflitto è diversa: nell’animale le reazioni al conflitto sono soprattutto di tipo motorio e viscerale;
nell’uomo a questi tipi di reazioni se ne sviluppano altre sul piano mentale (razionalizzazione, rimozione,
sublimazione, proiezione…) Un es. classico del conflitto riprodotto in laboratorio è quello di Pavlov.
Durante i suoi studi sul condizionamento Pavlov osservò l’insorgere di “nevrosi” sperimentali indotte negli
animali, osservò cioè la comparsa di turbe del comportamento quando ad una tendenza appetitiva (il cibo)
associava una tendenza avversativa (uno stimolo elettrico). con meccanismi che sebbene riducano la tensione
che deriva dal conflitto, spesso possono portare allo sviluppo di una sintomatologia decisamente morbosa.
Spesso a suscitare il conflitto non è un’attività particolare, quanto piuttosto un modello di comportamento,
un complesso di atteggiamenti che si possono sintetizzare nel concetto di “ruolo”. L’appartenenza ai due
generi, le diverse età, l’appartenenza a diverse classi sociali, professioni impongono di volta in volta regole
di comportamento diverse, a volte incompatibili. In questo caso, la variabile “ruolo” assume notevole
importanza; il conflitto, infatti, può nascere allorché l’individuo si ritrova ad occupare, contemporaneamente,
due posizioni differenti che prescrivono atteggiamenti diversi: si parla allora di conflitto tra ruoli.
Questa situazione è grave per due motivi:
in primo luogo, perché non si tratta di un conflitto casuale e passeggero, ma costante per l’individuo, il quale
ha interiorizzato due serie di ruoli paralleli per ogni situazione; in secondo luogo entrambi questi gruppi, di
cui fa parte, hanno una grande influenza sulla formazione della personalità.
Appartenere a due gruppi che hanno la stessa funzione, significa non appartenere di fatto a nessun gruppo,
per cui il soggetto sentendosi escluso da essi sviluppa sentimenti di solitudine e frustrazione. (es.: gli
immigrati che vivono tra due culture diverse e si trovano di fronte a due ruoli contraddittori).
Al tempo stesso, il conflitto può nascere allorché le aspettative di individui, o di gruppi diversi, relativi alla
medesima posizione, discordano nettamente: in questo caso si parla di conflitto intra – ruolo o ancora dal
fatto che l’evoluzione dell’individuo esige l’abbandono progressivo di certi ruoli e l’assunzione di nuovi. Un
tipico esempio di tale tipologia di conflitto è quello relativo alla donna nella nostra società: da una parte
ricoprire il ruolo tradizionale dedito alla cura della casa e dei figli e dall’altro quello moderno legato
all’avere un lavoro fuori casa che la faccia sentire autonoma ed indipendente. Altro es. è quello
dell’adolescente, il quale è già uscito dall’infanzia e non ha ancora raggiunto l’età adulta, si sente attratto
dall’idea di essere un adulto indipendente, ma anche dal desiderio di restare legato al ruolo del bambino,
protetto e sicuro.
I conflitti possono inoltre, derivare anche dall’evolversi del ciclo di vita, dall’infanzia alla vecchiaia, e
quindi, dall’esigenza di abbandonare progressivamente certi ruoli e assumerne dei nuovi.9 Tali conflitti sono
vissuti a livello della personalità e quindi l’individuo metterà in atto dei meccanismi di difesa. Importanti
momenti di transizione possono essere il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, dalla coppia alla
genitorialità, dalla genitorialità alla coppia anziana, dalla vita lavorativa alla pensione.
Come possiamo risolvere un conflitto legato al doppio ruolo?
Il conflitto tra i ruoli può essere risolto nei seguenti modi:
1. La separazione consiste nel tentativo di separare, sia nel tempo che nello spazio, i due ruoli in conflitto.
Ad es. il soggetto che fa parte di 2 gruppi che esigono comportamenti diversi, può cambiare passando da un
gruppo all’altro. Tale meccanismo può agire anche a livello più profondo. L’Io, sede del conflitto, può

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separare i due ruoli distaccandosi interiormente da uno di essi, pur attuandoli entrambi nella realtà. I ruoli
scartati dall’Io sono vissuti come carichi di sensi di colpa, a volte proiettati su un io ausiliario, che il soggetto
non riconosce come appartenente alla propria personalità. (es.: il bambino attribuisce le azioni cattive al
Diavolo e le buone azioni a se stesso).
2. Il compromesso, attraverso il quale l’individuo può scegliere di rinviare l’azione in attesa che uno dei due
gruppi, o entrambi, in conflitto tra loro, attenuino le proprie esigenze nei confronti di un soggetto. In
alternativa, l’individuo può tentare di ristrutturare il ruolo stesso con l’obiettivo di adattarlo a ciascuno dei
due gruppi; ancora, l’individuo può risolvere il conflitto attraverso la forma di compromesso più diplomatica
ma, al tempo stesso, più difficile da attuare, ovvero utilizzare un ruolo contro l’altro al fine di indicare a
ciascun gruppo che le esigenze richieste sono incompatibili, il tutto al fine di far sì che le esigenze stesse
vengano attenuate.
3. La fuga, (soluzione negativa) attraverso la quale l’individuo può districarsi dai due ruoli in conflitto
evitando qualsiasi tipo di scelta e qualsiasi tipo di mediazione o separazione tra gli elementi in questione.
4. La gerarchia dei gradi di obbligatorietà dei ruoli, senza la quale l’individuo si troverebbe in uno stato
di conflitto permanente, ovvero alcuni ruoli possono essere temporaneamente abbandonati a vantaggio di
altri (ad es. la promozione a dirigente scolastico prevede la rinuncia della docenza; oppure l’incarico
temporaneo di direttore sanitario di una ASL per un medico di base, prevede che, per un certo tempo, questi
non faccia più il medico curante).

Se una persona appartiene allo stesso tempo a due gruppi sociali diversi della stessa categoria (età, razza,
nazionalità) gli si presentano in ogni situazione, due tipi diversi di comportamento, suggeriti da ognuno dei
due gruppi, e quindi si troverà in una situazione permanente di conflitto, (non casuale e passeggero ma
costante) e di solitudine ,sentendosi di non appartenere a nessun gruppo, e quindi escluso. Es. la situazione
degli immigrati: vivono tra due culture diverse (quella originale e quella ospitante)”.
3.3. Approccio cognitivo al conflitto
Un altro approccio classico al problema del conflitto è quello adottato dagli psicologi cognitivisti.
In questo ambito un ruolo fondamentale è occupato dalla teoria della dissonanza cognitiva postulata da
Festinger.
Per “dissonanza cognitiva”, Festinger intende lo stato di disagio che l’individuo sperimenta allorché è
consapevole della contraddittorietà, o della mancanza di armonia, fra due o più contenuti mentali o
cognizioni.
Nella sua teoria, Festinger sostiene che le persone tendono ad evitare o alleviare questi stati di disagio,
comportandosi in maniera tale da ridurre la dissonanza o da mantenere l’armonia fra i loro diversi
atteggiamenti, convinzioni e conoscenze.10
L’esistenza di cognizioni che in un modo o nell’altro non concordano, c’è quindi dissonanza, induce il
soggetto a sforzarsi di farle concordare meglio operando una riduzione della dissonanza. L’esempio tipico
che riassume questa situazione è quello del fumatore che nonostante sia a conoscenza della nocività del fumo
fuma ugualmente. La dissonanza è ridotta o annullata grazie a dei convincimenti che gli consentono di
rendere concordi le informazioni di cui dispone con l’atto stesso del fumare.
Dissonanza è conflitto non sono la stessa cosa: il conflitto precede la decisione mentre la dissonanza la
segue. In qualche modo la dissonanza può creare un conflitto, nel senso che la persona rilevando un
contraddizione (dissonanza) tra un proprio atteggiamento e comportamento (“credo che fumare faccia male
e fumo”) può trovarsi ad affrontare il conflitto di quale scelta operare per ridurre la dissonanza “smetto di
fumare o mi faccio del male?”
Secondo Festinger, la riduzione della dissonanza può essere effettuata mutando la propria opinione, il
proprio comportamento, oppure l’ambiente in cui ci si trova ad operare.
In alternativa, l’individuo può ridurre la dissonanza cognitiva integrando un nuovo elemento cognitivo in
aggiunta agli elementi consonanti, il tutto al fine di modificare il rapporto con gli elementi dissonanti.
Festinger ha messo in rilievo che vi è la tendenza a cambiare le proprie opinioni quando queste sono in
contrasto col proprio comportamento, sempre al fine di ridurre la dissonanza. Esistono parecchi modi per
ridurre la dissonanza: convincersi che l’argomento dissonante non è importante, cambiare opinione, cercare
il sostegno di altri per confermare le proprie opinioni chiaramente poste in dissonanza dai fatti, selezionare le
informazioni e filtrarle. La dissonanza cognitiva di Festinger, è tipica anche dei detenuti i quali continuano a
cercare giustificazioni per il loro comportamento, nascondendosi dietro falsi alibi.

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4 Il conflitto come fenomeno fisiologico
Come scrivono Spaltro e De Vito Piscicelli, “Il conflitto non è una malattia misteriosa di cui non si conosce
la causa, ma è un processo fisiologico che, se non viene regolato, può diventare malattia" .
"Ogni situazione lavorativa è di necessità conflittuale ... Il conflitto è una qualità umana come il mangiare, il
bere il camminare ed il comunicare, solo che ci si riferisce non ad una qualità individuale, ma ad una qualità
relazionale.
E, soprattutto, il conflitto non è una patologia relazionale, ma è la relazione in se stessa”.
Proprio perché siamo persone libere, proprio perché vogliamo che ciascuno possa esistere difendendo
quello che pensa o sente nel rispetto degli altri, è inevitabile la presenza del conflitto. Solo se ci
omologassimo, eliminando, tutte le sane e giuste differenze tra gli esseri umani, potremmo evitare il
conflitto. Questo sarebbe un orrore, quindi, dobbiamo imparare a convivere con il conflitto per gestirlo in
modo funzionale e creativo.
Soppressione del conflitto: effetti negativi
(De Dreu e De Vries 1993)
-riduzione creatività individuale e di gruppo;
-abbassamento qualità e forza delle decisioni individuali e collettive;
-inibizione di intraprendenza, sviluppo e innovazione;
-deterioramento di processi comunicativi e benessere relazionale.
Le reazioni di chi è coinvolto in un conflitto possono essere di vario tipo, anche
estremo:

5 La gestione costruttiva del conflitto


Nel corso della vita è probabile essersi chiesti il perché le nostre relazioni in famiglia, sul lavoro, nel gruppo
di amici o compagni non siano particolarmente soddisfacenti, se non addirittura conflittuali, con una
conseguente perdita di fiducia nei rapporti che instauriamo. Fra le capacità dell’essere umano, la
disposizione alla comunicazione è certamente la più evidente e la più importante. Le nostre relazioni
interpersonali a tutti i livelli ci richiedono però sempre più la capacità di accettare e gestire ciò che è diverso
da noi stessi: persone, valori, pensieri, culture. Questo inevitabilmente porta il conflitto in una posizione
centrale nella nostra esistenza.
La parola conflitto continua ad evocare nella nostra cultura concetti o immagini sgradevoli, rimandandoci
allo scontro, al contendere, all’aggressività e inevitabilmente alla violenza. Se la pace è stata considerata
antitetica rispetto al conflitto e dunque il conflitto visto come guerra, un modo nuovo per affrontare la
possibilità di una pace - concreta e operativa - è ristrutturare la stessa concezione di pace. La proposta è
quindi di accettare che il concetto di pace contenga in sé quello di conflitto, in quanto permette di mantenere
la relazione anche nella divergenza. Si può pensare quindi al conflitto come un elemento generativo, un
elemento creativo, una risorsa all’interno della costruzione di relazioni che non possono prescindere dal
valorizzare la diversità.
In tutto ciò emerge però la difficoltà di capire le ragioni degli altri, di accettare la divergenza, la compresenza
di visioni diverse. Questa è la sfida: creare le condizioni affinché le relazioni possano alimentarsi non solo
nella simpatia ma anche nella discordanza e nella diversità. Cercare di apprendere la capacità di stare
dentro il conflitto e di vivere la diversità come momento di crescita e non più come un fattore di paura e di
minaccia.
La diversità perde così la sua connotazione di antagonismo e diventa un elemento evolutivo, di
arricchimento, se supportata da un atteggiamento intersoggettivo. Per arrivare a questo è
necessario però uscire dalla convinzione che per soddisfare i propri bisogni sia necessario penalizzare
qualcun altro, entrando in un gioco che permetta a tutte le parti di uscire vincitrici. Imparare a relazionarsi in
modo costruttivo non significa quindi soltanto dotarsi di “buone tecniche” comunicative, che ci permettano
di padroneggiare razionalmente le relazioni, ma significa soprattutto aprirsi alla conoscenza e alla
consapevolezza delle emozioni, dei sentimenti e di tutti quei processi comunicativi che noi e gli altri
attiviamo nelle relazioni. Per questo la scelta di cooperare con un’altra persona, di trovare un accordo, invece
di “combatterla”, dipende non soltanto dal vantaggio materiale che può derivarne, ma anche dal nostro

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vissuto nei suoi confronti. Il conflitto diventa così un’opportunità di leggere se stessi, di osservare quelle
parti di noi che non conosciamo, che la relazione con l’altro fa emergere in modo più eclatante.
Alcune riflessioni possono aiutarci a vedere da un altro punto di vista il conflitto e fornire spunti per gestire i
conflitti in modo non violento, costruttivo, trasformandoli in un’opportunità evolutiva e di crescita reciproca:
Ricordiamo che il conflitto è un problema da gestire, e non una guerra da combattere.
Spesso tendiamo ad abolire il conflitto contrastando direttamente chi lo porta invece di affrontare la
situazione; si può cambiare la prospettiva prendendo atto dell’esistenza di una situazione critica o di un
problema e provare ad affrontarlo, chiedendo magari la collaborazione all’altro.
5.1. Esiti del conflitto
Il conflitto, per tutto quanto abbiamo detto, non ha necessariamente esiti negati (tutt’altro), anzi facilità la
costruzione dell’identità e la maturazione psicosociale degli individui. Gli effetti del conflitto di solito non
dipendono dalla natura del conflitto (ovvero dai perché dei conflitti) ma dalla qualità della relazione entro cui
hanno luogo. Questo vale in ogni ambito della vita sociale. Non è l’assenza di conflitto a determinare il
benessere. Anzi l’assenza totale di conflitto di solito segnala appiattimento, paura reciproca, rancori nascosti,
immaturità. Molto raramente l’assenza totale di conflitto è indice di totale accordo. Chi può dire di essere
sempre d’accordo con qualcuno? Quando non c’è conflitto (nel senso di visioni alternative) non c’è crescita
nelle relazioni.
Esiti negativi e positivi della soluzione di un conflitto
Gli esiti del conflitto sono di vario tipo. Un esito possibile è la completa sottomissione alla autorità di
qualcuno (uno cede ad un altro), un altro è il compromesso (tutti concedono qualcosa agli altri). Spesso,
quando le persone non riescono a trovare in sé la capacità di risolvere conflitti, si affidano alla mediazione di
un terzo. Altre volte la strategia è il disimpegno, una vera e propria fuga dall’ambito conflittuale (quieto
vivere) che di solito porta ad esplosioni di conflitto ancora più ampio in un secondo momento. Apprendere
l’arte del compromesso è qualcosa di possibile. Innanzitutto va detto che il compromesso si attua attraverso
la concessione reciproca; tutti lasciano qualcosa ma tutti guadagnano qualcosa. E’ proprio la sensazione
piacevole di aver vinto tutti che fa sentire le persone bene e che permette di affrontare successivi conflitti
senza eccessivi patemi. Ogni esito positivo ad un conflitto accresce le capacità di tutti di far fronte alle
difficoltà della vita, aumenta la comprensione e l’accettazione reciproca, facilita la comunicazione ed
aumenta l’intimità, l’interdipendenza e l’autostima. Ogni esito negativo porta a maggiori difficoltà. Il
compromesso, però, spesso, nel significato corrente ha un sapore poco piacevole. Non si tratta di arrivare alla
metà nella distanza tra persone (non significa ad esempio fare una settimana al mare ed una in montagna
quando uno vuole andare al mare e l’altro in montagna) ma significa trovare quelle soluzioni intermedie che
gratificano tutti sufficientemente (per tutti i quindici giorni continuando nell’esempio). Di solito è più facile
trovare la semplice metà (o imporsi) ed infatti non tutte le persone imparano a gestire bene i conflitti. Le
persone di solito sono più attratte dal risolvere il più in fretta possibile i conflitti perché sono vissuti come
pericolosi; proprio per questo motivo si alimentano nuovi e più aspri conflitti. Se invece ci si dà il tempo
necessario a trovare soluzioni nuove, anche creative, tutti hanno risultati più soddisfacenti. Ma per far questo
bisogna non temere l’entrare in conflitto. Se si impara a stare nel conflitto, senza averne paura, si possono
trovare soluzioni che aiutano la crescita di tutti. Non semplicemente cedendo (ho vinto io) o restando fermi
sulle proprie decisioni (ho perso io). Tutte le volte che qualcuno perde completamente (e quindi uno vince
completamente) presto o tardi il conflitto tornerà a manifestarsi, in forme più aspre (quindi alla fine si perde
tutti). Tutte le volte che ad un conflitto si trova una soluzione in cui tutti hanno vinto qualcosa, si gettano le
fondamenta per rapporti solidi, caldi e supportivi.

6 Come fronteggiare i conflitti interpersonali


Visto che il conflitto è fondamentale per relazioni sane e rispettose, dobbiamo imparare a fronteggiarlo.
6.1. Cosa genera un conflitto
Una situazione conflittuale tra due persone può essere generata da diverse cause, ed in particolare dalla
presenza di:
1. Soggetti litigiosi: persone che sul piano caratteriale, per propria indole, sono predisposte al conflitto,
ovvero tendono a generare situazioni relazionali di tipo conflittuale, al di là del contenuto di comunicazione
trasmesso

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2. Scarsità di risorse: alcune situazioni di conflitto possono essere generate da una scarsità di risorse (es
guerre civili delle popolazioni africane), ovvero da situazioni in cui una persona necessità di un qualsiasi tipo
di risorsa che però non gli viene data.
3. Lotta di potere: nella relazione tra due persone possono essere distinti due piani: piano verticale, quando
tra le due persone c’è un rapporto gerarchico; piano orizzontale, quando le due persone sono legate da un
rapporto paritario, non gerarchico. La disparità di piano diventa potenzialmente conflittuale quando genera
una lotta di potere in cui uno intende prevaricare l’altro
4. Invasione: il conflitto può essere generato anche dall’invasione da parte dell’altro del proprio ambito
spaziale, di ruolo professionale, ecc., ovvero quando si verifica un’invasione del proprio uovo prossemico e/
o psicologico.
5. Disconferma: il conflitto interpersonale può essere generato anche da un atteggiamento di disconferma
dell’altro, ovvero da un atteggiamento di indifferenza che significa la mancata riconoscenza dell’esistenza
dell’altro
6. Differenza di bilancio: una situazione potenzialmente conflittuale può scaturire quando una persona
presume di aver maturato un credito nei confronti dell’altro che però non gli viene restituito. (Ad esempio:
“con tutto quello che ho fatto io per te….”) Questa situazione è particolarmente pericolosa perché le due
persone possono avere due percezioni diverse rispetto alla propria posizione reciproca.
6.2. Come risolvere il conflitto
Date queste premesse, è importante sottolineare che il conflitto non può essere risolto, bensì gestito e
trasformato in altro, andando ad incidere sulla relazione. A questo proposito si possono utilizzare alcune
strategie:
1.La metacomunicazione: per riposizionare ad un livello di equilibrio i piani relazionali tra due soggetti, si
può decidere di andare oltre al contenuto della comunicazione per spostare la conversazione sul problema di
comunicazione insorto. Ovvero si travalica la situazione per parlare della situazione in sè.
2. Disarmo unilaterale: di fronte ad una persona ‘’armata’’ si può reagire tentando di fargli ‘’posare le armi’’
gettandole per primo, oppure facendo leva su un atteggiamento assertivo.
3. Intervento di una terza persona: alcune situazioni di conflitto possono richiedere, per essere gestite (non
in modo deresponsabilizzante da parte di chiede a un terzo), l’intervento di un soggetto terzo che però per
essere efficace deve possedere due caratteristiche: essere equidistante, ovvero mantenere una distanza
orizzontale uguale tra le due persone in conflitto, ed essere super partes, ovvero mantenere un’uguale
distanza verticale nei confronti delle due persone.
4. Ristrutturazione: di fronte ad un conflitto possono decidere di riprendere la relazione allo scopo di
ristrutturala su piani diversi e più positivi. Rivedo la mia opinione andando incontro a quella dell’altro,
ristrutturo cambiando apparentemente la mia posizione allo scopo di sedare l’aggressività (Es. ‘’Lei ha
ragione, ma...’’)
6.3. Alcuni comportamenti per fronteggiare il conflitto in modo costruttivo
Ecco alcuni comportamenti utili a fronteggiare il conflitto in modo costruttivo e creativo.
Prendiamo tempo
Apprendiamo la capacità di aspettare il momento giusto, di prendere tempo e di evitare le reazioni impulsive.
Tutte le volte che si può evitare una reazione immediata si rafforza in noi la possibilità che una provocazione
possa essere trasformata in un’esperienza di apprendimento dei nostri “meccanismi” interiori.
Essere consapevoli delle proprie emozioni ed esprimerle
Distinguere tra sentimenti e pensieri e non attribuire all’altro la responsabilità di ciò che si sente. Evitare
perciò l’uso di aggettivi che attribuiscono interpretazioni o comportamenti all’altro ed esprimere, invece, i
propri sentimenti.
Esprimere i bisogni che sono all’origine dei sentimenti
Le azioni degli altri possono essere il fattore scatenante, non la causa dei nostri sentimenti, i quali hanno
origine nei nostri bisogni.

Evitare il “muro contro muro”


Questo ci invita a non reagire a ciò che leggiamo come provocazioni, trovando una strada diversa da quella
che ci suggerisce la contrapposizione. Quando c’è tensione il primo passo da fare è abbassarne il livello,
consentire la decantazione, evitare l’avvitamento.
Rispettare i contenuti del conflitto

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Durante una comunicazione conflittuale evitiamo di rimandare il problema ad un quadro generale, ad una
situazione precedente, a un contesto di antipatia o simpatia personale, rimanendo sui fatti concreti che lo
hanno portato alla luce o generato.
Evitare giudizi: sperimentiamo la critica costruttiva e l’empatia.
I giudizi moralistici espressi in seconda persona, che etichettano l’altro e focalizzano l’attenzione sulla
classificazione, l’analisi e la valutazione dei torti, anziché concentrarsi sui bisogni; i confronti negativi,
svalutanti; il rifiuto della responsabilità dei propri atti e sentimenti; le minacce e le pretese in nome del
principio d’autorità, precludono l’ascolto e l’accettazione da parte di entrambe le parti. Giudicare in questi
termini diventa umiliare. In molte occasioni è necessario esprimere un’indicazione, un suggerimento o dare
una disposizione. Come si può fare? Esistono strategie basate sulla critica costruttiva; una modalità di
porgere all’altro osservazioni che mirano al problema e non alla persona in modo da non far sentire l’altro
giudicato. Il giudizio produce reazioni di difesa, resistenza e rifiuto, l’osservazione si limita a descrivere ciò
che accade.
Formulare delle richieste, non delle pretese
Chiedere chiaramente atti concreti, non fare richieste generiche, né pretendere._La comunicazione
nonviolenta comporta, dunque, da un lato, la capacità di esprimere chiaramente ciò che si osserva, si sente, di
cui si ha bisogno, ciò che si vorrebbe, usando il “messaggio-io”, formulando cioè in prima persona le
osservazioni, le richieste (affermazione positiva, assertività);
dall’altro, comporta la capacità di ricevere con empatia le osservazioni, i sentimenti, i bisogni, le richieste
dell’altro (decentramento, ascolto attivo, empatia).
Instaurare le relazioni in modo costruttivo è un’arte complessa che spesso richiede un approccio educativo
attraverso la lettura di testi, il sostegno di una guida competente, dei percorsi educativi mirati che sviluppino
abilità che oltre alla capacità di gestione possono servire come strumento di prevenzione. Viviamo immersi
nella conflittualità e non siamo liberi di scegliere ciò che ci succede, ma sicuramente siamo liberi di scegliere
come relazionarci con ciò che ci accade individuando sempre nuove modalità relazionali, praticabili, efficaci,
soddisfacenti e realisticamente sostenibili. Tutti noi oggi siamo chiamati ad essere dei moderni “alchimisti”,
capaci di prendere il conflitto - spesso doloroso, pesante, oscuro, qualcosa di cui liberarsi - per trasformarlo
in qualcosa di altro, notevolmente più prezioso.
3) Fare molte domande
Direttamente collegato all'ascolto, vi è questo aspetto: fare più domande che affermazioni pure e semplici.
Fare domande discrete, non curiose od inquisitorie, implica che volete davvero comprendere quanto l'altro vi
dice. Che siete interessati sinceramente a lui. E in compenso, avrete molte più informazioni che potranno
rivelarsi utili nel dirimere la vostra questione.
4) Rispettare le idee e le esigenze altrui
Cercare di comprendersi e di venirsi incontro, riconoscendo che anche l'altro interlocutore ha dei diritti ed
una sua dignità. Mostrando rispetto e voglia di aiutarsi vicendevolmente crea un clima in cui è più facile
trovare soluzioni che vadano almeno "abbastanza bene" per tutti. Questo è un compromesso sano,
funzionale. Non è vigliaccheria, non è cedere per cedere: è rispetto, comprensione, amore.

6.4. La via maestre per risolvere il conflitto: la negoziazione


La negoziazione è “un processo di interazione tra due o più parti in cui si cerca di stabilire cosa ognuna
dovrebbe dare e ricevere in una transazione reciproca finalizzata al raggiungimento di un accordo
mutuamente vantaggioso”. (Rubin, Brown 1975). Sarebbe bello poter vivere in perfetta armonia ed in
completo accordo con tutti, sempre, in ogni occasione. Ma questo, lo sappiamo bene, è utopia. La vita di
relazione è una vita di incontri e di scontri; talvolta di conflitti, anche se non necessariamente nel senso
negativo del termine: spesso, si tratta solo di differenze di vedute, di proposte, di attività di iniziative.
L'enorme varietà delle nostre prospettive può rivelarsi una vera fortuna, perché ci si accorge di punti di vista
o di possibilità che la nostra rigidità interiore può non aver colto. Questa situazione la possiamo affrontare in
due modi: - o cercar di vincere le idee ed i punti di vista dell'altro - oppure giungere a dei sani compromessi:
venendoci incontro perché ciascuno abbia il massimo vantaggio disponibile, ed il minimo di perdite.
Insomma, non "io vinco-tu vinci", ma "noi", insieme, vinciamo. Questo venirci incontro è appunto il
compromesso o - se vogliamo - la negoziazione. La negoziazione è una realtà abituale di tutte le persone che
convivono e che interagiscono tra di loro. Il negoziare, sostanzialmente, è il "saper trattare" con gli altri. La
capacità di saper stare in buona relazione è oggigiorno diventata più importante della abilità tecnica specifica

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(che si può apprendere più facilmente). La negoziazione avviene ogni volta che due o più persone devono
conciliare le proprie esigenze. Gli ambiti della negoziazione sono i più disparati: i rapporti in famiglia,
gruppi vari, dirigenti, dipendenti, soci, organizzazioni socio-politiche... Il compromesso non gode di buona
fama nella nostra cultura: "giungere a compromessi", o all'opposto, "non scendere a compromessi", si
riferiscono ad atteggiamenti molto precisi e significativi. Il tipo che "non scende a compromessi" è un tipo
tutto d'un pezzo, coerente, deciso, amante della chiarezza e della trasparenza. Ma se vogliamo anche vedere
l'altro aspetto della medaglia è una persona che può facilmente scivolare nell'intolleranza. All'opposto, il tipo
che scende a compromessi, è una persona non coerente, non ferma e convinta delle proprie posizioni. In
realtà, per poter vivere bene, in armonia con gli altri, è necessario imparare a mediare, a giungere a dei sani
compromessi, a negoziare. La negoziazione non è:
F 0La
B 7 persuasione, intesa come prepotenza, cioè il voler convincere a tutti i costi l'altro della bontà delle

nostre prospettive.
F 0La
B 7 suggestione, una specie di ipnosi, che non lascia il partner libero di scegliere.

F 0L'imbonimento.
B7

F 0L'inganno
B7 o la classica "fregatura".

La negoziazione è giungere ad un accordo tra le parti in discussione: un accordo che soddisfi il più possibile
gli interlocutori, con un minimo di spesa e costo personale. Potremmo dire che talora nessuno è pienamente
soddisfatto. Ma potremmo anche dire che nessuno è davvero insoddisfatto. Non c'è un vincitore e non c'è un
vinto.
6.5. Un esempio di conflitto: il dilemma del prigioniero
Il dilemma del prigioniero s’ispira ad una delle più famose formulazioni della Teoria dei Giochi. Nata dalla
mente di un matematico, Von Neumann, e di un economista, Morgenstern, e approfondita dal premio Nobel
John Forbes Nash jr (a cui è stato dedicato il film A Beautiful Mind), la Teoria dei Giochi è divenuta la
scienza del prendere decisioni in un ambiente competitivo, una raccolta di modelli con regole semplificate
delle più grandi competizioni quotidiane. I temi centrali introdotti dal geniale matematico, la cooperazione e
il conflitto, riassumono le condizioni interne in cui spesso ci ritroviamo nell’ambito di situazione ambigue in
cui è necessario prendere una decisione.
Il dilemma può essere descritto come segue. Due criminali vengono accusati di aver commesso un reato. Gli
investigatori li arrestano entrambi e li chiudono in due celle diverse, impedendo loro di comunicare. Ad
ognuno di loro vengono date due scelte: confessare l'accaduto, oppure non confessare. Viene inoltre spiegato
loro che:
1. se solo uno dei due confessa, chi ha confessato evita la pena; l'altro viene però condannato a 7 anni di
carcere.
2. se entrambi confessano, vengono entrambi condannati a 6 anni.
3. se nessuno dei due confessa, entrambi vengono condannati a 1 anno, perché comunque già colpevoli di
porto abusivo di armi.
4. La miglior strategia di questo gioco non cooperativo è (confessa, confessa). Per ognuno dei due lo scopo è
infatti di minimizzare la propria condanna; e ogni prigioniero:
confessando: rischia 0 o 6 anni
non confessando: rischia 1 o 7 anni

“L’AGGRESSIVITÀ E LE RELAZIONI SOCIALI” ’

1 Premessa
Con questa lezione si vuole affrontare il tema dell'aggressività secondo l'ottica della psicologia sociale.
L'intento è quello di fornire un quadro informativo generale che tratti il tema dell'aggressività a partire dalle
diverse spiegazioni che gli studiosi hanno dato. Le domande a cui si vuole dare risposta sono:
F 0Che
B7 cos'è l'aggressività?
F 0L’aggressività
B7 è innata o appresa?
F 0L’aggressività
B7 è istintuale, situazionale o opzionale?
F 0Esistono
B7 basi biologiche dell'aggressività?

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L'aggressività è presente differentemente in maschi e femmine?
F0B7

Cosa genera l'aggressività?


F0B7

A una prima definizione di aggressività seguirà una trattazione delle basi biologiche attraverso gli studi
effettuati in ambito genetico, anatomico, e fisiologico. Saranno poi riportati modelli teorici di riferimento che
negli anni hanno approfondito la tematica, con l’aggiunta di esperimenti esemplificativi delle diverse teorie.

2 Che cos'è l'aggressività?


È aggressivo ogni comportamento il cui scopo è arrecare sofferenza e danno a terzi. Si caratterizza per la
presenza di intenzionalità del danno arrecato. Non sono identificabili come aggressive tutte quelle azioni che
arrecano danno in modo non intenzionale, o che causano sofferenza come effetto secondario dell'aiutare o
soccorrere qualcuno come nel caso delle cure mediche. Sono altresì da considerarsi aggressivi tutti quei
comportamenti che seppure non arrecano effettivamente un danno vengono agiti con l'obiettivo di ledere
fisicamente, economicamente o psicologicamente ad altri. All'interno della generale definizione di
aggressività si possono riscontrare differenze se rapportate al regno animale ed umano. Gli animali infatti
manifestano aggressività sociale contraddistinta da una modalità manifesta e aggressività silenziosa, che
agiscono nella funzione predatoria dove tendono a celare la loro presenza alla preda. Ad ognuna di questi due
tipi di aggressività corrisponde l'attivazione di specifici centri neuronali. Gli psicologi hanno riscontrato
nell’essere umano la presenza di due diversi tipi di aggressività che hanno chiamato ostile e strumentale.
L'aggressività ostile nasce dall'odio, ha come fine il ferire e danneggiare, viene solitamente espressa “a
caldo” e si riscontra principalmente in presenza di una forte attivazione emozionale.
L'aggressività strumentale procura dolore con lo scopo di raggiungere altri obiettivi, viene solitamente
premeditata come negli atti terroristici e nelle guerre, dove viene asservita al raggiungimento di scopi
politici, economici, religiosi ecc..
La maggior parte degli omicidi rientra nella categoria dell'aggressività ostile, circa la metà scaturisce per liti,
il resto da motivi passionali, o da uso/abuso di alcool e narcotici ( Ash 1999). La natura emotiva di tali
omicidi, spiega come la scelta della pena di morte in 110 nazioni non sia stato strumento efficacia di
dissuasione dal commettere tale reato ( Costanzo 1998, Wilkes 1987). Alcuni omicidi, come alcuni mezzi di
coercizione sessuale sono comunque da considerarsi strumentali (Felson 2000).

3 Le basi dell'aggressività
3.1. La teoria istintuale tra psicoanalisi e psicologia evoluzionista
S. Freud parlava dell’esistenza di un istinto vitale, chiamato Eros, e di un istinto di morte ,chiamato
Thanatos, che è alla base dell’aggressività. Secondo un modello idraulico F. sostiene che questa energia
tende ad accumularsi e deve trovare sfogo, altrimenti porta alla malattia. Attraverso la società l’individuo
può sublimare l’istinto e volgere l’energia distruttiva verso un comportamento accettabile o utile. Secondo il
modello etologico l'aggressività è un istinto atto a preservare la sopravvivenza della specie. L'animale
combatte per il cibo, per la messa in fuga dell'avversario, e per la competizione sessuale, mentre non sembra
possedere le connotazione di ostilità propria del genere umano. K. Lorenz (1903-1989), uno dei fondatori
dell'etologia e premio Nobel nel 1973, ha studiato le abitudini comportamentali degli animali e ha elaborato
una teoria estesa al genere umano. Egli distingue componenti innate e componenti apprese del
comportamento. La selezione naturale avrebbe determinato caratteristiche fisiche per la sopravvivenza
mentre le componenti apprese sarebbero alla base di caratteristiche psicologico - comportamentali. Come
Freud anche Lorenz per spiegare l'aggressività recupera il concetto di istinto ma mentre in Freud
l'aggressività è il conflitto tra pulsione di vita e pulsione di morte, in Lorenz l'aggressività è considerata
l'istinto primario che negli animali ha valore esclusivamente per la sopravvivenza. Altri autori come Tinberg
(1953) e Van Lawich, ad esempio, valorizzano maggiormente l'ambiente e considerano l'aggressività non è
solo un istinto proveniente dall'interno ma anche una risposta a stimoli ambientali. La posizione di Lorenz fu
criticata da studiosi, come Laborit (1970, 1973) secondo il quale usare ipotesi, dati e modalità di
osservazione del comportamento animale per riportarlo a quello umano sia un procedimento spesso rischioso
e dove possono non essere adeguatamente valutati con il loro peso altri numerosi ed importanti aspetti quali
i meccanismi biochimici, neurofisiologici e neuroanatomici alla base dei comportamenti tra specie diverse.
La teoria istintuale non è in grado di spiegare i diversi livelli di aggressività da individuo ad individuo e da
cultura a cultura. Tuttavia come sottolineano gli psicologi evoluzionisti Buss e Shackelford il comportamento

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aggressivo può essere considerato un retaggio culturale arcaico che sin da epoche remote ha assolto ad uno
scopo adattivo. Questo infatti rappresentava una strategia per acquisire risorse, per difendersi dagli attacchi ,
per intimidire maschi rivali ed evitare tradimenti sessuali. Secondo gli autori la funzione adattiva
dell’aggressività spiegherebbe i livelli di aggressione elevati tra maschio e maschio nel corso della storia
umana, maggiormente della teoria dell’accumulo proposto dagli studiosi precedenti. Moyer (1968, 1976) ha
descritto alcuni tipi di aggressività: predatoria, competitiva, difensiva, territoriale. Questi diversi tipi di
comportamento aggressivo, non sono presenti in tutti gli animali nella stessa misura, ma differiscono anche
tra individui della stessa specie, anche in base all'età ed al sesso. Mentre negli animali il comportamento
aggressivo appare innato ed istintuale esplicandosi con schemi di condotta stereotipati e ripetitivi, nell'uomo
l'istintività di tale comportamento appare modulata dai centri del pensiero che portano l'uomo ad agire
secondo valori morali e sociali.
3.2. L’aggressività nell’età evolutiva
Nel bambino l'aggressività appare sin dall'infanzia ed assolve alla funzione di acquisizione di autonomia,
utile al distacco dalla protezione delle figure genitoriali. Il bambino, attraverso l'aggressività, impara ad
affrontare il mondo, ad interagire con oggetti e persone per conoscere e gestire ciò che lo circonda. Il
bambino può quindi interagire con gli oggetti in maniera aggressiva, anche rompendoli, con la finalità di
capire come sono fatti e come funzionano. Nella prima infanzia l'aggressività si sviluppa in modo graduale
ed appare collegata a caratteristiche di genere ed al temperamento (Buss e Plomin, 1975). Nel corso della
crescita, con l'interazione sociale il bambino progressivamente impara che può essere aggressivo in vario
modo e che non tutte le manifestazioni aggressive sono permesse. Nell'adolescenza, l'aggressività si carica di
molteplici significati, adattivi e non, che si completeranno nell'età adulta. I comportamenti aggressivi
possono essere canalizzati in interessi della vita quotidiana andando ad incentivare la competizione come
accade nello sport, nel lavoro ecc..

4 Il contributo della biologia


La biologia ha dato un importante contribuito allo studio del comportamento aggressivo tramite ricerche sul
comportamento animale ed umano. Gli etologi hanno definito l'aggressività una modalità comportamentale
necessaria non solo per la sopravvivenza del singolo e della specie, ma per l'evolversi di entrambi.
4.1. La ricerca genetica
A partire dal XIX secolo gli studiosi hanno cercato di individuare le basi genetiche dell'aggressività.
Lombroso, fondatore dell'antropologia criminale, fortemente influenzato dalla fisiognomica, dal darwinismo
sociale e dalla frenologia, ha ricercato l'esistenza del “gene del male”, asserendo che esistono peculiari
caratteristiche anatomiche in soggetti che hanno una innata inclinazione al male. Sebbene siano numerosi, gli
studi che tentano di provare l'ereditarietà genetica delle condotte aggressive nell'uomo, ad oggi i risultati
appaiono frammentari e limitati; tuttavia la ricerca su gemelli, su persone adottate e su alcune sindromi
psichiatriche nelle quali il comportamento aggressivo è molto frequente, tende ad evidenziare una
vulnerabilità genetica (Elliott, 1990). Da tempo è stato visto come in alcuni casi le alterazioni dei cromosomi
sessuali siano in stretta relazione con i comportamenti aggressivi in soggetti con il genotipo XYY a 47
cromosomi, che vengono descritti come violenti, impulsivi e tendenti ad azioni criminose. Hook (1973)
postula che, a questo proposito l'aspetto più importante non sia l'aumento della aggressività quanto un
aumento della impulsività. Condotte aggressive aspecifiche e più rare sono state descritte anche nella
Sindrome di Klinefelter, che colpisce i soggetti di sesso maschile, con cariotipo XXY, caratterizzata peraltro
da atrofia testicolare e da alcuni tratti femminilizzanti. Il comportamento aggressivo può essere legato al
notevole ritardo mentale che questi soggetti presentano fino dalla nascita ed alla presenza di vulnerabilità
emotiva, iperattività, irritabilità, scoppi di rabbia e bassa soglia di frustrazione. L'aggressività di questi
soggetti , principalmente in età infantile e talvolta adolescenziale, è caratterizzata da una aggressione
indiscriminata contro tutto e/o tutti quelli che tendono ad avvicinarsi ed entrare in contatto con loro. D'altra
parte il ritardo mentale viene rilevato nell'80% dei maschi con anomalie del cromosoma X, mentre solo un
terzo delle femmine colpite da questa alterazione cromosomica presenterebbe un ritardo mentale. I fattori
genetici sembrano particolarmente importanti nel disturbo del deficit dell'attenzione, in cui i soggetti
presentano iperattività, impulsività, associate ad un comportamento aggressivo (Elliot, 1982). I fattori
genetici sembrano importanti anche in alcune sindromi psichiatriche dove condotte violente ed asociali sono
l'aspetto prevalente, come nel disturbo da discontrollo episodico degli impulsi e nel disturbo antisociale di
personalità (Elliot,1990). In questo ultimo caso tuttavia i risultati non sono univoci e numerosi ricercatori a

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proposito della personalità antisociale evidenziano una interazione tra fattori biologici ed ambientali
(Schulsinger e Coll., 1977; Reid, 1978).
4.2. Le strutture anatomiche
Il notevole progresso nella conoscenza neuroanatomica, alla base del comportamento aggressivo, si è basata
su studi di fisiologia sperimentale effettuati su animali (Moruzzi, 1975), sui risultati delle osservazioni dirette
ed indirette scaturite dal lesione chirurgica e sulla stimolazione elettrica di alcune aree cerebrali di pazienti
con gravi patologie a fini terapici. I sistemi neuronali implicati sono molteplici e situati principalmente nel
sistema limbico e nel tronco dell'encefalo (Fuster, 1980; Volavka V.,1995). Studi su animali, ed in particolare
sulle scimmie, hanno evidenziato come l'amigdalectomia riduca la risposta a stimoli minacciosi (Kapp e
Coll., 1992);e d'altra parte numerose prove cliniche hanno confermato l'importanza dell'amigdala come
centro interessato nella mediazione dell'ansia e della paura, sentimenti che sono alla base dei comportamenti
di attacco e fuga sia negli animali che dei comportamenti aggressivi dell'uomo. L'amigdalectomia bilaterale
ad esempio ha ottenuto nell'85% dei casi trattati in uno studio la drastica riduzione di comportamenti violenti
(Narabayashi e Coll., 1963). In altri casi la presenza di lesioni dei nuclei amigdaloidei era associata a
comportamenti violenti (Tonkonogy,1991). Come tuttavia precisa Benedetti (1969): "il fatto che l'amigdala,
le fibre amigdalo-ipotalamiche e la regione laterale ipotalamica mostrano tutte, se pure in grado diverso, una
importanza cruciale nei riguardi di questo siano implicate nel comportamento (aggressivo) ci mostra come
esso sia legato alla integrità di un circuito più che di un vero e proprio centro nel senso classico della parola.
Esiste in complesso una regione che inizia nel telencefalo, continua nel sistema limbico attraversa tutto
l'ipotalamo e finisce nel mesencefalo, dalla cui eccitazione risulta un comportamento aggressivo e di
lotta...". L'ipotalamo è connesso direttamente e/o indirettamente alle manifestazioni fisico-vegetative delle
emozioni ed è quindi capace di modulare gli stati fisiologici associati alla paura, rabbia, fame, sete, sesso,
piacere. Le alterazioni comportamentali associate con la funzione ipotalamica sono connesse con le
espressioni di rabbia ed aggressività e paura in risposta alle situazioni di stress, di pericolo, o di difesa. Altre
indicazioni sono state fornite da numerose osservazioni in pazienti con lesioni cerebrali localizzate, e/o in
soggetti affetti da epilessia, encefalite, traumi cranici, tumori cerebrali (Volavka J.,1995).
4.3. Gli ormoni sessuali
Gli ormoni più frequentemente studiati come modulatori dei comportamenti aggressivi nell'uomo sono quelli
sessuali e steroidei in genere. Il rapporto tra ormoni ed aggressività risulta complesso e non completamente
chiarito (Wilson e Herrnstein, 1985). Le ricerche neuroendocrinologiche hanno dato un importante ruolo al
testosterone e agli androgeni in generale nella presenza di una maggiore aggressività maschile, mentre
l'estradiolo è stato considerato l'inibitore per eccellenza dell'aggressività del genere femminile, solitamente
considerato più docile rispetto al maschile. La somministrazione di testosterone effettuata in svariati studi su
animali ed anche sull'uomo ha comportato un aumento di aggressività in entrambi i sessi, mentre alla
castrazione nel sesso maschile ha fatto seguito una riduzione della spinta aggressiva; inoltre è stato
riscontrato un più alto livello ematico di testosternoe in donne violente rispetto a quelle non violente. (Ehlers
e Coll., 1979). L'APA nel 1994 ha riconosciuto il disturbo disforico premestruale, caratterizzato da labilità
affettiva, sentimenti di rabbia ed ostilità e sintomatologia neurovegetativa associata. Durante la settimana
premestruale risultano più bassi i livelli di progesterone e di estrogeni. Recenti studi su diverse specie
animali, tuttavia, hanno dimostrato come questa relazione non sia cosi lineare ed automatica. Si è visto che
gli ormoni sessuali possono avere effetti diversi sia su membri di sesso opposto sia su membri dello stesso
sesso ma appartenenti a specie differenti; questi effetti cambierebbero inoltre, in rapporto a periodi della vita
e risentirebbero dell'interazione con altri ormoni quali adrenalina e noradrenalina; il problema rimane
pertanto controverso (Money e Coll., 1972; Van de Poll e Coll., 1981).
4.4. I neurotrasmettitori
Numerosi studi, da diversi anni, ricercano il ruolo dei neurotrasmettitori nei comportamenti aggressivi. I
neurotrasmettitori sono sostanze chimiche che permettono il passaggio dell'informazione da neurone a
neurone, e costituiscono la base della funzionalità cerebrale strettamente collegata ai molteplici fenomeni
biochimici, psicopatologici e comportamentali dell'individuo. Studi sugli animali hanno evidenziato come
l'aggressività venga favorita da neurotrasmettitori quali la acetilcolina, la dopamina e la noradrenalina mentre
una azione inibente viene svolta dalla serotonina e dal GABA (Elliot, 1990). Un ruolo particolare spetta alla
noradrenalina (che svolge un'azione favorente i comportamenti aggressivi) ed alla serotonina (azione
inibente) (Brown e Coll., 1979). Un riscontro di queste osservazioni nasce a livello clinico quando
constatiamo, ad esempio, l'azione antiaggressiva di composti quali i sali di litio che sembra essere

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determinata dalla attività antinoradrenergica dei sali stessi e dall'altra all'azione bloccante il reuptake della
serotonina. I continui progressi in campo biochimico e neurofisiologico consentiti da sempre più
perfezionate tecniche radioimmunologiche ed immunoistochimiche hanno inoltre valorizzato il ruolo dei
neuropeptidi (colecistochinina, CCK ) e degli oppioidi.

5 L’aggressività mediata da fattori interni in risposta a situazioni esterne o sociali


All’interno di questa prospettiva vengono analizzati i fattori interni che mediano l’aggressività (la
frustrazione, l’eccitazione o i vissuti emotivi connotati negativamente)
5.1. La teoria della frustrazione aggressione
La teoria della frustrazione-aggresione di Dollard e Miller (1939) è una delle prime teorie psicologiche
sull’aggressività. Secondo gli autori “la frustrazione conduce sempre a qualche forma di aggressività”.
Quando si parla di frustrazione si intende la situazione psicologica di colui che non ha potuto raggiungere un
obiettivo. La frustrazione può quindi essere legata ad un’aspettativa non realizzata, ad una promessa non
mantenuta, ecc. Naturalmente cresce di intensità per quanto è maggiore l’investimento e quindi la
motivazione a raggiungere lo scopo.
F 0In
B 7 un esperimento del 2001 di Brown e coll., interrogarono i passeggeri di un traghetto britannico diretto

in Francia. Dalle interviste risultò un maggiore livello di aggressività in corrispondenza del giorno in cui le
imbarcazioni dei pescatori francesi avevano occupato il porto in segno di protesta, impedendo così le
regolari partenze. In quell’ occasione, ostacolati dal raggiungimento del loro obiettivo, era più facile che i
passeggeri condividessero gli insulti rivolti ad un francese che aveva semplicemente rovesciato un caffè.

Inizialmente la teoria considerava la presenza di una causalità univoca tra frustrazione e aggressività,
successivamente tale posizione radicale fu ammorbidita considerando la frustrazione come sufficiente ma
non necessaria al verificarsi di comportamento aggressivo. Spesso l’energia aggressiva non viene direzionata
direttamente contro ciò che l’ha generata, in quanto le persone imparano ad inibire le ritorsioni dirette,
soprattutto quando genererebbero un danno personale o sociale. L’aggressività può infatti essere “dislocata”
su altri obiettivi. Per dislocazione si intende infatti il dirigere l’aggressività verso un obiettivo diverso da ciò
che ha originato la frustrazione . Si impara a inibire le ritorsioni dirette, soprattutto quando altri potrebbero
disapprovarci o punirci, e quindi a trasferire l’aggressività su un bersaglio più sicuro e socialmente
accettabile. Per meglio comprendere il concetto della dislocazione basta pensare all’aneddoto dell’uomo che,
umiliato a lavoro, tornando a casa, maltratta la moglie, la quale a sua volta sgrida i bambini, che poi
picchiano il cane, che morde il postino, che torna a casa e maltratta la moglie ecc. Un esperimento di
Vasquez e colleghi del 2005, descrive il fenomeno della dislocazione dell’aggressività.
F 0Esperimento:
B7 Uno sperimentatore dell’ Università della Southern California, denigrò un gruppo di
studenti per i risultati ottenuti ad un test che consisteva nella risoluzione de un anagramma. Un altro
gruppo, il gruppo di controllo, non ebbe nessuna provocazione. Poco dopo ai due gruppi si chiese di
decidere per quanto tempo, uno studente che li insultava, avrebbe dovuto immergere la mano in acqua
gelida mentre completava una data attività. Anche se lo studente, esprimeva una offesa di poco conto,
partecipanti, precedentemente provocati dallo sperimentatore, reagivano con un comportamento punitivo
maggiore rispetto a quelli che non avevano ricevuto alcuna provocazione.

Tale esperimento spiega quindi come la dislocazione dell’aggressività consenta di sfogare la rabbia
precedentemente accumulata, direzionandola verso un altro obiettivo, diverso.
È importante sottolineare, che la frustrazione può non essere collegata alla deprivazione. In più studi si è
visto come i livelli di violenza non siano direttamente correlati a stati di deprivazione economica sociale. Nel
1969 la Commissione nazionale americana sulle cause e sulla prevenzione della violenza concluse che non è
tanto la privazione quanto il progresso economico a poter addirittura aumentare il senso di frustrazione e la
conseguente escalation di violenza, nell’ottica che la frustrazione scaturisce dallo scarto esistente tra
aspettative e obiettivi realmente raggiunti. Quando ci si paragona agli altri rispetto a qualità lavorativa e di
vita in generale, il proprio livello di soddisfazione risulta indebolito a causa della “deprivazione relativa” ;
questi sentimenti spiegano perché in comunità in cui sia presente una forte disparità reddituale la felicità
tende ad essere minore e la percentuale di crimini maggiore rispetto a società con standard di vita più bassi.
Oggi una possibile fonte di frustrazione sembra essere determinata dalla ricchezza veicolata e raffigurata nei
programmi televisivi.

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5.2. Il modello cognitivo-neoassociazionista
Secondo il modello cognitivo-neoassociazionistadi di Berkowitz gli antecedenti delle condotte aggressive
sono rintracciabili nei vissuti di rabbia correlati a situazioni di malessere esperite dall'individuo. I vissuti
emotivi negativi possono generare comportamenti di fuga o di aggressione. I primi sono originati dalla paura
i secondi dalla rabbia. La prevalenza di una risposta sull'altra è determinata dalla combinazione di fattori
genetici, situazionali e dagli apprendimenti. Se pensiamo per esempio a bambini cresciuti in un ambiente
violento, in presenza di stimoli aggressivi, possono reagire perpetuando e dislocando il comportamento su
altri o allontanandosi dallo stimolo. Le reazioni all'esperienza negativa, pensieri, ricordi, attivazioni
psicomotorie e neurofisiologiche, si collegano tra di loro in una rete associativa che si attiva ogni qual volta
la persona vive una situazione negativa analoga o similare. Il limite di questa teoria è quello di attribuire ai
processi cognitivi superiori un contributo limitato nella costruzione della risposta aggressiva.
Risposte aggressive potrebbero dipendere da non realizzazione, mancanza di senso, non sentirsi visti e
considerati

5.3. La teoria del trasferimento dell’eccitazione


Zillmann nel 1979 con la teoria del trasferimento dell'eccitazione assume una prospettiva simile a quella di
Berkowitz riconoscendo però un contributo fondamentale all’interpretazione cognitiva dell’eccitazione nel
provocare l’aggressività. Secondo l’autore, è l’interpretazione che i soggetti danno all’attivazione di uno
stato emotivo a determinare una reazione aggressiva da parte loro. La teoria del trasferimento
dell’eccitazione sostiene che le persone possono trasferire l’attivazione residua causata da una situazione
vissuta a una nuova condizione attivante. L’eccitazione emotiva, presente in una particolare circostanza,
capace di attivare una reazione in una situazione completamente diversa, è chiamata dislocazione
d’emozione. Ad esempio, i residui dell’attivazione sessuale possono essere trasferiti in modo da influenzare
il comportamento aggressivo.
5.4. L’approccio comportamentista (Il condizionamento-operante)
Una risposta aggressiva emessa dal soggetto può essere mantenuta come stile abituale d’interazione, nel
momento in cui permette di raggiungere un obiettivo desiderato.
In questo senso, allora, molti comportamenti aggressivi vengono rinforzati, più o meno consapevolmente,
dall’ambiente di vita del soggetto. È possibile che l’atto aggressivo del soggetto procuri direttamente una
conseguenza premiante. Ad esempio, un bambino, mostrandosi aggressivo verso il fratello, ottiene da
quest’ultimo obbedienza.
Il comportamento aggressivo può inoltre essere rinforzato, nella misura in cui permette di evitare una
conseguenza sgradita. Così, ad esempio, l’aggressività verbale del bambino potrebbe indurre il genitore a
rinunciare ad assegnargli un particolare compito. Chiaramente, il bambino avrà appreso in tal modo
un’ottima strategia per evitare incarichi indesiderati.

6 Aggressività come comportamento sociale


6.1. La teoria dell’apprendimento sociale
Albert Bandura nel 1973 teorizza la teoria dell’apprendimento sociale e postula che l'aggressività può
essere appresa per imitazione osservando i comportamenti degli altri. Come per la maggior parte dei
comportamenti sociali, anche gli atteggiamenti aggressivi possono essere appresi osservando altri che li
agiscono e osservando soprattutto le conseguenze che quei comportamenti generano.
F 0Esperimento
B7 del pupazzo Bobo

Un bambino in età prescolare è impegnato in un'interessante attività artistica. In una parte della stanza in
cui si trovano scatole per le costruzioni, una mazza ed un pupazzo di gomma gonfiabile di nome Bobo,è
presente un adulto. Dopo aver lavorato con le costruzioni, l'adulto si alza e comincia a picchiare il pupazzo
Bobo con la mazza, dandogli calci e gridando “colpiscilo sul naso”, “buttalo giù”, ecc.. Dopo aver assistito
alla scena , il bambino viene portato in una stanza diversa dove ci sono giocattoli che attraggono la sua
attenzione. Lo sperimentatore dopo qualche minuto dice che quelli sono i migliori giocattoli che possiede e
che sono destinati ad altri bambini. Il bambino, viene quindi condotto in una stanza dove ci sono giocattoli
ideati per il gioco violento, per il gioco non violento, il pupazzo Bobo e una mazza. I bambini che non
avevano assistito al modello aggressivo, anche se frustrati raramente mostravano un tipo di gioco ed un
linguaggio aggressivo; diversamente i bambini che avevano assistito all'esempio dell'adulto, con maggiore

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probabilità imitavano le azioni dell'adulto inveendo con la mazza sul pupazzo. L'aver osservato il
comportamento aggressivo dell'adulto aveva ridotto la loro inibizione e aveva prodotto un apprendimento
per osservazione.
Bandura ritiene che la famiglia, la cultura di appartenenza e anche i mass media espongano le persone a
modelli aggressivi. Importante all'interno della sua teoria è il concetto di rinforzo vicariante. Il soggetto
osservando che determinati comportamenti, agiti da altri, vengono rinforzati, può inferire che questi siano
accettati e perfino desiderabile in una determinata situazione, con la conseguente tendenza all’imitazione
degli stessi. Analogamente l’osservazione di un comportamento punito tende a far evitare di imitare lo stesso
comportamento.
6.2. Il modello sociologico
Quando studiamo l'influenza dei fattori socio-culturali sui comportamenti aggressivi, il campo di indagine si
dilata fino ad assumere contorni sfumati, imprecisi dove spesso rischiamo di confondere opinioni personali
con dati oggettivi e/o inconfutabili; d'altra parte le anomalie neurobiologiche non sono sufficienti a spiegare
la "cultura della violenza" che esiste in certi strati sociali di molti paesi, nè dall'altra a spiegare come in
piccole comunità religiose e/o laiche esista una insignificante frequenza di atti violenti. La metodologia di
studio si differenzia sostanzialmente da quella applicata sul singolo ed in questo campo si osservano ed
enfatizzano le dinamiche relazionali tra individuo e gruppo, tra gruppo e gruppo. Il problema "essenziale"
rimane tuttavia, quello affrontato dagli altri tipi di approccio, vale a dire "quanto di innato" e "quanto di
reattivo e/o acquisito" possiamo riconoscere nel comportamento aggressivo dell'uomo. Se da una parte, ad
esempio, le teorie psicodinamiche hanno privilegiato il primo aspetto, sociologi e filosofi hanno messo
l'accento sulle componenti sociali quali fattori determinanti i comportamenti violenti. Nel modello
sociologico si è propensi a spiegare l'aumento dei tassi di violenza con la crisi di valori "coesivi" quali quelli
della famiglia, quelli etici e religiosi. La caduta di modelli esistenziali ai quali ispirarsi, il rapido
cambiamento dei modi di pensare e di vivere comporta una precarietà anche dei parametri di misura e
riferimento tanto che "quello che è valido oggi potrebbe non esserlo domani" e quindi non conviene riferirsi
esclusivamente ad uno schema, sia questo buono o cattivo. I sempre più veloci mutamenti economici e
politici incidono sul continuo divenire della struttura della società; la competitività e la ricchezza, assunte a
valore positivo e di gratificazione esistenziale, la disponibilità di armi e droghe, completano il quadro come
fattori di rischio per le numerose azioni violente e di sopraffazione. D'altra parte non possono essere
sottovalutate le condizioni di sopportazione del singolo che può trovarsi ad agire in situazioni estreme per
difesa della propria dignità e sicurezza vitale.
6.3. Teoria dell’obbedienza di Milgram (1963)
Il comportamento aggressivo può essere indotto per mera obbedienza. L’obbedienza è una particolare forma
di conformità che si esplicita quando tra la fonte di influenza e il bersaglio vi è una differenza di status, di
tipo qualitativo. Sulla base dell’autorità che gli è riconosciuta un individuo esercita in modo esplicito e
diretto una pressione su altri individui. Il comportamenti di obbedienza diventa l’esito delle pressioni
esercitate dal contesto e dalle situazioni in cui le persone agiscono. Vi è quindi uno “stato eteronomico”,
inteso come stato mentale che dispone un individuo a orientare il proprio comportamento secondo le
disposizioni date da altri di status superiore. La persona che agisce non percepisce su di sé la responsabilità
del proprio operato, e si sente solo uno strumento che esegue ordini impartiti da altri. Un esempio possono
essere i campi di sterminio nazisti.

6.4. L'esperimento di Zimbardo (teoria della deindividuazione 1971-2007)


Il ricercatore attraverso una serie di esperimenti, studia l’innesco di modelli comportamentali aggressivi
indotti da dinamiche di gruppo (senso di appartenenza, distinzione in-group- out-group, norme di gruppo,
diffusione di responsabilità); elementi situazionali ( anonimato, ridotta prospettiva temporale, contesto
elicitante violenza). La teoria della deindividuazione spiega l’aggressività in termini di riduzione del
controllo sul comportamento individuale indotto dai fattori sopraindicati. Un soggetto per il solo fatto di
essere inserito all’interno di un gruppo, la cui norma condivisa è quella dell’aggressività, riduce fino ad
annullare l’autopresentazione e la responsabilità delle proprie azioni. Secondo lo psicologo persone
considerate umane e controllate possono diventare disumane se la loro condizione prevede l’esercizio del
potere. Per verificare la sua ipotesi, nel 1973 egli compì un notissimo esperimento all’interno della Stanford
University. Simulò con grandissima accuratezza una realtà carceraria e chiese la collaborazione di alcuni
volontari che assumevano, a caso (mediante un sorteggio), il ruolo di carcerieri o prigionieri. Tutti i

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volontari, dietro promessa di un compenso, accettarono l’incarico. Zimbardo e i suoi collaboratori curarono
attentamente la scenografia e i costumi. I secondini indossavano uniformi simili a quelle dei militari,
portavano occhiali ed erano muniti di chiavi, manganelli e fischietti. I prigionieri indossavano dei camicioni
con un numero di riconoscimento; avevano il capo coperto da un sacchetto di carta e le caviglie legate con
catene. Gli uni e gli altri, ben presto, dimentichi della simulazione, si calarono perfettamente nella parte. In
particolare il comportamento dei secondini fu brutale ed offensivo. Compivano violenze assolutamente non
richieste dagli sperimentatori e finirono per non riuscire più a controllare la loro aggressività. Per questo
motivo l’esperimento fu sospeso prima del previsto. L’ipotesi di Zimbardo fu confermata: sono le esigenze
dell’istituzione e le aspettative del ruolo di guardia carceraria a indurre i secondini a mostrarsi violenti e ad
abusare del potere. Inoltre, essendo muniti di occhiali e avendo a che fare con prigionieri mascherati, gli uni
e gli altri non erano riconoscibili, per cui era come se nessuno di loro avesse più un’identità personale. Ma
gli esiti dell’esperimento andarono ben oltre le aspettative: le guardie accettarono di lavorare gratis e
abusarono del loro potere al punto che i prigionieri chiesero di terminare l’esperimento, addirittura pagando
purché li lasciassero liberi. Alla fine dell’esperimento coloro che avevano avuto il ruolo di guardie rimasero
sconvolti per ciò che avevano fatto.

7 Capacità di gestire l’aggressività e comportamento sociale “autorevole” e “autoritario”


L’aggressività se diviene assertività è un sentimento positivo volto al cambiamento costruttivo. Guai se non
ci fosse, nel mondo non ci sarebbe progresso. Per eliminare vecchie politiche o vecchie ideologie ci vuole
rabbia .
La capacità di gestire o meno l’aggressività all’interno delle relazioni sociali dà luogo a due tipi di
comportamento antitetici: il comportamento autorevole/ assertivo e il comportamento aggressivo/autoritario
comportamento autorevole/assertivo La persona autorevole sa utilizzare la rabbia per modificare le
situazione che non trova giuste non perdendo il potere nella relazione senza bisogno però di sopraffare con
prepotenza. Discute sostenendo il proprio punto di vista secondo una modalità rispettosa, cioè:
- ascolto attento, con una postura tesa ma non irruenta
- attraverso la maieutica fa notare all’altro i punti di fragilità delle proprie posizioni
- aspetta che l’altro risponda, lasciandogli il tempo per pensare
- non si fa mai convincere per compiacere, ma mantiene le proprie convinzioni se non sono logicamente
smentite
- Il messaggio è onesto: esprime senza ambiguità alcuna ciò che la persona pensa e/o sente. Se, ad esempio:
“Ho ascoltato con attenzione quanto tu mi hai detto e su alcuni argomenti sono in disaccordo con la tua
opinione. Sono infatti dell’avviso che …”.
- il messaggio è coerente: Quanto viene affermato a voce, trova perfetta rispondenza nel linguaggio del corpo
(viso teso, bocca abbastanza serrate. Il senso può essere quello di essere arrabbiati ma sapersi contenere, non
esplodere)
- il messaggio è adeguato: lo stile comunicativo sarà adeguato alla situazione e alle caratteristiche del nostro
interlocutore. Ad un bambino si impartisce più un ordine, ad un adulto si lascia un tempo lungo per un
confronto
- comportamento aggressivo/autoritario
- La persona è convinta che attraverso il piglio duro ed aggressivo, si ottengono i risultati: alla base di questo
convincimento vi è la persuasione che gli altri ti siano comunque ostili e che quindi sia necessario essere
armati ed attaccare per primi.

L’idea di fondo è che il mondo è popolato da gente ostile, dalla quale ci si deve proteggere
La persona aggressiva/ autoritaria discute sostenendo il proprio punto di vista secondo una modalità
irrispettosa, cioè:
- non accetta la negoziazione come strumento principale per affrontare e risolvere i conflitti interpersonali
nei quali inevitabilmente si imbatterà. Assume un atteggiamento giudicante di condanna.
- si altera, urla, perde il controllo
- parla velocemente, interrompe, si sovrappone
- insulta o svaluta quanto l’altro dice, non lasciandolo parlare

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- Il messaggio non è onesto: esprime ambiguità. Ad esempio: “Tutti devono dire la propria, ma tu sembri
veramente di parte, dovresti farti schifo,… nonostante io sia una persona molto democratica, devo dirti che
mi fai veramente orrore!”
- il messaggio non è adeguato, nel senso che non rispetta l’età, il livello culturale e ruolo delle persone

“IL GRUPPO IN PSICOLOGIA SOCIALE”

1 Premessa
La lezione è imperniata sulla presentazione del concetto di “gruppo” in senso comune e generale e poi, più
strettamente, nell’ambito della Psicologia Sociale.
A partire da una descrizione del gruppo all’interno di filoni scientifici diversi, affronteremo il tema del
gruppo in una prospettiva strutturale, inquadrandone i diversi tipi (a seconda di scopi e configurazioni) e
analizzandone i principali aspetti costituenti: gli status, i ruoli e le norme.
Approfondendo ciascuno di questi tre aspetti, tenteremo, anche con l’ausilio di alcuni esempi concreti e di
semplice utilizzo, di collegarci in un secondo momento alla vita di gruppo, e dunque alle fasi di sviluppo e
alla formazione dello stesso.
Infine dopo aver concentrato l’attenzione sul “Modello di socializzazione” di Levine e Moreland, ci
appresteremo a chiudere la lezione con la presentazione delle differenze tra “gruppo sociale” e “gruppo di
lavoro”, specificandone le caratteristiche peculiari.
“[…] Dolcemente viaggiare rallentare per poi accelerare con un ritmo fluente di vita nel cuore
gentilmente senza strappi al motore.”
da Sì Viaggiare di Lucio Battisti
L’idea di partire (e non a caso l’utilizzo di questo verbo) da queste poche righe tratte dalla canzone -un po’ a
tutti nota- di Battisti, nasce dal fatto che sarebbe stimolante capire, sommariamente, qual è il pensiero
comune circa il viaggio.
Si parte per evadere? Per ritrovare se stessi? Per fare nuove scoperte?
Indipendentemente da quelle che possano essere le ragioni specifiche che spingono l’essere umano ad
intraprendere un viaggio di qualsiasi tipo, è interessante notare che quest’ultimo, da sempre, ha
un significato che va oltre la mera conoscenza di luoghi altri da quelli noti. In quest’ottica, proviamo ad
immaginare come un viaggiatore, che intraprende un percorso di scoperta e ricerca, possa trasformarsi in un
turista, desideroso di abbandonare stress e routine ed inoltrarsi in nuovi contesti culturali e paesaggistici, da
integrare nel proprio bagaglio di esperienze: e se questo passaggio, da turista a viaggiatore, piuttosto che una
brusca differenza di rotte potesse rappresentare una sorta di integrazione degli aspetti di entrambi?
Se il turista riuscisse a coniugare l’esigenza e la voglia di allontanarsi dalla ripetitività del suo quotidiano
allo spirito errante di un viaggiatore, non sarebbe forse una bella sperimentazione? Senza volerci addentrare
troppo in queste ambizioni, che ricordano, in forma diversa, quello che è stato accennato - nell’introduzione
al corso- circa il connubio di scienza e poesia, è ipotizzabile che uno dei motivi (o comunque certamente una
delle situazioni in cui inevitabilmente incorrerà) che potrebbe spingere un qualsiasi individuo ad
intraprendere un viaggio (da turista o meno) possa essere quello di sperimentare la dimensione di
appartenenza ad un gruppo, diverso da quelli già conosciuti e, forse, caratterizzato da una connotazione più
leggera ed intensa, circa quell’esperienza di condivisione. Secondo tali premesse, proviamo ad avvicinarci
all’idea di gruppo, immaginando come esso possa essere determinante, dal momento stesso in cui si sceglie
di farne parte.

2 Il gruppo
E’ interessante poter approcciare al concetto di “gruppo” a partire dalla stessa etimologia del termine, che ci
consente già di inquadrarne gli aspetti cruciali.
Nell’antico germanico occidentale il termine “kruppa” infatti sta ad indicare una “matassa aggrovigliata”,
rendendo perfettamente l’idea delle relazioni che vengono ad intessersi tra i componenti di un qualsivoglia
gruppo e della complessità delle stesse.
In un’ottica comune, è probabile che ognuno di noi, pensando al gruppo, abbia una sorta di idea generale di
unione e vicinanza, ma è pur vero che per qualcun altro potrebbe invece corrispondere a qualcosa di più

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ansiogeno: pensiamo al farsi accettare nel gruppo, al parlare di fronte a un gruppo, al sentirsi integrati o
meno nello stesso.
Se nell’antichità è stato evidenziato (Baumeister e Leary, 1995) che la primaria funzione di un gruppo fosse
quella di garantire la sopravvivenza al singolo, sia per quanto riguardava il procacciamento del cibo sia in
termini di accoppiamento e dunque di riproduzione, è pur vero che, nel tempo, si è rivelata sempre più
importante l’esigenza innata dell’essere umano di creare appartenenza e, dunque, di creare relazioni.
Più specificamente, i gruppi sociali rappresentano quindi “l’insieme di due o più persone che
interagiscono reciprocamente e sono interdipendenti, nel senso che sono spinti dai propri bisogni e
obiettivi ad affidarsi l’uno all’altro e a influenzare reciprocamente il comportamento” (Lewin, 1948).
Oltre a garantire la sopravvivenza e a consolidare il senso di appartenenza, i gruppi ci aiutano anche a dare
una migliore definizione di noi stessi, a partire dalla relazione con l’altro e dalle norme implicite o esplicite
che ne regolano l’interazione.

2.1. Il gruppo in Psicologia Sociale


La Psicologia sociale, in fondo, prende a svilupparsi proprio a partire dalla curiosità scientifica che viene a
crearsi circa episodi storici significativi che hanno coinvolto dei gruppi di riferimento.
Risulta interessante soffermarsi brevemente su quei due filoni, rispettivamente sviluppatisi in Francia e in
Germania, che hanno visto come focus il gruppo: se, per il primo, si è parlato di “psicologia delle folle”,
soffermandosi su quanto agglomerati di dimensioni elevate tendano a far regredire l’individuo al punto da far
sì che i suoi comportamenti siano completamente diversi da come sono quando è da solo, nel secondo filone,
lo studio della “psicologia dei popoli” è stata concentrata una maggiore attenzione sui gruppi intesi come
“comunità culturali” e sui prodotti delle stesse, mostrando un interesse cospicuo per la collettività e per i
processi che la coinvolgono.
Questo accenno ci consente di avere chiara, da subito, la dimensione multidisciplinare in cui il concetto di
“gruppo” va ad inserirsi nel corso della storia: gli avvenimenti storici, infatti, non sono sicuramente elementi
di influenza trascurabile nell’interesse che lo studio dei gruppi assume, anche in ambito scientifico.
Già dagli anni ’30, dunque, negli Stati Uniti comincia a diffondersi l’interesse per il funzionamento dei
gruppi a partire da eventi significativi come la crisi economica e il New Deal, per poi culminare nel 1945 con
la fondazione da parte di Lewin del “Research Centre for Group Dynamics”, in cui viene proposta una
visione gestaltica del gruppo, inteso non come la mera somma delle singole parti, ma dotato di una propria
struttura con peculiari dinamiche interne e con specifici fini e relazioni anche esterni, e caratterizzato
dall’interdipendenza dei suoi membri. Inoltre, proprio secondo una tale interdipendenza e una tale dinamicità
interna (esso è infatti di per sé una totalità dinamica) non potrà che mutare a seconda di come muteranno
singole o più parti che lo costituiscono. In contrapposizione all’approccio gestaltico Lewiniano, Allport (’24)
specifica che la psicologia dei gruppi non è altro che una psicologia degli individui ampliata alla dimensione
gruppale.
La psicologia sociale stessa prende inizio da quella del singolo individuo, inserito in un contesto ambientale,
in cui va studiato.
Nell’ottica di Lewin, a differenza dell’approccio nordamericano riduzionista di cui accennavamo a proposito
di Allport, è possibile comprendere quanto la complessità già rintracciabile nell’etimologia non sia affatto
tralasciabile: immaginiamo quanto potrebbe condurci in fallo pensare di poterci relazionare ad un singolo
membro di un gruppo, senza tenere conto di quanto esso sia legato imprescindibilmente agli altri e di quanto
ogni azione avverrà all’interno di quella unità e si ripercuoterà su tutte le parti che la compongono.
Se durante gli anni ’60 si verifica una sorta di calo di interesse per lo studio dei gruppi e ci si concentra su un
approccio più di tipo individualistico e di ricerca di laboratorio, è pur vero che gli anni ’90 rappresenteranno
invece una cornice importante per lo sviluppo di nuovi studi orientati sui gruppi che vedranno schierati due
filoni: coloro che studieranno i gruppi, secondo una visione più individualistica e che dunque
considereranno gli stessi come somma delle parti costituenti, e coloro che invece, in un’ottica collettivistica,
affronteranno lo studio dei gruppi tenendo conto di come questi ultimi influenzino il comportamento dei
singoli individui che vanno a costituirlo.
“Se è vero che ogni gruppo è una aggregazione di persone, ogni aggregazione di persone non è
necessariamente un gruppo” (McGrath, 1984). Com’è deducibile da quest’affermazione è possibile
inquadrare, secondo l’autore, il gruppo come quel tipo di aggregazione sociale in cui vi è una
consapevolezza e un’interazione reciproca tra i membri, e in cui vi siano una struttura e una dimensione.

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Inoltre una delle caratteristiche ritenute favorevoli e indispensabili per incrementare l’appartenenza al
proprio gruppo è la coesione, in quanto i “gruppi coesi” agevolano la cooperazione e il raggiungimento degli
obiettivi, superando dei meri interessi individuali; inoltre i gruppi coesi operano una maggiore influenza
sociale e attraggono o trattengono i membri, aiutandoli ad affrontare le loro difficoltà.
2.2. Ma come si differenziano i gruppi?
Non in tutti i gruppi è prevista una interazione che sia diretta ed è questo il caso dei “piccoli gruppi”, in cui
vi è reciproca influenza pur non essendoci necessariamente interazione continuativa e diretta;
differentemente quelli “faccia a faccia” prevedono un’interazione diretta oltre che un’ influenza reciproca tra
i membri, che si ritrovano coinvolti spesso in riunioni di gruppo, con ruoli diversificati tra loro (De Grada,
1999).
Abbiamo dunque già prodotto una prima differenziazione basata sulla dimensione quantitativa del gruppo,
che conduce inoltre alla constatazione che la dimensione dei gruppi è variabile da due, tre persone a diverse
dozzine, senza raggiungere quantità di membri troppo elevate poiché ciò andrebbe a scapito della interazione
reciproca, che tenderebbe a disperdersi. E’ noto anche che i membri tendano ad essere simili per sesso, età e
opinioni (Levine e Moreland,1995), in quanto le somiglianze tra i componenti creano attrazione tra gli stessi
ancor prima che essi si uniscano: ciò accade anche perché i gruppi sociali agiscono, tendendo ad enfatizzare
la somiglianza tra i membri.
E’ interessante notare come vi siano altre differenze relative ad essi: i gruppi si distinguono infatti in
primari, in cui le persone interagiscono, mosse da un legame affettivo e da una forte coesione interna, in
maniera diretta, possedendo un forte senso di appartenenza, e i gruppi secondari, che mirano al
raggiungimento di scopi comuni da parte di tutti i componenti (che posseggono ruoli differenziati ma
interdipendenti e orientati ad un obiettivo), vi è identificazione; ancora, esistono i gruppi di riferimento che
rappresentano quelli a cui si appartiene o a cui si aspira di appartenere, con cui l’individuo si identifica. Li
unisce uno o più obiettivi da raggiungere che un’identificazione vera e propria.
Essi inoltre possono essere formali, cioè garantiti da protezione istituzionale e con obiettivi e attività
specifici, ed informali, in cui, più che gli obiettivi e le attività, contano in prima istanza le relazioni esistenti
tra i componenti. Sono anche distinguibili i gruppi strumentali (orientati prettamente allo scopo) da quelli
espressivi (con forte orientamento emozionale). Infine rintracciamo una differenza evidente tra quelli che
possono essere gruppi creati ad hoc detti appunto artificiali diversamente da quelli preesistenti definiti
gruppi naturali.
2.3. …Altri tipi di gruppi
A seconda degli obiettivi che si pongono, delle attività svolte e delle eventuali modalità di conduzione
adoperate, è possibile citare diverse tipologie di gruppi, tra quelle più note nel campo della psicologia, come
ad esempio i gruppi di discussione (in cui si lavora su una tematica, esterna al gruppo, su cui esso discuterà,
cercando di accrescere le conoscenze e le informazioni sull’argomento scelto); i gruppi di lavoro (che
operano con uno scopo preciso e con una forte interdipendenza, distinti in gruppi di lavoro temporanei –che
durano esattamente il tempo necessario per il raggiungimento dell’obiettivo finale- e work team in cui invece
la collaborazione è collegata ad una forte coesione e un forte senso della cooperazione); i gruppi di studio e/o
di apprendimento ; i gruppi di orientamento; i gruppi di counseling; i gruppi terapeutici.

3 La struttura dei gruppi


3.1. Gli status in un gruppo
Sherif e Sherif (1969) definiscono la struttura di un gruppo come “una rete interdipendente di ruoli e
status gerarchici”.
E’ fondamentale comprendere come affinchè il gruppo raggiunga uno scopo e possa funzionare, esso debba
possedere delle norme interne (esplicite o implicite che siano) a regolarne ruoli, status e posizioni; quando
parliamo di status dobbiamo immaginare la posizione occupata da ciascun membro all’interno del gruppo
cui appartiene, o per imposizione esterna o per capacità personali di promuovere iniziative, in modo formale
o informale che sia, infatti “il sistema di status è il pattern generale di influenza sociale fra i membri di un
gruppo” (Levine e Moreland, 1990).
Esistono due indicatori che consentono di individuare lo status che un soggetto occupa in un gruppo: la
capacità di proporre idee (chiaramente chi ha uno status elevato avrà un maggiore grado di iniziativa) e la
valutazione consensuale del prestigio (la valutazione che faranno gli altri membri del gruppo sarà

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influenzata dalla posizione occupata da colui che farà la proposta e aumenterà qualora quest’ultimo abbia
una posizione di prestigio).
L’acquisizione di uno status piuttosto che di un altro è determinata da un processo che comincia sin da
quando il gruppo si forma e che dipende anche dalle caratteristiche dei membri e da come ciascuno riesce,
sin da subito, a soddisfare la maggior parte delle aspettative che il gruppo nutre.
Non sottovalutiamo l’importanza dello status in un gruppo, in quanto quest’ultimo garantisce un ordine e una
stabilità che, a loro volta, fanno sì che il gruppo risulti produttivo e ben orientato allo scopo. E’ stato
possibile elaborare veri e propri metodi di studio per evidenziare gli status all’interno dei gruppi attraverso la
raccolta delle valutazioni dei membri del gruppo e di come ogni membro del gruppo valuta gli altri in termini
di popolarità, influenza, competenza. Secondo Sherif (1948) è possibile osservare i comportamenti verbali e
non verbali: per quanto riguarda i primi, ci riferiamo al fatto che le persone con status elevato interagiscano
più frequentemente con gli altri membri, con maggiori interventi sia nei termini di assiduità nel prender
parole e sia per una maggior durata della stessa; ancora è stato notato come esse effettuino un maggior
numero di critiche, diano più comandi, compiano interruzioni più frequenti degli interlocutori, avendo anche
un maggior numero di comunicazioni da parte degli altri membri. Per quel che concerne gli aspetti legati al
non verbale, riscontreremo delle differenze nell’abbigliamento, negli accessori, nel maggior uso dello spazio
personale, nel maggiore contatto fisico e in posture più aperte e rilassate, compreso lo sguardo che verrà più
volte rivolto all’interlocutore durante le interazioni; inoltre è stata riscontrata in queste persone (con status
elevato) una maggiore adeguatezza tra comunicazione verbale e non verbale (congruenza tra mimica, gesti,
intonazione vocale ecc..).
3.2. I ruoli in un gruppo
Ben distinti dagli status, nel gruppo, vi sono i ruoli, che rappresentano “l'insieme di attività e relazioni che
ci si aspetta da parte di una persona che occupa una particolare posizione all'interno della società, e da
parte di altri nei confronti della persona in questione” (Brofenbrenner, 1979); questi ultimi possono
essere formali (se sono oggettivamente riconoscibili anche dall’esterno) o informali (se vengono a
determinarsi in maniera specifica per degli aspetti, in un preciso contesto).
Benne e Sheats (1948), nei loro studi, hanno riscontrato tre tipologie di ruoli all’interno dei gruppi: quelli
relativi al compito; quelli relativi alla manutenzione della vita collettiva sul versante socio – affettivo e sul
versante del gruppo; e quelli individuali (Bombardi, Rutelli, Chemello, 1994).
Per quanto riguarda i primi, possiamo intuire che ci stiamo riferendo a quei ruoli occupati dalle persone
all’interno di un qualsiasi gruppo, in merito ad un compito da dover eseguire: ve ne sono diversi, che
potremmo riscontrare anche in un gruppo di turisti durante un viaggio; vi è il propositore di idee, che
suggerisce modi in cui poter raggiungere gli obiettivi (information giver), vi è colui che è critico e le mette
in discussione (evaluator critic) e vi è il coordinatore, che ha il compito di raccogliere idee e critiche e
cercare di utilizzarle per perseguire gli obiettivi.
Per quel che riguarda i secondi, quelli legati alla vita collettiva, sono ruoli connessi per lo più allo stato
emotivo del gruppo e quindi anche ai rapporti al suo interno: troviamo colui che stimola i rapporti,
incoraggiando il contributo generale (encourager) e colui che li media, cercando di trovare punti di incontro
(harmonizer); vi saranno poi coloro che, nel gruppo, faciliteranno e faranno meglio comprendere meglio a
tutti il valore del gruppo stesso e invece quelli che, in maniera più passiva, asseconderanno e seguiranno le
decisioni prese dalla maggioranza.
Infine, ritroviamo i ruoli individuali, che usano il gruppo per soddisfare i propri bisogni: per questi ultimi,
dunque, l’obiettivo non è la vita del gruppo ma il conseguimento dei propri scopi, passando sopra agli
interessi comuni (immaginiamo i manipolatori, i dominatori, gli arrivisti).
•I ruoli che riscontriamo più comunemente
E’ interessante poter fare riferimento, avendo voi a che fare con gruppi di diverso tipo, a tre ruoli sempre
rintracciabili in ogni gruppo: il leader, il nuovo arrivato e il capro espiatorio (Levine e Moreland, 1990);
quello del leader è un ruolo indispensabile e centrale in un gruppo ed è sempre presente all’interno di ogni
gruppo; il “nuovo arrivato” è colui che avrà tutta una serie di resistenze e una certa cautela nell’entrare a far
parte di un gruppo già formato (chiaramente ciò comporterà anche una certa iniziale diffidenza e il bisogno
di integrarsi e di sentirsi accettato dal gruppo già compatto); infine, il capro espiatorio ha un ruolo
apparentemente “negativo” ma in realtà è basilare nella vita di ogni gruppo, in quanto in esso vengono
proiettate tutte quelle caratteristiche mal tollerate che in realtà ogni membro del gruppo, in quantità maggiori
o minori, possiede.

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Esiste inoltre il ruolo del “clown” che rappresenterà un “contenitore” più strettamente affettivo ed emotivo,
capace di allentare le tensioni che si generano nel gruppo, facendo leva sull’aspetto più ludico e leggero ed
usando questa modalità anche per fare emergere aspetti critici o situazioni problematiche.
La differenziazione tra ruoli è contesto-specifica e favorisce la divisione dei compiti e del lavoro,
agevolando il raggiungimento dello scopo comune, portando ordine nell’esistenza del gruppo e
determinando un diverso modo di relazionarsi, a seconda delle diverse aspettative.
Come possiamo ben immaginare, conoscere questi ruoli-cardine, presenti all’incirca in tutti i gruppi, ci
aiuterà ad individuarli e a sapere come rapportarci ad essi.
Facciamo un esempio: immaginiamo di essere in una località di vacanza invernale, presso una struttura
sciistica, nel periodo prima di Natale. La tabella di marcia prevede due incontri giornalieri, in cui usufruire
delle piste e di lezioni di scii da parte di maestri esperti. Dopo una settimana di permanenza, rispettando i
ritmi previsti dalla tabella di marcia, Luca, il componente più anziano del gruppo, comincia a manifestare un
disagio legato alla frequenza delle lezioni, a cadenza troppo incalzante. Luca lamenta di non poter
approfittare della vacanza per fare shopping pre-natalizio e per godere del paesino di montagna in cui si
trovano.
Il settimo giorno, Luca si mostra contrario a recarsi presso la pista sciistica, creando scompiglio nel resto del
gruppo, dal momento che per poter seguire le lezioni è richiesta la presenza di tutti. Il gruppo reagisce
negativamente a questa manifestazione di disagio, attaccando in modo aggressivo Luca, additandolo come
elemento di disturbo e fastidio, senza dargli la possibilità di replica. In una situazione del genere, in cui
l’escalation del nervosismo è vicina, il tour operator per riprendere il controllo della situazione potrà
innanzitutto creare un clima più disteso in cui venga favorito un civile scambio di opinioni, ma soprattutto
potrà consentire ad ogni membro del gruppo di dire la propria opinione sulla questione presa in causa. Laura,
dopo pochi minuti dall’inizio della discussione, interviene timidamente ammettendo che, in realtà, anche a
lei sarebbe piaciuto avere più tempo per altre attività. Poco dopo, a lei si aggiunge Cristian. La discussione
comincia, dunque, a riequilibrarsi e il gruppo prende atto del fatto che Luca, in fin dei conti, non era altro che
il “portavoce” (capro espiatorio) di un’esigenza che anche altri membri tacevano. Quest’esempio è
emblematico del fatto che l’accanimento sulla singola persona, spesso, impedisce di coglierne il ruolo di
“contenitore” delle ansie, dei disagi o dei desideri anche di altri, facendo sì che non si proceda con strategie
funzionali a risolvere i problemi.
Inoltre, l’esistenza dei ruoli porta con sé, inevitabilmente, la presenza di eventuali conflitti che possono
venire a crearsi tra i diversi ruoli, a livello personale e in questo caso ci riferiamo ai casi di una
incompatibilità fra ruolo giocato nel gruppo ed altri ruoli sociali( immaginiamo come potrebbe trovarsi un
poliziotto che poi sia anche padre, nel dover affrontare una infrazione commessa dal figlio, che in quel caso
rappresenta anche colui che elude le regole), sia a livello di gruppo, come nei casi di mancanza di accordo,
da parte del gruppo, o rispetto alla persona che ricopre un determinato ruolo o rispetto al modo in cui un
ruolo viene interpretato.
3.3. Le norme in un gruppo
Se è vero che i ruoli contengono in sé le aspettative del gruppo verso il gruppo, è pur vero che senza la
presenza di norme risulterebbe praticamente impossibile prenderne atto e poterle attuare, in quanto “le nome
costituiscono scale di valori che definiscono le aspettative condivise rispetto al modo in cui dovrebbero
comportarsi i membri del gruppo” (Levine e Moreland, 1990); un gruppo rispetta o viola certe norme,
implicite o esplicite che siano, sempre secondo parametri ed attese comuni. Esse sono fondamentali sia per il
raggiungimento degli scopi e sia per la definizione dei rapporti all’interno e all’esterno del gruppo stesso.
Sono esplicite o implicite a seconda della formalizzazione che posseggono e di quanto siano espresse
direttamente tra i membri del gruppo; e sono centrali o periferiche a seconda di quanto siano fondamentali
per il gruppo e quindi anche a seconda di quanto pesi, su di esso, la loro eventuale trasgressione.
Dunque, l’utilità delle norme sta nel fatto che esse occorrono sia a mantenere la vita interna nel gruppo
(immaginiamo cosa accadrebbe se non vi fosse il rispetto di norme comuni e ognuno procedesse secondo i
propri scopi, senza curarsi del resto del gruppo) sia esterna al gruppo (è fondamentale che il gruppo utilizzi
queste norme per sapere anche come interfacciarsi con altri gruppi o comunque in contesti nuovi o altri).
Facciamo un esempio pratico: un gruppo di turisti italiani si reca in Giappone per una vacanza organizzata,
per festeggiare il compleanno di Antonio, che per i suoi 40 anni ha deciso di uscire dagli schemi.
La prima sera si recano in un famoso ristorante giapponese, dopo essersi informati sul comportamento da
tenere, sia per quel che riguarda, specificamente, i pasti (l’uso delle bacchette e le regole a tavola) sia per

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l’abbigliamento (togliere le scarpe prima di sedersi). Convinti di aver appreso tutto il necessario per evitare
figuracce, gli amici si apprestano a festeggiare Antonio. Alla fine della serata, dopo aver spento le candeline,
Antonio decide di brindare. Nel momento in cui il brindisi è all’apice, con il fatidico “cin- cin”, succede
qualcosa di estremamente curioso: nel locale, cala il silenzio, per poi sfociare in una sonora risata generale.
In Giappone, infatti, il termine “cin” corrisponde al termine usato per indicare il membro maschile, mentre la
loro formula è Kanpai. L’intervento di un tour operator a conoscenza di norme e tradizioni giapponesi,
avrebbe potuto prevenire questo piccolo inconveniente, mettendo al corrente la comitiva su questo uso del
termine in quel contesto.
Per la precisione, a livello individuale, le norme costituiscono un riferimento per capire come relazionarci al
mondo e all’ambiente circostante, soprattutto in situazione ambigue, facendo sì che vi sia sempre una certa
prevedibilità di alcune azioni e delle rispettive conseguenze.
A livello sociale, invece, servono al gruppo per comprendere quale sia la strada migliore e legittima per
raggiungere gli scopi prefissati e regolano anche l’interazione intergruppi.
Sono stati individuati tre tipi di norme (Opp, 1982) divisibili in norme istituzionali, imposte da autorità
esterne o dal leader che possono riguardare gruppi sportivi, federazioni, ecc., in cui è necessario che vi siano
una certa precisione organizzativa a sancirne l’efficacia; le norme volontarie che originano dalle
contrattazioni tra i membri per fronteggiare i conflitti e che rappresentano quelle norme a cui gli individui
pervengono attraverso la negoziazione: immaginiamo situazioni di lavoro stressanti e lavoratori molto
sovraccarichi, determinati interventi, come la rotazione di turni lavorativi o degli incarichi, divengono norme
vere e proprie per far fronte alle esigenze generali; infine le norme evolutive, nascono qualora i
comportamenti che appagano un membro vengano appresi anche dagli altri, che li diffondono nel resto del
gruppo, fino a trasformarle in vere e proprie prescrizioni: immaginiamo il caso in cui, in un team di atleti, il
coach si renda conto che una accorgimento applicato con un atleta riscuota un certo successo, gara dopo
gara. Nonostante non vi siano basi scientifiche a testimoniarne la validità, il coach proverà a sperimentarlo
con gli altri membri della squadra e, in caso di successo, potrà far sì che diventi “norma generale”.

4 Nascita ed evoluzione del gruppo


4.1. Le fasi di sviluppo
Una volta fatto cenno a quelle che sono le caratteristiche peculiari di ogni gruppo, è importante comprendere
più nello specifico come quest’ultimo venga a formarsi tramite varie fasi di sviluppo.
La formazione rappresenta la prima fase del gruppo, in cui appunto esso si forma e in cui avviene la prima
fase di conoscenza tra i membri, che si orienteranno anche a seconda della leadership presente; la seconda
fase, quella del conflitto, è fondamentale per far emergere le tematiche di divergenza tra i membri e per far sì
che questi ultimi trovino dei punti di incontro attraverso la mediazione e la negoziazione dei significati
condivisi dalla maggioranza; la fase dell’evoluzione rappresenta l’apice del raggiungimento di armonia e
unità, in cui la coesione conferisce un senso di sicurezza e appartenenza ai membri e garantisce la creazione
di una identità positiva di gruppo; l’esecuzione del compito è la fase performante di un gruppo, in cui esso si
accinge ad essere produttivo per il raggiungimento di uno scopo comune. I compiti in un gruppo si
differenziano a seconda di come sono articolati in: additivo, che è la somma delle singole prestazioni dei
membri del gruppo; disgiunto, in cui la prestazione del gruppo corrisponde alla prestazione del suo membro
migliore; di tipo congiunto laddove per un successo comune, ciascun membro deve svolgere al meglio la
propria parte e di tipo complesso che si suddivide in parti diverse con caratteristiche diverse e che richiede
una precisa organizzazione.
Facciamo degli esempi: il compito congiunto potrebbe essere rappresentato da un’escursione che preveda
una gara amatoriale di canottaggio: solo se tutti i componenti della squadra eseguiranno al meglio il loro
compito, si potranno raggiungere risultati ottimali; l’obiettivo principale sarà dunque motivare ciascuno alla
necessaria cooperazione per un esito positivo; il compito disgiunto, diversamente, potremmo immaginarlo in
una competizione canora, in cui siano presenti dei cori, ciascuno con il proprio solista; in tal caso, sarà
compito di quest’ultimo valorizzare la performance di tutto il gruppo, tramite il proprio talento. Il compito di
tipo complesso è facilmente rintracciabile in giochi di squadra come il calcio: per una prestazione di
successo del gruppo è necessario che vi sia alla base un’organizzazione precisa dei ruoli e delle singole
responsabilità dei membri. Infine, per quanto riguarda l’ultimo, il compito di tipo additivo, possiamo
immaginare il caso di un concorso per ragazzi sulla scrittura creativa di un giornalino: ognuno si impegnerà

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singolarmente nella creazione di un articolo, svolgendo il proprio compito da sé, ma mirando ad uno scopo
finale comune.
Per quel che riguarda la conclusione e lo scioglimento del gruppo, questi due momenti si verificheranno o
per una questione legata al ciclo di vita del gruppo che, dunque, sarà giunto al termine o perché gli obiettivi
prefissati saranno stati realizzati: quest’ultima è una fase particolarmente delicata, in quanto il gruppo,
disgregandosi, richiede ai membri una ridefinizione dell’identità e l’impatto coi sentimenti di separazione, da
gestire e integrare.
Sintetizzando, dunque, possiamo dire che se prima di entrare a far parte di un gruppo vi è una sorta di
esplorazione, l’effettiva appartenenza ad esso ha delle implicazioni sia per il modo in cui ciascuno vede se
stesso sia perché ogni membro ha la sensazione profonda di iniziare un destino comune con gli altri.
4.2. Il “modello temporale di socializzazione al gruppo”
Le fasi appena descritte hanno sicuramente a che vedere col Modello di Levine e Moreland (1994) definito
“modello temporale della socializzazione al gruppo”, che dà un’importanza peculiare alla reciprocità
dell’individuo e del gruppo, in quanto se è vero che l’individuo deve fronteggiare dei personali cambiamenti
quando entra a far parte di un gruppo, è anche vero che il gruppo stesso dovrà accomodarsi ai suoi nuovi
membri. I due autori si soffermano in particolare su alcuni aspetti specifici, caratteristici di questo processo:
la ricognizione iniziale, i cambiamenti nel concetto di sé quando si entra a far parte di un gruppo e il
processo di iniziazione al gruppo.
Per quanto riguarda la ricognizione iniziale, si fa riferimento a quel processo per il quale avviene la scelta
del gruppo di cui fare parte, secondo una serie di parametri che gli autori identificano come la valutazione
dei costi/benefici, ispirandosi alla Teoria dello scambio sociale (Homans, 1950): essa è un criterio che valuta
la massimizzazione dei benefici e la minimizzazione dei costi.
E’ pur vero che, da un lato, pare che i nuovi membri, quando entrano a far parte di un gruppo, risultino
influenzati dalle esperienze fatte coi gruppi precedenti (Pavelchack, Moreland e Levine, 1986) dall’altro,
piuttosto, pare che questi effettuino una comparazione tra se stessi all’interno del gruppo e il membro
rappresentativo o ideale: minore risulta la discrepanza, maggiore sarà la propensione ad avvicinarsi ad un
gruppo piuttosto che ad un altro (Hogg, 1992).
Il secondo punto che abbiamo preso in considerazione è un processo che si verifica non appena si entra a far
parte di un gruppo ed è sicuramente la ridefinizione che avviene di se stessi all’interno di quest’ultimo:
ciò determina sicuramente delle conseguenze sull’autostima e sulla personale valutazione di se stessi. Il
valore e i successi del gruppo tenderanno a riflettersi sulla considerazione che i membri hanno di sé, dal
momento esatto in cui l’appartenenza al gruppo verrà interiorizzata da ciascuno, all’interno del concetto di
sé.
E’ una fase in cui l’esplorazione del gruppo, se avviene in modo pacifico, risulta proficua per la conoscenza
coi membri, in quanto questi ultimi non si sentiranno minacciati e avranno atteggiamenti propensi
all’accettazione del nuovo arrivato; diversamente, nel caso in cui costui avesse un atteggiamento troppo
spregiudicato, questi potrebbero reagire negativamente.
A tal proposito, è interessante focalizzare l’attenzione su quelle figure di spicco, all’interno di un gruppo, che
favoriscono l’inserimento dei “novellini”: ci riferiamo al ruolo di mentor e di sponsor, che rispettivamente
posseggono il ruolo formale di tutoraggio e il ruolo di “reclutatore” di nuovi membri. Entrambi sono
concentrati a favorire un clima collaborativo tra coloro che già facevano parte del gruppo e coloro che vi si
stanno appena avvicinando.
•Linguisticamente parlando…
L’entrata in un gruppo (Speltini, 2002) è sancita, anche linguisticamente, da parte dei membri con
l’attribuzione di nominativi specifici a seconda della fase in cui è il gruppo quando vi si aggiungono membri,
di quanto tempo vi resteranno e di quali ruoli essi rivestiranno: ad esempio ritroveremo i neofiti regolari,
che entreranno nel gruppo con l’idea di restarci in maniera permanente; i visitatori, che invece non mostrano
un impegno sostanziale nel farne parte e che permarranno solo per un determinato lasso temporale; i
trasferiti che provengono da altri gruppi precedenti e portano con sé una serie di capacità e competenze
pregresse; i sostituti che prendono il posto di qualcuno che ha lasciato il gruppo e che, inevitabilmente,
saranno confrontati spesso e volentieri con la persona che li precedeva; infine, abbiamo gli istituenti, che
sono coloro che hanno fondato il gruppo e ne sono le colonne portanti.
Tornando all’ultimo punto delle tre fasi della socializzazione, ossia l’iniziazione vera e propria, possiamo
dire che essa si focalizza principalmente su quali possano essere gli effetti dell’entrata di un nuovo membro

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all’interno di un gruppo già formato: esistono esempi anche religiosi o sociali, in cui l’entrata dei nuovi
membri viene sancita attraverso riti specifici e non sempre piacevoli (pensiamo ad esempio alla circoncisione
o al nonnismo nei plotoni militari) e potremmo chiederci come mai ciò accada. Di fronte a questo, non può
che subentrare un contributo strettamente sociologico e antropologico, legato all’importanza delle cerimonie
di passaggio e al valore che esse hanno nel delimitare i confini del gruppo stesso, consolidandone identità e
coesione e accompagnando il singolo nella creazione di un’identità gruppale.
Proviamo a immaginare, riassuntivamente, due situazioni concrete a confronto: nella prima, un gruppo
di ragazzi si reca per una vacanza studio a Londra, dove si stabilisce in un campus. Dopo una prima iniziale
fase di conoscenza tra i membri del gruppo, facilitata dall’obiettivo comune che li unisce e dal fatto che non
vi siano conoscenze pregresse, cominciano a svilupparsi relazioni interpersonali positive, dando vita a un
codice di comportamento ben rispettato e accettato da tutto il gruppo. Dopo un mese di permanenza al
campus, il tutor del gruppo, informa i ragazzi sul prossimo arrivo di Guido, un coetaneo che si aggiungerà in
ritardo a causa di un incidente burocratico che ha posposto la sua partenza. Il gruppo, che già era a
conoscenza dell’assenza solo temporanea e giustificata di Guido, sembra reagire serenamente alla notizia.
Effettivamente l’arrivo di Guido, che è ben predisposto nei confronti del gruppo, non genera resistenze
negative da parte dei membri, i quali dopo qualche giorno di conoscenza reciproca, decidono di “iniziarlo”
alla vita di gruppo, con una piccola e divertente “cerimonia”: Guido dovrà fare un tuffo coi vestiti nella
piscina del campus, dopo l’orario di chiusura. Dopo una prima resistenza, Guido accetterà la sfida e in
maniera goliardica condividerà l’esperienza coi compagni, sentendosi integrato pienamente nel gruppo.
Nel secondo caso, l’arrivo posticipato del nuovo membro del gruppo, Andrea, è legato ad una sua resistenza
a farne parte, a causa della sua difficoltà di far parte di un gruppo e di accettarne le regole. I membri
reagiranno alla notizia del suo arrivo in maniera negativa, mostrando una forte chiusura verso il novellino.
In effetti, Andrea riscontrerà, soprattutto nei primi giorni, una forte contrarietà da parte dei compagni nei suoi
confronti; anche in questo caso, dopo tempi un po’ più dilatati, avverrà una sorta di cerimonia di iniziazione
che però stavolta avrà connotazioni meno accoglienti: Andrea verrà spinto dai compagni, per entrare a far
parte del gruppo, a declamare dei versi di una romantica poesia al cospetto di una ragazza del gruppo da cui
lui è molto intimidito.
Il modo in cui vengono affrontate le due diverse situazioni è emblematico di quanto possa contare, al di là
delle fasi di socializzazione in un gruppo, la percezione che i vecchi e i nuovi componenti hanno gli uni degli
altri. Inoltre, essere parte di un gruppo implica un’appartenenza e una coesione che chiedono di essere
rispettate e ambite. Al nuovo arrivato è dunque sempre richiesta una sorta di “prova” per potergli dare
fiducia.
4.3. Il gruppo e il gruppo di lavoro: le differenze
Una distinzione fondamentale nella vita di gruppo è quella tra i comportamenti diretti allo scopo e i
sentimenti per e verso gli altri nel gruppo, distinzione che in effetti ci apre ad una indispensabile
puntualizzazione sulla differenza che sorge tra un gruppo e un gruppo di lavoro: se è vero che il gruppo
possiede una serie di caratteristiche, analizzate fino ad ora, che ci consentono di definirlo tale (la coesione,
l’interdipendenza, la condivisione di norme comuni, la presenza di ruoli differenziati, ecc..) è altrettanto vero
che il gruppo di lavoro si fonda piuttosto su una pluralità di integrazioni, diverse dalle interazioni che
caratterizzano il semplice gruppo. Le seconde abbiamo compreso quanto siano fondamentali affinchè si
abbia un gruppo e una vita di gruppo, le prime invece hanno a che vedere maggiormente col concetto di
interdipendenza, necessario per perseguire scopi comuni.
Dunque se l’interazione e la interdipendenza rappresentano due elementi focali nelle due fasi (Storming e
Forming) di formazione di un gruppo, l’integrazione (nella fase di Norming) è il raggiungimento di un
equilibrio tra l’appagamento dei bisogni del singolo e quelli del gruppo tutto: è l’aspetto della collaborazione
e della continua negoziazione di esigenze tra membri e gruppo.
Per quel che riguarda gli obiettivi, vi sarà una differenza tra quelli del gruppo che sono orientati
fondamentalmente al mantenimento e alla coesione dello stesso, rispetto a quelli del gruppo di lavoro, che
riguardano invece un compito comune da dover eseguire al meglio; le norme assumeranno sicuramente, nel
gruppo di lavoro, un maggior grado di formalità, accompagnate da ruoli definiti istituzionalmente (e dunque
meno fluidi) e da relazioni che contemplino maggiormente sentimenti di stima reciproca, rispetto,
competizione, piuttosto che sentimenti di solidarietà e vicinanza emotiva presenti nel gruppo sociale.
L’importanza delle relazioni, nel ciclo di vita di un gruppo, risulta centrale proprio per l’acquisizione, da
parte dei membri che lo costituiscono, di una vera e propria “mente di gruppo”, concetto ripreso e sviluppato

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da vari autori come Mead (1934), Sherif (1936), Asch (1952) e Lewin (1952), che ha a che vedere con la
creazione di una vera e propria (id)entità sociale che i membri del gruppo sentono come riferimento per se
stessi.
E’ interessante, a partire da questo presupposto, soffermarci su come avvenga la trasformazione dal
comportamento interpersonale a quello di gruppo, notando come essi siano disposti su un continuum
(Tajfel, 1978: la differenza consiste nel fatto che, mentre nel comportamento interpersonale, l’interazione è
guidata dalle caratteristiche dei singoli individui, nel comportamento intergruppi è determinata piuttosto
dall’appartenenza e dalle relazioni. E’ un’asse su cui gli individui si spostano continuamente, dal momento
che, entrando in un gruppo, pur portando ognuno le proprie caratteristiche, ogni scambio interpersonale è pur
sempre connotato da aspetti derivanti da esperienze pregresse in gruppi di vario genere; è importante notare
che la differenza sta nella valutazione delle somiglianze e delle differenze: il comportamento di gruppo è più
orientato a notare le somiglianze tra i suoi membri, mentre il comportamento interpersonale che è più
concentrato sulle differenze che sussistono tra i singoli.
In sintesi,
il gruppo sociale risulta caratterizzato da :
• Interdipendenza
• Obiettivo comune condiviso
• Presenza di ruoli, norme e status da rispettare
• Legami emotivi tra i membri e disponibilità alla collaborazione
• Interazione focalizzata sulla bontà della relazione

Il gruppo di lavoro, invece:


• Nasce nel momento in cui lo scopo di un gruppo è quello di produrre un bene o servizio
• Gli obiettivi sono più incentrati sul compito che sulla relazione
• Le norme sono più formali e i ruoli più definiti
• Le relazioni contemplano maggiormente sentimenti di stima reciproca, rispetto, competizione, piuttosto
che sentimenti di solidarietà e vicinanza emotiva presenti nel gruppo sociale.

“PROCESSI E ASPETTI DINAMICI NEL GRUPPO”

1 Premessa
In questa lezione ci soffermeremo sugli aspetti processuali del gruppo. Dopo aver infatti approfondito le
caratteristiche più strettamente strutturali, è importante che ci avviciniamo alla vita del gruppo e alle
principali dinamiche che lo interessano.
A partire, infatti, dalla comunicazione all’interno del gruppo e quindi dall’inquadramento delle reti
comunicative e delle possibili interazioni riscontrabili in un gruppo, potremo accostarci al concetto di
“potere”, sia in relazione alla comunicazione stessa sia in relazione ai ruoli occupati all’interno di un gruppo.
La lezione si concentrerà inoltre sul concetto di “leadership” e sulle varie teorie che se ne sono occupate,
cercando di fornire una visione abbastanza globale e integrata della figura del leader e delle sue funzioni
all’interno del gruppo.
Infine, facendo cenno al confronto sociale e alla funzione che esso ha di consentire al gruppo di migliorarsi,
affronteremo il tema della competizione sociale e del conflitto, come dinamiche rintracciabili sia nei rapporti
dei membri di uno stesso gruppo tra loro che nelle relazioni con l’esterno.

2 Comunicazione e processi decisionali in un gruppo


2.1. Il gruppo e l’influenza sociale
Partendo dal presupposto che la formazione di un gruppo garantisce e determina la creazione di relazioni e
che la presenza di altri membri influenza il comportamento dei singoli individui, sia nei termini di
prestazione che di stato d’animo, possiamo rifarci al concetto di facilitazione sociale (Guerin, 1993) per
chiarire il condizionamento che avviene alla presenza di altre persone, quando costoro fungono da spettatori
e non interagiscono con gli altri.
2.2. La presenza degli altri genera attivazione

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Tramite un esperimento con degli insetti (Zajonc, Heingartner e Herman) è stato possibile dimostrare come
nel fuggire da uno stimolo fastidioso, gli scarafaggi si mostrassero più facilitati in presenza dei loro simili.
Quest’esperimento e altri che sono stati condotti sia su animali che su esseri umani, hanno consentito di
generalizzare che, quando il compito è semplice, la prestazione risulta agevolata dalla presenza di altri, anche
solo sottoforma di “spettatori”.
La situazione sembra cambiare radicalmente quando il compito cresce di difficoltà: se nel primo caso,
quando il compito è semplice, la presenza degli altri agisce aumentando l’eccitazione psicologica del
soggetto e dunque alimenta l’energia utile per il conseguimento dell’obiettivo, nel secondo caso,
quest’eccitazione complica le cose, in quanto di fronte ad un compito difficile, il soggetto necessita di una
maggiore concentrazione, e non del nervosismo che invece si genera.
Sono state elaborate tre teorie che motivano l’utilità dell’eccitazione psicologica succitata dovuta alla
presenza di altre persone.
In una prima teoria, è sottolineato il valore che assume l’essere osservati da altri durante una prestazione,
in quanto ciò accrescerebbe il livello di attenzione durante l’esecuzione del compito: l’attivazione è
maggiore e vi è una maggior preoccupazione dell’ambiente circostante.
La seconda teoria è più focalizzata sulle reazioni degli esseri umani (più che su quelle degli insetti o degli
animali in generale) in quanto essi sono influenzati da ciò che gli altri pensano della loro prestazione: la
preoccupazione della valutazione altrui genererebbe l’eccitazione di cui sopra.
Infine, la terza teoria, riprendendo in parte la prima, si sofferma più sul conflitto che si genera in un
soggetto che stia svolgendo un compito osservato da altri, tra l’attenzione posta verso il compito e quella
verso gli altri che osservano: l’eccitazione deriverà dal dover contemporaneamente essere vigili su entrambi
gli elementi.
2.3. Ma la presenza degli altri genera sempre una maggiore attenzione?
In realtà, il dover collaborare insieme ad altre persone e quindi il poter condividere la responsabilità
dell’esito, spesso, genera un minore investimento di energie e una minore concentrazione, determinando
quella che viene definita inerzia sociale (Latanè, Williams e Harkins, 1979). In questo caso, il gruppo
rappresenta uno spazio in cui allentare la concentrazione e in qualche modo sentire che il giudizio altrui sarà
meno focalizzato su di sé e più sul rendimento generale.
E’ stato anche dimostrato che questa tendenza è maggiormente riscontrabile all’interno del genere
maschile (Karau e Williams, 1993), in quanto le donne sarebbero più propense a preoccuparsi del benessere
del gruppo e dunque l’interesse collettivo sarebbe maggiore rispetto a quello degli uomini; inoltre, l’aspetto
collegato all’individualismo, è dato da una differenza anche culturale, determinando una maggiore inerzia
sociale in quei paesi in cui l’interesse del singolo è anteposto a quello della comunità (es. l’Occidente è
sicuramente meno collettivista dell’Oriente).
Dunque, sintetizzando, possiamo dire che sia il giudizio che gli altri daranno al soggetto nello svolgimento
del compito, sia la difficoltà dello stesso, risultano essere due fattori fondamentali per comprendere quale
sarà la reazione dei singoli alla presenza di altri.
Conoscere quest’elemento potrà essere utile a comprendere come, in generale, l’influenza del gruppo abbia
effetti diversi a seconda delle situazioni specifiche.
E’ pur vero che se il gruppo può determinare questa sorta di “rilassamento generale, vi sono casi estremi in
cui essa può trasformarsi in vera e propria deindividuazione, concetto che a che fare con una perdita di
individualità da parte del singolo, che dall’essere “parte di un gruppo” si arriva a sentire pressappoco
“anonimo”; tale passaggio crea inevitabilmente un allentamento dei limiti che normalmente appartengono
all’individuo, determinando spesso la messa in atto di comportamenti altrimenti inibiti: immaginiamo
situazioni in cui le folle favoriscono atti vandalici o altri tipi di trasgressione.
Lo studio delle folle ha, a tal proposito, suscitato l’interesse di molti studiosi, dei quali alcuni hanno
giustappunto individuato una sorta di regressione dell’individuo che si trovi a far parte di una folla ad una
condotta primitiva e istintiva (Le Bon, 1895). Zimbardo, negli anni ’70, elabora una vera e propria “teoria
della deindividuazione” costruendo un modello fondato su tre fattori (che influenzerebbero il comportamento
degli individui): l’anonimato, la responsabilità diffusa e l’ampiezza del gruppo. Questi tre elementi
sembrerebbero essere determinanti nel condizionare i membri di una folla, arrivandoli a spingere, in taluni
casi, a compiere atti meramente istintivi e fuori controllo.
Sono stati effettuati, negli anni seguenti, anche esperimenti che dimostravano invece come l’appartenenza ad
un gruppo diminuisse gli aspetti aggressivi del singolo (Diener, 1976), sottolineando come la teoria di

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Zimbardo probabilmente accentuasse troppo gli aspetti negativi di questo fenomeno; in realtà, è stato
dimostrato, anche successivamente, che l’effetto della folla è comunque influenzato dal contesto in cui gli
individui si vengano a trovare: se ci troviamo ad una festa e avvertiamo un’inibizione ad iniziare a ballare,
sicuramente l’appartenenza ad un gruppo non può che risultare “deindividualizzante” e garantirci una
migliore riuscita della serata, spingendoci a lasciarci andare.
Il comportamento delle folle è quindi un comportamento intergruppi, per cui è forse più corretto vederne alla
base, piuttosto che una vera e propria deindividuazione, la creazione di una nuova identità sociale che avrà
una certa influenza sull’individuo.
2.4. Cosa accade quando un gruppo deve prendere una decisione?
Dopo esserci soffermati su quanto il gruppo influenzi il singolo, sia in positivo che in negativo, non
possiamo che concentrarci su cosa accade quando al gruppo è richiesto di prendere una decisione e su come
i singoli individui si relazioneranno tra loro per giungere ad una decisione ultima, che contenga il contributo
di ciascuno.
Sicuramente è capitato a ciascuno di noi di far parte di un gruppo e di avere difficoltà ad affermare la propria
posizione o a spingere gli altri a seguirci: Steiner (1972) definisce la decisione sbagliata presa dal gruppo, a
causa di una interazione che impedisca di trovare una soluzione adeguata ad un problema, come “perdita di
processo”. Sono varie le motivazioni che causano l’insorgere di una tale difficoltà ed esse vanno da un
accanimento del gruppo ad affidarsi al membro sbagliato, ad una carente capacità di ascolto o ancora ad una
difficoltà di uno dei componenti a superare la pressione del gruppo e ad affermare le proprie ragioni,
cercando di trovare dei punti comuni da cui far iniziare delle riflessioni risolutive.
E’ anche verosimile che se all’interno di un gruppo non si ha una buona conoscenza condivisa di tutte le
informazioni utili da cui partire verso l’elaborazione di una strada da percorrere, risulti complesso e talvolta
impossibile attivare le risorse che la situazione richiede. E’ inoltre utile, a livello mnemonico, che ciascuno
possa conoscere quali siano le capacità di memoria di ciascun componente di certi dettagli piuttosto che di
altri nella risoluzione di un problema, per poter così attivare quella memoria transattiva (Hollingshead,
2001) in cui avvenga la combinazione dei ricordi dei vari componenti.
Janis, rimanendo sempre nell’ambito dei processi decisionali all’interno dei gruppi (quasi sempre, privi di
una conoscenza pregressa) elabora tra il ’72 e l’ ’82 una teoria (Groupthink) basandola sull’idea che in un
gruppo è necessario un pensiero fortemente coeso tra i suoi membri per favorire la presa di decisioni
importanti, al di là delle situazioni contestuali.
E’ interessante notare che la situazione del groupthink è riscontrabile a partire da una serie di caratteristiche
che il gruppo mostra di avere: immaginiamo un gruppo altamente coeso, fortemente attraente per membri
che non ne fanno parte, abbastanza reticente a valutare punti di vista esterni al gruppo, con un alto livello di
stress causato della percezione di minacce esterne e con una bassa capacità del leader di prendere decisioni
tenendo in considerazione una serie di alternative esterne. Ecco, queste caratteristiche non potranno che
rappresentare una sorta di preludio alla formazione impellente di un Groupthink.
Più nello specifico, il groupthink espliciterà tutta una serie di problematiche legate all’illusione, creatasi nel
gruppo, di una sorta di invulnerabilità globale, che rende il gruppo immune da ogni sbaglio e lontano
dall’outgroup, considerato (in maniera forse semplicistica) negativo e di scarsa utilità. E’ anche presente,
all’interno del gruppo stesso, l’esercizio di una “pressione omologante” verso i possibili dissenzienti, in
quanto vige una sorta di unanimità ineluttabile, che non consente la effettiva libera espressione delle
personali opinioni e il reale confronto tra tutti.
2.5. Ma come si può ovviare alla situazione di groupthink?
Per ovviare alla creazione di un groupthink, risulta indispensabile la presenza di un leader capace di
fronteggiare l’insorgere di un tale stile decisionale, cercando di mantenere l’imparzialità, sollecitando la
collaborazione anche di persone facenti parte dell’outgroup, favorendo la creazione di sottogruppi, dapprima
contrastanti e poi, in un secondo momento, alla ricerca di un accordo.
Immaginiamo un esempio concreto: un gruppo di adolescenti in un campo estivo è chiamato a dover
decidere dove trascorrere l’ultimo giorno di vacanza. Il gruppo sembrerebbe propenso ad optare per una gita
ad un grande parco di divertimenti della zona; Matteo e Maria sembrano abbastanza interdetti circa la scelta,
dal momento che entrambi non amano il brivido e l’adrenalina dei luna-park. Essendo il gruppo fortemente
coeso e poco disponibile alla presa in considerazione di opinioni diverse, i due ragazzi si trovano in
difficoltà. E’ una classica situazione che condurrebbe al Groupthink, in cui il resto del gruppo tenderebbe ad
omologare i due dissenzienti, squalificandone le opinioni.

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Il tour operator, per ovviare a questa impellente situazione, potrà provare, in primo luogo, a creare un
confronto all’interno del gruppo, sollecitando poi, la partecipazione degli accompagnatori esterni al gruppo
(outgroup); in secondo luogo, proverà a far sì che si creino delle eventuali controproposte nel gruppo,
facendo sì che Matteo e Maria, sentendosi sostenuti nella possibilità di esplicitare le loro resistenze, abbiano
la possibilità di non sentirsi costretti a manifestare lo stesso entusiasmo del resto del gruppo e di poter,
insieme ad esso, considerare delle ulteriori alternative.
Sempre nella prospettiva delle scelte, è importante inoltre notare, da altri studi effettuati ( es. Choice
Dilemmas Questionnaire, Kogan e Wallach, 1964) che, nel prendere decisioni, emerge spesso la cosiddetta
polarizzazione di gruppo, in base alla quale i giudizi iniziali dei membri del gruppo influenzeranno la
tendenza successiva al rischio o alla cautela.
Questo processo dipende sia da ragionamenti persuasivi, estremamente influenti sul gruppo, sia sul
confronto sociale, che prevede che ciascuno si soffermi sin da subito su quanto il gruppo sia più o meno
indirizzato verso il rischio o la cautela. (Brown, 1986; Isenberg, 1986).
Non può che mancare una considerazione di tipo culturale anche su questo aspetto, citando la teoria di
Brown del valore culturale, in cui egli individua una differenza sostanziale, a seconda della cultura, tra
l’orientamento più al rischio o più alla cautela: l’America, ad esempio, basata su un’economia capitalista, è
molto più improntata sul rischio, mentre in altri paesi è molto più sostenuta la cautela e dunque un maggior
grado di prudenza. In entrambi i casi, vi è, in fin dei conti, una sostanziale differenza nell’attribuire un valore
positivo o meno al rischio di per sè.
Proviamo a fare un esempio pratico: immaginiamo la situazione in cui, per problemi di viabilità, un
pullman di turisti debba cambiare il percorso previsto dalla tabella di marcia. Immaginiamo ancora che, per
ovviare all’imprevisto, l’operatore turistico garantisca ai viaggiatori un tragitto alternativo, altrettanto
interessante. Secondo la teoria sopraccennata, se si tratterà di un gruppo di turisti americani, è più probabile
che sul gruppo l’evento susciti curiosità e interesse, nonostante il cambio di programma improvviso.
Diversamente, se consideriamo un gruppo di turisti orientali, è più verosimile che la comitiva reagisca in
maniera più sospettosa e meno propensa al “rischio”. Sarà opportuno, dunque, che nel secondo caso,
l’operatore, a conoscenza di una tale differenza di reazioni, approcci al primo gruppo in maniera propositiva
ed entusiasmante, enfatizzando l’aspetto sorprendente del cambiamento; nel secondo caso, risulterà
preferibile avere un approccio rassicurante, accogliendo le eventuali perplessità e manifestazioni di scontento
comune e cercando di non allarmarli circa l’aspetto “imprevedibile” della situazione.
2.6. Come comunica un gruppo?
La comunicazione è certamente un elemento centrale e fondante il gruppo e non si può prescindere da essa,
nel considerarlo.
Essa implica tutta una serie di aspetti non trascurabili quali la coesione, le relazioni, gli accordi, i disaccordi,
la collaborazione, ecc.. e tutti i processi su cui ci siamo soffermati fino ad ora hanno sicuramente a che
vedere con essa.
La discussione è certamente il canale in cui le opinioni molteplici si intersecano fino a trasformarsi in
opinione collettiva, promuovendo una trasformazione e una compartecipazione di tutti i membri del gruppo;
tramite quest’ultima, è possibile che emergano sia i conflitti sia gli accordi, in quanto viene a crearsi una
realtà condivisa. La discussione può variare in base all’atmosfera (calda o fredda a seconda del contesto e del
legame tra i membri), in base alla spontaneità (più o meno spontanea e autonoma o più o meno vincolata
anche temporalmente) e in base al tipo di partecipazione (da consensuale, in cui c’è una partecipazione
uguale da parte di tutti i membri, indipendentemente dallo status ecc, a normalizzata, nei casi in cui vige una
gerarchia di status).
Gli studi sulla comunicazione nei gruppi si sono orientati principalmente sulle strutture (Bales et al., 1953) e
sulle reti (Bavelas, 1948, 1950), concentrandosi su aspetti diversi. Per quel che riguarda le strutture, esse
rappresentano le comunicazioni realmente scambiate tra i membri, in termini di frequenza, durata, ecc.. per
quel che invece riguarda le reti esse concernono gli effettivi canali e le possibilità concrete di produrre una
comunicazione.
Da alcuni studi, a proposito delle reti, Leavitt (1951) identifica quattro tipi di rete di comunicazione, basate
su due indici, quello di “distanza” e quello di “centralità”: la rete a ruota o centralizzata (la popolarità
maggiore è del membro centrale, in cui i membri sono poco soddisfatti; inoltre è un modello centralizzato e
ben organizzato con una buona efficienza, nello svolgimento del compito, sia a livello di qualità sia a livello
di rapidità di esecuzione), quella a Y ( più vicina alla rete a ruota, quindi in una posizione intermedia

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tendente alla centralizzata, che favorisce la formazione di piccoli gruppi con rapporti privilegiati), quella a
catena (sempre in una posizione intermedia ma tendente stavolta più a quella decentralizzata) e quella a
cerchio o decentralizzata ( in cui non vi è una posizione centrale ma contiene una popolarità ben diluita tra
i membri del gruppo e, quindi, la soddisfazione è uniformemente distribuita tra i membri del gruppo, anche
in presenza di si-tuazioni frustranti. Mantiene il grado di precisione e rapidità).
Se a livello di performance, è stato riscontrato un miglior funzionamento della rete centralizzata nella
risoluzione dei compiti semplici e una maggiore efficienza di quella decentralizzata nei compiti complessi,
per quel che riguarda la soddisfazione del gruppo, essa sembra essere maggiore nelle reti più decentralizzate,
dal momento che vi è un’equità maggiore tra i vari individui.
Quando ci troveremo di fronte a compiti che richiedono l’impiego di un alto tasso di creatività verrà dunque
preferita una modalità di comunicazione decentralizzata, diversamente da quando si fa riferimento alla
risoluzione di un problema: è quindi una questione di compiti ed obiettivi, piuttosto che di qualità di ciascuna
rete.
C’è da aggiungere, infine, che la comunicazione telematica, attualmente così diffusa, ha particolari influenze
sul singolo e sui gruppi in quanto non essendoci predominanza del leader e non risultando determinanti
status e ruolo, a differenza dei gruppi in cui vi è una interazione vis a vis, vi è un maggior grado di attività tra
tutti i membri, in maniera pressappoco uguale; nonostante ciò, i legami non avranno lo stesso impatto
emotivo e neppure il livello di soddisfazione risulterà alto in egual misura.

3 Comunicazione e potere
3.1. La leadership
L’importanza di soffermarsi su quali siano le forme di comunicazioni prescelte nei gruppi e su come questi
ultimi abbiano dinamiche di comunicazione diverse anche a seconda dei ruoli occupati all’interno di un
gruppo, apre uno spiraglio di riflessione su un concetto importante nell’analisi del concetto di gruppo: il
potere.
Quest’ultimo rappresenta sicuramente la capacità di esercitare un’influenza e di produrre un
condizionamento da parte di uno o più membri di un gruppo sugli altri (Levine e Moreland, 1990). Secondo
French e Raven (1959) il potere poteva essere differenziato in tre sottocategorie, a seconda dell’impatto e
della modalità d’azione: il potere di ricompensa, inteso come quello fondato sulla capacità di uno di
promettere ricompense simboliche o materiali all’altro; quello coercitivo, che è orientato sul versante della
minaccia e costrizione coatta, attuando eventuali sanzioni in caso di non adesione alle richieste; quello
legittimo, che fa sì che i membri interiorizzino le norme che legittimano il potere di coloro che lo detengono;
quello d’esempio, basato sull’identificazione dei membri con colui/ coloro che lo possiedono; ed infine, il
potere di competenza, di solito limitato ad un ambito specifico, in cui si ritiene che colui che possieda il
potere abbia effettivamente una maggiore esperienza sul campo.
Mentre i primi tre tipi di potere sono maggiormente orientati ad un conformismo apparente, che non tiene
conto delle dimensioni più profonde ed interiori dei membri del gruppo, gli ultimi due sono più focalizzati su
di esse, evidenziandone l’importanza affinchè il potere dell’altro venga riconosciuto se non addirittura
valorizzato.
Questa teoria, nonostante le critiche legate al fatto che non si soffermi sugli aspetti legati alle motivazioni per
cui venga poi accettata l’influenza esercitata da alcuni piuttosto che da altri, ci consente di avvicinarci ad un
argomento interessante ed articolato, che comunemente viene tanto discorso e che ora approfondiremo: la
leadership.
3.2. Chi è il leader?
Il leader è colui che all’interno di un gruppo possiede la maggiore influenza sui membri, che è maggiore di
quella che lui stesso subisce (Brown, 1989) ed ha inoltre lo status più alto, essendo al centro della
comunicazione intragruppo.
La caratteristica basilare della leadership, che la distingue dal potere, dall’autorità, dal controllo, è proprio
che, pur passando per tali concetti, li integra e li suggella con un consenso volontario da parte del gruppo
rispetto all’influenza esercitata, riscontrando dunque un’accettazione all’unanimità.
Sono state elaborate una serie di teorie che hanno cercato di individuare quali potessero essere le motivazioni
per cui alcune persone, piuttosto che altre, abbiano questa capacità di influenzare il gruppo: a partire da
teorie della personalità (Stogdill, 1974) che si sono focalizzate principalmente sugli aspetti strutturali e
peculiari dei singoli individui, come la sicurezza in se stessi, l’intelligenza, la capacità di orientare anche le

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azioni degli altri verso gli obiettivi prefissati, per passare agli approcci situazionali (Argyle e Little, 1972)
che sono molto più orientati al compito e alle competenze, per cui la scelta del leader dipende dalle sue
competenze rispetto agli obiettivi prefissati. Infine abbiamo i modelli transazionali, più propensi ad una
dimensione di reciproca influenza tra leader e membri del gruppo, per cui il leader dovrebbe avere
buone competenze relazionali ed emozionali.
Autori come Lippit e White (1939) hanno inoltre riscontrato che, poiché le teorie della personalità non
bastavano a spiegare fino in fondo in che modo i leader ottenessero il loro potere all’interno di un gruppo, un
contributo potesse essere fornito dal clima sociale, che il leader riesce a produrre nel gruppo a cui appartiene
attraverso un tipo di comportamento sociale.
Gli autori hanno individuato tre tipi di clima sociale, in relazione a tre modalità comportamentali del leader:
la modalità autocratica (in cui vige una forte dipendenza da parte del gruppo verso il leader e in cui è tutto
molto orientato alla produttività e agli obiettivi); quella democratica (molto meno accentrata, in cui
l’atmosfera nel gruppo è più serena e meno aggressiva) e infine quella permissiva (in cui c’è un bassissimo
intervento del leader e il gruppo non ha una buona produttività, a causa di un clima caotico di base).
Dei tre, la modalità maggiormente bilanciata tra l’orientamento al compito e dunque dei buoni risultati e una
buona relazione tra i membri con un buon livello di collaborazione è la democratica.
Rispetto alle caratteristiche proprie del leader, l’approccio situazionale è più concentrato sull’ambiente e
sulla richiesta fatta al gruppo in determinati contesti, e dunque oltre che sul compito anche sulle relazioni
presenti all’interno del gruppo. Quest’approccio, anch’esso criticato, possiede delle falle in quanto è come se
escludesse il leader dal contesto quando invece, quest’ultimo, come gli altri, ne è parte costituente.
Col contributo di Bales (1950) a proposito del ruolo del leader all’interno di un gruppo è stato possibile
individuare due ruoli principali che questi può rivestire, a seconda che sia più centrato sul compito o sulle
relazioni, rivestendo, in quest’ultimo caso, un ruolo principalmente emozionale e dando importanza in
primis all’armonia presente nel gruppo.
Questi due ruoli, di focale importanza, difficilmente verranno svolti dalla stessa persona, in quanto vi è una
complementarietà che li lega.
E’ proprio a partire da ciò che Fiedler (1965) ha elaborato un modello della contingenza, secondo il quale
la performance di un gruppo è regolata da una interazione tra lo stile del leader e l’ambiente in cui lavora;
egli individua tre fattori contingenti che stabiliscono quanto la situazione è favorevole per il leader: il tipo di
relazioni leader- membri, che sono buone se esistono elementi come stima reciproca, onestà, clima
positivo; la strutturazione del compito, in cui è necessaria la chiarezza dell’obiettivo da raggiungere, delle
indicazioni e del risultato atteso; e infine il potere legato alla posizione occupata dal leader, che può essere
forte o debole, a seconda della competenza sia professionale che relazionale per far fronte ai compiti e alle
esigenze del gruppo.
Fiedler adoperò una scala di valutazione (LPC, LEAST PREFERRED CO-WORKER) per individuare quale
fosse la persona con cui il “potenziale leader” avesse più difficoltà a collaborare e dai risultati ne evinse che
i leader con un punteggio basso all’LPC erano maggiormente orientati al compito; quelli con un LPC alto
erano maggiormente orientati alle relazioni in quanto non risultavano avere giudizi troppo negativi nei
confronti di un collaboratore piuttosto che di un altro. Esistono anche altri due modelli che valutano gli
aspetti contingenti della leadership: il modello della “leadership situazionale” (SLT) di Hersey e
Blanchard (1982) e quello della “contingenza” di Vroom e Yetton (1973): rispettivamente, nel primo, il
leader dovrà adattarsi al gruppo di cui fa parte, mantenendo un maggior orientamento al compito qualora
esso fosse poco motivato e poco reattivo, e invece concentrandosi più sugli aspetti relazionali qualora ci
fosse una buona possibilità di delegare al gruppo; mentre nel secondo modello (Model Of Decision Making
di Vroom e Yetton) vi è una maggiore concentrazione sui processi decisionali di un gruppo e sulle situazioni
in cui risulti maggiormente efficace uno stile decisionale del leader piuttosto che un altro.
Secondo il primo modello, quello situazionale (Situational Leadership Theory, SLT) di Hersey e
Blanchard, non esiste uno stile di leadership sempre valido ma è necessario che esso sia connesso al grado di
maturità dei collaboratori, sia dal punto di vista più strettamente tecnico e professionale sia a livello di
motivazione, fiducia e maturità psicologica. Così come indica il nome dell’approccio, infatti, il leader si
comporterà diversamente a seconda della situazione, intesa come diversa possibilità di contare o meno sulla
collaborazione del proprio gruppo, in termini di orientamento al compito e alle relazioni.
A seconda, dunque, di quanto il gruppo mostrerà di esser in grado di cooperare in maniera produttiva, sia dal
punto di vista della performance sia di quello della relazione, il leader adotterà strategie che andranno da

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quelle strettamente prescrittive (in caso di gruppi poco maturi) fino a quelle maggiormente orientate alla
delega (in caso di gruppi molto maturi, in cui è possibile fare chiarezza solo sugli obiettivi da raggiungere
contando poi sull’efficienza e l’autonomia del gruppo stesso).
Secondo il modello di Vroom e Yetton, invece, l’efficacia di uno stile decisionale all’interno di un gruppo
dipenderà da una serie di fattori, differenziandosi a seconda di quanto i subalterni in un gruppo accettino o
meno una decisione presa dal leader in maniera autocratica o collaborino con quest’ultimo qualora sia
possibile partecipare. Più specificamente i due autori individuano cinque stili decisionali possibili a seconda
delle situazioni specifiche che vanno dall’autocratico, in cui il leader decide da solo senza tener conto dei
membri del gruppo, adoperando le informazioni a sua disposizione a quello partecipativo, in cui il leader
condivide una decisione col gruppo, considerando insieme ad esso la situazione per arrivare a una soluzione
comunemente accettata. Tra questi due stili decisionali ve ne sono altri tre intermedi: quello autocratico con
richiesta di informazioni ai collaboratori, in cui il leader decide da solo, utilizzando informazioni ricavate
dai subordinati, senza specificare necessariamente a cosa esse servano; quello consultivo individuale, in cui
il leader decide da solo ma può scegliere di sfruttare o meno delle proposte dei suoi subordinati, dopo averli
consultati individualmente; infine quello consultivo di gruppo, in cui il leader, nonostante decida sempre da
solo, consulta il gruppo nel suo insieme invece che tener conto di ciascuno individualmente.
Sintetizzando, emerge che dai primi approcci più individualistici, orientati in gran parte sulle singole
caratteristiche dell’individuo “potenzialmente leader”, vi è stato un passaggio ad una dimensione più legata
al contesto e alla situazione, per poi lasciare ampio spazio alle teorie transazionali, prima menzionate, che si
concentrano proprio sulle transazioni, intese come risorse, scambiate tra leader e gruppo. A tal proposito,
assume grande importanza il modello di Hollander (1958) che sostiene la tesi secondo la quale il leader, in
un primo momento, si propone al gruppo in maniera conforme alle norme, acquisendo al suo interno una
certa credibilità (definita credibilità idiosincratica) che lo legittima a diventare leader, sulla base di alcuni
criteri: quanto il leader è conforme inizialmente alle norme del gruppo, quanto è competente rispetto agli
obiettivi, se è stato effettivamente eletto dei membri del gruppo di cui fa parte, e se vi è un’identificazione
col gruppo.
Più recentemente sono stati invece identificati due tipi di leadership, quella trasformazionale (Burns, 1978)
e quella carismatica (House, 1976); nella prima, viene sottolineata la capacità del leader di stimolare e
motivare il gruppo, tramite una vera e propria interpretazione dei bisogni gruppali, dando ad esso la
possibilità di trasformarsi, grazie all’impegno e alla collaborazione di tutti; nella seconda, viene considerato
“carismatico” colui che è capace di fornire modelli esemplari ed ideologicamente convincenti e che possiede
un alto livello di motivazione e una forte capacità di attivarla negli altri.

3.3. Leader e gestione di un gruppo


Soffermarsi così a lungo sulla figura del leader e su quanto essa sia basilare all’interno di un gruppo è legato
al fatto che il leader rappresenta colui da cui dipenderà il successo o l’insuccesso del gruppo stesso; sia che
egli sia eletto ufficialmente sia che ciò non accada, è inevitabile che emerga qualcuno che rivesta questo
ruolo all’interno di un qualsiasi gruppo.
Facciamo un esempio: immaginiamo che un gruppo di fotografi esperti decida di partecipare ad un viaggio
organizzato, che ha come obiettivo un unico reportage fotografico sugli animali della savana. Il gruppo,
composto da 8 persone, decide di buon grado di aderire alla spedizione, ben motivato dalla curiosità e
dall’interesse verso l’obiettivo finale.
Già durante il viaggio, i componenti del gruppo cominciano a reagire negativamente alle informazioni che
gli vengono date circa le situazioni climatiche del luogo e gli eventuali pericoli in cui potrebbero trovarsi.
Giunti nel luogo prefissato, durante la prima giornata di lavoro, il clima torrido e la presenza di insetti
fastidiosi e piante urticanti, creano agitazione e insofferenza nel gruppo; durante il secondo giorno, cinque
componenti del gruppo sembrano voler abbandonare il progetto e voler far ritorno a casa. E’ a questo punto
che l’intervento di Giovanni risulterà determinante: prendendo in mano la situazione, provvedendo a
richiedere agli organizzatori tutto l’equipaggiamento necessario per far fronte ai problemi concreti (creme
antiprurito, ventilatori portatili, ecc) placando inizialmente i disagi effettivi della troupe. In un secondo
momento, egli proporrà al gruppo una riunione in cui confrontarsi e cercare di comprendere i disagi dei
compagni, tentando di ricordare loro l’entusiasmo e la forte motivazione che li aveva spinti, in principio, a
partire.

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La riunione avrà un effetto positivo: Giovanni, pur non essendo ufficialmente proclamato leader del gruppo,
si ritroverà ad assolvere sia una funzione più concreta (legata al compito) sia una più affettiva (legata
all’aspetto emotivo dei suoi colleghi e al loro vissuto negativo della situazione). La sua funzione risulterà
dunque determinante nella gestione emotiva del gruppo (placherà infatti gli animi e cercherà di ristabilire
una situazione più serena) e altrettanto fondamentale nel raggiungimento dell’obiettivo finale, cioè la
realizzazione del reportage.
Se è vero che non c’è gruppo senza leader, è pur vero che ai due poli estremi di un gruppo ritroveremo
sempre due figure focali, capaci, per le loro differenze, di garantire il confronto e la dinamicità. La prima di
queste due è quella del cosiddetto “Yes Man” che rappresenta colui che appoggia sempre le posizioni del
leader e che, pur manifestando il conformismo in maniera estrema, in realtà è molto funzionale perché
garantisce al leader una sicurezza fondamentale in caso di necessaria delega del potere; è vero anche che se
questa figura finisce per oscurare l’eventuale divergenza di opinioni presente nel gruppo, essa diverrà
negativa e depistante per il leader.
In una posizione opposta e altrettanto importante è collocato invece il cosiddetto “Bastian Contrario” che
assolverà la funzione di critico verso le proposte avanzate dal leader e dal gruppo tutto; anche in questo caso,
questa figura può avere una valenza molto positiva se, sfruttando le sue doti altamente critiche e analitiche,
formula controproposte e avalla nuove ipotesi circa ad esempio la risoluzione di un problema, così come
potrà divenire estremamente negativa se sarà concentrata esclusivamente sulla critica distruttiva e disfattista.
Tutte e due questi ruoli, in aggiunta a quelli del leader, sono sempre rintracciabili in un gruppo e la loro
presenza è testimone di una eterogeneità del gruppo, utile e fondamentale per una buona riuscita dello stesso.
3.4. L’individuazione dei problemi in un gruppo: esterni o interni?
Ad un livello di concretezza maggiore, se immaginiamo di avere a che fare con un gruppo in cui possano
sorgere problemi di diversa entità e tipologia, ciò che risulta fondamentale, in prima istanza, è proprio
l’individuazione e il riconoscimento del problema. Quest’ultimo, se origina dall’interno del gruppo ed è
legato a dinamiche pregresse, spesso presenta già dei “sintomi” riconoscibili e quindi arginabili senza
arrivare ad una degenerazione.
Se invece ci troviamo in situazioni in cui i problemi hanno origini esterne e dunque non sono prevedibili ed
essi generano conflitti interni o disaccordi, è importante tenere a mente (Heisenhardt, 1989) che quasi
sempre i problemi maggiori non sono mai dovuti ai conflitti di per sé, quanto alla impossibilità di
ricorrere a delle strategie efficaci per fronteggiarli.
Alla base, è fondamentale che il disaccordo e la differenza di opinione tra i membri di un gruppo vadano
gestiti, all’interno di una discussione, cercando di rispettare dei meccanismi basilari, che innanzitutto
tengano conto maggiormente dei fatti piuttosto che delle singole opinioni (evitando quindi di creare ulteriori
scontri tra membri con idee molto divergenti): attaccare la persona farà sì che essa si senta minacciata e
aggredita e che, per difendersi, non si predisponga positivamente ad un compromesso; concentrarsi invece
sui fatti concreti, solleva il singolo dal sentirsi personalmente squalificato o svalutato.
E’ molto importante, inoltre, procedere con la formulazione di una serie di alternative che superino la
creazione di due uniche strade percorribili, evitando così che si producano due schieramenti contrapposti:
creare più prospettive e più strade rende possibile l’allentamento delle tensioni, grazie alla possibilità
di valutare e considerare proposte magari fino a quel momento non ritenute valide o realizzabili.
Rifacendoci un po’ all’utilizzo di uno “scopo sovraordinato” è importante che il gruppo venga indirizzato
verso la realizzazione di uno scopo comune, in modo da incanalare le energie positivamente verso qualcosa
che è caro a tutti: nell’ambito turistico, i viaggi di gruppo organizzati hanno, sin da subito, un obiettivo
comune per tutti; puntare su quest’ultimo potrebbe essere sicuramente una strategia per cercare di tamponare
determinate situazioni problematiche.
Non tralasciamo inoltre l’importanza dell’utilizzo di modalità di interazione sempre tese ad ridurre i picchi di
nervosismo e ostilità eventualmente raggiunti: è più funzionale cercare di alleggerire, senza sminuirle,
determinate problematiche piuttosto che appesantirle ulteriormente e rischiare una iper-concentrazione del
gruppo su di esse.
E’ fondamentale anche che il leader non risulti né eccessivamente impositivo né però troppo lascivo, al punto
da essere sovrastato all’interno della discussione per la ricerca di accordo; a tal proposito, è necessario che
non si ricorra ad un consenso “a tutti i costi”, quanto piuttosto ad un confronto propositivo, in cui è lasciato il
giusto spazio all’accoglienza della problematica riscontrata e all’elaborazione di strategie risolutive.

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Spesso ciò che accade in un gruppo è che alcuni componenti possano avvertire di non avere la giusta
considerazione nel dover prendere una decisione o dover affrontare una situazione: è importante che si cerchi
di inglobare, nella scelta finale, la maggior parte delle opinioni, cercando di non assumere atteggiamenti
ostili e sminuenti verso quelle meno sfruttabili.
Il gruppo, qualunque esso sia, necessita in fondo di quello che è caro ad ogni singola persona: l’ascolto,
l’accoglienza, la comprensione.
A maggior ragione in situazioni di vacanza, in cui il desiderio più forte è quello di non avere intoppi e di
poter fruire al massimo di ogni servizio, è importante che un gruppo si senta accolto nelle richieste e
nelle eventuali critiche, senza sentirsi aggredito o trascurato nelle esigenze.

4 Dinamiche intra e intergruppo


4.1. Il confronto sociale: maggioranze e minoranze
I processi di interazione e comunicazione nel gruppo consentono di individuare le diversità circa il ruolo e la
centralità che i membri di un gruppo posseggono, a seconda di una serie di caratteristiche personali.
Le dinamiche di predominanza tra i componenti di un gruppo fanno parte sia di una dimensione strutturale
sia di una dimensione processuale, in quanto posseggono una dinamicità in base alle relazioni che vengono a
crearsi.
A partire dalla teoria del confronto sociale di Festinger (1954), secondo la quale vi è una motivazione innata
che spinge l’uomo a valutare continuamente le proprie capacità e le proprie opinioni, è comprensibile il fatto
che la presenza degli altri (simili a noi) ci permetta di ricevere informazioni utili sui nostri possibili risultati,
cercando anche di prevederli.
Il confronto sociale implica una scelta di somiglianza (di solito con chi è almeno un gradino al di sopra) in
base a determinati attributi e determina ripercussioni sicuramente sull’autostima, in quanto si sviluppa una
vera e propria competizione per il raggiungimento di una certa posizione all’interno del gruppo; secondo
Wills (1991) vi sarebbero situazioni in cui, invece, la scelta del confronto avverrebbe con chi è leggermente
inferiore, a preservare l’autostima minacciata.
Il confronto sociale, all’interno di un gruppo, ne determina un miglioramento nelle prestazioni in particolare
quando a migliorare sono i risultati dei membri ritenuti più deboli, ma pare che ad influenzare la valutazione
di sé, nel gruppo, oltre al confronto sociale subentri il confronto temporale (Albert,1977) che prende in
esame la stessa prestazione, a distanza di tempo. Pare che il primo sia più frequente tra gli adolescenti e gli
adulti, mentre il secondo tra bambini e anziani.
Il confronto sociale ci apre ad una dimensione importante che riprende, in fin dei conti, tutto ciò di cui
abbiamo, in varie forme, trattato fino ad ora: l’influenza sociale.

4.2. Cosa determina l’appartenenza ad un gruppo?


Tra le dinamiche che vengono a svilupparsi all’interno di un gruppo, sicuramente non è trascurabile l’effetto
che l’appartenenza ad una collettività genera. Accade che la maggioranza tende a condizionare il singolo, il
quale, in linea di massima, tenderà ad uniformarsi agli altri.
Anche alla base del conformismo, ritroviamo la teoria poco fa citata di Festinger, a proposito del confronto
sociale, dal momento che il confronto non è legato esclusivamente al bisogno di appurare il livello delle
proprie capacità ma anche la correttezza delle proprie credenze a seconda del consenso che la collettività
fornisce.
Per un lungo periodo, gli studi si sono soffermati molto di più sull’influenza della maggioranza alla base del
conformismo, ma sono stati effettuati anche studi che hanno dimostrato che esiste l’impatto anche delle
minoranze nel generare cambiamenti.
Per quanto riguarda l’influenza determinata dalla maggioranza, Asch (1955; 1956) nell’ambito della
psicologia sociale (dei gruppi) ha effettuato esperimenti controllati in laboratorio, in cui metteva alla prova la
percezione visiva dei soggetti su dati oggettivamente rilevabili (la lunghezza di alcune linee), riscontrando
l’esistenza di due tipi di conformismo: uno che implica un cambiamento percettivo o cognitivo (per timore
che la propria percezione sia sbagliata o per non sentirsi diversi dagli altri) e uno in cui emerge
l’accondiscendenza in una situazione pubblica (in cui è evidente quanto la pressione sociale sia influente
sulle risposte del singolo).
In generale, da questi esperimenti, si è evinto che anche nella vita reale, oltre che nelle condizioni
sperimentali, la pressione sociale abbia un impatto sui comportamenti, spingendoli verso quelli

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perseguiti dalla maggioranza e questo avverrebbe per due motivazioni (Festinger, 1950) : in primo luogo
perché la costruzione della realtà, necessaria a ciascuno per testare la veridicità delle personali teorie o
credenze ma non sempre oggettivamente misurabile, abbisogna del confronto per poter avere una verifica ma
anche per ricevere una rassicurazione, soprattutto quando le valutazioni o decisioni avranno importanti
conseguenze; nel secondo caso, quando vi è uno scopo comune e condiviso, l’uniformità è sicuramente
maggior garante del raggiungimento dell’obiettivo finale.
E’ pur vero che negli studi come quello di Asch, in cui non vi erano situazioni ambigue ma dati oggettivi e in
cui non vi era uno scopo comune ma ognuno era sottoposto al compito, l’individuazione di queste due
motivazioni non risulta soddisfacente. A tal proposito, possiamo invece fare riferimento al concetto di
“influenza normativa” (Deutsch e Gerard,1955) che spingerebbe i membri di un gruppo a dare risposte che
vadano in accordo con le attese comuni, a differenza di quella “informativa” elaborata da Festinger, secondo
la quale se i soggetti sono isolati nello svolgimento di un compito, scelgono di affidarsi alle informazioni
promosse dalla maggioranza come ritenute più attendibili.
In ogni caso, l’appartenenza ad un gruppo risulta essere un fattore determinante nell’esercitare una
pressione sullo stesso, soprattutto in gruppi come quello dei pari, in cui è fortemente presente l’esigenza di
uniformarsi per sentirsi integrati e ben accettati, oltre che per consolidare, ad esempio nel caso dei bambini,
l’identità di genere.
Festinger sottolineava come la maggior parte delle pressioni (con tendenza persuasiva) venissero effettuate
all’interno di un gruppo soprattutto verso coloro tendenzialmente dissenzienti, per ottenere un loro
spostamento verso la maggioranza: qualora ciò non avvenisse, emergerebbe nel gruppo la tendenza ad
escluderli o comunque a mal tollerarli; inoltre, più il gruppo è all’inizio della propria costruzione o in una
importante fase decisionale, più risulta complessa la tolleranza dei devianti, così come nei gruppi chiusi essi
sono meno accolti rispetto che nei gruppi aperti.
Non è tralasciabile, come accennato precedentemente, che esistono anche situazioni in cui è la minoranza
ad esercitare un’influenza sulla maggioranza (Schatcher et al., 1954), e in cui è evincibile quanto la
minoranza riesca ad agire su quelle latenti divisione interne, che appartengono ad ogni gruppo, rendendole
esplicite e facendo sì, che a partire da esse e dal conflitto, possano emergere nuove norme da attualizzare nel
gruppo.
Moscovici et al. (1969), riprendendo e modificando l’esperimento di Asch (di cui sopra), hanno dimostrato
come l’influenza delle minoranze abbia effetti in differita a livello temporale, come se agendo sulla
maggioranza, la dissonanza che viene a generarsi, abbia bisogno di un tempo maggiore per provocare reali
cambiamenti. Sono stati inoltre individuati degli aspetti precisi che una minoranza deve avere per poter
effettivamente esercitare un’influenza pregnante sulla maggioranza ed essi si riferiscono ad una buona
coerenza (sia del gruppo che temporale), ad una buona autonomia e ad un buono scambio con l’esterno,
che conseguentemente ha a che vedere anche con una buona flessibilità nel confronto e una consistente
imparzialità.
Accade, però, che dal momento che la minoranza va a costituire un outgroup, è ricorrente che i membri del
gruppo si mostrino poco disponibili, essendo più tendenti a confarsi alle decisioni prese dall’ingroup, di cui
si sentono parte integrante.
4.3. Dinamiche intra-gruppo: il conflitto e lo scisma
Proprio a partire da ciò che abbiamo appena analizzato a proposito delle minoranze e delle maggioranze, è
possibile individuare in esse, una delle maggiori cause di conflitto all’interno dei gruppi.
Considerando che le conseguenze del conflitto non sono esclusivamente di stampo negativo (ostilità, bassa
collaborazione, calo del rendimento) bensì anche positive (una maggiore creatività e la possibilità di vagliare
nuove opzioni risolutive), è pur vero che, rappresentando il conflitto un momento di possibile minaccia
all’unione del gruppo, spesso quest’ultimo attua delle strategie per ovviare ad esso, spesso causando
repressione a appiattimento.
Molto spesso accade che, di fronte alla possibilità di un reale conflitto, si scelga di provvedere a tale
insorgenza con l’esercizio del controllo sul pensiero e il conseguente compromesso generale, definito da
Moscovici (1976) come fenomeno della “normalizzazione”; tale fenomeno genera una negoziazione da
parte dei membri a favore di una decisione di accordo comune, spesso associata ad una rinuncia alle proprie
personali opinioni di partenza.

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Gli effetti di questo processo risultano essere negativi, in quanto spesso non producono cambiamento ma
stasi, evitando la discussione che invece potrebbe generare positive rielaborazioni delle posizioni iniziali,
favorendo spunti più creativi.
Del resto, chiunque di noi può aver sperimentato, all’interno di un gruppo, vicende in cui i veri processi di
trasformazione si sono verificati a partire da dispute o divergenze, in seguito alle quali è stato possibile
considerare nuove prospettive e integrare più punti di vista, aumentando il grado di interazione e
alimentando la curiosità, a favore di una nuova contrattazione.
Facciamo un esempio: un gruppo di turisti in partenza per un viaggio itinerante in Italia, secondo tabella di
marcia, farà delle soste per pranzo e per cena presso una serie di ristoranti. Durante la terza giornata, una
parte del gruppo propone all’altra di optare per un pranzo a sacco, dal momento che è una bella giornata di
sole e il paesaggio intorno offre la possibilità di godere della natura e dell’aria buona, ma trova da parte loro
una forte resistenza, legata al fatto che il pranzo sia stato già pagato. Di fronte a una tale chiusura nel
vagliare un’opzione diversa da quella prestabilita, alcuni membri del gruppo sembrano andare in vero e
proprio conflitto e ostilità, concentrandosi esclusivamente sull’aspetto meramente economico della
questione. Il tour operator, rendendosi conto del fatto che la situazione stia precipitando verso lo scontro
acceso, proverà ad intervenire, favorendo una compartecipazione di tutto il gruppo e la possibilità di creare
altre eventuali alternative. Nel momento in cui il gruppo comincia ad interagire confrontandosi, quello che
sembrava essere uno scontro destinato a finire in litigio, diventa lo spunto per una proposta fino a quel
momento non considerata: Gino propone di recarsi al ristorante presso cui avrebbero dovuto pranzare e
chiedere la gentilezza di poter convertire il pasto in cibo da asporto. La proposta non solo viene accettata ma
offre un nuovo spunto, fino ad allora completamente offuscato dal bisogno di affermare le proprie ragioni,
che soddisferà le esigenze di tutti. Il gruppo ha così la possibilità di convertire un’iniziale divergenza in
un’opportunità di interazione più ampia e di condivisione inaspettata.
Chiarito questo punto, è evidente che il conflitto, a discapito di blande credenze, possieda un forte valore
positivo e ristrutturante per il gruppo, ad eccezione di quello distruttivo che non promuove la cooperazione
dei membri ma anzi è orientato esclusivamente al disfattismo e ad allontanare i componenti del gruppo,
anche qualora vengano chiarite le cause scatenanti.
Nel caso in cui i conflitti raggiungano un livello tale da risultare non risolvibili, può verificarsi un vero e
proprio “scisma” (Sani e Reicher, 1998) a causa del quale il gruppo originario si divide in sottogruppi, fin
quando uno di essi arriva proprio a scindersi, a causa di una incompatibilità di valori condivisi.
Sono stati individuate delle caratteristiche che determinano più facilmente lo scisma (Sani, 1998) e alcune di
esse prendono l’avvio innanzitutto dalla minaccia all’identità gruppale, che abbiamo già precedentemente
trattato, alla quale si aggiungono una forte e marcata differenza tra l’ingroup e l’outgroup e una forte
impermeabilità all’influenza esterna.
Secondo Tajfel (1978) l’identità sociale è “la parte del concetto di sé individuale che deriva dalla
consapevolezza di essere membro di un gruppo sociale (o più gruppi) con i valori e il significato emotivo
che comporta questa appartenenza” ed è, dunque, fondamentale per ogni individuo contare sul fatto di
appartenere ad un ingroup, di cui possedere una visione positiva.
L’importanza dell’ingroup non può essere valorizzata a dovere se non lo si rapporta all’outgroup che,
distinguendosene, ne alimenta ancor di più la compattezza e l’unione.
Con questa premessa, sarà abbastanza facile immaginare che, così come all’interno di un gruppo si
verificano conflitti, allo stesso modo ciò può verificarsi tra un gruppo e l’altro, prendendo origine spesso da
una vera e propria competizione sociale.
4.4. Competizione sociale e processi inter-gruppi
La competizione sociale deriva principalmente da tre processi, quali l’identificazione sociale, per la quale
gli individui si riconoscono come appartenenti ad un gruppo; il confronto sociale, già prima citato, che
contribuisce a valorizzare i gruppi in relazione ad un confronto con altri; ed infine la categorizzazione
sociale, che consente di costituire delle categorie rappresentative del mondo sociale, accentuando le
differenze tra queste e esaltandone, invece, le somiglianze all’interno di uno stesso gruppo.
Quest’ultima è il processo fondamentale che interessa le relazioni inter-gruppi, dal momento che permette di
ordinare e semplificare, a livello cognitivo, ciò che ci circonda, facendolo secondo le somiglianze e le
differenze: è un fenomeno che consente, in fin dei conti, alla specie umana di sopravvivere e di affrontare
quotidianamente il mondo.

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A proposito della categorizzazione, risulta importante fare un inciso circa i prodotti della stessa a livello
cognitivo. E’ vero infatti che questo processo semplificativo, che rende possibile all’individuo di avere
rappresentazioni del mondo suddivise in categorie, genera inesorabilmente delle vere e proprie immagini
mentali che entrano a far parte di esse e a cui associamo porzioni di realtà, quando ne veniamo stimolati.
Tajfel (1981) definisce, per l’appunto, stereotipo il risultato finale della categorizzazione, evidenziandone
l’aspetto di condivisione all’interno di un gruppo e l’utilizzo di esso come giustificazione e spiegazione per
una serie di eventi ed azioni commesse da un gruppo verso l’altro.
A livello sociale e nelle dinamiche inter-gruppi, lo stereotipo, dunque, assume un valore sia in quanto
legittimazione di alcuni eventi sociali e sia come generatore di aspettative comuni; inoltre, dal momento che
agisce su un determinato gruppo, sarà anche fautore di una conseguente reazione da parte del gruppo stesso,
che finirà inesorabilmente per rinforzarlo, secondo la profezia che si autoadempie.
Tornando al processo di categorizzazione, dunque, è possibile adesso comprendere meglio quanto in un
gruppo essa venga adoperata anche per consolidare l’identità del gruppo stesso, esaltando le somiglianze
interne, rispetto al prototipo appartenente all’outgroup.
E’ interessante notare che, da studi su bambini americani (Horowitz e Horowitz 1938), è stato dimostrato che
già i bambini posseggono una categorizzazione del mondo, in cui la categoria basilare era quella
dell’appartenenza etnica (bianco-nero), accompagnata da quella del genere (maschio-femmina) e dallo status
socio-economico.
L’aspetto etnico non può che farci riflettere su quanto possa questa categorizzazione, e dunque questa
differenza sostanziale che viene a crearsi tra un ingroup e un outgroup, essere poi l’origine di pregiudizi o
discriminazioni.
Da ricerche sperimentali (Rabbie ed Horwitz ,1969) è emerso che il favoritismo nei confronti del proprio
gruppo è determinato immediatamente dalla condizione di appartenenza e di interdipendenza e in aggiunta
dalla massimizzazione dei propri benefici, a discapito dell’outgroup.
Ciò dipende, inoltre, dalla percezione dell’outgroup rispetto a quella dell’ingroup: sappiamo che i membri di
un gruppo si identificano con esso, proprio in relazione all’appartenenza, e per tale motivo risulterà più
complessa la percezione dell’ingroup di cui si fa parte rispetto a quella dell’outgroup; quest’ultimo, di cui si
avrà un’immagine più compatta e quindi minacciosa, determinerà l’esigenza di consolidare la propria.
Il pregiudizio sorge proprio a partire dall’appartenenza diversa dei membri dell’outgroup, verso il quale
l’ingroup tenderà a produrre atteggiamenti discriminatori e/o aggressivi (Brown, 1995) e, riferendoci a
quanto prima descritto, esso si accompagna spesso allo stereotipo iniziale, che ne è il punto di partenza a
livello di categoria cognitiva e che può assumere connotazioni molto spesso negative.
Sono stati effettuai esperimenti condotti all’interno di campi estivi (Sherif e Sherif, 1953; Sherif et al., 1955;
1961) in cui gli adolescenti americani che ne prendevano parte non sapevano di essere all’interno di un
esperimento e in cui veniva concentrata l’attenzione sui vari aspetti dei comportamenti inter-gruppi.
L’obiettivo era dimostrare come creando dei sottogruppi e mettendoli in competizione tra loro vi fosse un
aumento delle ostilità e degli scontri, che si riducevano solo qualora venisse prefissato un obiettivo comune
da raggiungere (scopo sovraordinato) che richiedesse la collaborazione di tutti.
E’ stato possibile evincere che una delle principali causa del conflitto inter-gruppi fosse connessa proprio al
conflitto di interessi e che lo scopo sovraordinato avesse una funzione di ricongiunzione tra ingroup e
outgroup.

“LA TEORIA SISTEMICA NELL’APPROCCIO SOCIALE” ’

1 Introduzione
La teoria sistemica rappresenta una sorta di rivoluzione nel campo della psicologia rispetto all’approccio
utilizzato per lo studio del comportamento umano. Si è passati da un modello intrapsichico ad uno
interpersonale, che tenesse conto del sistema di relazioni in cui l’individuo è inserito e di come questi ne
influenzasse l’agire, i pensieri, i desideri, le emozioni. Gli studiosi si sono interessati allo studio di sistemi
complessi, quali la famiglia, ponendo particolare attenzione al modo in cui le parti concorrono a formare il
tutto, al tipo di comunicazione esistente tra esse e agli effetti che le interazioni hanno sui partecipanti
all’azione, ossia in che modo le azioni di uno influenzano l’altro e viceversa all’interno di una sequenza
comunicativa. Si passa da un modello deterministico, di tipo lineare (causa-effetto) ad uno di tipo circolare.

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2 La psicoanalisi: dall’intrapsichico all’interpersonale
La teoria dei sistemi ha origine dal pensiero di matematici, fisici e ingegneri tra la fine degli anni ‘40 e gli
inizi degli anni ‘50. Nell’ambito della cultura americana, assistiamo alla necessità di superare la
settorializzazione degli studi e recuperare un approccio olistico ai problemi e allo studio dell’essere umano,
che permettesse agli studiosi di avvalersi di concetti provenienti da altre discipline come la biologia,
l’ingegneria, l’antropologia, la sociologia. L’approccio interdisciplinare e multidimensionale ha portato, in
particolare gli studiosi nel campo della psicologia, a spostare la propria attenzione dai fattori intrapsichici,
ampiamente approfonditi in ambito psicoanalitico, ai fenomeni interpersonali e ai contesti in cui essi hanno
luogo.
In realtà, diversamente da quanto noi tutti possiamo immaginare, è stata la psicoanalisi a costituire il terreno
fertile allo sviluppo della terapia relazionale. Il complesso di Edipo presenta, infatti, un nucleo relazionale, in
quanto descrive lo stretto legame esistente tra la formazione della personalità e le vicende familiari a cui il
bambino prende parte (Freud, 1905). Di fatto, però, Freud più che interessato ad approfondire la relazione fra
i vari partner del triangolo primario, è preoccupato di chiarire le sue conseguenze sui processi mentali
dell’individuo e pertanto, si dedica al mondo intrapsichico dell’essere umano e pone le spinte pulsionali al
centro della sua spiegazione sul comportamento (Freud, 1917, 1925).
Alla fine degli anni trenta all’interno della psicoanalisi assistiamo ad un importante movimento verso
l’ambiente. Per Hartmann (1939) diversamente da Freud, l’Io non è il risultato dell’adattamento dell’Es alla
realtà ma ha una propria genesi autonoma con funzioni psichiche proprie. Mentre Freud aveva chiuso il
conflitto nel mondo intrapsichico tra l’Io, l’Es e il Super-io, Hartmann, pur non escludendo quanto detto da
Freud, sposta il conflitto tra l’individuo e l’ambiente. In ambito clinico assistiamo anche ad un cambiamento
nel modo di concepire le patologie mentali. Se per Freud le cause dei disturbi psichici erano esclusivamente
i bisogni inconsci, l’odierna psicologia preferisce parlare di problematiche conflittuali, in cui rientrano le
questioni inconsce ma soprattutto quelle che nascono principalmente dall’interazione tra l’individuo e
l’ambiente. Esse possono riguardare le relazioni con gli altri, i ruoli sociali e il contesto socioculturale di
appartenenza (Gambini, 2007).
Se da una parte Hatrmann si discosta da Freud rispetto alla concezione che ha dell’Io, dall’altra ne condivide
il primato delle pulsioni. Entrambi riconoscono come obiettivo principale del neonato la scarica della
tensione libidica o aggressiva che si viene a creare al suo interno.
La teoria delle relazioni oggettuali, di cui M. Klein (1932) è l’ideatrice, considera, invece, le pulsioni solo
all’interno del contesto relazionale, per cui esse emergerebbero nella relazione tra il bambino e la madre.
Dunque, al centro di questo nuovo modello teorico c’è quindi la “relazione”. Secondo la Klein il bambino
cresce interiorizzando non un oggetto o una persona, ma un’intera relazione: questa comporta un particolare
vissuto emotivo (esperienza affettiva), uno specifico modo di sentire se stesso (esperienza di sé) e di sentire
l’altro (esperienza d’oggetto) (Gambini, 2007).

3 La teoria dell’attaccamento: relazione madre-bambino


A partire dai teorici delle relazioni oggettuali, numerosi sono stati gli studiosi che si sono occupati in
particolar modo della relazione madre-bambino, in quanto sulla base delle ricerche condotte in ambito
psicologico essa sembra essere la prima e la più importante relazione che il bambino stabilisce con l’altro da
sé.
Quando il piccolo della specie umana si affaccia alla vita si trova in una condizione di Hilflosigkeit, ossia di
impotenza, immaturità tale da dipendere totalmente dalle cure di un’altra persona. In tale contesto, la
relazione con l’altro permette al bambino di sperimentare alcune emozioni e costruire le prime esperienze
emotive. A partire dal tipo di risposta che la madre fornisce alle richieste del bambino si determinerà un dato
tipo di attaccamento e da qui la rappresentazione che il bambino avrà di sé, come persona buona o cattiva,
nonché della relazione che ha sviluppato con la madre (es. se il bambino piange perché ha fame e la madre
soddisfa il suo bisogno, il bambino si formerà un’immagine di sé come essere buono e meritevole). Dunque,
il bambino si forma quello che Bowlby definisce “modello operativo interno” (MOI). La rappresentazione
cognitiva che il bambino si formerà della sua prima relazione di attaccamento influenzerà tutte le successive
relazioni. Infatti secondo la teoria dell’attaccamento, il soggetto ha una tendenza a sviluppare lungo l’arco
della vita legami affettivi fondati sul modello relazionale vissuto nei primi mesi di vita con la figura di
attaccamento (Gambini, 2007).

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La ridondanza delle interazioni con le persone significative permette al bambino di collegare le proprie
sensazioni globali e diffuse con specifiche percezioni e ricordi, trasformandole in esperienze emotive. Da qui
possiamo immaginare le conseguenze sullo sviluppo psichico del bambino quando le interazioni con le
persone significative e le emozioni ad esse connesse sono colorate negativamente. Un esempio può essere la
mancanza di risposta da parte dell’adulto significativo alle richieste del bambino, nonché alla capacità dei
genitori di riconoscere, accogliere e rispondere ai bisogni emotivi del piccolo (Baldascini, 1995).
Immaginiamo un bambino il cui bisogno di affetto e di amore vengono trascurati, ma cosa più invalidante,
vengono ignorate le percezioni e i sentimenti fin dall’infanzia. Di conseguenza il piccolo dovrà adattare le
sue percezioni a quello che gli viene detto dalla sua figura di riferimento (es. il bambino vede la madre triste
e le dice: mamma sei triste? La madre gli risponde: no non sono triste). Ciò che conta è la percezione
affettiva e il vissuto emotivo soggettivo conservato nella propria infanzia, anche se qualche volta questo non
coincide con la presenza oggettiva di carenze e violenze da parte delle figure genitoriali. Tali sentimenti
spiacevoli generano una perdita della fiducia in se stessi e nelle proprie percezioni, che da adulti comporta
l’incapacità a discernere le situazioni e/o persone che possono arrecare danno.

4 Il modello interpersonale dei neofreudiani


Influenzati dallo sviluppo della sociologia e dell’antropologia, i neofreudiani come Sullivan (1950), Horney
(1939) e Fromm (1955) concentrano più dei propri predecessori l’attenzione sull’universo relazionale.
L’uomo è considerato un essere sociale che cresce nell’interazione con la comunità in cui vive e la sua
personalità è un’entità che non può essere compresa se viene isolata dalle interazioni che egli stabilisce con
le persone che lo circondano. Sebbene non venga negata l’importanza del dato biologico, viene sottolineato
come il complesso di relazioni nel quale l’individuo si sviluppa influenza il suo modo di essere e di
comportarsi. Se per la biologia e per la visione freudiana l’adattamento corrisponde all’esigenza
dell’organismo di modificare se stesso per rispondere alle esigenze della sopravvivenza e della perpetuazione
della specie, secondo la prospettiva interpersonale, invece, tra l’organismo e l’ambiente viene a stabilirsi un
processo circolare nel quale l’uno cambia l’altro. Assistiamo così al passaggio da un’ottica lineare e
deterministica (causa-effetto) ad una circolare, in cui non è più possibile distinguere la causa dall’effetto, in
quanto ogni elemento influenza ed è a sua volta influenzato dall’altro (Gambini, 2007).

5 I contributi della psicologia sociale


Con la psicoanalisi abbiamo assistito nel corso degli anni ad uno spostamento di interesse verso l’ambito
delle relazioni, che ha permesso ai diversi studiosi di osservare e studiare l’essere umano secondo un’ottica
più complessa che tenesse conto del sistema di relazioni in cui l’individuo è inserito.
Negli anni cinquanta la psicologia sociale inizia a studiare la famiglia come piccolo gruppo, a partire
dall’influenza delle teorie di Lewin (1951). Lo psicologo statunitense, appartenente al movimento gestaltista,
si concentra nello studio dello sviluppo dei processi motivazionali e interpersonali a partire dalla “teoria del
campo”. Mediante la suddetta teoria Lewin spiega a livello psicologico i rapporti che intercorrono tra un
soggetto e il suo ambiente. Secondo questa teoria possiamo dire che l’individuo è collocato al centro di un
campo di forze ambientali che lo modificano mentre lui modifica le stesse. Dunque, il comportamento
dipende dalla dialettica tra fattori personali e fattori situazionali.
A partire dalle teorie di Lewin, nell’ambito della psicologia sociale si sono sviluppate numerose ricerche che
hanno avuto per oggetto la famiglia, intesa come piccolo gruppo. Volendo riprendere la definizione di Lewin,
il gruppo è: “qualcosa di più, o, per meglio dire, qualcosa di diverso dalla somma dei suoi membri: ha una
struttura propria, fini peculiari, e relazioni particolari con gli altri gruppi. Quel che costituisce l’essenza non
è la somiglianza o la dissomiglianza riscontrabile tra i suoi membri, bensì la loro interdipendenza. Esso può
definirsi come una totalità dinamica. Ciò significa che un cambiamento di stato di una sua parte o frazione
qualsiasi interessa lo stato di tutte le altre. Il grado di interdipendenza delle frazioni del gruppo varia da una
massa indefinita a un’unità compatta. Dipende, tra gli altri fattori, dall’ampiezza, dall’organizzazione e dalla
coesione di gruppo” (Lewin, 1951,)1. Come vedremo più avanti, dalla descrizione di gruppo di Lewin i
ricercatori sulla famiglia faranno propri due concetti: quello che la famiglia va al di là della somma delle sue
parti e quello di interdipendenza dei suoi membri.
Un limite degli studi sulla famiglia nell’ambito della psicologia sociale è stata, senza dubbio, la perdita di
interesse per i gruppi “vivi” a favore di quelli artificiali. Lo studio della famiglia si trasforma in questo modo
in uno studio delle “famiglie artificiali”: si fanno vivere insieme degli estranei affidando a ciascuno di essi un

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ruolo. Di fatto questi studi risultano incapaci di descrivere la complessità della famiglia proprio perché, come
scrive Haley (1973) (uno dei primi terapeuti della famiglia), nessuno di questi “aveva provato a descrivere e
a valutare il comportamento abituale di un gruppo che avesse una storia comune e che in futuro avrebbe
conservato dei legami”2.

6 La teoria dei sistemi


L’esigenza di superare un modello meccanicistico di causalità lineare a favore di un modello di causalità
circolare che tenesse conto delle complesse interazioni tra le parti di un sistema e le valutasse nelle loro
connessioni reciproche, ha portato negli anni quaranta alla divulgazione della teoria dei sistemi concepita dal
biologo Von Bertalanffy, intorno agli anni trenta. L’intenzione dell’autore non era quella di elaborare una
vera e propria teoria ma piuttosto di elaborare un linguaggio comune alle diverse discipline scientifiche, con
la finalità di offrire a studiosi diversi, la possibilità di dialogare tra loro senza fraintendimenti e
incomprensioni. Tale teoria cominciò a farsi strada al termine della seconda guerra mondiale, periodo in cui
si avvertiva una crescente difficoltà nello stabilire un dialogo fruttuoso tra studiosi di differenti discipline
scientifiche, in conseguenza dell’alto ordine di specializzazione. Nasceva così l’esigenza di sviluppare una
cornice di riferimento metateorica che permettesse una comunicazione proficua tra specialisti di diverse
discipline, attraverso la formulazione di costrutti teorici in grado di permettere la descrizione e la discussione
delle relazioni generali del mondo empirico (Boulding 1956a). L’accento posto dalla teoria sulla ricerca di
similitudini strutturali in sistemi differenti al fine di poter formulare delle generalizzazioni, concezione
definita da von Bertalanffy prospettivismo (von Bertalanffy 1950) ci fa capire come la teoria stessa
rappresenti un approccio moderno all’unificazione della scienza.
Questo nuovo sguardo ci pone di fronte ad una prospettiva in cui unificare non significa ridurre ma
organizzare: per costruire la spiegazione scientifica di un fenomeno, non è sufficiente tentare di suddividerlo
in unità di analisi più semplici e studiare tali unità separatamente l’una dalle altre, ma è necessario studiare le
interrelazioni tra queste unità. Poniamo l’attenzione sulla nostra mano e pensiamo che per studiarla non è
necessario analizzare un dito per volta, ma in questa nuova prospettiva, posso considerare la mia mano come
il risultato delle quattro relazioni che ho tra le dita.
Una visione unitaria sostituisce le concezioni isolate, e la considerazione degli insiemi sostituisce la
considerazione delle parti. Un carattere importante della teoria è l’accento posto sull’andare oltre il
meccanicismo, concentrando l’attenzione sugli aspetti vitali dei sistemi, e soprattutto sull’uomo, inteso come
sistema ecologicamente immerso in sistemi multipli (Gray et al. 1969).
In quegli anni in biologia si stava facendo strada la concezione organicistica, seconda la quale bisogna
studiare i processi non solo separatamente ma anche nel modo in cui si organizzano. Uno degli elementi
fondamentali dell'organizzazione negli organismi viventi è la natura gerarchica, ovvero l'esistenza di più
livelli di sistema all'interno di ogni sistema più ampio. Così le cellule si combinano per formare i tessuti, i
tessuti per formare gli organi e gli organi per formare gli organismi. A loro volta gli organismi vivono in
gruppi formanti sistemi sociali che vanno poi a formare attraverso l'interazione con altre specie gli
ecosistemi. Ciò che risultò subito chiaro fu l'esistenza di diversi livelli di complessità e che ad ogni livello di
complessità i fenomeni osservati mostrano proprietà che non esistono al livello inferiore.
All’interno dell’universo i sistemi si possono ordinare in una gerarchia, con una progressiva suddivisione in
livelli sistemici, dal più grande al piccolo fino al livello elementare. I sistemi al livello al quale ci si riferisce
vengono chiamati sistemi, quelli al livello superiore sovrasistemi, quelli al livello ancora superiore
sovrasovrasistemi, quelli al livello inferiore sottosistemi e quelli al livello ulteriormente inferiore
sottosottosistemi3.
Il concetto di sistema presenta un vantaggio descrittivo, in quanto non pretende di rappresentare la «realtà»,
ma è semplicemente il modo utilizzato per descrivere la realtà, scindendola e scegliendo ciò che si desidera
studiare. La suddivisione della realtà in livelli progressivamente inclusivi, facilita la scelta di quello che
interessa in base a ciò che l’osservatore ritiene necessario in quel determinato momento per avere una
comprensione più soddisfacente dei fenomeni.
Secondo la visione sistemica, è il più complesso a spiegare il più semplice, non viceversa.
Ad esempio, si pensi a come sarebbe pretenzioso pensare di riuscire a fornire spiegazioni esaustive riguardo
al comportamento di un organismo partendo da una cellula dello stesso. Allo stesso modo sono le regole del
sistema generale della famiglia a spiegare il comportamento dei singoli individui.

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Sebbene studiando i sistemi dei livelli superiori si riesca in genere a formulare teorie sufficientemente
adeguate riguardo al comportamento dei sistemi dei livelli inferiori, ciò non esclude che non si debba
prestare attenzione anche ai livelli più bassi. L’ottica sistemica si fonda proprio su questa contemporanea
valutazione dei livelli superiori e di quelli inferiori, poiché la sua filosofia non e quella dell’esclusione, dell’
aut/aut, bensì quella dell’inclusione di tutto ciò che è rilevante, quella del vel/vel. L’analisi di un livello non
esclude dunque gli altri: non si esamina o questo o quel livello, ma piuttosto sia questo che quello, dato che
coesistono e si influenzano reciprocamente.
Parallelamente in psicologia, con la scuola della Gestalt inizia a svilupparsi una visione complessa allo
studio dei fenomeni umani. Mentre la psicologia associazionista studia il mentale a partire dagli elementi più
semplici che lo compongono, la psicologia della gestalt è interessata a studiare come l’interazione dei singoli
elementi concorrono a dare il tutto.
Come vediamo, l’interesse dell’osservatore non è più focalizzato su fenomeni isolati ma su “totalità
organizzate” che Von Bertalanffy (1971) definisce “organismica”.
Il contributo della Teoria Generale dei sistemi di Von Bertalanffy sta indubbiamente nel favorire uno studio
interdisciplinare e al contempo tener conto della complessità dei sistemi oggetto di studio. Ogni organismo
può essere concepito come un sistema: una totalità che si comporta in maniera diversa dalla semplice somma
delle sue parti; è una totalità ordinata e il modo in cui è ordinata ha conseguenze significative sul suo modo
di comportarsi. Le parti di cui è composta sono in interazione tra di loro e tendenti all’equilibrio. Se
guardiamo il sistema nella sua complessità possiamo osservare dei sottosistemi tra loro correlati su cui agisce
un pattern di influenza circolare piuttosto che lineare (Betrando e Toffanetti, 2000).
Il concetto di sistema a partire dalla biologia inizia a diffondersi nelle altre discipline come l’ingegneria,
l’economia, la psicologia. Quest’ultima utilizza la teoria dei sistemi per lo studio delle relazioni
interpersonali, in quanto l’interazione umana si “organizza” secondo i criteri e le modalità di un sistema, per
cui, dato il principio dell’interdipendenza, ogni azione su un comportamento modifica l’intero sistema.
Dunque, possiamo affermare che un sistema è un insieme di elementi interconnessi ma dobbiamo tenere ben
presente che non tutti gli insiemi di parti connesse tra loro possono dirsi sistemi. Uno degli elementi
fondamentali per definire un sistema è la scelta del gruppo di elementi al quale si da il nome di sistema. La
cellula biologica, per esempio, può considerarsi un sistema ma in altre circostanze può essere opportuno
considerare come sistema un gruppo di cellule con le medesime funzioni che formano un organo (per es.
fegato, cervello, cuore, ecc.) questo organo diviene esso stesso un componente di un sistema più grande
(l’organismo completo). A sua volta, sul piano sociale, l’uomo può essere visto come un membro di un
sistema familiare, come parte di un sistema politico, di sistemi organizzativi, etc (Baldascini, 1995).
Quando parliamo di sistema dobbiamo fare una distinzione tra differenti tipi di sistemi: i sistemi aperti e
chiusi.
Un sistema aperto si ha quando se tra esso e l’ambiente si verificano scambi di materia-energia o di
informazione, Un sistema chiuso si ha qualora attraverso i suoi confini non avvenga alcuno scambio di
materia-energia o di informazione. Mentre nei sistemi aperti il livello di entropia può aumentare, rimanere
stabile o diminuire, nei sistemi chiusi l’entropia va in genere incontro a un progressivo aumento, e in ogni
caso non può mai ridursi. Va sottolineato come in effetti nessun sistema concreto sia completamente chiuso,
e sia quindi più rispondente alla realtà parlare di sistemi relativamente chiusi (Miller 1978).
Un’altra distinzione attiene alla differenza fra schema di organizzazione di un sistema e struttura fisica del
sistema stesso.
Lo schema di organizzazione che caratterizza tutti i sistemi viventi è lo schema a rete. I sistemi viventi sono
sistemi autopoietici in quanto la loro organizzazione interna è una rete che produce continuamente se stessi.
A livello del suo schema di organizzazione (a livello cioè, della sua auto poiesi- autoriproduzione), dunque, il
sistema vivente può dirsi chiuso e autonomo. Il suo ordine e il suo comportamento non sono determinati da
influssi ambientali ma derivano da processi autonomi di auto-organizzazione. A livello della sua struttura (a
livello, cioè, delle componenti fisiche del sistema), il sistema vivente è invece aperto. Esso interagisce
continuamente con l'ambiente, scambiando con esso materia ed energia e trasformandosi, di conseguenza,
sulla base di processi metabolici e di sviluppo. Grazie alla coerente integrazione di chiusura e di apertura
all'ambiente e cioè alla particolare coesistenza di permanenza e cambiamento, ciascun sistema vivente, ha
modo di conservare la propria unità identitaria, nonostante vada incontro a continui mutamenti fisici, per
effetto dell'azione dell'ambiente esterno.

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I sistemi che interessano gli psicologi sono quelli aperti e godono delle seguenti proprietà (Watzlawick e
coll., 1971):
F 0Totalità:
B7 ogni parte di un sistema è in rapporto con tutte le altre parti in modo tale che un cambiamento in
una parte determinerà un cambiamento in tutte le altre parti e in tutto il sistema. La famiglia è un’ottima
rappresentazione del rapporto di interdipendenza esistente tra i comportamenti dei membri che vi fanno
parte. In particolare, rappresenta un sistema con “stato stazionario”, ossia è stabile rispetto a certe sue
variabili se esse tendono a restare entro limiti definiti. Jackson analizzando le famiglie di pazienti psichiatrici
osservò che il comportamento e la patologia del paziente costituivano “meccanismi omeostatici” che
contribuivano a fornire un equilibrio al sistema disturbato. Qualora il paziente manifestava dei miglioramenti
o dei peggioramenti (cambiamento), rompendo così l’equilibrio raggiunto, i suoi cambiamenti avevano degli
effetti sugli altri membri della famiglia che manifestavano talvolta disturbi funzionali (interdipendenza tra le
parti). Qualora le parti di un sistema non fossero tra loro in un rapporto di dipendenza esse si presenterebbero
come un agglomerato, costituito dalla semplice somma delle parti in gioco. Tale proprietà è definita
sommatività ed è in opposizione alla totalità, in quanto in quest’ultima le parti di un sistema costituiscono
una complessità che non è possibile spiegare come per la sommatività in base agli elementi considerati
separatamente. Infatti la famiglia non è la somma dei singoli membri; esistono delle caratteristiche che sono
proprie del sistema, come il comportamento sintomatico, e che trascendono dalle qualità individuali dei
membri. Un’altra teoria dell’interazione contraddetta dal principio di totalità è il rapporto unilaterale tra le
parti che non tiene conto della circolarità delle influenze tra i vari elementi del sistema, per cui A può
influenzare B ma non viceversa. Il concetto di unilateralità riprende il modello di causalità lineare per cui A
determina B, senza tenere conto dell’influenza che B con la sua risposta esercita su A.
F 0Equifinalità:
B7 nei sistemi aperti vige il principio di equifinalità, secondo cui i risultati, intesi come
modificazioni del sistema dopo un lasso di tempo, sono determinati non dalle condizioni iniziali come
avviene nei sistemi chiusi ma dai parametri del sistema. Molte sono le variabili che possono intervenire a
mutare l’andamento iniziale. Dunque, essendo il sistema indipendente dalle condizioni iniziali, stessi risultati
possono essere determinati da condizioni iniziali diverse e risultatati diversi possono essere prodotti da
medesime cause.

7 Principi di causalità
La prospettiva relazionale e la teoria generale dei sistemi contrappongono, al vecchio metodo scientifico,
basato sulla causalità lineare un nuovo approccio che prende in considerazione le reciproche interazioni tra
variabili secondo rapporti di causalità circolare. Per comprendere pienamente la portata di questo salto
epistemologico, è opportuno esaminare in maggiore dettaglio alcuni aspetti.
E’ possibile distinguere due differenti modalità di concepire i rapporti causali: la modalità lineare e la
modalità circolare.
Sebbene il principio di causalità lineare si possa considerare valido con buona approssimazione in
determinati campi, nondimeno la sua applicabilità risulta tutt’altro che universale. Infatti, oltre che lineare, la
dipendenza enunciata dal principio causale è unilaterale, e non tiene in conto della possibilità di un’azione
reciproca tra una causa e il suo effetto. Per quanto riguarda ad esempio lo studio dei sistemi viventi o delle
macchine dotate di meccanismi di autoregolazione, tale principio risulta assai poco adatto a descrivere la
complessità delle mutue interazioni che vi hanno luogo. In simili sistemi, una categoria di determinazione
che risulta essere particolarmente importante è quella della connessione causale reciproca, che prevede la
determinazione del conseguente in base ad un’azione mutua (Bunge 1963). Un caso particolare di causalità
reciproca è rappresentato dalla causalità circolare, che ha luogo qualora si verifichi una successione di nessi
causali lineari concatenati tra loro con ritorno al punto di partenza, e venga così a formarsi un ciclo che può
essere percorso più volte (Loriedo e Velia 1989). Un ciclo causale di questo tipo ha tipicamente la forma di
un anello, e tale anello può essere costituito da un minimo di due ad un numero teoricamente infinito di
elementi.
Come possiamo spiegare che una cosa ne causa un’altra? Molteplici sono le interpretazioni date dagli
studiosi. Hegel, in particolare, riteneva che il nesso causale lineare fosse solo un caso di causalità reciproca.
Questa prospettiva pare essere maggiormente attendibile rispetto alle altre, partendo dall’idea che in una
gerarchia di complessità la causalità circolare si colloca ad un livello superiore, rispetto alla causalità lineare
in quanto la include. Per Maturana, la parola causa è sinonimo di interazione istruttiva, in cui A determina
unilateralmente la risposta di B. Pensiamo ad esempio alla lezione tenuta da un professore che determina in

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tutti gli studenti un identico livello di comprensione e fa quindi sì che essi diano agli esami risposte
identiche; o ancora, un terapista usa un certo tipo di intervento che stimola sempre esattamente la stessa
reazione in qualunque paziente o famiglia e così via. Perciò, quando Maturana afferma che la causalità è
impossibile, intende dire che la lezione del professore non determina le risposte degli studenti (il che
significherebbe che si tratta di un’interazione istruttiva); essa seleziona le risposte degli studenti, ma è la loro
struttura che le determina. Selezionare è qualcosa di simile a premere il pulsante “Sprite” di un distributore
automatico. La pressione del pulsante seleziona la risposta della macchina (che vi fornisce la Sprite), ma non
determina il fatto che la macchina vi dia la Sprite quando premete il bottone. In sintesi, Maturana sostiene
che il nostro uso abituale del termine “causa” implica sempre o rischia di implicare un determinismo del tipo
“interazione istruttiva” mentre la causalità è sempre solo un processo di selezione. La causalità così come la
intendiamo comunemente non esiste.

8 La cibernetica
Negli anni in cui il paradigma sistemico faceva la sua comparsa tra gli studiosi dell’epoca, la teoria
cibernetica si poneva come un campo di studi interdisciplinare tra le scienze e l'ingegneria. Lo sviluppo
pressoché contemporaneo ha fatto in modo che tra i due orientamenti vi fosse un ricco scambio rispetto allo
studio dei sistemi umani. Entrambe le teorie hanno in comune l’intento antiriduzionista e quello
interdisciplinare. Mentre la prima si occupa di spiegare i sistemi dal punto di vista strutturale, la seconda
osserva gli stessi dal punto di vista processuale.
La cibernetica nasce per la progettazione e la realizzazione di sistemi artificiali automatici ma è capace di
interpretare anche i sistemi viventi. Il suo ideatore Wiener (1948) la definisce: “la scienza del controllo e
della comunicazione nell’animale e nella macchina”4. In breve, si occupa dello studio dell’autoregolazione
come si verifica sia nei sistemi naturali (la regolazione omeostatica corporea) sia in quelli artificiali
(termostato che regola il riscaldamento casalingo).
Wiener arriva allo studio dello scambio d’informazione e dei sistemi autoregolantisi dall’industria bellica,
nel tentativo di ideare un sistema di puntamento per i cannoni antiaerei che sia capace di autocorreggersi
come un arto umano. Conia così il concetto di feedback o retroazione secondo cui le unità che compongono
un sistema cibernetico non sono semplici emittenti o bersagli di una comunicazione ma danno e ricevono
sempre un messaggio di ritorno rispetto al messaggio emesso o ricevuto. Dunque, una parte del sistema
causa una modificazione in un’altra parte che a sua volta retroagisce modificando la prima e così via
(relazione circolare).
La retroazione può essere positiva o negativa a seconda se produce un cambiamento, ossia il feedback
emesso ha la funzione di far proseguire il sistema in direzione del suo movimento precedente, comportando
una perdita di equilibrio nel sistema stesso (retroazione positiva) o se contribuisce a garantire uno stato di
omeostasi, ossia una stabilità nelle relazioni, per cui il messaggio sull’esito del funzionamento precedente è
usato per aggiustare il meccanismo che regola il funzionamento futuro (retroazione negativa) (Watzlawick e
coll., 1971). Un esempio di retroazione positiva è dato dal fenomeno dell’innalzamento della temperatura. I
ghiacci dei poli perché sono bianchi riflettono il sole, quindi mantengono costante la temperatura. L’aumento
della temperatura globale fa fondere i ghiacci che non riflettono più il sole, quindi la terra si riscalda. Più si
riscalda più i ghiacci si sciolgono, più la terra si riscalda. Un retroazione negativa è data dal termostato:
quando l’acqua raggiunge una certa temperatura lo scaldabagni si spegne. Nel primo caso il processo inizale
continua, nel secondo viene interrotto mantenendo l’omeostasi.
Proviamo a fare un esempio che ci permetta di comprendere meglio il concetto della retroazione. La famiglia
è un sistema autocorrettivo, stabilmente collegato, tendente all’omeostasi. Quando il sistema reagisce a delle
informazioni in entrata (azioni dei membri della famiglia o circostanze ambientali) e le modifica
neutralizzando le potenzialità evolutive che verrebbero attivate e ristabilendo le regole abituali per garantire
la stabilità delle relazioni, ci troviamo dinanzi al fenomeno della retroazione negativa. Immaginiamo una
coppia con un figlio adolescente che si reca in agenzia di viaggio per la prenotazione di una vacanza. La
famiglia in questione è una di quelle che potremmo definire protettiva (regole: controllo e scarsa
autonomia).. Il figlio quasi maggiorenne, sfogliando i cataloghi delle mete balneari, manifesta il desiderio di
andare in vacanza con i propri amici e cerca con lo sguardo la rassicurazione e l’approvazione dei genitori
che magari lasciano trasparire dal proprio volto una certa preoccupazione o timore. L’adolescente,
interpretando il non verbale della coppia, rinuncerà al proprio desiderio rinviando la propria crescita e il
proprio bisogno di autonomia, per rispondere al bisogno di equilibrio all’interno del sistema familiare. Nel

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caso in cui i genitori avessero mostrato approvazione rispetto al desiderio del proprio figlio, avremmo
assistito ad un cambiamento dell’assetto precedente del sistema familiare (retroazione positiva).

9 Bateson e il gruppo di Palo Alto


Negli anni ‘50 Gregory Bateson , un antropologo, venendo a contatto con il pensiero cibernetico, pensò
immediatamente che potesse essere applicato per descrivere le interazioni umane.
L’idea di sistema entra in terapia attraverso la cibernetica più che attraverso la teoria generale dei sistemi, per
dare una risposta a problemi che, per loro stessa natura, non riescono a trovare soluzione in un’ottica
puramente individuale, come il trattamento della schizofrenia, rimasta quasi impermeabile alle terapie
psicoanalitiche.
L’introduzione della teoria dei sistemi e della cibernetica in ambito terapeutico induce uno spostamento di
attenzione del ricercatore che inizia a focalizzarsi sul comportamento interattivo e sui processi di
autoregolazione e trasformazione della famiglia, concepita come insiemi di individui. Sono presi in esame gli
effetti che un dato comportamento ha sugli altri membri del sistema, le reazioni degli altri a questo
comportamento e il contesto in cui tutto ciò accade. L’individuo inizia ad essere concepito non come una
monade ma un essere inserito in una matrice relazionale, sin dal primo istante in cui viene al mondo. Il
sistema di relazioni e il contesto in cui un dato comportamento è agito, hanno un ruolo e un’influenza sul
comportamento umano che non bisogna trascurare quando ci accingiamo al suo studio. Infatti, il mancato
riconoscimento della relazione esistente tra l’evento e la matrice in cui esso si verifica, comporta il rischio di
attribuire all’oggetto di studio proprietà ad esso non appartenenti. Dunque, nell’osservazione e nello studio
dei comportamenti di un dato individuo, l’osservatore deve tenere conto del contesto in cui le azioni sono
agite e delle persone coinvolte. Così facendo passiamo da un’analisi deduttiva della mente, che ci permette di
spiegare la natura della mente umana isolando l’individuo, all’analisi delle manifestazioni osservabili nella
relazione. Proprio a Watzlawick e coll. (1971) si deve l’introduzione del concetto di contesto nello studio
delle relazioni familiari: “un fenomeno resta inspiegabile finché il campo di osservazione non è abbastanza
ampio da includere il contesto in cui il fenomeno si verifica”5.
La famiglia viene così considerata come un sistema relazionale in cambiamento per permettere agli individui
che ne fanno parte di crescere e cambiare influenzandosi a vicenda. La sofferenza di uno dei suoi membri
viene considerata come espressione della disfunzionalità dell’intero sistema in riferimento alle relazioni
interne e/o con il proprio ambiente. In ambito terapeutico, assistiamo al passaggio dall’intrapsichico al
relazionale nonché dal perché al come. Ossia perde rilievo il perché si verificano gli avvenimenti rispetto al
come si verificano (ricercare i pattern di comunicazione nel presente).
Negli anni ‘50 Bateson riuscì ad ottenere dei fondi per la ricerca sui processi della comunicazione, in
particolare quella famigliare, e fondò così un gruppo di ricerca conosciuto come Palo Alto. Inizialmente il
gruppo è guidato da Bateson ed ha tra i suoi esponenti Watzlawick, Jackson, Haley e Weakland.
La scuola di Palo Alto vedeva la famiglia come un sistema cibernetico, che si autogovernava attraverso la
retroazione. Con la retroazione negativa il sistema si correggeva e ritornava allo stato originario, ogni volta
che veniva colpito con informazioni nuove che tendevano invece a sbilanciarlo (nelle famiglie
schizofreniche si osservò un sistema rigido). La famiglia è un sistema omeostatico, con una autoregolazione
automatica, governata da regole precise, che condizionavano o stabilizzavano l’ampiezza entro cui un dato
sistema poteva variare (Andolfi, 2003).
La scuola di Palo Alto, a partire dagli studi condotti sulle famiglie disfunzionali, mise in luce come il sistema
delegava ad uno dei loro membri (il membro sintomatico) il ruolo di “componente omeostatica”, che
riportava ogni volta il sistema al suo stato di tranquillità dopo che una regola era stata minacciata. In
sostanza quando un componente della famiglia manifestava un bisogno nuovo o una maggiore necessità di
svincolo, che avrebbe portato la famiglia ad uno nuovo stadio vitale, il membro sintomatico subiva una
aggravamento o un incremento del sintomo. Il membro sintomatico pagava un prezzo altissimo, ma
permetteva agli altri membri della famiglia di mantenere i rispettivi ruoli, perché tutti gli altri problemi
diventavano secondari rispetto al sintomo del paziente. Dunque, la funzione della persona sintomatica è
quella di avere problemi e di permette agli altri familiari di non esibire difficoltà palesi.
Volendo leggere il disagio di un membro di una famiglia in ottica sistemica, non possiamo concentrarci solo
sull’individuo sintomatico senza prendere in considerazione tutti gli altri. Il paziente designato é il membro
di una famiglia che si fa inconsapevolmente carico del disagio dell’intero gruppo familiare attraverso
l’espressione, manifesta o meno, di una qualche forma di disagio psicologico.

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Lo studio sulle famiglie aveva evidenziato anche come nelle famiglie disfunzionali prevaleva l’incongruenza
a livello di comunicazione. Da qui il gruppo di Bateson cercò un costrutto teorico che potesse spiegare
questa modalità interattiva e formulò la “teoria del doppio legame”.
In una loro pubblicazione Bateson e coll. (1956) proposero l’ipotesi della teoria del doppio legame come
modalità tipica di comunicare nella famiglia con un giovane schizofrenico. Secondo gli studiosi, chi cresce
in un contesto di deutero-apprendimento (meta-apprendimento, ovvero la capacità di apprendere ad
apprendere) in cui riceve messaggi intrinsecamente contraddittori, in cui finisce per essere costantemente
punito qualunque cosa faccia o non faccia, è comunque obbligato a trovare un modo di sopravviverci. I
sintomi della schizofrenia, allora, possono essere considerati la punta dell’iceberg di una comunicazione
interpersonale in cui per le persone è difficile trovare un senso.
Le condizioni per cui si verifichi una situazione di doppio legame sono sei (Bateson, 1972):
1. Ci devono essere due o più persone
2. Deve esserci una ripetizione dell’esperienza
3. Deve esserci un’ingiunzione primaria negativa (es. se farai così e così ti punirò)
4. Deve esserci un’ingiunzione secondaria in conflitto con la prima a un livello più astratto e, come la prima,
sostenuta da punizione o da segnali che minacciano la sopravvivenza (questa ingiunzione è di solito
comunicata con mezzi non verbali e assume il senso di un messaggio quale “non considerare questa come
una punizione”).
5. C’è poi un’ingiunzione terziaria che impedisce alla vittima di sfuggire al conflitto (rapporto di dipendenza
tra i due interlocutori)
6. Una volta che la vittima ha imparato a percepire il suo universo sotto l’angolazione del doppio legame,
non è più necessario che le condizioni precedenti si ripresentino.

Un esempio classico utilizzato in letteratura per spiegare il doppio legame è quello che prende in esame la
relazione diadica madre-bambino. Un figlio si avvicina ad abbracciare la propria madre ma questa si ritrae
perché l’affettuosità del figlio provoca in lei ansia e ostilità. Siccome ella non può accettare la sua stessa
ostilità, simula dei comportamenti, generalmente verbali, affettuosi. Quindi, a un livello astratto, si mostra
come una madre amorevole e affettuosa e, a un livello concreto, comunica il proprio fastidio nei confronti
dell’affettuosità del figlio. Pertanto, il bambino non si avvicinerà nuovamente alla madre perché ha ricevuto
implicitamente il messaggio di non farlo ma questa lo rimprovererà per non averlo fatto, perché questo le
conferma l’idea di essere una madre cattiva e poco affettuosa.
In sintesi possiamo affermare che ci troviamo dinanzi ad una situazione di doppio legame ogni qualvolta ci
troviamo di fronte ad un messaggio contraddittorio, rispetto al quale ci sentiamo Università Telematica
Pegaso La teoria sistemica nell’approccio sociale
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è
severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul
diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 23 di 29

intrappolati per via della relazione che ci lega al nostro interlocutore. La contraddizione può riguardare
diversi livelli:
F 0All’interno
B7 dello stesso linguaggio razionale (“Se entro la fine della settimana non trovo sulla mia
scrivania il nuovo programma escursioni, sappi che sei licenziato. Non preoccuparti, però, se devi fare
qualcos’altro fallo” )
F 0Tra
B 7 linguaggio emotivo e razionale (Il responsabile dell’ufficio escursioni rivolgendosi ad una guida

turistica dice con disprezzo: complimenti oggi hai fatto un ottimo lavoro)
F 0Tra
B 7 linguaggio emotivo e senso-motorio (Il responsabile dell’ufficio escursioni, dopo una situazione

spiacevole verificatasi nel corso di una visita guidata, va dalla guida turistica e gli poggia una mano sulla
spalla, quasi a volergli comunicare che comprende quanto accaduto e non lo ritiene responsabile mentre a
livello facciale esprime rabbia).

Una critica che oggi possiamo muovere verso il gruppo di Palo Alto è quella di rimanere ancorato al modello
meccanicistico che si propone di superare. Infatti, l’ottica eziopatogenetica continua a porsi come linea guida
nello studio del sistema familiare e ciò accade perché si asserisce che una comunicazione disturbata tra due
individui coinvolti in un legame significativo conduce inevitabilmente e in ogni situazione al manifestarsi

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della patologia, dando per scontato che uno dei due partecipanti alla relazione non sia in grado di risolvere i
messaggi contraddittori che gli vengono inviati dall’altro (Andolfi, 2003).
Nel 1959 Jackson fonda il Mental Research Institute (MRI), una delle più importanti scuole di teoria e
terapia sistemica che vedrà la collaborazione di tutto il gruppo di Palo Alto, eccetto Bateson che nel 1962,
torna ad occuparsi del comportamento animale. Dunque, possiamo affermare che si deve a Bateson l’innesco
di una rivoluzione nel modo di pensare la mente umana, sono stati altri autori a trarre le conseguenze nella
pratica terapeutica.

10 Verso un approccio sistemico-relazionale allo studio della famiglia


La teoria dei sistemi e la cibernetica non hanno portato allo sviluppo di un unico modello concettuale, infatti
già a partire dagli anni sessanta si delineano due approcci differenti allo studio della famiglia. Da una parte
abbiamo “i puristi del sistema” che si occupavano dello studio dei primi assiomi della comunicazione umana
che culmineranno poi nella teoria del doppio legame, e contemporaneamente nella East Coast operavano,
invece, teorici ed operatori che partivano da presupposti diversi da quelli di Palo Alto in California.
Del primo gruppo fanno parte i ricercatori del MRI interessati alle modalità comportamentali/comunicative
in atto nel qui ed ora senza tener conto del processo evolutivo di cui esse fanno parte. Dunque, la dimensione
esplorata è quella del presente. Conseguenza di tale visione è la concezione dell’essere umano come
un’armatura vuota in movimento, impenetrabile nella sua componente soggettiva, attinente alla sfera delle
emozioni, dei pensieri, motivazioni, immaginazioni (Andolfi, 2003).
Paolo Gambini (2007) individua i seguenti limiti di tale modello: trascurano o meglio ignorano i processi
mentali dell’individuo legati all’interazione; si occupano dello studio solo della dimensione del presente non
comprendendo le relazioni nella loro storicità, da un punto di vista evolutivo; l’interazione tra le parti del
sistema risulta chiusa in una visione meccanicistica; c’è poca considerazione del rapporto tra famiglia ed il
proprio sistema sociale, visto il loro unico interesse per le interazioni familiari.
Il secondo gruppo di autori, composto da terapeuti della famiglia (Ackerman, Bowen, Framo, Whitaker e
altri.) reintroduce il concetto di “tempo” nello studio del sistema familiare. Anche essi guardano al qui ed ora
ma lo fanno con un occhio diverso, in quanto leggono ogni interazione presente in relazione al fitto intreccio
di interazioni che si sono realizzate nel tempo, per arrivare così a comprendere l’attuale condizione emotiva
della famiglia nel suo insieme.
In questo caso il terapeuta non è più un osservatore distaccato ma con la propria soggettività e le proprie
emozioni costruisce con i vari soggetti che compongono la famiglia uno spazio relazionale. L’osservatore
diviene parte del sistema osservato e vengono, così, superati concetti come obiettività e certezza in quanto
illusori di una conoscenza oggettiva per riscoprire la dimensione soggettiva della conoscenza. Von Foerster
(1982) teorico della cibernetica di secondo ordine sottolinea l’importanza della soggettività dell’osservatore
nel sistema che va ad osservare. È l’osservatore infatti a decidere cosa considerare come unità di
osservazione, quale contesto prendere in considerazione e di quale metodo e teoria avvalersi per organizzare
la propria osservazione. L’oggettività della prima cibernetica è, invece, illusoria in quanto si fonda sul
presupposto di una separazione tra osservatore e osservato. Essendo gli aspetti osservabili del
comportamento interattivo l’oggetto di studio dei teorici della prima cibernetica, l’osservatore è considerato
esterno al quadro osservato e pertanto è possibile ottenere una conoscenza obiettiva.
Da ora in poi numerosi saranno i contributi allo sviluppo della terapia sistemica. Con gli anni ottanta ad una
concezione prevalentemente omeostatica del funzionamento familiare se ne sostituisce una di tipo evolutivo
la cui specificità sta nel definire le capacità trasformative della famiglia. Assistiamo ad uno spostamento
dell’oggetto di interesse: dalla famiglia disfunzionale si passa allo studio della morfogenesi del sistema
famigliare (Gambini, 2007).

11 Conclusioni
Quest’ultimo paragrafo vuole offrire al lettore una visione più complessa dei concetti teorici su esposti, che
non siano limitati all’applicazione dei costrutti al solo ambito terapeutico ma piuttosto trovino applicazione
in tutte quelle discipline, professioni, situazioni che hanno come oggetto l’essere umano.
Di seguito, mediante la presentazione di una situazione abituale, vedremo come i concetti di sistema,
retroazione e talvolta doppio legame sono caratteristiche presenti nelle famiglie con cui a volte un operatore
turistico si relaziona.

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La famiglia Rossi è una famiglia molto unita, per cui le figlie anche se maritate e con una famiglia propria
amano trascorrere ogni festa e anche le vacanze estive insieme ai propri cari, come un’unica grande famiglia.
Chiunque li vede per la prima volta riconosce il forte legame di unione presente nella fratria e tra questi e la
coppia genitoriale. La numerosità e il tipo di legame esistente fa pensare quasi ad un gruppo di amici, che
ama condividere insieme le occasioni di festa e le vacanze.
La madre Caterina insieme alle figlie si reca in agenzia per prenotare una vacanza. Tutte sono subito
d’accordo nel trascorrere una settimana in un villaggio in Grecia, del resto la madre sembra avere molta
influenza sulle figlie, per cui le serve davvero poco per ricevere l’appoggio di tutte. Entusiaste decidono di
prenotare qualche escursione per approfittare degli sconti del prenota prima. Maria (22 anni), ultima di
quattro figlie esprime il proprio disaccordo rispetto alla visita guidata ad Atene, in quanto il proprio fidanzato
Marco già vi è stato qualche anno prima con la propria famiglia ed è sicura che si annoierebbe, anche perché
il ragazzo preferisce le escursioni naturalistiche a quelle culturali. La possibilità che Maria e Marco non
partecipino all’escursione ad Atene si configura come un cambiamento rispetto al modo di fare “tutti
insieme” della famiglia Rossi. Tale possibilità crea un po’ di agitazione nel sistema, che vede poter venire a
mancare due dei suoi membri. La madre Caterina con viso arrabbiato e un tono di voce triste si rivolge alla
figlia e le dice: “Facciamo sempre tutto insieme. Fa come vuoi”. La contraddittorietà del messaggio che da
una parte sembra rendere Maria libera rispetto alla propria scelta e dall’altra la imprigiona in un senso di
colpa per “tradire” la propria famiglia rende la scelta non semplice.
Ora sulla base di quanto trattato nella presente lezione come secondo voi si potrebbe concludere la
prenotazione della vacanza in Grecia della famiglia Rossi?
Maria potrebbe reagire secondo un feedback negativo, agganciandosi al doppio messaggio della madre.
Deciderebbe quindi di convincere il fidanzato “a partecipare al viaggio familiare” . Potrebbe invece decidere
di tenersi l’ansia e sostenuta dal fidanzato promuovere un feedback positivo rimanendo nella sua decisione di
non andare in Grecia. State attenti a non essere voi a promuovere con alleanze di vario tipo, un feedback
positivo, perché evento stressante, con il risultato di potreste prendervi voi tutta la rabbia del sistema.

“PROBLEM SOLVING: STRATEGIE CREATIVE DI ADATTAMENTO” :

1 Introduzione
Riprendendo la definizione di Doise (1997) “La psicologia sociale può essere definita come la scienza che
ricollega l'analisi dei processi psichici negli individui con l'analisi delle dinamiche sociali a cui questi
partecipano: essa studia cioè il modo in cui le esperienze psicologiche sono interconnesse con l'ambiente
sociale”.
La Psicologia Sociale si pone come lo studio della relazione tra l’individuo (nei suoi aspetti generali) e il suo
ambiente, come disciplina che si interessa al modo in cui le persone vengono influenzate dalla loro
interpretazione dell’ambiente sociale e come una persona percepisce o interpreta tale ambiente
(Aronson et al.2000) e quali aspetti della situazione sociale possono produrre effetti sui comportamenti delle
persone.
Partendo da questa prospettiva della psicologia sociale, basandoci sulla relazione individuo/ambiente/società,
affronteremo la tematica del Problem Solving, che è la capacità di risolvere i problemi in qualsiasi ambito
sia esso familiare, sociale e relazionale e richiede grandi capacità di flessibilità, creatività ed iniziativa.
Il primo fondamentale passo nel processo di problem solving è quello di porsi domande adeguate e
costruttive riguardanti se stessi e la situazione.
Le recenti ricerche psicosociali hanno sottolineato che l'individuo, nell'elaborare le informazioni, sceglie le
strategie che preferisce in base alle sue necessità ed ai suoi obiettivi.
Il modello di uomo come economizzatore di risorse cognitive vede l'individuo come uno stratega motivato,
un soggetto che sceglie le sue strategie cognitive più adeguate ai suoi scopi e alle sue motivazioni (Arcuri e
Castelli, 2000; Pendry e Macrae, 1994).
E’ dunque importante operare, prima di scegliere qualsiasi strategia di soluzione del problema, una buona
analisi del“ Problem Space” (spazio del problema ), che corrisponde alla fase più importante, poiché una
volta individuato e analizzato il problema, è possibile scegliere le misure più adeguate a risolverlo.
La fase del “Problem Space” consiste nel fare una DIAGNOSI DELLA SITUAZIONE, definendo il tipo di
problema. In questa fase è importante :

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1- Diagnosticare le caratteristiche del contesto organizzativo ed eventuali errori e distorsioni nelle strategie
d’azione, valutandone l’efficacia;
2- Raccogliere e consultare fonti informative dirette e relative norme, interpretando le informazioni per
costruire un quadro chiaro della situazione problematica.
Dopo aver analizzato il Problem Space, si procede alla fase esecutiva del PROBLEM SOLVING, in cui
entrano in gioco competenze, attitudini e tecniche per pianificare le strategie di azione da mettere in atto. In
questa fase di deve quindi:
1- Decidere di affrontare la situazione problematica, predisporre un piano d’azione con relativi obiettivi,
mezzi e risorse, assumendosene le responsabilità, valutando la relazione tra il contesto problematico, i propri
scopi, le proprie capacità e motivazione.
2- Monitorare il piano d’azione, cercando di prevedere i possibili esiti, valutarne le conseguenze e
considerare possibili alternative.
Esempi pratici di come risolvere situazioni problematiche e mettere in atto strategie di problem solving li
possiamo riscontrare nell’ambito del turismo, sia relativamente alla pianificazione di un viaggio sia
all’interno dell’azienda/agenzia, di grandi villaggi e organizzazioni turistiche
Strategie di Problem Solving vanno messe in atto soprattutto con persone che hanno diversi tipi di disabilità,
per cui sono situazioni che richiedono una grande flessibilità, disponibilità ed organizzazione per affrontare
le eventuali situazioni problematiche che riguardano in modo diretto la salute delle persone dei clienti
coinvolti.

2 Che cos’è il problem solving


2.1. Definizione e caratteristiche del problem solving
Generalmente il Problem Solving può essere definito come l’arte di risolvere i problemi, siano essi di natura
personale, interpersonale o delle organizzazioni (aziende, enti, comunità, ecc.), mediante l’utilizzo di tattiche
e tecniche per ottenere la massima efficacia ed efficienza e risolvere così il problema (Alyfanti, De Santis,
Illuminati, Maltese).
Si può pensare al problem solving riferendosi all’abilità in genere di trovare soluzioni in qualsiasi ambito e
non tanto alla capacità di una persona di risolvere situazioni in una materia specifica.
Il problem solver è colui che, indipendentemente dalle risorse e dalla situazione trova il modo di uscire dal
problema.
Di fronte ad un problema che non riusciamo a risolvere, continuare ad utilizzare gli stessi schemi di pensiero
che l’hanno generato è evidentemente improduttivo.
Per uscire dal problema dobbiamo individuare qualcosa che ancora non abbiamo considerato, aprire la mente
a possibilità che ancora non abbiamo esplorato, evolvendo il nostro pensiero da un livello nel quale non è in
grado di risolvere il problema ad un livello più alto, nel quale è in grado di comprendere la soluzione.
Potremmo rappresentare la nostra crescita personale, la nostra evoluzione mentale, emozionale e spirituale
come una serie di anelli sovrapposti che salgono dal basso verso l’alto.
Lungo il nostro percorso di vita impariamo dalle esperienze, sviluppiamo una maggiore consapevolezza,
espandiamo il nostro pensiero, accediamo a livelli superiori dai quali avremo una visione diversa delle
situazioni.
A volte a molte persone capita di smettere di crescere interiormente, di irrigidirsi nei propri schemi di
pensiero, convinzioni e abitudini.
Invece la vita è volta ad una continua evoluzione personale e prima o poi arriva il momento di doversi
confrontare con una situazione, che può essere di qualsiasi natura, che richiede un livello di pensiero
superiore, per essere gestita e superata. A questo punto, o si è disposti a mettere in discussione il proprio
modello di convinzioni del mondo oppure ci si può ritrovare a trascinare per anni una situazione che
continua a non cambiare, generando conflitti su conflitti che a loro volta comporteranno stress e frustrazione.
Sono un esempio tutte quelle persone che si lamentano sempre perché vivono gli altri, le situazioni ed il
mondo intero come loro avverso, senza considerare che è probabilmente il loro personale cambiamento
l’unica soluzione ai problemi che li assillano, quindi se vogliamo uscire da un problema, come abbiamo
appena detto, dobbiamo spostare il nostro punto di vista ad un livello di pensiero più alto.
Per spostare il focus, cambiare il nostro punto di vista, gli strumenti migliori che ci permettono di farlo
sono le domande.

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Le domande devono essere domande produttive poiché devono aiutarci ad uscire dal problema. Una buona
domanda da porsi è sempre:
“Come posso risolvere questa situazione?”
Tutte le domande che iniziano con “COME POSSO…?” sono molto positive.
Sono assolutamente da evitare frasi del genere “Perché capitano tutte a me?” visto che hanno il potere di
ributtarci subito al centro del problema (Alyfanti, Illuminati, DeSantis, Maltese).
Un secondo aspetto molto importante è quello del linguaggio.
In italiano la parola problema ha una connotazione fortemente negativa, è molto più produttivo e motivante
parlare di una situazione da risolvere o di una sfida ed affrontarla come un momento di crescita.
Se le persone si preparano alle cose in termini di difficoltà o di problemi e non di crescita, si trovano in uno
stato di confusione, rabbia e sofferenza.
Quindi è importante il passaggio da un orientamento verso il problema ad un orientamento verso la
soluzione.
Un terzo aspetto essenziale per mettere in pratica il Problem Solving è la Flessibilità.
E’ importante sapersi adattare alle risorse che si hanno a disposizione (risorse materiali, risorse umane,
tempo, ecc…).
E’ utile essere abili nel cambiare strategia quando cambia la situazione esterna (un buon problem solver, per
esempio in un’azienda, è colui che sa abilmente cambiare strategia al mutare del mercato).
Dire Problem Solving dunque non significa tanto avere un metodo standard per risolvere i problemi, quanto
essere in grado di creare ogni volta una soluzione diversa ed adatta alla situazione. Ci fornisce quindi
un metodo, più che darci ricette rigide
Un ulteriore aspetto importante è quello che riguarda l’Identità.
E’ importante avere coscienza di se stessi, avere percezione delle proprie caratteristiche, sapersi descrivere.
Tutto questo va poi messo in relazione con la capacità di replicare o riprodurre strategie, convinzioni ed
atteggiamenti che consideriamo un modello da seguire riguardo uno specifico argomento.
Sentirsi e percepirsi come un buon problem solver ci permetterà di affrontare con un atteggiamento
produttivo ogni sfida, così come pensare a come si comporterebbe in quella circostanza una persona che
riteniamo un eccezionale risolutore di problemi.

3 Tecniche di problem solving


3.1. Come definire il ‘Problem Space’ (Lo Spazio del Problema)
Definire il “Problem Space” (Sid Jacobson,2008) , cioè individuare gli elementi che costituiscono lo
‘Spazio del Problema’, è fondamentale per la soluzione del problema stesso.
Per individuare questi elementi è necessario definire (Sid Jacobson 2008):
- Il sé identificando il proprio ruolo all‘interno del problema;
-Lo scopo, cioè qual è l’obiettivo che vogliamo raggiungere;
-Il pubblico, ossia chi è coinvolto attivamente e passivamente nella situazione, chi ci osserva, le relazioni e
rispettivi compiti specifici;
-Il codice, cioè in che modo si è pensato al problema e si è deciso di comunicarlo agli altri;
-l’autoanalisi, i processi che si possono verificare per ostacolarci e che dobbiamo cercare di superare sono
sintetizzati nel modello chiamato delle “SETTE C” (Robert Dilts)
-La nostra esperienza da cui attingere, ossia la somma di tutte le informazioni che abbiamo e che possiamo
ottenere per poter cambiare la situazione problematica e il contesto socio-culturale in cui il problema è
inserito.
3.2. Il SE’
La prima cosa da fare per risolvere un problema, in qualsiasi ambito esso sia, è sapere chi si è come persona
e avere ben chiaro il ruolo che si occupa all’interno del contesto problematico.
Un buon inizio è esplorare cosa si dà per scontato a riguardo della situazione problematica, ossia le proprie
presupposizioni, perciò è importante riflettere sulle proprie presupposizioni di base.
1. La prima presupposizione di base da cui partire è che le proprie idee di base riguardanti le persone, la vita
e il lavoro non sono precise, ma sono solo una guida, una mappa su come funzionano le cose secondo il
proprio punto di vista, infatti agiamo in base alla nostra mappa personale su come stanno le cose. Se capita
che utilizzando una vecchia regola sul lavoro o in qualsiasi altro ambito, invece di aiutarci ci ostacola,
bisogna aggiornare la nostra mappa.

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Domande per analizzarci sono:
- Gestisci il lavoro o la tua vita sulla base di regole fisse? Dove e quando queste regole hanno avuto origine?
È possibile che, benché siano state efficaci in passato, ora non lo siano più come prima?
- Quando è stata l’ultima volta che ti sei reso conto che qualcosa in cui credevi era sbagliato? Come hai
gestito la situazione e come hai cambiato il tuo modo di pensare?
- Ti ricordi una volta in cui ti aspettavi che accadesse una cosa e invece è successo qualcosa di
completamente diverso? Come ti sei adattato a questa differenza tra le tue aspettative e la realtà?

Un altro aspetto importante sul Sè è la reazione che può suscitare una comunicazione.
In psicologia sociale uno degli errori di attribuzione è quello di dare la responsabilità ad altri quando siamo
coinvolti personalmente in una situazione. Ad esempio pensiamo che sia l’altro ad aver frainteso ciò che
abbiamo cercato di comunicare. Se vogliamo approdare ad una buona comunicazione ci si deve assumere la
responsabilità che gli altri ci comprendano, le persone reagiscono in base a ciò che pensano di sentire
o capire; quindi bisogna partire dal presupposto che la reazione delle persone ha sempre una motivazione,
perciò ci si deve chiedere cosa abbiamo fatto per fare in modo che gli altri stiano avendo una determinata
reazione. In questo caso domande che possono esserci utili sono :
- Ricordi una volta in cui hai dato a qualcuno istruzioni precise e la persona ha fatto una cosa del tutto
diversa da ciò che intendevi? Ti è mai successo di aver capito solo dopo, come mai la persona avesse reagito
così?
- Ricordi un’occasione in cui hai reagito arrabbiandoti con qualcuno, per poi renderti conto solo in seguito di
averlo frainteso?
- Come sarebbe il tuo lavoro se dessi per scontato che le persone reagiscono sempre in modo appropriato a
ciò che comunichi in ogni situazione?

2. La seconda presupposizione è che non ci sono fallimenti ma solo risultati; ogni persona dentro di sé ha
tutte le risorse che gli servono per poter affrontare qualsiasi evento, ma quando non si sentono abbastanza
intelligenti o poco capaci, ciò avviene perché non riescono ad accedere alle proprie risorse interne.

Dagli studi di psicologia sociale è emerso che le nuove realtà richiedono sempre di più competenze cognitive
e di autogestione di alto livello per ricoprire ruoli professionali che diventano sempre più complessi e per
gestire le difficili richieste della vita contemporanea. Inoltre il rapido ritmo delle trasformazioni tecnologiche
e la rapida crescita del sapere, fanno si che le capacità di gestire autonomamente il proprio apprendimento,
per tutto il corso della vita, siano particolarmente utili. Possiamo imparare da qualsiasi cosa facciamo, sia
che essa abbia esito positivo o negativo, i risultati ci possono insegnare molto su come comportarci e vivere,
perciò chi non possiede queste capacità rischia di veder diventare le proprie conoscenze obsolete (Bandura
-1996).
Il modo migliore di aiutare sé e gli altri, perciò è quello di sforzarsi di usare il proprio talento e le proprie
capacità, perché se si è convinti che le proprie capacità sono limitate rispetto agli altri , agiamo come se tali
limiti esistessero realmente, quindi anche l’esito di ciò che si farà non sarò positivo.
3.3. Lo scopo
Chiarire i propri obiettivi è fondamentale in ogni processo di Problem Solving,
l’ intenzione e lo scopo sono fondamentali per dirigersi verso qualunque soluzione.
Per poter risolvere in modo efficace i problemi e prendere decisioni, per prima cosa dobbiamo essere
convinti che sia possibile raggiungere il nostro obiettivo e ne valga la pena, poi dobbiamo assicurarci di
avere i mezzi per raggiungerlo e in fine dobbiamo avere l’ opportunità di perseguire la meta e superare
eventuali difficoltà che potrebbero emergere.
Quindi per raggiungere gli obiettivi sono fondamentali:
Motivazione (volere)
Mezzi (Sapere come)
Opportunità (Potere, avere l’occasione di).
Definire un obiettivo “Ben formato”
Per concentrare la nostra attenzione sul raggiungimento degli obiettivi bisogna affermare con chiarezza cosa
vogliamo esattamente.

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Per definire un obiettivo ‘Ben Formato’ bisogna:
F 0Formulare
B7 l’ obiettivo in termini positivi: il risultato da raggiungere deve essere formulato in termini di
ciò che si vuole, piuttosto che di ciò che non si vuole , es. una frase del tipo ”Non voglio più avere i problemi
che abbiamo avuto recentemente” può essere formulata in modo migliore dicendo ”Voglio che ci dirigiamo
in modo più efficace verso i nostri obiettivi rispetto a quanto abbiamo fatto ultimamente”; cosi si afferma ciò
che si vuole invece di ciò che non si vuole.
F 0L’obiettivo
B7 si applica a chi lo esprime: cioè deve dipendere da qualcosa di cui noi abbiamo il controllo e
non gli altri, perché solo noi possiamo essere sicuri di come ci comporteremo e prevedere l’ impatto che le
nostre azioni avranno sugli altri. Ovviamente se è tutto il gruppo ad assumersi la responsabilità di portare a
termine un obiettivo, ogni membro diventerà parte della soluzione.
F 0L‘obiettivo
B7 deve essere posto nel contesto appropriato: i risultati vanno prodotti solo in contesti
appropriati, dove le nostre azioni avranno possibilità di avere l’effetto desiderato, perciò un obiettivo deve
essere specifico sia nel contenuto che nel contesto (dove, quando e con chi), per contesto intendiamo anche
la cultura di appartenenza in cui la situazione problematica si è creata.

Un obiettivo Ben Formato è di vitale importanza per riuscire a focalizzarsi con chiarezza su ciò che si vuole,
inoltre dobbiamo assicurarci che esso sia conforme ai nostri valori e standard personali, perché spesso molti
dei problemi e conflitti che possono sorgere nella vita professionale e personale sono segnali di conflitti
interni fra valori e convinzioni interne e ciò che dobbiamo compiere.
Per analizzare se abbiamo formulato un obiettivo ben formato un buon metodo può essere formulare una lista
dei propri valori personali e una lista dei valori del contesto in cui ci troviamo, ad esempio l‘azienda dove
lavoriamo. Dopo aver analizzato le liste, porci le seguenti domande ( Sid Jacobson):
- È possibile che ci siano intenzioni nascoste nell’obiettivo che ho formulato? Se si, esse sono di natura
personale , aziendale, professionale o altro?
Ad esempio:
- Sto cercando di fare colpo su qualcuno? È questo il modo migliore di farlo? Oppure
- Sto forse cercando di evitare qualcos’altro concentrandomi nella realizzazione di questo obiettivo?
Varrebbe la pena investire il mio tempo e le mie energie sull’altra cosa?
- Quanti obiettivi ho? Sono compatibili fra loro? Sono la persona giusta per prendere queste decisioni?
Riesco ad immaginare cosa vedrei, sentirei e proverei se realizzassi il mio scopo?
- Ho preso in considerazione altri possibili risultati o conseguenze del raggiungimento di questo obiettivo? In
base alle mie risposte , devo apportare qualche modifica a ciò che avevo deciso?.

3.4. Definire e comunicare con il proprio “Pubblico”


Dopo aver definito se stessi, il proprio ruolo nella risoluzione del problema e definito il proprio scopo,
bisogna chiedersi chi altro è coinvolto, ossia quante sono le persone coinvolte nel problema immediato,
chiedersi se anche queste persone sono convinte di avere la motivazione, i mezzi e l’opportunità per
apportare un cambiamento alla situazione attuale, in che modo abbiamo comunicato loro il problema e se li
abbiamo fatti sentire partecipi del problema stesso. Ci si deve porre chiedere:
- Chi ritieni sia ora coinvolto? Puoi elencare tutte le persone?
- Sai già che tipo di coinvolgimento avranno nei tuoi progetti?
- Chi sono queste persone all’interno dell’azienda ? Dipendenti, colleghi, tuoi superiori, clienti o fornitori?
Collaboratori esterni all’azienda o altri?
- Chi subisce gli effetti del problema o della situazione ? Questo fatto rende necessario o corretto includere
queste persone nei tuoi piani?
- Chi sarà a conoscenza di ciò che accadrà?
- Occorre che queste persone siano coinvolte o tenute fuori nel progettare le soluzioni ai problemi?
- Che tipo di competenza hanno?
- Che idea hanno di se stessi? Si sentono all’altezza del compito ?
Una volta analizzate le persone all’ interno dello spettro delle nostre attività che sono direttamente coinvolte
nel problema, è importante pensare a come coinvolgerle nelle soluzioni che si vogliono sviluppare.
Per instaurare una buona relazione con tutte le persone coinvolte in un cambiamento, in modo da renderle
partecipi in modo efficace, è indispensabile prendere in considerazione i loro desideri e bisogni assieme alle
loro capacità e al loro stile di lavoro e di comunicazione; infatti se si riflette su come comunicare al meglio

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con le altre persone con le quali ci si trova assieme all’interno del contesto problematico, molte delle
potenziali ripercussioni potrebbero risolversi da sole o comunque avere la possibilità di controllarle.
Tutto questo ci porta a prendere in considerazione oltre le capacità anche i tratti caratteriali delle persone
coinvolte, perché possono essere una fonte importante per apportare i cambiamenti necessari per migliorare
la situazione problematica.
Negli ultimi anni nelle aziende è diventata una prassi diffusa analizzare i propri dipendenti attraverso test ed
inventari, per aiutare le persone a comprendere quali siano i modi migliori per lavorare insieme.
Riflettere su questi fattori quando si comunica con gli altri è un segno di rispetto e interesse verso gli altri e
verso i propri obiettivi, abbastanza da investire il tempo e l’ energia necessaria per presentare le proprie idee
nella maniera che meglio possono comprendere e accettare gli altri.
3.5. Il codice ed elaborazione dell’ informazione
Il concetto di codice è molto importante per capire in che termini comprendiamo effettivamente i nostri
problemi e obiettivi.
Dagli anni 80’, da diversi studi nel campo della psicologia sociale, ci si è resi conto che l'individuo, avendo
a disposizione limitate risorse cognitive, deve ricorrere a delle strategie di elaborazione delle informazioni, le
cosiddette euristiche (dette anche scorciatoie mentali), che gli consentono di risparmiare tempo e sforzi e
contemporaneamente, di ottenere delle informazioni sufficientemente attendibili su quanto sta accadendo
attorno a lui. Il modello di uomo che ne deriva è quello dell'economizzatore di risorse cognitive.
Tutti codifichiamo le informazioni nella nostra mente, quando pensiamo alle nostre esperienze, non le
pensiamo nella loro interezza ma prendiamo versioni abbreviate di esse, che in seguito richiamiamo alla
memoria e agiamo sulla base di queste.
Tutte le volte che apprendiamo delle informazioni entrano in gioco tre processi:
Cancellazione
Distorsione
Generalizzazione
Essi agiscono da filtro tra ciò che accade effettivamente intorno a noi e ciò che pensiamo sia successo, quindi
non agiamo mai sulla base di informazioni precise, ma agiamo sempre sulla base di informazioni
insufficienti o imprecise.
Questi tre processi sono automatici, anche quando percepiamo il mondo intorno a noi, non è possibile notare
tutte le informazioni che ci circondano (immagini, suoni, sensazioni, gusti e odori), anche perché se ci
riuscissimo, i dati sarebbero troppi al punto da sovraccaricare il cervello; perciò come autodifesa il nostro
cervello attua il processo di cancellazione, ossia vengono percepite solo una parte delle informazioni, mentre
le altre vengono ignorate.
Durante il processo di memorizzazione, avviene la distorsione, in quanto non tutte le informazioni che si
vogliono memorizzare sono compatibili con i nostri sistemi preesistenti, quindi le adattiamo ad essi; per
capire questo meccanismo basta pensare a quante volte abbiamo modificato ciò che una persona ci ha detto
per adattarlo a quello che volevamo sentirci dire.
Successivamente per organizzare il nostro pensiero ci inventiamo nuove regole, facendo cosi delle
generalizzazioni. Questi tre processi avvengo tre volte: quando raccogliamo l’informazione, quando la
immagazziniamo e in fine quando la trasformiamo in parole per comunicarla agli altri.
Tutte le generalizzazioni che facciamo nell’arco della nostra vita costituiscono il nostro sistema di
convinzioni, in questo sistema le convinzioni si influenzano reciprocamente e nel loro insieme influenzano
noi.
Come tutti i sistemi anche il nostro sistema di convinzioni si può guastare a causa di una pressione esterna,
come ad esempio le informazioni contrastanti, ma si può guastare anche a causa di una pressione interna,
informazioni che entrano in conflitto al nostro interno. Quando il sistema si guasta può crearci problemi
portandoci a situazioni che non ci aiutano a raggiungere i nostri scopi.
Importante per evitare queste situazioni è la Prevenzione, ponendoci sempre le domande di cui si è parlato in
precedenza: chi siamo, chi sono gli altri, in cosa crediamo realmente, di cosa siamo capaci e cosi via.
3.6. Autoanalisi
Capire come ci ostacoliamo da soli ci serve per analizzare in che modo applichiamo i processi di
cancellazione, distorsione e generalizzazione alle informazioni.
I processi che si possono verificare per ostacolarci e che dobbiamo cercare di superare sono sintetizzati nel
modello chiamato delle “SETTE C” (Robert Dilts) e sono:

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1. Confusione. Spesso non sappiamo cosa ci confonde, la mancanza di chiarezza o l’incapacità di
concentrazione, può rovinare anche i piani ben progettati. Spesso inganniamo noi stessi per evitare di entrare
in contatto con sensazioni negative che potremmo avere riguardo a ciò che dobbiamo fare. Molte volte
riguardare in seguito un guaio che abbiamo fatto, ci aiuta a vedere in modo chiaro come ci siamo ingannati
da soli.
2. Contenuto. E’ possibile avere a disposizione informazioni non appropriate quando vogliamo raggiungere
degli obiettivi, questo ci porterà a procurarci delle false piste, cioè dettagli irrilevanti per i nostri scopi e
seguirle ci disorienterà. Per evitare questo inconveniente dobbiamo avere ben chiare quali sono le azioni che
ci porteranno verso i risultati desiderati e assicurarci di non avere informazioni mancanti o fasulle.
3. Conflitto. A volte non siamo sicuri di cosa realmente vogliamo o di cosa abbiamo bisogno, questo causerà
delle incongruenze nel nostro comportamento, ossia diciamo o pensiamo una cosa, ma ne facciamo un’altra.
Una buona comunicazione e comprensione reciproca e di sé, ridurrà al minimo i conflitti.
4. Catastrofe. Siamo il risultato del nostro passato, sia delle cose buone, cioè tutto ciò che abbiamo imparato
e che abbiamo raccolto nella nostra vita e nel nostro lavoro e sia di quelle negative, ossia tutto quello che
abbiamo vissuto come errori e le esperienze traumatiche che ci hanno lasciato dei segni. Non fare esperienza
del nostro passato , non imparare da esso può essere molto grave (catastrofico), perché ciò può amplificare i
problemi a cui andiamo incontro, in quanto col passare del tempo ciò che si investe in quello che si fa
assume un peso maggiore e può interessare anche altre persone oltre che noi stessi. Quindi incontrare
situazioni simili a quelle già vissute può darci una direzione sul come affrontare il problema.
5. Convinzione. I nostri dubbi, se eccessivi, possono essere l’ostacolo più dannoso per il successo delle
nostre azioni. Se siamo convinti di non avere i mezzi, l’ opportunità e soprattutto la motivazione, saremo i
nemici di noi stessi nel realizzare i nostri obiettivi. Per essere realmente convinti di ciò che facciamo
dobbiamo essere sicuri di noi stessi ed essere coerenti interiormente (il dubbio giusto utile ad approfondire è
cosa buona, perseverare nel dubbio è invece pericoloso).
6. Contesto. Lungo il nostro cammino per raggiungere il nostro obiettivo, l’ambiente in cui lavoriamo e
viviamo, ci fornirà sempre una vasta gamma di ostacoli e risorse tra cui dovremo fare una scelta. Sarà la
nostra creatività e capacità di iniziativa ad aiutarci a gestire queste situazioni.
7. Confronto. In base alle nostre esperienze passate e desideri attuali è facile crearsi delle aspettative
inappropriate. Spesso ci confrontiamo con gli altri in base alle distorsioni e generalizzazioni operate nella
nostra mente e ci aspettiamo che gli altri si comportino in base ai nostri standard; in alcune persone il
confronto con gli altri può generare motivazione, in altre paura, al punto da far investire le proprie energie in
direzioni sbagliate sprecandole. Una buona comunicazione può limitare molti di questi inconvenienti.

Quando si arriva ad un punto fermo, vuol dire che uno di questi processi è in azione, quindi una volta che ci
siamo riusciti a liberare da ognuno di essi, possiamo dedicarci
agli obiettivi che vogliamo.
3.7. L’esperienza
Ognuno di noi ha dentro di sé un bagaglio di esperienze, che possono essere sia utili che inutili, da cui
possiamo attingere, e per farlo abbiamo comunque bisogno di un processo strutturato.
Come detto in precedenza è importantissimo imparare dalle esperienze passate, ma ciò non vuol dire che il
passato deve necessariamente essere la mappa del nostro futuro, cioè proiettarsi nel futuro.
I tipi di problemi che si possono incontrare possono essere suddivisi in (Sid Jacobson 2008):
1. Problemi personali;
2. Problemi interpersonali e di comunicazione;
3. Problemi relativi alla formazione
4. Problemi sistemici;

Problemi personali:
Per problemi personali non si intendono problemi emozionali o psicologici, ma che il problema è ristretto ad
una sola persona o che è una sola persona ad averne la responsabilità.
Un singolo individuo può trovarsi di fronte a difficoltà che riguardano :
- La creatività e motivazione Aver bisogno di una nuova idea o un modo di organizzare gli elementi per
risolvere il problema, la creatività è utile soprattutto nelle situazioni difficili. Inoltre se le persone non
risolvono il problema , può darsi che ciò sia dovuto ad una mancanza di energie che l’esperienza

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problematica ha esaurito, quindi le persone hanno bisogno di recuperare le energie giuste per ritrovare la
motivazione.
- La concentrazione. E’ collegata alla motivazione, alla creatività e alla scelta dell’obiettivo.
- Pianificazione, produttività e implementazione. È importante prevedere e misurare i risultati già durante
il processo di realizzazione, essere consapevoli di stare realizzando effettivamente ciò che si era
programmato nel processo di creatività e innovazione. Per riuscirci dobbiamo immaginarci nel futuro al
momento in cui stiamo implementando i nostri piani, cosi potremo misurare e valutare la nostra efficacia.

Problemi interpersonali e di comunicazione:


Riguardano problemi esistenti tra due o più persone.
Il primo tipo di problema può essere quando si hanno visioni diverse tra più persone.
Nelle aziende la ”vision” (visione comune) viene dall’alto per poi diffondersi verso il basso, chi ricopre
cariche di livello superiore decide di che cosa si occupa e come opera l‘azienda, poi sarà il personale addetto
a comunicare a tutti coloro che fanno parte dell’azienda, in modo tale che essi non solo la conoscano ma la
condividano, in modo che tutti abbiano la stessa visione.
Il secondo tipo di problema riguarda la comunicazione. Per una comunicazione efficace è necessario
trasmettere la propria intenzione, per fare ciò, bisogna prima avere chiare le proprie intenzioni ed essere
congruenti e coerenti con se stessi, se la comunicazione non è congruente le persone non sapranno cosa
pensare e ne cosa fare nel momento in cui devono prendere delle decisioni, col rischio che per non sbagliare
rimarranno fermi.
Una comunicazione è chiara quando chi ascolta capisce il messaggio, cioè alla fine della comunicazione chi
ascolta ha le stesse immagine, gli stessi suoni e le stesse sensazioni di chi ha parlato, dalla reazione
dell’ascoltatore ci rendiamo conto a che livello è avvenuta la comprensione.
Nella comunicazione è importane il Rapport, cioè la relazione funzionale di collaborazione, comprensione
e fiducia reciproca per fare in modo che le persone ci ascoltino e concordino con noi. Un buon Rapport vuol
dire che chi ci ascolta si fida di noi, ha la sensazione di avere cose in comune con noi e ci capiscono. Se si è
in rapport con una persona vuol dire che c’è condivisione di pensieri, esperienze e sensazione.
Se c’è resistenza è segno che il Rapport non è stato instaurato o non sono state considerate in modo
appropriate eventuali obiezioni. È necessario riconoscere le obiezioni degli altri e cercare di gestirle.
Problemi di formazione:
La formazione può influenzare sia i problemi personali e impersonali di comunicazione, cioè questi problemi
si possono presentare sia se c’è una formazione insufficiente o se la situazione può essere migliorata se
venisse svolta una formazione adeguata. Per valutare se c’è un bisogno di formazione occorre chiedersi e
chiedere chi è coinvolto nel problema da risolvere e che tipo di conoscenze specifiche, abilità o procedure si
possono eventualmente insegnare.
Questo si fa attraverso una task-analysis (analisi dei compiti), cercando di identificare le abilità specifiche
del compito su cui bisogna fare formazione e creare un progetto di formazione che assicuri che i partecipanti
alle lezioni apprendano le abilità e siano in grado di metterle in pratica, a questo punto bisogna realizzare il
corso e valutarne i risultati.
Successivamente occorre osservare la strutture complessiva dell’azienda o organizzazione, per vedere in che
modo essa potrà essere influenzata dal cambiamento delle conoscenze e abilità di coloro che saranno formati.
Si andranno a valutare non solo gli effetti a livello individuale di chi farà formazione ma anche nel confronto
con gli altri e sulla riuscita del risultato finale.
La formazione influisce sulle convinzioni e sull’ identità, infatti se diciamo ad una persona che ha bisogno di
seguire un corso di formazione, questa potrebbe avere una duplice reazione, potrebbe offendersi oppure
prenderla come un premio.

L’intenzione della nostra comunicazione, che trasmettiamo alle persone quando chiediamo loro di seguire un
corso di formazione, influenzerà il loro atteggiamento nei confronti del corso stesso.
Problemi sistemici:
In un organizzazione le persone hanno bisogno di comunicare tra di loro per lavorare, più grande è
l’organizzazione e più complicate diventano le vie di comunicazione. Ciò aumenta la possibilità di fraintesi,
perciò le persone tenderanno a crearsi dei mezzi propri per svolgere il proprio lavoro senza servirsi
dell’organizzazione e delle sue regole, quando l’autorità non è efficace e raggirare il sistema diventa l’unico

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modo per lavorare, perché viene percepito come un bisogno. Un‘autorità efficace riesce a mantenere il
controllo delle cose ed è attento ai bisogni in modo tale da avere delle soluzioni efficaci e da evitare che si
creino questi meccanismi.
Un altro fattore importante da tener presente sono i tempi necessari per progettare , sviluppare e fornire un
prodotto, ciò dipende dalla struttura del sistema.
Quando attuiamo un cambiamento nell’organizzazione, prima che i risultati si diffondano e ritornino a noi ci
vuole tempo, quindi bisogna avere la pazienza di aspettare per vedere i risultati, ciò dipende: dalle
dimensioni dell’organizzazione, dal numero di persone coinvolte e di quelle che subiscono l’effetto e dal
tempo necessario per notare il risultato.
Ciò va tenuto presente perché si può cadere nell’errore di immettere nuovi messaggi nel sistema senza aver
aspettato gli effetti di quello precedente. Questo concetto va applicato anche alla formazione, perché essa
richiede tempo e i suoi risultati non si vedono immediatamente, inoltre ci vuole tempo per valutare se un
problema possa essere affrontato con la formazione; ciò va tenuto presente affinchè i manager inizino a
pensare alla formazione come un investimento di capitale che sarà ammortizzato nel tempo e non a un
guadagno immediato.

“IL SISTEMA FAMIGLIA”

1 Lo studio della famiglia come sistema


Il primo ad occuparsi dello studio della famiglia come sistema fu Salvador Minuchin, che con il termine
struttura familiare definisce «l’invisibile insieme di richieste funzionali che determina i modi in cui i
componenti della famiglia interagiscono» (Minuchin 1974).
Ogni sistema familiare, organizzando le proprie interazioni, tende a mantenere costanti i suoi modelli di
adattamento, definendo le relazioni che regolano il comportamento dei vari membri della famiglia. Tuttavia,
per essere funzionale, un sistema deve essere sufficientemente flessibile ad adattarsi ad eventuali, richieste
evolutive o ambientali.
Nella lezione che segue, analizzando le transazioni tra i membri di un sistema familiare, ci concentreremo
sulle dimensioni strutturali fondamentali, ovvero gli schieramenti, la gerarchia e i confini. Successivamente,
poiché nessun sistema familiare ha carattere monadico, ma risulta sempre inserito nel contesto più ampio del
sovrasistema sociale di cui fa parte, verrà anche descritta la rete sociale nella quale una famiglia si trova ad
interagire, nonché l’ambiente e il contesto a cui appartiene. Attraverseremo poi il ciclo di vita della famiglia
e confronteremo culture familiari lontane con la nostra cultura occidentale. Alla luce di ciò che abbiamo
precedentemente appreso dall’ottica sistemica, andremo quindi ad osservare la famiglia con i nostri nuovi
occhiali.
Dunque, se pensiamo ad una mano come ad una famiglia con cinque componenti, non andremo ad analizzare
le singole dita (ossia ogni singolo membro), bensì le quattro relazioni tra le dita, ossia come i componenti
interagiscono tra loro.

2 Le mappe familiari
Le mappe rappresentano lo strumento per ottenere la rappresentazione grafica di una famiglia.
Una mappa familiare è come uno schema organizzato che, anche se non ci fornisce informazioni sulle
transazioni familiari, semplifica e ci aiuta a riordinare dati e a fare delle ipotesi su quali potrebbero essere i
bisogni di una famiglia. Forniscono notizie sulla quantità d’informazioni, sui confini, sulla struttura
gerarchica e sugli schieramenti del sistema familiare.
• I confini ci dicono della permeabilità o meno di una famiglia
• La struttura gerarchica evidenzia gli aspetti strutturali del sistema e quindi le gerarchie esistenti al suo
interno (es. genitori/figli).
• Gli schieramenti indicano le alleanze tra i membri

Approfondiremo in seguito tutti questi cocnetti.

3 I miti familiari

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I miti familiari sono un insieme di credenze condivise da tutti i membri della famiglia, in parte reali, altre
frutto della fantasia, che riguardano i ruoli familiari e la natura delle relazioni tra i membri.
I miti, benché falsi e illusori, sono accettati da tutti, anzi hanno qualcosa di sacro e tabù che nessuno
oserebbe sfidare. Infatti per ogni famiglia i propri miti rappresentano la verità.
Le difficoltà che sottostanno alla nascita dei miti familiari sono quelle legate ai processi evolutivi di
separazione e individuazione, mentre la trama sembra seguire quel libro dei debiti e dei crediti intra e
intergenerazionali che stabiliscono la comparsa e l'evoluzione dei ruoli che le varie persone devono ricoprire,
secondo tematiche di colpa, perfezione, ecc. (Andolfi e Angelo1987).
Il mito si colloca in un’area intermedia tra realtà e fantasia, per creare situazioni nuove in cui gli elementi
sono utilizzati e collegati tra loro arbitrariamente.
Potremmo definire il mito come l’antitesi della cronaca, proprio perché nasce e si sviluppa sui vuoti e sulla
mancanza di fatti e spiegazioni su di essi. E’ certamente molto più rassicurante rispetto all’ignoto. Il mito
diventa una matrice di conoscenza e rappresenta un elemento di coesione per tutti coloro che ne condividono
la credenza.
Solitamente vengono associate al mito tre immagini di ruoli familiari che Byng- Hall (1995) associa agli
script tipici della famiglia:
a) Immagini ideali: i comportamenti ai quali ognuno aspira, o quelli che un familiare induce altri componenti
della famiglia ad adottare;
b) Immagini disconosciute o ripudiate: comportamenti che sono proibiti e disapprovati negli altri e in se
stessi, anche se possono essere notate dalle persone esterne al nucleo familiare;
c) Immagini di ruolo condivise: vi è un tacito accordo che ogni componente adempirà a un ruolo
assegnatogli. Questo conferisce alle immagini di ruolo una stabilità che è necessaria ai componenti della
famiglia per stare insieme.

Il mito familiare è dunque come un regola alla quale tutti i membri della famiglia devono attenersi, in quanto
vincolati da debiti morali e legami di realtà nei confronti del gruppo. Ci indicano ad esempio come si fa il
papà, la mamma, come si comporta un nonno ecc… Inoltre ci indicano le modalità di fronteggiare alcuni
eventi importanti come le separazioni, le nascite, i lutti: “In queste situazioni ci si comporta in questo
modo”.
Pensiamo ad una famiglia con il mito dello “stare insieme ad ogni costo”. Questa regola potrebbe
appartenere alla famiglia al punto tale da impedire alle generazioni successive di separarsi anche in
situazioni particolarmente difficili da portare avanti. Ciò significa che il modello di famiglia a cui ci si ispira
viene costruito attorno alla condivisione di un’immagine idealizzata che è appunto il mito. Un ulteriore
esempio può essere rappresentato dal mito della mamma che deve occuparsi solo dei propri figli, della casa
e del marito, senza avere spazi per sé, né collaborazione da parte degli altri membri della famiglia; oppure un
papà che lavora e sta fuori casa tutto il giorno.
Il mito crea coesione all’interno della famiglia (tutti fanno così) e ne garantisce l’integrità (ognuno ha il suo
ruolo ben definito); inoltre fa da collante tra le varie generazioni che attraverso i racconti trasmettono
modalità di comportamento, ruoli e funzioni. Qualche volta la mitologia familiare passa anche per canali non
verbali (es. vedere la mamma che non esce mai senza il papà e non frequenta amiche).
I temi più frequenti nei miti sono i seguenti:
F 0negazione
B7 familiare: presente nelle famiglie in cui la comunicazione è ritenuta impossibile;
F 0armonia
B7 familiare: caratteristica delle famiglie estremamente unite e sempre in accordo;
F 0condivisione
B7 totale delle informazioni: caratteristica delle famiglie in cui i membri si dicono tutto.

In alcune realtà sociali un esempio di mito diffuso è quello del familismo, caratterizzato da
un’ipervalorizzazione delle relazioni all’interno della famiglia a discapito delle relazioni sociali ad essa
esterna.

4 L’unità minima di osservazione di una famiglia: le triadi


Generalmente si parte dal presupposto che l’unità d’interazione minima della famiglia sia rappresentata dalla
diade, mentre lo studio dei rapporti familiari ci insegna che le cose non stanno proprio così. Quando
pensiamo ad esempio ad una coppia senza figli, non la possiamo considerare a sé stante. Nel loro modo di

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relazionarsi, in una qualche misura sarà presente almeno una delle famiglie d’origine. Se non fisicamente,
almeno nel ricordo o nel mito (Bertrando 1997).
In effetti, si può affermare che la complessità delle interazioni all’interno di un sistema familiare e l’impegno
emotivo presente di regola in una famiglia, favoriscono la costituzione di configurazioni che sono come
minimo formate da tre individui che definiremo triadi o triangoli.
Murray Bowen considera il triangolo come la forma base delle relazioni familiari e la famiglia come un’unità
emozionale costituita da numerosi triangoli reciprocamente connessi, che includono anche la famiglia estesa.
La formazione di triangoli rappresenterebbe allora, quantomeno fino a un certo limite, un processo naturale
e funzionale, che modula la reattività emotiva tra gli individui e può permettere la riduzione degli attriti tra i
vari membri. Ad esempio, se la tensione tra due individui sale a una quota insopportabile, può essere
ricondotta a un livello tollerabile tramite il coinvolgimento di un terzo, ovvero tramite la formazione di un
triangolo (Bowen 1978, Kerr e Bowen 1988).
Pensiamo ad un papà che litiga col figlio nella scelta della meta vacanziera: l’eccessiva tensione può essere
smorzata dall’inclusione della mamma all’interno della conversazione.
Tuttavia, questa modalità di scarico della tensione in un sottosistema non deve divenire abituale, altrimenti
aumenta la possibilità di creare disfunzioni nel sistema e si ha la formazione di quella che Salvador
Minuchin denomina triade rigida, ovvero una struttura triadica nella quale il confine tra il sottosistema
genitoriale e il figlio è diffuso, mentre il confine intorno alla triade genitori-figlio risulta eccessivamente
rigido (Minuchin 1974).
Andiamo ora a vedere a cosa si riferisce Minuchin quando parla di triade rigida. All’interno di un sistema
familiare, ne distingue tre tipologie, che chiama: coalizione, triangolazione e deviazione.
F 0La
B 7 coalizione è rappresentata dall’unione tra due individui a danno di un terzo. E’ necessario fare una

distinzione tra coalizione e alleanza in quanto quest’ultima definisce l’ unione di due o più individui che
hanno un obiettivo comune e cercano di raggiungerlo nel rispetto delle relazioni del sistema. Avere alleanze
all’interno della famiglia, e non solo, è sempre una modalità positivamente funzionale al sistema familiare
che non danneggia né chi appartiene alla famiglia né chi non ne fa parte. La coalizione rappresenta invece
una modalità assai disfunzionale. All’interno di una coalizione il passaggio delle informazioni non è mai
pertinente, per cui i confini non sono mai distinti ma tendenzialmente diffusi. I membri della coalizione non
hanno uno scopo comune se non quello di arrecare danni a terzi, quindi tra loro non sarà possibile creare un
legame autentico.

F 0La
B 7 triangolazione può essere definita come una coalizione instabile e si verifica, ad esempio, quando un

figlio viene alternativamente richiamato dai genitori e rimane confuso tra loro. In questa continua
oscillazione tra mamma e papà, schierandosi alcune volte con un genitore, altre volte con l’altro, il genitore
non scelto leggerà tale esclusione come un attacco, provocando nel figlio rimorsi e sensi di colpa. Si tratta di
una situazione disfunzionale per il figlio, anche perché gli vengono date informazioni che non gli
competono.

F 0Infine,
B7 la deviazione, è rappresentata dalla modalità di due persone che in disaccordo tra loro indirizzano
il loro conflitto su un terzo. Il passaggio del conflitto su una terza persona non lo rende facilmente
identificabile, rendendo più ostica la sua risoluzione. La deviazione è una modalità molto comune nelle
coppie che per mantenere un’apparente armonia scaricano il loro conflitto coniugale sul figlio. In queste
particolari coppie, i genitori possono considerare il comportamento del figlio distruttivo e quindi unirsi per
combatterlo. In questo caso la deviazione assume una forma d’attacco. Se invece i genitori definiscono il
figlio bisognoso, si uniranno per proteggerlo dando alla deviazione una forma d’appoggio.

Lynn Hoffman sottolinea che nei sistemi relazionali più ampi, formati da numerosi triangoli, come ad
esempio una famiglia, vi sono due tipiche forme di bilanciamento delle varie triadi, di raggiungimento di una
compatibilità. Nella prima, i componenti del sistema si polarizzano in due gruppi opposti, mentre nella
seconda tutti si associano contro un unico membro, ovvero si ha una sorta di accomodamento che identifica
un solo deviante. Quest’ultima modalità di raggiungimento di compatibilità non è auspicabile, in quanto
nell’ambito del sistema, il deviante potrebbe assumere il ruolo di «cattivo».

5 Le reti sociali

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L’analisi della rete sociale è un passaggio necessario per far luce sul più ampio sovrasistema sociale che
racchiude in sé il sistema familiare.
I primi a parlare di rete furono alcuni antropologi inglesi, tra i quali John Barnes (Barnes 1954).
Da un punto di vista socioantropologico, la rete può essere definita come “tutte o alcune unità sociali
(individui o gruppi) con cui un particolare individuo o gruppo è in contatto” (Bott 1971).
Da un punto di vista relazionale possiamo considerare la rete come l’insieme delle persone o dei gruppi con
cui un individuo o una famiglia ha un contatto significativo e sufficientemente frequente.
Si parla di rete personale quando la relazione è tra persone e il singolo individuo, oppure di rete familiare
quando le relazioni circondano una determinata famiglia nucleare.
Possiamo inoltre incontrare fenomeni che si producono a livello interpersonale, come ad esempio le marce
della pace o i grandi eventi musicali nei quali l’interazione di gruppo è particolarmente attivata e può
favorire un cambiamento delle relazioni preesistenti, demolendo le barriere generazionali, sociali e culturali.
Si parla al riguardo di effetto di rete.
Lo studio delle reti sociali ci consente inoltre di capire come queste siano l’espressione delle strategie che un
individuo mette in atto per fronteggiare i suoi bisogni specifici o i problemi. E poiché bisogni e problemi
sono di diversa natura e in continua evoluzione, la tendenza dell’individuo è quella di appartenere a più reti
contemporaneamente, così come nella sua vita le costellazioni delle reti sociali che attraversa, tendono
sempre a modificarsi.
Si pensi ad esempio a dei genitori che devono intrattenere relazioni con il mondo che circonda i loro figli: la
scuola, gli amici dei figli, altri genitori ed altro ancora; queste relazioni saranno del tutto nuove rispetto a
quelle condivise prima che i figli nascessero.
L’individuo è quindi immerso in una rete di rapporti sociali multidimensionali, per cui non lo si può
considerare come un’entità a sé stante, ma come un soggetto sociale che interagisce con il mondo che lo
circonda influenzandolo e/o restandone influenzato.

6 Il funzionamento familiare normale


Cominciamo col dire che non appare facile affrontare il delicato problema del funzionamento familiare
“normale”. Quello che ci rende la famiglia così inafferrabile e al tempo stesso affascinante, è il risultato della
differenza dei punti di vista: osservatori diversi vedono famiglie diverse, ed ecco allora che può essere
definita come una rete sociale, come un sistema di parentela, una dinastia una cultura o un nucleo ristretto
(Bertrando 1997).
Una definizione che vi può capitare d’incontrare frequentemente in letteratura è quella di “gruppo umano
con storia”, tradotta in maniera più esauriente da Valeria Scabini, che ci parla della famiglia come di una
“organizzazione complessa di relazioni di parentela che ha una storia e che crea storia”.
La parola storia in questo senso ci consente di connettere l’ambiente della famiglia alla dimensione
temporale, facendo luce sulla molteplicità di livelli che caratterizzano gli scambi intercorrenti tra una
famiglia e il suo ambiente (Scabini 1991).
E’ certamente utile nel vostro ambito lavorativo, restringere il campo e fare riferimento alla “storia
vacanziera” di una famiglia, raccogliendo informazioni sul loro modo di fare vacanza (da soli o in gruppo),
sulle mete preferite, su quali esperienze li hanno maggiormente segnati e quali meno, come si divertono e si
sono divertiti, che aspettative hanno. Una tale indagine vi permetterà di connettere le loro esperienze
pregresse ad una proposta di vacanza aderente al momento che la famiglia si trova a vivere nel presente. Il
nuovo viaggio costituirà, per la famiglia, non soltanto una “nuova storia” da raccontare ma soprattutto un
ricordo da inserire nella sua storia passata per renderla ancora più significativa e pregnante quale collante tra
i suoi componenti.
Ritornando sulla difficoltà di definire una famiglia normale, Don D. Jackson afferma che “non esiste
un’entità come una famiglia normale, esiste invece un’ampia variabilità di modelli di adattamento e di
repertori comportamentali”(Jackson 1967).
Walsh pone l’accento su un’idea di normalità che si riferisce alla capacità di una famiglia di affrontare con
successo compiti specifici di ogni fase del suo ciclo vitale (Walsh 1995). Questa concezione ci invita a dare
particolare rilievo all’evoluzione della famiglia nel corso del tempo e alla sua capacità di adattarsi al
mutamento delle condizioni interne ed esterne.
Quindi una famiglia che ha un buon funzionamento in un determinato momento del suo ciclo di vita, non è
detto che mantenga nel tempo tale caratteristica.

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Anche di fronte ad una famiglia che ci appare funzionale, si deve tener presente che le caratteristiche di una
famiglia si modificano in relazione alla fase del ciclo di vita che sta attraversando, del luogo e della
situazione in cui la osserviamo (Hoffman 1981). Alla luce di questa osservazione possiamo ad esempio
pensare ad una coppia che funziona benissimo nella fase della sua formazione e vive successivamente un
evento critico in seguito alla nascita del primo figlio.

7 Confini e gerarchie
Affinché la famiglia possa funzionare in maniera adeguata sono necessari confini chiari e allo stesso tempo
flessibili, una solida gerarchia generazionale, insieme ad una condivisione paritaria del potere
nell’ambito del sottosistema genitoriale.
Quando parliamo di confini ci riferiamo all'insieme di regole che definiscono il passaggio dell’informazione
all’interno di una famiglia.
I confini sono importanti soprattutto per il loro scopo protettivo nei confronti dei bambini, che non
dovrebbero avere accesso a contenuti e informazioni violente, o ai problemi relazionali o economici degli
adulti.
I confini disfunzionali sono i confini diffusi e i confini rigidi. I primi lasciano passare troppe informazioni
creando una situazione in cui i problemi di uno dei componenti della famiglia diventano i problemi di tutti.
Si pensi ad un papà che non compra un giocattolo al figlio di otto anni, spiegandogli che il suo lavoro è
diventato precario e da due mesi non percepisce lo stipendio. Tale spiegazione non protegge il bambino e gli
dà accesso a problematiche di cui non può e non deve farsi carico. Questo tipo di famiglia viene definita
“invischiata”.
I secondi non permettono la comunicazione, quindi in una famiglia dai confini rigidi ci si sente poco presi in
considerazione, non accolti e quasi mai ascoltati, generando una famiglia “disimpegnata”. Si pensi ad un
papà che non accoglie la richiesta del suo bambino senza dare alcuna spiegazione in merito. Il bambino
penserà che la sua richiesta non è degna di considerazione ma senza capirne il perché.
Possiamo anche immaginare una famiglia invischiata, alle prese con la scelta di un villaggio turistico in cui
trascorrere le vacanze. Saranno facilmente osservabili comportamenti di eccessiva preoccupazione e
controllo. Potreste incontrare una mamma che boccia qualsiasi proposta in cui ad esempio l’equipe di
animazione prevede attività per i bambini in un’area non condivisa dai genitori. Nel profilo della famiglia
invischiata, infatti, qualsiasi manifestazione di perdita di controllo sui figli rende la madre ansiosa. Il timore
dominante è quello di diventare impotente. La madre ha un bisogno travolgente di avere una presa continua
sui figli.
Al contrario, in una famiglia disimpegnata potreste trovare una mamma che, rispetto ad una proposta di aiuto
nella gestione dei bambini in vacanza, sembra incapace di scegliere, tende all’isolamento e non sembra
abituata ad entrare in contatto con il mondo esterno per attingere risorse fuori dalla famiglia.
Più in generale, i figli delle famiglie invischiate imparano a dipendere esclusivamente dalla famiglia per
avere un senso di sostegno e di appartenenza, a danno della capacità di reagire in modo differenziato alle
diverse situazioni sociali. Le famiglie disimpegnate, d’altra parte, favoriscono nei figli un sentimento di
indipendenza distorto.
E’ importante inoltre sottolineare che, per il buon funzionamento di un sistema familiare, è importante che
non soltanto i confini tra i sottosistemi ma anche quelli con l’esterno non siano diffusi o rigidi.
Un tipico esempio di disfunzionalità dei confini tra sistema familiare e ambiente è costituito dal fenomeno
della «barriera di gomma», descritto da Wynne con riferimento ai rapporti tra famiglie dove vi è la presenza
di un membro psicotico e il mondo esterno.
Con il termine “barriere di gomma” Wynne si riferisce al fatto che queste famiglie presentano solitamente
confini con l’esterno assai poco permeabili ed appaiono come circondate da una barriera apparentemente
flessibile, ma in realtà estremamente difficile da varcare (Wynne 1961, Wynne et al. 1958).
Quando parliamo invece di una solida gerarchia generazionale ci riferiamo alla struttura del potere intesa
come adempimento del ruolo genitoriale. In una famiglia ben funzionante, i genitori dovrebbero essere in
grado di esercitare la loro autorità con potere esecutivo, seppure in modo flessibile e razionale, senza che vi
siano eccessive disparità di potere tra padre e madre (Walsh 1995). Detto con le parole di Hellinger,
riferendosi al suo concetto di Ordine, “Per un corretto funzionamento di una famiglia è necessario che i
genitori sappiano fare i genitori”.

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Le teorie strategiche e sistemiche avvalorano implicitamente una definizione di normalità familiare come
condizione di assenza di sintomi e flessibilità nella soluzione dei problemi. Gli approcci ad orientamento
psicoanalitico sostengono tendenzialmente un buon funzionamento familiare facilitato dalla crescita per
mezzo della terapia. Bowen, ritiene che il funzionamento familiare possa essere indebolito da strutture
relazionali poco differenziate, con un’elevata tendenza a forti reazioni emotive.
E’ importante sottolineare come tutti i modelli riconoscano nei concetti di flessibilità e di adattabilità i
denominatori comuni per un funzionamento familiare sano. Possiamo ad esempio fare riferimento a quanto il
ruolo della donna è cambiato in Italia negli ultimi 60 anni e quanto questo abbia influito oggi sul sistema
famiglia.
L’identità femminile e il ruolo sociale della donna hanno subito importanti mutamenti dalla seconda metà del
‘900 in poi. In quell'epoca nasce una nuova “ideologia della casalinga” basata anche sull’aspetto psicologico
e sentimentale: alla donna viene riconosciuto il ruolo di reggitrice della casa e di custode delle vicende
familiari.
Le donne, negli anni ’50, sembrano però ancora prigioniere in uno spazio che non permette loro di prendere
contatto con la propria sessualità e le costringe a vivere una relazione di coppia caratterizzata dalla
disuguaglianza e dalla discriminazione in un mondo che considera l’adulterio femminile un peccato più
grave rispetto a quello dell’uomo.
Alla fine degli anni ’60 diminuisce il numero di figli all’interno delle famiglie e cresce l’accesso delle donne
alle scuole secondarie e all’università. Nel mondo del lavoro aumenta la partecipazione femminile in ogni
settore professionale, fino ad arrivare agli anni ’70, in cui il rapporto tra uomo e donna diventa più
competitivo e non ha più confini stabili.
Le donne italiane, ispirate dal movimento femminista americano di quegli anni, denunciano il matrimonio e
la famiglia come luogo della dominazione maschile.
Negli anni ’80 e ’90 si assiste al cambiamento della maternità, con l’aumento delle nascite fuori dal
matrimonio e l’instabilità coniugale, ma soprattutto con l’avvio di nuove esperienze, come l’affido,
l’adozione e la procreazione medicalmente assistita.
Dobbiamo ad ogni modo sottolineare che la lotta per l’emancipazione femminile ha ottenuto straordinari
risultati ma è ancora lontana dall'essere compiuta: nei Paesi in via di sviluppo la donna, che svolge un ruolo
determinante nel settore produttivo, vive ancora in una condizione di subordinazione all’uomo, mentre nei
paesi industrializzati e ricchi, dove grandi traguardi sono stati raggiunti, deve ancora vedere tradotta nei fatti
l’uguaglianza sul piano giuridico.
Bisogna ricordare che i progressi si sono registrati nei paesi democratici, laici, che riconoscevano
l’uguaglianza di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di religione e di condizione sociale.
I regimi autoritari, invece, in cui il potere viene esercitato con la violenza, non accettano né garantiscono
l’emancipazione femminile.
In Italia, la diversità di condizioni in cui vivono le donne e l’ostinazione nella lotta per la conquista dei loro
diritti hanno portato, alla fine del secolo scorso, importanti conquiste nel campo del diritto del lavoro e della
famiglia ma soprattutto nel campo della procreazione grazie alla possibilità che i sistemi di contraccezione e
la legge sull'aborto del 1978 finalmente concedono a tutte le donne che da allora saranno libere di vivere la
maternità con maggiore consapevolezza e serenità. Le relazioni amorose diventano così elettive, fondate
esclusivamente sulla scelta personale.
Il diverso ruolo assunto dalla donna nella vita civile sia pubblica che privata ha determinato profonde
modificazioni anche all'interno del sistema famiglia dove maschile e femminile non coincidono più solo con
il sesso in senso biologico, ma diventano dei modelli culturali a cui sono esposti uomini e donne.
Le donne, che hanno conquistato l’autonomia attraverso il lavoro, assimilano i modelli della cultura
maschile, in parte subendoli, in parte trasformandoli.
Gli uomini si aprono faticosamente alle loro fragilità, riconoscono la presenza delle emozioni e stabiliscono
un rapporto con i figli basato sul riconoscimento e sulla fiducia.
La famiglia si trasforma dando vita a nuove tipologie: quella nucleare, costituita da genitori e figli; quella
unipersonale, costituita da un unico membro, in quanto molte donne e uomini vivono da soli; la famiglia
monoparentale, in cui è presente solo un genitore, o per vedovanza o per divorzio, e i figli; la famiglia
adottiva, in cui è presente almeno un minore legalmente assegnato a figure genitoriali che provvedono al
sostentamento e all’educazione. Oggi esistono diverse famiglie allargate, costituita da persone separate con
figli.

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8 Il contesto familiare e ambientale
Riordinando ciò che è stato appreso finora potremmo dire che la famiglia è considerata come un sistema
aperto, caratterizzata dalla tendenza all’omeostasi e al cambiamento. Queste due tendenze apparentemente in
contrapposizione trovano un aggancio nel concetto di omeostasi evolutiva. Riprendendo l’idea di Minuchin
(1976) possiamo ribadire il concetto di famiglia come “sistema-socio-culturale, aperto, in trasformazione
che pur nel cambiamento “mantiene se stesso” garantendo stabilità ed assicurando “crescita psicosociale ai
suoi membri”.
In quanto sistema interpersonale, la famiglia rappresenta il luogo sociale in cui si realizzano i processi di
sviluppo e di crescita dei suoi membri. I comportamenti assumono significato in rapporto alla situazione e
alle circostanze specifiche e privi di contesto i comportamenti non avrebbero alcun significato (contesto di
significato). La famiglia contribuisce a costruire un senso di identità nei suoi membri attraverso l’esperienza
dell’appartenenza e della differenziazione. I comportamenti appresi all’interno della famiglia fanno si che
essa rappresenti il principale contesto di apprendimento per ogni individuo.
Bronfenbrenner ha sistematizzato questi concetti attraverso la teoria ecologica dello sviluppo, sottolineando
l’importanza dell’ambiente sociale allargato. Secondo questa teoria, ai fini dello sviluppo, può essere
rilevante comprendere non solo ciò che il soggetto può sperimentare direttamente, come la famiglia o il
gruppo dei pari, ma anche sistemi ambientali di ordine più generale, che sono più lontani dalla sua
esperienza immediata e interagiscono tra loro.
Egli parla di ambiente ecologico, per indicare un contesto di sviluppo dell’individuo, e lo rappresenta come
un sistema di strutture concentriche, l’una inclusa nell’altra. Nella zona centrale vi è il microsistema,
seguono il mesosistema, l’esosistema e il macrosistema.
Il microsistema è uno schema di attività, ruoli e relazioni interpersonali di cui l’individuo in via di sviluppo
ha esperienza in un determinato contesto e che hanno particolari caratteristiche fisiche e concrete (es. la casa,
l’asilo, l’oratorio).
Il mesosistema indica due o più contesti ambientali (e le loro interconnessioni) in cui l’individuo è partecipe
in modo attivo (famiglia e gruppo dei pari, famiglia e scuola ecc) Andremo dunque ad analizzare gli effetti
che derivano dall’interazione di due o più contesti di cui l’individuo fa parte. Possiamo ad esempio pensare
a come le famiglie possono influenzare le esperienze nel gruppo dei pari dei loro figli e come viceversa,
l’interazione tra queste due esperienze possa influenzare lo sviluppo dei figli.
Quando parliamo di ecosistema ci riferiamo invece all’interazione di due o più contesti ambientali cui
l’individuo non partecipa direttamente ma che hanno comunque effetti sul micro e mesosistema. Pensiamo
ad esempio alla relazione tra l’ambiente di lavoro dei genitori e la famiglia, tra la televisione e la famiglia
ecc.
Infine il macrosistema include al suo interno sistemi diversi (micro, meso ed ecosistema), fa riferimento alle
culture, alle credenze, alle norme e alle rappresentazioni sociali. Si pensi ad esempio al ruolo svolto dalla
donna nelle varie epoche e nelle diverse società.
La teoria ecologica ha un ruolo fondamentale nel nostro percorso, poiché ci offre la possibilità di avere una
visione specifica dei diversi livelli ambientali in cui l’individuo si sviluppa. Mette inoltre in evidenza le
diverse interazioni tra famiglia e ambiente sociale e in particolare il modo in cui un individuo percepisce il
suo ambiente “ecologico” e il modo in cui contribuisce alla sua costruzione nel corso del suo ciclo di vita.

9 La famiglia e le sue fasi


Dopo aver dato uno sguardo alle caratteristiche di una famiglia con un funzionamento sano, è arrivato il
momento di zoomare la nostra fotografia e andare a guardare più da vicino ciò che accade all’interno delle
famiglie nel loro percorso evolutivo.
Una migliore conoscenza di queste dinamiche vi aiuterà nel vostro lavoro a rapportarvi in maniera più
agevole con questo complesso sistema, dandovi la possibilità di focalizzare con un po’ più di rapidità quelli
che sono i bisogni e le richieste del nucleo familiare così da poterle soddisfare. Renderà dunque più agevole
il vostro modo di relazionarvi al gruppo.
Costruiremo dunque una mappa delle famiglie che possiamo incontrare, ma attenzione… non è uno schema
rigido da applicare sempre e comunque ma va adattato in base alla specifica famiglia. Infatti, quando ci
rapportiamo alle famiglie, ma non solo, dovremmo tener presente che la mappa non è il territorio. Quello

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che invece sento di passarvi rispetto allo spirito con cui rapportarsi ad esse, è la curiosità: più una famiglia ci
incuriosisce, più diventa facile stabilire un contatto.
Questo particolare gruppo con storia, ha un proprio ciclo di vita che è un qualcosa di diverso e di più
rispetto alla somma dei cicli di vita dei suoi membri.
Fruggeri definisce le famiglie come unità dinamiche soggette a cambiamenti continui che possono
manifestarsi a livelli diversi ma dipendenti tra loro: individuale, interpersonale, gruppale e sociale. Ogni
membro della famiglia cresce e si trasforma nel tempo per cui, ogni nucleo familiare deve confrontarsi e
assimilare le trasformazioni relative allo sviluppo emotivo, cognitivo e fisico dei suoi diversi componenti
(livello individuale). Pensiamo ad esempio al processo di crescita di un figlio o all’invecchiamento di un
genitore.
Così pure le relazioni tra i membri della famiglia si modificano portando con sé dei cambiamenti all’intero
del nucleo (livello interpersonale). Si pensi ad esempio al rapporto con i nostri genitori che cambia man
mano che cresciamo. Infatti il legame di dipendenza che abbiamo da piccoli nei confronti del genitore
diminuisce con la nostra crescita, fino a diventare sempre più paritario quando diventiamo adulti.
In una famiglia avvengono cambiamenti importanti anche in relazione a come cambia il modo in cui è
composta (livello gruppale) e questo succede, ad esempio, con l’arrivo di un figlio, con l’accoglimento in
casa di un genitore anziano rimasto solo o per l’allontanamento di uno dei membri per matrimonio, per
motivi di studio o altro. La nascita del primo figlio ad esempio, impone alla coppia una nuova modalità di
organizzazione che cambierà nuovamente quando il figlio lascerà la casa dei genitori.
Infine la struttura familiare cambia anche in seguito alle trasformazioni che avvengono nel contesto sociale e
culturale di cui fa parte: valori culturali e religiosi, regime politico, identità etnica, e soprattutto eventi sociali
e ambientali che cambiano la struttura sociale in cui la famiglia è inserita, (guerre, disoccupazione e altro
ancora).
Oltre alla capacità di trasformarsi in base a quelli che sono i bisogni evolutivi dei suoi componenti, interni ed
esterni, la famiglia deve, allo stesso tempo, saper conservare il senso della propria identità e continuità nel
tempo.

10 Il ciclo di vita
Il tema del ciclo di vita familiare è nato e si è sviluppato in ambito sociologico nei tardi anni ‘40, grazie
all’opera di Hill e Duvall (Hill 1970, Duvall 1977).
Il ciclo di vita familiare si articola in una serie di fasi, ognuna delle quali deve essere superata per poter
passare alla fase successiva. In ogni punto di transizione è importante notare il coinvolgimento di quattro
generazioni che si trovano a cambiare insieme.
Fantastichiamo su una famiglia con più figli adolescenti, il nodo del cambiamento è rappresentato non solo
dal figlio che inizia ad uscire per esplorare il mondo dei coetanei, ma anche dai genitori che devono venire a
patti con l’autonomia del figlio e dai nonni che devono accettare di aver raggiunto un’età avanzata che viene
evidenziata da tutti gli indicatori esterni (Bertrando 1997).
Se si incontrano difficoltà in questo processo di cambiamento, il ciclo vitale può bloccarsi, oppure la tappa in
questione può venire superata in modo incompleto.
Infatti, la famiglia, nel corso del suo ciclo di vita, incontra degli eventi critici che caratterizzano specifiche
fasi e la cui risoluzione permette il passaggio alla fase successiva. Si può operare una distinzione tra eventi
critici prevedibili o normativi (eventi che la maggior parte degli individui e delle famiglie incontra nel corso
del proprio ciclo di vita e che sono in un certo senso attesi, come matrimonio, nascita dei figli, crescita, ecc.)
ed eventi critici imprevedibili o paranormativi (eventi che, anche se frequenti, non sono del tutto prevedibili,
come crisi economiche, malattie, morti premature, divorzi ecc.)
Il blocco del ciclo vitale si verifica quando, nel corso di una determinata fase, si verifica un evento
paranormativo e successivamente non avvengono le ridefinizioni delle relazioni interpersonali e la
riorganizzazione del sistema che sarebbero necessarie per passare alla fase successiva. Pensiamo ad esempio
ad un giovane fidanzato che sta per sposarsi e, dopo la morte improvvisa del padre, sente di dover affiancare
la mamma rinunciando alle nozze.
Si parla invece di passaggio incompleto quando il passaggio alla fase successiva avviene soltanto
apparentemente, senza che si siano in realtà modificate le relazioni interpersonali e le modalità di
funzionamento del sistema familiare. È per esempio il caso di una persona che si sposa senza essersi

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sufficientemente differenziata dalla propria famiglia d’origine e impone al coniuge di andare ogni giorno a
pranzo dai propri genitori.
Gli stadi del ciclo di vita non hanno un carattere universale. Ad esempio, sia il prolungamento della fase
dell’adolescenza che diventa fase del giovane adulto che le fasi del ”nido vuoto” e dell’età anziana,
rappresentano una caratteristica della società occidentale di questo secolo, legate alla riduzione del tasso di
natalità, all’ingresso ritardato nel mondo del lavoro e all’incremento della durata media della vita
(McGoldrick et al. 1995).
Secondo Carter e McGoldrick [1980] il ciclo di vita familiare può essere suddiviso in sei stadi:
1. Giovane adulto senza legami: Nella fase precedente la formazione della famiglia è indispensabile il
“distacco emotivo” del giovane dal gruppo di origine e ciò si concretizzerà attraverso la differenziazione e
definizione del proprio sé rispetto ai familiari, nell’ambito del lavoro e delle relazioni con i pari;

2. Formazione della coppia: In questo secondo stadio un lavoro positivo di ristrutturazione deve portare
all’organizzazione del sistema coniugale e si devono “ridefinire” le relazioni con le famiglie estese e con i
gruppi di appartenenza dei coniugi. Si può verificare che in alcune famiglie uno o entrambi i membri della
coppia non hanno rielaborato in modo costruttivo il distacco dalla propria famiglia di origine (scarsa
differenziazione), per cui risulta limitata la capacità di realizzare un efficace coinvolgimento nel nuovo
gruppo familiare, e da qui possono sorgere problemi all’interno della nuova coppia;

3. Nascita del primo figlio e famiglia con bambini piccoli: in questo stadio il processo emozionale centrale
è l’accettazione dei figli come nuovi membri del sistema. In altri termini, vuole dire: la formazione del
sottosistema genitoriale, il riassestamento di quello coniugale per fare spazio ai figli e il riadattamento delle
relazioni con le famiglie di origine dove andranno “rinegoziati” i ruoli di genitori e nonni;

4. Famiglia con adolescenti: Nella famiglia con adolescenti deve essere aumentata la flessibilità dei confini
all’interno della famiglia per permettere lo svincolo dei figli. Se ciò avviene, l’adolescente si sentirà libero di
entrare e uscire dal sistema famiglia senza nessun tipo di condizionamento o di costrizione. In questa fase vi
è una nuova attenzione ai rapporti di coppia;

5. Famiglia in cui i figli adulti escono di casa: Nel quinto stadio il processo emozionale centrale sarà
l’accettazione di un numero sempre maggiore di movimenti di uscita e di entrata nel sistema: in pratica ciò
comporterà nuovi interessi entro il sottosistema coniugale degli adulti, lo sviluppo di relazioni alla pari tra
genitori e figli adulti e la ridefinizione di relazioni per includere nipoti e generi/nuore;

6. Famiglia nell’età anziana: Il sesto stadio riguarda l’accettazione del cambiamento dei ruoli
generazionali, del mantenimento del funzionamento di coppia, del riconoscimento di un ruolo più centrale
alle generazioni di mezzo.

Il modello di sviluppo proposto da Carter e McGoldrick presuppone che la famiglia attraversi una serie di
fasi. Ogni fase è caratterizzata da specifici compiti di sviluppo, che comportano una ristrutturazione dei
rapporti a livello di coppia, delle relazioni genitori-figli e di quelle con la famiglia d’origine e la cui
soluzione consente il passaggio allo stadio successivo. I compiti di sviluppo sono dunque obiettivi finalizzati
alla crescita in un determinato periodo della vita della famiglia.
Per Haley non sempre la famiglia riesce ad affrontare tali compiti evolutivi. Qualora il sistema familiare non
riesca ad affrontare con successo il compito di sviluppo che contraddistingue la fase del ciclo vitale che sta
attraversando è probabile che si verifichi una sofferenza del sistema.

11 Ciclo di vita e processi decisionali


Alla luce di tutto ciò potremmo chiederci quanto il momento temporale che si sta vivendo nel proprio ciclo
di vita incide sulle proprie scelte. In particolare, per entrare nello specifico delle scelte che vi troverete a
guidare dobbiamo chiederci: quanto e come il momento del ciclo di vita incide sulle scelte turistiche?
Alcuni autori, come Gibson e Yiannakis riconoscono che solitamente gli studi su famiglia, individui e
turismo sono principalmente studi trasversali, nei quali viene trascurata l’importanza dei fenomeni di massa
e dell’effetto dei cambiamenti storici-culturali che possono avvenire nella società. In realtà esistono filoni di

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ricerca che riportano come il reddito e la presenza di bambini piccoli possono essere utilizzati per spiegare lo
stile turistico. Inoltre alcuni studi hanno rivelato che ci possono essere delle differenze generazionali nelle
scelte, suggerendo che i giovani, ad esempio, possono diventare “turisti” in età più giovane rispetto alle
generazioni precedenti. (Gibson, Yiannakis, 2002).
Sulla base di questi studi possiamo affermare che ci sono alcune variabili chiave che scandiscono le fasi del
ciclo di vita di una famiglia come l’età, lo stato civile, la condizione occupazionale del capo famiglia ecc.,
che sono capaci di influenzare le scelte dei membri di un sistema familiare.
In particolare Blichfèldt studia come i contesti della vita quotidiana cambiano durante il corso della vita e
come, di conseguenza, potrebbero cambiare le motivazioni al viaggio e le aspirazioni di vacanza.
Tuttavia la studiosa evidenzia come la maggior parte delle ricerche si riferisca al rapporto tra fasi del ciclo di
vita e consumo a livelli più generali (cioè spese per le categorie più ampie, come beni, servizi, o cibo).
Pochi ricercatori si sono concentrati sui modi in cui la composizione della famiglia possa influenzare la
propensione a fare vacanze e i modi di fare vacanza.
La Blichfeldt suggerisce che i contesti di vita quotidiana hanno un profondo impatto sulle esperienze che le
persone hanno e alle quali aspirano durante le loro vacanze. Così, sia le motivazioni al viaggio sia le
aspirazioni per le attività da svolgere sono basate in larga misura sui contesti di vita quotidiana e soprattutto
sulla fase della vita che l'individuo e la sua famiglia sta vivendo (Blichfèldt, 2007).
Altri autori si sono concentrati invece sui processi decisionali che portano una famiglia a scegliere una
vacanza. La decisione spesso risulta molto complicata, si passa dal “dove andare” fino al “cosa dobbiamo
fare adesso che siamo qui” ed oltre. Molte scelte sono basate sul contesto familiare, altre sono basate su
percezioni ma la maggior parte di esse sono basate su giudizi valutativi di decisioni relativamente ad alto
rischio, cioè, non si sa quanto “buona” sarà la vacanza fino a quando non sarà sperimentata (Smallman,
Moore, 2010).
Van Raaij e Francke, nel tentativo di offrire una visione chiara di quello che può essere il percorso di scelta
di una famiglia, scandiscono cinque fasi salienti (“vacation sequence”): la prima decisione attiene alla
possibilità e al desiderio di fare una vacanza; il secondo passo riguarda la ricerca di una destinazione
possibile; nella terza fase, dopo aver esaminato le diverse possibilità, si sceglie una destinazione; nella quarta
fase la vacanza viene pianificata in base alle esigenze personali e l’ultima sarà la fase di verifica del livello di
soddisfazione che, come feedback, rientrerà nelle decisioni per le vacanze successive (Van Raaij e
Francken,1984).
Ricordiamo infine un filone di studi che ha evidenziato come i membri di una famiglia vivono la scelta della
vacanza partendo da diverse esigenze, ragion per cui tra genitori e figli le motivazioni che spingono non sono
mai le stesse.
Johns e Gyimothy, nella loro ricerca sul turismo familiare a Legoland, un parco avventura della Lego situato
in Danimarca, descrivono i “push factors” e i “pull factors” dei genitori e dei bambini presenti nel parco
divertimenti. Per i genitori il viaggio a Legoland rappresenta un’ occasione per rafforzare i rapporti familiari
e soddisfare le esigenze dei figli, per come i genitori le hanno lette. I push factor, quindi, appartengono
maggiormente ai genitori perché sono più legati ad un’insoddisfazione della vita quotidiana mentre per i
bambini e i ragazzi il fattore di spinta è la novità; i “pull factors” sono essenzialmente dichiarati dai ragazzi
che esprimono curiosità, soddisfazione, coinvolgimento, libertà, padronanza del luogo e spontaneità (Johns,
Gyimothy, 2003).
In conclusione, pur esistendo numerosi spunti di ricerca i quali mettono in risalto le variabili capaci di
influenzare i processi di decision making e di scelta, non è possibile al momento delineare un quadro univoco
e definito dei fattori di un sistema familiare in grado di condizionare le scelte turistiche, quindi la valutazione
deve essere comunque condotta caso per caso.

12 La famiglia in un’ottica transculturale


Alla luce di quanto esposto fino ad ora risulta indispensabile per lo studio della famiglia, tener conto del
sistema di relazioni di cui fa parte, nonché del contesto in cui è inserita. Una visione complessa ci permette
di leggere i comportamenti presenti di un dato individuo in relazione alla propria storia familiare e, leggere le
azioni che le persone si scambiano in virtù dei miti, valori trasmessi dalle generazioni passate. Queste
influenzano quelle presenti in maniera indiretta nonostante magari queste ultime non abbiano conosciuto
quelle passate se non mediante l’immagine tramandata dalla generazione intermedia (ad esempio un ragazzo
che ha conosciuto suo nonno attraverso i racconti del padre).

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Con il tempo le relazioni più importanti della nostra vita ci insegnano cosa possiamo e non possiamo fare, ci
indicano le strade che possiamo percorrere e quelle che ci sono proibite. Questo lungo processo ci porta ad
indossare delle lenti con cui leggiamo il mondo.
Dunque, nello studio e nel lavoro con l’individuo e con le famiglie è fondamentale tenere presente il contesto
di appartenenza, per poi comprendere i valori e i miti che regolano le loro azioni.
Un esempio potrebbe essere la reazione di una famiglia alla scelta della propria figlia di andare in vacanza da
sola con il fidanzato. Analizziamo il fenomeno ad un livello microsociale, prendendo in esame due paesi
della stessa provincia.
Se Claudia proviene da un paesino e da una famiglia, in cui si dà molta importanza al valore del matrimonio
e alla verginità, non le sarà concesso di andare in vacanza da sola con il fidanzato e dormire nella stessa
stanza, in quanto simbolo di una donna di facili costumi. Al contrario se Claudia proviene da un paese di
provincia più emancipato e da una famiglia più aperta ai cambiamenti sociali, dove le donne hanno sempre
manifestato una forte emancipazione nella sfera sociale, lavorativa, la possibilità di restare più giorni fuori
casa con il proprio fidanzato non è considerato un oltraggio al valore del matrimonio.
L’operatore turistico al pari di un terapeuta nel comprendere i bisogni e la richiesta di un individuo o
un’intera famiglia rispetto alla scelta di una meta turistica deve tenere ben presente qual è il contesto di
appartenenza e i valori del richiedente per poter così immaginare quali siano le aspettative altrui rispetto ad
una data vacanza.
Sulla base di quanto esposto, ora proviamo a tracciare un profilo delle famiglie nelle diverse culture, al fine
di comprenderne i valori. Nel fare ciò ho ritenuto interessante riportare di seguito parte di un articolo, in cui
sono evidenziate le peculiarità delle famiglie occidentali e orientali .
In Occidente, il maggior cambiamento verificatosi negli ultimi secoli in ambito familiare è stato il passaggio
dalla famiglia estesa a quella nucleare che ha portato allo sviluppo della residenza neolocale, sostituitasi al
modello patrilocale (residenza presso la casa del padre dello sposo) o matrilocale (residenza presso la casa
della madre della sposa). Di conseguenza l’idea della poligamia ha ceduto il passo a quella della monogamia.
Quasi dovunque i legami della parentela hanno perso importanza nella vita sociale e le persone hanno
iniziato a vedere il matrimonio come un’occasione di realizzazione personale piuttosto che come strumento
economico o un mezzo per stringere alleanze familiari.
La tipica famiglia occidentale è: monogamica, ossia una persona può avere un solo coniuge finché dura il
matrimonio; è generalmente endogamica, per cui la maggior parte delle persone si sposa nell’ambito del
proprio gruppo razziale, etnico, religioso nonché della classe sociale di appartenenza; è nucleare anche se
può capitare che facciano parte della famiglia il nonno, la nonna o altri parenti; è neolocale, cioè gli sposi
vanno ad abitare da soli, in una casa diversa da quella delle rispettive famiglie di origine; è bilaterale, ossia
sono considerati come parenti i congiunti sia del marito che della moglie e le proprietà si trasmettono sia ai
figli che alle figlie. Tuttavia esiste uno stampo patrilineare in quanto i figli assumono il cognome del papà
(Robertson, 1992). Da pochissimo questa cosa è cambiata
In Italia, l’industrializzazione non ha portato un’emancipazione in tutti i livelli della società, per cui alcune
abitudini e modi di pensare del passato continuano a persistere nella società odierna, molto più di quanto non
avvenga in altri paesi occidentali: le famiglie italiane si riuniscono sempre, per almeno un pasto al giorno,
intorno allo stesso tavolo. La cena è un momento di dialogo tra genitori e figli, uno dei pochi nei quali tutti i
membri della famiglia hanno la possibilità di stare insieme.
Oggi giorno con l’aumento dei divorzi, accanto al modello familiare basato sul matrimonio religioso, ci sono
altri modelli familiari: le convivenze; le famiglie ricostituite, ossia quelle che si formano dall'unione tra
divorziati; la famiglia composta da un solo genitore e anche quelle composte da una sola persona. Rispetto
all’accettazione delle nuove forme di famiglia, non sancite dal rito del matrimonio, la società italiana
presenta una visione arretrata a dispetto della cultura occidentale.
Un'altra caratteristica del modello italiano è la lunga adolescenza, per cui i figli vivono con i propri genitori
molto più a lungo che negli altri paesi occidentali, spesso fino ai trenta/trentacinque anni. Prima di sposarsi e
di iniziare una nuova famiglia, infatti, è normale per un giovane italiano, soprattutto per gli uomini,
continuare a vivere nella stessa casa dei genitori e dipendere economicamente da loro.
Ora diamo uno sguardo alla cultura orientale e in particolare alla famiglia islamica e cinese, al fine di
evidenziare la diversità dei valori e norme.
In Islam la famiglia è estremamente importante in quanto è considerata alla base della società ed è fondata
sul matrimonio.

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A differenza di quanto avviene in occidente in cui il matrimonio può essere religioso o civile, per l'Islam il
matrimonio è esclusivamente un contratto che però è profondamente radicato nella tradizione religiosa, senza
assumere come per la religione cristiana il valore di sacramento.
Come qualsiasi contratto, il matrimonio è concluso con il consenso delle parti contrattanti. Le parti del
contratto non coincidono necessariamente con gli sposi; secondo la sharia infatti ogni persona può essere
titolare del rapporto matrimoniale, anche il bambino appena nato.
Il diritto islamico tradizionale non fissa un limite d’età al di sotto del quale non si possa essere titolari del
rapporto matrimoniale; alcuni giuristi sono infatti arrivati a considerare valido il matrimonio anche in età
infantile.
Le varie scuole giuridiche collegano la capacità matrimoniale al raggiungimento della pubertà. Le soluzioni
accolte sono comunque differenti: l’età minima per contrarre matrimonio varia, per la donna tra i 15 e i 17
anni, per l’uomo tra i 15 e i 18 anni.
Per quanto concerne il requisito del consenso, il diritto islamico prevede che i soggetti che non abbiano
raggiunto ancora l’età matura debbano sottostare al diritto di costrizione matrimoniale esercitato dal tutore
matrimoniale (walî), che normalmente è il padre. Il potere di costrizione matrimoniale cessa quando
l’individuo ad esso sottoposto raggiunge la pubertà.
La scuola malikita stabilisce anche in un altro caso il potere di costrizione matrimoniale, ossia l’ipotesi della
donna vergine che, anche se maggiorenne, può essere data in sposa contro la sua volontà, in quanto la
verginità, allo stesso modo della giovane età, implica poca conoscenza della vita, e giustifica il prolungarsi
del potere di costrizione da parte del tutore.
Il matrimonio può essere sciolto su iniziativa di uno dei coniugi oppure consensualmente dopo che sono stati
analizzati i motivi dello scioglimento. Pur essendo permesso, il tasso di divorzio nei paesi islamici è
estremamente basso e irrilevante, il che sta ad indicare quanto valore è attribuito al matrimonio e alla
famiglia in tale cultura.
Nella coppia, i coniugi hanno diritti e doveri in comune, ma i ruoli delle due parti sono ben definiti: la
responsabilità di sostenere economicamente la famiglia è a carico del padre mentre a carico della donna è la
responsabilità di educare e allevare i figli e di far funzionare la famiglia nel miglior modo possibile.
Se una donna desidera contribuire economicamente al sostentamento della famiglia, può farlo anche se l'idea
di realizzazione della donna non appartiene all'Islam e rappresenta una sorta di perversione da condannare.
Al contrario di ciò che spesso si pensa la poligamia è permessa, ma non incoraggiata ed è considerata come
una soluzione da adottare in casi estremi: nel Corano è scritto "se temete di non poter prendervi cura degli
orfani che vi sono affidati, sposate allora, tra le donne che vi piacciono due, o tre, o quattro. E se temete di
non essere equi una soltanto" e ancora "Dio sa che per quanto proviate non potete mai essere equi" .
Il marito, inoltre, al momento del primo matrimonio può promettere di non sposare altre donne attraverso
una clausola.
I figli devono essere dunque curati con amore e dedizione, incoraggiando il loro spirito d'iniziativa. La madre
non deve però essere serva dei figli; la donna ha infatti la sua propria individualità ed ha il diritto al rispetto
assoluto e all'obbedienza da parte dei sui figli che secondo il profeta islamico devono amare la madre tre
volte più del padre.
Nella famiglia islamica, inoltre un posto centrale è occupato dagli anziani: non esistono case di riposo
nell'Islam e il sostegno ed il mantenimento dei genitori sono precisi doveri religiosi. Il Corano infatti dice: “il
tuo Signore ti ha ordinato di non adorare alcuno all'infuori di lui e di essere benevolo verso i tuoi genitori”.
Gli anziani non devono quindi essere respinti, disprezzati, ma rispettati.
Ora spostiamoci in Cina, il paese in cui varie generazioni vivono sotto lo stesso tetto, formando una unità
familiare numerosa.
In questa cultura non è importante il numero dei componenti di una famiglia, quanto la relazione "padre-
figlio", che rappresenta la funzione vitale della famiglia cinese. Questa relazione risulta essere, per sua
natura, complementare: da una parte il padre dovrà occuparsi dei successi sociali e finanziari del proprio
figlio, dall'altra a questi è richiesta l’obbedienza e il mantenimento dei genitori, quando questi avranno
raggiunto una certa età. Gli elementi più importanti nel nucleo familiare, infatti, non sono i giovani ma gli
anziani ai quali viene riservato il massimo rispetto ed aiuto. Unitamente al sentimento per gli anziani vi è la
venerazione per gli antenati.
Nella famiglia dell'Estremo Oriente, che è un ente collettivo a capo del quale vi è il padre o il nonno, l'amore
ed il rispetto per gli anziani è un principio generalmente accettato e portato quasi ad una passione. In Cina è,

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infatti, l'anziano che comanda, che deve essere ascoltato ed ubbidito. I doveri del giovane, comunque,
continueranno anche dopo la morte dei genitori, perché dovrà venerarli anche attraverso il culto degli
antenati.
Mentre in Occidente il matrimonio è quasi sempre una questione di scelta individuale, dettata da sentimenti
o da convenienze, in Cina invece lo era fino a qualche tempo fa. In realtà, forse questa tradizione non è del
tutto scomparsa e il matrimonio si presenta come il frutto della scelta dei genitori o di patti tra famiglie,
talvolta ancora prima che i figli nascano.
In armonia alle norme dettate da Confucio, per il quale i figli debbono il massimo rispetto e devozione ai
genitori, la nuora, che entrava in famiglia, aveva come primo dovere l'obbedienza ai suoceri.
Sotto il profilo sociologico la famiglia cinese è organizzata su base patrilineare, tuttavia nelle famiglie di una
certa posizione, quando la coppia non ha figli maschi ma solo figlie, è possibile fare sposare la figlia secondo
il sistema matrilineare, ossia una linea di discendenza da un antenato femminile ad un discendente (di
entrambi i sessi) dove gli individui delle generazioni intermedie sono tutti di sesso femminile.
In un sistema di discendenza matrilineare, un individuo è considerato appartenere allo stesso gruppo di
discendenza della propria madre. Titolo, beni, ed altri oggetti sociali vengono trasmessi alle nuove
generazioni per via femminile.
In questo caso il marito diventa figlio dei suoceri e ne assume il cognome. I figli della nuova coppia avranno
il cognome della madre, tutti saranno membri della famiglia materna, meno uno, che farà parte della famiglia
paterna. Ciò è però valido solamente per una generazione. Questo in contrasto con il percorso più comune
della discendenza patrilineare.
La famiglia tradizionale cinese sopra descritta, è sostanzialmente anche la famiglia di oggi, sebbene siano
intervenuti notevoli mutamenti. Molti sono i giovani che non sopportano la ferrea autorità del capo famiglia,
né gli obblighi che la vita familiare comporta.
Lo sviluppo industriale, il movimento delle grandi masse dalle zone rurali ai grossi centri urbani, ha quindi
modificato la famiglia patriarcale. I giovani hanno preteso di scegliere la propria compagna e di formarsi una
famiglia del tipo nucleare, benché ancora radicato sia il concetto dell'assistenza ai genitori, non più come
obbligo, ma come dovere morale.
Anche la donna oggi ha la sua dimensione sociale. La sua attività non è più limitata alle cure domestiche
all'interno della famiglia o del clan, ma è rivolta all'esterno, verso delle comunità più vaste, come le
organizzazioni di quartiere, le comuni e le fabbriche. La donna oggi ha accesso all'università e fa i lavori più
disparati.
La famiglia nella società odierna continua comunque ad avere un ruolo fondamentale in quanto è il luogo in
cui comincia l'educazione del bambino e dove vengono trasmessi valori quali il rispetto, la cortesia
l'obbedienza e la gratitudine verso i genitori ed il rispetto degli anziani.
Ora proviamo ad effettuare un’analisi dei modelli familiari su descritti, al fine di evidenziare similitudini e
differenze delle culture esaminate.
Un aspetto che contraddistingue la famiglia islamica è senza dubbio il grande valore che attribuisce al
matrimonio. Infatti, nonostante il matrimonio non sia un sacramento, la famiglia islamica è molto più legata
alla tradizione religiosa di quanto non lo sia quella italiana.
Un’altra differenza importante che non deve essere trascurata è quella che attiene al rispetto degli anziani,
tanto che nella cultura cinese si trasforma addirittura in un culto per gli antenati.
Sulla base di quanto esposto possiamo inferire che il mondo Orientale ha conservato nel corso dei secoli
l’importanza e il culto di valori importanti quali la famiglia e il ruolo che l’anziano riveste al suo interno.
D’altro canto tali valori un tempo erano ben radicati anche nella cultura occidentale ma negli ultimi secoli
sembrano aver perso il valore e l’importanza riconosciutagli in passato.
I valori, le norme e i miti presenti in ogni cultura sono introiettati da ciascun sistema familiare che li fa
propri, al punto tale da condizionare le proprie credenze, i propri desideri e il proprio agire, trasmettendoli
poi alle generazioni future.
Quanto esposto deve essere tenuto ben presente dall’operatore turistico, nell’organizzazione di gruppi e
viaggi turistici.
Il turismo è soprattutto occasione di incontro con l’altro e il modo in cui i turisti percepiscono le relazioni
sociali e il valore qualitativo che gli attribuiscono in base a ciò che la vacanza sollecita, sembrerebbe essere
un fattore fondamentale nel determinare buona parte della soddisfazione turistica, della riuscita della vacanza
e del suo buon ricordo (Urry, 1990).

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Caso pratico
In quest’ultima parte presenteremo un caso pratico che ci aiuta a rendere più concreti i concetti trattati
teoricamente all’interno della lezione.
Ci troviamo in un villaggio turistico pugliese.
La nostra famiglia è composta dai genitori Paolo e Giulia e dal figlio Marco di 12 anni.
La prima vacanza che Paolo e Giulia hanno trascorso in quella struttura risale all’anno in cui aspettavano
Marco, il loro primogenito, che oggi ha 12 anni. Ci sono poi ritornati ogni anno per almeno una settimana.
La ragione per cui è diventata una tappa fissa è che tutta la famiglia d’origine di Giulia (genitori, sorella e
fratello con rispettive famiglie nucleari) si riunisce lì.
Paolo, visto che il loro ragazzo sta crescendo, pensa che qualche volta potrebbe essere bello e divertente
cambiare meta e sperimentare una vacanza in tre, ma conosce bene la famiglia di Giulia e preferisce evitare
conflitti. Si decide sempre tutto insieme e ormai, anche se a volte comporta delle rinunce importanti, questa
modalità sembra appartenere anche a lui: “tutti per uno e uno per tutti”.
Oggi Paolo e Giulia sono due genitori molto permissivi, si sono sposati molto giovani ed hanno un
atteggiamento amicale con il figlio Marco.
Arrivati alla reception del villaggio, la famiglia trova un nuovo operatore come succede quasi ogni anno. Il
bungalow assegnatogli è lo stesso di sempre: un monolocale con un letto matrimoniale e un letto singolo.
Quest’anno però qualcosa è cambiato: Marco si rende conto che per tutto il soggiorno non avrà la sua
cameretta e non può più tollerare di condividere la stanza con mamma e papà, nemmeno per una settimana.
Mostra il suo dissenso per questa situazione davanti all’operatore, “rimproverando” i genitori di non avergli
dato la possibilità di prenotare un bilocale dove lui avrebbe avuto i suoi spazi.
I genitori appaiono mortificati e cercano di calmarlo ma Marco è irremovibile: non metterà piede in camera
finché non si fa come dice lui. A questo punto Paolo prende Marco in disparte e gli dice che non è stato
possibile prendere un bilocale perché costava troppo. Ultimamente non navigano in buone acque e quella
vacanza gli era stata offerta dai nonni, pur di vederli tutti insieme, anche perché, aggiunge, tra lui e la
mamma le cose non vanno molto bene.
Marco appare irritato, ma cala il capo e avvicinatosi al bancone della reception detta una condizione: “andrò
in camera solo se sarò io a detenere le chiavi per l’intero soggiorno!”
Davanti allo stupore dell’operatore, i genitori assecondano la richiesta e si avviano finalmente a prendere
possesso del bungalow.
Come avete potuto notare, si tratta di una famiglia chiaramente invischiata, dove i problemi di uno, sono i
problemi di tutti. La nonna entra nella famiglia nucleare con la sua offerta di pagare la vacanza come a voler
risanare sia la crisi economica, sia la crisi di coppia.
Il mito è quello di “uno per tutti, tutti per uno”. All’interno della famiglia nucleare i confini sono assai
diffusi, infatti il padre Paolo non perde occasione per far presente al figlio Marco problematiche che non
andavano poste come giustificazione alla decisione dei genitori.
Non è presente, quindi, una solida gerarchia generazionale intesa come adempimento del ruolo genitoriale: il
figlio Marco ha un ruolo di potere rispetto ai genitori, che ostenta facendo rimproveri, mettendo regole e
assumendo un atteggiamento punitivo quando non vengono rispettate.
I genitori non sono in grado di arginare il figlio e limitare o posticipare le sue richieste.
Ovviamente l’operatore turistico non può entrare nel merito nelle questione familiari ma può sfruttare le sue
conoscenze e competenze, al fine di rendere la situazione meno imbarazzante per la famiglia, favorendo un
clima più rilassato ed utilizzando una modalità di comunicazione meno pesante e soprattutto evitando il più
possibile di apparire giudicante.

“EMPATIA E RESPONSABILITÀ INTERPERSONALE”

1 Premessa
Il presente lavoro vuole illustrarci il ruolo dell’empatia e della responsabilità interpersonale nel settore
turistico. “Vedere le cose con gli occhi del turista è la via mastra da percorrere per fare imprenditoria nel
turismo. Si cambia destinazione secondo l’umore, si cambia albergo secondo le suggestioni, si cambia modo
di far vacanza secondo gli stati d’animo”.

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In questo lavoro entrate quotidianamente in contatto con altre persone, siano essi clienti, colleghi o fornitori.
Per ottenere buoni risultati, bisogna instaurare rapporti produttivi. Le incomprensioni innescano malumori e
conflitti. Ciò può accadere quando sbagliamo ad interpretare i bisogni dei clienti, ad esempio, e lo stesso
accade in qualsiasi altro rapporto/legame comunicativo.
Daniel Goleman utilizza il termine intelligenza emotiva sociale riferendosi a quell'insieme di caratteristiche
che ci permettono di relazionarci positivamente con gli altri e di interagire in modo costruttivo con essi. Una
delle componenti più importanti di questo aspetto dell'intelligenza è costituita dall'empatia, ossia dalla
capacità di riconoscere le emozioni e i sentimenti negli altri, ponendoci idealmente nei loro panni e
riuscendo a comprendere i rispettivi punti di vista, gli interessi e le difficoltà interiori.
Gli argomenti trattati, in questa dispensa, riguardano, appunto, il ruolo dell’empatia tra residenti e turisti; le
tecniche di ascolto per gli operatori turistici, che cos’è l’empatia e se si può imparare ad essere empatici. Un
piccolo cenno all’ascolto attivo e all’accoglienza, che ha un ruolo centrale in questo settore.
Iniziamo questa lettura cercando di chiarire di cosa si occupa la Psicologia del Turismo, e quali sono le
interazioni possibili tra il residente ed il turista… perché, come vedremo, la Psicologia del turismo non si
limita a studiare l’uomo in quanto turista.

2 Psicologia del Turismo


Negli ultimi anni, nell’ambito della Psicologia Sociale, si sta sviluppando una nuova e importante branca di
studi definita Psicologia del Turismo. Ma cos’è la Psicologia Turistica? Di che cosa si occupa? Cosa studia?
La risposta più scontata è che la Psicologia Turistica studia l’uomo-turista. Questa definizione da un certo
punto di vista può anche essere corretta ma, senza dubbio, è alquanto limitativa. Certo, la Psicologia del
Turismo studia l’uomo in quanto turista, ma non solo. Il discorso è di sicuro più ampio ed articolato e
richiede un’attenta riflessione ed analisi su cosa sia il “turismo” e su quali siano i fattori che concorrono nel
svilupparlo. Al giorno d’oggi, il turismo rappresenta una delle principali attività economiche del mondo.
Il turismo riveste una fondamentale importanza in quanto fattore benessere economico e di sviluppo sociale
per molte zone depresse della terra, prive di altre risorse di sviluppo e di sostentamento. Di conseguenza, si
può affermare che l’attività turistica è oggi uno dei fattori più decisivi fra gli agenti di cambiamento
sull’ambiente dell’uomo. Un fattore che influenza non soltanto gli aspetti fisici del territorio, ma anche quelli
sociali, psicologici e culturali. A tutto ciò bisogna aggiungere che, mentre nei secoli scorsi, il viaggiare era
un’attività tipica soprattutto delle classi più agiate, attualmente il turismo coinvolge milioni di persone di
ogni livello sociale ed economico. Chi si occupa di turismo (operatori turistici, imprenditori, enti, comuni,
residenti ecc...) tende, solitamente, a considerare questa attività principalmente da un punto di vista
geografico- economico, spesso ignorando gli aspetti sopra considerati, che sono invece da prendere in seria
considerazione laddove si voglia coniugare ed integrare il fare turismo con gli innumerevoli fattori che su
questa attività incidono in vario modo. Alcuni tra i processi negativi dal punto di vista sociale che il turismo
può produrre nelle comunità locali sono rappresentati, ad esempio, dalla trasformazione di riti religiosi o
etnici in prodotti turistici o dall’abbandono delle attività artigianali tradizionali in favore della soddisfazione
di una domanda di souvenir. L’incontro tra turisti e popolazione locale può provocare anche conflitti
culturali, legati, ad esempio dalla conservazione degli usi e delle abitudini locali, al confronto tra differenti
diversi livelli di benessere, all’aumento dei prezzi.
In questa prospettiva, la psicologia del turismo oggi è una disciplina che non solo si propone di favorire e
promuovere l’interazione tra residenti e turisti, ma contribuisce con le proprie moderne conoscenze
scientifiche e i propri strumenti professionali alla realizzazione di un turismo, inteso come fenomeno
generale, capace di caratterizzarsi per il rispetto dell’identità culturale delle comunità locali ospitanti e il
miglioramento della qualità della vita tanto delle popolazioni locali ospitanti quanto dei turisti. In questo
senso, la psicologia può offrire un contributo rilevante alla realizzazione di uno sviluppo del turismo che
intenda fondarsi sulla gestione locale dei servizi turistici, sul pieno coinvolgimento dell’imprenditoria e della
comunità locale nel processo di pianificazione e gestione dell’offerta turistica e sul ruolo attivo del turista
nella tutela dell’ambiente e della cultura della comunità ospitante. Il prodotto e l’offerta turistica di una
comunità locale coinvolgono necessariamente pressoché tutti gli operatori (imprese, enti pubblici,
organizzazioni non profit, ecc.) del sistema locale. La qualità dell'offerta turistica, quindi, è legata
invariabilmente alla qualità di tutte le sue parti e dall'efficienza di tutti gli attori coinvolti, compresi tra questi
i turisti stessi.

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Non può essere ignorato il ruolo chiave del turista che, con il suo comportamento e con l’orientamento delle
sue scelte, incide profondamente sulla predisposizione dell’offerta turistica.

3 Le possibili interazioni tra residenti e turisti


Il turismo è un sistema complesso nel quale giocano un ruolo importante le relazioni. Concetto quest’ultimo
che può esprimersi in vari modi: dai rapporti di amicizia che si instaurano con gli altri visitatori, ai rapporti
sociali che si sviluppano con i residenti e persino i rapporti emotivi che si stabiliscono con il luogo visitato.
Ogni località può suscitare sensazioni di simpatia o antipatia a seconda di come è tenuta, di come viene
curata, ma anche per come viene vissuta dai residenti e per come questi ultimi si dispongono verso i turisti.
Disponibilità e cortesia sono gradite in ogni occasione, ma nel caso di clienti con bisogni speciali è richiesto
un servizio professionale e di qualità in grado di rispondere alle diverse esigenze e una predisposizione
naturale alla cura del turista/cliente.
Ma cosa accade quando si incontrano turisti e residenti di differenti culture? Diverse possono essere le
dinamiche che si manifestano nell’incontro interculturale. Molti infatti condividono l’idea che il turismo
possa facilitare l’integrazione e l’incontro tra culture diverse, concorrendo al cambiamento degli
atteggiamenti e alla riduzione dei pregiudizi che ciascun gruppo sociale nutre nei confronti di un altro; in tal
senso il turismo si configurerebbe come veicolo di diffusione culturale e mezzo per allargare la conoscenza
(Ariani Vergani, 1979). Il turista, se ha sufficientemente tempo, supera le dissonanze cognitive che la realtà
gli produce e in questo senso si arricchisce. Sono molti i contributi che dimostrano l’attenuarsi dei pregiudizi
sociali e delle tensioni interrazziali grazie a contatti interculturali (Mann, 1959). Amir e Ben-Ari (1985)
hanno trovato che degli Israeliani con atteggiamenti negativi nei confronti degli Egiziani prima di una
vacanza, li cambiavano positivamente dopo aver visitato l’Egitto. Occorre tuttavia chiarire che è sicuramente
illusorio pensare che il semplice contatto interculturale possa avere i suddetti effetti benefici. È infatti
necessario che tale contatto sia volontario e non casuale, stabile per un certo tempo, tra persone di pari
situazione sociale e non con notevole dislivello (Fisher & Price, 1991). In tal senso anche i fattori individuali
sono importanti, e con essi intendo lo stile inferenziale del turista più o meno disposto a disconfermare i
preconcetti di partenza (Nisbett & Ross, 1989).

4 Il ruolo dell’empatia: residenti e turisti


In un contesto turistico stereotipi e pregiudizi possono rappresentare veri e propri ostacoli alla
comunicazione e alla relazione residenti-turisti. Da quando si è cominciato a studiare i pregiudizi, si è anche
cercato di capire come questi possano essere ridotti e contrastati. A questo proposito, l’ipotesi del contatto
(Allport, 1954) è senza dubbio una delle teorie più note. Allport sostenne che il contatto fra gruppi sociali
differenti per etnia, nazionalità, religione o altra appartenenza categoriale produce effetti positivi perché
favorisce la conoscenza reciproca e la familiarità tra i gruppi interessati. È però importante che siano presenti
quattro fondamentali condizioni: 1) che i due gruppi abbiano uno status simile; 2) che abbiano un obiettivo
condiviso; 3) che siano tra loro interdipendenti e pertanto debbano cooperare per raggiungere l’obiettivo; 4)
che la norma sociale e le istituzioni appoggino e favoriscano il rapporto. Più recentemente diversi ricercatori
hanno affrontato questo problema individuando altre possibili strategie e strumenti ritenuti efficaci nella
riduzione degli stereotipi e pregiudizi tra persone e gruppi sociali differenti. Ad esempio, un ruolo
fondamentale in queste dinamiche può giocarlo l’empatia. Infatti, se il pregiudizio compromette le relazioni
e la comunicazione interpersonale accresce la distanza percepita con il gruppo che ne è oggetto, l’empatia
facilita l’avvicinamento con il potenziale interlocutore e può quindi aumentare le probabilità di una
soddisfacente interazione. L’empatia può ridurre il pregiudizio perché le persone vedono l’altro o il gruppo
di persone con cui si confrontano meno minaccioso e si percepiscono meno differenti da loro (e per un cero
verso più simili) di quanto avessero precedentemente pensato. Assumere il punto di vista dell’altro
diminuisce la minaccia derivante da preoccupazioni circa differenze di norme, credenze, valori e sentimenti.
L’empatia può essere efficace nel cambiare gli stereotipi, poiché induce ad approfondire le conoscenze circa
il sistema di valori, credenze dell’altro. In genere, l’empatia induce a mettere in primo piano il benessere
dell’altro, sollecita sentimenti più positivi e compassione nei confronti delle persone con cui interagiamo.
Se consideriamo nello specifico le relazioni che si possono instaurare tra residenti–turisti si riscontra molto
spesso che tra questi ci siano delle forti differenze di cultura, di credenze, di valori per cui non è improbabile
che i soggetti interessati giungano a situazioni conflittuali. Se ciascuna parte in causa ha la certezza di essere
nel giusto, è difficile arrivare alla soluzione del problema, mentre se ci si sforza, empaticamente, di

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conoscere e comprendere il punto di vista altrui, si possono ottenere situazioni meno conflittuali.
L’accettazione positiva dell’altro, l’atteggiamento di apertura e di non pregiudizio, produrrà un
atteggiamento più maturo e consapevole, consentendo una comunicazione franca e aperta, migliorando così
la relazione e diminuendo e azzerando il conflitto.

5 Cos’ è l’ empatia
Ma cos’è l’empatia? Come può essere definita? C’è differenza tra i termini empatia e simpatia, talvolta usati
impropriamente come sinonimi. Il termine einfühlung (in tedesco empatia), coniato da Tichener, evidenzia
bene la differenza tra le due condizioni. L’empatia riguarda, infatti, il “sentire dentro” lo stato emotivo di un
altro, vale a dire condividere l’emozione dell’altro al punto che essa diventa, se pure in modo vicario, la
propria emozione. Nell’empatia la distanza tra le persone si riduce, a tal punto, che chi empatizza fa proprie
le emozioni altrui. Laura Boella nel suo libro “Sentire l'altro. Conoscere e praticare l'empatia” (Raffaello
Cortina Editore, 2006) la definisce con “l'atto attraverso cui ci rendiamo conto che un altro, un'altra, è
soggetto di esperienza come lo siamo noi: vive sentimenti ed emozioni, compie atti volitivi e cognitivi.
Capire quel che sente, vuole e pensa l'altro è elemento essenziale della convivenza umana nei suoi aspetti
sociali, politici e morali. È la prova che la condizione umana è una condizione di pluralità: non l'Uomo, ma
uomini e donne abitano la terra”. L'essenza dell'empatia è saper cogliere quello che gli altri provano o
cercano senza bisogno che lo esprimano con il linguaggio verbale. I “segnali” non verbali, che qualificano e
integrano il linguaggio verbale, sono il tono della voce, l'espressione del volto, la postura, la gestualità.
“L'empatia – afferma Goleman – è il nostro radar sociale” e si basa sull'abilità di captare e decodificare
queste comunicazioni spesso impercettibili e nascoste.
Osservare l’emozione di un’altra persona può, però, dare luogo a reazioni affettive che non sono soltanto di
tipo empatico. Tra queste si colloca appunto la simpatia, che può essere definita come un “sentire con” o,
meglio ancora, un “sentire per” un’altra persona. La simpatia non implica la condivisione del sentire altrui
ed il viverne la stessa emozione. La simpatia, in quanto orientamento emotivo verso un’altra persona,
comporta invece il provare interesse, sollecitudine nei confronti degli altri. Empatia significa dunque una
comprensione dell’altro nel suo interno; ciò implica il sapersi calare nella sua esperienza emozionale e
riuscire a provare ciò che l’altro prova: sentirsi con lui, dalla sua parte, non solo al suo posto, ma nella sua
pelle.
In genere, si fa riferimento a due fondamentali tipi di empatia, definiti come empatia cognitiva ed empatia
affettiva-emozionale (Stephan e Finlay, 1999). La prima consiste principalmente nell’assumere il ruolo o la
prospettiva dell’altro – vedendo il mondo dal suo punto di vista – mentre la seconda consiste essenzialmente
in risposte emozionali che possono essere simili a quelle dell’altra persona (empatia parallela) o in reazione
alle esperienze emozionali dell’altro (empatia reattiva). In letteratura l’empatia viene vista anche come
capacità di condivisione affettiva e come capacità cognitiva di immedesimarsi negli altri, di mettersi dal loro
punto di vista e di comprendere il loro modo di valutare una situazione. Essa è una risposta emozionale che
deriva dallo “stato emozionale” o condizione di un altro.
Arriva all’agenzia una donna particolarmente stressata e confusa rispetto al viaggio da fare, ci riferisce di
essersi separata da poco dal suo compagno:
Cliente: ” Non so bene ancora dove andare…Voglio stare da sola…però conoscere gente…mi serve
rilassarmi….ma non pensare troppo….”
Empatia cognitiva: mettersi nei panni dell’altro.
Operatore: “Mi rendo che se fossi in lei sceglierei una meta mi desse l’opportunità di rilassarsi e allo stesso
tempo di divertirsi e conoscere gente”
Empatia affettiva-relazionale
Operatore:” La capisco perfettamente a tal punto da poterle consigliare una vacanza che mi ha tanto aiutato
in un periodo in cui ho vissuto una situazione analoga”
Esiste un sostanziale accordo fra tutti i ricercatori sul fatto che sono essenzialmente due i processi cognitivi il
cui sviluppo è indispensabile perché si possa parlare propriamente di esperienza empatica: l’abilità di
discriminare e di riconoscere correttamente gli stati affettivi altrui e l’abilità di assumere il ruolo (role-
taking) e la prospettiva dell’altro (perspective-taking).
Con role taking in letteratura si definisce la capacità di mettersi nei panni degli altri, assumendone la
prospettiva e il ruolo, anche quando questo è diverso dal proprio, senza per questo perdere la consapevolezza
del proprio punto di vista, che si conserva attivo e saliente.

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Es. Operatore: ”Posso solo immaginare come si sente anche se non l’ho mai vissuto personalmente, ma
probabilmente se fossi in lei sceglierei questa meta…”

Con il termine perspective taking si designa, invece, la capacità di assumere il punto di vista degli altri in
modo da poter inferire la visione che gli altri hanno della realtà. Con perspective taking o assunzione di
prospettiva si intende, dunque, la capacità di vedere il mondo attraverso gli occhi della persona con cui
empatizziamo.
Es. Operatore: ”Capisco cosa cerca, di sicuro non gradirebbe una città romantica dove si troverebbe spesso a
contatto con coppie felici e innamorati!”
In definitiva, l’adozione del punto di vista di un’altra persona e l’identificazione con il suo ruolo sono i
presupposti della comprensione delle emozioni, dei sentimenti e delle azioni di un’altra persona.
Il fenomeno dell’empatia può essere affrontato da diversi punti di vista e analizzato nei suoi diversi aspetti.
Più in generale l’empatia entra in gioco quando si stabilisce una relazione, quindi in moltissime situazioni
della vita, da quelle tipiche della vita professionale a quelle della vita privata, ed è una delle condizioni che
facilita la comunicazione fra due parlanti.

6 Si può imparare ad essere empatici?


Empatia non significa giudicare, classificare o manipolare gli altri e/o i clienti; significa cercare di
comprenderne le necessità e le aspettative utilizzando tutti gli indicatori: oggettivi e soggettivi, verbali e non
verbali, impliciti ed espliciti. L'empatia è quindi un plus, un valore aggiunto di chi accoglie.
Una domanda sorge spontanea: si può imparare l'empatia? La risposta è sì. Si tratta di una competenza che si
può imparare, che si può sviluppare e affinare nel tempo e nel contatto con le persone, partendo da
un'intelligenza emotiva e sociale “di base”.
Daniel Goleman nel suo libro: “Lavorare con intelligenza emotiva” (Rizzoli, 1998), individua le cinque
dimensioni dell'intelligenza emotiva.
La consapevolezza di sé, la padronanza di sé e la motivazione, afferiscono alla “competenza personale” che
determina il modo in cui controlliamo noi stessi.
L'empatia e le abilità sociali afferiscono invece alle “competenze sociali” delle persone e ne condizionano il
modo nel quale gestiscono le relazioni con gli altri.
Le competenze personali sono fondamentali per l'autostima, la fiducia in se stessi, l'autocontrollo e
l'approccio alla vita (motivazione, impegno, spirito d'iniziativa, ottimismo) che guidano o facilitano il
raggiungimento di obiettivi.
Tutte queste caratteristiche sono fondamentali anche per la buona riuscita del proprio lavoro.
Ad esempio nel vendere una vacanza bisogna:
F 0essere
B7 sicuri delle proprie capacità di vendita,
F 0creare
B7 un immaginario positivo della vacanza che il cliente andrà a fare
F 0aiutarlo
B7 ad essere propositivo e predisposto verso nuove esperienze e nuove culture sperimentando nuovi
orizzonti

Le competenze sociali ci aiutano, da una parte, nel comprendere i sentimenti, le esigenze, gli interessi, le
aspettative degli altri (comprensione e assistenza in particolare); dall'altra ci aiutano nel gestire con efficacia
le relazioni con gli altri (influenza, comunicazione, gestione del conflitto, collaborazione, ecc.).
Es. : le competenze personali dell’operatore turistico, sopra menzionate, devono essere espresse non
perdendo di vista le aspettative, i desideri e le possibilità che evincono dalle richieste del cliente. Pur
possedendo buone capacità di vendita, buone doti persuasive e ottimi pacchetti promozionali per mete
sciistiche, ovviamente, non sarebbe opportuno proporre, ad esempio, tale pacchetti se si evince che il cliente
non abbia nessuna competenza nell’utilizzo degli sci e alcun interesse a sperimentarsi in una simile
avventura.
Potenziare il livello di competenza emotiva è quindi possibile.
Con una precisazione: le persone cambiano e imparano nella misura in cui sono motivate perché la
motivazione influenza l'intero processo di apprendimento e di crescita personale.

7 Empatia e tecniche di ascolto negli operatori

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Se consideriamo l’importanza che l’empatia può ricoprire nella relazione tra operatore turistico e utente/
turista sicuramente si è concordi nel ritenere che essa è una competenza interpersonale che qualsiasi
operatore deve possedere per poter gestire efficacemente la relazione con l’utente/turista.
L’empatia rappresenta un presupposto fondamentale per l’efficacia del rapporto interpersonale, soprattutto
nel caso in cui un turista espone un bisogno o un problema.
Nell’ambito della relazione tra operatore e singola persona l’abilità dell’ascolto rappresenta la risorsa
principale, la condizione necessaria per poter iniziare ad interagire, per dimostrare attenzione e interesse per
“l’altro”e per porre le basi di un rapporto di fiducia, senza il quale sarà poi difficile essere ascoltati ed essere
credibili. Ascoltare attivamente significa, essere empatici, mettersi "nei panni dell'altro", riconoscere e
accettare il suo punto di vista, accogliendo e comprendendo le emozioni, i dubbi, le preoccupazioni che
manifesta. Ma ciò non basta. Per ascoltare attivamente è necessario restituire tale comprensione e dimostrare
in tal modo la presenza nella relazione, il rispetto e il riconoscimento dell’altro:“ci sono, ascolto, colgo e
capisco il contenuto e le emozioni che lo accompagnano”. È importante perciò riuscire a vedere il mondo
dell’altra persona dal suo punto di vista e non filtrarlo attraverso il nostro.
7.1. L’accettazione positiva incondizionata
Strettamente connessa e correlata a questo aspetto è la capacità di accettazione positiva incondizionata.
(Rogers, “La terapia centrata sul cliente, 1951.) Con ciò si intende un atteggiamento non valutativo e non
giudicante. L’utente viene apprezzato senza cadere nel giudizio selettivo o nel pregiudizio. Si tratta di un
sentimento spontaneo e senza riserve, che trasmette all’altro sincero interesse senza pretendere nulla in
cambio e presuppone il rispetto profondo per l’altra persona. Solo se esistono tutte queste condizioni la
relazione potrà esplicare la propria efficacia.
L’ascolto attivo implica non soltanto attenzione a quello che una persona dice, condizione questa peraltro
necessaria, ma una precisa capacità di comprensione e decodifica sulla base della quale si parla di “ascolto
attivo”. È questa una delle funzioni più delicate e difficili che un operatore debba effettuare: si tratta di
assumere il punto di vista dell’utente fino a farlo proprio (senza mai dimenticarsi in realtà del principio del
“come se”), fino ad avvertire profondamente i suoi pensieri e le sue emozioni. La capacità di ascolto attivo
per realizzarsi pienamente non può essere disgiunta dalla capacità di osservazione, perché l’ascolto attivo
presuppone un’osservazione attenta e competente. Il rischio maggiore che si corre nell’operazione di ascolto
è quello di scambiare per comprensione quella che è in realtà è una vera e propria interpretazione, cioè una
proiezione di nostri significati e valori sulle parole e sulle emozioni di un’altra persona. L’ascolto va
effettuato non solo con l’udito, non solo con la vista, ma con tutto il corpo, in modo da cogliere tutte le
possibili implicazioni della comunicazione non verbale. Per questa ragione risulta importante non solo quello
che il cliente dice, ma in particolar modo come lo dice. È opportuno evidenziare che l’ascolto è un’abilità
molto complessa che richiede formazione, impegno nell’applicazione, intenzionalità. Inoltre l’ascolto attivo
presuppone un approccio alla comunicazione di tipo partecipativo, orientato alla valorizzazione dello
scambio interattivo tra i soggetti coinvolti, attento alla componente emotiva e finalizzato all’attivazione delle
risorse dei singoli per affrontare
situazioni problematiche. Ma cosa si ascolta? L’ascolto attivo si basa su:
- ascolto dei contenuti, attraverso:
F 0ciò
B 7 che racconta con le parole (verbale)

F 0ciò
B 7 che non dice con il silenzio,

F 0ascolto/osservazione
B7 delle tonalità e del modo in cui esprime i contenuti (paraverbale)
F 0ascolto/osservazione
B7 degli sguardi, della gestualità, di come l’altro si presenta e si muove (linguaggio non
verbale)

Esempio:
cliente:” Vorrei fare un viaggio con il mio fidanzato, ma escluderei come mete Parigi, Venezia e Verona…
Vogliamo divertirci! Giusto?-rivolgendosi al partner-” (linguaggio verbale)
La cliente usa un’espressione rassegnata,(paraverbale) distogliendo lo sguardo dall’operatore e inizia a
giocherellare con le dita cambiando la postura in modo continuo e guardando il partner con aria
speranzosa- (linguaggio non verbale)
Da ciò potremmo intuire che la cliente non desidera una meta totalmente ludica ma un qualcosa che le offra
la possibilità di sperimentare anche intimità e romanticismo, e che stia accontentando, suo malgrado, le

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richieste del proprio partner. Un buon operatore, intuendo ciò, proporrà una meta che soddisferà le esigenze
di entrambi.
- ascolto del contesto in cui la persona vive, familiare, sociale, lavorativo, scolastico, dei vissuti, degli
schemi di riferimento culturali, dei valori, “della sua narrazione”.
Ad es.: se arriva in agenzia una coppia con figli piccoli che esprime la voglia di potersi rilassare,
ritagliandosi degli spazi per loro e, al tempo stesso, che i figli abbiano l’opportunità di divertirsi e partecipare
alle attività ludiche senza che necessiti la loro presenza in tali attività, sarebbe opportuno consigliare un
villaggio turistico attrezzato con mini club, attività ludiche per adulti e centro benessere in modo da
soddisfare le esigenze di tutti i membri della famiglia.
- ascolto da parte dell’operatore di se stesso, ascolto delle sue emozioni, ascolto del proprio contesto di
riferimento, ascolto di quanto si attribuisce all’altro di ciò che appartiene a se stessi (processo di
consapevolezza)
Ad. Es. è importante che l’operatore nel proporre una tipologia di vacanza ai suoi clienti sia consapevole di
quelli che suoi desideri, esigenze e aspettative e che non le confonda con le richieste del cliente e che quindi
proponga una tipologia di viaggio consona alle esigenze di quest’ultimo e non alle proprie.

8 La riformulazione e la chiarificazione
È importante sottolineare due principali tecniche di base dell’ascolto attivo: la riformulazione e la
chiarificazione. La riformulazione consiste nel ridire ciò che l’altro ha appena detto utilizzando le stesse
parole o in maniera più concisa, non aggiungendo nulla di proprio al contenuto, evitando in tal modo
l’interpretazione. Attraverso la riformulazione l’operatore può ottenere l’accordo da parte della persona e la
persona ha la conferma di essere stata ascoltata. La riformulazione svolge quindi una duplice funzione:
garantisce la corretta ricezione di un messaggio ricevuto dall’utente e, contemporaneamente, comunica
all’utente stesso il rispetto e l’attenzione di cui è fatto oggetto. È come se l’operatore inviasse questo
messaggio: “Sono qui per ascoltarti, sono interessato a capirti con certezza, ti confermo che ti sto seguendo,
continua pure”. La persona se si riconosce nella riformulazione è sicura di essere stata ascoltata e compresa
e così è portata a esprimersi ulteriormente e a collaborare. E’ anche facilitata a rimanere concentrata sul
problema e su come lo vive. La chiarificazione, invece, agevola la comprensione sottolineando anche le
emozioni che accompagnano il contenuto (ad esempio “Mi sembra di cogliere dal suo sguardo uno stato di
preoccupazione”, “Dalle sue parole ho l’impressione di cogliere delle perplessità circa……..”). Anche in
questo caso l’attenzione è posta tanto alla comunicazione verbale quanto a quella non verbale.
Gli ostacoli più frequenti all’ascolto attivo e comprensivo sono: la soggettività (interpretazione soggettiva),
la deformazione professionale (rispondere con una condotta abituale), il significato razionale (fermarsi al
significato letterale delle frasi). Per non incorrere in queste distorsioni sarebbe opportuno che l’operatore
imparasse a neutralizzare gli stereotipi sociali e i pregiudizi di cui è intriso.

9 Comunicare e comprendere
Comunicare è un bisogno psicologico dell’essere umano: infatti attraverso la comunicazione noi riceviamo
dagli altri il riconoscimento della nostra esistenza e del nostro valore personale e sociale. Non è possibile non
comunicare (anche la non comunicazione è una forma di comunicazione) e, facendolo, si interagisce con gli
altri attraverso delle relazioni. Nella comunicazione non vi è solo uno scambio di informazioni, messaggi,
ma nel comunicare ci si scambia anche sentimenti, emozioni. Saper ascoltare è un requisito fondamentale
nella comunicazione e nella relazione con gli altri. Chi non sa ascoltare dà l'impressione di essere
indifferente, di non essere interessato e, di conseguenza, riduce l'efficacia comunicativa e tradisce il principio
di reciprocità e di collaborazione, elementi fondamentali per uno scambio autentico.
Ascoltare con efficacia significa andare oltre quello che l'altro dice (il “sentire” con l'orecchio) e cercare di
capire in profondità le esigenze e le aspettative dell'altro. L'empatia disegna lo spazio della relazione (L.
Boella).
Da questo quadro emerge che l’empatia rappresenta un presupposto del dialogo. Essere empatici non
significa necessariamente amare l’altro, o condividerne le ragioni, ma semplicemente accoglierlo così
com’è, essere in grado di ascoltarlo e di capire il suo mondo soggettivo, comprendere il suo punto di vista
mettendoci da parte, cercando cioè di non filtrarlo attraverso il nostro modo di vedere le cose.
A questo punto sembra chiaro come l’empatia possa intervenire e agire positivamente nella riduzione dei
pregiudizi (Stephan e Finlay, 1999; Batson et al., 1997) facilitando in questo modo le relazioni con gruppi o

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persone differenti da noi. . Spesso pregiudizi e stereotipi nascono dal fatto di non conoscere direttamente
l’altro e le sue reali caratteristiche. Entrare in contatto con l’altro, e quindi essere empatici, ci permette di
conoscerlo e di disconfermare gli stereotipi del gruppo che rappresenta.
Nello studio della psicologia sociale del pregiudizio, grande importanza viene data a questo grande autore:
Allport. I suoi studi sono stati caratterizzati dalla continua ricerca del modo attraverso il quale si può
abbassare il livello di pregiudizio. La sua teoria si basa sull'ipotesi del contatto.
Secondo questa ipotesi il contatto positivo tra membri di gruppi diversi riduce il pregiudizio. Tuttavia, gli
effetti del contatto dipendono da vari fattori:
F 0il
F Ccontatto deve essere intimo e prolungato;

F 0igruppi
FC devono godere di uguale status nella situazione di contatto;
F 0iFgruppi
C devono cooperare nel raggiungimento di obiettivi comuni;
F 0l’integrazione
FC dei gruppi deve essere favorita dalle istituzioni.

Così quando si parla di empatia, allora forse è bene riflettere e parlarne come preziosa abilità sociale, come
competenza distintiva di livello superiore, come strumento sofisticato e potente per un’efficace e positiva
gestione dei rapporti interpersonali e della comunicazione organizzativa. Qualcosa di utile a tutti
indistintamente, da portare sempre con sé nella propria valigetta degli attrezzi per comunicare e vivere
meglio!

10 L’accoglienza: l’importanza nell’incontro tra residenti e turisti


L’accoglienza da parte dei residenti e degli operatori assume un’importanza strategica sia come principale
strumento di promozione di un’area turistica sia come elemento determinante per il ritorno del turista in una
determinata località. Se riflettiamo su quello che è il panorama attuale estremamente affollato di offerte,
molte delle quali assai avvincenti e vantaggiose sia in termini di qualità che economici, ci rendiamo conto
che il fattore “accoglienza” viene realmente a rappresentare il principale punto di forza di una proposta
turistica di qualità. In linea generale il “quadro di accoglienza” comprende tutto quanto concorre a mettere a
proprio agio il turista, a fargli vivere più compiutamente l’esperienza di soggiorno, a “fargli venire voglia di
tornare”, a renderlo “ambasciatore” presso gli amici e conoscenti dei valori e dei pregi della destinazione. E’
importante sottolineare che la sensibilizzazione a questo tema riveste un’importanza fondamentale nella
valorizzazione delle risorse di una località e deve coinvolgere non solo gli operatori o gli amministratori ma
tutta la popolazione. Far crescere la coscienza turistica e la cultura dell’accoglienza nella collettività
rappresenta il primo obiettivo di marketing perché agisce sia direttamente sul turista, aggiungendosi ai fattori
di attrazione che lo hanno portato a scegliere quella determinata destinazione, ma opera anche indirettamente
sull’ambiente sociale in cui il turista vive e con il quale ogni giorno si relaziona, esercitando così anche su di
esso la sua influenza.
Uno dei compiti principali dei residenti e di chi opera più specificatamente nel settore turistico è quello di
capire, o meglio di comprendere lo stato d’animo del turista, cioè i suoi desideri, quello che apprezza, quello
che detesta, le sue esigenze, motivazioni, ecc., fungendo anche da mediatore delle interazioni tra uomo e
ambiente e fra uomo e gruppo. Ciò comporta in primo luogo la necessità di sviluppare una competenza
interpersonale, che significa gestione delle dinamiche di gruppo, efficienza ed efficacia delle comunicazioni,
conoscenza delle modalità di trasmissione ed elaborazione delle informazioni, ma anche attenzione alla
dinamica delle decisioni. In sostanza tutto ciò significa saper accogliere il turista, facendolo sentire ospite e
non oggetto di sfruttamento economico (Contessa, 1995; Fragola, 1972; Traini, 1991). Per riuscire a
realizzare un obiettivo così arduo occorre attuare comportamenti che si basano sull’interesse, la capacità di
empatia, l’attenzione verso gli altri, la gentilezza e l’accoglienza (Gattuso & Gattuso, 1990). Saper
accogliere il turista significa, in ultima analisi, essere competente nell’individuare i suoi bisogni e nel
considerarlo nella sua unicità di persona piuttosto che un numero. Sono molte le persone che raggiungono il
grado più alto di soddisfazione solo quando ritengono di aver vissuto un’esperienza autentica e unica
partecipando in maniera piena e spontanea alla vita del luogo (Ryan, 1991).

11 L’operatore deve saper “accogliere”


Negli ultimi anni all’operatore, oltre a dare semplicemente delle informazioni sui luoghi da visitare, sulle
bellezze naturali o sui monumenti di interesse storico-artistico, gli viene spesso chiesto di progettare degli
itinerari turistico- culturali, adeguandoli alla competenza del turista, ovvero al livello di conoscenza pre-

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esistente e al desiderio di crescita e di sviluppo personale e culturale. Da quanto detto si evince che per
soddisfare il turista alla continua ricerca di esperienze autentiche, non basta essere preparati sulla storia o la
geografia di una determinata società, ma è necessario saperlo accogliere, ovvero saper individuare i suoi
desideri, i suoi bisogni, le sue competenze considerandolo nella sua unicità di persona, portandolo a scoprire
nuove opportunità, nuovi traguardi, nuovi itinerari attraverso i quali migliorarsi e ampliare i propri orizzonti.
È importante ricordare, che prima di riuscire a progettare un viaggio, ad esempio, per il cliente, bisogna
prima di tutto “accoglierlo bene sin dal primo istante”, ad esempio, attraverso i tempi di attesa al telefono,
l'accuratezza e la completezza delle informazioni, il farsi carico del problema del cliente, la cortesia del
personale di contatto che per la prima volta entra in relazione con il cliente. Dobbiamo essere empatici, come
scritto nei paragrafi precedenti: Essere empatici non significa necessariamente amare l’altro, o condividerne
le ragioni, ma semplicemente accoglierlo così com’è…
“La prima volta”, tra il cliente e l'organizzazione è cruciale, è importante la gestione dell'incontro. Non
esiste, “una seconda occasione per fare una prima buona impressione”. Affinché le relazioni siano efficaci è
necessario che le relazioni stesse si basino sulla reciprocità (“Non c’è crescita personale senza responsabilità
– afferma Martin Buber – senza che l’IO riconosca il TU in vista del NOI”), sul reciproco rispetto e
riconoscimento. Che le relazioni siano simmetriche, bi-direzionali e basate sull’ascolto e non sulla
trasmissione di messaggi. In fine, bisogna sottolineare che per gestire il confronto, ed eventualmente il
conflitto, sia utilizzata un'adeguata capacità relazionale (empatia) e, soprattutto, sia sempre mantenuto aperto
il dialogo, anche quando ogni speranza di negoziazione sembra vana.
Questi elementi danno una grande responsabilità etica a tutte le persone che si occupano di accoglienza. Una
comunicazione chiara e trasparente, senza ambiguità o aspetti manipolatori, è una comunicazione
responsabile perché è l'unica che può trasformare il monologo in dialogo e favorire la comprensione tra le
persone.
Entrare in comunicazione ed in relazione con il nostro interlocutore vuol dire cercare di far combaciare la
mappa del nostro mondo con quella di chi ci sta di fronte, significa andare al passo con i suoi ragionamenti.
Applicare un rapporto di ascolto attivo non vuol dire altro che questo. Dobbiamo giungere alla conoscenza
del nostro interlocutore, calibrarci su di lui. E’ chiaro che una qualsiasi conoscenza dell’altro presuppone una
preventiva conoscenza di noi stessi. Ma la conoscenza dell’altro non avviene soltanto tramite l’osservazione
o l’ascolto passivo che possiamo attuare. Perché, affinché la comunicazione produca una reale e profonda
conoscenza del nostro interlocutore, è essenziale entrare in un rapporto di empatia con lui.

12 L’ascolto empatico
L’ascolto empatico è il fattore cruciale di una comunicazione efficace. La comunicazione efficace si basa di
fatto sull’accoglienza, sul coinvolgimento personale, sulla responsabilità, sull’empatia, sulla fiducia.
L’ascolto ha un importanza fondamentale nella comunicazione.
E’ importante praticare un ASCOLTO ATTIVO che, al contrario di un semplice
ascolto passivo, promuove una costruzione della realtà, la dinamicità e la
possibilità di una pluralità di nuove prospettive, promuove l’esplorazione di
nuovi mondi possibili, mette al centro le emozioni.
Attuare un ASCOLTO EMPATICO vuol dire :
- “Mettersi nei panni dell’altro”,
- “Camminare nelle sue scarpe”,
- “Vedere il mondo con i suoi occhi”,
- “Entrare in sintonia con l’altro”,
- “Sentire dentro di sé come sente l’altro”.
La conversazione è tanto più produttiva quanto più è fluida e
bidirezionale. È tanto più costruttiva quanto più le persone si aprono tra loro e
sono pronte ad assumere temporaneamente il punto di vista e l’emozione
dell’altro.
Per ottenere questo risultato è necessario L’ASCOLTO EMPATICO, l’ascolto
totale di cui abbiamo parlato.

13 Posso essere d’aiuto?

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Se l’empatia è fondamentale per offrire prestazioni superiori quando il lavoro riguarda e coinvolge le
persone, le competenze richieste per “essere empatici” sono soprattutto due: la capacità di comprendere gli
altri e l’assistenza (in che modo posso essere di aiuto all’altro?).
“POSSO ESSERLE DI AIUTO?” Questa frase racchiude il senso di tutte le attività che vanno sotto il nome
di “assistenza al cliente” e comprendono la capacità di anticipare, riconoscere e soddisfare le richieste del
cliente. Secondo D. Goleman, le persone con questa competenza:
a) comprendono le esigenze del cliente, trovando servizi e prodotti idonei a soddisfarle;
b) cercano il modo di aumentare la soddisfazione e la fedeltà del cliente;
c) offrono volentieri la propria assistenza;
d) capiscono la prospettiva del cliente e cercano di conquistare la sua fiducia.

“L’ATTRAZIONE INTERPERSONALE E IL COMPORTAMENTO PROSOCIALE” ’

1 L’attrazione interpersonale
1.1. L’origine dell’attrazione
L’uomo in genere è portato ad accoppiarsi per procreare Ma perché tizio e non caio? E cosa colpisce in
“quella” determinata persona? Per dare una risposta cerchiamo di vedere cosa dà origine all’attrazione.
Gli aspetti che precedono l'attrazione sono cinque:
1. prossimità;
2. somiglianza;
3. complementarietà;
4. caratteristiche fisiche;
5. reciprocità dell’attrazione.
1. Prossimità. Uno degli aspetti più semplici che determina l'attrazione è la vicinanza, o prossimità. Le
persone che con l’individuo interagiscono più spesso, nelle varie sfere della vita -amicizia, studi, professione,
vita sociale, convivenza-, hanno maggiori possibilità di diventarne compagno di vita (è la cosiddetta
vicinanza fisica). Le persone più prossime sono anche quelle che ci sono più vicine quando ne abbiamo
bisogno, per fornirci appoggio o anche solo per una chiacchierata amichevole (vicinanza funzionale e
psicologica). La vicinanza, oltre ad essere una buona base per la nascita dell’attrazione, fornisce anche
maggiori occasioni per verificare i presupposti per l'instaurarsi di rapporti affettivi. Schachter e Back (1950)
dimostrano che l’attrazione e la prossimità sono collegate alla distanza psicologica e funzionale, oltre che
fisica, degli individui.
2. Somiglianza (indicata da Byrne come legge dell’attrazione). E’ stato dimostrato che le persone
preferiscono chi si trova nella loro stessa posizione sociale e culturale – religione, valori, status economico,
interessi, atteggiamenti-. Questo vale sia per le relazioni di coppia sia per quelle amicali.
I ricercatori descrivono due situazioni di somiglianza in cui si creano relazioni:
• a campi chiusi, in cui le persone sono costrette ad interagire tra di loro perché vivono in contesti
fisicamente vicini;
• a campi aperti, in cui le persone sono libere di interagire a seconda delle loro scelte. In questo caso le
persone tendono a scegliere gli ambienti da frequentare, dove incontrano persone potenzialmente simili.
Perché la somiglianza è così importante per l'attrazione?
• il gradimento porta a pensare che ci saranno maggiori probabilità di iniziare una relazione;
• l’approvazione per le nostre credenze e caratteristiche culturali, sociali, economiche e di valori, fa sentire
più vicini;
• il disaccordo su questioni importanti crea inferenze negative tra gli individui, portando alla repulsione tra
dissimili.
3. Complementarietà. Il fatto che le persone scelgono quelle maggiormente somiglianti da un punto di vista
sociale e culturale, non vuol dire che anche da un punto di vista psicologico l’attrazione si determini tra
simili.

Persone ad esempio molto rabbiose hanno bisogno di essere contenute da persone più tranquille e tolleranti.
Allo stesso modo persone più egocentriche stanno meglio con quelle più riservate che lascino loro spazio.
Persone timide hanno bisogno di compagni estroversi che aprono loro la strada al mondo. Persone troppo

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sicure per non cadere in atteggiamenti onnipotenti hanno bisogno di che li metta a contatto con il dubbio,
così come al contrario persone troppo insicure necessitano di che decida al loro posto, o le spinga per non
rimanere immobilizzate nella paura di prendere una posizione.
Quando invece c’è troppa simmetria si corre il rischio di prevaricarsi, di non rispettarsi. I rapporti diventano
decisamente più difficili.
4. Caratteristiche fisiche. La gradevolezza fisica risulta predittiva dell’attrazione, soprattutto perché tanto
peso è dato all'aspetto fisico nella nostra società.

Il fatto che gli individui reagiscano prevalentemente in maniera positiva davanti alle persone dotate di un
aspetto gradevole, porterà inoltre queste ultime a sviluppare un carattere più socievole e una maggiore
sicurezza, caratteristiche che a loro volta facilitano la nascita di rapporti interpersonali.
Numerose ricerche evidenziano come la bellezza sia un potente stereotipo: ipotizziamo che la bellezza sia
collegata a tutta una serie di altri elementi desiderabili. Le persone belle hanno successo, sono intelligenti,
socialmente competenti, interessanti, brillanti, indipendenti e sexy. Tutte caratteristiche che l’essere umano
cerca nell’altro/a.
L'aspetto più attraente, soprattutto per le donne, è legato a caratteristiche di tipo infantile, che evocano
dolcezza e tenerezza.
Gli uomini, invece, guardano più gli atteggiamenti che i comportamenti reali.
Recenti ricerche mostrano un effetto sorprendente della familiarità: le persone tendono a preferire i volti che
somigliano al loro. Ovviamente tutte queste variabili possono essere espressione della preferenza per ciò che
è familiare e sicuro, rispetto a ciò che non è familiare e potenzialmente pericoloso.
Nella valutazione delle caratteristiche fisiche utilizziamo i cinque sensi: per alcune persone è importante il
profumo della pelle, per altri il suono della voce, per altri, ancora, il contatto fisico, anche un semplice
sfioramento, oppure, semplicemente l’aspetto fisico superficiale. In ogni caso i modelli su cui si valuta la
bellezza fisica sono largamente influenzati dai media e quindi hanno caratteristiche comuni ben definite
culturalmente.
5. Reciprocità dell’attrazione. L'aspetto più importante che determina l'attrazione è la sua reciprocità, cioè il
fatto di ritenere di essere graditi all'altro. L'approvazione da parte degli altri è una delle maggiori
gratificazioni che possiamo ricevere: tenderemo, quindi, a contraccambiare l'interesse che gli altri provano
per noi, a meno che questo non sia percepito come falso, o proveniente da persone della cui capacità
discriminativa non abbiamo particolare stima.

Ciò che pensiamo influenza le nostre azioni, ed esse influenzano le risposte degli altri. Quando crediamo di
piacere a qualcuno, modifichiamo il nostro comportamento entrando in sintonia e, quindi, cominciamo ad
attrarre oltre che ad essere attratti. Le persone con stima di sé moderata o positiva rispondono positivamente
all'attrazione reciproca; al contrario, quelle che hanno un'autostima negativa rispondono in maniera diversa,
con poca fiducia, non considerando il comportamento amichevole degli altri. Questo perché la bassa
autostima porta la persona a pensare di essere poco attraente e di conseguenza qualunque apprezzamento è
visto come ingiustificato.
Alcuni esperimenti hanno cercato di evidenziare cosa le persone ricordano maggiormente relativamente alle
proprie relazioni amorose o di amicizia. I risultati hanno mostrato che l'attrazione reciproca e la bellezza (sia
fisica, sia legata alla personalità) vengono ricordate con maggior frequenza. Università Telematica Pegaso
L’attrazione interpersonale e il comportamento prosociale
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è
severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul
diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 7 di 23

1.2. Due teorie sociali sull’attrazione interpersonale: scambio sociale ed equità


Passiamo ora ad analizzare due teorie sociali sull'attrazione interpersonale:
1. lo scambio sociale;
2. l'equità.
· La teoria dello scambio sociale è il modello del mercato applicato alle relazioni interpersonali. George
Homans, sociologo statunitense, effettuò lo studio dei fattori che rendono una relazione soddisfacente e
stabile. Homans sostiene, nella teoria dello scambio, che il modo in cui le persone percepiscono la loro

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relazione dipende dalla valutazione dei profitti e dei costi, dalla percezione del tipo di relazione che meritano
e dalla probabilità di riuscire ad avere una relazione migliore con qualcun altro, ovvero un individuo
permane in una relazione finché ne è soddisfatto: ossia finché ne trae i massimi benefici al minimo costo.
I benefici di una relazione affettiva si traducono nell’interesse e nella partecipazione che i partner mostrano
nella relazione; i costi, invece, possono essere rappresentati dai tradimenti, dalle cattive abitudini, dagli
obblighi.
. La teoria dell’equità Una critica mossa da alcuni studiosi alla teoria dello scambio sociale è che essa ignora
una variabile essenziale: l'equità. Secondo la teoria dell'equità (elaborata da Elaine Hatfield Walster e Elen
Berscheid), in una relazione profitti e i costi personali devono essere equivalenti ai profitti e ai costi
dell’altro. Le relazioni eque sarebbero le più felici e stabili, mentre, in quelle non eque le persone si
sentirebbero in una situazione di disagio che le spingerebbe a ristabilire l'equità. La teoria dell’equità
introduce una variabile etica che sembra mancare nella precedente.
L’equità salva il concetto di “giusto” e “di prendersi cura”

1.2. L’amore
Uno dei legami più forti che ci unisce agli altri è l’amore.
L'amore può avere diversi oggetti: la patria, i genitori, il compagno.
Ma è l'amore romantico quello a cui più spesso si fa riferimento quando si parla di amore. Gli psicologi
sociali che si sono occupati di questo argomento definiscono l'amore come un sentimento più profondo e
specifico rispetto al “piacersi”, che implica la tendenza a prendersi cura dell'altro, ed è nella
maggioranza dei casi accompagnato da una componente di eccitazione sessuale.
Le relazioni d'amore sono mediamente più intense e gratificanti dei rapporti amicali, ma anche la loro fine è
sentita e vissuta come molto più stressante; inoltre tali relazioni mediamente non procedono lungo una linea
retta che porta dalla conoscenza all'innamoramento, all'amore, al matrimonio. Mediamente le relazioni
romantiche sono caratterizzate da periodi conflittuali, allontanamenti, riconciliazioni, mediazioni, confronti.
È interessante notare come non solo le persone tendono ad avere più relazioni romantiche nel corso della
loro vita, ma che molti dei divorziati si risposino o trovino nuovi compagni dopo pochi anni: il che vuol dire
che le persone continuano a credere nell'amore, anche quando ne hanno sperimentato personalmente il
fallimento. I rapporti d’amore o amicizia risentono della nostra personalità di base e di come vengono intesi
dalla cultura sociale di appartenenza.
Ricordo di mia nonna che non riusciva a capire perchè avessi lasciato un ragazzo a suo parere bello, di buona
posizione sociale, in salute, appartenente a famiglia onesta. Quando le dissi che non riuscivamo a
comunicare e che il senso che davamo alla nostra vita era diverso mi rispose: “Proprio non riesco a capire
voi giovani! Non dico che sbagliate, anzi i vostri tempi mi piacciono più dei miei, ma quando io ero ragazza,
in un marito si ricercavano altre cose, quindi io faccio molta fatica a capire il vostro punto di vista, ma mi
fido di te quindi penso che fai bene!”
Una distinzione classica che si introduce è quella tra:
compassione e passione
La compassione è un sentimento di intimità e di affetto che privo però di passione o eccitazione psicologica;
può essere presente nelle relazioni di amicizia, o sessuali di lungo periodo insomma dove c’è una forte
intimità e un profondo affetto.
La passione invece presuppone un intenso desiderio nei confronti dell'altra persona, eccitazione psicologica,
sentimenti intensi e forte passionalità.
1.3. Due teorie sull’amore: la teoria triangolare, l’approccio sociobiologico
La teoria triangolare dell'amore di Sternberg 1986/'88
Oltre alla distinzione tra innamoramento e attrazione gli psicologi sociali hanno formulato diversi approcci
alla teoria sull’amore. Parleremo di quello più importante cioè: la teoria triangolare dell’amore di Sternberg
1986/'88
Secondo Sternberg l'amore è composto da tre elementi basilari:
l'intimità, la passione e l'impegno:
· l’intimità: i sentimenti di vicinanza e di legame con il partner
· la passione: è l’eccitazione psicologica e fisica che si prova nei confronti del partner
· l’impegno: comporta due decisioni: una a breve termine (quella di amare il partner) e una a lungo termine
(mantenere l’amore e restare con il partner).

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Sternberg elaborò un triangolo per misurare questi aspetti, i quali possono combinarsi a vari livelli per
formare 8 diversi tipi di amore:
1. ASSENZA D’AMORE Mancano le tre componenti principali.
2. SIMPATIA (solo intimità) In questo tipo di relazione vi è confidenza, calore e senso di unione fra i partner
ma senza le caratteristiche della passione e dell'impegno. Relazioni di questo genere sono paragonabili a
vere e proprie amicizie.
3. INFATUAZIONE (solo passione) Tipico dell'amore a prima vista, nasce e si sviluppa improvvisamente ma
termina subito dopo. Questo rapporto si basa sull'idealizzazione dell'altro e non sulla realtà. Esso è destinato
a concludersi subito dopo che la persona si scontra con il partner reale.
4. AMORE VUOTO (solo decisione/impegno) vi è mancanza delle componenti di intimità e passione.
Solitamente si tratta di rapporti nella loro fase finale, in cui i partner stanno insieme solo per tener fede a un
impegno preso, per decisioni coscienti legate ai figli o a considerazioni economiche.
5. AMORE ROMANTICO (intimità+passione) Si tratta della forma tipica delle grandi e intense storie
d'amore letterarie e cinematografiche. Spesso la componente impegno non è presente per via di ostacoli o
circostanze esterne che impediscono alla coppia di progettare un futuro.
6. AMORE AMICIZIA (intimità+decisione/impegno) È il caso per esempio di quei rapporti che durano da
tanto tempo, consolidati sotto il profilo dell'intimità anche se hanno visto lentamente sfumare quello della
passione.
7. AMORE FATUO (passione+decisione/impegno) In questo tipo di relazione l'impegno è conseguenza solo
della passione senza il supporto dell'intimità e della conoscenza reciproca. È il caso per esempio di
matrimoni dettati da decisioni impulsive prese sull'onda dell'infatuazione.
Queste relazioni corrono il rischio di frantumarsi quando si troveranno a fare i conti con un impegno non
sentito.
8. AMORE VISSUTO (intimità+passione+impegno/decisione) È l'amore completo che tutti sognano.
Difficile (ma non impossibile) farne esperienza reale e soprattutto mantenerne vive le caratteristiche nel
tempo.
- L'approccio sociobiologico all'amore è basato sull'idea che l'evoluzione del comportamento umano è
avvenuta perché si è massimizzato il successo riproduttivo. Esso sostiene che per i due sessi questo si
traduce in differenti pattern comportamentali: i maschi si accoppiano spesso con molte femmine, mentre le
femmine prestano maggiore attenzione alla scelta del maschio. Questo spiegherebbe le diverse strategie
messe in atto dagli uomini e dalle donne nelle relazioni amorose. Le donne quindi cercherebbero un uomo
che possa provvedere alle risorse richieste e fornire il sostegno necessario per crescere la prole (aspetto
economico-sociale). Gli uomini cercherebbero una donna che sia in grado di riprodurre la specie (aspetto
fisico-salute). Molti studi hanno confermato queste ipotesi, ma allo stesso tempo alla teoria sono state
avanzate critiche, in quanto da una parte è considerata troppo flessibile e in grado di spiegare qualsiasi cosa,
dall'altra troppo semplicistica per spiegare il comportamento umano.
La fine delle relazioni intime
La fine di una storia d’amore è una delle cose più dolorose della vita. La fine di un rapporto non è da
considerarsi un singolo evento, ma un processo con diversi passaggi. Alcuni autori hanno teorizzato quattro
stadi nella fine di una relazione, che vanno dal livello interpersonale (l’individuo ci pensa a lungo perché
insoddisfatto del rapporto), a quello diadico (l’individuo discute con il partner), poi sociale (la rottura viene
annunciata agli altri), per tornare, infine, a un livello interpersonale (il soggetto si riprende dalla rottura e
cerca di spiegarsi come e perché sia avvenuta).
Uno studio effettuato su 300 studenti, uomini e donne, ha evidenziato che il 30% delle relazioni finite erano
di tipo “attrazioni fatali”: le qualità che all’inizio avevano attratto le persone diventavano successivamente
le vere ragioni della fine del rapporto. Le tensioni ad esempio fra novità e prevedibilità ci suggeriscono che
le relazioni che iniziano con una forte dose di novità hanno bisogno di essere bilanciate da alcuni aspetti di
prevedibilità. Se il partner non riesce a farlo, la relazione è in pericolo. Questi risultati confermerebbero
anche che la complementarità è una caratteristica fondamentale perché la relazione abbia successo.
Un’altra recente ricerca, ha elaborato la teoria delle dialettiche relazionali, secondo cui le relazioni intime
sarebbero caratterizzate dalla tensione fra forze opposte, ma correlate: autonomia/legame, novità/
predittività, apertura/chiusura. Per esempio, la tensione fra autonomia e legame significa che quando
entriamo in intimità emotiva con un amico o un partner, abbiamo bisogno di allontanarci da lui per
riacquistare la nostra autonomia; se però ci distacchiamo troppo emotivamente, avvertiamo il bisogno di

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riavvicinarci. Novità e predittività descrivono il desiderio di novità ed accettazione che scaturisce dalla
relazione e che si oppone a ciò che appare noto e sicuro. Apertura e chiusura si riferiscono invece alla
tensione che i partner avvertono quando decidono di condividere alcune cose e non altre. Nello stadio
iniziale di una relazione prevarrebbe così il tema dell’apertura/chiusura. Una volta che la relazione è stabile,
i concetti di autonomia/legame e novità/predittività assumerebbero maggiore importanza. Infine, l’incapacità
di conciliare le pressioni dell’autonomia/legame, potrebbe significare la fine del rapporto. In effetti all’inizio
e della relazione la condivisone di alcune cose è molto importante, fa parte del momento conoscitivo. Con il
passare del tempo invece il bisogno di mantenere una propria autonomia, per quanto ci si possa sentire legati,
acquista un’importanza notevole. Condividere non è perdersi nell’altro, in questo senso mantenere un
proprio spazio è di fondamentale importanza. Anche il fattore novità/prevedibilità richiede, con il passare del
tempo, un equilibrio diverso. All’inizio l’elemento novità è ovviamente predominante, un po’ per volta, però,
l’altro diviene più prevedibile. Quest’ultimo fattore è indispensabile per una coppia, di qualsiasi genere essa
sia, perché economizza i nostri comportamenti. Nello stesso tempo, però, la relazione è meno eccitante, più
noiosa, quindi per mantenere un certo interesse deve avere degli elementi di prevedibilità ma anche di novità.
Come ci si sente quando finisce una relazione?
Un aspetto importante riguarda il ruolo della persona che ha preso la decisione. Le persone che vengono
lasciate generalmente sperimentano forti sentimenti di solitudine, depressione, infelicità e rabbia e anche
disturbi fisici. Questo dipende da diverse ragione tra cui il fatto che sentirsi abbandonati crea un vissuto di
colpa, inidoneità che intaccano l’autostima. Quindi accanto alla perdita, che viene sempre sperimentata come
lutto, si affianca un senso di inadeguatezza. Coloro che lasciano invece vivono la fine della relazione in
maniera meno triste e stressante. Sebbene hanno sentimenti di colpa e di tristezza, presentano in genere meno
disturbi fisici, come ad es. mal di testa e di stomaco, irregolarità nel mangiare e dormire. Invece, la decisione
presa da entrambi i partner aiuta gli individui ad evitare reazioni negative sia a livello fisico sia a livello
emotivo. Tuttavia alcuni studi hanno dimostrato che la scelta comune di interrompere una relazione è più
stressante della semplice decisione presa da solo.
Si può rimanere amici dopo la fine di un rapporto?
Dipende da chi ha concluso la relazione. Diversi studi hanno evidenziato che gli uomini lasciati o che hanno
lasciato non sono molto interessati a rimanere amici con la loro ex partner, a differenza delle donne,
soprattutto di quelle che sono state lasciate Se la decisione è stata presa insieme, vi è più interesse a
mantenere l’amicizia in futuro.

2 Il comportamento prosociale
Il comportamento prosociale è una qualsiasi azione commessa allo scopo di arrecare beneficio ad un'altra
persona. Un comportamento prosociale che non tiene conto del proprio interesse è l'altruismo.
Le domande che ci si è posti a questo riguardo sono varie. Le persone aiutano solo quando c’è qualche forma
di beneficio per se stessi o anche quando non c’è nessun vantaggio personale? Le persone aiutano sulla base
di una motivazione altruistica o anche sulla base di una motivazione egoistica? Vi è l’empatia alla base del
comportamento prosociale o vi sono anche altre motivazione?
In psicologia sociale lo studio dei fattori causali della messa in atto di comportamenti prosociali e altruistici
è recente.
Essa prende avvio dall’analisi di episodi di mancato soccorso.
1. La probabilità di attuazione di comportamenti altruistici è governata in parte da fattori relativi alla
situazione. Tra questi un ruolo importante è giocato dalla consapevolezza di essere o meno l’unica persona
presente, cioè l’unica possibilità per la vittima di ricevere aiuto. In questo caso intervengono due fenomeni:
l’ignoranza pluralistica o collettiva, e la diffusione della responsabilità, di cui parleremo diffusamente più
avanti.
2. Lo studio del comportamento prosociale si è indirizzato anche verso l’analisi dei tratti associati alla
personalità altruistica; tuttavia si constatò che la dimensione di personalità non era di per sé sufficiente per
prevedere la messa in atto di comportamenti altruistici. Si è visto come l’elemento principale che precede
l’attuazione di una risposta prosociale sia l’empatia, cioè la capacità di farsi prossimo all’altro anche
attraverso l’assunzione della prospettiva altrui e la percezione di somiglianza.
3. Alcuni autori (Cialdini) hanno messo in luce come spesso l’interesse per la sorte dell’altro non sia frutto di
una vera e propria empatia, quanto piuttosto di un proprio stato d’animo negativo che trova nel
comportamento altruistico una modalità di alleviamento: secondo l’ipotesi del sollievo dallo stato d’animo

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negativo, infatti, nelle condizioni in cui non sia possibile la fuga, si attuano comportamenti prosociali al fine
di alleviare il proprio malessere e di ridurre la propria angoscia, derivanti dalla visione dell’altrui sofferenza.

2.1. Le teorie sul comportamento prosociale: sociobiologia e psicologia sociale


La sociobiologia
I moderni sociobiologi, che si rifanno alla teoria dell'evoluzione di Darwin, hanno tentato di spiegare
l'esistenza del comportamento prosociale in tre modi:
1. Secondo la selezione parentale, la scelta che le persone fanno di aiutare qualcuno è influenzata
dall'importanza biologica del risultato: le persone aiutano coloro con cui è più stretta la parentela,
specialmente se questo aiuto aumenta la probabilità che la persona avrà in futuro una discendenza. Limite:
non spiega i casi in cui si aiutano dei non consanguinei.
2. Secondo la norma della reciprocità, le persone aiutano gli altri con l'idea implicita che il loro
comportamento verrà in futuro ricambiato;
3. Secondo l’apprendimento delle norme sociali. In base all'assunto che nei nostri geni è presente l'abilità ad
imparare e a rispettare le regole sociali, si conclude che le persone che imparano meglio le norme sociali,
hanno maggiori probabilità di sopravvivenza perché esse procurano dei benefici

La psicologia sociale
La psicologia sociale condivide l'idea che il comportamento altruistico può essere fondato sull'interesse
individuale. In particolare la teoria dello scambio sociale sostiene che gran parte delle nostre azioni sono
provocate dal desiderio di massimizzare i guadagni e minimizzare i costi. Dunque le persone aiutano quando
è nel loro interesse farlo, ma non quando i costi superano i benefici. Sembrerebbe così che l'altruismo non
esista. Batson concorda col fatto che in determinate situazioni le persone aiutano per ragioni egoistiche ma
sostiene anche che in altri casi il loro unico obiettivo è aiutare un'altra persona nonostante ciò richieda dei
costi personali. Questo avviene quando si avverte empatia per la persona bisognosa, cioè quando sentiamo il
dolore ed il bisogno che ha l'altro di essere aiutato.
Indipendentemente dalla loro natura, i motivi di base delle persone non sono le uniche determinanti che
spiegano il comportamento prosociale: ci sono fattori situazionali e personali che possono scatenare o
sopprimere tali motivi. Ma come possiamo spiegare il fatto che alcune persone aiutano più di altre? Gli
psicologi si sono interessati alle qualità che portano un individuo ad aiutare gli altri in varie situazioni: la
personalità altruistica.
In realtà, com'è noto, la personalità non è l'unica determinante del comportamento. Infatti le prove sul campo
hanno dimostrato che individui che da un punto di vista personale avrebbero dovuto aiutare di più si
comportavano in maniera completamente diversa, e meno altruisticamente di altri, a seconda delle situazioni.
Sembrerebbe che personalità, fattori situazionali e pressioni ambientali insieme giustificherebbero della
presenza o meno di comportamenti altruistici. Le persone differiscono fra loro nel modo di essere altruiste a
seconda dell’educazione, del sesso e dell’umore. Oltre a ciò, per prevedere se una persona si comporterà in
maniera generosa abbiamo bisogno di considerare la situazione sociale nella quale le persone si trovano.
La personalità dipende dal tipo di educazione ricevuta. Sono importanti i primi anni di vita, ma anche gli
altri momenti del ciclo vitale. Indubbiamente persone più sicure e serene, meno diffidenti, sono più capaci di
prendersi cura degli altri
Le pressioni ambientali agiscono diversamente sul genere. In ogni cultura esistono regole diverse. Per
esempio si assume per gli uomini e per le donne che essi imparino a valutare in maniera differente tratti e
comportamenti. Nelle culture occidentali un aspetto del ruolo sessuale maschile è quello di essere eroico e
cavalleresco, mentre quello delle donne è di essere portate ad allevare la prole, esternare affetto e prediligere
le relazioni intime e a lungo termine. Di conseguenza ci si aspetta che gli uomini prestino maggior aiuto in
situazioni che richiedono gesti eroici e cavallereschi, e che le donne lo facciano quando entrano in gioco
relazioni a lungo termine che presentano meno pericoli, ma più dedizione e coinvolgimento, come può essere
il volontariato o l’assistenza domiciliare. In una rassegna di più di 170 studi sul comportamento altruistico,
Eagly e Crowley hanno trovato che vi è realmente una maggiore probabilità che gli uomini prestino aiuto
quando devono agire in modo eroico e cavalleresco.
L’umore di una persone rappresenta una delle caratteristiche situazionali che favoriscono o meno
l’altruismo: l’atto di aiutare dipenderebbe dall’umore del soggetto. Il nostro umore può variare
repentinamente e proprio questi stati emotivi transitori sono un’altra determinante fondamentale del

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comportamento prosociale. Tre sono le ragioni per cui l’essere di buon umore può aumentare l’atteggiamento
altruistico
1. per prima cosa quando siamo di buon umore tendiamo a vedere la parte migliore degli altri e a riconoscere
loro il beneficio del dubbio (Carlson, Charlin e Miller 1988; Forgas e Bower 1987)
2. In secondo luogo il ‹‹sentirsi bene, agire bene ›› è un ottimo modo per prolungare il nostro buono umore.
Se vediamo qualcuno che ha bisogno d’aiuto, un comportamento simile a quello del buon Sammaritano
genererà altri sentimenti positivi, mentre non aiutare quando sappiamo che dovremmo farlo è un modo
infallibile di uccidere il nostro buon umore
3. Il buon umore aumenta l’attenzione che rivolgiamo a noi stessi, e questo fattore ci induce a comportarci in
accordo con i nostri valori e ideali

Siccome molti di noi valorizzano l’altruismo e il buon umore aumenta l’attenzione nei confronti di questo
valore, ecco allora che essere di buon umore aumenta il comportamento altruistico e di aiuto. Dato che il
sentimento di felicità porta ad un maggiore altruismo, sembrerebbe ragionevole pensare che un sentimento di
tristezza lo faccia diminuire. Sorprendentemente, invece la tristezza può anche portare ad un accrescimento
dell’altruismo, se non altro in determinate condizioni. Questo fenomeno chiamato da Cialdini ipotesi del
sollievo dello stato negativo. È un esempio di applicazione dello scambio sociale dell’ altruismo. Le persone
aiutano qualcun altro allo scopo di aiutare se stesse, ovvero di alleviare le propria tristezza e depressione.
2.2. Alcune determinanti situazionali del comportamento prosociale
Ambienti rurali e urbani
Alcuni studiosi hanno focalizzato i loro studi sulla probabilità di prestare aiuto nelle aree rurali in confronto
con quelle urbane e hanno trovato che le persone delle zone rurali aiutano di più.
Le persone che abitano in piccole città o ambienti rurali sono più portate ad aiutare gli altri. Questo può
dipendere dal più alto grado di socievolezza e fiducia reciproca rispetto agli ambienti urbani.
Alcuni hanno anche ipotizzato che chi abita in città sia sottoposto ad un bombardamento continuo di stimoli
che lo spinge ad un comportamento più introverso ed egoistico (ipotesi del sovraccarico urbano).
Il senso di responsabilità rispetto a una certa situazione
L’analisi della situazione che segue metterà in luce altri aspetti, come il non sentirsi responsabili di una certa
situazione, possano diminuire la possibilità che le persone assumano comportamenti altruistici. Sembrerebbe,
inoltre, che il sentirsi poco responsabili favorirebbe il fatto di non approfondire, per chiarire meglio, cosa sta
succedendo. È come se le persone decidessero di perseverare nell’ignoranza, non assumendosi al
responsabilità di intervenire.
Il caso di Kitty
L'effetto spettatore è un fenomeno ben noto in psicologia sociale che fa riferimento ad comportamento sano
e non patologico, sebbene non sia sempre molto ammirevole. Fu studiato e descritto per la prima volta dagli
psicologi Bibb Latanè e John Darley che presero spunto dalla tragica vicenda di una ragazza di New York:
Kitty Genovese.
New York, 1964. Kitty Genovese era una ragazza che un giorno normale stava tornando a casa quando venne
aggredita e pugnalata. La donna cominciò a chiedere aiuto e qualcuno intimò al malfattore di fermarsi e
questi corse via. Solo un paio di circa una dozzina di spettatori chiamò la polizia fornendo però un resoconto
poco chiaro (un litigio, un furto, ecc.), tanto che la polizia non intervenne immediatamente e nessuno chiamò
l'ambulanza. L'aggressore tornò indietro, trovò la ragazza accasciata davanti al portone di casa, la uccise, la
violentò e la derubò prima di andarsene.
Una volta finita l'aggressione la polizia ricostruì la vicenda e scoprì che almeno 38 persone si erano rese
conto che qualcosa stava accadendo in quei 30 minuti, senza però fermarsi a comprendere la gravità
dell'accaduto e nessuno fu testimone dell'intera aggressione. La vicenda divenne nota perché l'omicidio della
giovane donna fu descritto dalla stampa come esempio di insensibilità e noncuranza verso il prossimo.
Perchè nessuno intervenne? L'effetto spettatore secondo Latanè e Darley può essere spiegato attraverso due
fenomeni: ignoranza pluralistica e diffusione di responsabilità.
L'ignoranza pluralistica o collettiva non è nient'altro che l'estremizzazione del normale processo attraverso
cui impariamo a comportarci in un contesto osservando ciò che fanno i consimili. Nel momento in cui
accediamo in un nuovo ambiente prendiamo spunto dagli altri per capire come agire e ci lasciamo guidare da
chi sembra saperne più di noi. Ciò accade anche nelle situazioni ambigue, dove non sappiamo dare

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un'interpretazione corretta di ciò che accade: se gli altri non fanno nulla allora con maggiore probabilità il
singolo individuo diventa spettatore di quanto accade.
All'ignoranza collettiva segue un altro fenomeno per completare la spiegazione dell'effetto spettatore: la
diffusione della responsabilità. Se assistiamo ad una richiesta di aiuto insieme ad altre persone ci sentiamo
meno responsabili nei confronti di chi è in difficoltà perché altre persone stanno ricevendo la stessa richiesta.
L'effetto del fenomeno descritto in precedenza è questo: se gli altri che sono nella stessa condizione non si
attivano, io singolo, poco coinvolto e poco responsabilizzato, non faccio nulla e resto uno spettatore passivo.
Latanè e Darley proposero un esperimento durante il quale il partecipante improvvisamente ascoltava
qualcuno chiedere aiuto: alcuni credevano di essere i soli a sentire la richiesta, altri la sentivano in due,
l'ultimo gruppo invece sapeva che almeno altre 4 persone erano in ascolto. Nel primo caso l'88% dei
partecipanti Università Telematica Pegaso L’attrazione interpersonale e il comportamento prosociale
rispose alla richiesta d’aiuto, le percentuali scendevano al 62% e 31% rispettivamente nel secondo e nel
terzo gruppo.
2.3. Usare strategicamente il comportamento prosociale. un esempio pratico
Potenziare le qualità morali per uscire dall’egocentrismo ed avvicinarsi sempre di più a una concezione
solidale della vita, sembra essere una delle priorità concordemente avvertite nella società contemporanea. La
nostra cultura, cristiana e non, considera la capacità di interessarsi agli altri e di darsi aiuto e sostegno
reciproco una delle mete ideali di comportamento. Osservando il nostro comportamento si può essere tentati
di affermare che l’inclinazione verso azioni socialmente riprovevoli, distruzione o anche solo indifferenza sia
più marcata che la tendenza verso la comprensione, la generosità e la collaborazione con gli altri. In realtà,
anche se le norme e gli standard degli orientamenti sociali e della considerazione per gli altri variano da
società a società e da cultura a cultura, il comportamento dell’individuo, morale o no, ammirevole o
deplorevole, costituisce sempre il risultato finale di una complessa e intricata rete di eventi - biologici,
sociali, psicologici, economici e storici - che interagiscono tra di loro.
Migliorare i fattori della personalità che aiutano il comportamento prosociale può essere utile. Ma ancora più
importante è abbattere le barriere che si frappongono tra chi aiuta e chi è aiutato. Essere consapevoli
dell'influenza degli altri in situazioni di emergenza può aiutarci a superare l'indifferenza e la fuga dalle
responsabilità. E naturalmente è anche importante capire che l'aiuto non va imposto indipendentemente dal
fatto che la persona lo voglia o no. Ricevere aiuto in certi casi può essere dannoso per l'autostima. Si deve
quindi dare sostegno, non cercare di dimostrare la nostra superiorità.
Un esempio di comportamento “prosociale” all’interno di una organizzazione di lavoro.
Due operatori turistici stanno discutendo su una certa procedura da adottare senza raggiungere un accordo.
La discussione si fa animata e gli interventi di ciascun interlocutore tendono a sottolineare l’efficacia del
proprio punto di vista. La relazione si cristallizza, fino a quando uno dei due decide di far propria la
posizione dell’altro: egli sceglie di adottare la soluzione meno efficace, in un clima relazionale ottimale, che
non la propria, ritenuta più giusta, ma realizzabile solo al costo di mantenere alto il conflitto interpersonale.
«Quando la qualità della relazione in un gruppo di lavoro è l’obiettivo più importante, si realizzano le
premesse per conseguire anche gli altri obiettivi».
Dallo sviluppo successivo di questa virtuale ma molto verosimile situazione, si possono ipotizzare quattro
sostanziali possibilità di evoluzione: 1) l’emittente, dopo aver fatta propria, seppur senza convinzione, l’idea
del collega, si rende conto che quest’ultima nasconde una insospettata validità; 2) l’apertura conciliante
dell’emittente ingenera nel collega ricevente una nuova apertura verso la tesi del primo, che prima non era
disposto a considerare; 3) il nuovo clima di reciproca apertura, germogliato dal comportamento prosociale
dell’emittente, consente al destinatario di superare l’originaria rigidità e di riconoscere l’inefficacia della
propria proposta; 4) il destinatario, caratterizzato da un’irreversibile rigidità caratteriale, non coglie
l’apertura dell’emittente. Questa situazione, sebbene sia la meno auspicabile, a volte inevitabile, offre
comunque un’occasione positiva: i due riescono in qualche modo a lavorare insieme e viene evitato un clima
di forte opposizione e di probabile boicottaggio.
Questa stessa dinamica relazionale, contestualizzata nell’esempio in una realtà aziendale, è trasferibile in
qualsiasi altro contesto: di relazione tra familiari, a scuola nelle attività di gruppo, nel campetto giocando con
gli amici.

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“I VIDEOGIOCHI POSSONO AVERE EFFETTI NEGATIVI? VIOLENZA E IMMORALITÀ NEL
MONDO VIRTUALE”

1 Introduzione
L’interesse verso le comunità virtuali e tutto ciò che concerne quest’ambito così moderno e ormai noto, non
ci è sembrato potesse prescindere da un approfondimento fruibile e originale su quel mondo così popolato al
giorno d’oggi soprattutto dagli adolescenti: il mondo dei videogame.
Partendo dall’assunto che i nuovi adolescenti saranno gli adulti di un prossimo e vicino domani, ci è
sembrato utile scegliere un articolo che avesse a che fare con la realtà virtuale e al contempo con
l’aggressività e il disimpegno morale, sempre più spesso riscontrabili nella nostra società.
Se è vero che l’informazione, tramite la tecnologia e i mass media, può ormai raggiungere gran parte della
popolazione e che questo consente a ciascuno di essere messo al corrente di ciò che accade nel mondo, è
anche vero che procede, di pari passo con quest’assunzione di consapevolezza di ciò che accade nella realtà
circostante, la diffusione di realtà parallele e alternative in cui rifugiarsi quando il mondo sembra andarci
stretto o quando le sue regole sembrano troppo rigide da rispettare.
La scelta dei videogiochi, spesso comunemente contestata, sembra ormai consolidata tra i giovanissimi e, in
particolare, la scelta di videogiochi di stampo violento e aggressivo sembra ormai spopolare.
Purtroppo, conseguentemente a questo fenomeno, pare diffondersi anche una maggiore propensione al
disimpegno sociale e a un abbassamento della moralità negli individui presi in considerazione. Nonostante
alcuni studi dimostrino che vi sia una stretta relazione tra l’uso di videogiochi di tipo violento e determinate
caratteristiche di personalità, possiamo dire che sicuramente va dilagando l’influenza che questi ultimi hanno
sugli atteggiamenti generali di chi ne fa (ab)uso.
Nell’articolo scelto emergeranno tali tematiche e si cercherà di far luce su come e quanto i videogiochi
violenti influiscano nel determinare certi comportamenti tutt’altro che prosociali.

2 I videogiochi possono avere effetti negativi?


Questo articolo è stato scelto dalla rivista on-line di Psicologia sociale “Inquisitive Mind” dal sito
www.In-Mind.org (Numero della Rivista: 3; anno: 2013)
I videogiochi possono avere effetti negativi?
Violenza e immoralità nel mondo virtuale
Di Alessandro Gabbiadini
Un uomo biondo, all’angolo di un vicolo, sta discutendo animatamente con un’altra persona.
Apparentemente i due si conoscono. A un certo punto la conversazione si interrompe e i due guardano in
direzioni opposte. Pochi istanti dopo la conversazione riprende, con toni ancora più accesi, linguaggio
scurrile, imprecazioni. La tensione aumenta, finché uno dei due uomini estrae una pistola e fredda
l’interlocutore. Poco dopo, andandosene, si giustificherà dicendo che non aveva gradito il modo in cui egli
era stato trattato. L’altro, ha detto, lo aveva guardato come fosse stato una prostituta.
Fortunatamente quanto appena riportato non è la descrizione di una avvenimento reale, ma di una scena
tratta da uno dei videogiochi più venduti al mondo nell’ultimo decennio, Gran Theft Auto IV
(Rockstargames, 2008). L’utilizzo di videogiochi è da circa due decenni un’attività ricreativa molto diffusa
tra gli adolescenti (ISFE, 2010) e il tempo speso nell’utilizzo di questi prodotti sta aumentando rapidamente
(EscobarChaves & Anderson, 2008). Ciò che preoccupa gli esperti del settore e gli educatori non è tanto il
tempo prolungato di utilizzo, quanto i contenuti violenti e particolarmente cruenti che molti di questi
videogame propongono. Infatti, secondo un recente report dell’osservatorio AESVI (Associazione Editori
Sviluppatori Videogiochi Italiani, 2012) ben dieci videogame dei venti titoli più venduti in Italia nel 2011
propongono contenuti violenti. Nel corso dell’ultimo decennio, molti ricercatori si sono dedicati all’analisi di
questa problematica, trovando evidenze empiriche del fatto che l’esposizione ai contenuti violenti di tali
software può portare a comportamenti di natura aggressiva. Singer (2007) indica che la ricerca non è ancora
stata in grado di stabilire con chiarezza la direzione causale nella relazione fra utilizzo di videogame e
comportamento. Infatti, la meta-analisi (si veda glossario) di Anderson e Bushman (2001) suggerisce che
l’esposizione a videogiochi violenti è correlata con l’aumento temporaneo dell’ aggressione. Contrariamente,
una più recente rassegna scientifica suggerisce che la fruizione di videogame dai contenuti violenti non sia
legata al manifestarsi di comportamenti aggressivi nella vita reale (Ferguson & Kilburn, 2009). Molti degli
studi sull’aggressività e l’utilizzo di videogiochi si inseriscono nella cornice teorica del General Aggression

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Model (GAM; si veda Anderson & Carnagey, 2004; Bushman & Anderson, 2002; si veda glossario). Il
modello GAM collega l’esposizione a contenuti mediatici violenti con variabili di differenza individuale,
nella spiegazione dello sviluppo di comportamenti aggressivi. Secondo questo modello, variabili situazionali
e componenti individuali interagiscono fra loro, influenzando lo stato d’animo dell’attore sociale sul piano
cognitivo, emotivo e dell’attivazione fisiologica (Anderson & Bushman, 2001). I tre elementi si influenzano
a vicenda, e ciascuno influenza l’interpretazione individuale dell’atto violento. Una volta che tale
interpretazione ha preso forma, gli individui attivano i processi decisionali che portano al comportamento
aggressivo.
Per quanto riguarda gli effetti derivanti dalla fruizione di videogiochi violenti, sono stati finora riscontrati
l’aumento di pensieri aggressivi o il verificarsi di variazioni fisiologiche, come, ad esempio, l’aumento della
temperatura o del battito cardiaco.
Essendo però la ricerca in questo settore ancora relativamente giovane e in via di esplorazione, mancano
analisi su dati longitudinali; per tanto, le conseguenze a lungo termine sono, per lo più, ancora allo stato di
ipotesi in via di verifica. Il GAM è stato utilizzato con riferimento all’esposizione a media come TV e
cinema, ma si è rivelato predittivo anche rispetto a prodotti più evoluti, come i videogame. Questo fa sorgere
la domanda se i videogiochi violenti siano altrettanto dannosi dei programmi televisivi o dei film violenti.
Sulla base delle meta-analisi finora condotte, sembra che gli effetti provocati dai videogiochi siano meno
forti di quelli provocati dalla violenza in televisione; la discrepanza potrebbe però essere dovuta al minor
numero di studi sui videogame (Polman, de Castro, & van Aken, 2008).
In realtà, la ricerca scientifica ci suggerisce almeno tre ragioni per ritenere che i videogiochi violenti possano
essere ancora più dannosi di altri tipi di media (Anderson et al., 2010; Bushman, 2011). In primo luogo, la
differenza fra videogiochi e media tradizionali è rappresentata dal tipo di fruizione: in un videogame, il
giocatore non è solamente uno spettatore, ma è immerso in un mondo tridimensionale nel quale può decidere
attivamente come agire.
Inoltre, grazie ai nuovi paradigmi basati sul controllo del gioco attraverso movimenti del corpo (come, ad es.,
la tecnologia Wiimote prodotta da Nintendo o Kinect di Microsoft; si veda glossario), il grado
d’immedesimazione è ancora maggiore. Del resto è noto che le persone imparano meglio quando sono
coinvolte attivamente. Immaginate di voler imparare a pilotare un aereo: quale sarebbe il metodo migliore da
utilizzare? Leggere un libro, guardare un programma televisivo, o utilizzare un gioco di simulazione di volo?
A sostegno di queste osservazioni ci sono molteplici evidenze empiriche. Polman e colleghi (2008), in un
lavoro sperimentale, hanno casualmente assegnato dei ragazzi a due condizioni sperimentali: in un caso, il
giocatore poteva giocare in prima persona; nell’altro, doveva osservare qualcun giocare; inoltre, in una
condizione veniva utilizzato un videogioco violento, nell’altra un videogioco neutro. I risultati hanno
mostrato che i ragazzi che avevano giocato attivamente a un videogioco violento riportavano punteggi di
aggressività maggiori rispetto a quelli che si erano limitati ad osservare. I risultati di questo studio ci portano
al secondo motivo per cui è possibile considerare dannosi determinati videogame: i giocatori hanno maggiori
probabilità di identificarsi con i personaggi del gioco, cosa non altrettanto possibile con uno spettacolo
televisivo. A questo proposito la ricerca suggerisce che le persone siano generalmente più propense a
comportarsi in modo aggressivo quando si identificano con un personaggio violento (si veda Konijn,
Bijvank, & Bushman, 2007). Un risultato molto interessante è stato riportato da Fischer, Kastenmüller e
Greitemeyer (2010) i quali hanno mostrato che i partecipanti che avevano giocato ad un videogioco
aggressivo utilizzando un avatar personalizzato ( con le sembianze del giocatore) riportavano un
comportamento più aggressivo rispetto ai partecipanti che avevano giocato al medesimo videogame con un
personaggio dalle sembianze generiche.
Infine, l’ultimo aspetto che ci permette di differenziare gli effetti della fruizione di videogame da quelli di
altri media, è il fatto che in un videogioco spesso il comportamento violento viene premiato o favorito dal
gioco stesso. È noto che la gratificazione ricevuta aumenta la frequenza del comportamento che tale
gratificazione ha provocato. Per fare un esempio legato ai videogame, in GTA IV, in particolari scene,
personaggi secondari incitano il giocatore che ha ucciso un passante con frasi come “Bel colpo, amico!” I
programmi televisivi, invece, non prevedono una ricompensa legata al fatto di essere telespettatore.
Nonostante queste evidenze, spesso si sente dire che l’utilizzo di prodotti videoludici abbia una funzione
catartica (Bushman & Anderson, 2002) che consente alle persone di sfogare rabbia e frustrazione nel mondo
virtuale, anziché in quello reale. Le evidenze scientifiche però non sostengono tale affermazione. Finora sono
stati condotti oltre 140 studi, che hanno coinvolto circa 130.000 partecipanti (Anderson et al. 2010), e hanno

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mostrato che i videogiochi con contenuti violenti diminuiscono i comportamenti di natura prosociale
(Carnagey & Anderson, 2005), desensibilizzano le persone alla violenza nella vita reale (Carnagey &
Anderson, 2007), favoriscono pensieri, emozioni e comportamenti aggressivi (Anderson et al., 2004;
Anderson & Bushman, 2001; Anderson & Dill, 2000; Bushman & Anderson, 2002; Greitemeyer &
McLatchie, 2011).
2.1 Una nuova generazione di videogiochi
Nonostante il grande interesse per questo campo emerso nell’ultimo decennio, la ricerca legata all’utilizzo di
videogame fino a oggi si è prevalentemente focalizzata sul legame tra contenuti violenti e comportamento
aggressivo. Tuttavia, negli ultimi venti anni, i progressi tecnologici nell’hardware e nella grafica
tridimensionale hanno portato a esperienze di gioco sempre più realistiche e il contenuto violento non è più
l’unico aspetto dannoso degno di interesse. Nel tentativo di sviluppare prodotti sempre più vicini alla realtà,
le case produttrici di videogame hanno introdotto elementi fino a qualche anno fa impensabili, possibili
grazie allo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Sono di recente commercializzazione videogame in cui la
scelta morale da parte del giocatore acquisisce un ruolo fondamentale nello sviluppo della storia e del
personaggio stesso. Non si tratta semplicemente di scegliere se stare dalla parte dei buoni o dei cattivi. Ad
esempio, nel videogioco Fahreneit (Quantic Dream, 2005) la narrazione iniziale porta il giocatore ad
assistere a una scena molto carica emotivamente: un bambino cade nell’acqua ghiacciata del laghetto di un
parco; essendo inverno, e non sapendo il bambino nuotare, l’unica speranza che il bimbo ha di sopravvivere
è che il protagonista del gioco si tuffi per salvarlo. In quel parco però sta indagando anche l’unico poliziotto
che ha visto il protagonista sulla scena di un altro crimine, che dà avvio alla storia del gioco, per il quale egli
è il principale sospettato ed è quindi in fuga. In questo caso il giocatore si trova davanti ad una scelta che
condizionerà tutto il successivo intreccio: salvare il bambino, attirando così l’attenzione del poliziotto e
rischiando la cattura poiché sospettato dell’altro crimine, o lasciarlo annaspare pregando che qualcun altro lo
salvi senza però farsi notare da colui che sta indagando proprio sul suo conto?
Un altro esempio indicativo di questa evoluzione nei prodotti videoludici è rappresentato da Fallout III
(Bethesda Softworks, 2008); in un particolare passaggio di questo gioco è necessario decidere se rapire un
bambino per salvare da un’epidemia un gruppo di schiavi o se condannare a morte tutto il gruppo di schiavi,
per salvare il bambino. Qualunque sia la decisione finale, in entrambe le situazioni, il dilemma morale è
altrettanto evidente della componente violenta.
In questi mondi virtuali, i giocatori possono fare molte cose che nella vita reale sarebbero impossibili oppure,
più semplicemente, commettere atti che sono per lo più inconcepibili in una società normale. Alcuni
videogiochi consentono di impegnarsi in omicidi, torture, stupri o, addirittura, atti di pedofilia (Wonderly,
2008).
L’esercizio della moralità nel mondo virtuale è un tema molto interessante e ancora poco indagato. La
domanda di ricerca cui dare risposta è se commettere azioni generalmente ritenute immorali e inaccettabili in
un ambiente virtuale, dove tutto è consentito, possa avere conseguenze sul giudizio morale nella vita
quotidiana. Questi interrogativi sono stati affrontati anche da studiosi dell’etica, come McCormik (2001),
secondo il quale “l’umanità è oggi di fronte a una nuova serie di questioni morali causate dagli sviluppi della
tecnologia” (p. 286). Il filosofo non disapprova apertamente lo sviluppo di giochi violenti e immorali,
sostenendo che il fatto di commettere atti immorali in un videogioco non è più condannabile del permettere
la pratica di sport violenti, come il pugilato, o rischiosi, come l’arrampicata.
2.2 Videogame e sganciamento morale: un nuovo filone di ricerca
Espandere la conoscenza delle conseguenze che l’utilizzo delle nuove generazioni di videogame comporta è
un argomento di primaria importanza all’interno del filone di ricerca sui videogame e comportamento
aggressivo. A tale proposito Gabbiadini e colleghi (Gabbiadini, Andrighetto & Volpato, 2012) hanno
recentemente condotto uno studio di natura correlazionale (si veda glossario), il cui obiettivo era esplorare
gli effetti dei moderni giochi violenti sullo sganciamento dalla moralità nella vita reale. Infatti, la maggior
parte dei videogiochi violenti di recente produzione consente al giocatore di agire anche attraverso una vasta
gamma di comportamenti immorali (ad es., furto, atti di vandalismo o molestie sessuali), che sono
rappresentati in maniera molto realistica dalla grafica del gioco e che vengono talvolta addirittura
incoraggiati poiché scopo del gioco stesso. Per citare un esempio rappresentativo, in GTA IV è possibile
avere rapporti sessuali a pagamento con delle prostitute per aumentare il punteggio di salute del proprio
personaggio. È pratica comune dei giocatori di questo videogame uccidere poi la prostituta per riprendersi i
soldi spesi. I ricercatori hanno ipotizzato che l’utilizzo di questo tipo di giochi possa indebolire il giudizio

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morale anche al di fuori dei confini virtuali. Lo studio considerava come variabile indipendente l’utilizzo di
GTA IV, un videogame molto diffuso tra gli adolescenti, che ruota attorno ad atti criminali e illegali, come
spaccio di droga, prostituzione e sparatorie, caratterizzato inoltre da un linguaggio ricco di turpiloqui e da
scene cruente. Ad un ampio campione di studenti italiani di scuola superiore è stato chiesto di riportare la
frequenza e la recenza con cui avevano giocato a GTA IV. In seguito, è stato chiesto loro di compilare una
scala di misura del disimpegno morale (Bandura, Barbaranelli, Caprara, & Pastorelli, 1996). Questa scala
misura tre differenti momenti del processo di disimpegno morale (Bandura, 1990): (1) la ridefinizione della
condotta immorale, che tende a minimizzare l’atto immorale compiuto; (2) la distorsione delle conseguenze
dell’atto, ritenute meno gravi di quanto realmente esse siano; (3) la diversa considerazione della vittima che
tramite l’attribuzione di colpa o di biasimo è ritenuta meritevole dell’offesa ricevuta.
I risultati hanno evidenziato che la recenza di esposizione a GTA IV influenzava negativamente il giudizio
morale: tanto più di recente i partecipanti allo studio avevano giocato a GTA IV, tanto più alto era il loro
disimpegno morale, misurato considerando cinque sottocomponenti (giustificazione morale, confronto
vantaggioso, diffusione di responsabilità, distorsione delle conseguenze, deumanizzazione) che descrivono i
tre momenti del costrutto originale (Bandura, 1990). Gli effetti riportati, inoltre, rimanevano significativi
anche al netto di altre variabili di differenza come il genere e l’età dei partecipanti.
Anche se prospetta una nuova linea di ricerca e un rilevante avanzamento teorico, lo studio appena descritto
ricade nell’osservazione già citata offerta da Singer (2007), dato che anche questo studio non permette di
stabilire la direzione causale degli effetti riportati: giocare con un videogame violento/ immorale causa un
comportamento più aggressivo e immorale, oppure persone di natura più aggressive o moralmente
permissive sono portate a scegliere questo tipo di videogame?
Per rispondere a questa domanda, che ancora non ha una chiara risposta, studi futuri dovranno concentrarsi
su molteplici aspetti; in primo luogo è importante approfondire il legame fra lo sganciamento morale e le sue
risultanti comportamentali. I ricercatori ipotizzano che il disimpegno morale possa rappresentare un
momento intermedio del processo che porta dalla fruizione di videogame violenti ad un comportamento
aggressivo. La ricerca finora si è occupata principalmente del comportamento aggressivo come unico effetto
dell’utilizzo di videogiochi violenti. Tuttavia Bandura (1990) suggerisce una serie di risultanti
comportamentali legate ai differenti meccanismi del disimpegno morale, che nel contesto dell’utilizzo di
videogame violenti potrebbero rappresentare dei correlati del comportamento aggressivo.
In secondo luogo, è necessario comprendere la durata nel tempo di questi effetti. Può l’esperienza di un
mondo virtuale, in cui tutto è concesso, modificare in maniera costante la percezione del mondo reale?
Infine, la vera sfida che permetterebbe di rispondere in maniera esaustiva alla domanda da cui siamo partiti,
e cioè stabilire un nesso causale fra l’utilizzo di videogiochi violenti ed effetti sul comportamento o sulla
sfera morale di una persona, è di sviluppare studi sperimentali che impieghino misure comportamentali
adeguate a cogliere non solo le risultanti di un comportamento aggressivo, ma anche immorale.
È di primaria importanza indagare i processi intermedi che portano allo sviluppo di comportamenti
aggressivi in seguito all’evoluzione dei nuovi media, per essere consapevoli dei benefici, ma soprattutto dei
rischi, che queste tecnologie possono comportare per poter attivare campagne di tutela efficaci.
Un recente rapporto (The Henry J. Kaiser Family Foundation, 2005) infatti, ha evidenziato che il 90% dei
ragazzi riporta che i genitori non controllano l’età minima consigliata sull’apposita etichetta prima di
acquistare un prodotto videoludico. Lo stesso studio ha rivelato che l’87% dei ragazzi al di sotto della
maggiore età ha giocato a videogiochi consigliati solo per un pubblico maggiorenne.
Una conoscenza più approfondita dei processi che regolano l’esposizione a videogame violenti
permetterebbe di applicare politiche di prevenzione più adeguate e consapevoli dei rischi reali che tali
prodotti possono indurre.
2.3 Glossario
Wiimote. Strumento di interazione con la piattaforma di gioco Nintendo Wii. Grazie ad appositi sensori, i
giocatori possono mimare azioni che vengono effettuate da un personaggio del gioco.
Kinect. Tecnologia delle console di gioco Microsoft, in grado di leggere il movimento del corpo umano e
trasmetterlo ad un personaggio nel videogame senza l’uso di strumenti o telecomandi.
Meta-analisi. Strumento di ricerca utilizzato per aggregare e sintetizzare i dati provenienti da più studi di
ricerca effettuati nello stesso dominio, permet- tendo di trarre conclusioni più forti e più generali di quelle
tratte dai risultati di ogni singolo studio.

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Studio correlazionale. Tipologia di studio in cui le variabili in esame non vengono manipolate attraverso un
esperimento, ma osservate al fine di individuare delle relazioni fra loro. Lo studio correlazionale, a
differenza dell’esperimento, non consente di stabilire in modo definitivo, un nesso di causa-effetto tra le
variabili.
Aggressività. Inclinazione a manifestare comporta- menti che hanno lo scopo di causare danno o dolore ad
altri sia sul piano fisico che verbale.
Disimpegno morale. Costrutto psicologico che descrive dei “meccanismi di difesa” che un individuo attiva
inconsciamente per non essere aggredito dalle emozioni negative relative al compimento di gesti immorali.
General Aggression Model. Modello teorico secon- do il quale pensieri, sentimenti e attivazione fisiologica
di un individuo possono essere influenzati dalla fruizione di contenuti violenti attraverso i media.

3 Sintesi
3.1 Videogiochi e aggressività
1) L’uso dei videogiochi è da circa due decenni una attività ricreativa in diffusione sempre più ampia ma il
problema fondamentale sono i tempi di utilizzo e i contenuti violenti su cui vertono.
2) Diversi sono gli studi che si sono interessati di questo fenomeno in repentina diffusione e diverse le
prospettive degli autori:
F 0Singer
B7 2007: la ricerca non è ancora stata in grado di stabilire con chiarezza la direzione causale nella
relazione fra utilizzo di videogame e comportamento;
F 0Anderson
B7 e Bushman: l’esposizione a videogiochi violenti è correlata con l’aumento temporaneo dell’
aggressione;
F 0recenti
B7 ricerche (Ferguson & Kilburn, 2009): non c’è correlazione tra l’uso di videogiochi a contenuto
violento e il comportamento aggressivo nella vita reale.

3) Molto diffuso e preso in alta considerazione nel panorama scientifico è il modello GAM (General
Aggression Model) che collega l’esposizione a contenuti mediatici violenti a variabili legate alle differenze
individuali, nella spiegazione dello sviluppo di comportamenti aggressivi. Secondo questo modello, variabili
situazionali e componenti individuali interagiscono fra loro, influenzando lo stato d’animo dell’attore sociale
sul piano cognitivo, emotivo e dell’attivazione fisiologica (Anderson & Bushman, 2001)
4) Sulla base delle meta-analisi finora condotte, sembra che gli effetti provocati dai videogiochi siano meno
forti di quelli provocati dalla violenza in televisione; la discrepanza potrebbe però essere dovuta al minor
numero di studi sui videogame (Polman, de Castro, & van Aken, 2008).
5) Diversamente (Anderson et al., 2010; Bushman, 2011) ci sarebbero almeno tre ragioni per cui gli effetti
generati dai videogiochi ad alto contenuto violento siano peggiori rispetto a quelli generati dai mass media:
F 0nei
B 7 videogame il giocatore è diretto protagonista di ciò che accade diversamente da quanto accade quando

è spettatore di violenza trasmessa attraverso i mass media. Inoltre con la nuova tecnologia la possibilità di
essere il protagonista aumentano anche a livello concreto con l’utilizzo di particolari congegni in cui è
possibile dirigere i protagonisti del gioco attraverso il proprio corpo;
F 0èB 7
molto più facile immedesimarsi col personaggio di un gioco violento a maggior ragione se c’è la
possibilità di creare un avatar a proprio piacimento;
F 0all’interno
B7 di un videogame spesso capita che vi sia un premio o una ricompensa per le azioni violente
commesse, il che sicuramente incrementa la messa in atto (virtuale) di queste.

6) alcuni studi sembrano soffermarsi sull’importanza dei giochi a contenuto violento con funzione catartica
e liberatoria nella vita quotidiana. ((Bushman & Anderson, 2002)
7) Sembra che, a confutare ciò che precedentemente è stato detto, i giochi ad alto contenuto violento abbiano
effetti negativi sia sul comportamento prosociale Carnagey & Anderson, 2005) sia sulla sensibilità di
ciascuno rispetto alla violenza (Carnagey & Anderson, 2007), favorendo i pensieri aggressivi ancor prima
che le azioni (Anderson et al., 2004; Anderson & Bushman, 2001; Anderson & Dill, 2000; Bushman &
Anderson, 2002; Greitemeyer & McLatchie, 2011).
3.2 Videogiochi e moralità
8) Negli ultimi venti anni, i progressi tecnologici nell’hardware e nella grafica tridimensionale hanno portato
a esperienze di gioco sempre più realistiche e il contenuto violento non è più l’unico aspetto dannoso degno

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di interesse: si tratta della scelta morale. In particolare in alcuni giochi, sembra palese che qualunque sia la
decisione finale, da parte del giocatore, il dilemma morale è altrettanto evidente della componente violenta.
9) É sorto spontaneo l’interesse della correlazione esistente tra la moralità presente all’interno di queste ludo-
realtà e quella della vita reale: quanto la prima influenza la seconda? Quesito al quale una delle risposte è
proposta da McCormik (2001), secondo il quale “l’umanità è oggi di fronte a una nuova serie di questioni
morali causate dagli sviluppi della tecnologia” (p. 286). Il filosofo non disapprova apertamente lo sviluppo di
giochi violenti e immorali, sostenendo che il fatto di commettere atti immorali in un videogioco non è più
condannabile del permettere la pratica di sport violenti, come il pugilato, o rischiosi, come l’arrampicata.
10) Gabbiadini, Andrighetto & Volpato nel 2012 hanno condotto uno studio di tipo correlazionale proprio per
indagare gli effetti dei giochi moderni sullo sganciamento dalla moralità nella vita quotidiana: i ricercatori
hanno ipotizzato che l’utilizzo di questo tipo di giochi possa indebolire il giudizio morale anche al di fuori
dei confini virtuali.
3.3 Conclusioni
11) Dal momento che anche questi studi rientrano nella categoria di quelli non ritenibili sperimentali a tutti
gli effetti e quindi non utili ai fini della attendibilità di un chiaro nesso causale, è importante continuare a
interrogarsi circa il legame esistente tra lo sganciamento morale e i comportamenti aggressivi che ne
conseguono nella vita reale, in quanto i ricercatori ipotizzano che il disimpegno morale possa rappresentare
un momento intermedio del processo che porta dalla fruizione di videogame violenti ad un comportamento
aggressivo. Inoltre è necessario comprendere la durata nel tempo di questi effetti in quanto resta aperta la
questione secondo la quale il prender virtualmente parte a giochi di questo tipo possa poi modificare in modo
costante e definitivo il comportamento reale di una persona.
12) Una grande ambizione è quella di poter, in un futuro non troppo lontano, sviluppare studi sperimentali
che impieghino misure comportamentali adeguate a cogliere, non solo, le risultanti di un comportamento
aggressivo, ma anche immorale, in modo da soddisfare i quesiti di entrambi i tipi e poter garantire nessi
causali precisi e decodificabili.
13) In conclusione, aldilà degli studi fatti e delle statistiche riportate, è fondamentale tener presente che uno
dei principali fattori protettivi rispetto all’uso dei videogiochi sia sicuramente il tempo di esposizione ad essi:
sarebbe opportuno che ciascun genitore prendesse sempre visione delle caratteristiche specifiche dei giochi,
sia nei termini di età consigliata sia dei contenuti, e che, in secondo luogo, avesse un occhio di riguardo circa
il controllo dei tempi di esposizione agli stessi.

“IL POTERE DELLE PAROLE: GLI EFFETTI NEGATIVI DELLE ETICHETTE DENIGRATORIE” :

1 Introduzione
Il Potere delle Parole: Gli Effetti Negativi delle Etichette Denigratorie
Tratto dalla rivista online in-mind.org
Scritto da Fasoli Fabio & Mazzurega Mara
“E la natura, si dice,
ha dato a ciascuno di NOI
due orecchie ma una sola lingua,
perché siamo tenuti ad ascoltare
più che a parlare”
Plutarco
La comunicazione è un’esperienza usuale e continua di relazione con gli altri, tende quindi ad influenzare
reciprocamente le persone in relazione.
La comunicazione è un processo:
- Sistemico in quanto le persone coinvolte fanno parte di un sistema di influenzamento reciproco;
- Pragmatico in quanto ciò che conta sono gli effetti del comunicare, non le intenzioni, conta il messaggio
che l’altro recepisce, la risposta che si ottiene;
- Strategico in quanto la persona che ha chiari obiettivi da raggiungere si dota di una strategia ben precisa.
Paul Watzlawick definisce la comunicazione un “processo di scambio di informazioni e di influenzamento
reciproco che avviene in un determinato contesto”.

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E’ impossibile non comunicare: anche l’intenzionale assenza di comunicazione verbale, di fatto, comunica la
nostra volontà di non entrare in contatto con l’altro. Tutto è comunicazione, anche il silenzio, perché anche
con il silenzio si comunica qualcosa.
Gli esseri umani comunicano sia con il linguaggio numerico che con quello analogico. Il linguaggio
numerico serve a scambiare informazioni, quello analogico definisce la natura della relazione.
La comunicazione analogica ha a che fare con le emozioni e quindi con la comunicazione non verbale. I due
linguaggi coesistono e sono complementari in ogni messaggio.
Dunque, ogni comunicazione contiene un aspetto di contenuto, la “notizia”, i “dati” e un aspetto di relazione
che definisce i rapporti tra gli interlocutori; infatti definisce il modo in cui i dati vengono trasmessi e
permette di capire come deve essere interpretato il messaggio (si tratta della metacomunicazione). Ad
esempio, si può dire “Bene!” con l’intenzione di lodare qualcuno o con tono sarcastico per metterlo in
ridicolo. L’aspetto di contenuto è cosa si dice, l’aspetto di relazione è come lo si dice. E’ quindi l’aspetto di
relazione che chiarisce il significato del contenuto.
A sottolineare l’importanza degli aspetti relazionali nella comunicazione vi sono alcuni dati statistici che
mostrano che in una comunicazione il contenuto ha un “peso” soltanto del 10%, il tono della voce del 30% e
la gestualità del 60%.
Frocio, negro, puttana, ciccione. Incontriamo spesso queste parole perché le leggiamo in internet, ad
esempio sui social network o blogs, e le sentiamo per strada o alla TV. Comunemente ci riferiamo ad esse
con il termine “parolacce”. Ma che cos'hanno tali termini in comune? Quali sono i loro effetti? Siamo sicuri
che il semplice sentire o leggere tali termini, anche involontariamente, non ci influenzi?
In Psicologia Sociale queste parole rientrano nella definizione di etichette denigratorie, ossia singoli termini
che esprimono un esplicito atteggiamento negativo nei confronti del gruppo sociale o dell’individuo a cui si
riferiscono (Simon & Greenberg, 1996; si veda anche glossario). Tali parole possono richiamare aspetti che
caratterizzano il destinatario, come ad esempio caratteristiche fisiche (ad es., negro, muso giallo), culturali
(ad es., crucchi o kraut in inglese) o di derisione (ad es., terrone), che rimandano alla promiscuità sessuale
(ad es., troia, baldracca) o a parti del corpo (ad es., figa, culattone). Queste etichette sono inoltre specifiche,
in quanto hanno un destinatario ben definito (ad es., gli omosessuali, le donne, gli asiatici) e, di conseguenza,
assumono una connotazione omofoba, sessista, etnica o stigmatizzante. Data questa loro particolarità, le
etichette denigratorie si differenziano dagli insulti generici (ad es., stronzo), che possono invece essere
utilizzati per offendere qualsiasi individuo, indipendentemente dal gruppo sociale a cui appartiene.

2 Il potere delle parole


2.1 Conseguenze delle etichette denigratorie
Figura 1. Le parole possono esplodere come le bombe
Data la frequenza di tale linguaggio nella vita quotidiana, negli ultimi decenni le etichette denigratorie hanno
suscitato particolare interesse da parte della ricerca in Psicologia Sociale. Le domande a cui si è cercato di
dare risposta sono: qual è il potere di queste parole? Quali sono le loro conseguenze per coloro che ne sono
destinatari? Chi non è vittima, ma solo spettatore (si veda glossario) del loro utilizzo, può esserne
influenzato? In altri termini, le etichette denigratorie possono avere degli effetti sui membri del gruppo
sociale offeso (destinatari) e su chi invece non appartiene a questo gruppo (spettatori)? E se si, quali?
Le etichette denigratorie sono per loro natura espressioni di pregiudizio (Simon & Greenberg, 1996). Per tale
ragione, esse hanno solitamente un impatto negativo sugli individui che ne sono bersaglio. I destinatari
dell'offesa non sono esclusivamente coloro che ne sono vittima diretta, ma anche tutti i membri del gruppo
sociale offeso. Il linguaggio denigratorio può infatti colpire il singolo individuo ma, in modo più esteso, tutto
il gruppo a cui appartiene. Ad esempio, alcune ricerche hanno dimostrato che la semplice esposizione ad
epiteti razzisti rivolti agli Afro-Americani (Swim, Hyers, Cohen, Fitzgerald & Bylsma, 2003), epiteti
omofobi (Swim, Johnston, & Pearson, 2009) o di natura sessista (Swim, Hyers, Cohen, & Ferguson, 2001)
ha un effetto negativo sul benessere psicologico dei destinatari. Inoltre, le persone che appartengono al
gruppo sociale offeso, anche se indirettamente colpite da tale linguaggio, riportano in seguito emozioni
negative di ansia e rabbia, maggiori livelli di depressione e una più bassa autostima.
Gli effetti dell’utilizzo di questa terminologia si limitano a colpire chi ne è destinatario? Qual è l’impatto
delle etichette denigratorie su chi ne è mero spettatore?
Il modo in cui etichettiamo gli individui cambia la percezione che abbiamo di loro: le etichette di per sé
pongono l’individuo all’interno di un gruppo e lo distinguono dagli altri, enfatizzando così somiglianze e

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differenze (Foroni & Rothbart, 2011). Ma c’è di più, perché le etichette denigratorie non definiscono solo il
gruppo sociale a cui il destinatario appartiene e ne sottolineano le diversità (ad es., il colore della pelle). Esse
veicolano anche un atteggiamento fortemente negativo. Potrebbero quindi avere un impatto anche sugli
spettatori che sono esposti all’uso di questo linguaggio, magari anche in modo involontario: ad esempio,
quante volte capita di leggere tali termini sui muri delle città senza però porvi davvero attenzione?
I primi studi condotti in questo ambito si sono focalizzati sulle etichette di tipo etnico. Da un lavoro su dati
d’archivio condotto negli Stati Uniti è emerso che gli epiteti razzisti aumentano la distanza sociale dal
gruppo e dagli individui a cui si riferiscono, soprattutto se molto negativi e poco complessi in termini di
quantità di caratteristiche prototipiche chiamate in causa (Mullen & Rice, 2003). Effetti simili sono emersi
anche da studi di laboratorio in cui si sono esaminate le reazioni degli spettatori a etichette denigratorie
riferite a gruppi fittizi (Leader, Mullen, & Rice, 2009).
Nel caso delle etichette riferite agli Afro-Americani, è stato dimostrato che l’esposizione al termine negro
può cambiare il modo in cui le persone esposte a tale etichetta percepiscono e valutano la persona offesa. Ad
esempio, sentire qualcuno etichettare un Afro-Americano con il termine negro può dar luogo ad una
valutazione più negativa dell'individuo (Greenberg & Pyszczynski, 1985). In una situazione molto simile, è
stato dimostrato che l’essere esposti ad un epiteto razzista rivolto ad un avvocato Afro-americano che
difende un imputato Caucasico produce negli spettatori una svalutazione delle competenze dell’avvocato e
dà luogo a verdetti di colpevolezza più severi per l'imputato (Kirkland, Greenberg, & Pyszczynski, 1987).
Risultati simili sono emersi anche per le etichette denigratorie in contesti professionali. È questo il caso di
epiteti quali strizzacervelli, comunemente utilizzato per indicare psicologi e psichiatri: in altre parole,
sentire un professionista etichettato in modo denigratorio discredita la sua competenza e influenza
negativamente l’intenzione delle persone a richiedere la sua consulenza (Gadon & Johnson, 2009).
Recentemente, un nuovo filone di ricerca si è occupato degli epiteti omofobi. In particolare, studi condotti in
Italia hanno messo a confronto l’utilizzo di etichette neutre per definire un gruppo sociale (gay e
omosessuale) con l’utilizzo di etichette denigratorie quali frocio e culattone. In questi studi le etichette erano
semplicemente presentate in forma scritta oppure in modo subliminale, cioè presentate rapidamente, al di
sotto della soglia di riconoscimento e dunque non consapevolmente percepibili dal partecipante. I risultati
hanno evidenziato che le etichette omofobe, rispetto a quelle neutre, determinano reazioni automatiche di
evitamento (Carnaghi & Maass, 2006) e pregiudizio (Carnaghi & Maass, 2007). Allo stesso tempo, gli effetti
degli epiteti omofobi possono andare oltre la semplice valutazione negativa e portare alla deumanizzazione
degli omosessuali (Fasoli, Carnaghi, & Paladino, 2012). In particolare, gli eterosessuali, quando esposti al
termine frocio, piuttosto che gay, tendono a percepire gli omosessuali come meno umani e a mantenere una
maggiore distanza fisica nell'interazione con un membro di questo gruppo (Fasoli et al., 2012).
Esistono poi tipologie di etichette i cui effetti sugli spettatori non sono stati ancora approfonditi: è questo il
caso di termini che si riferiscono alla forma fisica, come può essere il peso, o di natura sessista. Le poche
ricerche sulle etichette denigratorie legate al peso (Brochu & Esses, 2011; Smith, Schmoll, Konik, &
Oberlander, 2007; Vartanian, 2010) hanno preso in considerazione parole quali grasso e obeso, che di per sé
non sono denigratorie, come potrebbe invece essere l’etichetta ciccione. Ciò nonostante, gli studi condotti
hanno dimostrato che termini come grasso o obeso hanno un effetto più negativo rispetto a parole con una
connotazione neutra come sovrappeso. In particolare, sebbene grasso e sovrappeso rimandino a una simile
rappresentazione del corpo di una persona, la parola grasso è giudicata offensiva e induce un atteggiamento
maggiormente negativo nei confronti di coloro che sono stati appellati in questo modo (Brochu & Esses,
2011). Questi risultati fanno pensare che etichette quali ciccione potrebbero enfatizzare ulteriormente gli
effetti negativi sulla percezione del destinatario da parte degli spettatori.
Caso più complesso è quello delle etichette sessiste. I loro effetti sono stati spesso studiati nell'ambito del
linguaggio sessista in generale. Recentemente, Fasoli, Carnaghi e Paladino (2013) hanno proposto una
differenziazione tra due tipologie di etichette sessiste: quelle denigratorie (ad es., troia) e quelle oggettivanti
(ad es., figa, gnocca). Mentre le prime sono ritenute molto offensive e non tollerate, le seconde sono più
accettate socialmente. Tuttavia, entrambe danno luogo ad una svalutazione delle donne: quelle denigranti
rimandano ad un concetto di immoralità, mentre quelle oggettivanti ad una rappresentazione della donna
come oggetto sessuale. Fino ad ora, non sono stati studiati gli effetti di queste due diverse tipologie di
etichette sessiste su chi ne è solo spettatore, cioè gli uomini, ma è stato dimostrato che entrambe le tipologie
di etichette possono aumentare il sessismo ostile nel destinatario, ossia le donne (Fasoli, 2011).
2.2 Il ruolo del contesto

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Figura 2. Parole e graffiti
Abbiamo visto che le etichette denigratorie non sono solo parole ma possono avere un effetto negativo sulle
vittime e sul modo in cui gli spettatori percepiscono il destinatario e si comportano nei suoi confronti. È
tuttavia lecito chiedersi se queste conseguenze si verifichino sempre o dipendano in qualche modo dalla
situazione.
Alcuni studi hanno dimostrato che il contesto (si veda glossario) può influenzare sia l’accettazione sia gli
effetti che l’utilizzo delle etichette denigratorie può comportare. Ad esempio, Hall e La France (2013) hanno
trovato che gli uomini eterosessuali sono più propensi a pronunciare etichette omofobe (ad es., frocio) in
presenza di altri uomini piuttosto che in una situazione in cui l’audience è formata da donne o da un gruppo
misto (donne e uomini). Tali risultati suggeriscono che quando siamo in presenza di persone che
appartengono al nostro stesso gruppo sociale, ci aspettiamo una maggiore tolleranza per l’ uso di tale
linguaggio. Allo stesso tempo, l’appartenenza di gruppo di chi fa uso delle etichette può avere un ruolo
importante in termini di diffusione degli atteggiamenti negativi che tale linguaggio denigratorio veicola. Il
processo di conformismo porta infatti gli individui a conformarsi alle credenze e atteggiamenti dei membri
del proprio gruppo (Castelli, Vanzetto, Sherman, & Arcuri, 2001). Per questa ragione, se gli spettatori
appartengono allo stesso gruppo sociale della persona che pronuncia l’etichetta, essi potrebbero essere
maggiormente disposti a conformarsi all’atteggiamento di pregiudizio veicolato dall’etichetta denigratoria.
Conoscere chi è l’utilizzatore potrebbe quindi influenzare l’effetto che questa tipologia di linguaggio può
produrre (si veda Gadon & Johnson, 2009; Greenberg & Pyszczynski, 1985; Kirkland et al., 1997)
Le reazioni osservate negli studi di Greenberg e collaboratori sarebbero state le stesse se l'etichetta
denigratoria fosse stata usata da un individuo appartenente al gruppo sociale offeso? Per esempio, se
l'etichetta negro fosse stata utilizzata da un nero, quali ne sarebbero state le conseguenze? Alcuni studi
suggeriscono che quando utilizzate da un membro del gruppo offeso, le etichette denigratorie assumono una
connotazione meno negativa e non sono più percepite come offensive. È quello che avviene, ad esempio, per
le etichette etniche usate da e nei confronti degli Afro-Americani (Kennedy, 2002), e quelle omofobe usate
dagli omosessuali (Gamson, 1995, si veda anche Carnaghi & Maass, 2008). Si parla in questo caso di
riappropriazione del linguaggio denigratorio come forma di difesa dalla stigmatizzazione veicolata
dall’offesa (Galinsky et al., 2013). Sono tuttavia pochi gli studi che hanno studiato gli effetti di questo
particolare caso sugli spettatori. Ad oggi, solo una ricerca, condotta da Galinsky e colleghi (2013), ha
mostrato che tale fenomeno di riappropriazione può influenzare positivamente il giudizio che gli spettatori
esprimono riguardo alle persone che usano le etichette denigratorie comunemente utilizzate per indicare il
gruppo sociale al quale appartengono. In particolare, i risultati di questo studio hanno dimostrato che tali
effetti positivi interessano specificatamente le dimensioni del potere e della capacità di controllo.
Se da un lato chi utilizza l'etichetta denigratoria può fare la differenza (membro dell'ingroup o dell'outgroup),
è altresì vero che anche l'atteggiamento dello spettatore può giocare un ruolo fondamentale. Simon e
Greenberg (1996) hanno dimostrato infatti che il giudizio che gli spettatori esprimono a proposito di un
individuo di colore bersaglio di un’etichetta denigratoria è fortemente influenzato dall’atteggiamento
negativo, favorevole o ambivalente nei confronti degli Afro-Americani posseduto da tali persone: mentre
coloro che possiedono un atteggiamento negativo nei confronti degli Afro-Americani reagiscono all’etichetta
esprimendo una valutazione ancor più negativa, chi possiede un atteggiamento favorevole non viene
influenzato dall’etichetta denigratoria e non cambia la propria opinione; un atteggiamento ambivalente,
invece, sembra dar luogo ad una reazione di “compensazione”, determinando una valutazione più positiva
della persona offesa. Questi risultati suggeriscono allora che se da un lato le etichette denigratorie possono
rafforzare il pregiudizio e la discriminazione, dall’altro gli atteggiamenti delle persone che ne sono spettatrici
possono moderare tali effetti negativi.
Vale la pena infine di ricordare che anche il tipo di relazione che c’è tra colui che offende e il destinatario
dell’offesa (si veda glossario) può avere un impatto sul modo in cui viene percepito l’evento. Fasoli e
colleghi (2013) hanno affrontato questa questione chiedendo a donne e uomini eterosessuali di giudicare
quanto fosse accettabile l'utilizzo di etichette sessiste che, a seconda della condizione sperimentale, potevano
essere pronunciate da un uomo o una donna, da una persona di alto o pari status sociale (ad es., il datore di
lavoro vs. un collega o un amico). Dai risultati è emerso che lo status della persona che offende così come la
sua appartenenza all’ingroup o all’outgroup possono avere un impatto diretto sul modo in cui viene percepita
l’etichetta denigratoria, influenzandone ad esempio l’accettazione sociale. Nello specifico, i partecipanti
giudicavano l’uso di un’etichetta sessista come meno accettabile se ad utilizzarla era un uomo, piuttosto che

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una donna, e soprattutto in un contesto lavorativo dove l’uomo era in una posizione di potere (si noti che
l’epiteto utilizzato da un datore di lavoro maschio è spesso percepito come molestia verbale). Questo studio
si è tuttavia soffermato esclusivamente sul ruolo del contesto nei giudizi di accettabilità delle etichette.
Potrebbe essere dunque particolarmente interessante approfondire in studi futuri gli effetti delle etichette
denigratorie sul contesto (luogo e utilizzatore).
2.3 Conclusioni
Le etichette denigratorie sono solo parole? Le ricerche qui presentate mettono in luce che ciascuno di noi,
anche solo come spettatore inconsapevole, può esserne pesantemente influenzato. Certo, il nostro
atteggiamento personale e il contesto possono fare la differenza, ma ciò non toglie il potenziale effetto
negativo che le etichette denigratorie possono indurre nelle relazioni interpersonali e intergruppi. È infatti
vero che spesso ne siamo involontariamente testimoni e non siamo a conoscenza delle circostanze che hanno
portato all’utilizzo dell’etichetta. Ciò nonostante, poiché spesso viene dato poco peso a queste parole,
sarebbe necessaria una maggiore sensibilizzazione rispetto al loro utilizzo: gli adulti dovrebbero scegliere
con attenzione i termini che utilizzano per esprimere un concetto o per riferirsi ad un gruppo sociale perché
non tutti i termini sono semplici sinonimi (ad es., gay ≠ frocio). Allo stesso tempo, sarebbe necessario
educare i più giovani all'uso delle parole. Il bullismo, ad esempio, è un fenomeno che si manifesta spesso
attraverso un linguaggio denigratorio e senza che i ragazzi ne abbiano nemmeno compreso il reale significato
(Plummer, 2001). Un altro modo per limitare gli effetti di tali parole potrebbe essere il sopra citato
“riappropriamento” delle etichette da parte del gruppo offeso. “Ripulire” questi termini dalla loro
connotazione negativa potrebbe far sì che queste parole non vengano più usate per esprimere pregiudizio.
Concludendo, nonostante la diffusione e spesso tolleranza per l'utilizzo delle etichette denigratorie in molti
ambiti della vita quotidiana, la ricerca ci suggerisce che è importante essere consapevoli che queste non sono
semplici parole e che sono poche le situazioni che ci rendono immuni ai loro effetti negativi. Perché quindi
continuare ad utilizzarle?

3 Sintesi articolo
3.1 Introduzione
1. Paul Watzlawick definisce la comunicazione un “processo di scambio di informazioni e di influenzamento
reciproco che avviene in un determinato contesto”. E’ impossibile non comunicare: anche l’intenzionale
assenza di comunicazione verbale, di fatto, comunica la nostra volontà di non entrare in contatto con l’altro.
Tutto è comunicazione, anche il silenzio, perché anche con il silenzio si comunica qualcosa.
2. Ogni comunicazione contiene un aspetto di contenuto, la “notizia”, i “dati” e un aspetto di relazione che
definisce i rapporti tra gli interlocutori; Ad esempio, si può dire “Bene!” con l’intenzione di lodare qualcuno
o con tono sarcastico per metterlo in ridicolo. L’aspetto di contenuto è cosa si dice, l’aspetto di relazione è
come lo si dice. E’ quindi l’aspetto di relazione che chiarisce il significato del contenuto.

3.2 Le etichette denigratorie


3. In Psicologia Sociale parole quali “Frocio, negro, puttana, ciccione” rientrano nella definizione di
etichette denigratorie, ossia singoli termini che esprimono un esplicito atteggiamento negativo nei confronti
del gruppo sociale o dell’individuo a cui si riferiscono. Tali parole possono richiamare aspetti che
caratterizzano il destinatario, come ad esempio caratteristiche fisiche (ad es.,negro, muso giallo), culturali
(ad es., crucchi o kraut in inglese) o di derisione (ad es., terrone), che rimandano alla promiscuità sessuale
(ad es., troia, baldracca) o a parti del corpo (ad es., figa,culattone).
4. Queste etichette sono inoltre specifiche, in quanto hanno un destinatario ben definito (ad es., gli
omosessuali, le donne, gli asiatici). Data questa loro particolarità, le etichette denigratorie si differenziano
dagli insulti generici (ad es., stronzo), che possono invece essere utilizzati per offendere qualsiasi individuo,
indipendentemente dal gruppo sociale a cui appartiene.

3.3 Conseguenze delle etichette denigratorie


5. Effetti sul destinatario
6. Le etichette denigratorie sono per loro natura espressioni di pregiudizio. Per tale ragione, esse hanno
solitamente un impatto negativo sugli individui che ne sono bersaglio. I destinatari dell'offesa non sono
esclusivamente coloro che ne sono vittima diretta, ma anche tutti i membri del gruppo sociale offeso,
riportando emozioni negative di ansia e rabbia, maggiori livelli di depressione ed una più bassa autostima.

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Effetti sullo spettatore
7. Le etichette denigratorie non definiscono solo il gruppo sociale a cui il destinatario appartiene e ne
sottolineano le diversità (ad es., il colore della pelle). Esse veicolano anche un atteggiamento fortemente
negativo, influenzando anche gli spettatori che sono esposti all’uso di questo linguaggio, anche se
involontariamente, aumentando la distanza sociale dal gruppo e dagli individui a cui si riferiscono (es.
sentire qualcuno etichettare un Afro-Americano con il termine negro può dar luogo ad una valutazione più
negativa dell'individuo).

3.4 Il ruolo del contesto


8. Alcuni studi hanno dimostrato che il contesto può influenzare sia l’accettazione sia gli effetti che l’utilizzo
delle etichette denigratorie può comportare; l’appartenenza di gruppo di chi fa uso delle etichette può avere
un ruolo importante in termini di diffusione degli atteggiamenti negativi che tale linguaggio denigratorio
veicola. Il processo di conformismo porta infatti gli individui a conformarsi alle credenze e atteggiamenti dei
membri del proprio gruppo.
9. Alcuni studi suggeriscono che quando utilizzate da un membro del gruppo offeso, le etichette denigratorie
assumono una connotazione meno negativa e non sono più percepite come offensive (etichette etniche usate
da e nei confronti degli Afro-Americani e quelle omofobe usate dagli omosessuali). Si parla in questo caso di
riappropriazione del linguaggio denigratorio come forma di difesa dalla stigmatizzazione veicolata
dall’offesa (Galinsky et al., 2013).
10. Tale fenomeno di riappropriazione può influenzare positivamente il giudizio che gli spettatori esprimono
riguardo alle persone che usano le etichette denigratorie comunemente utilizzate per indicare il gruppo
sociale al quale appartengono.

3.5 Lo spettatore come “mediatore”


11. Se da un lato le etichette denigratorie possono rafforzare il pregiudizio e la discriminazione, dall’altro gli
atteggiamenti delle persone che ne sono spettatrici possono moderare tali effetti negativi (es: mentre coloro
che possiedono un atteggiamento negativo nei confronti degli Afro-Americani reagiscono all’etichetta
esprimendo una valutazione ancor più negativa, chi possiede un atteggiamento favorevole non viene
influenzato dall’etichetta denigratoria e non cambia la propria opinione).

3.6 Conclusioni
12. Le etichette denigratorie non sono solo parole. Le ricerche qui presentate mettono in luce che ciascuno di
noi, anche solo come spettatore inconsapevole, può esserne pesantemente influenzato. Certo, il nostro
atteggiamento personale e il contesto possono fare la differenza, ma ciò non toglie il potenziale effetto
negativo che le etichette denigratorie possono indurre nelle relazioni interpersonali e intergruppi.

4 Glossario
Contesto. Si intende sia il luogo e il momento in cui l’etichetta denigratoria è utilizzata, sia le persone
coinvolte, ossia chi la usa, chi la subisce e chi assiste.
Destinatario. Per destinatario dell’etichetta denigratoria si intende sia l’individuo sia il gruppo sociale a cui
l’epiteto fa riferimento.
Etichette denigratorie. Singole parole che veicolano un atteggiamento negativo nei confronti della persona
o del gruppo a cui si riferiscono
Spettatore/Ascoltatore. Si intende colui che assiste, legge o ascolta una etichetta denigratoria e non fa parte
del gruppo offeso. L’esposizione a questi epiteti può essere sia volontaria che involontaria.

“LA NEGAZIONE DELLA MORALITÀ NEL LINGUAGGIO DEGLI INSULTI”

1 La negazione della moralità


La negazione della moralità nel linguaggio degli insulti
Scritto da Silvia Moscatelli, Michela Menegatti, Flavia Albarello & MonicaRubini
Tratto dalla rivista online “The Inquisitive Mind”

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www.in-mind.org
1.1 Introduzione
Il comportamento prosociale, classicamente inteso, riguarda «azioni dirette ad aiutare o beneficiare un’altra
persona o gruppo di persone» (P. Mussen, N. Eisenberg, Le origini delle capacità di interessarsi, dividere ed
aiutare. Trad. it., Roma, Bulzoni, 1985, p. 15). Secondo Caprara (G.V. Caprara, S. Bonino, Il comportamento
prosociale. Aspetti individuali, familiari e sociali. Trento, Erickson, 2006, p. 10), esso, a differenza
dell’altruismo che rientra nell’ambito dei sentimenti, è da considerarsi come un’abitudine a fare del bene,
una «tendenza a far ricorso ad azioni che si contraddistinguono per gli effetti benefici che producono negli
altri».
L’importanza che la prosocialità riveste nell’ambito di ogni società, rispetto ai benefici della collettività e del
singolo, ha suscitato l’interesse scientifico di numerosi studiosi. L’origine del comportamento prosociale,
infatti, è stata indagata alla luce di differenti prospettive teoriche, che lo hanno ricondotto a:
1) fattori biologici, tesi a salvaguardare la specie attraverso l’aiuto dei propri simili e la certezza di essere
ricompensati sulla base di meccanismi di reciprocità;
2) caratteristiche individuali e personologiche del soggetto;
3) fattori relativi ai sistemi sociali di riferimento, quali le norme culturali, i valori ed i ruoli, intesi come
indicazioni sui comportamenti considerati positivi che «modellano il comportamento delle persone e della
società» (H.W. Bierhoff, Il comportamento prosociale cit., p. 293).
La nostra cultura, cristiana e non, considera la capacità di interessarsi agli altri e di darsi aiuto e sostegno
reciproco una delle mete ideali di comportamento, in evidente contraddizione appare invece il nostro agire
quotidiano, pregno di individualismo e di miopia, che fatica non poco già soltanto a tentare ad avvicinarsi
all’obiettivo morale sollecitato.
Osservando il nostro comportamento si può essere tentati di affermare che l’inclinazione verso azioni
socialmente riprovevoli, distruzione o anche solo indifferenza sia più marcata che la tendenza verso la
comprensione, la generosità e la collaborazione con gli altri.
Sentire e leggere insulti espliciti in televisione, nei giornali o sui social network sta diventando sempre più
frequente. Negli ultimi anni anche i leader politici, che dovrebbero essere particolarmente attenti al
linguaggio che utilizzano in pubblico, hanno iniziato ad insultare apertamente gli avversari con epiteti
fortemente dispregiativi, quali “scimmia puzzolente" (verso un ministro di colore), “truffatore e
traditore” (verso un politico che ha votato diversamente dal previsto), “coglione” (verso un politico
avversario), “salma” (verso un politico anziano). Alcuni di questi insulti negano le qualità morali delle
persone a cui sono diretti, mentre altri ne negano le capacità intellettive o sociali. Di recente, la psicologia ha
dimostrato che moralità, competenza e socievolezza costituiscono le dimensioni principali utilizzate nella
valutazione di sé e nella formazione delle impressioni sugli altri. In particolare, la moralità svolge un ruolo
cruciale nel regolare il comportamento interpersonale e tra individuo e gruppo. Di conseguenza, la negazione
di moralità negli altri dovrebbe costituire una delle peggiori forme di offesa e discriminazione. Questa
questione può essere considerata proprio esaminando il linguaggio utilizzato dalle persone per schernire,
umiliare e offendere gli altri in maniera più o meno grave e intenzionale, ossia gli insulti.
In realtà, anche se le norme e gli standard degli orientamenti sociali e della considerazione per gli altri
variano da società a società e da cultura a cultura, il comportamento dell’individuo, morale o no, ammirevole
o deplorevole, costituisce sempre il risultato finale di una complessa e intricata rete di eventi - biologici,
sociali, psicologici, economici e storici - che interagiscono tra di loro.
Nonostante le difficoltà metodologiche legate alla definizione stessa dei comportamenti sociali positivi e
dell’identificazione delle variabili che aumentano la probabilità che gli stessi vengano messi in atto, gli studi
condotti in tal senso hanno dimostrato come la capacità di aiutarsi e di operare per la collettività siano
maggiormente funzionali non solo per il singolo individuo, ma per la stessa sopravvivenza della specie.
Conseguentemente è stato possibile concludere quanto sia più vantaggioso per la società orientare i propri
membri verso comportamenti socialmente adeguati (piuttosto che avversare quelli inadeguati), attivando
delle strategie idonee a prevenire atti di violenza e di aggressività.
1.2 La psicologia morale
Figura 1. “Anche a quei tempi…”.
Foto di Aldo Cavini Benedetti, distribuita con licenza Creative Commons. http://www.flickr.com/photos/
aldoaldoz/

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La questione di cosa sia morale o immorale, della divisione tra bene e male, tra giusto e sbagliato è stata al
centro del pensiero filosofico occidentale fin dalle sue origini. La psicologia, invece, ha iniziato a occuparsi
di questo tema solo di recente con gli studi di Piaget sullo sviluppo morale (si veda glossario) nei bambini.
Per comprendere come si sviluppa il giudizio morale, Piaget (1932) chiedeva a bambini di circa sei anni
perché non si dovessero raccontare bugie. La risposta più comune era “perché le bugie sono parolacce”. I
bambini un po’ più grandi (circa 8-10 anni) erano invece in grado di spiegare che non bisogna dire bugie
“perché è sbagliato” o “perché non sono la verità”. Nel primo caso, i bambini riunivano parolacce e bugie in
“quello che non si può dire”. Secondo Piaget, questo indica chiaramente che, nei primi stadi dello sviluppo,
la distinzione tra ciò che è giusto e sbagliato è esteriore dalla coscienza del bambino e si basa su regole
imposte dall’autorità. È solo con lo sviluppo del gioco cooperativo che i bambini imparano a mettersi nei
panni degli altri e a comprendere che le regole possono basarsi su una nozione più sofisticata di moralità
basata sull’equità e il rispetto reciproco. Fu poi Kohlberg (1969) a sistematizzare in stadi successivi lo
sviluppo morale come una forma di sviluppo cognitivo (si veda glossario), fondando così la moderna
psicologia morale. Secondo questo studioso, i principi universali di giustizia costituiscono il culmine dello
sviluppo morale. In seguito, Gilligan (1982) notò che il concetto di giustizia non rendeva conto di tutte le
sfaccettature della moralità e propose di considerare “l’etica del prendersi cura” degli altri come un aspetto
dello sviluppo morale indipendente dall’ “etica della giustizia”. La psicologia dello sviluppo morale ha
quindi individuato due principali dimensioni della moralità: una riguarda il far male e la cura degli altri
(Gilligan), l’altra riguarda la giustizia e la reciprocità (Piaget).
Tuttavia, al di fuori delle civiltà occidentali, i temi legati alla lealtà e al rispetto verso collettività più ampie,
come la famiglia, il proprio gruppo, la comunità, o il proprio Paese, così come la purezza spirituale e
religiosa, sono spesso parti fondamentali del dominio morale. In base a queste osservazioni, Haidt e
collaboratori (Graham et al., 2013; Haidt & Graham, 2007) hanno elaborato la Teoria dei Fondamenti Morali
(si veda glossario), per cui “la moralità è un sistema di valori, virtù, norme, pratiche, identità, tecnologie,
istituzioni e meccanismi psicologici che lavorano insieme per sopprimere o regolare l’egoismo e rendere
possibile la vita sociale” (Haidt, 2008; p. 70). Secondo questa teoria esistono cinque fondamenti morali
innati e universali: 1) i comportamenti dannosi verso gli altri o la preoccupazione per le persone più deboli;
2) le idee di giustizia e rispetto dei diritti altrui; 3) la fedeltà o il tradimento del proprio gruppo; 4) il rispetto
verso l’autorità, l’ordine sociale e le tradizioni; 5) i valori di purezza, virtù e integrità sia spirituale che fisica.
Ricerche successive hanno mostrato che gruppi diversi, culture e nazioni diverse, così come persone con
ideologie diverse basano i propri valori morali su fondamenti diversi. Ad esempio, le persone con ideologie
liberali considerano più importanti i valori legati al danno/cura degli altri e all’uguaglianza, mentre i
conservatori basano i propri valori morali maggiormente sui principi di rispetto dell’autorità, lealtà verso il
proprio gruppo e purezza (Graham et al., 2011). Similmente, le culture orientali (ossia collettiviste)
valorizzano maggiormente i principi legati alla purezza e alla lealtà verso l’ingroup rispetto alle culture
occidentali (individualiste).
Ellemers e collaboratori (per una rassegna, vedi Ellemers, Pagliaro, & Barreto, 2013) hanno approfondito
questa questione studiando la moralità come dimensione fondamentale per la regolazione dei comportamenti
all’interno dei gruppi e per la valorizzazione dell’ingroup. Secondo questo approccio, la moralità si riferisce
a comportamenti corretti e appropriati verso gli altri, e può essere definita da tratti quali onestà, sincerità e
affidabilità. A sua volta, la moralità si contrappone alla socievolezza, intesa come l'abilità di formare
connessioni sociali con gli altri e definita da caratteristiche quali amichevole e piacevole, e alla competenza,
che riguarda l’efficacia e l’abilità delle persone di svolgere con successo determinati compiti (Leach,
Ellemers, & Barreto, 2007).
L'importanza di tali dimensioni è spiegata dal fatto che, per sopravvivere, le persone devono comprendere se
gli altri siano animati da buone o cattive intenzioni verso di loro, ossia se siano morali e socievoli, così come
se siano in grado di mettere in atto tali intenzioni, ossia se siano competenti (vedi anche Fiske, Cuddy,
&Glick, 2007). Tuttavia, numerosi studi hanno dimostrato che la moralità, rispetto a socievolezza e
competenza, è la dimensione predominante attraverso cui giudichiamo sia gli individui sia i gruppi. Infatti, le
persone si identificano maggiormente con gruppi che considerano morali e tendono ad allontanarsi dal
proprio gruppo quando questo è percepito come immorale (Leach et al., 2007). Questo accade poiché una
persona immorale appartenente al proprio gruppo è minacciosa per l’immagine e per il raggiungimento degli
obiettivi del gruppo stesso (Brambilla, Sacchi, Pagliaro, & Ellemers, 2013). La moralità è più importante di
competenza e socievolezza anche quando dobbiamo cercare informazioni o formarci un’impressione sugli

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altri (Brambilla, Sacchi, Rusconi, Cherubini, & Yzerbyt, 2011; Wojciszke, 2005). Ma cosa accade quando la
mancanza di moralità è espressa nei termini delle “parolacce” già indicate dai bambini di Piaget?
1.3 Il linguaggio degli insulti
Figura 2. “Insults!”
Foto di MauricioBalvanera, distribuita con licenza Creative Commons. http://www.flickr.com/photos/
maubrowncow/
Gli insulti rappresentano una pratica sociale relativamente frequente nelle interazioni tra persone, tesa a
rendere l’altro oggetto di disprezzo (van Oudenhoven et al., 2008), negando ciò che è a lui vicino e caro
(Semin & Rubini, 1990) e colpendolo nell’onore e nella reputazione (Rodriguez Mosquera, Manstead, &
Fischer, 2002). Se l’obiettivo dell’abuso verbale è in ogni caso quello di ferire le persone contro cui è diretto,
i termini utilizzati differiscono ovviamente per il contenuto a cui fanno riferimento, il significato e il grado in
cui sono effettivamente percepiti come un’offesa dalla persona che ne è oggetto. Già E. R. Leach (1964)
aveva individuato tre categorie principali di oscenità: le parole ‘sporche’, che includono i riferimenti al sesso
e agli escrementi, la blasfemi
a e i termini che equiparano un essere umano ad un animale.
Una tassonomia più articolata è stata in seguito proposta da Semin e Rubini (1990), che hanno distinto tra
insulti individualistici, insulti relazionali e imprecazioni. Il primo tipo di insulti fa riferimento alla negazione
di proprietà individuali ‘normali’ di tipo intellettivo (ad es., “stupido”) o fisico (“ciccione”), ma anche alla
messa in atto di comportamenti socialmente indesiderabili (“screanzato”). A questa categoria appartengono
anche gli insulti relativi a organi o attività sessuali (“vaffanculo”) e le offese che fanno ricorso a analogie tra
la persona e gli animali (“oca”). Mentre tutti questi epiteti sono centrati sull’individuo contro cui sono diretti,
gli insulti relazionali fanno riferimento alle persone a lui/lei vicine, ad esempio chiamando in causa relazioni
incestuose o sessuali con familiari (“figlio di troia”). In questa seconda categoria rientrano anche gli insulti
che coinvolgono i gruppi di appartenenza (“sporco ebreo”). Infine, l’ultima categoria comprende le
imprecazioni riguardanti le figure religiose e i termini che fanno genericamente riferimento a organi o atti
sessuali (“che palle”).
Come argomentato da Semin e Rubini (1990), l’analisi degli insulti rende possibile mettere in luce la diversa
costruzione culturale del concetto di persona – come individuo singolo o come membro di un gruppo – in
contesti culturali differenti. Infatti, gli autori hanno mostrato che nell’Italia del Sud, che rappresenta un
contesto a orientamento collettivista in cui il gruppo di appartenenza, i suoi obiettivi e le sue norme sono più
importanti rispetto a quelli dell’individuo (Hofstede, 1980; Triandis, 1988; vedi anche Schneider &
Schneider, 1976), la proporzione di insulti di tipo relazionale è maggiore che in Italia centrale o in Italia del
Nord. Viceversa, in Italia del Nord, caratterizzata da un orientamento culturale che valorizza l’individuo
rispetto al gruppo (Triandis, 1988), sono più numerosi gli insulti che implicano la negazione di proprietà
individuali. Sebbene in questo studio gli insulti siano principalmente distinti in base al fatto che si riferiscano
al singolo o alla sua rete di relazioni, i contenuti delle diverse sottocategorie lasciano intuire come essi
tocchino tutte le principali dimensioni di giudizio, mirando ad attaccare l’altro sul piano della moralità ma
anche delle abilità intellettuali e sociali.
Indicazioni in tal senso emergono anche da un più recente studio interculturale di van Oudenhoven et al.
(2008). Attraverso l’esame degli epiteti spontaneamente prodotti dalle persone di fronte ad alcune situazioni-
stimolo, gli autori hanno evidenziato che in diverse realtà nazionali gli insulti utilizzati, così come la
percezione del loro carattere offensivo, variano in modo consistente. In particolare, in culture collettiviste
come la Spagna e la Croazia sono molto diffusi gli insulti relativi alla famiglia ed alle relazioni sociali,
mentre in culture caratterizzate da alta mascolinità (ossia culture che enfatizzano i valori maschili
tradizionali come l’assertività e il successo, quali la Germania o l’Italia; Hofstede, 1980, 1991), risultano più
frequenti gli insulti relativi alla inadeguatezza sociale e all’incapacità sessuale maschile. Alcuni tipi di insulti
sono inoltre utilizzati in modo relativamente unico da specifiche culture: per esempio, i tedeschi utilizzano
molti epiteti relativi alla mancanza di pulizia/purezza, come “sporco maiale”, mentre i norvegesi sembrano
influenzati da paure di tipo religioso o pre-cristiano e usano insulti come “satana” o “diavolo.”
Figura 3. “Amnesty 20p books - 2”
Foto di Caroline (Caro’s lines), distribuita con licenza Creative Commons. http://www.flickr.com/photos/
caroslines/
E’ importante infine notare che alcune categorie di termini offensivi costituiscono un taboo in tutte le undici
nazioni esaminate da van Oudenhoven et al. (2008): gli epiteti relativi alla sessualità e quelli che chiamano in

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causa la mancanza di intelligenza. Guardando a questi risultati dal punto di vista delle teorizzazioni sul
giudizio sociale (Ellemers et al., 2013; Leach et al., 2007), è dunque possibile affermare che gli epiteti più
frequenti e diffusi riguardano da un lato la moralità, nella sua accezione di purezza sessuale (Haidt &
Graham, 2007), e dall’altro la competenza.
Una distinzione simile emerge anche dagli studi di Haslam, Loughnan e Sun (2011). Concentrandosi su una
particolare categoria di termini offensivi, ossia le metafore animali (cf. Loghnan & Haslam, 2007; Viki et al.,
2006), gli autori mostrano che le metafore percepite come più offensive sono quelle che implicano una
visione dell’altro come meno umano. In altre parole, l’uso di metafore animali è un mezzo per deumanizzare
l’altro. Questo avviene, secondo gli autori, sia attraverso metafore riguardanti depravazione e disgusto
morale, che fanno riferimento, ad esempio, ad animali quali serpenti o topi, sia mediante analogie con
animali meno “rivoltanti” e più vicini all’uomo nella scala evolutiva, come la scimmia, che enfatizzano la
degradazione della persona al livello intellettivo di un animale. Anche i risultati di Haslam et al. (2011),
dunque, suggeriscono che le due dimensioni principali attorno a cui ruota il linguaggio più offensivo e
deumanizzante siano la moralità e la competenza.
1.4 La negazione della moralità attraverso gli insulti
Figura 4. “Free personality test”
Foto di JesMugley, distribuita con licenza Creative Commons. http://www.flickr.com/photos/mugley/
La ricerca sul linguaggio dispregiativo lascia dunque intuire che le dimensioni di moralità e competenza
assumano un ruolo fondamentale anche quando le persone insultano gli altri o dicono ‘parolacce’. Questo
tema è stato specificatamente indagato da Rubini e Albarello (2011, 2012). In un primo studio, per ottenere
un inventario di termini offensivi, le autrici hanno chiesto a un campione di studenti universitari di generare
il più alto numero possibile di insulti pensando a diverse situazioni in cui potrebbero essere utilizzati. Due
giudici indipendenti (si veda glossario) hanno quindi condotto un’analisi del contenuto dei quasi 3000 epiteti
prodotti al fine di distinguere alcune categorie ricorrenti. In questo modo, sono stati individuati insulti
concernenti la mancanza di competenza intellettuale (“idiota”), di capacità sociali (“asociale”) e di moralità
(“disonesto”).
A conferma del maggior peso della moralità nel giudizio sociale, uno studio successivo di Rubini e Albarello
(2012) ha evidenziato che gli insulti di tipo morale sono nel complesso percepiti come più severi, seguiti da
quelli di competenza e infine di socievolezza. Anche in questo studio, è emersa una differenziazione di
genere, dovuta tuttavia al target a cui sono indirizzati gli insulti: quando il target è un uomo, infatti, gli insulti
di moralità sono percepiti come più gravi rispetto a quelli relativi alle altre due categorie, mentre i termini
denotanti assenza di moralità e di competenza sono risultati ugualmente offensivi quando il target è
femminile. In linea con la letteratura sul primato della moralità nel giudizio sociale (Ellemers et al., 2013), i
risultati ottenuti da Rubini e Albarello (2011) mostrano come gli epiteti relativi alla mancanza di moralità
siano in generale i più frequenti, seguiti da quelli concernenti le capacità intellettive, mentre gli insulti
centrati sulla mancanza di socievolezza sono meno citati. E’ importante notare, inoltre, che gli insulti relativi
alla mancanza di moralità risultano i più articolati, in quanto fanno riferimento a diversi tipi di
comportamento attribuiti al target degli insulti stessi o a persone a lui vicine. Nello specifico, Rubini e
Albarello (2011) hanno distinto tra insulti relativi alla moralità sessuale (“troia”), insulti che riflettono
un’attribuzione di caratteristiche sessuali (“testa di cazzo”), epiteti che mettono in discussione la moralità
delle persone vicine al target (“figlio di puttana”) e insulti che accusano il target di appartenere a un gruppo
sociale valutato negativamente (“fascista”). Infine, un’ulteriore categoria riguarda la mancanza di moralità in
ambito “pubblico” (“traditore”). Considerando queste sotto-dimensioni di moralità, i termini più frequenti
sono quelli relativi alla moralità sessuale ed all’attribuzione di caratteristiche sessuali, seguiti dagli insulti
centrati sulla moralità pubblica. Rubini e Albarello (2011) riportano inoltre alcune differenze di genere,
dovute al maggiore uso di insulti di tipo morale e legati alla sessualità da parte dei maschi.
Nel complesso, gli studi di Rubini e Albarello (2011, 2012) dimostrano come il linguaggio costituisca un
mezzo privilegiato per la trasmissione di giudizi sociali sulle tre dimensioni fondamentali individuate in
letteratura – moralità, socievolezza e competenza (Leach et al., 2007; vedi anche Fiske et al., 2002) –
evidenziando allo stesso tempo il ruolo primario della dimensione di moralità nella svalutazione dell’altro.
Inoltre, questi studi mettono in luce l’importanza di adottare un approccio multidimensionale allo studio
della moralità. Gli insulti che Rubini e Albarello (2011) hanno classificato come appartenenti alla categoria
di moralità pubblica sembrano richiamare, nel contenuto, la concettualizzazione di moralità relativa alla
relazione tra individuo e gruppo proposta da Leach et al. (2007). Tuttavia, l’analisi del linguaggio

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dispregiativo mostra chiaramente come attraverso gli insulti le persone tendano a ferire l’altro soprattutto
chiamando in causa altre componenti di moralità, ed in particolare quella che Haidt e Graham ( 2007)
definiscono “purezza” o “santità”. A questo proposito, è possibile affermare che i dati di Rubini e Albarello
(2011) sono in linea con quanto riscontrato nella ricerca interculturale di van Oudenhoven et al. (2008) circa
la pervasività e la connotazione di taboo proprie dei termini dispregiativi di tipo sessuale. Ulteriori ricerche
focalizzate sui contesti di utilizzo di diversi tipi di insulti – attraverso la considerazione di fattori quali il
genere del parlante e del target degli epiteti, la loro appartenenza di gruppo, ecc. – permetteranno da un lato
di specificare ulteriormente le dimensioni di giudizio utilizzate nel linguaggio dispregiativo, dall’altro di
approfondire le implicazioni psicologiche del linguaggio dispregiativo e la sua funzione nella regolazione dei
rapporti tra le persone.

2 Sintesi dell’articolo
2.1 La psicologia morale
Significato e funzioni del comportamento prosociale
1)Il comportamento prosociale, classicamente inteso, riguarda «azioni dirette ad aiutare o beneficiare
un’altra persona o gruppo di persone».
2) Studi hanno dimostrato come la capacità di aiutarsi e di operare per la collettività siano maggiormente
funzionali non solo per il singolo individuo, ma per la stessa sopravvivenza della specie.
3) Orientare i membri della società verso comportamenti socialmente adeguati (piuttosto che avversare quelli
inadeguati), è stato dimostrato essere più utile ad attivare strategie idonee a prevenire atti di violenza e di
aggressività.
Sviluppo morale e dimensioni della moralità
4) La questione di cosa sia morale o immorale, della divisione tra bene e male, tra giusto e sbagliato è stata al
centro del pensiero filosofico occidentale fin dalle sue origini.
5) In psicologia è stato Piaget (1932) a parlare per primo di “sviluppo morale” nel bambino, evidenziando
come la capacità di discernere fra giusto e sbagliato nascerebbe tra gli 8 ed i 10 anni con lo sviluppo del
gioco cooperativo, quando, cioè, il bambino impara a mettersi nei panni degli altri.
6) La psicologia dello sviluppo morale ha individuato due principali dimensioni della moralità: una riguarda
il far male e la cura degli altri (Gilligan), l’altra riguarda la giustizia e la reciprocità (Piaget).
Valori morali e cultura
7) Gruppi diversi, culture e nazioni diverse, così come persone con ideologie diverse, basano i propri valori
morali su fondamenti diversi.
8) Le persone con ideologie liberali considerano più importanti i valori legati al danno/cura degli altri e
all’uguaglianza, mentre i conservatori basano i propri valori morali maggiormente sui principi di rispetto
dell’autorità, lealtà verso il proprio gruppo e purezza (Graham et al., 2011). Similmente, le culture orientali
(ossia collettiviste) valorizzano maggiormente i principi legati alla purezza e alla lealtà verso l’ingroup
rispetto alle culture occidentali (individualiste).
Moralità, socievolezza e competenza
9) La moralità, intesa come volontà individuale e privata del bene si contrappone alla socievolezza, intesa
come l'abilità di formare connessioni sociali con gli altri e definita da caratteristiche quali amichevole e
piacevole, e alla competenza, che riguarda l’efficacia e l’abilità delle persone di svolgere con successo
determinati compiti.
10) Numerosi studi hanno dimostrato che la moralità, rispetto a socievolezza e competenza, è la dimensione
predominante attraverso cui giudichiamo sia gli individui sia i gruppi.
11) Per sopravvivere, le persone devono comprendere se gli altri siano animati da buone o cattive intenzioni
verso di loro, ossia se siano morali e socievoli, così come se siano in grado di mettere in atto tali intenzioni,
ossia se siano competenti.
2.2 Il linguaggio degli insulti
Gli insulti
12) Gli insulti rappresentano una pratica sociale relativamente frequente nelle interazioni tra persone, tesa a
rendere l’altro oggetto di disprezzo, negando ciò che è a lui vicino e caro e colpendolo nell’onore e nella
reputazione.

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13) Semin e Rubini (1990) hanno distinto tra insulti individualistici, insulti relazionali e imprecazioni. Gli
insulti relazionali fanno riferimento alle persone vicine all’individuo insultato e al suo gruppo di
appartenenza.
14) Nell’Italia del Sud, che rappresenta un contesto a orientamento collettivista in cui il gruppo di
appartenenza, i suoi obiettivi e le sue norme sono più importanti rispetto a quelli dell’individuo, la
proporzione di insulti di tipo relazionale è maggiore che in Italia centrale o in Italia del Nord.
15) Rispetto, invece, ai contenuti degli insulti, in culture collettiviste, come la Spagna e la Croazia, sono
molto diffusi gli insulti relativi alla famiglia ed alle relazioni sociali, mentre in culture caratterizzate da alta
mascolinità (ossia culture che enfatizzano i valori maschili tradizionali come l’assertività e il successo, quali
la Germania o l’Italia, risultano più frequenti gli insulti relativi alla inadeguatezza sociale e all’incapacità
sessuale maschile.
16) Gli epiteti più frequenti e diffusi riguardano da un lato la moralità, nella sua accezione di purezza
sessuale e dall’altro la competenza. Le metafore percepite come più offensive sono quelle che implicano una
visione dell’altro come meno umano.
2.3 La negazione della moralità attraverso gli insulti
Studi di Rubini e Albarello
17) Gli studi di Rubini e Albarello (2011, 2012) dimostrano come il linguaggio costituisca un mezzo
privilegiato per la trasmissione di giudizi sociali sulle tre dimensioni fondamentali individuate in letteratura
– moralità, socievolezza e competenza, evidenziando il ruolo primario della dimensione di moralità nella
svalutazione dell’altro.
Gli autori hanno, inoltre, evidenziato che gli insulti di tipo morale sono nel complesso percepiti come più
severi, seguiti da quelli di competenza e infine di socievolezza.
Riportano, infine, alcune differenze di genere, dovute al maggiore uso di insulti di tipo morale e legati alla
sessualità da parte dei maschi.

3 Glossario
Giudici indipendenti. Persone esperte sul tema oggetto di indagine e all’oscuro delle ipotesi di ricerca e
delle condizioni sperimentali, la cui attività consiste nel codificare o valutare le risposte dei partecipanti ad
un determinato compito.
Sviluppo cognitivo. Riguarda il modo in cui si sviluppano le capacità del bambino di pensare e comprendere
il mondo fisico e sociale. Sviluppo morale. Riguarda la nascita e lo sviluppo del concetto di moralità
dall’infanzia all’età adulta.
Teoria dei Fondamenti Morali. Secondo questa teoria i valori morali si basano su fondamenti innati e
universali, che però rivestono un’importanza diversa in culture diverse. La teoria riconosce cinque principali
fondamenti che riguardano: Prendersi cura vs. Fare del male, Onestà vs. Disonestà; Lealtà vs. Tradimento;
Autorità vs. Sovversione; Santità vs. Degradazione.

“PERCEPIRE GLI ALTRI: IL RUOLO FONDAMENTALE DI CALORE E COMPETENZA” :

1 Introduzione
Nella lezione sul “Sé cognitivo in relazione” abbiamo affrontato il tema di quanto sia importante l’influenza
esercitata dagli altri sul pensiero e sul comportamento del singolo individuo. Gli studi di Psicologia Sociale
dimostrano, infatti, che i nostri pensieri e le nostre percezioni riguardo agli altri, a noi stessi ed alla società
nel suo complesso, anche se non necessariamente riflettono la realtà con esattezza, ci guidano, comunque, a
crearla. Le nostre azioni sarebbero, dunque, guidate dalle nostre convinzioni che abbiamo imparato a
formarci sugli altri e noi stessi, veritiere o meno che siano.
Abbiamo, inoltre, visto che l’insieme organizzato delle nostre informazioni e percezioni su un evento o una
persona qualsiasi prende il nome di “schema”. Gli schemi sono strutture cognitive attraverso cui vengono
organizzate le conoscenze sociali in memoria e costituiscono i filtri attraverso cui “leggiamo” noi stessi ed il
mondo, guidandoci nella comprensione della realtà, nelle scelte e nei comportamenti.

2 Percepire gli altri


Percepire gli Altri: Il Ruolo Fondamentale di Calore e Competenza

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Tratto dalla Rivista online INQUISITIVE MIND Italia www.in-mind.org
Scritto da Federica Durante
Comprendere ciò che ci circonda risulta essere fondamentale per la sopravvivenza di noi esseri umani. Tutti
i giorni ci troviamo, infatti, di fronte alla necessità di prendere decisioni, di fare scelte, di rispondere e
comportarci in maniera adeguata alle situazioni nelle quali ci troviamo: il tutto in un ragionevole lasso di
tempo. Tuttavia, l’essere umano non è una macchina perfetta e il mondo, in particolare quello sociale, è
estremamente complesso. Per tale ragione, la mente umana ha avuto la necessità di escogitare alcune
strategie per riuscire a dare un senso all’ambiente sociale che lo circondava.
Questo articolo si pone, dunque, come obiettivo, quello di analizzare, attraverso studi recentissimi, quali
“scorciatoie” la mente utilizza per percepire gli altri individui, ovvero, su quali caratteristiche si basa la
“percezione sociale” (si veda glossario).
Figura 1. "Solution" by Salvatore Vuono. Image courtesy of Salvatore Buono /FreeDigitalPhotos.net
Provate a pensare a tutte le volte che avete incontrato una persona per la prima volta. Probabilmente, una
delle prime cose che avete tentato di fare è inquadrare che tipo fosse. Come sottolineato da Susan Fiske
(2012), dal punto di vista evoluzionistico è utile potersi formare un giudizio sociale in tempi rapidi. Le
persone hanno bisogno di capire chi avvicinare e chi evitare a seconda dei propri scopi. Quali sono dunque
gli aspetti ai quali prestiamo maggiormente attenzione per poter arrivare a tale giudizio? La ricerca in
psicologia sociale ne indica due: Calore e competenza. Con calore si intendono tutti quegli aspetti di una
persona che rispecchiano amichevolezza, socievolezza, sincerità, buone intenzioni, fiducia. La competenza si
esprime invece nei termini di intelligenza, abilità, capacità, creatività, efficacia. Secondo Fiske e
collaboratori (Fiske, Cuddy, Glick, & Xu, 2002) calore e competenza sono dimensioni fondamentali del
giudizio sociale poiché rispondono a due domande fondamentali che ci si pone quando si entra in interazione
con persone sconosciute: È un amico o un nemico? (calore); è in grado di danneggiarmi? (competenza). In
altre parole, ci interessa comprendere le buone o cattive intenzioni di chi ci sta di fronte e la sua capacità di
metterle in atto.
Queste due dimensioni, sebbene indicate con nomi diversi, ricorrono in più di mezzo secolo di ricerca in
psicologia. Già nel 1946 Solomon Asch, nel suo pionieristico studio volto ad indagare la formazione delle
impressioni, dimostrava come descrivere un’ipotetica persona come “calorosa” o “fredda” (mantenendo
costanti una serie di altre caratteristiche) influenzasse l’impressione che di tale persona i partecipanti si
sarebbero formati. Successivamente, Rosenberg e collaboratori (Rosenberg, Nelson, & Vivekanathan, 1968),
esaminando i punteggi attribuiti a descrizioni di personalità, evidenziavano due dimensioni fondamentali:
Intellettuale buono/cattivo (competenza) versus sociale buono/cattivo (calore). Altri autori hanno parlato di
agency versus communion (Bakan, 1966), di tratti vantaggiosi per il sé (sicuro di sé, ambizioso, pratico,
intelligente) versus tratti vantaggiosi per gli altri (conciliante, tollerante, affidabile; Peeters & Czapinsky,
1990), di competenza versus moralità1 (Wojciszke, 1994, 2005).
1 A volte calore e moralità sono trattate come costrutti distinti (per un approfondimento si veda Leach,
Ellemers, & Barreto, 2007), oppure moralità e socialità vengono considerate come due sotto-componenti
della dimensione calore (per un approfondimento si veda Brambilla, Rusconi, Sacchi, & Cherubini, 2011). In
linea con i lavori di Fiske e collaboratori, qui si considera il calore come un unico costrutto, più ampio,
relativo alle interazioni sociali.
Qualunque sia l’etichetta, calore e competenza sono considerate le due dimensioni fondamentali del giudizio
sociale (Fiske, Cuddy, & Glick, 2007), attorno alle quali si organizza la percezione sociale di singoli
individui, gruppi (etnici, religiosi, di genere), intere nazioni e addirittura marchi di prodotti e servizi.
2.1 Calore e Competenza nella percezione degli individui
A questo punto molti lettori staranno pensando a quanti altri tratti, non riconducibili a calore e competenza,
utilizzino solitamente per descrivere le persone che incontrano. È sicuramente vero, ma nessuno di questi
influenza le impressioni che ci formiamo degli altri tanto quanto calore e competenza. La ricerca empirica ha
infatti mostrato che queste due dimensioni insieme determinano oltre l’80% delle impressioni positive o
negative (Wojciszke, 1994; Wojciszke, Bazinska, & Jaworski, 1998).
Inoltre, tali dimensioni sembrano essere rilevanti in tutte le culture. Ybarra e colleghi (2008) hanno chiesto a
dei valutatori di classificare sulla base di calore (communion) e competenza (agency) le “pratiche universali”
di Brown (1991), ovvero un elenco di 372 pratiche osservate da numerosi antropologi in una grande varietà
di culture in tutto il mondo (ad es., pratiche universali per communion: Stabilire relazioni tra sé e gli altri,
generosità, empatia; per agency: Mappe mentali, memoria, pratiche per migliorare le proprie abilità). I

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risultati mostrano che la maggioranza delle pratiche universali (66%) viene classificata come legata a una
dimensione o all’altra o ad entrambe.
Ma cosa vuol dire giudicare un individuo come caloroso e/o competente? La dimensione del calore si lega a
quanto ci piace la persona che stiamo valutando, mentre la competenza si lega al rispetto verso tale target
(Wojciszke, Abele, & Baryla, 2009). Quindi, un individuo percepito come caloroso piace, mentre uno
percepito come freddo è antipatico; se è percepito come competente è rispettato, ma non lo è se percepito
come incompetente. Combinando le due dimensioni possiamo dunque provare verso un target simpatia e
rispetto, antipatia e mancanza di rispetto, oppure un individuo può piacerci ma non godere del nostro
rispetto, così come lo si può rispettare pur giudicandolo antipatico.
Figura 2. Fotogramma tratto dal film Mr. Arkadin (1955)
Tuttavia, è importante sottolineare che il calore sembra giocare un ruolo più centrale nella percezione
sociale. È stato infatti dimostrato che gli osservatori interpretano il comportamento altrui più nei termini di
calore che di competenza (Wojciszke, 1994), che il calore è più importante quando si valuta il
comportamento degli altri (Abele & Wojciszke, 2007), che le persone percepiscono il calore di qualcuno più
rapidamente rispetto alla competenza e che ciò avviene in una frazione di secondo (Willis & Todorov, 2006).
Questa centralità del calore rispetto alla competenza è stata spiegata principalmente come funzionale: capire
se le intenzioni di una persona sono buone o cattive è prioritario rispetto a comprenderne la capacità di
metterle in atto. Per tale ragione, Cuddy, Kohut e Neffinger (2013) hanno recentemente sottolineato come il
canale migliore per esercitare influenza sugli altri sia proprio il calore in quanto, facilitando la fiducia,
facilita la comunicazione e l’assorbimento delle idee, e aiuta dunque a connettersi con chi ti circonda.
Ciò nonostante, anche la persona da valutare e la situazione nella quale ci troviamo incidono sulla prevalenza
di una o dell’altra dimensione. Per esempio, nella valutazione di noi stessi, gli aspetti relativi alla
competenza sono più rilevanti e Wojciszke (2005) suggerisce che quanto più il target da valutare è vicino al
sé, tanto più la valutazione sulle due dimensioni sarà simile alla percezione di sé: La competenza diventa più
rilevante rispetto al calore (Abele & Wojciszke, 2007). Le ricerche mostrano infatti che il calore è la
dimensione più importante quando si valutano persone distanti da noi, ma che tale pattern è invertito quando
valutiamo noi stessi o persone molto vicine al nostro sé2 (Wojciszke & Abele, 2008; cfr. Brambilla, Sacchi,
Castellini, & Riva, 2010 sul ruolo di competenza e calore nella valutazione di diversi tipi di professionisti).
2 Dal punto di vista evoluzionistico o socio-funzionale, le persone sono interessate ad un efficace
perseguimento dei propri obiettivi e a relazioni benevole con gli altri (Abele & Wojciszke, 2007).
Riprendendo la formulazione di Peeters & Czapinsky (1990), Wojciszke e Abele (2008) sottolineano come
Communion (calore) sia una dimensione “vantaggiosa per gli altri” poiché altre persone (ad esempio, i
destinatari delle azioni) beneficiano direttamente di caratteristiche quali gentilezza, disponibilità, onestà,
mentre sono danneggiate dalle caratteristiche opposte. Nella stessa ottica, Agency (competenza) rispecchia
qualità vantaggiose per il sé perché sono immediatamente gratificanti per la persona che agisce. Quando si
osserva il comportamento degli altri ci si focalizza sulle conseguenze di tale comportamento (può
danneggiarmi?); in tal senso, si assume la prospettiva di chi riceve l’azione ed è per tale ragione che la
dimensione del calore è più centrale rispetto alla competenza. Tuttavia, volendo entrare nel merito di chi
siano gli “altri,” Wojciszke e Abele (2008) sottolineano come costoro possano essere legati al sé in modo
diverso (vicino versus lontano): quanto più una persona è vicina al sé o interdipendente con il sé, tanto più la
sua valutazione sulle due dimensioni assomiglierà alla percezione di sé. L’interdipendenza sociale emerge
quando le persone condividono obiettivi comuni e quando i risultati di ciascuno sono influenzati dalle azioni
degli altri (Rusbult & van Lange, 2003). È frequente nelle relazioni strette, nel lavoro e nelle attività sportive
di squadra, o quando una persona svolge una funzione strumentale per un altro (ad es., cliente-avvocato o
paziente-medico). In tali contesti, la competenza di una persona può diventare vitale per il raggiungimento
degli obiettivi di un individuo tanto quanto la competenza dell’individuo stesso. E' in questi casi che la
competenza diviene più centrale rispetto al calore (Wojciszke & Abele, 2008).
2.2 Calore e Competenza nella percezione dei gruppi
Comprendere le intenzioni degli altri e la loro abilità nel perseguirle è un compito rilevante anche quando ci
si deve formare un’opinione di gruppi sociali. Un nemico incompetente risulta meno minaccioso di uno
competente, e un alleato incapace offre meno vantaggi rispetto ad alleati abili e preparati. Per tale ragione
calore e competenza appaiono con sistematica regolarità anche nei giudizi relativi ai gruppi sociali e sono
considerate le dimensioni attorno alle quali si organizza il contenuto degli stereotipi (Fiske et al., 2002; si
veda glossario). Combinando le due dimensioni si può ottenere una mappa degli stereotipi associati ai gruppi

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sociali. Numerosi studi condotti nell’ambito del Modello del Contenuto degli Stereotipi (SCM; Fiske et al.,
2002) hanno evidenziato che gli stereotipi sociali solitamente si distribuiscono in quattro raggruppamenti (o
cluster, si veda glossario): I gruppi ai quali si appartiene (ingroup) vengono generalmente valutati
positivamente su entrambe le dimensioni, quelli di cui non si è membri, gli outgroup, possono invece essere
oggetto di valutazioni negative su entrambe le dimensioni, oppure di valutazioni miste (o ambivalenti), vale
a dire calorosi ma non competenti, competenti ma non calorosi. Per cui, per esempio, quando a un gruppo di
studenti italiani viene chiesto di valutare i gruppi sociali presenti in Italia nei termini di calore e competenza,
si trova che il gruppo “studenti” viene valutato come caloroso e competente (ingroup), i politici come privi di
calore e incompetenti, gli anziani come calorosi ma poco competenti e i mafiosi come capaci ma
decisamente non calorosi (Durante, 2008).
Studi cross-culturali condotti in 25 paesi nei cinque continenti hanno corroborato il ruolo giocato dalle due
dimensioni nel formare il contenuto degli stereotipi sociali, mostrando inoltre, con qualche eccezione, la
presenza dei cluster sopra indicati (Cuddy et al., 2009; Durante et al., 2013). Anche se in ogni paese i
partecipanti valutavano i propri gruppi sociali, è interessante notare come alcuni di essi, comuni alla maggior
parte delle società, siano stati valutati in modo analogo. Gli immigrati, ad esempio, sono costantemente
percepiti come non competenti e freddi; gli anziani, i bambini e i disabili come non competenti ma calorosi;
i ricchi, al contrario, come capaci ma freddi.
Indagini condotte su dati d’archivio hanno rilevato la presenza di tali dimensioni anche nelle descrizioni dei
gruppi in epoca fascista (Durante, Volpato, & Fiske, 2010; Volpato, Durante, & Cantone, 2007). Le analisi
del contenuto, effettuate su articoli pubblicati sulla rivista fascista La Difesa della Razza, hanno evidenziato
una descrizione dell’ingroup (gli italiani) come dotato di caratteristiche positive sia per ciò che concerne la
competenza (intelligenti, lavoratori, portatori di civiltà) che per il calore (allegri, artisti, con doti sociali
positive), e descrizioni degli outgroup come interamente negative su entrambe le dimensioni (ad es., stupidi
e disonesti per ciò che concerne neri e meticci) o ambivalenti (ad es., capaci e astuti, ma pericolosi e avidi
per ciò che concerne ebrei e inglesi).
Competenza e calore si ritrovano anche nel modo in cui percepiamo intere nazioni. Cuddy et al. (2009)
hanno indagato come gli europei percepiscono i diversi paesi dell’Unione Europea e i risultati hanno
mostrato come la Germania, ad esempio, sia considerata competente, ma fredda, mentre il Portogallo come
caloroso ma poco competente.
Recentemente, calore e competenza sono stati addirittura utilizzati per indagare la percezione che gli
individui hanno di marchi di prodotti e servizi. Poiché un numero sempre crescente di ricerche suggerisce
che i consumatori si relazionano con i marchi in modi analoghi a come si relazionano con le persone,
Kervyn, Fiske e Malone (2012) hanno proposto un nuovo modello (Brands as Intentional Agents
Framework; BIAF) per indagare la percezione che i consumatori hanno di alcuni marchi nei termini di
percezione sociale. Invece di utilizzare tratti di personalità come caloroso e competente, le due dimensioni
sono state indicate con “intenzioni” e “capacità,” quindi una serie di aziende sono state valutate sulla base
delle loro buone o cattive intenzioni e capacità di realizzarle. Il BIAF comprende anche emozioni e
comportamenti, ma in questa sede ci concentreremo solo sui risultati concernenti le due dimensioni. I dati
hanno mostrato che 16 marchi noti ai consumatori si sono distribuiti similmente a come si distribuiscono i
gruppi nella mappa di competenza e calore. I quattro marchi più popolari (ad es., Johnson & Johnson) si
sono raggruppati nel cluster ‘ben intenzionato’ (calore) e ‘capace’ (competenza); i quattro marchi di lusso (ad
es., Rolex) sono finiti invece nel raggruppamento ‘cattive intenzioni ma capace’; i quattro marchi che
necessitano di finanziamenti pubblici (ad es., Public Transportation) sono stati valutati come ‘ben
intenzionati ma incapaci’; infine, nel cluster ‘malintenzionati e incapaci’ sono finiti i marchi problematici,
ovvero, marchi che hanno ricevuto una stampa negativa nel recente passato (ad es., AIG, una società di
assicurazione statunitense).
Come per la percezione di singoli individui, anche la percezione dei gruppi risente del contesto nel quale la
valutazione avviene. I primi lavori concernenti la percezione delle persone evidenziavano che quando una
persona veniva valutata positivamente su una dimensione, veniva valutata positivamente anche sull’altra (un
fenomeno noto in psicologia sociale come effetto alone; Rosenberg et al., 1968). Tuttavia, come sottolineato
da Judd, James-Hawkins, Yzerbyt e Kashima (2005), in queste ricerche i target venivano valutati uno alla
volta. Invece, esprimere valutazioni in contesti comparativi fa emergere un fenomeno diverso, noto come
processo di compensazione (Judd et al., 2005). In altre parole, percepire un gruppo (o un individuo) come
migliore di un altro su una delle due dimensioni porta a compensare tale valutazione sull’altra dimensione:

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dunque, un gruppo può essere caloroso o competente, ma non entrambe le cose. Secondo gli autori, quando
due gruppi (o individui) vengono messi a confronto, l’idea che ci debbano essere buone qualità in tutti è ciò
che sottende tale compensazione (vedi Kervyn, Yzerbyt, & Judd, 2010, per una rassegna).
2.3 Come si legano calore e competenza a pregiudizio e discriminazione?
Combinazioni diverse di calore e competenza elicitano anche emozioni diverse. Come già detto, calore e
competenza si legano a quanto ci piace e rispettiamo un determinato target. Così, un gruppo valutato
positivamente su entrambe le dimensioni suscita in noi sentimenti di ammirazione e orgoglio (soprattutto se
si tratta dell’ingroup), ma gruppi stereotipizzati in modo negativo su entrambe le dimensioni suscitano
disprezzo e disgusto (Fiske et al., 2002), e possono arrivare ad essere valutati come meno umani rispetto ad
altri gruppi (Harris & Fiske, 2006).
Come detto, però, molte categorie sociali ricevono valutazioni miste, e i gruppi valutati come calorosi ma
non competenti solitamente sono visti in modo benevolo perché inoffensivi, elicitando sentimenti di pietà e
compassione. Al contrario, gruppi percepiti come competenti ma privi di calore sono rispettati per la loro
competenza ma temuti per l’assenza di calore, suscitando sentimenti di invidia e gelosia. Il contenuto degli
stereotipi unito alle emozioni dà luogo a diverse forme di pregiudizio (si veda glossario): Pregiudizio di
ammirazione, di disprezzo, paternalistico e invidioso (Fiske et al., 2002).
Probabilmente sarete sorpresi dall’apprendere che possano esistere pregiudizi “positivi,” mentre non vi sarà
difficile comprendere i pregiudizi “negativi.” Ma come considerare quelli ambivalenti? Apparentemente,
stereotipizzare un gruppo attribuendogli caratteristiche positive su una delle due dimensioni non sembra
tanto biasimevole. Due esempi storici estremi ci aiuteranno a comprenderne invece l’insidiosità.
La schiavitù è ritenuta l’esempio emblematico del pregiudizio paternalistico: Generalmente considerati
stupidi, gli schiavi venivano trattati come fossero animali verso i quali non si provava rispetto ma, finché si
conformavano al ruolo loro assegnato, venivano guardati con pietà. In questo tipo di sistema, la vicinanza
fisica ed emozionale poteva essere comune tra i dominanti e i subordinati (si pensi alle balie di colore che
allevavano i ragazzi bianchi), ma caratterizzare questi ultimi come incapaci, stupidi e incompetenti favoriva
il mantenimento del sistema e serviva come giustificazione dello stesso, riducendo anche la resistenza del
gruppo subordinato ad essere sfruttato (Jackman, 1994).
L’antisemitismo, invece, è l’esempio estremo del pregiudizio di invidia. La propaganda nazista e fascista
ritraeva gli ebrei come particolarmente competenti, astuti e scaltri (cfr. Capozza & Volpato, 2004; Durante et
al., 2010). La loro competenza, unita alla percezione di intenzioni malevole, li rendeva però un nemico
particolarmente temuto e le attribuzioni concernenti la mancanza di calore giustificavano la paura e
l’insicurezza provata. Questo tipo di stereotipi serve a giustificare le forme più dure di discriminazione e
violenza (ad es., il genocidio), che vengono considerate come forme di autodifesa (Glick, 2005; Glick &
Fiske, 2001).
Come detto, sono esempi estremi. Ciò che è importante sottolineare, tuttavia, è che dire che gli ebrei sono
bravi col denaro, gli asiatici con la matematica, o che i neri “hanno il ritmo nel sangue” non è fare un
complimento. Uno degli elementi più insidiosi degli stereotipi ambivalenti consiste proprio nel fatto che gli
aspetti positivi dello stereotipo mascherano quelli negativi ed è ciò che riduce le resistenze dei gruppi
stereotipizzati: I membri di tali gruppi sentono di essere socialmente apprezzati in un modo o in un altro
(calore o competenza) e ciò probabilmente scoraggia i tentativi di cambiamento dello status quo. Quello che
gli stereotipi ambivalenti offrono è l’illusione che tutti posseggano qualcosa di positivo, sebbene severe
disparità socio-economiche e di trattamento permangano tra i gruppi sociali (cfr. Durante et al., 2013).
2.4 Conclusione
Questo articolo evidenzia quanto e come calore e competenza, due tratti umani apparentemente universali,
guidino la nostra percezione degli altri. La coerenza e persistenza con la quale queste dimensioni emergono
negli studi psicosociali suggerisce che esse svolgano un ruolo nella sopravvivenza degli esseri umani. Se
qualcuno entra nel nostro ufficio, si avvicina in un vicolo buio, si siede accanto a noi in autobus, abbiamo
bisogno di capire il prima possibile se questo individuo può essere una minaccia e se è in grado di mettere in
atto le proprie intenzioni. Le nostre percezioni sul calore e la competenza di quell’individuo rispondono a tali
necessità e sono pertanto considerate aspetti duraturi, fondamentali ed evoluti della percezione sociale. Sia
che ci si situi a livello individuale (sé versus altri; attore versus osservatore) che a livello intergruppi
(ingroup versus outgroup), calore e competenza organizzano e informano ciò che altrimenti potrebbe
sembrare una miscellanea arbitraria e travolgente di immagini di persone. Inoltre, a livello di gruppo,

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particolari combinazioni delle due dimensioni hanno distinti pattern emotivi e comportamentali, che possono
mettere in pericolo relazioni costruttive.
Concludendo, che si stia valutando il nostro vicino di casa o un gruppo sociale particolarmente saliente, le
percezioni di calore e competenza incideranno sul nostro futuro individuale e collettivo.

3 Sintesi
3.1 La percezione sociale
1. I nostri pensieri e le nostre percezioni riguardo agli altri, a noi stessi ed alla società nel suo complesso,
anche se non necessariamente riflettono la realtà con esattezza, ci guidano, comunque, a crearla.

2. L’insieme organizzato delle nostre informazioni e percezioni su un evento o una persona qualsiasi prende
il nome di “schema”. Gli schemi sono strutture cognitive attraverso cui vengono organizzate le conoscenze
sociali in memoria e costituiscono i filtri attraverso cui “leggiamo” noi stessi ed il mondo, guidandoci nella
comprensione della realtà, nelle scelte e nei comportamenti.

3. Comprendere ciò che ci circonda risulta essere fondamentale per la sopravvivenza; dal punto di vista
evoluzionistico è utile, dunque, potersi formare un giudizio sociale in tempi rapidi, escogitando alcune
strategie per riuscire a dare un senso all’ambiente sociale nel minor tempo possibile.

3.2 Dimensioni fondamentali del giudizio sociale


4. La ricerca in Psicologia Sociale individua in calore e competenza gli aspetti fondamentali che ci
permettono di orientarci nel giudicare la realtà che ci circonda. Con calore si intendono tutti quegli aspetti di
una persona che rispecchiano amichevolezza, socievolezza, sincerità, buone intenzioni, fiducia. La
competenza si esprime, invece, nei termini di intelligenza, abilità, capacità, creatività ed efficacia. Ciò che ci
interessa comprendere, dunque, sono le buone o cattive intenzioni di chi ci sta di fronte e la sua capacità di
metterle in atto.

5. La ricerca empirica ha mostrato che queste due dimensioni, insieme, determinerebbero oltre l’80% delle
impressioni positive o negative del sociale; inoltre, tali dimensioni sembrerebbero essere rilevanti in tutte le
culture.

6. Rispetto alla dimensione “competenza”, il “calore” sembra giocare un ruolo più centrale nella percezione
sociale. È stato, infatti, dimostrato che gli osservatori interpretano il comportamento altrui più nei termini di
calore che di competenza (Wojciszke, 1994), che il calore è più importante quando si valuta il
comportamento degli altri (Abele & Wojciszke, 2007), che le persone percepiscono il calore di qualcuno più
rapidamente rispetto alla competenza e che ciò avviene in una frazione di secondo.

7. Capire se le intenzioni di una persona sono buone o cattive è prioritario rispetto a comprenderne la
capacità di metterle in atto facilitando la fiducia, facilita la comunicazione e l’assorbimento delle idee, e
aiuta dunque a connettersi con chi ti circonda.

8. Nella valutazione di noi stessi, invece, gli aspetti relativi alla competenza risulterebbero più rilevanti;
quanto più il target da valutare è vicino al sé, tanto più la valutazione sulle due dimensioni sarà simile alla
percezione di sé. Il calore risulterebbe, quindi, la dimensione più importante quando si valutano persone
distanti da noi, ma tale pattern si invertirebbe quando ad essere valutati siamo noi stessi o persone a noi
molto vicine.

3.3 Giudizi relativi ai gruppi sociali


9. Calore e competenza appaiono con sistematica regolarità anche nei giudizi relativi ai gruppi sociali e sono
considerate le dimensioni attorno alle quali si organizza il contenuto degli stereotipi.
10. Gli stereotipi sociali solitamente si distribuiscono in quattro raggruppamenti: i gruppi ai quali si
appartiene (ingroup) vengono generalmente valutati positivamente su entrambe le dimensioni; quelli di cui
non si è membri, gli outgroup, possono, invece, essere oggetto di valutazioni negative su entrambe le
dimensioni, oppure di valutazioni miste (o ambivalenti), vale a dire calorosi ma non competenti, competenti

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ma non calorosi. Gli immigrati, ad esempio, sono costantemente percepiti come non competenti e freddi; gli
anziani, i bambini e i disabili come non competenti ma calorosi; i ricchi, al contrario, come capaci ma freddi.

11. Come per la percezione di singoli individui, anche la percezione dei gruppi risente del contesto nel quale
la valutazione avviene; quando una persona viene valutata positivamente su una dimensione, viene valutata
positivamente anche sull’altra (un fenomeno noto in psicologia sociale come effetto alone). Esprimere
valutazioni in contesti comparativi fa emergere, invece, un fenomeno diverso, noto come processo di
compensazione (Judd et al., 2005). In altre parole, percepire un gruppo (o un individuo) come migliore di un
altro su una delle due dimensioni porta a compensare tale valutazione sull’altra dimensione.

12. Un gruppo valutato positivamente su entrambe le dimensioni suscita in noi sentimenti di ammirazione e
orgoglio (soprattutto se si tratta dell’ingroup), ma gruppi stereotipizzati in modo negativo su entrambe le
dimensioni suscitano disprezzo e disgusto.

13. I gruppi valutati come calorosi ma non competenti solitamente sono visti in modo benevolo perché
inoffensivi, elicitando sentimenti di pietà e compassione. Al contrario, gruppi percepiti come competenti ma
privi di calore sono rispettati per la loro competenza ma temuti per l’assenza di calore, suscitando sentimenti
di invidia e gelosia.

3.4 Conclusioni
14. Questo articolo evidenzia quanto e come calore e competenza, due tratti umani apparentemente
universali, guidino la nostra percezione degli altri e svolgano un ruolo nella sopravvivenza degli esseri
umani. Se qualcuno entra nel nostro ufficio, si avvicina in un vicolo buio, si siede accanto a noi in autobus,
abbiamo bisogno di capire il prima possibile se questo individuo può essere una minaccia e se è in grado di
mettere in atto le proprie intenzioni.

4 Glossario
Cluster. Il termine inglese cluster viene utilizzato prevalentemente in ambito scientifico e tecnico e indica
generalmente un gruppo di unità simili o vicine tra loro, dal punto di vista della posizione o della
composizione.
Percezione Sociale. La Percezione sociale è quella parte della percezione che permette alle persone di capire
le altre persone nel loro mondo sociale. Ci consente dunque di esprimere giudizi e impressioni su altre
persone.
Pregiudizio. Si ha un pregiudizio quando si ha un’emozione, un’opinione, una valutazione negative di un
individuo basandosi unicamente sull’appartenenza di gruppo di tale individuo.
Stereotipi. Sono immagini relativamente statiche che possediamo di varie categorie di persone. Quando
utilizziamo gli stereotipi per esprimere un’opinione su un gruppo sociale tendiamo ad attribuire una serie di
tratti e caratteristiche a tutti i suoi membri senza considerare le variabilità individuali.

“LA NEGOZIAZIONE”

1 La negoziazione come forma di prevenzione del conflitto


Il testo che di seguito verrà presentato è una rielaborazione di una parte del libro “La negoziazione
internazionale come processo psicologico, Teorie e tecniche cognitive di analisi e formazione” di Francesco
Aquilar.
La negoziazione è “un processo di interazione tra due o più parti in cui si cerca di stabilire cosa ognuna
dovrebbe dare e ricevere in una transazione reciproca finalizzata al raggiungimento di un accordo
mutuamente vantaggioso”. (Rubin, Brown 1975).
La psicologia è un utile strumento di analisi per una più completa e soddisfacente comprensione dei processi
delle negoziazioni. Gli psicologi enfatizzano l’analisi dei pensieri e delle credenze corrispondenti alle nostre
emozioni, umori, esperienze corporee, comportamenti e, in generale, agli eventi della nostra vita. Alla base
c’è l’idea per cui la nostra percezione di un evento, o esperienza, influenza direttamente le nostre risposte
corporee, emotive e comportamentali allo stesso evento (Beck, 1988; Ellis, 1994). Le modalità con cui le

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persone pensano, sentono e si comportano verso gli altri individui e verso i gruppi, rappresentano e
racchiudono, infatti, l’essenza stessa delle preoccupazioni reciproche che alimentano le relazioni umane
(Beck, 1999; Ellis, 1992). La negoziazione, la mediazione e la sensibilità di sentire le potenziali dispute
ancora prima che si presentino, in modo da poterle prevenire, sono abilità essenziali in questo mondo
diventato ormai un villaggio globale complesso e in rapido cambiamento (Aquilar, Galluccio, 2009). La
teoria economica e la teoria dei giochi, attraverso esperimenti logico-matematici, mostrano che la
cooperazione è la strategia più efficiente e più razionale, qualora le parti in conflitto prendano
congiuntamente in considerazione l’utilità della cooperazione. Spesso però gli attori negoziali non sempre
adottano automaticamente la soluzione cooperativa, favorendo così la comparsa di dinamiche conflittuali e
competitive. La soluzione cooperativa è un lungo processo nel quale numerosi fattori situazionali, cognitivi,
emotivo-motivazionali e relazionali entrano in gioco. Spesso infatti il processo di negoziazione è stato
descritto come un processo di cambiamento, o come una divisione di risorse (Pruitt, 2002). Potrebbe essere
utile pensare al processo di negoziazione come a una sequenza correlata di quattro compiti principali,
fondamentali per ottenere dei cambiamenti (Zartman, 2003; Watkins e Rosegrant, 2001):
F 0Diagnosticare
B7 la struttura dell’intera situazione, identificando gli argomenti problematici, valutando
l’interdipendenza dei problemi, e tenendo conto della dimensione interpersonale del processo negoziale;
F 0Identificare
B7 le barriere all’accordo
F 0Gestire
B7 il conflitto
F 0Saper
B7 lavorare e cogliere i momenti più importanti

La maggior parte delle negoziazioni comprende per forza di cose sia la dimensione di value claming
(pretendere concessioni come se fosse un diritto), sia quelle definite di value creating (cooperare per creare
opportunità per più concessioni reciproche). Questo stato di fatto provoca una tensione tra le strategie e la
dimensione interpersonale nel processo negoziale. Infatti non esiste una negoziazione totalmente
competitiva, che impedirebbe la realizzazione di risultati e accordi, così come non esiste nessuna
negoziazione che sia completamente cooperativa. C’è sempre una certa competizione soprattutto nel
processo organizzativo delle proprie priorità e obiettivi che evidentemente sono diversi dagli obiettivi della
controparte (Aquilar, Galluccio, 2009). Come sottolinea Gallucci in un intervista del Febbraio 2002: “La
prima cosa da fare è quella di avere delle priorità precise, capire qual è l’interesse vitale in gioco, se ne esiste
uno; capire gli obiettivi. E’ interessante inoltre conoscere il proprio posto e ruolo nel contesto del sistema
internazionale (chi potrebbe essere dalla tua parte e chi no). Questa è la cosa più importante”.
Fisher e Ury nel loro libro Gettind to Yes pubblicato nel 1981 sintetizzano 3 tipi fondamentali di
negoziazione: negoziazione morbida o soft, negoziazione dura e negoziazione principled (per principi
ragionati). Gli autori enfatizzano le caratteristiche della negoziazione per principi ragionati delineandone gli
elementi da applicare nei diversi contesti negoziali: “ogni negoziazione è diversa, ma gli elementi di base
non cambiano”. I negoziatori principled sono risolutori di problemi e persone cooperative, che hanno come
fine principale il raggiungimento di risultati “saggi”. Secondo gli autori questo tipo di risultati potrebbe
essere ottenuto rispettando le seguenti norme:
1) Separare le persone dai problemi;
2) Investigare gli interessi reciproci e non impuntarsi per difendere i propri;
3) Evitare una linea di confine troppo rigida;
4) “Ampliare la torta”, attraverso un processo di creazione di nuove opzioni e possibilità;
5) Cercare di giungere a dei risultati basati su standard non troppo elevati;
6) Investire sui principi e non sulla pressione sotto cui mettere la controparte

(Fisher e Ury, 1981; Fischer, Ury e Patton, 1991; Fisher e Shapiro, 2005).
Risulta intuitivamente evidente che la semplice conoscenza di queste utili indicazioni non basta per diventare
negoziatori principled, essendo centrale un adeguato assetto personale di base per poter mettere in pratica
queste istruzioni.
2.1 Aspetti cognitivi ed emotivi nella negoziazione
La cognizione è intesa come un processo attraverso il quale un individuo costruisce le rappresentazioni del
suo ambiente, parti di esso o di se stesso; oppure come il prodotto di questo processo. I processi cognitivi,
cioè le modalità con le quali ogni individuo struttura la conoscenza di sé e del mondo, si compongono di
sensazione e percezione, coscienza e attenzione, memoria, apprendimento, pensiero, linguaggio. Le

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emozioni normalmente compaiono anche in seguito alla valutazione degli eventi, in relazione alle singole
preoccupazioni e aspettative di una persona. Esse forniscono informazioni su se stessi nell’interazione con
l’ambiente circostante ed emergono dalla relazione in atto e continuamente rimandano alla relazione,
rappresentando un processo intrinsecamente intersoggettivo (Liotti, 2001). Le persone che devono negoziare,
anche prima di diventare consapevoli di tutti i passi necessari della negoziazione in esame, sono spesso in
una particolare situazione, in quanto devono giudicare una determinata sequenza di fatti, la natura del
conflitto, le dispute passate e le caratteristiche dei negoziatori. Un punto cruciale della negoziazione risiede
nel ruolo principale, funzionale e sociale che la cognizione e le emozioni giocano nelle dinamiche
dell’interazione umana, nella comunicazione e nelle relazioni. La percezione di una posta in gioco potrebbe
rendere la negoziazione difficile per una parte o tutte e due le parti in gioco. I negoziatori, a causa dei loro
schemi interni, potrebbero condurre la negoziazione su dei binari morti e poi farla deragliare a causa di cicli
interpersonali disfunzionali di cui si parlerà in seguito (Safran, 2002; Galluccio, 2004; Dimaggio et al, 2007).
Comunque non tutte le negoziazioni potrebbero essere in pericolo potenziale o, destinate al fallimento, a
causa di emozioni negative (quando invece un buon esito sarebbe stato possibile). Qualche volta accade
semplicemente che il risultato non rappresenta un accordo accettabile che una parte in causa pensava di
ottenere (Aquilar, Galluccio, 2009).
2.2 Emozioni e negoziazione
(pag 88 Aquilar)
Le emozioni, come già precedentemente accennato, svolgono un ruolo primario nel processo di
comunicazione umana. Esse riassumono un ordine complesso di informazioni che sono elaborate anche a
livello inconscio e che aiutano gli individui a capire, con una valutazione tacita, rapida e sofisticata, quali
eventi e interazioni interpersonali hanno significato per ciascuno come organismo biologico e quali cose
hanno significato in termini di “azioni nelle quali siamo pronti ad impegnarci (Liotti, 1994; Safrn, 1998). I
processi affettivi/emotivi svolgono un ruolo cruciale nel direzionare il comportamento. Le persone possono
comunicare emozioni ad altre persone senza essere consapevoli completamente del fatto che lo stanno
facendo. L’evidenza empirica dimostra quanto differenti comportamenti espressivo-motori siano legati a
diverse emozioni, e come queste possano essere manifestate senza alcuna consapevolezza attraverso gesti e
posture nella comunicazione non verbale, svolgendo un ruolo decisivo nella comunicazione interpersonale
(Ekman, 1985; 1999; 2005). Ad esempio un sentimento di ostilità evocato dalla controparte durante il
processo negoziale, potrebbe essere percepito inconsciamente attraverso segnai quali il tono della voce, i
gesti, la qualità del contatto visivo e dalla postura (Aquilar, Galluccio, 2009). Nel lavoro di Ekman è stato
ampiamente dimostrato che persone provenienti da continenti e paesi diversi e che manifestano
caratteristiche personali diversificate, manifestano le stesse espressioni facciali in situazioni che richiamano
rabbia, tristezza, gioia, paura, disgusto e sorpresa (Ekman, 2003). Da queste ricerche è anche emerso quanto
la maggior parte delle persone sia incompetente nel decodificare consapevolmente le manifestazioni di
alcune emozioni, soprattutto quando queste rappresentano una miscela di più emozioni. In più, quando le
persone sono in conflitto, è ancora più probabile che interpretino in modo errato le espressioni delle
emozioni della controparte. Tuttavia, è fondamentale anche prendere in considerazione il fatto che se una
parte tende a focalizzarsi esclusivamente sul mondo emotivo della controparte, tenderà a perdere di vista il
senso relazionale che lega tutti gli attori del processo negoziale. La capacità di interpretare adeguatamente i
sentimenti della controparte dipende e viene accentuata dalla tendenza ad essere aperti alle proprie emozioni
(Aquilar, Galluccio, 2009). L’empatia risulta essere un’abilità cruciale per i negoziatori e mediatori, aiutando
a prevenire l’attivazione di cicli cognitivi interpersonali disfunzionali. Tali cicli interpersonali legano i
negoziatori ad una visione stereotipata negativa dei comportamenti dell’ altro, determinando così risposte
ostili che andranno poi a confermare gli schemi interni e i pregiudizi del soggetto sulla controparte (Aquilar,
Galluccio, 2009).
2.3 Cognizione e negoziazione
Il modello cognitivo di Beck è incentrato sulle variabili cognitive che plasmano le reazioni dell’individuo
agli eventi della vita, al fine di offrire una migliore comprensione della mediazione cognitiva nelle relazioni
interpersonali. Gli individui sviluppano, a partire già dalla prima infanzia, determinate convinzioni su se
stessi, sulle altre persone e sul mondo, richiamando le informazioni già presenti in memoria. Le convinzioni
più centrali e basilari delle persone sono conoscenze così radicate e profonde che spesso le persone tendono
a considerarle come verità assolute: rappresentano la loro realtà (J.S. Beck, 1995). Le convinzioni sulle
interazioni si apprendono presto nella vita e non sono pienamente articolate nella mente dell’individuo,

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presentandosi come un concetto vago di ciò che “dovrebbe essere” (Dattilio, 1998). Tali convinzioni
influenzano la percezione delle varie situazioni che viene espressa in pensieri automatici. Questi pensieri, a
turno, influenzano le emozioni della persona. Le idee e le convinzioni svolgono un importante ruolo nel
processo negoziale, avendo il potere di plasmare l’intero processo e determinare il risultato finale (Aquilar,
Galluccio, 2009).
I pensieri automatici possono, infatti, essere definiti come un flusso di idee coscienti, convinzioni o
immagini che scorrono nella mente degli individui in ogni momento, spesso elicitate da specifiche situazioni.
Per esempio: “La mia controparte è in ritardo perché non è interessata alla negoziazione” o “Non mi
rispetta!” o “Non vuole cenare con me questa sera perché vuole tenermi distante!”. Questi pensieri vengono
definiti automatici perché non sono il risultato di un ragionamento, ma sembrano sorgere in maniera
automatica, spontanea e rapida (J. S. Beck, 1995). Questi pensieri automatici riflettono la valutazione di una
situazione da parte dell’individuo piuttosto che la semplice descrizione obiettiva della stessa, e conducono
direttamente alle risposte comportamentali ed emotive della persona. Di conseguenza se le valutazioni sono
distorte le risposte della persona saranno disadattive (Aquilar, Galluccio, 2009). Le distorsioni cognitive
rappresentano il collegamento tra convinzioni e pensieri automatici. Le nuove informazioni spesso sono
parziali e influenzate in modo da adattarsi ad una convinzione rilevante preesistente. Le principali distorsioni
cognitive sono:
1) Pensiero dicotomico: detto anche “tutto o nulla” o “pensiero polarizzato”. Alcuni autori sintetizzano
questo tipo di distorsione con l’aforisma “Chi non è con me è contro di me”. La risposta è spesso una
risposta di sfida e non di cooperazione. Le esperienze vengono, quindi, classificate come pieni successi o
totali fallimenti. Esempi: “Se non sarò in grado di portare a casa un risultato negoziale eccellente sarà un
fallimento”. I comportamenti della controparte così come i propri sono valutati attraverso criteri netti: giusto/
sbagliato, corretto/scorretto, vittima/colpevole, buono/cattivo.
2) Ipergeneralizzazione: una singola esperienza contingente è considerata la base di una teoria generale. Per
esempio un negoziatore viene ingannato dalla controparte, o ritiene di essere stato ingannato, e conclude che
tutti i negoziatori sono bugiardi.
3) Catastrofizzazione: senza alcuna prova e senza considerare atri possibili scenari, il futuro è anticipato
negativamente. Un minimo fattore viene considerato come il segno di un già anticipato evento negativo. Per
esempio “Poiché non sono in grado di padroneggiare tutti i problemi, la negoziazione sarà certamente un
disastro”; oppure “Sono così nervoso che non sarò per nulla capace di fare una buona figura”.
4) Inferenza arbitraria: è uno dei più importanti processi di distorsione dell’elaborazione dell’informazione
che porta il soggetto a dedurre una conclusione da un evento in assenza di un’evidenza sostanziale che la
supporti. Una momentanea delusione può diventare una memoria dominante. Per esempio un negoziatore
che aspetta la controparte, che ha chiesto una pausa per fare una telefonata, può inferire: “La mia controparte
è disposta a trascurare i nostri ultimi accordi!” oppure “Costui è debole e codardo!”.
5) Astrazione selettiva: alcuni aspetti di una tipica situazione negativa sono attesi o ricordati a spese degli
aspetti più positivi, anche a dispetto dell’ immagine complessiva. Alcuni dettagli sono notati e accentuati,
mentre altre informazioni importanti sono ignorate. Ad esempio in una negoziazione una delle parti può
essere particolarmente concentrata su un comportamento isolato e incomprensibile della controparte da non
accorgersi di positive e durevoli azioni cooperative messe in atto dall’ altra parte che potrebbe pensare:
“Costui non percepisce i miei atteggiamenti positivi”. In questo modo verrebbe ostacolata la possibilità di
futuri compromessi e potrebbe essere inibita la tendenza ad assumere comportamenti cooperativi a lungo
termine.
6) Etichettamento: in questa distorsione cognitiva, i comportamenti sono generalizzati e considerati come
tratti permanenti che definiscono se stessi o la controparte. Vengono attribuite etichette fisse e globali senza
considerare che l’evidenza può condurre più ragionevolmente a una conclusione diversa. Ad esempio dopo
aver commesso un errore concludere: “Sono veramente stupido!” oppure se è stato commesso da un altro
“Costui è proprio incapace!”, invece di riconoscere gli errori come comportamenti contingenti e contestuali
come ad esempio quelli che derivano da stanchezza.
7) Personalizzazione: questo tipo di distorsione porta a ritenere che gli altri si stiano comportando in modo
negativo esclusivamente a causa delle proprie azioni, senza considerare altre possibili spiegazioni alternative.
Per esempio: “La persona con cui sto parlando è uscita dalla stanza perché ho detto qualcosa di sbagliato”;
oppure se la controparte appare distratta si conclude: “Sono sicuro che ha qualcosa contro di me!” oppure:
“Costui sta architettando una manovra scorretta per approfittarsi di me”.

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8) Visione a tunnel: questo tipo di distorsione porta le persone a vedere solamente gli aspetti positivi o
solamente quelli negativi di una situazione, in base allo stato mentale generale. Per esempio: “La controparte
ha rifiutato una delle mie proposte di compromesso. È stata critica e insensibile e, quindi, non è un buon
negoziatore”, magari trascurando il fatto che la maggior parte della negoziazione si è svolta senza problemi,
e perseverando nell’escludere dalla coscienza e dall’attenzione qualsiasi elemento che possa contraddire
quella conclusione (Aquilar, Galluccio, 2009).

2.4 Cicli cognitivi interpersonali


Come già accennato in precedenza, alcune persone affrontano il mondo attraverso “preconcetti” sulla realtà,
senza i quali non sarebbero in grado di gestire il caos. In particolare, esse manifestano delle aspettative e
intenzioni sulla base delle quali tendono a sviluppare delle previsioni sull’andamento delle relazioni
interpersonali, e cercano segnali che dimostrano la coincidenza tra le aspettative e il reale stato delle cose
(Dimanggio e Semerari, 2003). Sulla base di interazioni ripetute con le figure di riferimento e delle innate
disposizioni, gli esseri umani costruiscono, nel corso dello sviluppo, schemi interpersonali (Guidano, Liotti,
1983). Queste rappresentazioni delle interazioni aiutano il soggetto a descrivere l’immagine di se stessi, degli
altri e le relazioni che li collegano (Semerari, 2000). Safran ha riformulato il concetto di ciclo cognitivo
interpersonale, secondo cui il continuo processo di costruzione dell’individuo conduce a comportamenti
tipici e comunicazioni stereotipate, che suscitano negli altri proprio le risposte ipotizzate. Il soggetto è
influenzato dalle sue stesse aspettative sulla formulazione delle relazioni e con questo carico entrerà in
relazione con gli altri, aspettandosi risposte a lui familiari. L’interazione con gli altri, anche se
inconsapevolmente, sarà marcatamente influenzata da questi desideri, aspettative e comportamenti. I cicli
cognitivi interpersonali disfunzionali, anche se dissociati dall’esperienza cosciente, risulteranno nei
comportamenti verbali e non verbali e provocheranno sistematicamente le “stesse” risposte della controparte
(Dimaggio e Semerari, 2003). Queste risposte a loro volta rinforzeranno le convinzioni che causano la
dissociazione di questi aspetti. Per esempio, se il soggetto sente che è ingiustamente vittima di qualcosa,
potrebbe non riconoscere la propria emozione di rabbia ma la rabbia trasparirà nelle sue espressioni e
comportamenti non verbali, forse suscitando una non prevista rabbia negli altri; questa tuttavia tenderà a
rafforzare la sua convinzione di essere soggetto ad attacchi immotivati. Ad esempio, un attore al tavolo
negoziale “anticipa” che gli altri non prenderanno in giusta considerazione le sue preoccupazioni e quindi
non lo rispetteranno. Un ciclo cognitivo interpersonale disfunzionale comincia letteralmente e
automaticamente a “mettersi in moto”, provocando sentimenti negativi nel soggetto in questione. Costui, di
conseguenza, potrebbe comportarsi in modo noioso, appiccicoso e dipendente allo scopo di evitare la
risposta temuta, alienandosi alla fine le simpatie delle altre persone e riconfermando le sue aspettative senza
accorgersi di essere stato parte attiva in questa riconferma (Aquilar, Galluccio, 2009). In questo modo i cicli
interpersonali disfunzionali possono essere all’origine del conflitto e del suo perdurare nel tempo.
2.5 Comunicazione e processo negoziale
La consapevolezza dell’importanza delle emozioni del processo comunicativo nell’interazione conflittuale è
utile per migliorare le prestazioni dei negoziatori durante il processo negoziale. Lo stile comunicativo
utilizzato incide sullo sviluppo delle relazioni interpersonali fra gli attori coinvolti nella negoziazione. Il
negoziatore dovrebbe sapere che quello che, secondo lui, potrebbe essere un comportamento non aggressivo,
vale a dire il suo stile di comunicazione e il suo comportamento abituale, normalmente accettati nel suo
ambiente di provenienza, potrebbe invece essere ritenuto aggressivo dall’altra parte e dare vita a percezioni
che a loro volta potrebbero condurre la negoziazione su un binario morto. I negoziatori dovrebbero
principalmente fare attenzione all’incidenza, a volte corrosiva, delle loro parole e azioni sul pensiero e
comportamento dell’altra parte; altrimenti, la comunicazione potrebbe non avere l’impatto desiderato e, anzi,
piuttosto che facilitare la risoluzione dei problemi in discussione, potrebbe ingarbugliare e complicare le
soluzioni negoziali.
Risultano al contrario fondamentali la capacità di identificare i nostri stati mentali, gli stati mentali dell’altro,
insieme alla consapevolezza dell’interdipendenza di questo processo cognitivo complesso. I bravo
negoziatori dovrebbero essere capaci di seguire il processo di negoziazione in un modo più attivo, direttivo e
creativo, in modo da diventare attori presenti e consapevoli di questo processo. Dovrebbero essere
consapevoli delle “trappole mentali” e degli stereotipi in cui possono incappare gli esseri umani e
dovrebbero essere pronti a sviluppare nuove metodologie e a sperimentare nuove abilità per dipanare queste
“intricate matasse” di informazioni. Tali abilità diventerebbero utili per focalizzare i propri pensieri e quelli

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della controparte sul qui ed ora e nel dare un contributo attivo, attraverso la negoziazione, alla
trasformazione dell’arena internazionale in un ambiente più pacifico agendo anche come catalizzatore per
cambiamenti. Migliorare la consapevolezza delle dinamiche psicologiche intrapersonali e interpersonali
sicuramente può essere utile a tale scopo. Risulta inoltre fondamentale avere un buon livello di padronanza
delle emozioni, in termini di identificazione, espressione e gestione adeguata, al fine di ottenere dei risultati
positivi e durevoli nelle interazioni. La competenza emotiva e l’autoefficacia nel padroneggiare le risposte
emotive della comunicazione con l’altra parte, rappresenta una bussola per orientarsi e migliorare il processo
negoziale e, allo stesso tempo, per contribuire a sviluppare un percorso condiviso, in cui si lavori insieme per
raggiungere un risultato finale positivo e mutualmente accettabile (Aquilar, Galluccio, 2009).

2.6 Consapevolezza necessaria per i negoziatori


Le consapevolezze necessarie per avere delle negoziazioni soddisfacenti e per evitare i conflitti possono
essere riassunte in una serie di fattori:
1) Ogni essere umano, piuttosto che vivere “nella realtà”, vive in una sua “rappresentazione della realtà” che
può essere più o meno aderente alla realtà comune percepita;
2) Questa “rappresentazione della realtà” è influenzata da aspetti biologici, antropologici, sociali e
psicologico-individuali;
3) Da questa “rappresentazione” derivano potenti emozioni che possono determinare comportamenti
inadeguati in senso ampio;
4) Una parte della “rappresentazione” può essere inconsapevole ed esistono numerosi modi per acquisire una
maggiore coscienza dei propri processi di pensiero e di emozione, e dei processi di pensiero e di emozione
dell’altro con cui si entra in relazione o in conflitto;
5) Queste “rappresentazioni” entrano in contatto attraverso i codici della comunicazione e da ciò derivano
numerosi implicazioni a cominciare dalle seguenti:
F 0Le
B 7 abilità fondamentali per una buona comunicazioni possono essere apprese se non già possedute

F 0Può
B 7 essere sviluppata la capacità di cogliere le differenze tra individui in termini di organizzazione

mentale attraverso esercizi che consentono di sperimentare la presenza di sistemi di credenze e di emozioni
e di sperimentare la modificabilità di questi sistemi di credenze-emozioni
F 0Possono
B7 essere osservate e ampliate le strategie di problem solving
F 0Possono
B7 essere migliorate le abilità comunicative

(Aquilar, Galluccio, 2009)


2.7 Gestione della crisi
All’interno della gestione delle dinamiche interpersonali, per evitare il conflitto risulta essere fondamentale
la gestione della crisi. In che modo le crisi possono essere gestite? Per un istante immaginatevi in una
macchina che viaggia lungo una strada familiare a una velocità normale. A causa di una circostanza
inaspettata, che può essere sia interna (improvviso malore e frenata brusca istintiva) sia esterna (la macchina
va su una lastra di ghiaccio e comincia a sbandare), tutt’a un tratto la macchina è fuori controllo. Questa
situazione certamente potrebbe essere chiamata crisi; il lasso di tempo per reagire è limitato, la vostra vita
potrebbe essere in pericolo (la situazione è giunta inaspettatamente), ed è necessario fare scelte veloci che
riguardano la situazione presente (se non reagite potreste farvi seriamente male). Comunque, come noi tutti
sappiamo, con manovre attente e consapevoli (a volte anche senza fare niente), potrebbe essere possibile
riguadagnare il controllo della macchina. Queste abili manovre formano un complesso di strumenti per la
gestione della crisi. Con questo intendiamo affermare che le crisi possono essere gestite efficacemente. Ma
prima dobbiamo rispondere a una domanda: cosa significa gestione della crisi? A nostro parere, la
definizione più comprensiva di gestione delle crisi dovrebbe includere in essa sia il processo che la
conseguenza/risultato. Il processo comporta il controllo dei rischi quanto basta per ridurre al minimo la
possibile interpretazione sbagliata delle nostre azioni da parte dell’ avversario, in modo da cercare di evitare
un escalation della stessa crisi; ma allo stesso tempo occorre assicurarsi la vigilanza per mantenere intatta la
difesa dei propri interessi vitali. Il risultato sperato è naturalmente la risoluzione soddisfacente della crisi in
modo tale che gli interessi vitali in gioco siano stati difesi e protetti in maniera ottimale. Lo scopo principale
della gestione della crisi, in accordo con l’esempio dato in precedenza, sarebbe quello di mantenere la
situazione sotto controllo. Il modo in cui potrebbero essere gestite le crisi include una serie di passaggi:
1) Identificare la crisi

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2) Ottenere informazioni
3) Valutare le possibili soluzioni
4) Selezionare soluzioni
5) Implementare la risposta scelta
6) Utilizzare verifiche a feedback

In primo luogo, la crisi dovrebbe essere ben definita per aumentare le probabilità di formulare una risposta
adeguata.
2.8 Conclusioni
In definitiva appare evidente come alcuni fattori psicologici possano giocare un ruolo importante nei processi
di negoziazione, di intensificazione del conflitto, per quanto rappresentino soltanto una parte delle varie
componenti che intervengono in questo processo. Il problema delle controversie, del pregiudizio, dei conflitti
e malintesi sembra non solo risiedere nell’inabilità di capire le altre persone, ma anche nell’abitudine a
considerare soltanto un lato delle cose. Se più persone potessero considerare almeno la possibilità di vedere
differentemente le cose, la comunicazione tra esseri umani probabilmente migliorerebbe in modo rilevante,
sia al livello di relazioni intime sia al livello più globale.

2 Sintesi
1) La negoziazione è “un processo di interazione tra due o più parti in cui si cerca di stabilire cosa ognuna
dovrebbe dare e ricevere in una transazione reciproca finalizzata al raggiungimento di un accordo
mutuamente vantaggioso”. (Rubin, Brown 1975).
2) Diverse teorie evidenziano l’importanza della cooperazione nelle interazioni e nelle negoziazioni come
strategia di prevenzione del conflitto. La Psicologia risulta essere la disciplina che maggiormente mette in
luce gli aspetti alla base dell’atteggiamento cooperativo, essendo questo determinato da fattori cognitivi,
emotivi e relazionali oltre che situazionali.
3) Le modalità con cui gli individui interpretano sé stessi e il mondo (processi cognitivi) e le emozioni
conseguenti a tale valutazione degli eventi (processi emotivi) siano centrali nei processi negoziali.
4) Le emozioni svolgono un potentissimo ruolo nelle interazioni e nella comunicazione, orientando le
risposte delle parti e determinando, quindi, l’esito stesso dei processi interattivi.
5) Oltre a quello delle emozioni può essere sottolineato il ruolo della cognizione nei processi interattivi e
negoziali. Le convinzioni su sé stessi, sugli altri e sulle interazioni, infatti, influenzano la percezione delle
varie situazioni, e spesso sono talmente radicate e profonde da risultare rigide verità assolute. Quindi alla
base di negoziazioni con esito negativo o conflittuale possono esserci forme di distorsione
dell’interpretazione della realtà.
6) Alla base del fallimento di una negoziazione possono esservi alcune distorsioni cognitive quali: pensiero
dicotomico, ipergeneralizzazione, astrazione selettiva etc. etc.
7) Le consapevolezze necessarie per avere delle negoziazioni soddisfacenti e per evitare i conflitti possono
essere riassunte in una serie di fattori:
F 0Ogni
76 essere umano, piuttosto che vivere “nella realtà”, vive in una sua “rappresentazione della realtà” che
può essere più o meno aderente alla realtà comune percepita;
F 0Questa
76 “rappresentazione della realtà” è influenzata da aspetti biologici, antropologici, sociali e
psicologico-individuali;
F 0Da
7 6 questa “rappresentazione” derivano potenti emozioni che possono determinare comportamenti

inadeguati in senso ampio;


F 0Una
76 parte della “rappresentazione” può essere inconsapevole ed esistono numerosi modi per acquisire una
maggiore coscienza dei propri processi di pensiero e di emozione, e dei processi di pensiero e di emozione
dell’ altro con cui si entra in relazione o in conflitto;
F 0Queste
76 “rappresentazioni” entrano in contatto attraverso i codici della comunicazione e da ciò derivano
numerosi implicazioni.
8) Oltre alle cognizioni e alle emozioni giocano un ruolo fondamentale le aspettative sulle relazioni, i
comportamenti tipici e le comunicazioni stereotipate che, a partire dalle ripetute interazioni con le figure di
riferimento, gli esseri umani costruiscono, che conducono ai cicli cognitivi interpersonali. Quando questi
cicli interpersonali sono disfunzionali possono condurre all’insorgere del conflitto e del suo perdurare nel
tempo.

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9) L’esito soddisfacente di una negoziazione dipende, inoltre, dalle abilità comunicative delle parti, dalla
capacità di padroneggiare le varie componenti verbali e non verbali del linguaggio, in modo da evitare l’uso
di espressioni eccessivamente aggressive o passive e da modulare lo stile comunicativo in base al contesto e
all’interlocutore.
10) In ultimo risultano essere cruciali, per favorire un esito soddisfacente di una negoziazione, le capacità di
gestione della crisi.
11) Le abilità per gestire la crisi includono una serie di passaggi:
F 0Identificare
76 la crisi
F 0Ottenere
76 informazioni
F 0Valutare
76 le possibili soluzioni
F 0Selezionare
76 soluzioni
F 0Implementare
76 la risposta scelta
F 0Utilizzare
76 verifiche e feedback

“LA PROSSEMICA”

1 “Fra me e te”
Il testo che di seguito verrà presentato è una rielaborazione dell’articolo dal titolo “Fra me e te” di Marco
Costa e Ricci Bitti scaricato dal sito http://it.scribd.com
Titolo: “Fra me e te”
Autori: Marco Costa, Pio E. Ricci Bitti
Fra le tante caratteristiche che rivelano qualcosa delle persone c’è anche il modo in cui ci collochiamo nello
spazio o regoliamo le nostre distanze rispetto agli altri e all’ambiente. Queste distanze non hanno solo la
funzione di proteggerci, ma ci permettono anche di comunicare. Il modo in cui occupiamo e gestiamo il
nostro spazio personale rivela, infatti, la nostra posizione sociale, il nostro sesso, la nostra personalità e il
tipo di relazione che stiamo intrattenendo o desideriamo intrattenere, il nostro grado di soddisfazione,
insoddisfazione, disagio.
1.1 La prossemica
Dal punto di vista fisico i nostri confini sono definiti dalla pelle, o tutt'al più dai vestiti. Non così dal punto di
vista psicologico. In questo caso essi vanno al di là sia della pelle che dei vestiti e formano una sorta di
"bolla" che ci circonda e ci segue continuamente, regolando silenziosamente i nostri rapporti con gli altri.
Come tipicamente avviene in qualsiasi comportamento non verbale, nella grande maggioranza dei casi noi
non scegliamo consapevolmente a che distanza stare dagli altri, o in che punto metterci in un gruppo. Tutto
avviene in modo inconsapevole, spontaneo, veloce e fluido. Ciò nonostante, nelle relazioni di tutti i giorni le
distanze che stabiliamo sono un preciso indice della nostra situazione sociale, del nostro sesso, del tipo di
rapporto che stiamo intrattenendo, del nostro disagio o della nostra soddisfazione, ecc. La prossemica è
quella branca della psicologia che studia i comportamenti spaziali, ovvero il modo in cui ci collochiamo
nello spazio e regoliamo le nostre distanze rispetto agli altri e all'ambiente. Il primo studioso a fare ricerche
estensive in questo ambito è stato l'antropologo E.T. Hall il quale, al termine della seconda guerra mondiale,
venne incaricato di studiare come riavvicinare le culture "nemiche" tedesca e giapponese a quella degli Stati
Uniti, così che la successiva cooperazione per la ricostruzione procedesse con maggiore collaborazione e
senza incomprensioni. La storia, del resto, si ripete: terminato il conflitto in Iraq, gli Stati Uniti hanno dovuto
affrontare un problema analogo, quello di farsi accettare da una cultura, quella arabo-musulmana, che è
molto diversa dalla cultura americana, anche in termini di prossemica. Osservando la Figura 1, facendo
attenzione all'organizzazione spaziale della triade di amici formata da due ragazze e un ragazzo. Secondo i
risultati dei nostri studi, quello che avviene comunemente in questi casi è che il ragazzo si siede a lato delle
due ragazze, alla loro destra o sinistra, e non al centro. In questo modo sottolinea il fatto che è un maschio.
Se si mettesse in mezzo alle femmine si assimilerebbe maggiormente a loro e ne andrebbe un po' della sua
mascolinità. Guardando attentamente, poi, vedete che questa distinzione è sottolineata in altri due modi: il
ragazzo mantiene con le ragazze una distanza maggiore rispetto a quella che tengono le ragazze fra di loro,
che siedono molto vicine l'una all'altra. Inoltre, mentre le ragazze sottolineano la loro similarità allineandosi,
il ragazzo non è seduto esattamente di fianco, ma con un angolo di circa 45 gradi. Tutti questi elementi
permettono di scomporre questa triade in due distinte componenti, il gruppo delle due ragazze e il ragazzo.
Fig.1.

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Confrontate ora questo gruppo con quello di Figura 2, che rappresenta una triade di amici composta da due
ragazzi e una ragazza. In questi casi abbiamo osservato che la disposizione più frequente è quella in cui la
ragazza si colloca al centro e i ragazzi le si pongono a sinistra e a destra. Le distanze rimangono abbastanza
alte rispetto a quelle adottate da gruppi formati da sole femmine, che tendono a stare più vicine fra loro.
Inoltre, se l'ambiente lo consente, come in questo caso in cui il gruppo è seduto in un prato, anche gli angoli
sono indicativi del tipo di rapporto. Amici stretti tendono a sedersi uno di fianco all'altro, come il ragazzo di
sinistra e la ragazza, mentre amici che hanno una minore confidenza tendono a sedersi ad angolo, come la
ragazza e il ragazzo di destra.
Fig.2.
Per quanto riguarda il rapporto tra distanza e attrazione possiamo dire che, in generale, le distanze si
accorciano fra persone che presentano delle somiglianze per aspetti anche molto diversi. Per esempio, le
distanze che si stabiliscono fra individui di età simile sono minori di quelle che si stabiliscono fra individui
di età diverse. Lo stesso avviene fra persone che hanno il medesimo status sociale, economico, culturale, ecc.
Un discorso a parte, però, merita il livello di attrazione reciproca. Se fra una femmina e un maschio che
interagiscono c'è una reciproca attrazione, di solito fra i due si verifica anche un progressivo avvicinamento.
In alcune ricerche si è voluto vedere se questo sia dovuto prevalentemente alla femmina, al maschio, oppure
ad entrambi. Questi studi suggeriscono che in casi del genere la riduzione della distanza è da attribuire ad
una strategia di avvicinamento messa in atto principalmente dalla femmina. In coppie di amici dello stesso
sesso si registra un altro fenomeno interessante. Mentre nelle femmine la vicinanza è proporzionale al grado
di attrazione reciproca, ovvero più ci si piace, più si sta vicine, nel caso dei maschi il grado di amicizia non
lo si può misurare con la distanza. Essi infatti interagiscono a distanze maggiori rispetto alle femmine
(Figura 3d) e non scendono mai al di sotto di una certa soglia, come invece fanno queste ultime (Figura 3b).
Fig.3.
Allo stesso modo, mentre è possibile e considerato del tutto normale vedere delle amiche che si tengono per
mano o a braccetto mentre camminano per strada, due maschi che si comportassero in questa maniera
verrebbero immediatamente tacciati di omosessualità. In coppie miste la distanza è un buon indice della
"profondità" della relazione. Maggiore è il grado d'intimità raggiunto, minori sono le distanze mantenute. Se,
come osservatori, vediamo due persone che interagiscono ad una distanza ridotta, cosa ne deduciamo? Le
ricerche evidenziano che le distanze più ravvicinate funzionano, nei confronti di chi le vede, da indicatori di
attrazione reciproca. Se, in altre parole, mostriamo a degli osservatori delle foto sia di persone che
interagiscono ad una distanza di circa un metro, sia di persone che interagiscono ad una distanza di circa tre
metri, questi osservatori tendono a ritenere che la relazione delle prime sia più stretta di quella delle seconde.
Fig. 3a. Volete un sistema affidabile per misurare l'affiatamento in una coppia di coniugi? Secondo i risultati
della ricerca di Grane, Russell e Griffin (1983), la distanza con cui la coppia sta seduta nella propria casa e
la sistemazione dei posti intorno al tavolo di cucina costituiscono ottimi "termometri" dell'andamento della
relazione. In coniugi prossimi al divorzio le distanze aumentano e più si mantengono elevate nel corso del
tempo, minori saranno le possibilità di riconciliazione. Anche la distanza che tengono i figli nei confronti dei
genitori è un'altra "cartina di tornasole" che ci può indicare se i rapporti sono sereni o turbolenti.
1.2 La regolazione della distanza
Le distanze personali tendono ad aumentare in funzione dell'età, a partire dai cinque anni circa. Al di sotto di
questa soglia temporale, infatti, non è individuabile un vero e proprio spazio personale. Bambini, maschi e
femmine, che giocano insieme possono stare anche a stretto contatto fra loro senza per questo sentirsi a
disagio. Anche gli adulti, se sono avvicinati da un bambino, non percepiscono questo avvicinamento come
un'invasione del proprio spazio personale e lo lasciano fare. È a partire dai sei anni circa che cominciano a
stabilirsi anche nei bambini delle distanze personali, che tuttavia sono minori rispetto a quelle degli adulti.
Un momento cruciale è poi segnato dal raggiungimento della maturità sessuale. A questo punto, per i maschi
in particolare, le distanze aumentano, sia nel senso che nei rapporti con gli altri tendono a tenersi a maggiore
distanza, sia nel senso che gli adulti, nei loro confronti, non tollerano più invasioni del proprio spazio
personale. Non tutti, comunque, manteniamo le stesse distanze a parità d'età e di sesso. Le ricerche hanno
dimostrato che anche i fattori di personalità giocano un ruolo importante. Individui ansiosi o introversi, ad
esempio, mantengono distanze personali maggiori rispetto ad individui non ansiosi od estroversi. Coloro che
hanno un'alta autostima, ovvero che credono in se stessi e nelle loro capacità, tendono a rapportarsi con gli
altri a minore distanza rispetto a persone che hanno una bassa autostima. Anche alcune condizioni esterne
possono influire. Coloro che lavorano in uno stato di relativo isolamento, per esempio ad un terminale,

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richiedono più spazio personale, anche al di fuori del luogo di lavoro, rispetto a coloro che usualmente
lavorano a stretto contatto con altri. Un altro ambito nel quale la regolazione dello spazio assume particolare
rilievo è sicuramente quello militare. Si è visto, ad esempio, che maggiore è la differenza in grado fra i
militari che interagiscono, maggiore risulta la distanza che mantengono fra di loro. L'importanza della
distanza, d'altra parte, è anche sottolineata nei regolamenti militari, che prevedono in tre passi la distanza
appropriata per le comunicazioni fra militari e la pratica del saluto.
Fig.4.
1.3 Diversità e distanziamento
Nell'incontro con la diversità le distanze aumentano. Questo fenomeno riveste notevole importanza
psicologica per i problemi che si instaurano nelle interazioni con persone che presentano handicap fisici,
malattie dermatologiche e contagiose, disturbi mentali. Ad esempio, anche se si sa che il contatto fisico con
persone ammalate di AIDS non induce di per sé il contagio, chi è al corrente della malattia dell'altro tende ad
interagire a maggiore distanza. Il malato, percependo questa maggior freddezza, tende a soffrirne
psicologicamente. Un altro fenomeno interessante è poi che in soggetti che soffrono di una patologia
psichiatrica le distanze interpersonali sono di gran lunga maggiori rispetto a soggetti normali. Uno
schizofrenico, ad esempio, può sentirsi molto a disagio se viene avvicinato da un estraneo ad una distanza
che sarebbe ritenuta normale fra persone senza patologie psichiatriche. Inoltre un eccessivo avvicinamento,
un'invasione dello spazio personale, in questi soggetti può tradursi in una vera e propria crisi. Altri esempi di
categorie che mantengono un maggiore spazio personale nelle interazioni sociali sono quelli che hanno
problemi di udito (i non vedenti, viceversa, mantengono distanze come i vedenti), gli alcolizzati, coloro che
si drogano. Anche la gravidanza sembra essere un "handicap" dal punto di vista dello spazio personale. Le
persone, cioè, quando parlano ad una donna in gravidanza, mantengono distanze maggiori rispetto a quando
parlano con una donna non in gravidanza. Né possiamo dimenticare le diversità culturali. Ricordiamo che in
culture ad alto "contatto" sensoriale, come in quelle mediterranee, arabe e ispaniche, gli individui tendono ad
utilizzare maggiormente modalità sensoriali come l'olfatto e il tatto. Gli individui appartenenti a queste
culture fanno un più largo uso di profumi personali e nelle interazioni tendono a toccarsi con maggiore
frequenza rispetto a persone appartenenti a culture a moderato "contatto", come quelle del Nord Europa o
quella statunitense. Lo spazio personale, inoltre, in queste ultime culture tende ad essere maggiore rispetto
alle prime. Nelle popolazioni mediterranee, arabe ed ispaniche, gli individui tendono ad interagire più vicini
tra di loro. La ben nota conseguenza è che quando noi ci rechiamo presso popoli del Nord Europa o negli
Stati Uniti tendiamo ad attribuire loro freddezza ed ostilità. Viceversa, quando individui di popolazioni
nordiche o statunitensi arrivano nella nostra cultura tendono a sentirsi a disagio per l'eccessiva vicinanza con
cui le altre persone si avvicinano nelle interazioni quotidiane.
È interessante notare che nelle culture ad alto "contatto" le regole religiose a volte enfatizzano la separazione
dei sessi, per cui risulta inappropriato per un uomo o una donna girare a stretto contatto con il o la partner.
Donne e uomini vengono spinti a comunicare fra di loro e le interazioni fra sessi diversi in pubblico sono in
sostanza scoraggiate. In queste culture, malgrado la propensione a contatti stretti, le distanze fra maschi e
femmine sono maggiori rispetto a quelle adottate nelle interazioni fra membri dello stesso sesso.

1.4 L'invasione dello spazio personale


Se ci si avvicina in modo inappropriato alle persone, queste percepiscono un'invasione del loro spazio
personale che spesso si traduce in un vissuto di stress, d'irritazione o d'inimicizia. È come se fossero messe
sotto pressione. In un celebre esperimento di Felipe e Sommer condotto negli anni Sessanta, un collaboratore
dello sperimentatore cercava, in un parco, panchine occupate da una sola persona e si poneva a sedere al
loro fianco a circa 15 centimetri di distanza. Ciò non è appropriato, perché quando ci sediamo in una
panchina già occupata sappiamo di doverci sistemare il più lontano possibile da chi vi è già seduto. Risultato:
dopo un minuto dall'invasione, il 20% dei soggetti aveva lasciato la panchina per il disagio, mentre dopo 20
minuti se ne era andato il 65%, contro il 35%> in una situazione di controllo, in cui nessuno si sedeva
accanto. Questo studio dimostra chiaramente che una risposta frequente all'"invasione" dello spazio
personale è quella di "fuggire". In una ricerca successiva, il solito collaboratore si avvicinava a coloro che
attraversavano la strada in corrispondenza di un passaggio pedonale. Si osservò chiaramente che i soggetti,
sia maschi che femmine, attraversavano la strada sempre più velocemente via che la distanza fra loro e il
collaboratore diveniva minore. In uno studio decisamente originale, Middlemist, Knowles e Matter hanno
cercato di verificare se l'invasione dello spazio personale porta ad un'attivazione di tipo fisiologico

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percepibile come stressante. Il luogo dell'esperimento era un bagno pubblico maschile, ed in particolare tre
orinatoi di quelli verticali. Attraverso una telecamera nascosta i soggetti venivano filmati. Le variabili
studiate erano la durata della minzione e la sua latenza, ovvero l'intervallo che intercorreva fra l'assunzione
della posizione e l'inizio della fuoriuscita di urina. Quando un uomo entrava nel bagno pubblico e si dirigeva
verso un orinatoio un collaboratore dello sperimentatore entrava subito dopo e si poneva nell'orinatoio
immediatamente accanto, oppure in uno più laterale, in modo da lasciare nel mezzo un orinatoio libero. Poi
fingeva di urinare.
L'esperimento prevedeva anche una condizione di controllo, in cui nessun collaboratore entrava e chi era nel
bagno pubblico veniva lasciato solo. I risultati confermarono l'assunto che l'invasione dello spazio personale,
in questo particolare contesto, risultava decisamente stressante. Quando il soggetto era lasciato solo la
latenza di minzione era di soli 4 secondi e la sua durata di circa 26 secondi. Quando entrava un'altra persona
e lasciava lo spazio di un orinatoio libero allora il soggetto cominciava ad urinare con un leggero ritardo (la
latenza aumentava a 6 secondi) e durava per un intervallo minore (24 secondi). Se tuttavia la seconda
persona si metteva nell'orinatoio accanto a quello occupato dal soggetto, e quindi si aveva una palese
invasione dello spazio personale, allora passavano in media ben 9 secondi prima che il primo soggetto
cominciasse ad urinare. La minzione, inoltre, si riduceva complessivamente a 17 secondi. Questo stress può
portare anche a dei cali del rendimento, soprattutto quando dobbiamo svolgere dei compiti complessi e
impegnativi. Classico è l'esempio dello studente che, durante un compito in classe, se l'insegnante si avvicina
molto al suo banco si blocca e diventa incapace di proseguire. In campo lavorativo, ad esempio, una cassiera
può svolgere il suo lavoro malgrado sia continuamente avvicinata da altre persone perché questo è
abbastanza ripetitivo e semplice, mentre un lavoratore che deve scrivere un rapporto, o fare un progetto,
riesce solo in un ambiente in cui è lasciato solo e il cui spazio personale non venga continuamente invaso
dalla vista e dal rumore di altre persone. Comunque, nel caso in cui il nostro spazio personale venga invaso
e non abbiamo possibilità o voglia di spostarci, possiamo mettere in atto dei comportamenti di isolamento,
tecnicamente chiamati di "cut off". Questi tendono a sottolineare la nostra esigenza di privacy e ad escludere
gli altri. Se siamo in biblioteca, per esempio, e qualcuno si siede alla nostra destra, possiamo alzare
l'avambraccio destro e poggiare il capo sulla mano destra. In questo modo e come se creassimo una barriera
che sottolinea la volontà del lettore di rivendicare uno spazio suo (Figura 7). Analogamente, se ci troviamo
in una sala d'attesa e qualcuno che non conosciamo si siede accanto a noi, un comportamento che può essere
messo in atto è quello di ruotare leggermente il busto dalla parte opposta e di allontanare le gambe, oppure di
incrociarle mettendo in alto quella che sta vicino allo sconosciuto. Questi comportamenti vengono esagerati
e risultano molto pronunciati se percepiamo la persona come non attraente, sporca, diversa da noi, che emana
un odore non gradevole. Un'altra tecnica di esclusione è quella di evitare assolutamente lo sguardo di coloro
che si trovano molto vicini a noi. Avete mai visto come si comportano le persone in un luogo densamente
popolato? Se l'autobus o il treno sono molto affollati, gli occupanti rivolgono lo sguardo per terra, o fuori dal
finestrino in un punto indefinito, oppure guardano ripetutamente e insistentemente una scritta o una
pubblicità attaccata sulle pareti. Si evita in tutti i modi di guardare negli occhi quei passeggeri che ci stanno
vicini o che sono a contatto con il corpo. Semmai si guardano i passeggeri che sono posizionati lontano da
noi. La stessa tecnica, esasperata, viene utilizzata negli ascensori. Dato lo spazio esiguo, quando due persone
che non si conoscono condividono un ascensore utilizzano dei moduli di comportamento molto stereotipati,
tali da evitare qualsiasi contatto. Quando si entra si guarda in basso o si fa un piccolo cenno con il capo,
come per chiedere permesso, dopodiché ci si dispone su un lato o in direzione delle porte e si evita di
guardare gli altri se non per occhiate rapidissime. Si tiene lo sguardo nel vuoto, oppure si fissa lungamente
l'indicatore luminoso che segnala il piano, oppure si legge ripetutamente l'etichetta che indica il carico
massimo ed il numero massimo di persone trasportabili. Le altre persone presenti nell'ascensore vengono in
sostanza trattate come non persone, evitando ogni contatto diretto.

Fig.7.
1.5 Spazio personale e ambiente
Le caratteristiche fisiche dell'ambiente e degli edifici possono influenzare la nostra percezione di
sovraffollamento e l'entità degli spazi personali. Alcune ricerche hanno dimostrato, ad esempio, che quando
i soffitti sono bassi le persone richiedono un maggiore spazio personale rispetto alla situazione in cui i soffitti
sono alti. Lo stesso vale nel caso in cui le stanze sono strette e lunghe, ossia a forma di corridoio, anziché
quadrate, e in presenza di oscurità. Pensate ad una discoteca in cui, improvvisamente, si accendessero tutte le

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luci. Le persone si sentirebbero come "nude" e la prima reazione sarebbe quella di allontanarsi almeno un po'
l'una dall'altra. Una sensazione simile, anche se più attenuata, la si prova al cinema, nell'intervallo fra un
tempo e l'altro, quando s'illumina la sala. Se fate attenzione, potete vedere che le persone si sistemano nella
sedia e si guardano con un certo smarrimento. L'oscurità, infatti, riduce le nostre individualità e permette dei
contatti molto più ravvicinati, tanto che al buio le persone tendono a toccarsi di più. Un'altra variabile
importante è la posizione all'interno di una stanza. Coloro che stanno al centro tendono a stare a più stretto
contatto fra di loro. Viceversa, chi si posiziona vicino alle pareti, e soprattutto negli angoli della stanza,
esibisce uno spazio personale maggiore e in queste posizioni le interazioni sociali avvengono a maggiore
distanza rispetto a quelle che avvengono al centro. Lo studio delle distanze personali si estende anche
all'ambito scolastico (se ne parla nel box La prossemica in classe) e, più in generale, a quello lavorativo,
dove il fenomeno che ha più interessato gli studiosi di prossemica recentemente è stato quello dei cosiddetti
"open office". Vediamo di che si tratta. Intorno al 1960 una ditta tedesca, la Eberhard und Wolfgang
Schnelle, lanciò una linea di mobili per un nuova tipologia di uffici, denominati a quei tempi "uffici
paesaggio" ("landscape office", "Buerolandschaft"). Il concetto ispiratore era quello di eliminare tutti i
piccoli uffici in cui lavoravano uno o due impiegati e di sostituirli con un ampio spazio aperto comune, in cui
la separazione era data da piccole paratie piuttosto basse, scaffalature, cassettiere e arredi di vario tipo. In un
unico spazio potevano così essere inseriti molti impiegati. Questa soluzione trovò una larghissima e veloce
diffusione e l'ambiente lavorativo così organizzato venne successivamente denominato "open office" (Figura
9). Fra i principali motivi del suo successo ricordiamo il fatto che, svolgendo ognuno il proprio lavoro sotto
gli occhi dei colleghi, la produttività aumenta. Questo effetto viene denominato dagli psicologi "facilitazione
sociale". Ma, soprattutto, l'open office permette l'integrazione del sistema produttivo: aumentano
considerevolmente le possibilità di interscambio, sostegno e informazione reciproca, con un conseguente
incremento del "flusso di lavoro", cioè della velocità con cui le operazioni vengono condivise e i lavori
passano da un tavolo all'altro. Non mancano, ovviamente, gli aspetti negativi. Almeno due problemi balzano
subito agli occhi: da un lato l'incremento della distraibilità dei lavoratori e il parallelo aumento della loro
difficoltà di concentrazione, dall'altro la mancanza di una privacy adeguata. Sono in particolare le
conversazioni quelle che più danno fastidio, perché mentre è facile abituarsi, ad esempio, al rumore della
fotocopiatrice o della stampante, oppure al forte brusio di fondo che si forma in un open office grande e
affollato, quando si sente una conversazione non si riesce, pur desiderandolo, a non stare ad ascoltare. Così,
mentre è accertato che negli open office il flusso comunicativo aumenta, di fatto è ben difficile sapere se
esso aiuta oppure ostacola i compiti da svolgere e se le notizie rilevanti per il lavoro superano realmente
quelle irrilevanti. Ma è soprattutto la mancanza di privacy a rendere gli open office problematici dal punto di
vista psicologico. Ciascun movimento dei lavoratori è visibile dagli altri, inclusi gli errori ed i
comportamenti imbarazzanti. Le conversazioni personali, e perfino quelle telefoniche con i familiari, sono
facilmente intercettabili. Gli stessi colloqui fra il superiore e i dipendenti possono non rimanere
confidenziali. Per garantire almeno la privacy delle conversazioni sono state studiate alcune sorgenti che
emettono "rumore bianco". Questo tipo di rumore è composto dalla somma di moltissime frequenze nel
campo dell'udibile. Un esempio di rumore bianco è quello di una cascata, o quello delle onde che si
infrangono sulla spiaggia, o quello di una radio non sintonizzata. Diffuso a basso volume in un open office
attraverso dei piccoli altoparlanti incastonati nel soffitto o negli arredi, il rumore bianco è in grado di
contrastare le frequenze che compongono la voce umana, in modo tale da renderla incomprensibile già a
pochi metri di distanza. È invece esclusivamente affidata agli arredi la soluzione del problema
dell'esposizione fisica del lavoratore. È però curioso notare, al riguardo, come all'interno di un open office la
disposizione dei posti possa seguire una chiara gerarchia. Come se gli spazi personali non fossero uguali per
tutti. Può succedere, ad esempio, che nelle zone centrali più esposte, oppure in prossimità degli ingressi o
dei corridoi di passaggio, siano disposti gli impiegati con mansioni di più basso livello e che, viceversa,
quelli con mansioni superiori siano dislocati nelle parti più protette e meno visibili. Come se l'antico "ubi
maior, minor cessat" imponesse la sua legge anche alle ragioni della prossemica.
Fig.8.

2 Sintesi
1) La prossemica è quella branca della psicologia che studia i comportamenti spaziali, ovvero il modo in cui
ci collochiamo nello spazio e regoliamo le nostre distanze rispetto agli altri e all'ambiente.

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2) La distanza che osserviamo tra le persone viene usata come indicatore del tipo di relazione che c’è tra
queste.
3) Secondo uno studio di Grane, Russel, Griffin del 1983, la distanza fisica tra i membri di una coppia è un
indicatore del dell’andamento della qualità della relazione.
4) Per quanto riguarda il rapporto tra distanza e attrazione possiamo dire che, in generale, le distanze si
accorciano fra persone che presentano delle somiglianze per aspetti anche molto diversi: età, status sociale,
economico, culturale ecc.
5) Per quanto riguarda l’attrazione reciproca, se fra una femmina e un maschio che interagiscono c'è una
reciproca attrazione, di solito fra i due si verifica anche un progressivo avvicinamento. In alcune ricerche si
è voluto vedere se questo sia dovuto prevalentemente alla femmina, al maschio, oppure ad entrambi. Questi
studi suggeriscono che in casi del genere la riduzione della distanza è da attribuire ad una strategia di
avvicinamento messa in atto principalmente dalla femmina.
6) Sono state evidenziate differenze di genere nella distanza tra coppie di amici dello stesso sesso: i maschi,
infatti, interagiscono a distanze maggiori rispetto alle femmine, non scendendo mai al di sotto di una certa
soglia, come invece fanno queste ultime.
7) Le distanze personali tendono ad aumentare in funzione dell'età: sotto i 5 anni non è individuabile un vero
e proprio spazio personale; a 6 anni cominciano a stabilirsi anche nei bambini delle distanze personali, che
tuttavia sono minori rispetto a quelle degli adulti; con il raggiungimento della maturità sessuale si assiste ad
un aumento delle distanze.
8) Giocano un ruolo fondamentale anche le caratteristiche psicologiche e di personalità: ansia, livello di
autostima, estroversione/introversione ecc.
9) Incidono sulla distanza anche fattori esterni quali il tipo di lavoro svolto, il grado professionale,
caratteristiche fisiche dell’ambiente (altezza soffitto, luce ecc.)
10) Se ci si avvicina in modo inappropriato alle persone, queste percepiscono un'invasione del loro spazio
personale che spesso si traduce in un vissuto di stress, d'irritazione o d'inimicizia. Middlemist, Knowles e
Matter hanno cercato di verificare se l'invasione dello spazio personale porta ad un'attivazione di tipo
fisiologico percepibile come stressante.
11) Quando il nostro spazio personale viene invaso e non abbiamo possibilità o voglia di spostarci, possiamo
mettere in atto dei comportamenti di isolamento, tecnicamente chiamati di "cut off". Questi tendono a
sottolineare la nostra esigenza di privacy e ad escludere gli altri. Questi comportamenti vengono esagerati e
risultano molto pronunciati se percepiamo la persona come non attraente, sporca, diversa da noi, che emana
un odore non gradevole.

“L’AMORE NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA” ’

1 Quale amore nella società contemporanea?


di Rita Ascolese
Il testo che di seguito verrà presentato è tratto dal libro “Parlare d’amore. Psicologia e psicoterapia delle
relazioni intime” a cura di Francesco Aquilar. Il capitolo riportato descrive il modo in cui le trasformazioni
sociali e culturali che hanno investito la società, a partire dagli anni 60’ del secolo scorso, abbiano
determinato cambiamenti nelle relazioni intime e familiari
L'amore... la più ricca complessità comunicazionale che la vita abbia saputo far sorgere.
(Edgar Morin)
Diversi fenomeni demografici - come il calo e la posticipazione dei matrimoni, l'aumento di separazioni e
divorzi, il calo delle nascite, l'aumento delle famiglie ricomposte - rappresentano la testimonianza che la
natura del matrimonio e della famiglia è cambiata (Saraceno, Naldini, 2013); così come risulta trasformato,
rispetto al passato, l'amore tra due persone, che sembra essere sempre più complesso. Tale complessità può
essere attribuita alle profonde e significative trasformazioni sociali e culturali che hanno investito la società,
a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo, e che hanno permesso all'individuo di conquistare una
maggiore libertà di scelta attraverso un'enfatizzazione dell'individualismo spesso a discapito delle relazioni
interpersonali. Questo capitolo ha lo scopo di descrivere tali cambiamenti e l'impatto che hanno avuto sulle
relazioni intime e familiari, attraverso il confronto tra società tradizionali e moderne e facendo riferimento al
pensiero di autori, in gran parte sociologi, che hanno approfondito tale argomento.
1.1 La famiglia mutevole

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Nell'era in cui viviamo si ha la sensazione che l'amore sia diventato un sentimento sempre più raro, sia per le
difficoltà che donne e uomini sperimentano nell'instaurare relazioni sentimentali durature, sia per l'aumento
della percentuale dei divorzi e delle separazioni e il calo dei matrimoni. Tali dati, riscontrabili dall'esperienza
quotidiana e dalle fonti statistiche (secondo mia recente rilevazione Istat - pubblicata sul sito www.istat.it a
novembre 2014—nell'anno 2013 sono stati celebrati 13.081 matrimoni in meno rispetto all'anno precedente),
possono sembrare pessimistici, tuttavia una riflessione più ampia ci permetterebbe di definire l'amore non
tanto come un sentimento raro, ma come un fenomeno che abbia cambiato completamente forma. Infatti, sia
il modello tradizionale di rapporto di coppia incentrato sul matrimonio, così come il concetto di famiglia
sono oramai considerati alquanto obsoleti lasciando spazio a nuovi tipi di legami. La crisi dell'istituzione
matrimoniale e le recenti trasformazioni della famiglia trovano conferma in rilevanti fenomeni demografici
come: l'aumento delle convivenze, l'aumento nel corso degli anni dei divorzi e delle separazioni, il calo e la
posticipazione dei matrimoni, il calo delle nascite e l'aumento di nascite fuori dal matrimonio, l'aumento di
famiglie ricomposte e l'aumento di persone che vivono da sole (Zanatta, 2008).Questi fenomeni indicano che
la natura stessa della famiglia e del matrimonio è cambiata. Mentre in passato, sino agli inizi degli anni
Sessanta, il matrimonio simboleggiava il passaggio dall'adolescenza all'età adulta, inoltre, rappresentava un
evento che legittimava l'accesso sessuale, ed era considerato il fondamento necessario della famiglia e della
procreazione (Zanatta, 2008), nella società contemporanea tali funzioni sociali del matrimonio sono sempre
più secondarie, offuscate sempre più dal reciproco benessere affettivo, sessuale e materiale dei coniugi
(Cheli, 2009).
Inoltre, sembra non esserci più coincidenza tra la famiglia intesa come il complesso delle relazioni affettive
più strette e la famiglia intesa come residenza comune, il tetto sotto il quale si vive insieme. La famiglia può
subire nel corso del tempo delle trasformazioni a causa di scelte personali, e l'individuo, nel corso della
propria vita, può sperimentare diverse forme di relazioni familiari. Pertanto, la famiglia tende sempre più a
trasformarsi da esperienza totale e permanente in esperienza parziale e transitoria della vita - individuale
(Zanatta, 2008).
I sociologi, sempre più frequentemente, proprio per sottolineare le profonde trasformazioni che può subire la
famiglia e quindi la molteplicità dei modi di vivere insieme, usano il plurale parlando di "famiglie" e non di
"famiglia".
Le possibili forme familiari che oramai sono condivise dalla maggior parte degli autori sono le seguenti,
descritte dalla sociologa Anna Laura Zanatta (2008):
a) famiglie di fatto o convivenza more uxorio, o unione libera, indica la situazione di due persone che vivono
insieme sotto uno stesso tetto senza essere uniti da matrimonio. I motivi ditale scelta possono essere diversi,
Barbagli per esempio ne individua quattro:
- convivere per l'impossibilità di risposarsi (o comunque inattesa di ottenere il divorzio, oppure per non
perdere vantaggi economici);
- convivere per un rifiuto ideologico del matrimonio;
- convivere su iniziativa da parte delle donne con elevato livello di istruzione o posizioni professionali
medio-alte, al fine di dichiararsi indipendenti dalle aspettative tradizionali sul ruolo femminile nel
matrimonio;
- convivere al fine di "provare" per ridurre i rischi di commettere errori nella scelta del coniuge (Barbagli,
Castiglioni, Dalla Zuanna, 2003). A questi quattro tipi di motivazione della convivenza, Zanatta ne aggiunge
un quinto che definisce "post-moderno" o "ambivalente", cioè un atteggiamento di indifferenza nei confronti
dell'istituzione. La convivenza in questo caso non è un'alternativa stabile e definitiva al matrimonio, ma è
aperta a qualunque sbocco.
Tra le convivenze, sono, inoltre, in aumento quelle tra omosessuali che difatti convivono poiché in molti
Paesi, tra cui anche l'Italia, ancora si discute sul riconoscere o meno loro il diritto di unirsi in matrimonio;
a) famiglie con un solo genitore sono quelle famiglie in cui un genitore solo vive insieme con almeno un
figlio minore di 18 anni. Si tratta di famiglie che esistono sin dai tempi antichi, e in espansione soprattutto
negli ultimi anni in tutti i Paesi sviluppati. Questa tipologia di famiglia può nascere in seguito a diverse
cause: vedovanza, procreazione al di fuori del matrimonio, separazione, divorzio. Ma, mentre nel passato, si
costituivano in seguito a eventi ineluttabili, non voluti (morte di un coniuge), nella società contemporanea il
grosso aumento delle famiglie monogenitoriali è dovuto soprattutto alla separazione e al divorzio, quindi si
tratta di una scelta individuale o di coppia. Alcuni autori (Saraceno, Naldini, 2013) ritengono inappropriato il
termine di famiglia monogenitoriale, sarebbe più corretto chiamarla bigenitore o binucleare, in quanto, anche

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in seguito alla rottura coniugale, entrambi i genitori mantengono rapporti validi e continuativi con i figli. Il
termine bigenitorialità è stato tra l'altro utilizzato dalla legge che, attuata già da diversi anni dai Paesi
dell'Europa occidentale, in Italia ha trovato pieno riconoscimento soltanto nel 2006 (legge 54 del 2006)
stabilendo che i figli devono essere affidati a entrambi i genitori i quali esercitano la potestà genitoriale;
b) famiglie ricomposte o ricostituite sono quelle famiglie in cui almeno uno dei due coniugi proviene da un
matrimonio precedente. Tale tipologia di famiglia esisteva anche nel passato, allorché un vedovo ,o una
vedova si risposava. Oggi, come nel caso delle famiglie con un solo genitore, sono la separazione o il
divorzio piuttosto che la vedovanza a rendere di nuovo disponibili per un nuovo matrimonio le persone. La
famiglia ricomposta è una famiglia complessa, per la struttura e per la relazione tra i componenti, soprattutto
quando è composta da coppie con figli sia del precedente matrimonio, sia del nuovo. I nuovi membri si
aggiungono a quelli precedenti e le relazioni s'intrecciano non solo all'interno del nucleo, ma anche tra i
diversi nuclei che compongono la costellazione familiare. Tale rete familiare è dovuta proprio al concetto di
bigenitorialità e cioè all'interesse dei figli nel mantenere validi rapporti con entrambi i genitori (Zanatta,
2008);
c) famiglie unipersonali sono quelle famiglie in cui le persone vivono sole. Nella società contemporanea le
persone che decidono di vivere sole sono in aumento. In gran parte dei casi le famiglie unipersonali sono la
conseguenza dell'invecchiamento della popolazione e della possibilità di rimanere vedove per un periodo più
o meno lungo, soprattutto per le donne anziane che di solito sono più longeve rispetto ai loro mariti o
compagni. Le famiglie individuali sempre più spesso sono composte da giovani, che decidono di posticipare
l'impegno nella vita adulta e nei legami familiari, oppure sono composte da adulti, solitamente divorziati, che
hanno difficoltà o una scarsa propensione a ricostruire una vita di coppia nella mezza età;
d) famiglie miste sono quelle famiglie in cui i coniugi o partner sono di diversa cittadinanza, oppure anche
della stessa cittadinanza ma diversi per lingua, religione, etnia. Sono diversi i motivi che spingono a un
matrimonio interetnico: oltre all'amore reciproco, per una straniera, sposare per esempio un italiano, potrebbe
essere il mezzo più semplice per ottenere la cittadinanza; oppure potrebbe trattarsi di una forma di orgoglio
etnico. Riguardo alle motivazioni che spingono un italiano a sposare una straniera, diversi studiosi hanno
formulato l'ipotesi che l'immigrato straniero sia considerato un coniuge "di riserva" per quei soggetti
svantaggiati nel mercato matrimoniale perché hanno un'età avanzata o perché provenienti da un precedente
matrimonio o per il basso livello di istruzione o status sociale ecc. (Zanatta, 2008; Tognetti Bordogna, 2001).
Tale molteplicità di forme familiari dimostra non solo la variabilità dei confini della famiglia, ma segnala
anche come la struttura della famiglia e le relazioni che la compongono possono cambiare nel corso della
vita della famiglia stessa e degli individui.
1.2 Dalla fusione all'individualizzazione
Il modo in cui ciascun individuo vive una relazione sentimentale è condizionato dalla propria personalità,
dalla propria storia di vita, dalle esperienze personali: c'è chi, in seguito a una rottura, cerca immediatamente
una nuova relazione sentimentale, oppure, pur non essendo soddisfatto del proprio partner, continua a starci
insieme; chi vive numerose e brevi relazioni in maniera turbolenta e intensa considerandole ogni volta come
la storia più importante della propria vita; c'è chi, invece, in seguito a una rottura, decide di chiudere
completamente con l'amore, precludendosi la possibilità di innamorarsi nuovamente oppure c'è chi ha paura
di innamorarsi sia per il timore di soffrire, sia per il timore di perdere la libertà; chi, ancora, preferisce vivere
storie parallele senza mai impegnarsi in una progettualità futura.
Oltre gli aspetti psicologici della relazione sentimentale, che saranno illustrati più specificatamente nei
capitoli successivi, sembra utile e necessario considerare anche un aspetto "macro" costituito dall'influenza
che la nostra attuale epoca storica esercita sulle dinamiche umane e relazionali e che ha contribuito a
indebolire i legami sentimentali.
L'amore è condizionato anche dalle trasformazioni sociali che sono avvenute nel corso degli anni.
Gli anni Sessanta, anni di rivoluzione culturale, hanno dato vita a un nuovo sistema di valori incentrato sulla
libertà individuale, la realizzazione personale, l'appagamento di sé, la tolleranza verso il comportamento
altrui, e sul rifiuto del controllo sociale della comunità locale e delle istituzioni politiche e religiose. In
seguito all'affermarsi di questi nuovi valori - che possono essere sintetizzati dal termine
"individualizzazione" (Beck, 2000) - le relazioni sentimentali si sono indebolite. Esse si basano
maggiormente sull'attrazione reciproca e sono divenute un mezzo per il mutuo arricchimento emotivo e
appagamento fisico, non necessariamente caratterizzato da obiettivi a lungo termine.

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Nell'età contemporanea si sviluppa, la tendenza ad affermare l'indipendenza individuale in seno alla stessa
famiglia coniugale e l'esigenza di auto-realizzazione del singolo può diventare prioritaria. Questa enfasi sulla
libertà individuale e sull'autorealizzazione ha fatto sì che le unioni vengano iniziate e concluse liberamente,
senza aver più bisogno di essere sancite in modo formale dallo stato o dalla chiesa (Caltabiano, 2008).
Antony Giddens, già nel 1995 ne Le trasformazioni dell'intimità, scriveva che l'amore romantico ha lasciato
il posto all'amore da lui definito convergente o sessualità duttile, cioè un amore svincolato dal matrimonio.
Venendo meno quella coincidenza tra sessualità, amore e procreazione, la sessualità è duttile proprio perché
è libera dai vincoli della riproduzione.
Forse è proprio l'aver posto l'amore al centro del matrimonio uno dei fattori che hanno reso più fragile di un
tempo l'amore coniugale. Infatti, nelle società tradizionali i sentimenti degli individui erano del tutto
irrilevanti, esisteva un'alleanza tra famiglie, i cosiddetti "matrimoni combinati", pertanto la stabilità
matrimoniale era garantita appunto da interessi economici o di potere che stavano alla base di tale alleanza.
Da quando il matrimonio si basa sull'amore, le aspettative di felicità della coppia sono aumentate, ma
contemporaneamente è cambiato il sistema dei valori religiosi tradizionali, si è affermato sempre più
l'individualismo e il soddisfacimento personale piuttosto che collettivo e in questo modo l'unione rischia di
rompersi quando il sentimento amoroso viene meno (Zanatta, 2008).
Un altro aspetto dell'amore romantico è che esso presupponeva una forte asimmetria nella coppia e una
soggezione domestica delle donne. Quella che sembra delinearsi oggi è la possibilità di una relazione pura
basata sulla parità sessuale. L'emancipazione femminile ha aperto spazi verso nuove modalità di stare
insieme e l'amore convergente diventa all'interno della relazione pura un dare e avere reciproco, nel senso
che entrambi traggono benefici da "ritenere che valga la pena continuare" (Giddens 1995).
Inoltre, l'emancipazione femminile ha dato luogo a un nuovo modello di matrimonio, non più fusionale, ma
negoziate, in cui vige la "contrattazione continua" nella coppia, un rapporto in cui l'autonomia piuttosto che
la fusionalità diventa il valore principale e la base stessa dell'intimità di coppia.
È evidente che tale trasformazione delle relazioni intime comporta un rischio crescente di fragilità e
instabilità dei legami che la sociologa francese Irène Théry definisce con il termine démariage: "il
matrimonio, è divenuto un'esperienza soggettiva; sceglierlo o romperlo attiene alla coscienza
individuale" (Théry, 2013). L'instabilità familiare riflette l'instabilità dell'intera società di oggi (Zanatta,
2008) definita da illustri sociologi come U. Beck e i Bauman società del rischio o società dell'incertezza o
società liquida.
Oltre all'individualismo e all'emancipazione femminile, un altro fattore che ha contribuito alla modificazione
delle relazioni affettive è rappresentato dai cambiamenti nel mercato del lavoro e nei processi formativi. I
percorsi formativi sono sempre più lunghi per cui gli individui escono sempre più tardi dalla famiglia
d'origine, inoltre, in periodi di crisi, in cui non è facile trovare un lavoro stabile è sempre più difficile anche
decidere di convivere o sposarsi o andare a vivere da soli per una questione economica.
Le richieste del mercato del lavoro e quelle della vita di coppia sono sempre più in antagonismo. Al
lavoratore è richiesta maggiore flessibilità, una maggiore disponibilità al cambiamento. In una società
liquido-moderna come la definisce Bauman le strategie formulate in risposta alle innovazioni invecchiano
rapidamente e diventano obsolete prima che gli attori abbiano avuto una qualche possibilità di apprenderle
correttamente. Per le persone quindi non è facile stare a passo con i tempi. Ciò si riflette anche sulla vita di
coppia in cui vengono condivisi anche gli aspetti lavorativi e questi possono condizionare il tipo di rapporto.
Si pensi per esempio al caso in cui il lavoro di uno dei due partner richiede un trasferimento all'estero per un
certo periodo di tempo, ci si può trovare quindi in una situazione dove il marito (o la moglie) deve
allontanarsi temporaneamente pertanto la relazione si trasforma in un rapporto a distanza; oppure la coppia
può decidere di trasferirsi insieme cercando di trovare un nuovo equilibrio e se ci sono anche dei figli la
decisione del trasferimento diventa ancora più difficile.
Alla base delle trasformazioni culturali e sociali appena descritte vi è l'individualizzazione, quel processo che
ha posto l'accento sulle potenzialità del singolo individuo, il quale, liberato dai vincoli della tradizione, può
forse per la prima volta nella storia decidere del proprio destino, della propria vita. Con l'indebolimento delle
sicurezze e certezze tradizionali ogni percorso di vita individuale diviene un compito, una missione che
ognuno sceglie sulla base delle proprie aspettative e delle possibilità che incontra. Realizzare la propria vita
non è più un compito semplice, non è più aderire a delle tappe prefissate di vita, ma diventa una questione di
scelte da operarsi continuamente in maniera individuale.

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Il rovescio della medaglia è che proprio la tanto desiderata libertà individuale rende i percorsi di vita più
insicuri, comprese le relazioni interpersonali. Libertà significa che nulla è stabilito in modo permanente. E
ciò può essere un bene perché da un lato suggerisce che nulla ancora è perduto, dall'altro però costituisce
anche un male perché il trionfo per la conquista di un qualcosa è precario poiché tutto potrebbe cambiare ed
evolversi.
In una situazione in cui: si indeboliscono i legami di fiducia e i riferimenti che per le precedenti generazioni
erano essenziali alla formazione delle personalità; alla stabilità si sostituisce l'incertezza e l'innovazione;
l'integrità dell'io viene erosa e sottoposta a molteplici forme di stress (stress da lavoro, nelle relazioni
amicali, romantiche, nel rapporto con i figli) l'uomo moderno, quasi vivesse su sabbie mobili, deve essere
continuamente pronto a cambiare la propria posizione, per questo egli ha bisogno di un particolare
atteggiamento e di un costante adattamento (Bauman, 2007).
Tale libertà genera quindi incertezze, ansie e anche un senso di solitudine crescente, dovuto all'imporsi di una
società sempre più individualizzata che impedisce di vedere l'ambiente nel quale si agisce non come un
luogo nel quale è possibile trovare ascolto e aiuto, ma come luogo di continua competizione.
L'individualizzazione provoca una tale "iper-responsabilizzazione" di fronte alle scelte al punto che il vissuto
di ansia, incertezza di fronte alle difficoltà - sebbene sia riconducibile a fattori strutturali - viene percepito
come tratto di esperienza esclusivamente individuale.
1.3 Caos delle relazioni amorose
Il titolo di questo paragrafo riprende l'espressione che hanno usato due sociologi tedeschi per descrivere le
relazioni affettive nel mondo contemporaneo. L'individualizzazione ha condotto anche a ciò che gli autori
Beck e Beck-Gernsheim chiamano appunto "caos delle relazioni amorose" (Beck, Beck-Gernsheim, 2008),
un'espressione perfettamente calzante e condivisa anche da altri autori (Illouz, 2013), proprio perché l'amore
è diventato un ambito nel quale non c'è più alcuna regola, dove tutto è in qualche modo rinegoziabile, ri-
giocabile, sospeso e ripreso.
Volendo fare un paragone rispetto alle società tradizionali vediamo come le relazioni amorose sono diventate
sempre più "caotiche".
Innanzitutto sembra esserci nella società contemporanea una mancata chiarezza e condivisione dei codici
dell'incontro amoroso che erano, invece, presenti nella società tradizionale.
Fare la corte a una donna aveva rituali ben precisi: l'uomo, prima di uscire o di conoscere una donna aveva
l'obbligo di chiedere il permesso al padre di quest'ultima per poterla frequentare, e successivamente per
poterla sposare. Era utilizzato il "voi" verso la donna come forma di rispetto. L'uomo si assumeva quindi una
responsabilità nel momento in cui effettuava la scelta di frequentare una donna. Tale modalità, per certi versi
molto rigida e controllata, aveva l'effetto di strutturare la vita emozionale e anche di diminuire l'incertezza.
Nel modello tradizionale se un uomo prendeva l'impegno di corteggiare una donna e poi vi rinunciava, era
socialmente condannato. Così come anche la scelta matrimoniale: cinquant'anni fa l'idea di poter sospendere
o interrompere un matrimonio era non solo poco realizzabile da un punto di vista legale (la legge sui divorzi
è stata introdotta soltanto nel 1970) ma era irrealizzabile anche da un punto di vista morale, religioso. Lo
svincolarsi dal controllo sociale, dalle istituzioni politiche e religiose ha reso la vita degli individui molto più
vulnerabile.
Un secondo elemento da considerare è la crescente ambiguità nei rituali di corteggiamento. Nella società
post-moderna il corteggiamento diventa sempre più ambiguo, talvolta implica travisamenti, incomprensioni
dovute proprio alla volontà delle persone di non prendere alcuna posizione. Talvolta vale il detto "in amore
vince chi fugge", meno ci si svela e meglio è!
L'ambiguità dei nostri tempi è funzionale per vivere per esempio relazioni esclusivamente sessuali, oppure
per mantenere vive più relazioni contemporaneamente, oppure per non impegnarsi esclusivamente con una
sola persona per mantenersi attivi nella ricerca di qualcosa di migliore.
Un terzo aspetto che, rispetto al passato, si è modificato riguarda il modo di approcciare al potenziale
partner. Si sono affermati nel corso del tempo nuovi modelli che non traggono più spunto da un ormai antico
e arcaico galateo, bensì s'ispirano ai modelli offerti dai mezzi di comunicazione di massa, cinema oppure da
trasmissioni televisive che propongono forme di corteggiamento pubblico. Uno strumento che sicuramente
ha cambiato e continua a cambiare il modo di approcciare all'altro è Internet e i social network. Internet ha
cambiato la percezione del Sé, delle relazioni sociali e dell'amore. Le persone sono sempre più connesse,
cresce il numero di amici virtuali.

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Il corteggiamento avviene spesso attraverso i social network, sono centinaia i forum per gli incontri amorosi
dove le persone, inserendo i propri dati e le proprie preferenze, sperano che dall'altro lato della rete possano
incontrare l'anima gemella. I forum virtuali talvolta funzionano, lo dimostra il crescente numero di persone
che si sposano con partner conosciuti proprio attraverso la rete. Ma, come fa osservare Bauman (2011), la
rete riduce se stesso e l'altro a oggetti, fa assumere all'amore un carattere consumistico, poiché nelle
bacheche virtuali si scelgono le caratteristiche che più interessano in una persona, quasi come se si stesse
acquistando una merce in un negozio.
Attraverso l'esclusivo canale virtuale il rischio, soprattutto per gli adolescenti, è di cadere in un
analfabetismo emozionale e sessuale. Internet permette di non esporsi, a differenza delle dinamiche tipiche di
una seduzione reale. Può rappresentare un aiuto per le persone semplicemente timide, ma anche uno
strumento in mano ai malintenzionati che tentano di manipolare il prossimo e arrivare ai propri obiettivi,
costruendo immagini che si discostano, spesso anche marcatamente, dalla realtà. Il risultato è che in molti
casi ci si innamori non di una persona, ma di quella costruzione fantastica che l'altro ha dato di sé.
Internet è uno strumento utilissimo e oramai indispensabile, ma se sostituisce la nostra vita reale e viene
utilizzato come unico mezzo attraverso cui comunicare, non solo può creare incomprensioni, ma può creare
solitudine e un individualismo quasi ermetico, non facendo vivere relazioni sociali e chiudendo le persone in
un mondo privo di emozioni autentiche (Ascolese, 2013). Infine, un altro elemento che ha subito una
trasformazione rispetto al passato è il criterio utilizzato nella scelta del partner. Nelle società tradizionali la
scelta del partner avveniva all'interno di un circolo relativamente chiuso di famiglie conosciute e della stessa
classe sociale. La classe sociale, il rango, il "carattere" appartengono a un mondo in cui i criteri per stabilire
il valore erano noti e pubblicamente espressi, oggi, invece, il valore sociale deve essere negoziato nell'ambito
dei gusti individuali (Illouz, 2013). Nella società contemporanea l'altro viene valutato e scelto secondo criteri
molteplici e transitori come per esempio: l'attrazione fisica, la chimica emotiva, la compatibilità dei gusti e
l'aspetto psicologico. Inoltre, si tratta di criteri prettamente individuali, soggettivi. Per esempio, la seduzione
oppure l'essere desiderabili, sebbene seguano canoni pubblici di bellezza, sono pur sempre criteri soggettivi
e sottoposti a dinamiche individualizzate e pertanto relativamente imprevedibili.
Sia l'uomo sia la donna possiedono una scarsa capacità di prevedere se verranno giudicati attraenti da un
potenziale partner o se riusciranno a mantenere vivo il proprio desiderio. Ciò crea incertezza e una maggiore
paura di essere rifiutati. Mentre in passato, l'essere rifiutati veniva attribuito non tanto all'essenza intima del
sé, quanto alla posizione sociale che si ricopriva, oggi si soffre non solo per aver perso o non essere riusciti
a conquistare la persona amata, ma si soffre perché si mette in discussione il sé, il rifiuto può essere
interpretato come "essere poco attraenti", esponendosi così al rischio di un indebolire l'autostima.
1.4 Alla ricerca dell'amore impossibile
In seguito alla trasformazione delle modalità di corteggiamento e dei criteri di scelta del partner, si assiste a
una visione ambigua dell'amore: da un lato oggi più che mai sembrerebbe che si ha bisogno d'amore ancora
più che in passato poiché altre forme di vita associativa si sono progressivamente inaridite, le reti di vicinato
quasi non esistono più soprattutto nei grandi centri e si sono allentati anche i legami di parentela, allo stesso
tempo però si ha anche paura dell'amore per il timore di perdere la libertà.
Il termine "liquido", introdotto da Bauman (2004) per descrivere oltre che la società post-moderna anche
l'amore, rende bene il significato ditale ambiguità, cioè l'individuo sembra oscillare tra un desiderio di
intimità con il proprio partner, e un sentimento di paura di perdere o sacrificare la propria autonomia. Tale
parere accomuna diversi autori, come la sociologa israeliana Eva Illouz, che nel suo saggio intitolato Perché
l'amore fa soffrire (2013) descrive che una delle difficoltà di approcciare all'amore sta soprattutto nella fobia
da impegno, la paura di perdere la libertà, di perdere la possibilità di ricercare nuovi e migliori possibilità.
Ecco perché, secondo il parere dell'autrice, uomini e donne contemporanee sempre più spesso scelgono
l'ambivalenza ossia il non scegliere, il lasciare le porte sempre tutte aperte, e, quando le relazioni diventano
difficili, le s’interrompe.
Una fobia da impegno che la sociologa definisce "edonistica", propria di uomini che non riescono a
"fermarsi su una donna" per la costante sensazione di voler mantenere aperte altre possibilità e continuare a
ricercare il divertimento e il piacere personale. Sebbene la fobia da impegno riguardi tanto le donne quanto
gli uomini, secondo la Illouz - sulla base delle sue ricerche - è una prerogativa per lo più maschile e secondo
il suo parere la causa sarebbe da cercare nell'abbondanza di disponibilità sessuale ed emozionale della donna
e nella necessità per l'uomo di "dare valore" alle esperienze vissute.

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La mancanza di impegno conduce .quindi alla nascita di nuove forme di legami meno impegnativi orientati
principalmente all'aspetto sessuale (mischiando codici diversi e generando un tipo di rapporto non definibile)
oppure le amicizie sessuali che nascono nella rete dei social network dove si chatta, magari ci si incontra e
poi si sparisce (Cianconi, 2011). I legami sono stati sostituiti dalle "connessioni" del computer, che si
possono cancellare o stabilire con un clic. Mentre i legami richiedono impegno, "connettere" e disconnettere"
è "un gioco da bambini" come ritiene Bauman (2013). Su Facebook si possono avere centinaia di contatti
muovendo semplicemente un dito, ma farsi degli amici nella vita reale è molto più complicato, la facilità di
connettersi è scambiata per libertà, ma si tramuta in perdita di sicurezza.
In tale panorama sociale, il legame affettivo è temuto non solo per la paura di perdere la propria libertà.
L'individualismo ha provocato una certa paura dell'amore legata alla paura di soffrire. A causa di questi
timori e fobie si è andata configurando nel corso degli anni una nuova tipologia caratteriale definita da
Ghezzani (2012) "anoressia sentimentale" cioè inibizione o rifiuto del desiderio di contrarre relazioni
amorose, della cui intensità esclusività e durata si ha paura, odio o anche ripugnanza. L'autore individua due
tipologie di caratteri: il dipendente affettivo che non vuole diventare schiavo dell'amore, dipendendo dalla
volontà della persona amata confrontandosi con la vergogna di essere stato sopraffatto; il narcisista isterico
che teme che la consapevolezza dei propri eventuali bisogni insoddisfatti (carenze di accudimento e di
amore, frustrazioni dei propri desideri, occasioni che negate) spinga alla ribellione, al cambiamento
traumatico della propria vita e del proprio mondo, col rischio di doversi confrontare con l'orrore della colpa,
del disordine, del caos (Ghezzani, 2012).
In conclusione è possibile affermare che le trasformazioni sociali e culturali hanno condizionato i nostri
sentimenti e valori affettivi conducendo a uno stile di vita consumistico (orientato al successo, al guadagno e
che provoca una percezione dei sentimenti e delle relazioni con mentalità commerciale), individualistico
(orientato sul valore della propria realizzazione personale), agonistico (orientato al primato della vittoria e
della supremazia a tutti i costi), edonistico (orientato alla ricerca del divertimento e del piacere personale).
Un tale cambiamento di stile relazionale ha condotto, più che alla crisi del matrimonio o dell'amore, a modi
diversi di vita di coppia Com'è stato descritto. precedentemente, la famiglia ha cambiato volto: non si
identifica più nel matrimonio, ma ha assunto molteplici aspetti che hanno dato vita sia a vantaggi,
rappresentati da una maggiore libertà di scelta individuale, lo sviluppo della parità tra uomini e dorme,
sviluppo di nuove reti di relazioni e di solidarietà familiari. Dalle nuove modalità di unione derivano però
anche dei rischi come: l'aumento dell'instabilità: coniugale e di coppia, i conflitti e le sofferenze affettive e
psicologiche degli adulti ma soprattutto dei bambini di fronte a una rottura familiare, l'impoverimento
economico delle famiglie con un solo genitore, la problematicità nella legittimazione delle unioni
omosessuali (Zanatta, 2008).
La difficile sfida di oggi è forse quella di riuscire a coniugare l'autonomia e la libertà di scelta individuale
con la responsabilità e la solidarietà familiare Per raggiungere l'equilibrio tra libertà e responsabilità e ambire
quindi a una sorta di stabilità - in un mondo in cui la stabilità non è più garantita da regole e norme sociali -
ciascun individuo potrebbe forse fare leva sulla propria crescita personale, attraverso l'acquisizione e il
potenziamento di competenze specifiche descritte da Aquilar come: competenza cognitiva e metacognitiva,
competenza emotiva e meta-emotiva, competenza comunicativa e meta-comunicativa, competenza
motivazionale e multi motivazionale, competenza negoziale e post-negoziale (Aquilar, 2012).
L'incremento di tali competenze potrebbe permettere agli individui di compiere scelte personali in maniera
più consapevole.

2 Sintesi
2.1 La famiglia mutevole
1) Dagli anni 60’ in poi si è assistito a profonde trasformazioni sociali che hanno portato a modificare i
tradizionali rapporti di coppia e familiari. La crisi dell’istituzione matrimoniale e le recenti trasformazioni
della famiglia trovano conferma in rilevanti fenomeni demografici: l’aumento delle convivenze, l’aumento
dei divorzi, il calo e la posticipazione dei matrimoni, il calo delle nascite, l’aumento di famiglie ricomposte
e di persone che vivono sole.
2) I sociologi attualmente descrivono diverse forme familiari: famiglie di fatto, famiglie con un solo genitore,
famiglie ricomposte e ricostituite, famiglie uni personali, famiglie miste. Tale molteplicità delle forme
familiari dimostra non solo la variabilità dei confini della famiglia, ma segnala anche come la struttura della

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famiglia e le relazioni che la compongono possono cambiare nel corso della vita della famiglia stessa e degli
individui.
2.2 Dalla fusione all'individualizzazione
3) Il modo in cui ciascun individuo vive una relazione sentimentale è condizionato dalla propria personalità,
dalla storia di vita e dalle esperienze personali. Oltre agli aspetti psicologici è necessario considerare il ruolo
che la nostra attuale epoca storica esercita sulle dinamiche umane e relazionali contribuendo ad indebolire i
legami sentimentali.
4) Gli anno 60’, anni di rivoluzione culturale, hanno dato vita ad un nuovo sistema di valori incentrato sulla
libertà individuale, la realizzazione personale, l’appagamento di sé, la tolleranza verso il comportamento
altrui, e sul rifiuto del controllo sociale della comunità locale e delle istituzioni politiche e religiose.
L’affermarsi di tali valori sintetizzabili con il termine “individualizzazione” ha portato all’indebolimento
delle relazioni sentimentali.
5) Alcuni autori pongono alla base della trasformazione delle relazioni intime alcuni fattori: lo sviluppo della
tendenza ad affermare l’indipendenza individuale e il bisogno di autoaffermazione personale; la tendenza a
dare maggiore peso ai sentimenti come base fondamentale del matrimonio; l’emancipazione femminile;
cambiamenti del mercato del lavoro Tali trasformazioni comportano un rischio crescente di fragilità e di
instabilità dei legami.
6) L’individualizzazione pone l’accento sulle potenzialità dell’individuo, che, liberato dai vincoli delle
tradizioni, può decidere il proprio destino. Questo da un lato porta ad una “conquista” della libertà, dall’altro
rende i percorsi di vita insicuri, genera incertezze, ansie, senso di solitudine in un ambiente fortemente
competitivo e provoca una forte iper-responsabilizzazione di fronte alle scelte.
2.3 Caos delle relazioni amorose
7) Diversi autori per descrivere le relazioni nell’era moderna utilizzano il termine “caos”. Alcuni di questi
individuano delle specifiche caratteristiche che le differenziano dalle relazioni nella società “tradizionale”:
F 0la
B 7mancata chiarezza e condivisione dei codici dell’incontro amoroso

F 0l’ambiguità
B7 nei rituali di corteggiamento
F 0le
B 7modalità di approcciare al potenziale partner

F 0l’utilizzo
B7 dei social network come mezzo per corteggiare
F 0il
B 7criterio utilizzato per la scelta del partner.

Alla ricerca dell'amore impossibile


8) Per diversi autori, l’amore nella società contemporanea è caratterizzato da ambiguità. Secondo Bauman
l’individuo sembra oscillare tra il desiderio di intimità e un sentimento di paura di perdere la propria
autonomia, utilizzando il termine “liquido” per definire le relazioni attuali. Eva Illouz, utilizza il termine
“fobia da impegno” sottolineando il ruolo della paura di perdere la libertà, di perdere la possibilità di
ricercare nuovi e migliori possibilità. Ghezzani utilizza, invece, il termine “anoressia sentimentale” per
descrivere l’inibizione o il rifiuto del desiderio di contrarre relazioni amorose.
9) Ghezzani individua due tipologie di caratteri: il dipendente affettivo che teme di diventare schiavo
dell’amore, dipendendo dalla volontà della persona amata confrontandosi con la vergogna di essere stato
sopraffatto; il narcisista isterico che teme la consapevolezza dei propri eventuali bisogni insoddisfatti.
10) Secondo gli autori le trasformazioni sociali e culturali hanno condizionato i nostri sentimenti e valori
affettivi conducendo ad uno stile consumistico, individualistico , agonistico e edonistico, che ha portato alla
nascita di modi diversi di vivere la coppia.
11) In conclusione, secondo gli autori, l’attuale sfida sarebbe quella di riuscire a coniugare il bisogno di
autonomia e di libertà di scelta individuale con la responsabilità e la solidarietà familiare.

“IL CONDIZIONAMENTO OPERANTE”

1 Rinforzi e punizioni, positivo e negativo…che confusione!


Scritto da: VALERIA ROSSI in: Addestramento, Educazione, Etologia, Psicologia canina
1.1 Premessa
La mia recente esperienza come "valutatore" all'esame finale di un corso per educatori cinofili, di cui ho
parlato in questo articolo, ha confermato le mie convinzioni su quanto sia ostico, per gli allievi, capire i
meccanismi del condizionamento operante. Se tutto il resto della teoria ha visto quasi tutti i ragazzi

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preparatissimi (esclusi i pochi che non avevano proprio studiato...), su due argomenti si sono impuntati un
po' tutti, chi più chi meno: l’ imprinting/impregnazione e il condizionamento operante, appunto, con lacune
decisamente più vistose nei confronti di quest'ultimo. Ho pensato, quindi, di provare a spiegare nel modo più
semplice possibile questi due temi ostici: solo che un modo davvero "semplice" in realtà non c'è, soprattutto
perché gli studi di Skinner ("padre" del condizionamento operante, così come Pavlov fu il "padre" del
condizionamento classico) utilizzano una terminologia che è già di per sé fuorviante. Si parla infatti di
rinforzi e punizioni "positive" e "negative", termini che vanno intesi in senso matematico (e cioè come
“segno +” e "segno -") mentre la stragrande maggioranza delle persone è... condizionata (gioco di parole, si,
ma anche realtà!) ad intenderle in senso ''morale".
Per questo tutti sono prontissimi a capire cos'è un rinforzo positivo (che viene visto genericamente come
"premio per un'azione corretta": il che non è proprio esattissimo, ma all'atto pratico va anche bene), e cos'è
una punizione (intesa, correttamente, come "qualcosa che faccio affinché tu non ripeta un comportamento
sbagliato"): però vanno tutti in drammatica confusione quando si comincia a parlare di "rinforzo
negativo" (ma come? Un premio non può essere negativo! Perché "negativo" viene recepito come "cattivo,
sgradevole") e ancor più quando di paria di "punizione positiva" (ma come, positiva? Il positivo è buono,
come fa una punizione ad essere buona?). Proviamo, comunque, a sbrogliare la matassa, armandoci di
pazienza e partendo da lontano, dando una rapida occhiata alla storia del comportamentismo. A
proposito...sapete perché qualcuno salta per aria come una molla se gli parli, che so, di “veterinario
comportamentista”, e ti rimbecca subito con un secco "semmai sarà un comportamentalista?
1.2 Storia del comportamentismo
Il comportamentismo propriamente detto fu un approccio alla psicologia, ad opera di J.B. Watson, basato
sull'assunto che la mente non fosse studiabile né comprensibile, ma che l'unica cosa su cui si poteva
lavorare fosse il comportamento osservabile, inteso come relazione tra stimoli e risposte: anzi, più
precisamente, inteso come il movimento di determinati muscoli. La mente veniva definita "black box",
scatola nera: qualcosa di sconosciuto e, in fondo, neppure troppo importante: intanto quello che contava
erano i comportamenti, e, alla fin fine, chi se ne impippava del come e del perché si fossero "creati" all’
interno di questa misteriosa scatola nera. Poiché questi concetti si scontrano palesemente con il cognitivismo,
molto apprezzato dalla cinofilia moderna, che invece considera come principale oggetto dì studi proprio la
mente, considerata come sistema indipendente dai fattori biologici, sociali e culturali, ecco che il termine
"comportamentista"’, se inteso in senso letterale, può venire interpretato come sinonimo "tizio che considera
il cane solo come oggetto condizionabile, e non come soggettò pensante”. Per questo, i cinoteorici
preferiscono utilizzare il termine ‘comportamentalista’, per indicare un professionista esperto nei
comportamento canino. Chiusa questa parentesi...il vero e proprio comportamentismo, nato all'inizio del
Novecento, era inizialmente basato sugli studi di Ivan Pavlov, che, proprio sui cani, aveva elaborato la teoria
della risposta condizionata. Presumo che questa la conosciate tutti, ma la riassumo rapidissimamente: ai cani
di Pavlov, prima che ricevessero il cibo, veniva fatto sentire il suono di una campanella; ripetendo questa
procedura più volte si otteneva che i cani cominciassero a salivare non più vedendo il cibo (stimolo
incondizionato, ovvero naturale: è naturale che la vista del cibo causi salivazione), ma sentendo la
campanella (stimolo condizionato, ovvero non naturale - perché il suono di una campanella, da solo, non fa
salivare proprio nessuno - ma associato in modo artificiale all’idea del cibo). L’assunto, dunque, fu che
l’associazione ripetuta di uno stimolo (suono della campanella)con una risposta (cibo) faccia sì che, dopo un
certo periodo di tempo, allo stimolo segua una risposta condizionata.
Agli studi del russo Pavlov, seguirono quelli dell’americano Thorndike che formulò la teoria
dell’apprendimento per prove ed errori, basata su una situazione sperimentale in cui un animale in gabbia,
per poter uscire, doveva azionare delle leve.
Thorndike formulò tre principi:
a) l’apprendimento avviene per prove ed errori, ovvero compiendo tentativi diversi per arrivare alla
soluzione di un problema;
b) i tentativi che portano a una soluzione tendono ad essere ripetuti, mentre quelli inutili vengono
abbandonati (legge dell'effetto);
c) i comportamenti ripetuti più volte vengono appresi ed emessi con maggiore probabilità (legge
dell'esercizio).

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A questo punto (più o meno a metà degli anni ’30) entra in scena Burrhus Frederick Skinner, che focalizza
l'attenzione sulla frequenza, piuttosto che sulla qualità della risposta, introducendo una nuova importante
teoria, e cioè che un comportamento sia influenzato non solo da ciò che accade prima, ma anche dalle
conseguenze del comportamento stesso. In pratica: io posso condizionare la tua risposta non soltanto prima
che tu me la fornisca, ma anchea seconda di come agisco dopo che me l'hai fornita. In pratica, Skinner studiò
il controllo del comportamento attraverso la manipolazione delle ricompense e delle punizioni. Oggetto del
suo studio non erano tanto gli stimoli quanto le risposte, che andavano dal semplice riflesso (come quello
pavloviano) a espressioni comportamentali molto più complesse. Tralasciando ora tutta la (noiosissima) parte
descrittiva e terminologica che riguarda la psicologia umana (anche perché di quella si occupavano, in realtà,
tutti gli studiosi fin qui citati: dei cani non si interessavano affatto!), veniamo al dunque anzi al solo
"dunque” che ci interessa quando lavoriamo con un cane.
Per Skinner:
a) ogni comportamento può essere analizzato considerandolo come una contingenza a tre termini, in cui un
evento o stimolo antecedente (A) precede un comportamento (B) che avrà una conseguenza (C);
b) ogni comportamento può essere rinforzato o indebolito, cioè ripresentarsi con maggior frequenza e
maggior forza oppure presentarsi sempre meno, fino a scomparire del tutto o quasi;
c) la probabilità che si manifestino gli operanti (che sono semplicemente le risposte fornite dall'organismo)
aumenta o diminuisce a seconda che l'operante stesso sia seguito da un rinforzo o da una punizione.

1.3 Rinforzi e punizioni


Ed eccoci arrivati al punto: cosa sono i rinforzi e cosa le punizioni? E come vanno intesi i termini di positivo
e negativo? La prima parte è abbastanza semplice:
RINFORZO è tutto ciò che fa sì che una risposta (operante), ovvero un certo comportamento, venga
ripetuta, si verifichi il più spesso possibile. PUNIZIONE è tutto ciò che fa sì che una risposta (operante),
ovvero un certo comportamento, NON venga ripetuta, diminuisca e vada ad estinguersi. Esempio canino: io
dico "seduto!” al cane. Se lui effettivamente si siede, la risposta sarà quella che io volevo: e siccome la
volevo, cerco di fare in modo che la ripeta ogni volta che sentirà il suono "seduto!”. Per questo motivo gli
darò un rinforzo (qualcosa che induce la ripetizione dei comportamento). Se io dico "seduto!” e il cane mi
morde, la risposta non è precisamente quella che volevo. Anzi, non voglio proprio che reagisca mai più così!
In questo caso somministrerò una punizione (qualcosa che induce l'estinzione del comportamento). E fin qui,
penso che sia tutto chiaro per tutti.
I problemi cominciano quando si deve distinguere tra rinforzo positivo/negativo e punizione positiva/
negativa: perché dobbiamo proprio riuscire a cancellare dalla nostra mente qualsiasi connotazione morale,
etica, sociale e quant'altro. Positivo va visto solo come "segno +" : ovvero, AGGIUNTA di un qualcosa.
Negativo va visto solo come "segno _” ovvero, SOTTRAZIONE di un qualcosa. Per eliminare la confusione
tra connotazione matematica (giusta) e connotazione morale (sbagliatissima), alcuni studiosi del
comportamento hanno introdotto nuovi termini: per esempio, il più classico dei rinforzi, il bocconcino, ora
non viene più chiamato "rinforzo” ma “rinforzatore”. Invece '“positivo” e “negativo” vengono chiamati "del
primo tipo” o "del secondo tipo”. Personalmente sparerei a vista a questi signori che di fronte a una
confusione generale hanno visto bene di modificare ulteriormente i termini, aumentando cosi lo stato
confusionale degli allievi. Quindi io continuo ad utilizzare i termini classici... e vediamo se ne usciamo vivi
così. Facciamo un po' di esempi cinofili spiccioli (da NON imitare: sono esempi e basta! Ma alcuni sono
esempi assolutamente sbagliati e macellai, cose da non fare assolutamente nella realtà):
a) io dico "porta” e metto un riportello davanti al muso del cane. Lui apre la bocca. Appena il cane apre la
bocca io gli allungo un bocconcino, o lo accarezzo, o gli dico "bravooooo!”, o lo faccio giocare... sono tutti
rinforzi (ovvero cose che cercano di ottenere la ripetizione della “risposta esatta” del cane), positivi, perché
ho "aggiunto", in senso matematico, il bocconcino, la carezza, la voce o il giocattolo;
b) io dico “porta!” e mostro al cane il riportello. Il cane non se lo fila di striscio. Allora io, che sono bastarda
inside, impicco il cane con il collare a strangolo, finché questi, sentendosi soffocare, apre la bocca. Non
appena apre la bocca, io allento la pressione sui collare.Questo è sempre un rinforzo (ovvero un'azione che
compio per ottenere la ripetizione della “risposta esatta”: aprire la bocca davanti al riportello), però
negativo, perché non ho aggiunto ma "sottratto” qualcosa (in questo caso, li senso di soffocamento o di
dolore).

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c) io porto la ciotola al cane, la poso per terra e lui, per tutto ringraziamento, mi ringhia. Oibò! Risposta
assolutamente non gradita: non voglio che la ripeta. Quindi gli dò uno smaffone sul muso. E' una punizione
(perché tesa a NON far ripetere il comportamento sgradito), positiva perché ho "aggiunto" (segno +) lo
sberione.
d) io porto la ciotola al cane, la poso a terra e lui mi ringhia. Io mi riporto via la ciotola. E' sempre una
punizione (perché tesa a non far ripetere il comportamento sgradito), ma stavolta negativa, perché ho
“tolto” (segno -) la ciotola.

Nel primo esempio, come potete osservare, io ho aggiunto uno stimolo sgradito (ovvero un dolore o un
disagio); nel secondo esempio ho tolto invece qualcosa di gradito (il cibo). Non importa il valore “morale” di
ciò che si aggiunge o si toglie: contano solo i segni + e -. E' evidente (ed intuitivo) che un rinforzo negativo
comporterà la sottrazione di qualcosa di sgradevole ("negativo” in senso morale), mentre una punizione
negativa comporterà la sottrazione di una cosa “buona”, gradita. Però quello che è gradito/sgradito al cane
non sempre lo è anche per gli umani, e viceversa: il che a volte manda in confusione gii allievi. Perché, per
esempio, potremmo avere un cane masochista (ne conosco un migliaio! penso anche voi!) che si diverte un
casino a prendere pacche violente sulle spalle o sul sedere.
La stessa pacca, se venisse data sul sedere a me, sarebbe (in senso morale) sgraditissima e negativissima, ma
a lui piace. La considera un gioco esattamente come la pallina o il salamotto. Mettiamo, quindi, che io mi sia
accorta che quando smetto di dargli pacche il cane si mette ad abbaiare (perché ne vuote ancora): e, guarda
caso, io vorrei proprio insegnargli ad abbaiare a comando.
Quindi, dico "abbaia!" e smetto di dargli pacche sul culo. Che cos'è? E' un rinforzo (perché spero di fargli
ripetere il comportaménto abbaiante) negativo (perché ho "tolto" qualcosa, in questo caso la pacca). Non
conta che la pacca sia "buona" (come la vede lui) o "cattiva" (come la vedremmo noi): conta solo il
significato matematico. Altrimenti ci si incasina! Dopo che il cane, scocciatissimo perché gli ho tolto le
pacche, si mette effettivamente ad abbaiare, io posso dargli un bocconcino: in questo caso, che cos'è?
Sempre un rinforzo (perché spero che ripeta l'abbaio), ma stavolta positivo (perché ho "aggiunto" il
boccone).
Chiaro, fin qui? Spero di si.
Ma non è finita, perché il solito Skinner, dopo aver compreso il meccanismo di rinforzo, si domandò anche
quale importanza avesse la frequenza con cui i rinforzi venivano somministrati. Era meglio dare un rinforzo
continuo (ti do un boccone ogni volta che metti in atto un comportamento corretto) oppure variabile (ogni
tanto te lo do ed ogni tanto no) ? Curiosamente, la risposta degli animali utilizzati negli esperimenti di
Skinner fu: "funziona meglio il rinforzo a tasso e intervallo variabile". Tradotto in cinofilese: se vogliamo
rinforzare la risposta di sedersi quando il cane sente l'ordine "seduto", è meglio premiare col bocconcino
qualche seduto si e qualcuno no. Ma non, per esempio, "uno sì e uno no, uno si e uno no", con regolarità e
dando sempre lo stesso premio...bensì, magari, quattro sì e uno no, tre sì e due no. .e cosi via. E ancora
meglio se una volta ti do il bocconcino, una volta niente e la volta dopo, tadannnn! DIECI bocconcini!
(quello che nell'educazione cinofila chiamiamo "il jackpot”). Ovvero, tasso e intervallo variabile. Questo,
quando si lavora con un cane, è davvero importante (quasi quanto capire la funzionedi rinforzi e punizioni),
perché fa la differenza tra creare un cane "automatizzato" e pure un po' scazzato (che penserebbe qualcosa
come: "faccio una condotta perfetta, mo' mi da un wurstel, faccio una condotta perfetta, mo' mi dà un
Wurstel... uffa, sono quasi stufo di ingurgitare wurstel, quasi quasi me ne vado per gli affari miei..".) e un
cane pieno di gioiosa aspettativa e di desiderio di migliorare ("faccio una condotta perfetta, chissà cosa mi
darà? Un wurstel, nessun wurstel, millemila wurstel? Vediamo, vediamo, sono proprio curioso di scoprirlo!
Azz... stavolta non mi ha dato niente, riproviamo, magari se cammino ancora più vicino alla sua gamba mi
sgancia il wurstel!"). Ovviamente è fondamentale che la variabilità sia studiata in modo efficace e
funzionale, perché per esempio, se troppi comportamenti di fila non venissero premiati, si rischierebbe di
scivolare verso l'estinzione del comportamento ("mi siedo, non mi da un tubo. Mi siedo, non mi da un tubo.
Mi siedo, non mi da un tubo. Ma vaffanculo, eh... io non mi siedo più!"), tramutando in pratica un rinforzo
positivo... in una punizione negativa. E qui non c'è Skinner a dirci quanto, quando, come dobbiamo
rinforzare: qui c'è solo ia nostra sensibilità ed il nostro buon senso, da applicare ad ogni singolo soggetto in
modo adeguato. Perché c'è il cane che ha bisogno di una frequenza più "densa" e di una minima variabilità,
mentre c'è il cane che reagisce meglio ad una minor frequenza, ma accompagnata magari dajackpot più
ricchi.

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Insomma, la teoria è una gran bella cosa, ma se poi non usiamo il nostro cervello (e non quello di Skinner)
nella pratica di tutti i giorni, non andremo da nessuna parte. Un mio cliente, anni fa, venne al campo con una
dobermann che lo usava come dispensatore di bocconcini. In pratica era stata LEI a condizionare lui, perché,
dopo aver capito che quando si metteva seduta o a terra a comando arrivava il wurstel... aveva cominciato a
mettersi seduta o a terra da sola, guardando l'umano come per dirgli "beh? Mi premi o no?". E lui zac,
premiava. E' una trappola in cui, prima o poi, cadiamo tutti (non ditemi che non vi è mai successo di
obbedire agli ordini del cane, perché non ci credo): ma il caso specifico era quasi comico, tanto eclatante era
l'automatismo con cui l'umano reagiva alle richieste della doby. Spiegatogli il problema e fattogli capire
l'errore, avendo capito il tipo, suggerii al cliente di utilizzare con la sua cagna un rinforzo variabile, in modo
che la cagna fosse maggiormente stimolata ad obbedire a lui e (soprattutto!) che lui fosse meno condizionato
ad obbedire a lei. Tutto bene, problema risolto... e al termine dei corso, non lo vidi più per due anni. Al terzo
anno, rieccolo: ma con un altro cane, un cucciolone di quattro mesi, sempre doby, ma stavolta maschio. Mi
raccontò che era successa una tragedia, la sua cagna si era ammalata ed era morta, lui aveva sofferto tanto da
pensare di “non volere mai più un cane", ma alla fine non aveva resistito e aveva preso un altro cucciolo.
Insomma, la classica trafila. Stavolta, però, aveva deciso di portarlo subito al campo, prima di cominciare a
pasticciare da solo come aveva fatto l'altra volta. Ma bravo, sono proprio contenta. Iniziamo quindi la prima
lezione con il cucciolo assolutamente "vergine", che non sa fare nulla di nulla e non ha mai ricevuto un solo
ordine in vita sua. Cominciamo quindi dalla base, il richiamo.
Lui chiama il cane, il cucciolo arriva tutto allegro a grandi zompi...e lui non fa assolutamente nulla. Io, con la
delicata vocina che utilizzavo da fuori campo, sbraito: "Ma che fa? PREMIIIII?" e lui mi guarda stranito:
"Ma. ma... ma mi aveva spiegato che non bisogna premiare ogni volta!”. Poverino, era così orgoglioso di
essersi ricordato l’importanza del rinforzo variabile...peccato che volesse applicarlo ad un cane che ancora
non aveva ricevuto neppure i primissimi rinforzi, quelli tesi a fissare il comportamento corretto! Insomma,
come sempre ripeto: sì alle teorie e alla loro comprensione... ma NO alla meccanizzazione che non tenga
conto dei diversi momenti e dei diversi soggetti: anche perché Skinner lavorava con dei topi in gabbia, ma
noi - grazie al cielo - lavoriamo con individui che hanno molti stimoli in più, un'apertura mentale e una
libertà assai maggiore.
Per concludere il discorso sul rinforzo variabile, comunque, ricordiamo che:
a) la variabilità vate SOLO per il rinforzo e assolutamente NON per la punizione. Se variassimo le punizioni,
il cane avrebbe (in soldoni) la sensazione che "può farla franca" almeno qualche volta, e questa
consapevolezza diventerebbe rinforzante anziché punitiva.
b) al mondo non ci siamo solo noi! C'è anche l'ambiente, che, a differenza di quanto accade per un animale
da esperimento, è un ambiente variabile ricchissimo di stimoli... ma anche di risposte!
Prendiamo, per esempio, il cane che sale sul letto. Gli è stato proibito, cosa che lui sa benissimo, e i suoi
umani sono coerenti: ogni volta che lo beccano sul letto, lo sgridano severamente. Gli hanno dato pure
qualche sberla (cioè? ... bravi: punizione positiva). Nonostante Questo, gli umani sono disperati perché, ogni
santa volta che rientrano a casa, trovano il cane svaccato sul letto. E mi chiedono: "Ma cos'è, stupido? Non
capisce proprio niente?" Neanche per idea. Esaminiamo la situazione dai punto di vista "skinneriano": il cane
sale sui letto in presenza degli umani, e viene punito (il che dovrebbe estinguere gradualmente il
comportamento). Solo che, ogni volta che gli umani escono, il cane ci riprova…e viene rinforzato! Non dagli
umani, che non ci sono, ma dall'ambiente: dal calore, dalla morbidezza, dagli odori gradevoli che emanano
dai letto dei proprietari. A questo punto basta raffrontare le volte in cui gli umani sono in grado di punire il
comportamento (ovvero, quando sono a casa...e teniamo presente che iI cane, ben sapendo che gli arriverà la
punizione, "cederà alla tentazione" solo di tanto in tanto) e le volte in cui gli umani NON sono in grado di
punire il comportamento (ovvero, ogni volta che sono fuori casa: e se lavorano otto ore al giorno, è evidente
che li piatto della bilancia penderà clamorosamente da quella parte. Il cane salterà sul letto come e quando
gli aggrada e, ogni volta, riceverà il rinforzo positivo ambientale). E' abbastanza evidente che le risposte
umane sono perdenti rispetto a quelle ambientali: quindi, se vogliono ottenere un risultato, questi umani
dovranno continuare a punire il comportamento quando sono presenti, ed evitare meccanicamente che il cane
si auto-gratifichi quando sono assenti (per esempio, chiudendo la dannata porta delta dannatissima camera).
In questo modo il cane non si troverà di fronte due diverse situazioni (tecnicamente: "setting"), ma UN solo
setting in cui all'azione di salire sul letto corrisponde sempre e solo una punizione. In questo modo il
comportamento finirà davvero per estinguersi. Una volta raggiunto il risultato sarà possìbile, probabilmente,
anche lasciare la porta aperta, perché il cane ormai ha "fissato" il condizionamento a non salire sul letto. Però

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questo è tutto da verificare, perché la fissazione del condizionamento varia moltissimo da soggetto a
soggetto. Un altro metodo per risolvere questo stesso problema potrebbe essere quello della cosiddetta
"punizione remota", che rientra nei canoni del condizionamento classico. Esempio umano, drammaticamente
vero (si tratta di un esperimento effettuato nel 1920 da Watson e Paynor e regolarmente trascritto sui libri di
testo, il che dimostra come tra scienza e bastardaggine nazista, a volte, il confine sia sottilissimo) utilizzando
come soggetto un bambino di 11 mesi di nome Albert. Albert giocava allegramente e senza alcun timore con
un topolino bianco, ma gli sperimentatori sapevano che il bimbo aveva un forte timore dei rumori forti.
Esattamente come Pavlov, dunque, condizionarono il bambino ad avere una vera e propria fobia del topolino
bianco, provocando un rumore fortissimo ogni volta che lui gli si avvicinava. Dopo una settimana al
bambino venne presentato il topolino, senza alcun rumore, e il piccolo si mise a piangere disperato: non solo,
ma manifestò ia stessa reazione davanti a conigli, cani, lana bianca e perfino alla barba di Babbo Natale. Una
fobia bella e buona, indotta in una sola settimana attraverso ii condizionamento classico (e chi pensa che si
sarebbero dovuti chiudere gli sperimentatori in una stanza facendogli scoppiare petardi nelle orecchie, ha
tutto il mio appoggio. Ma la scienza, ahimè, all'epoca funzionava così. Oggi credo - spero - che non sarebbe
più consentita una simile tortura psicologica su un bambino di neppure un anno). Tornando al nostro cane
che sale sul letto, comunque, sarebbe possibile dissuaderlo, per esempio, sorvegliando la camera con una
telecamera a circuito chiuso, a distanza, cosicché il cane non possa vedere gli umani, mentre gii umani
vedono lui. Appena la telecamera mostra il cane che sale sui tetto, si potrebbe - per esempio con un
telecomando - far partire uno sparo, o una secchiata d'acqua che centri in pieno il cane (un po' complicato da
realizzare, eh... ma siamo nel campo delle ipotesi).
In questo modo il cane penserebbe che anche in assenza degli umani, quando lui mette in atto un
comportamento sgradito, gli arriva una sorta di "punizione divina': il che, purtroppo, funziona (e dico
"purtroppo" perché questo concetto sta alla base di tutti gii strumenti coercitivi utilizzabili a distanza, primo
fra tutti ii collare elettrico). Bisogna però ricordare SEMPRE che Skinner, al termine di tutti i suoi studi,
stabilì anche che il rinforzo positivo è lo strumento più adeguato a modellare il comportamento. Tanto
che scrisse addirittura un romanzo (WaldenTwo) in cui immaginava il sorgere di una nuova società dalla
quale erano bandite tutte le punizioni e ogni tipo di apprendimento (e quindi il controllo del comportamento
umano) avveniva sulla base di rinforzi adeguatamente somministrati. Esempio umano: se invece di fare
multe (punizioni), la polizia urbana usasse macchinette per il pagamento dei parcheggi che, in modo casuale
(rinforzo positivo variabile) erogassero premi a coloro che le utilizzano, probabilmente tutti pagheremmo il
parcheggio. Lo stesso criterio si può applicare ai limiti di velocità e ad altre infrazioni del traffico (e in parte
VIENE applicato, con la patente a punti, dal fatto che ti regalano due punti per ogni anno in cui non compi
infrazioni: manca solo il jackpot - per esempio, venti punti offerti, a sorteggio, tra tutti gii automobilisti che
non hanno commesso scorrettezze - e poi ci siamo!). Lo stesso identico principio sta alla base delle lotterie,
del lotto, dei gratta e vinci o dei superenatotto... insomma, di tutti i giochi in cui la vincita è poco probabile,
in alcuni casi veramente infinitesimale. Eppure giochiamo lo stesso, perché questi sistemi erogano rinforzi
(molto appetibili) a tasso ed intervallo variabile: quindi offrono un'altissima resistenza all'estinzione!
1.4 Shaping: modellare il comportamento
Seconda e ultima parte: finora abbiamo parlato di risposte semplici ad uno stimolo (sedersi, aprire la bocca,
salire o scendere dai letto): ma se volessimo "costruire" un comportamento complesso, come, per esempio,
un salto con riporto, che oltretutto non è spontaneo nè "naturale" nel cane? In questo caso, per rinforzare
positivamente nei modi che abbiamo visto finora, dovremmo aspettare che il cane stesse seduto al nostro
fianco mentre lanciamo un riportello, attendesse l'ordine "op", saltasse un ostacolo, raccogliesse il riportello,
si sedesse di fronte a noi e ce lo consegnasse...e A QUEL PUNTO, finalmente, gli daremmo il premio
(rinforzo positivo). Mi pare evidente che, scegliendo questa strada, potremmo diventare vecchi nell'attesa
che il cane faccia spontaneamente tutta quella sequenza lì. Quindi, che si fa? Si modella il comportamento
(shaping, in inglese), premiando successivamente i vari step che si avvicinano, man mano, ai modello finale.
In altre parole, si dovranno rinforzare le approssimazioni successive: rinforzeremo il seduto al fianco,
rinforzeremo l'attesa dell’ordine, rinforzeremo il salto, rinforzeremo il riporto e così via. In questi casi - e
SOLO in questi, per quanto mi riguarda - è perfettamente lecito (anzi, è assolutamente funzionale) ignorare
le risposte scorrette. Per esempio: il cane salta l'ostacolo? Rinforzo positivo (premio). Il cane se ne va dalla
parte opposta? Nessuna reazione. In questo modo il cane abbina il premio soltanto al comportamento di
salto... fermo restando che, in fase di shaping, potremo premiare anche l'approssimazione (per esempio, il
cane fa un saltello impacciato, ma lateralmente all'ostacolo: cosa che succede spesso. In fase di shaping

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questo gesto verrà rinforzato, perché è comunque un 'approssimazione: ma una volta che il cane ha capito
che deve saltare l'ostacolo, e non il vuoto ai lati di esso, lo stesso gesto verrà ignorato, mentre il rinforzo
arriverà quando il salto sarà eseguito in modo corretto). Ma qui andiamo nel "molto tecnico", quindi evito di
proseguire con altri esempi perché rischierei di creare proprio quella confusione che speravo di dissipare: mi
basta che sia chiaro il concetto “shaping” come "rinforzo di approssimazioni processive”. E vorrei fosse
chiaro anche che il "non premiare", quando il cane se lo aspetterebbe (perché in uno step precedente è stato
premiato), ovvero l'ignorare, qui diventa una punizione negativa: ti nego (sottraggo, segno - ) il premio
perché non voglio "più" che tu faccia così (saltare il nulla), ma voglia spingerti a fare cosà (saltare
l'ostacolo). Ovviamente questo tipo di punizione non è assolutamente coercitiva, perché non si obbliga il
cane a fare assolutamente nulla: semplicemente gli si nega il premio, che lui dovrà riconquistare
ragionandoci sopra e cercando di capire qual è il passo successivo da compiere per venire premiato. Quindi
non sì deve MAI confondere "punizione” con "coercizione", così come non si deve confondere "rinforzo"
con "bocconcino": è, invece, abbastanza corretto, tutto sommato, identificare il rinforzo con il concetto di
"premio", purché si abbia chiaro che non sempre quello che per noi è un "premio" lo è anche per il cane.
Esempio molto esplicativo: il cane abbaia in giardino, noi usciamo dì casa incazzatissimi e lo corchiamo di
botte. Siamo convinti, ovviamente, di avergli somministrato una severa punizione positiva. Ovvero: abbiamo
aggiunto qualcosa (le botte) sperando che in questo modo si estingua (punizione) il comportamento (abbaio).
Tutto skinnerianamente correttissimo... se non fosse che il cane, povero, abbaiava perché si sentiva solo.
Perché si annoiava. Perché voleva la nostra attenzione. Quindi, in realtà, cos'abbiamo fatto noi uscendo di
casa e andandolo a picchiare?
Abbiamo "aggiunto", sì , qualcosa (quindi, segno positivo}...ma gli abbiamo dato esattamente quello che lui
voleva, e cioè la nostra attenzione! Quindi il nostro è stato un RINFORZO positivo, che, come tale,
aumenterà la frequenza del comportamento (abbaio). Purtroppo, per il cane, i rapporti sociali sono così
importanti da accettare con gioia anche quelli sgradevoli o addirittura dolorosi (come in questo caso, visto
che portano botte): noi quindi ricordiamoci sempre di pensare da cani prima di decidere cos'è un rinforzo e
cos'è una punizione... perché se pensiamo soltanto in modo umano potremmo, come in questo caso,
trasformare in rinforzo quella che credevamo una punizione. Il caso diametralmente opposto è quello della
carezza sulla testa, gesto che per noi significa "affetto, compiacimento” e per il cane, invece, significa "gesto
di dominanza". Il cane si siede al nostro ordine, e noi, tutti infoiati, PAT PAT PAT sulla capoccia! Convinti di
avergli dato un rinforzo positivo, gratificandolo con la nostra approvazione. Il cane, invece, pensa: "Mi sono
seduto, e questo mi comunica che il capo è lui, che comanda lui, che non devo permettermi di fare il furbo
con lui". Se non è proprio una punizione positiva, ci picchia vicino: di sicuro, per lui, questo NON può essere
visto come un rinforzo! La stessa carezza fatta sul collo o sulla gola, che in canese significa davvero "affetto
e coccole”, sarebbe invece un eccellente rinforzo basato sul rapporto sociale, che in molti casi funziona
ancora meglio del cibo o del gioco.
1.5 Concludendo
Quest’articolo si è posto come obiettivo quello di poter concretamente e, attraverso esempi pratici e molto
vicini a noi, esaminare e spiegare nella maniera più semplice possibile teorie e processi così complessi, quali
quelli del Condizionamento Classico e Operante, pilastri della storia della attuale Psicologia Sociale. Si è
visto come questi due importanti processi possano situarsi alla base di qualsiasi tipo di apprendimento,
nell’animale come nelle persone. Non si è, inoltre, tralasciato in tutto questo processo, l’influenza che
l’ambiente ampiamente riveste, sovvertendo quella che poteva essere una visione strettamente meccanicistica
del genere umano e non. Ambiente che, come abbiamo visto, costituisce una variabile imprescindibile
dell’apprendimento, senza la quale sarebbe possibile raggiungere soltanto conclusioni approssimative o
inesatte. Un ambiente che può facilitare o ostacolare, fungere da rinforzo e/o da punizione. Che si situa sullo
stesso binario della persona con la quale interagisce e scambia, nell’ottica di una Psicologia Sociale a cui
continuiamo a restare agganciati.

2 Sintesi
F 0L’apprendimento,
D8 secondo il comportamentismo, avviene mediante processi molto complessi sottesi ai
meccanismi del condizionamento classico ed operante
F 0Verranno
D8 presentati esperimenti esemplificativi presi in prestito da attività di addestramento cinofilo.

2.1 Storia del comportamentismo

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1. Il comportamentismo si basava sugli studi di Ivan Pavlov, che, proprio sui cani, aveva elaborato la teoria
della risposta condizionata. Ai cani di Pavlov, prima che ricevessero il cibo, veniva fatto sentire il suono di
una campanella; ripetendo questa procedura più volte si otteneva che i cani cominciassero a salivare non più
vedendo il cibo (stimolo incondizionato, ovvero naturale: è naturale che la vista del cibo causi salivazione),
ma sentendo la campanella (stimolo condizionato, ovvero non naturale - perché il suono di una campanella,
da solo, non fa salivare proprio nessuno - ma associato in modo artificiale all’idea del cibo). L’assunto,
dunque, fu che l’associazione ripetuta di uno stimolo (suono della campanella) con un altro (cibo) facesse sì
che, dopo un certo periodo di tempo, allo stimolo condizionato seguisse una risposta condizionata.
2. A metà degli anni ’30, entra in scena Burrhus Frederick Skinner, che focalizza l'attenzione sulla
frequenza, piuttosto che sulla qualità della risposta, introducendo una nuova importante teoria, e cioè che un
comportamento sia influenzato non solo da ciò che accade prima, ma anche dalle conseguenze del
comportamento stesso (se dopo che il cane ha urinato nell’apposito contenitore, gli do del cibo -
conseguenza-, è probabile che ripeta questo comportamento desiderato) (Condizionamento Operante).
3. I meccanismi alla base del processo di Condizionamento Operante si fondano su un sistema di rinforzi e
punizioni "positivi" e "negativi", termini che vanno intesi NON in senso “morale”, ma in senso matematico
(e cioè come “segno +” e "segno -", come qualcosa che “aggiunge” o che “toglie”)

2.2 Rinforzi e punizioni


4. Per “rinforzo positivo” si intende un "premio per un'azione corretta", per “punizione” , ci si riferisca ad un
"qualcosa che viene fatto affinché non venga ripetuto un comportamento sbagliato". Non sembrerebbero,
tuttavia, analogamente chiari i concetti di “rinforzo negativo” (come fa un premio ad essere negativo?) e di
“punizione positiva” (come fa una punizione ad essere positiva?)
5. Per Skinner:

a) ogni comportamento può essere analizzato considerandolo come una contingenza a tre termini, in cui un
evento o stimolo antecedente (A) precede un comportamento (B) che avrà una conseguenza (C);
b) ogni comportamento può essere rinforzato o indebolito, cioè ripresentarsi con maggior frequenza e
maggior forza oppure presentarsi sempre meno, fino a scomparire del tutto o quasi;
c) la probabilità che si manifestino gli operanti (che sono semplicemente le risposte fornite dall'organismo)
aumenta o diminuisce a seconda che l'operante stesso sia seguito da un rinforzo o da una punizione.
6. RINFORZO (significa +, cioè aggiungere) è tutto ciò che fa sì che una risposta (operante), ovvero un
certo comportamento, venga ripetuta, si verifichi il più spesso possibile.
7. PUNIZIONE (significa -, cioè sottrarre) è tutto ciò che fa sì che una risposta (operante), ovvero un certo
comportamento, NON venga ripetuta, dimuisca e vada ad estinguersi.
8. Esempio: io dico "seduto!” al cane. Se lui effettivamente si siede, la risposta sarà quella che io volevo: e
siccome la volevo, cerco di fare in modo che la ripeta ogni volta che sentirà il suono "seduto!”. Per questo
motivo gli darò un rinforzo (qualcosa che induce la ripetizione dei comportamento).

Se io dico "seduto!” e il cane mi morde, la risposta non è precisamente quella che volevo. Anzi, non voglio
proprio che reagisca mai più così! In questo caso somministrerò una punizione (qualcosa che induce
l'estinzione del comportamento).
9. Il rinforzo è positivo quando faccio qualcosa che “aggiunge” (il cane si siede quando gli dico “seduto” ed
io per premiarlo e far sì che possa in futuro riemettere lo stesso comportamento al mio comando gli do un
bocconcino di carne)
10. Il rinforzo è negativo quando “tolgo” all’animale qualcosa di spiacevole (voglio che il cane apra la
bocca ma lui non ne vuole sapere.. allora potrei stringergliela lateralmente, anche causandogli fastidio e
appena la apre, tolgo la mano, sottraendolo a quella sensazione sgradevole. Un altro es. di rinforzo negativo
è dato dal fastidioso suono, in alcune automobili, quando non mettiamo la cintura di sicurezza. Una volta
messa il suono scompare, cioè viene sottratto il fastidio. Capita, quindi, che entrando in macchina ci
affrettiamo a mettere la cintura per evitare di sentire il fastidioso suono); la punizione è positiva quando
aggiungo un comportamento volto a far sì che l’animale non faccia più quella cosa (do uno schiaffo) oppure
negativa, quando tolgo qualcosa (se il cane mi ringhia quando gli porgo la ciotola, gliela tolgo).
F 0Skinner,
71 dopo aver compreso il meccanismo di rinforzo, si domandò anche quale importanza avesse la
frequenza con cui i rinforzi venivano somministrati. Era meglio dare un rinforzo continuo (ti do un boccone

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ogni volta che metti in atto un comportamento corretto) oppure variabile(ogni tanto te lo do ed ogni tanto
no) ? Curiosamente, la risposta degli animali utilizzati negli esperimenti di Skinner fu: "funziona meglio il
rinforzo a tasso e intervallo variabile". La punizione, al contrario deve essere costante.

11. Skinner, al termine di tutti i suoi studi, stabilì anche che il rinforzo positivo è lo strumento più
adeguato a modellare il comportamento, rispetto alla punizione.

2.3 Shaping: modellare il comportamento


12. Per l’acquisizione di comportamenti più complessi, costituiti, cioè da più azioni, si utilizza la tecnica
dello “shaping”, o “rinforzo per approssimazione”, col quale si andranno a rinforzare, dunque premiare, tutti
quei comportamenti che se anche non perfettamente corretti, si avvicinano comunque a quello desiderato,
ignorando i comportamenti che, invece, se ne allontanano.

“TECNICHE NEGOZIALI”

1 Negoziato e tecniche negoziali


Questo articolo è stato creato a partire dal testo di Gigliola Zanetti dal titolo “Negoziato e tecniche
negoziali”.
1.1 Come entrare in sintonia con un interlocutore
Gli elementi non verbali che consentono di sviluppare sintonia nei confronti dell’interlocutore sono quelli di
apertura, da manifestare con gradualità a partire dal rispecchiamento della condizione corporea
dell’interlocutore: per esempio se abbiamo di fronte una persona che tiene le braccia conserte e le gambe
accavallate, dovremo partire da una condizione “vicina” alla sua – anche se maggiormente aperta -, per
esempio tenendo le gambe accavallate, ma le braccia di fronte a noi con le sole mani intrecciate.
A questo punto l’interlocutore sarà portato a “sciogliersi”, a fare anche lui un “passo di apertura” verso di
noi, per esempio imitandoci nella postura delle braccia. Allora, sarà per noi il momento di avvicinarci
ulteriormente a lui, protendendoci un po’ più in avanti con il busto e “scavalcando” le gambe. Continuando la
conversazione, potremo far sì – con il nostro atteggiamento e le nostre parole – che l’interlocutore si avvicini
e si apra ulteriormente, imitando la nostra progressiva apertura, fino a giungere a una posizione di piena
apertura reciproca. Questo è il miglior presupposto per concludere positivamente un dialogo, una trattativa,
una negoziazione. Indubbiamente, entrambe le parti in gioco non possono che uscire vincenti da una
situazione che si è evoluta sulla base di un “avvicinamento progressivo” come quello che abbiamo descritto!
Nella sequenza appena illustrata, è già implicito il concetto di ricalco e guida, sviluppato nel paragrafo
seguente. Ciò che qui ci interessa è comunque precisare la valenza della calibrazione, che ci pone sulla strada
della sintonia: il miglior presupposto per una comunicazione persuasiva davvero efficace. In questo modo, si
arriva a stabilire con l’interlocutore una relazione intensa, costruita appunto su base sintonica, definita il
rapport. Una volta raggiunto il rapport, però, è necessario mantenerlo e verificarlo costantemente, per far sì
che la persona ci “segua” nella nostra visione del mondo.
1.2 Ricalco e guida
“Ricalcare” significa, dopo aver individuato con la calibrazione le modalità espressive dell’interlocutore,
riproporre a questo tali modalità, creando così una sensazione di confidenza, di identità di vedute e
comportamento. In altri termini, significa “entrare in risonanza” con l’interlocutore. E’ questa la premessa
necessaria per giungere allo scopo delle tecniche di calibrazione e ricalco: la guida. Si definisce “guida” la
tecnica che permette, attraverso una “sovrapposizione di mappe” – ottenuta tramite sintonia e ricalco – di
portare l’interlocutore a seguirci verso il nostro obiettivo. Sarà così più semplice portarlo a comprendere i
nostri messaggi e i nostri punti di vista (ovvero, realizzare lo scopo primario: ottenere una comunicazione
efficace.
1.3 Le tipologie di ricalco
Ricalco formale: questo tipo di ricalco può essere definito anche rispecchiamento o mirroring, in quanto si
riferisce alla forma della comunicazione. Esso corrisponde alla riproduzione della fisiologia, degli
atteggiamenti corporei e delle posture dell’interlocutore: è un ricalco, quindi, non verbale. Corrisponde
all’atteggiamento che abbiamo descritto riguardo alla comunicazione sintonica e alla creazione del rapport
attraverso la calibrazione: la progressiva conduzione dell’interlocutore a una sempre maggiore apertura nei
nostri confronti, attraverso l’utilizzo delle posture corporee, è un tipico esempio di mirroring utilizzato al fine

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del ricalco e guida. Come abbiamo visto, è importante seguire lo stesso ritmo gestuale dell’interlocutore, non
però “scimmiottandone” ogni gesto, bensì trovando un’armonia nel ricalcare le sue posture e il suo modo di
muoversi: per un buon effetto, è sufficiente ricalcare al 50% - il massimo è l’80% - la sua gestualità. Il
rispecchiamento va usato con attenzione e cautela. Come sempre l’intento è quello di far sì che l’altro si
riveda in noi, senza però rendersene conto e senza che un’attività tanto complessa ci distolga dalle altre
attività che stiamo svolgendo. Per rendersi fisiologicamente simili al cliente sarà sufficiente adeguare poche
sottomodalità fisiche o cinestesiche, quali la postura o la respirazione. E’ probabile che altri importanti
cambiamenti avvengano in modo automatico ad altri livelli. Come si è detto i parametri o sottomodalità da
utilizzare sono: postura, posizione della testa, gesti, respirazione, tensione muscolare. Le ultime due sono di
difficile rilevazione per cui consigliamo di concentrarsi, per lo meno all’inizio, sulla postura, sulla posizione
della testa e sulla gestualità. Nonostante il ricalco sia piuttosto naturale in determinate situazioni, per
esempio tra amici, vi sono situazioni in cui è piuttosto frequente l’adozione di comportamenti distonici.
Alcuni studiosi di comunicazione ad esempio hanno videoripreso numerosi incontri tra venditori e clienti ed
hanno rilevato spesso il seguente comportamento. Il cliente in posizione di attesa, riflessione o evidente
chiusura e disaccordo, si tira indietro mentre il venditore continua a sporgersi in avanti e ad aprirsi sempre
di più. Questo comportamento è spesso inconscio; di contro molti venditori lo utilizzano in maniera
consapevole, convinti che il modo migliore per far aprire un cliente in chiusura sia quello di aprirsi. Allo
stesso modo alcuni credono che a un cliente serio o immusonito vadano propinati battute e motti di spirito.
Dal nostro canto, fedeli al concetto di ricalco, proponiamo in entrambi i casi ed in casi analoghi, di
rispecchiare nei comportamenti e negli atteggiamenti ciò che abbiamo di fronte. Anche solo pochi minuti
basteranno per farvi percepire come simili e poi potrete passare alle fasi di guida.
Ricalco paraverbale: consiste nell’adottare uno stile di conversazione simile, con il medesimo tono di voce,
ritmo di parola, volume, ecc. Evidentemente, se abbiamo di fronte una persona che parla in modo concitato,
con un alto volume di voce, senza pause tra un periodo e l’altro, non potremo pensare di calibrarla
utilizzando un volume e un tono bassi, esasperando la lentezza dell’eloquio e facendo lunghe pause di
riflessione: dovremo, invece, cercare di stabilirci su una frequenza vicina a quella dell’interlocutore – non
però altrettanto esasperata – cercando pian piano di guidare il paraverbale della persona a equilibrarsi,
rallentando man mano il ritmo delle parole e riportando gradualmente il volume della voce al livello
normale. E’ evidente che, per far questo, dovremo considerare il paraverbale anche come “spia emotiva”
dello stato della persona: qui entra in gioco anche il concetto di ricalco emotivo. Mentre mirroring e ricalco
paraverbale sono compresi nella definizione di ricalco extraverbale o analogico, gli altri tipi di ricalco si
definiscono, nell’ordine, ricalco emotivo, culturale e verbale: vediamoli. Affrontando il tema del ricalco nel
contatto telefonico, il problema si presenta a volte in questi termini: se il cliente alza la voce cosa deve fare
l’addetto? La logica ed il buonsenso potrebbero suggerire di rimanere calmi ma la pratica smentisce
frequentemente quest’ipotesi. Il cliente, di fronte a un atteggiamento estremamente tranquillo tende ad
arrabbiarsi di più. Ma allora cosa fare? Non è peggio rispondergli a tono? E’ stata provata con successo la
strada del ricalco paraverbale e della guida verbale. In pratica si suggeriva all’operatore di rispondere
alzando lievemente il volume e il tono di voce e, se possibile, parlando leggermente più in fretta, in modo da
avvicinarsi ai livello del cliente. Le parole invece dovevano trasmettere sollecitudine, presa a cuore del
problema, condivisione della preoccupazione o arrabbiatura di chi si trova all’altro capo del telefono. Dopo
qualche istante anche il paraverbale comincia a scemare per tornare velocemente ai normali livelli, e l’utente
contrariato segue docilmente la guida adeguandosi a sua volta alle nuove modalità.
Ricalco emotivo: utilizzare tale ricalco significa cercare di vivere e manifestare le emozioni vissute
dall’altro, intanto che racconta un fatto, un’esperienza o una sensazione.
Ricalco culturale: mira invece ad adeguarsi al registro (stile e livello di discorso) dell’interlocutore. Esso
prevede l’utilizzo di particolari terminologie, stili espositivi e argomentazioni specifici della persona. E’ un
tipo di ricalco non semplice, che presuppone – per risultare efficace – una buona preparazione da parte di chi
lo mette in atto e la capacità di destreggiarsi nel discorso, senza fare “scivoloni” che potrebbero pregiudicare
il risultato.
Ricalco verbale e ricalco profondo (contenutistico: valori e convinzioni): quest’ultimo tipo di ricalco
riguarda le modalità espressive del linguaggio: l’uso prevalente di alcuni termini o locuzioni specifiche.
Ognuno di noi tende a utilizzare alcune parole cui si attribuisce una particolare valenza espressiva: spesso, il
pronunciarle si associa a un gesto specifico, che ricorre sovente nella conversazione. Queste parole sono
dette hot words, “parole calde”. Sono questi i termini che ci consentono una comprensione chiara e un

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ricalco immediato dell’interlocutore. Le sottolineature analogiche (gesti, espressioni, voce ecc.) che spesso le
accompagnano, ricorrendo sempre uguali alla pronuncia della parola, sono un’altra traccia importante per il
ricalco. Di fatto, le hot words aprono uno spiraglio sul livello profondo della personalità dell’interlocutore. Il
ricalco a esse relativo si chiama, infatti, ricalco profondo. Il ricalco profondo riguarda le radici della
personalità. Agisce sui valori interiori, sulle convinzioni maturate in una vita, sui contenuti delle esperienze.
Per questo esso si dice anche ricalco contenutistico.
Ricalco della distanza: molte persone si sono trovate almeno una volta nell’imbarazzo di ristabilire la propria
distanza soggettiva di comfort rispetto a un interlocutore che continua ad avvicinarsi e che evidentemente ha
una soglia diversa di disagio. Tale soglia dipende da fattori culturali e da fattori soggettivi. Così negli Usa,
dove la conversazione avviene in genere a una distanza che impedisca a due persone di toccarsi, la soglia di
disagio è a circa venti centimetri oltre la distanza del braccio, in Francia essa è approssimativamente pari alla
distanza del braccio e in Italia è all’incirca di venti centimetri inferiore. Le variazioni soggettive intorno a
questi valori medi sono però notevoli. Per comprendere fino a che punto sia importante il rispetto della
distanza fisica basta pensare agli scatti e alle contorsioni che gli individui eseguono per non toccarsi quando
si trovano in un luogo affollato, come una stazione di metropolitana nell’ora di punta. L’avvicinamento di un
estraneo entro la soglia di disagio è percepito come minaccia e crea una tensione che spinge il soggetto a
proteggere il suo “territorio”. In diverse attività lavorative si deve tener conto di questo fenomeno. Quando vi
avvicinate al cliente, spingetevi fino alla vostra soglia di disagio e osservate la sua reazione nelle prime fasi
dell’incontro. Se una persona si avvicina molto all’interlocutore, probabilmente tende a privilegiare le
percezioni cinestesiche e non avrà nulla da obiettare al fatto di essere toccata nel corso della conversazione e
può darsi che lo farà a sua volta con l’interlocutore. Inoltre non avrà bisogno di vedere per comprendere,
come invece accade a chi privilegia le percezioni visive. Se la persona si allontana, rispetto alla distanza
iniziale, sarà probabilmente orientato alla percezione visiva e dovrà avere sott’occhio il quadro completo del
suo interlocutore, per sentirsi a proprio agio. Tali tipi di persone tendenzialmente accordano più fiducia a
coloro che mentre parlano li guardano in viso. Nel caso in cui la persona si posiziona al fianco
dell’interlocutore o volge il capo quando l’interlocutore parla, sarà probabilmente una persona orientata alle
percezioni uditive e, volgendo il capo, porge l’orecchio per meglio ascoltare. Talvolta il gesto si presta
all’equivoco e fa ritenere sornione o falso chi lo compie, perché non sostiene lo sguardo dell’interlocutore:
l’intenzione invece non è affatto quella di sfuggire lo sguardo dell’altro, ma di concentrarsi sul canale di
comunicazione uditivo. Rispettare le preferenze dell’interlocutore e rivolgersi a lui nei modi che gli vede
mettere in pratica può essere utile per entrare in sintonia con lui. E’ molto importante rendersi conto
dell’origine di questi comportamenti, per non giudicare l’interlocutore in modo sbagliato. Il concetto di
territorio va sempre tenuto presente, come la reazione alla sua minaccia, vera o presunta, che è sempre di
scontro o di fuga.
Ricalco nel contatto visivo: quando parliamo direttamente a qualcuno ci manteniamo quasi sempre in
contatto visivo, incrociando brevemente e di frequente il suo sguardo. Chi è soprattutto ascoltatore avrà
contatti visivi piuttosto brevi e poco frequenti; per altri invece questi saranno molto intensi. Ciò che importa
è che essi sono necessari all’altro per capire e per sentirsi ben compreso. Vanno quindi assecondati, non fosse
altro che per stabilire un rapporto positivo.

1.4 Il contatto in positivo


Il contatto deve avere, come già detto, una connotazione positiva sin dal suo inizio. Ciò significa tentare
ottenere dall’interlocutore almeno un segno di acquiescenza ed evitare di sentirsi opporre un no alla sua
iniziativa. Nel caso di un venditore con il suo cliente, ad esempio, non conviene farsi avanti con il classico:
“Le posso essere utile?”. Ci si sentirebbe rispondere di no in un caso su due. Lo stesso vale per la variante:
“In che cosa la posso servire?”. Il cliente che desidera solo guardarsi intorno può rispondere ancora di no, o
accennare con il capo, o fare finta di non avere udito: il senso resta sempre lo stesso, quello del diniego.
Altro è se il venditore afferma: “Guardi pure con comodo quello che le interessa”. Egli pone con ciò stesso il
cliente nella situazione che la sua frase descrive, anche se questi rispondesse: “Ho poco tempo e cerco un
oggetto preciso”. Il contatto conserva la connotazione positiva e il venditore ottiene comunque l’accordo del
cliente che in un certo senso si ritrova già nei panni di chi è interessato alla merce, per come il venditore ha
formulato la sua frase. Questo modo di procedere, consistente nel provocare risposte positive, si ritrova nella
maggior parte dei testi di vendita. Sul piano psicologico la risposta positiva è importante perché fa procedere
nell’interazione, mentre la risposta negativa dà una battuta d’arresto e richiede la formulazione di una nuova

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intesa o il ritorno a un ‘intesa precedente. Quando la risposta non è verbale si ricorre all’osservazione per
riconoscere se l’altro accorda il suo assenso oppure no. Questo vale anche nelle situazioni in cui il cliente ha
assunto un ruolo passivo, magari dopo aver detto: “Mi dica, l’ascolto”. La PNL offre tecniche specifiche per
l’interpretazione unitaria di tutti i segni percettibili del comportamento, anche i più disparati.

1.5 La guida
All’interno di un rapporto soddisfacente diventa possibile orientare la negoziazione verso il raggiungimento
di un obiettivo. All’interno di questo processo, svolgono un ruolo determinante gli aspetti sia verbali che non
verbali della comunicazione. Da un punto di vista della comunicazione non verbale dove, attraverso una
serie di domande specifiche, possiamo orientare e guidare una persona nel percorso di analisi delle sue
motivazioni principali rispetto ad un obiettivo specifico. Di seguito saranno descritte alcune fasi che possono
aiutare a comprendere qual è l’obiettivo in un dato momento di una persona, o in ambito lavorativo di un
cliente. La guida può essere non-verbale ed in questo caso può servire a due cose:
1. Test: dopo aver effettuato il ricalco (di qualsiasi tipo) effettuate un piccolo cambiamento, per esempio
tirandovi leggermente su con il busto, oppure spostate un poco la gamba accavallata, oppure vi schiarite la
voce e osservate cosa accade. Se la persona vi segue, cioè effettua lo stesso cambiamento, significa che avete
raggiunto il vostro obiettivo relazionale. A questo punto mantenendo un ricalco di base potrete passare di
fatto alle fasi successive. Altrimenti effettuate un ricalco più approfondito adeguandovi in qualche altro
parametro. Se, per esempio, avevate curato solo la voce, adeguatevi anche alla postura.
2. Apertura: immaginate che la persona con la quale state parlando abbia assunto la famosa posizione di
chiusura che tanto preoccupa i venditori. Ricorderete che suggerivamo di assumere la stessa posizione. A
questo punto cominciate a cambiare. Spostatevi in modo quasi impercettibile in avanti, lasciate le gambe
incrociate ma aprite le braccia, oppure da una posizione a braccia conserte passate a tenere solo le dita
intrecciate, e via dicendo.

1.6 Creare sintonia


Dopo aver appreso le tecniche di comunicazione di base, in particolare ci addentreremo nelle tecniche di
comunicazione avanzata: linguaggio di persuasione e metaforico, tecniche di negoziazione e vendita
persuasiva, per programmare al meglio noi stessi, particolarmente utilizzate nelle attività che richiedono
capacità persuasive. Potete immaginare cosa significa per noi tutti creare sintonia, cioè feeling,
indispensabile per aiutare l’interlocutore ad aprirsi e a fidarsi di noi. Questo può tornare utile nel mettere alla
prova le capacità di e negoziatori. Provate a pensare quando vi troverete in un contesto lavorativo a trattare
con un cliente “difficile” . Cosa succederebbe se finalmente riusciste a concludere un lavoro che vi sembrava
impossibile?
1.7 I presupposti della comunicazione
“Persuadere”, “influenzare”, “sedurre”, “guidare” sono tutte parole che presuppongono una interazione con
gli altri, una comunicazione; viene infatti spontaneo domandarsi chi o che cosa persuadere, influenzare,
sedurre o guidare. Questo significa che la comunicazione esiste in quanto relazione. La parola
“comunicazione”, nell’uso comune, è soggetta a innumerevoli interpretazioni e significati, ma una cosa è
certa: essa è il mezzo a nostra disposizione per rapportarci al mondo che ci circonda! Chiunque desideri
avere successo ed essere efficace in ogni ambito della propria vita deve imparare a gestire la comunicazione
con arte. Ma cosa significa “comunicare”? L’attuarsi della comunicazione prevede innanzitutto che vi siano
due soggetti in gioco: un emittente e un ricevente. Ciò significa che la parola comunicazione definisce una
dinamica relativa a un contenuto (parole, gesti, sguardi…) che “passa” da un polo a un altro: nel caso che qui
ci interessa – la comunicazione tra esseri umani -da un individuo all’altro. Questo implica un carattere
imprescindibile della comunicazione : la bidirezionalità. Ovvero, il fatto che l’emittente abbia in effetti un
ricevente, un destinatario della sua comunicazione, che non necessariamente debba rispondergli o rivolgersi
a lui a propria volta, a semplicemente esista e possa, se desidera, interagire attivamente con l’emittente.
La comunicazione non è l’informazione
Quando si parla di comunicazione si presuppone il fatto che vi sia un feedback (in italiano retroazione),
ovvero una risposta, da parte del soggetto a cui la comunicazione è stata diretta: non importa se il feedback è
di tipo verbale (una frase di risposta) o non verbale (un gesto, un’occhiata, una pausa riflessiva di silenzio).
L’importante è che ci sia. Questa è la differenza tra la comunicazione e la semplice informazione. Quando
noi ascoltiamo la radio, o guardiamo la televisione, non comunichiamo, bensì riceviamo semplicemente

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informazioni: coloro che ci parlano (lo speaker, il conduttore del telegiornale ecc.) non possono percepire
alcuna nostra reazione, alcun nostro messaggio di risposta. Non c’è retroazione, feedback. Il messaggio parte
da loro e arriva a noi, ma noi non possiamo “rimandarlo” a chi l’ha emesso. Ben diversa è la situazione
comunicazionale. Quando noi parliamo con un amico, gestiamo un dialogo a “botta e risposta”, fatto di
parole, battute, mezzi discorsi, occhiate e risatine. Tale ricchezza di messaggi inviati e ricevuti caratterizza il
rapporto comunicativo.
La comunicazione implica una relazione
La bidirezionalità implica, effettivamente, una relazione tra due termini. Tale relazione si può stabilire a tre
diversi livelli: → rapporto uno-a-uno; → rapporto uno-a-molti; → rapporto interiore. Nel rapporto uno-a-
uno, la nostra comunicazione è molto mirata e totalmente centrata sull’interlocutore al fine di scoprire le sue
leve motivazionali e strategie decisionali utili per influenzarlo. Si deve carpire ogni possibile elemento utile
a costruire una dialettica il più possibile efficace e diretta, ovvero fatta su misura per lui. E’ questo il tipo di
relazione sul quale ci concentreremo maggiormente. Nel rapporto uno-a-molti cerchiamo invece di gestire un
pubblico, per esempio durante una riunione o davanti a grandi folle, quindi la nostra attenzione è diretta a
una pluralità di “uni” molto diversi tra loro; il nostro obiettivo è allora quello di costruire una dialettica
efficace, nonostante l’impossibilità, per chi parla, di “leggere” a fondo le caratteristiche di ogni singolo
interlocutore. L’abilità persuasiva si esprime, in questo caso, anche attraverso l’ausilio di supporti visivi o
multimediali in grado di catturare l’attenzione di una pluralità di interlocutori. In questo tipo di relazione
entrano in gioco anche altre abilità, tra le quali quelle tipiche degli attori: il training mirato per chi vuole
migliorare la propria capacità di parlare in pubblico prevede infatti, non a caso, l’apprendimento di tecniche
mutuate dal lavoro teatrale.
Nel rapporto interiore abbiamo invece, solitamente, la cura di parlare a noi stessi in modo onesto e chiaro
(cosa tutt’altro che facile), ponendo in essere – anche se inconsapevolmente – una dissociazione che ci aiuta
a guardarci come un amico, il nostro migliore e più fidato amico. Influenzare se stessi è una prova difficile
ed è alla base dei meccanismi di automotivazione, di cambiamento personale e di tutto quell’universo
interessantissimo e delicatissimo inerente ai processi psicologici che guidano i nostri stati d’animo e il nostro
livello di soddisfazione quotidiana. Per sviluppare gli argomenti che seguono, ci riferiremo ai primi due
livelli di relazione: uno-a-uno e uno-a-molti. In essi, infatti, gioca un ruolo fondamentale il comportamento:
ovvero, il modo di agire delle persone, che per essere definito tale deve essere osservabile (quindi, espresso).
E’ questo un elemento fondamentale della comunicazione.

1.8 Lo studio della comunicazione


Si comprenderà, ormai, come vi sia una pluralità di elementi che concorre a dar vita alla comunicazione. C’è
un contenuto, che dovrebbe, corrispondere al significato di ciò che “passa” da una parte all’altra; vi è una
forma, che equivale alle modalità attraverso le quali è gestito e articolato il messaggio. Vi sono elementi
linguistici, verbali; elementi gestuali; toni di voce e pause di silenzio; espressioni e ritmo di parlata. La
comunicazione è tutto questo. Tali considerazioni rendono necessario introdurre alcuni concetti che ci aiutino
a distinguere e comprendere i vali elementi che costituiscono la comunicazione. Lo studio della
comunicazione è articolato in tre branche: ¾ sintassi, cioè lo studio dei rapporti tra i simboli (linguaggio,
scritto o parlato); ¾ semantica, ovvero lo studio del significato dei simboli e delle loro relazioni; ¾
pragmatica, cioè lo studio degli effetti prodotti sul comportamento dall’utilizzo del linguaggio e delle sue
implicazioni semantiche.
La teoria di Watzlawick Paul Watzlawick, noto studioso americano, elaborò una teoria della comunicazione
umana: teoria che – come tale – è costruita sulla base di assiomi: ovvero, proprietà semplici della
comunicazione, da cui discende la teoria della comunicazione con le sue implicazioni.
F 0Primo
76 assioma: l’impossibilità di non comunicare La principale proprietà del comportamento consiste nel
fatto che esso non può avere un suo opposto. Non è possibile, insomma, non avere un comportamento.
Indipendentemente dal fatto che ognuno di noi sia in movimento oppure fermo, parli o resti in silenzio,
dorma o agisca, viene percepito da chiunque lo circondi come una persona che è in uno stato specifico.
Ognuno, dunque, comunica uno stato agli altri che lo percepiscono. Il silenzio, per esempio, è spesso un
segnale che ha una forte valenza comunicazionale: può trasmettere collera, indifferenza, imbarazzo,
sgomento, indignazione. Nel momento in cui vi è la percezione di tale comportamento, scatta l’interazione
tra il percipiente e il percepito. Ecco che si attiva, quindi, la comunicazione. Possiamo postulare così il primo
assioma della pragmatica della comunicazione “non si può non comunicare”.

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F 0Secondo
76 assioma: contenuto e relazione La comunicazione trasmette, sempre, un’informazione. Allo
stesso tempo, però, essa impone un comportamento. L’informazione è, di fatto, una notizia: si trasmette un
contenuto. Il comportamento è, invece, dettato dalla relazione tra i due comunicanti. L’impostazione e la
natura di tale relazione corrisponde al tipo di messaggio che viene trasmesso. Per esempio, i due messaggi:
“E’ importante che tu prepari bene il prossimo esame” e “Non studiare per l’esame, così ti bocceranno
sicuramente!” sono frasi che contengono la stessa informazione (o notizia), ma definiscono relazioni molto
diverse tra chi parla e chi ascolta. La relazione, in questo senso, definisce il contenuto. Si pone, quindi, a un
livello superiore rispetto al contenuto stesso. Ciò è valido universalmente. Si può dire, quindi, che “ogni
comunicazione presenta un aspetto di contenuto e uno di relazione, in modo tale che il secondo classifica il
primo ed è, quindi, metacomunicazione”(comunicazione sulla comunicazione). Precisiamo che ciò che viene
definito “meta” si pone a un altro livello, superiore, rispetto a ciò che ne è l’oggetto. Per esempio, riguardo
alle due frasi sopra citate, la prima metacomunica affetto e attenzione, mentre la seconda metacomunica una
minaccia e un comando. Ecco perché si dice che la relazione è “comunicazione sulla comunicazione”; ciò
che le due frasi comunicano non è solo il contenuto, ma anche il tipo di rapporto che lega i due individui che
parlano. Questo è il livello “meta”.
F 0Terzo
76 assioma: la punteggiatura della sequenza di eventi L’interazione tra due persone che comunicano è,
di fatto, una sequenza di scambi. Possiamo immaginare che la comunicazione tra il soggetto A e il soggetto
B sia più o meno rappresentabile così:

In realtà, però, ogni risposta di B condiziona lo stimolo di A; ovvero:


Sembra che sia sempre A a fornire lo stimolo con i successivi rinforzi, e sempre B a fornire le risposte. In
realtà, i punti di vista si possono “ribaltare”, considerando che ogni risposta di B può anche essere uno
stimolo per A. Questo è il feedback che gli interlocutori si danno reciprocamente nel contesto della
situazione comunicazionale. Nel darsi i feedback, essi costruiscono involontariamente un gioco di ruolo. In
una conversazione, infatti, capita spesso che il ruolo preponderante venga assunto talvolta dall’individuo A,
talvolta dall’individuo B, a seconda dei momenti. Si dice, allora, che la punteggiatura degli eventi cambia:
ossia, cambia il modo in cui A e B interagiscono e si pongono l’uno nei confronti dell’altro. In altre parole, si
può dire che in ogni relazione gli interlocutori A e B stabiliscono tra loro dei modelli di scambio, ossia delle
“regole di ruolo” che organizzano gli eventi comportamentali. Modificando i ruoli (la punteggiatura, le
regole) si modifica anche la natura della relazione. Da questo consegue che “la natura di una relazione
dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i soggetti comunicanti”.
F 0Quarto
76 assioma: comunicazione numerica e analogica. Quando si comunica, si hanno due possibilità per
riferirsi agli oggetti della comunicazione; o descriverli verbalmente (il che presuppone l’uso del linguaggio)
oppure rappresentarli mediante un’immagine o un gesto. La prima modalità prevede lo stabilire un rapporto
tra la cosa che si vuole indicare e la sua denominazione: questo rapporto è dettato da una convenzione
linguistica, stabilita arbitrariamente. Non esiste nessun altro rapporto tra la denominazione e l’oggetto, se
non la convenzione. Per esempio, chiamare “acqua” il liquido semitrasparente che costituisce il mare non
presuppone un legame reale, concreto, tra le lettere (simboli) a-c-q-u-a e il suddetto liquido, considerato
come oggetto fisico. Il solo legame che vi è tra nome e cosa è l’abitudine – la convenzione – di chiamare
l’acqua “acqua”. Questa è la comunicazione digitale; squisitamente sintattica, cioè fatta di simboli (cioè le
lettere, in questo caso) connessi tra loro, basata su convenzioni linguistiche. La seconda modalità, invece, è
ben più diretta ed evidente della prima: se sono su una spiaggia e voglio riferirmi all’acqua del mare, posso
– anziché nominarla – indicarla con il gesto. Farò quindi rapidamente – e universalmente – comprendere che
in quel momenti mi sto riferendo al liquido semitrasparente che costituisce il mare. Quest’ultima è una
modalità di comunicazione di tipo analogico. Possiamo, in effetti, definire analogica ogni modalità di
comunicazione extraverbale (ovvero, paraverbale e non verbale), che definisce in modo immediato la
relazione tra oggetto e soggetto. E’ evidente, allora, la corrispondenza tra l’aspetto di contenuto
dell’informazione – che si può trasmettere con il solo linguaggio – e la modalità digitale, come anche la
coincidenza tra modalità analogica e trasmissione dell’aspetto di relazione. Per riassumere, “gli esseri umani
comunicano sia con il modulo digitale (numerico) che con quello analogico. Il linguaggio digitale ha una
sintassi logica molto complessa ed estremamente efficace, ma è privo di una semantica adeguata nell’ambito
della relazione: il linguaggio analogico, invece, possiede la semantica ma non ha alcuna sintassi adeguata per
definire, 25 in un modo che non sia ambiguo, la natura delle relazioni”.

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F 0Quinto
76 assioma: interazione complementare e simmetrica. Le relazioni umane presuppongono sempre o
un’uguaglianza o una differenza tra i due comunicanti. Nel primo caso, ciascuna delle due persone in gioco
tende a rispecchiare il comportamento dell’altro; la loro interazione si dice allora simmetrica. La relazione
simmetrica può essere vissuta come positiva, gradevole, “vincente”; proprio perché basata sulla
“somiglianza” tra i due interlocutori, questi si possono rivedere l’uno nell’altro, scoprendo un terreno
comune favorevole all’intesa: bisogna però stare attenti a evitare il fenomeno dell’escalation (che in questo
caso può innescarsi facilmente): ovvero, quell’”impuntarsi” su posizioni che, data l’identità di carattere dei
due interlocutori, porterebbero entrambi a non cedere, a non modificare il proprio comportamento,
dimostrando atteggiamenti simili ancorché su posizioni diverse: fenomeno che rischia di bloccare la
relazione. Nella relazione complementare le posizioni assunte dai due interlocutori sono differenti: uno dei
due assume una posizione primaria, one-up; l’altro una posizione, per l’appunto, complementare: in tal caso,
secondaria (one-down). L’adattamento a questo tipo di ruoli crea una differenza che presuppone il
richiamarsi a vicenda dei ruoli stessi: quando è vissuta in armonia, questa modalità relazionale può essere
equilibrata. Purché si mantenga l’intercambiabilità dei ruoli e, soprattutto, non si associ al ruolo one-up
l’idea di “migliore” o “più forte”: alla definizione non è sottesa alcuna attribuzione del genere.
Semplicemente, le posizioni up e down presuppongono l’una il comportamento dell’altra; sono quindi
reciprocamente necessarie affinché sussista la relazione. “Tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici
o complementari, a seconda che essi siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza tra gli interlocutori”.

1.9 Sistemi rappresentazionali


Le persone ricevono e rappresentano le informazioni del e sul loro ambiente attraverso recettori specializzati
e organi di senso, dislocati lungo tutto il loro sistema nervoso. I sistemi rappresentazionali sono processi
sensoriali che originano e regolano il comportamento. Ognuno di noi rappresenta la realtà che lo circonda in
immagini, suoni, sensazioni, odori e gusti. Queste modalità rientrano in 5 categorie: VISIVO, AUDITIVO,
CENESTESICO, OLFATTIVO, GUSTATIVO (vista, udito, tatto, gusto, olfatto). I canali olfattivo e
gustativo vengono assimilati al canale cenestesico, del quale fanno parte anche le sensazioni tattili e i
segnali propriocettivi o viscerali (sensazioni interne). Il bambino impara a prestare attenzione a parti diverse
della realtà, se i genitori gli danno carta e matita o un pallone o un violino. Se altri fattori dell’ambiente
interno (cause genetiche) o esterno (cause socio-ambientali) dirigono la sua attenzione verso l’informazione
ricevuta attraverso un particolare canale, egli può essere condizionato ad affidarsi a quel tipo di informazione
anche in situazioni nuove nelle quali sarebbe più vantaggioso prestare attenzione a informazioni provenienti
da canali sensoriali diversi. Ci sono bambini che hanno difficoltà di apprendimento a scuola non perché
sono stupidi, ma perché la scuola esige l’uso del Sistema Rappresentazionale visivo e auditivo, mentre loro
sono prevalentemente cenestesici. I problemi di alcuni bambini inseriti in classi differenziali sono stati risolti
usando il sistema Braille (digitale cenestesico) usato con i ciechi. Per individuare i sistemi
rappresentazionali usati ci sono vari indicatori, verbali, non verbali e paraverbali. Il sistema
rappresentazionale principale è costituito da: predicati verbali, tipi somatici, postura (atteggiamento
corporeo). Il sistema rappresentazionale guida comprende: movimenti oculari, colorito della pelle,
respirazione, tono della voce.
1.10 Tipologie
I vari tipi di soggetti si distinguono in base al canale rappresentazionale prevalente.
Visivi: spalle dritte, capo eretto, gestualità rivolta verso l’alto, dito puntato e/o braccia tese, sguardo diretto
verso l’alto, respirazione prevalentemente alta (toracica), tono di voce alto tendente all’acuto (timbro) parlata
veloce, tono muscolare teso (spalle e collo), ritmo della voce variabile e veloce (improvvisi scoppi di parole).
Stretta di mano veloce. (v. Bonolis).
Auditivi: spalle curve, abbassate, mani e braccia incrociate, gambe incrociate e mani in tasca o intrecciate,
respirazione di tipo medio tra torace e addome (diaframmatici), posizione della testa rivolta all’ascolto, a
volte inclinata di lato (posizione al telefono); sguardi orizzontali, movimenti delle braccia armoniosi come a
seguire un certo ritmo (da direttore d’orchestra), parlata modulata con ritmo costante (voce modulata,
musicale), tono medio, timbro chiaro, squillante (v. Simona Ventura).
Cenestesici: Tono muscolare rilassato, viscerale (obeso), braccia piegate come in posizione di riposo, palmo
delle mani rivolto in alto; sguardo diretto in basso, (a destra), parlata lenta con pause tra le parole spesso
trovate con una certa difficoltà; tono della voce basso e profondo, e timbro pastoso o grave, respirazione di

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tipo addominale. Visto di lato il corpo assume quasi la forma di un punto interrogativo. Stretta di mano
flaccida. Il soggetto cenestesico di tipo tattile - motorio (atletico) stringe la mano con energia.
Rispecchiare significa riprodurre la fisiologia, il modo di usare la voce, i predicati verbali (VAK) della
persona con cui si sta comunicando. Se il vostro interlocutore ha le gambe incrociate, le mani in tasca, la
testa inclinata da un lato, se parla con volume medio e ritmo costante e si riferisce in prevalenza a quello che
“si dice” e a come “suonano le cose”, farete altrettanto e parlerete usando il suo stesso tipo di voce con
predicati verbali auditivi. Questo significa RISPECCHIARE l’altro. Il rispecchiamento è un mezzo potente
per creare rapport.

2 Sintesi
1) Gli elementi non verbali che consentono di sviluppare sintonia nei confronti dell’interlocutore sono quelli
di apertura, da manifestare con gradualità a partire dal rispecchiamento della condizione corporea
dell’interlocutore. Questo porterà con molta probabilità l’interlocutore a fare un passo di apertura verso
l’altro e in generale a creare sintonia con questo.
2) Ricalcare” significa, dopo aver individuato con la calibrazione le modalità espressive dell’interlocutore,
riproporre a questo tali modalità, creando così una sensazione di confidenza, di identità di vedute e
comportamento. In altri termini, significa “entrare in risonanza” con l’interlocutore.
3) Ricalco formale: questo tipo di ricalco può essere definito anche rispecchiamento o mirroring, in quanto si
riferisce alla forma della comunicazione. Esso corrisponde alla riproduzione della fisiologia, degli
atteggiamenti corporei e delle posture dell’interlocutore: è un ricalco, quindi, non verbale.
4) Ricalco paraverbale: consiste nell’adottare uno stile di conversazione simile, con il medesimo tono di
voce, ritmo di parola, volume.
5) Ricalco emotivo: utilizzare tale ricalco significa cercare di vivere e manifestare le emozioni vissute
dall’altro, intanto che racconta un fatto, un’esperienza o una sensazione.
6) Ricalco culturale: mira invece ad adeguarsi al registro (stile e livello di discorso) dell’interlocutore. Esso
prevede l’utilizzo di particolari terminologie, stili espositivi e argomentazioni specifici della persona.
7) Ricalco verbale e ricalco profondo: quest’ultimo tipo di ricalco riguarda valori e convinzioni che si
riflettono nelle modalità espressive del linguaggio attraverso l’uso prevalente di alcuni termini o locuzioni
specifiche. Il ricalco profondo riguarda le radici della personalità. Agisce sui valori interiori, sulle
convinzioni maturate in una vita, sui contenuti delle esperienze. Per questo esso si dice anche ricalco
contenutistico.
8) Ricalco della distanza: riguarda la distanza tra le persone. Rispettare le preferenze dell’interlocutore e
rivolgersi a lui nei modi che gli vede mettere in pratica può essere utile per entrare in sintonia con lui. E’
molto importante rendersi conto dell’origine di questi comportamenti, per non giudicare l’interlocutore in
modo sbagliato. Il concetto di territorio va sempre tenuto presente, come la reazione alla sua minaccia, vera
o presunta, che è sempre di scontro o di fuga.
9) Ricalco del contatto visivo: è relativo al contatto visivo tra due interlocutori. Questo è fondamentale per
far capire all’interlocutore di essere compreso, e adeguare il contatto visivo all’interlocutore favorisce la
costruzione di un rapporto positivo.
10) La guida: all’interno di un rapporto soddisfacente diventa possibile orientare la negoziazione verso il
raggiungimento di un obiettivo. All’interno di questo processo, svolgono un ruolo determinante gli aspetti sia
verbali che non verbali della comunicazione
11) L’attuarsi della comunicazione prevede innanzitutto che vi siano due soggetti in gioco: un emittente e un
ricevente. Ciò significa che la parola comunicazione definisce una dinamica relativa a un contenuto (parole,
gesti, sguardi…) che “passa” da un polo a un altro: nel caso che qui ci interessa – la comunicazione tra esseri
umani -da un individuo all’altro. Questo implica un carattere imprescindibile della comunicazione : la
bidirezionalità. La comunicazione va distinta dall’informazione dato che, a differenza di questa, prevede un
feedback da parte del soggetto che la riceve, che può essere sia verbale che non verbale. Elemento centrale
della comunicazione è che implica una relazione.
12) Paul Watzlawick, noto studioso americano, elaborò una teoria della comunicazione umana: teoria che –
come tale – è costruita sulla base di assiomi, ovvero, proprietà semplici della comunicazione, da cui discende
la teoria della comunicazione con le sue implicazioni:
F 0Primo:
76 non è possibile non comunicare
F 0Secondo:
76 la comunicazione trasmette sempre un informazione

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F076Terzo: l’ interazione tra due persone che comunicano è, di fatto, una sequenza di scambi
F076Quarto: quando si comunica, si hanno due possibilità per riferirsi agli oggetti della comunicazione: o
descriverli verbalmente oppure rappresentarli mediante un’immagine o un gesto.
F 0Quinto:
76 le relazioni umane presuppongono sempre o un’uguaglianza o una differenza tra i due
comunicanti.

“ATTRIBUIRE UNA MENTE AD INDIVIDUI E GRUPPI”

1 Attribuire una mente


Giulio Boccato Università degli Studi di Bergamo
In-Mind Italia IV, 8–13 http://it.in-mind.org ISSN 2240-2454
Questo articolo parla della nostra capacità di percepire la mente degli altri. Quali meccanismi psicologici
sono alla base della percezione di mente? Quali sono i fattori che influiscono sull’attribuzione di mente?
Quali dimensioni di giudizio utilizziamo per decriptare la mente altrui? E se fallissimo nella percezione di
mente, non riconoscendola a chi ce l’ha?
1.1 Mentalizzazione
La capacità di leggere la mente degli altri mi ha sempre affascinato, forse per gli elementi di magia e
misticismo associati alla sua immagine. Non è sorprendente che all’incirca tutti gli esseri umani possiedano
questa capacità (esclusi quelli con meno di cinque anni o quelli con una lesione alla corteccia prefrontale
mediale). Riconoscere una mente agli altri individui è una componente essenziale della vita sociale nelle
società umane, necessaria per raggiungere due importanti obiettivi per la sopravvivenza della specie:
comprendere, prevedere, e controllare il comportamento degli altri e sviluppare una connessione sociale con
i membri del proprio gruppo. Il bisogno di controllo e di connessione sociale sono i fattori principali che
aumentano la necessità di percepire accuratamente la mente degli altri: l’incertezza, l’ambiguità
nell’attribuzione causale, un aumentato bisogno di controllo (e sufficienti risorse cognitive), da un lato, il
bisogno di appartenenza e il desiderio di essere connessi con altre entità, dall’altro, sono i motori della
percezione di mente (Waytz, Gray, Epely, & Wegner, 2010). Il processo di percezione di mente è stato
chiamato mentalizzazione (Frith & Frith, 2003). La mentalizzazione consiste nell’inferire l’esistenza di stati
mentali ed eventi interni sulla base di indici esteriori o di una simulazione dell’esperienza dell’altro. La
percezione di mente varia lungo un continuum. Ad un estremo, gli individui falliscono nel riconoscere
nell’altro intenzioni, cognizioni, ed emozioni; questa tendenza viene chiamata dai ricercatori
“dementalizzazione.” All’estremo opposto del continuum, gli individui riconoscono pienamente gli stati
mentali degli attori sociali, ciò che viene chiamato “mentalizzazione.” Sebbene si parli principalmente di
attori sociali, l’attribuzione di mente non è circoscritta ai soli esseri umani ma può essere accordata anche ad
altre entità: un gruppo sociale, uno strumento tecnologico, Dio, una persona morta, o in stato vegetativo, etc.
Si pensi che in Spagna la maggior parte del Parlamento ha riconosciuto agli scimpanzé alcuni diritti umani,
proprio per le loro evidenti capacità mentali (Abend, 2008). Quotidianamente, mi capita di discutere con il
computer su cui sto lavorando ora. Con SPSS (il software statistico che permette di verificare i risultati di
una ricerca), ho condiviso dei momenti di forte felicità e rabbia [sic!]. È probabilmente capitato anche a voi
di interagire con un essere inanimato, ad esempio il computer o l’automobile, addirittura attribuirgli
responsabilità, come se avesse una mente: non preoccupatevi, non è un segnale di disturbo psichico ma più
semplicemente una forma di antropomorfismo (Epley, Waytz, & Cacioppo, 2007; si veda glossario). È più
preoccupante invece non percepire la mente in chi ce l’ha: se ad un essere umano viene negata la mente, di
conseguenza gli sono negati anche i diritti umani e può essere trattato come un animale o un oggetto
(Haslam, 2006). È quindi importante conoscere i meccanismi psicologici che portano a percepire la mente
dell’altro. Gli individui attribuiscono una mente a sé e agli altri. Quando pensano agli altri in termini di
credenze, atteggiamenti, pensieri, o emozioni ma anche quando cercano di prevedere il comportamento altrui
sulla base di caratteristiche mentali siamo di fronte all’attribuzione di mente. Noi esseri umani non possiamo
percepire direttamente gli stati mentali di un altro, ma possiamo solo inferirli sulla base di metodi indiretti,
quali l’osservazione del comportamento, il resoconto degli altri, o l’intuizione. Il primo meccanismo per
conoscere la mente dell’altro sembra essere una simulazione egocentrica. Come diceva Piaget (1932/2009), i
bambini fino ai cinque anni non sono consapevoli che le percezioni degli altri siano diverse dalle proprie;
difficilmente un bambino comprende che la visione di un oggetto possa essere diversa dalla propria, ad
esempio per una persona che vede lo stesso oggetto da una posizione diversa (Flavell, 1986). Gli adulti

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mantengono questa prospettiva egocentrica come punto di partenza nei giudizi sociali. Durante lo sviluppo
apprendono una serie di informazioni sociali sugli altri o su gruppi di altri: stereotipi, aspettative, e teorie
ingenue su come funzioni la mente forniscono il secondo meccanismo per intuire gli stati mentali degli altri.
La ricerca nelle scienze cognitive (Epley, 2008) suggerisce che la propria prospettiva serva da punto di
partenza quando cominciamo a considerare la mente di un altro; le informazioni sociali entrano in gioco solo
in un momento successivo, per aggiustare o correggere l’iniziale valutazione egocentrica: un’euristica di
ancoraggio e aggiustamento (Tversky & Kahneman, 1974; si veda glossario). Sebbene in età adulta il default
egocentrico possa essere corretto, risorse cognitive permettendo (Kruger, 1999), la nostra percezione della
mente degli altri non è sempre accurata. Ciò può dipendere dal fatto che gli stereotipi che abbiamo appreso
sono inaccurati o dal fatto che emozioni, desideri, e aspettative guidano la nostra percezione tanto da rendere
impossibile decriptare correttamente gli stati mentali altrui. Si pensi alle relazioni romantiche: quando siamo
interessati a iniziare una relazione intima tendiamo a sovrastimare le intenzioni amorose nei comportamenti
del partner (Vorauer & Ratner, 1996). Quando invece siamo insoddisfatti nella relazione, tendiamo a
sovrastimare le intenzioni ostili nei comportamenti del partner (Schweinle, Ickes, & Bernstein, 2002). I
moderatori della percezione di mente sono coerenti con un modello di ancoraggio egocentrico e successivo
aggiustamento. È più probabile che ci affidiamo ad una prospettiva egocentrica quando attribuiamo una
mente a persone che percepiamo come simili a noi piuttosto che diverse da noi: un processo chiamato
“proiezione sociale” (Krueger, 2007; si veda glossario). Inoltre, le persone che vivono in culture che
enfatizzano la prospettiva dell’altro (cioè, le culture collettivistiche) sono più abili a superare il default
egocentrico, rispetto alle persone che vivono in culture che enfatizzano il sé (cioè, le culture
individualistiche) (Wu & Keysar, 2007).
1.2 Mente, simpatia, e gruppi
Forse non vi sorprenderò dicendovi che troviamo più facile considerare la mente delle persone che ci
piacciono (McPherson-Frantz & Janoff-Bulman, 2000). Ciò può derivare sia da un effetto di familiarità sia
da attribuzioni positive (Malle & Pearce, 2001): in ogni caso, siamo più motivati a credere che le persone che
ci piacciono abbiano maggiori capacità mentali. Ad esempio, Kozak, Marsh, e Wegner (2006) hanno
condotto una serie di studi per verificare se la simpatia influenzasse la percezione di mente: i partecipanti
leggevano un brano che parlava di Mike, uno studente immaginario descritto, a seconda della condizione, in
modo da indurre simpatia oppure antipatia; poi valutavano Mike sulla base delle affermazioni presentate in
una scala costruita ad hoc: la Mind Attribution Scale misura quanto un target sia in grado di provare
emozioni, cognizioni, e intenzioni. Come ipotizzato, il Mike simpatico riceveva maggiori punteggi di mente
in tutte e tre le dimensioni. In uno studio successivo, si manipolava la sofferenza del target. I partecipanti
leggevano la storia di Mike, uno studente che stava affrontando delle difficoltà economiche e sociali. La
storia aveva due finali diversi: uno che portava all’aggravarsi delle condizioni e a una forte sofferenza, l’altro
era un finale positivo. I risultati mostrano che il Mike sofferente era meno gradito di quello con finale
positivo. Inoltre, al Mike sofferente venivano attribuite meno intenzioni e cognizioni. Quest’ultimo risultato
apre una riflessione su una possibile natura difensiva della dementalizzazione: alcune ricerche hanno
mostrato come il dolore di vittime o entità che soffrono possa essere sminuito negando le capacità mentali
(Castano & Giner-Sorolla, 2006; Loughnan, Bratanova, & Puvia, 2012). Infatti, se un soggetto non possiede
la mente non ha la capacità di sentire il dolore, e ciò ci libera dallo stress che deriva dalla consapevolezza
dell’altrui sofferenza (Bandura, Barbaranelli, Caprara, & Pastorelli, 1996). Non vi sorprenderò nemmeno
dicendovi che troviamo generalmente più simpatici i membri dei gruppi a cui apparteniamo (ingroup)
rispetto ai membri di altri gruppi (outgroup). Immaginate di essere in un treno, siete stanchi e ci sono solo
due posti liberi, equidistanti: accanto ad uno, c’è un ragazzo bianco, accanto all’altro, un ragazzo nero. Dove
andrete a sedervi? Questo effetto viene chiamato dagli psicologi sociali ingroup favoritism bias: una
tendenza sistematica a preferire e favorire i membri dell’ingroup rispetto a quelli dell’outgroup, che si
esprime in valutazioni positive, allocazioni di risorse, desiderio di contatto, e molti altri modi (Hewstone,
Stroebe, Jonas, & Voci, 2010; Hogg & Vaughan, 2012). Si attribuisce anche più mente all’ingroup che
all’outgroup? Sebbene la ricerca sul tema sia ancora ad uno stadio iniziale, si può dire che gli individui
attribuiscano all’ingroup più emozioni complesse (Leyens et al., 2007) ed alcuni stati mentali tipicamente
umani (Haslam, 2006), che all’outgroup. I membri dell’outgroup possono essere associati ad animali con
ridotte capacità mentali (Boccato, Capozza, Falvo, & Durante, 2008; Capozza, Boccato, Andrighetto, &
Falvo, 2009). Inoltre, i membri di gruppi estremamente negativi (ad es., tossicodipendenti e homeless) non
attivano la corteccia prefrontale mediale (Harris & Fiske, 2006), una regione cerebrale coinvolta

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nell’attribuzione di mente. Infine, quando l’attenzione è focalizzata sul corpo di una persona, a questa sono
attribuite meno capacità mentali, un fenomeno chiamato oggettivazione (Loughnan et al., 2010). Nel
contesto della teoria dell’infraumanizzazione (Leyens et al., 2001, 2007), è stato dimostrato che gli individui
assegnano una specifica capacità mentale complessa maggiormente ai membri del proprio gruppo. Si
distingue tra emozioni primarie ed emozioni secondarie: le emozioni primarie (ad es., gioia e rabbia) sono
provate sia dagli animali che dagli esseri umani, mentre le emozioni secondarie (ad es., entusiasmo e
nostalgia) sono provate unicamente dagli esseri umani. Al fine di definire il proprio gruppo come più umano
e relegare gli altri gruppi ad uno status “diversamente umano,” gli individui attribuiscono più emozioni
secondarie all’ingroup; non emergono differenze nell’attribuzione di emozioni primarie. Boccato, Cortes,
Demoulin, e Leyens (2007) hanno condotto uno studio da cui è emerso che l’infraumanizzazzione dell’altro
avviene in modo automatico. In questo studio, i partecipanti eseguivano un compito di categorizzazione di
persone (Blair & Banaji, 1996): sullo schermo del computer, apparivano delle foto di volti dell’ingroup
(bianchi) e dell’outgroup (neri); ogni foto era preceduta da una parola, che poteva essere un’emozione
primaria o un’emozione secondaria. I risultati hanno confermato che i partecipanti erano più rapidi nel
riconoscere i volti dell’ingroup, rispetto a quelli dell’outgroup, quando preceduti da emozioni secondarie.
Nessuna differenza è emersa nel riconoscimento dei volti quando preceduti da emozioni primarie. Più
recentemente, Boccato e Capozza (2012) hanno esteso questo effetto anche alle cognizioni. I partecipanti
eseguivano un compito di identificazione di nomi: sullo schermo del computer apparivano nomi di persona
dell’ingroup (italiani) e dell’outgroup (marocchini); ogni nome era preceduto da una parola, che poteva
essere una cognizione primaria (ad es., istinto e percezione) o una cognizione secondaria (ad es.,
introspezione e analisi). Come nello studio precedente, i partecipanti erano più rapidi nell’identificare i nomi
dell’ingroup, rispetto a quelli dell’outgroup, quando questi erano preceduti da una cognizione secondaria o
unicamente umana. Nessuna differenza è emersa nel caso delle cognizioni primarie. E per quanto riguarda le
intenzioni

1.3 Agency e Experience


Nella ricerca in psicologia, si assume generalmente che la percezione di mente avvenga lungo un’unica
dimensione, cioè un’entità ha più o meno mente. Gli studi su come gli scimpanzé (Premack & Woodruff,
1978) e i pazienti con autismo (Baron-Cohen, 1995) percepiscano la mente, utilizzano diversi indicatori, ma
nessuno riconducibile a dimensioni distinte. Kozak e colleghi (2006), come anche noi in questo articolo,
hanno utilizzato tre dimensioni per caratterizzare la mente: emozioni, cognizioni, e intenzioni. Loughnan e
colleghi (2010) hanno utilizzato quattro dimensioni: percezioni, emozioni, cognizioni, e intenzioni. Quali
dimensioni utilizziamo quando pensiamo alla mente? Gray, Gray e Wegner nel 2007 hanno svolto uno studio
per rispondere a questa domanda. Più di 2000 persone hanno partecipato allo studio, completando un
questionario on-line (prova anche tu: https:// research.wjh.harvard.edu/mind/). I partecipanti valutavano le
capacità mentali (ad es., la capacità di provare dolore) di diversi target (esseri umani, animali, e altre entità).
Dall’analisi dei dati sono emerse due dimensioni di percezione di mente: la capacità di sentire, chiamata
“experience” (ad es., dolore e piacere), e la capacità di fare, pianificare, chiamata “agency” (ad es.,
autocontrollo e pianificazione). È emerso, ad esempio, che Dio viene giudicato basso in experience e alto in
agency; animali e bambini alti in experience e bassi in agency; un robot basso in experience e
moderatamente alto in agency; infine, uomini, donne, e il partecipante stesso (“you”) alti sia in experience
che in agency. Questa distinzione tra agency e experience sembra rispecchiare dimensioni di giudizio già
note nelle scienze sociali. Si pensi alla classica distinzione aristotelica tra agente morale (le cui azioni
possono essere giudicate moralmente) e paziente morale (che ha diritti morali). Nel giudizio sociale (Fiske,
Cuddy, Glick, & Xu, 2002), si utilizzano le due dimensioni fondamentali: calore (simile a experience) e
competenza (simile a agency). Nella teoria dell’infraumanizzazione (Leyens et al., 2001), si distingue tra
caratteristiche condivise da animali ed esseri umani (emozioni primarie) e caratteristiche unicamente umane
(emozioni secondarie). Nelle più recenti teorizzazioni sulla deumanizzazione (Haslam, 2006), si distingue tra
tipicamente umano (ad es., l’emotività) e unicamente umano (ad es., la moralità). Parlando di gruppi sociali
(Loughnan & Haslam, 2007), la negazione di tratti tipicamente umani porta ad una deumanizzazione
meccanicistica (ad es., un manager viene assimilato ad un robot), mentre la negazione di tratti unicamente
umani porta ad una deumanizzazione animalistica (ad es., un artista viene assimilato ad un animale). Si può
dire lo stesso per agency e experience? Sebbene queste due dimensioni di percezione di mente si siano
rivelate utili nelle scienze cognitive e sociali (Waytz et al., 2010), l’attribuzione di agency e experience ai

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gruppi sociali rimane un tema inesplorato (ma vedi: Waytz & Young, 2012). Attualmente, stiamo conducendo
nei nostri laboratori una serie di studi per esaminare come le persone percepiscano la mente di diversi gruppi
sociali, e se l’appartenenza ad un gruppo possa moderare l’attribuzione di agency e experience ad ingroup e
outgroup.
1.4 Conclusione
Nessun altra specie sul pianeta è capace di leggere la mente degli altri come gli esseri umani (Hare, 2007).
Questa capacità si è evoluta perché ci permette di prevedere il comportamento e formare le relazioni sociali
necessarie all’appartenenza di gruppo, elementi necessari alla sopravvivenza. Leggiamo la mente degli altri
partendo da una simulazione egocentrica dell’esperienza mentale altrui e poi correggendola sulla base di
ulteriori informazioni, che abbiamo appreso durante il corso della nostra vita. A questo punto, si pongono
due questioni importanti: c’è molta variabilità intra- ed inter-individuale nell’accuratezza con cui decifriamo
la mente degli altri e il fallimento nel percepire la mente può portare alla negazione di umanità, un fenomeno
ben descritto dai tragici eventi, quali i genocidi, che hanno caratterizzato la storia dell’umanità. È quindi
necessario continuare a studiare la percezione di mente al fine di comprendere tale variabilità e proporre
delle strategie per migliorare questa abilità. Lo sviluppo di questa linea di ricerca dovrebbe essere volto a
delineare un quadro teorico completo che integri i diversi approcci scientifici all’interno di una struttura
generale, che tenga conto dei progressi nelle neuroscienze (Gallese, Keyers, & Rizzolati, 2004; Marsh et al.,
2010), delle inferenze sulla mente di agenti non-umani (Waytz, Epley, & Cacioppo, 2010), delle conseguenze
del fallimento ad attribuire una mente ad individui e gruppi (Haslam, 2006), delle implicazioni per il
benessere individuale (Gilbert, 2006) e per le relazioni terapeutiche e di cura (Haque & Waytz, 2012).

2 Glossario
Antropomorfismo. L’antropomorfismo è il processo di attribuzione di caratteristiche unicamente umane ad
altri animali, entità non animate, fenomeni, oggetti tecnologici, o altri concetti astratti quali organizzazioni,
governi, o entità sovraordinate. Il termine deriva dalla combinazione dei termini greci ánthrōpos (umano) e
morphē (forma).
Euristica. Le euristiche sono scorciatoie o strategie cognitive che forniscono alle persone la capacità di
produrre inferenze abbastanza accurate; nei processi decisionali, le euristiche aiutano a tradurre un problema
complesso in più semplici operazioni di giudizio. Le euristiche più studiate sono quelle della
rappresentatività, della disponibilità, ancoraggio e accomodamento.
Proiezione sociale. La proiezione sociale è la tendenza ad aspettarsi delle somiglianze tra sé e gli altri.
Partendo dalle proprie disposizioni o preferenze, le persone fanno rapidamente delle previsioni su come sono
gli altri o su cosa hanno intenzione di fare. Più gli altri sono valutati come simili (ad es., i membri
dell’ingroup) più alta la proiezione delle proprie caratteristiche nel giudicarli.

3 Sintesi
Mentalizzazione
1. Il processo di percezione di mente è stato chiamato mentalizzazione (Frith & Frith, 2003). La
mentalizzazione consiste nell’inferire l’esistenza di stati mentali ed eventi interni sulla base di indici esteriori
o di una simulazione dell’esperienza dell’altro.
2. Riconoscere una mente agli altri individui è una componente essenziale della vita sociale nelle società
umane, necessaria per raggiungere due importanti obiettivi per la sopravvivenza della specie: comprendere,
prevedere, e controllare il comportamento degli altri e sviluppare una connessione sociale con i membri del
proprio gruppo
3. La percezione di mente varia lungo un continuum. Ad un estremo, gli individui falliscono nel riconoscere
nell’altro intenzioni, cognizioni, ed emozioni; questa tendenza viene chiamata dai ricercatori
“dementalizzazione.” All’estremo opposto del continuum, gli individui riconoscono pienamente gli stati
mentali degli attori sociali, ciò che viene chiamato “mentalizzazione.”
4. Se ad un essere umano viene negata la mente, di conseguenza gli sono negati anche i diritti umani e può
essere trattato come un animale o un oggetto
5. È quindi importante conoscere i meccanismi psicologici che portano a percepire la mente dell’altro. Gli
individui attribuiscono una mente a sé e agli altri. Quando pensano agli altri in termini di credenze,
atteggiamenti, pensieri, o emozioni ma anche quando cercano di prevedere il comportamento altrui sulla base
di caratteristiche mentali siamo di fronte all’attribuzione di mente.

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6. Noi esseri umani non possiamo percepire direttamente gli stati mentali di un altro, ma possiamo solo
inferirli sulla base di metodi indiretti, quali l’osservazione del comportamento, il resoconto degli altri, o
l’intuizione.
7. I bambini fino ai cinque anni non sono consapevoli che le percezioni degli altri siano diverse dalle proprie;
gli adulti mantengono questa prospettiva egocentrica come punto di partenza nei giudizi sociali. Durante lo
sviluppo apprendono una serie di informazioni sociali sugli altri o su gruppi di altri.
8. La propria prospettiva serve da punto di partenza quando cominciamo a considerare la mente di un altro;
le informazioni sociali entrano in gioco solo in un momento successivo, per aggiustare o correggere l’iniziale
valutazione egocentrica (euristica di ancoraggio e aggiustamento)
9. La nostra percezione della mente degli altri non è sempre accurata.

Ciò può dipendere dal fatto che gli stereotipi che abbiamo appreso sono inaccurati o dal fatto che emozioni,
desideri, e aspettative guidano la nostra percezione tanto da rendere impossibile decriptare correttamente gli
stati mentali altrui.
10. È più probabile che ci affidiamo ad una prospettiva egocentrica quando attribuiamo una mente a persone
che percepiamo come simili a noi piuttosto che diverse da noi: un processo chiamato “proiezione sociale”.
11. Le persone che vivono in culture che enfatizzano la prospettiva dell’altro (cioè, le culture collettivistiche)
sono più abili a superare il default egocentrico, rispetto alle persone che vivono in culture che enfatizzano il
sé (culture individualistiche).

Mente, simpatia, e gruppi


12. E’ stato, inoltre, dimostrato che sia più facile considerare la mente delle persone che ci piacciono e siamo
più motivati a credere che le persone che ci piacciono abbiano maggiori capacità mentali.
13. Troviamo generalmente più simpatici i membri dei gruppi a cui apparteniamo (ingroup) rispetto ai
membri di altri gruppi (outgroup). Questo effetto viene chiamato dagli psicologi sociali ingroup favoritism
bias: una tendenza sistematica a preferire e favorire i membri dell’ingroup rispetto a quelli dell’outgroup, che
si esprime in valutazioni positive, allocazioni di risorse, desiderio di contatto.
14. Gli individui attribuiscono all’ingroup più emozioni complesse ed alcuni stati mentali tipicamente umani,
che all’outgroup

Agency e Experience
15. Due sono le dimensioni di percezione di mente: la capacità di sentire, chiamata “experience” (ad es.,
dolore e piacere), e la capacità di fare, pianificare, chiamata “agency” (ad es., autocontrollo e pianificazione).
16. Nel giudizio sociale (Fiske, Cuddy, Glick, & Xu, 2002), si utilizzano le due dimensioni fondamentali:
calore (simile a experience) e competenza (simile a agency).
17. È emerso, ad esempio, che Dio viene giudicato basso in experience e alto in agency; animali e bambini
alti in experience e bassi in agency; un robot basso in experience e moderatamente alto in agency

“FIDUCIA: IL DILEMMA SOCIALE ESSENZIALE” :

1 La fiducia
Fiducia: Il Dilemma Sociale Essenziale
Joachim I. Krueger1 e Anthony M. Evan2 1 Brown University 2 Tilburg University
In-Mind Italia V 13–18 http://it.in-mind.org ISSN 2240-2454
Un organismo sociale di qualsiasi tipo, grande o piccolo che sia, è ciò che è perché ogni componente fa il
suo dovere fidandosi del fatto che tutti gli altri faranno il loro William James (2007/1897, p. 24)
Fidati di me, fidati di me. Chiudi gli occhi e fidati di me. Kaa a Mowgli nel Libro della Giungla
La decisione se fidarsi o meno degli altri pervade la vita umana. Queste decisioni sono inevitabili in una
specie sociale i cui membri sono in grado di assumere la prospettiva degli altri. Le persone apprezzano che

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questi ultimi siano motivati da interessi personali, ma sanno anche che l’interesse personale deve cedere alla
necessità di andare d’accordo con gli altri. Il commercio online è un esempio d’interazione basata sulla
fiducia tra estranei. Anche le persone che si conoscono bene non possono dare per scontato l’affidabilità
altrui. Il tradimento potrebbe essere improbabile, ma non impossibile. Nel presente articolo discuteremo la
fiducia nell’ambito di due altri impulsi sociali, la libertà e il potere. Dopo aver dimostrato che il dilemma (si
veda glossario) sulla fiducia non ha facile soluzione, esamineremo quattro strategie per mitigarlo.
1.1 Libertà
Uno scrittore di fantascienza può immaginare un mondo in cui il comportamento umano è perfettamente
prevedibile (Dick, 2002/1956). Nel mondo reale, il comportamento è prevedibile solo entro certi limiti e
spesso solo in forma aggregata. Le scienze psicologiche cercano di ampliare questi limiti. E se la scienza
trionfasse? Si può preferire un comportamento prevedibile da parte degli altri, ma se il nostro desiderio si
avverasse, anche il nostro comportamento diverrebbe prevedibile. Di conseguenza, non saremmo più liberi.
La libertà è la capacità di comportarsi in modo inaspettato. Possiamo usare questa libertà a nostro vantaggio,
ma anche a vantaggio di altri. Senza la libertà di essere imprevedibili, non possiamo sorprendere. Allo stesso
tempo, la libertà comportamentale (si veda glossario) implica la libertà di tradire, imbrogliare e ingannare
(Miller, 1996; Nozick, 2001). Non si può avere l’una senza l’altra. Dove vi è una capacità limitata di
prevedere il comportamento altrui, la fiducia e la diffidenza diventano fattori importanti. Tutti gli esseri
umani devono fidarsi, almeno parte del tempo. Una persona che è sempre sospettosa, cioè qualcuno che si
aspetta sempre l’inganno e il tradimento, ritiene che il comportamento degli altri sia prevedibile, ma tale
persona non può prosperare in una specie sociale. Allo stesso modo, una persona che si fida sempre non può
prosperare perché sarà, prima o poi, sfruttata. La libertà di bleffare e di tradire talvolta gli altri è
controbilanciata dalla libertà di fidarsi o di essere sospettosi. Gli psicologi e gli economisti comportamentali
sanno che la fiducia è un problema. Secondo una definizione ampiamente accettata, la fiducia è “uno stato
psicologico che include l’intenzione di rendersi vulnerabile, sulla base dell’aspettativa positiva circa le
intenzioni o il comportamento di un’altra” (Rousseau, Sitkin, Burt, & Camerer, 1998, p. 395). Le persone
che si fidano accettano la possibilità che possano essere tradite in quanto pensano che questa possibilità sia
remota. Il sociologo Niklas Luhmann (2000) considerava la fiducia come un “riskante Vorleistung”, o un
pagamento anticipato rischioso. Egli distinse la fiducia dalla speranza, un sentimento che nasce quando una
persona non ha alcuna possibilità di evitare un comportamento rischioso. Fidarsi non significa
semplicemente calcolare il potenziale valore di un’interazione e agire di conseguenza. La ragione per cui la
fiducia è un problema è che stimare la probabilità di un tradimento da parte di un’altra persona è difficile, e
la causa di questa difficoltà è la libertà. Chi vuole ingannare gli altri deve nascondere le proprie intenzioni.
Al contrario, una persona che non ha alcuna intenzione di tradire gli altri non ha alcun incentivo a fingere il
contrario. Gli aspiranti fiduciosi possono riconoscere tutti i segnali disponibili, stimare la probabilità che la
loro fiducia venga ricambiata - e regolarsi di conseguenza. Il problema è che non vi sono segnali che
indichino fino a che punto ci si debba adeguare.
1.2 Potere
Sebbene le persone stimino la fiducia e l’affidabilità, considerano anche il potere un valore. Il potere
interpersonale (si veda glossario) si riferisce alla capacità di controllare le risorse, o più in generale, la
capacità di premiare e punire. L’autore di Giobbe (1:21) conclude, rassegnato, che “The Lord gave and the
Lord hath taken away.” Quando Giobbe diventa la vittima del potere arbitrario, e quindi del potere assoluto,
non può più sperare che le sue giuste azioni siano premiate. Comprende che fiducia e potere s’intrecciano. Se
il comportamento degli individui predicesse perfettamente le risposte dei potenti (ad esempio Dei, genitori,
dirigenti), il loro potere, allo stesso tempo, verrebbe meno. Gli individui presumibilmente senza potere, con
la loro libertà di sperimentare, otterrebbero il controllo. Al contrario, se i potenti esercitassero
completamente la loro libertà di impartire premi e punizioni a loro piacimento, le loro scelte non
dipenderebbero dal singolo comportamento preso in considerazione e quindi, la fiducia verrebbe meno (cfr.
Feuerbach, 1989/1830). Nella vita sociale di tutti i giorni, tali estremi sono rari. Tipicamente, vi è una zona
in cui fiducia e affidabilità sono correlate. Le persone che si fidano possono aspettarsi che la loro
vulnerabilità e accettazione del rischio sia probabilmente notata e premiata. Al contrario, le persone di cui la
gente si fida, tendono a rispondere all’obbligo normativo di premiare la fiducia (Gouldner, 1960), ma
raramente sono completamente affidabili. Coloro che vogliono proteggere la loro libertà o il loro potere
devono talvolta deludere chi si fida di loro. Secondo Bertrand Russell (1938) tutto il comportamento sociale
potrebbe essere compreso se visto dal punto di vista del potere. Per Russell, il potere sta alle relazioni sociali

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come l’energia sta alla fisica. Altri scienziati sociali danno più peso alla fiducia piuttosto che al potere. Il
premio Nobel di economia Kenneth Arrow (1974, p. 23) ha affermato che la fiducia è “un lubrificante dei
sistemi sociali,” e lo psicologo Julian Rotter (1970, p. 443) vedeva la fiducia dappertutto: “La nostra vita
quotidiana, il nostro mondo sociale, è fondato sulla fiducia – comprare la benzina, pagare le tasse, andare dal
dentista, volare ad un convegno, - quasi tutte le nostre decisioni implicano fiducia in un’altra persona.”
Riteniamo che né la fiducia né il potere possano essere compresi singolarmente; se uno dei due dovesse
dominare sull’altro, la vita sarebbe triste. Se tutti si fidassero sempre di tutti, la società diverrebbe efficiente
ma noiosa. Il concetto di fiducia perderebbe il suo significato perché non si correrebbe più alcun rischio.
Tuttavia, una società di fiduciosi sarebbe vulnerabile all’invasione di mutanti genetici o sociali pronti a
sfruttarli e spodestarli, a meno che i fiduciosi imparino ad essere strategici. Allo stesso modo, se tutti si
legassero ad altri solo in termini di potenza, la società diverrebbe una guerra hobbesiana, dove tutti sono
contro di tutti. La sfida è trovare un equilibrio tra fiducia e potere e trovare il punto debole che massimizza il
benessere sociale e individuale (vedi anche Krueger, 2013b, per una discussione informale).
1.3 Il Gioco
In psicologia sperimentale ed economia comportamentale la fiducia e l’affidabilità, sua controparte, sono
studiati in un paradigma preso in prestito dalla teoria dei giochi (si veda glossario). Nella versione più
semplice del gioco, un giocatore, il fiduciante, può scegliere di tenersi una piccola somma di denaro (ad es.,
€ 10), o trasferirla ad un altro giocatore, il fiduciario. Se si trasferisce il denaro, l’importo è triplicato
(attraverso la mano invisibile dello sperimentatore). Se il fiduciario riceve € 30, può dividere l’importo con il
fiduciante o tenere l’intera somma. Gli studi mostrano che i tassi di fiducia e di affidabilità sono intermedi e
che variano molto a seconda dello studio (Evans & Krueger, 2009). Questa breve sintesi porta alle seguenti
conclusioni: [1] L’evidenza empirica di fiducia e affidabilità confuta il punto di vista della teoria dei giochi
secondo la quale entrambe non dovrebbero essere presenti. [2] Essendo imperfetta, la fiducia non riesce a
creare la massima ricchezza, portando in tal modo a richieste di maggiore fiducia. [3] Poichè è moderata
invece che piena, la fiducia conserva la sua integrità concettuale (si veda sopra) e uno stato di equilibrio con
il potere. Essendo prevedibili solo in parte, i giocatori affermano la loro libertà comportamentale e il potere
di dire di no. Quando la questione del potere viene sollevata, in genere riguarda il fiduciario. Una volta che la
fiducia è data, non vi è più incertezza per il fiduciario, che ora può fare il gioco del dittatore (Hoffman,
McCabe, & Smith, 1996). Ha il controllo della risorsa (€ 30) e può dividere a piacimento, con il fiduciante
alla sua mercé. La sua decisione è semplicemente una questione di trovare l’equilibrio tra interesse e
sensibilità, secondo la regola della reciprocità. Ciò non significa tuttavia, che il ruolo del fiduciante sia privo
di potere. Sin dall’inizio, il fiduciante controlla la risorsa (€ 10). Fino a questo punto, il benessere del
fiduciario dipende da lui. Nonostante ciò, il potere è transitorio in un gioco ‘one-shot’. Una volta utilizzato,
esso viene perso. La maggior parte delle persone danno importanza alla libertà e al potere, ma vogliono
anche più affidabilità da parte degli altri. E la fiducia? A differenza della libertà o del potere, la fiducia non si
ottiene superando la diffidenza - una persona può solo esibirne di più, in virtù della propria libertà e del
proprio potere. Se si potesse scegliere, si preferirebbe interpretare il ruolo del fiducioso o del fiduciario?
Abbiamo intervistato gli studenti in laboratorio e in aula e non abbiamo trovato una netta preferenza per un
ruolo piuttosto che l’altro. Sembra che nel gioco, la fiducia si equilibri con libertà e potere.
1.4 Oltre l’equilibrio
La fiducia richiede un equilibrio tra forze e motivazioni strategiche in competizione tra loro, ma questo
equilibrio è fragile. Società con alti livelli di fiducia sono più coese e produttive di società con bassi livelli di
fiducia, e l’effetto sembra essere causale (Putterman, 2012). In “The Price of Inequality”, il Premio Nobel di
Economia Joseph Stiglitz (2012) scrive che la fiducia dipende dalla percezione di equità, e che gli individui
fiduciosi lavorano e contribuiscono di più alla società, in altre parole, essi creano il capitale sociale che è “la
colla che tiene insieme la società” (p. 122). A partire dalla Grande Recessione del 2008, il mondo
industrializzato ha visto la fiducia erodersi. Secondo Stiglitz, i sondaggi di Gallup e del New York Times
mostrano una vertiginosa perdita di fiducia nel mondo degli affari e nel governo. Il sistema bancario ha
sofferto, forse meritatamente, più di tutti gli altri settori. Questo è tragico perché le banche erano una volta
considerate la quintessenza della fiducia. Gli economisti hanno scoperto l’importanza della fiducia, ma,
come la maggior parte dei ricercatori universitari, interpretano la fiducia come anadromo, o qualcosa che
scorre controcorrente tra le gerarchie sociali (vedi Horsager, 2011, per una visione più ampia). Si è analizzata
poco la fiducia che i dirigenti ripongono nei loro dipendenti. Questa è una grave omissione, perché le
relazioni sociali - differenze di potere a parte - sono bidirezionali. Un’ipotesi da considerare è che i leader

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che si fidano sono molto produttivi perché evitano il micro-management. I leader che si fidano possono
mettere in moto un ciclo di feedback positivo che genera nuovo capitale sociale (cfr. McGregor, 1960, e
Akerlof & Kranton, 2005, per una trattazione teorica rispettivamente classica e contemporanea). L’idea è
quella di Lao-Tzu: “Non bisogna fidarsi di chi non ha abbastanza fiducia” (Tao Te Ching, versetto 17, vedi
anche Murnighan, 2012, per una visione neo-taoista della leadership). Gli studi effettuati sui giochi ripetuti,
in cui gli stessi partner interagiscono numerose volte, dimostrano che la fiducia genera fiducia in un circolo
virtuoso di reciprocità (Wedekind & Milinski, 1996). Coloro che non si fidano o smettono di interagire dopo
una delusione, sottovaluteranno in seguito l’affidabilità di individui o gruppi. Coloro che sono disposti a
fidarsi impareranno col tempo a percepire più accuratamente l’affidabilità, anche se in un primo momento
sopravvaluteranno la sua presenza (Denrell & Le Mens, 2012).
1.5 Aumentare la fiducia
Cosa si può fare quando la fiducia scende sotto livelli equilibrati? La via del Tao è quella di avviare la
fiducia unilateralmente, sperando in un rendimento positivo. Questo consiglio è saggio ma difficile da
seguire se non vi è altra ragione per motivare la fiducia. Con la presente si considerano quattro strategie per
aumentare la fiducia. Nessuna di loro è infallibile, il che rafforza l’idea che il dilemma sulla fiducia non può
essere definitivamente risolto senza averlo prima definito. La prima strategia consiste nello stimolare una
proiezione sociale (si veda glossario), che può essere effettuata ponendo l’accento sulle similitudini tra gli
interagenti. La proiezione sociale si esprime attraverso l’aspettativa di vedere gli altri agire come si farebbe
personalmente (Krueger, 2013a). Un fiduciante può pensare che la sua scelta socialmente utile (la fiducia) sia
indicativa della altrui scelta socialmente utile (reciprocità; vedi Krueger, DiDonato, e Freestone, 2012, per un
trattamento formale). Un fiduciante può mettere in atto la proiezione simulando mentalmente che cosa
farebbe se fosse il fiduciario. Se pensa che ricambierebbe la fiducia, lui stesso potrebbe fidarsi. Il rischio è
che una volta acquisita la prospettiva del fiduciario, ci si potrebbe rendere conto (o anche sopravvalutare) il
fascino del tradimento (Epley, Caruso, e Bazerman, 2006). La seconda strategia è aumentare l’efficienza del
guadagno prodotto dalla fiducia. Nel gioco della fiducia, la triplicazione del denaro trasferito è una
convenzione. La fiducia aumenta con un moltiplicatore più grande e l’efficienza sociale si arricchisce
(Johnson & Mislin, 2011). Da un lato, la fiducia può crearsi più facilmente con un moltiplicatore di 5 anziché
3 poiché una minore probabilità di reciprocità è sufficiente a rendere il valore atteso di fiducia maggiore del
valore atteso di diffidenza (p> 0,4 vs. .67). Dall’altro, il fiduciario deve comprendere che la tentazione di
tradire è a sua volta aumentata, riducendo così la probabilità di reciprocità. Aumentare il moltiplicatore
aumenta la fiducia perché i fiducianti sono più concentrati sulle proprie prospettive di miglioramento rispetto
a quelle dei fiduciati (Evans & Krueger, 2011).4 La terza strategia consiste nel rendere la fiducia default. Nel
gioco standard di fiducia, i fiducianti devono intervenire per trasferire denaro al fiduciato. Non fare nulla
equivale a diffidare. I default dominano il comportamento quando le decisioni risultano difficili (Johnson et
al., 2012). Una mancanza di fiducia è quindi, in parte una questione di default, o per status quo, di
pregiudizi. In uno studio di laboratorio, abbiamo riscontrato una maggiore fiducia quando i fiducianti non
avevano bisogno di trasferire attivamente soldi, ma questo effetto si è verificato solo quando le risorse
cognitive erano state tassate da un incarico precedente (Evans, Dillon, Goldin, & Krueger, 2011). La quarta
strategia consiste nel segnalare l’affidabilità attraverso un comportamento non verbale (si veda glossario), in
occasione di interazioni face-to-face (DeSteno et al., 2012). Gli individui che appaiono gradevoli sono
ritenuti più affidabili (Todorov, 2008). Nell’interazione dinamica, è conveniente (letteralmente) esprimere
piacevolezza imitando l’altra persona (Maddux, Mullen, & Galinsky, 2008). Infine, anche se si consiglia di
non provare questo fuori dal laboratorio, la somministrazione di ossitocina (definito “l’ormone dell’amore”)
aumenta la fiducia (Kosfeld, Heinrichs, Zak, Fischbacher, & Fehr, 2005). Ripensandoci, affermare di essere
un medico potrebbe essere sufficiente (vedi foto sopra).
1.6 Conclusione
La fiducia è un dilemma non facilmente risolvibile. Continuerà ad essere fonte di preoccupazione per gli
esseri umani. Come William James (1897) ha osservato, le persone di buona volontà non sono ciniche
riguardo le intenzioni degli altri. Un mondo in cui la fiducia è impossibile o non necessaria non sarebbe
gratificante, né interessante. Eppure, gli esseri umani devono fare attenzione alla possibilità di essere
sfruttati, come Mowgli, che avrebbe fatto meglio a diffidare di Kaa. Quando la fiducia va in crisi, come nel
mondo economico di oggi, gli sforzi per ripristinarla dovrebbero essere incoraggiati - assieme cioè, agli
sforzi per ripristinare l’affidabilità. Nel frattempo, le scienze psicologiche continuano a cercare una migliore
comprensione della fiducia, e come questa funziona ed è collegata ad altri concetti sociali.

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2 Glossario
Libertà comportamentale. La libertà può essere definita in termini metafisici o politici, ma la libertà
comportamentale si riferisce alla capacità di un organismo di variare il suo comportamento in modo tale che
diventi difficile da prevedere.
La teoria dei giochi. Un ramo della matematica applica- ta e un importante sistema per lo studio
dell’economia. La teoria dei giochi presume che gli individui sono ra- zionali, agenti auto-interessati, che
hanno una serie di preferenze stabili e ben definite e che conoscono questo l’uno dell’altro. La teoria dei
giochi individua matematicamente le scelte di tali individui.
Potere interpersonale. Secondo una definizione ristretta, il potere interpersonale risiede nel controllo di
risorse ritenute importanti da altri. Secondo una definizione più ampia, il potere comporta la capacità di
influenzare il comportamento degli altri. La distinzione è accademica, perché la persona che ha il potere in
senso stretto, lo use-rà per ottenere dei risultati in senso lato.
Dilemma sociale. Tipi di giochi caratterizzati da un disallineamento delle preferenze individuali e sociali.
Ciò che è meglio per l’individuo non lo è per il gruppo. Il dilemma del prigioniero, i dilemmi sui beni
pubblici e sulle risorse in esaurimento sono esempi ben noti. Il gioco della fiducia ha le stesse caratteristiche
di un dilemma sociale.
Proiezione sociale. La percezione di somiglianza tra sé e l’altro, così come i processi che determinano
questa percezione. La proiezione sociale è un caso particolare di ragionamento induttivo, dove una persona
fa una stima delle proprietà di un soggetto (una categoria sociale, un gruppo o altre persone), sulla base delle
proprie proprietà.
Comportamento non verbale. Qualsiasi comportamento non è verbale, cioè la grande maggioranza di ciò
che la gente (e gli animali) fanno. Tra gli umani, la comunicazione verbale si attua attraverso il viso, in modo
significativo con lo sguardo. Una posa comunica potere, ma non affidabilità.

3 Sintesi
1. La decisione se fidarsi o meno degli altri pervade la vita umana; anche le persone che si conoscono bene
non possono dare per scontato l’affidabilità altrui. Il tradimento potrebbe essere improbabile, ma non
impossibile.

Libertà
2. La fiducia è “uno stato psicologico che include l’intenzione di rendersi vulnerabile, sulla base
dell’aspettativa positiva circa le intenzioni o il comportamento di un’altra” (Rousseau, Sitkin, Burt, &
Camerer, 1998)
3. Nel mondo reale, il comportamento è prevedibile solo entro certi limiti; si può preferire un comportamento
prevedibile da parte degli altri, ma se il nostro desiderio si avverasse, anche il nostro comportamento
diverrebbe prevedibile e di conseguenza, non saremmo più liberi
4. La libertà è la capacità di comportarsi in modo inaspettato: la libertà comportamentale implica la
libertà di tradire, imbrogliare e ingannare
5. Dove vi è una capacità limitata di prevedere il comportamento altrui, la fiducia e la diffidenza diventano
fattori importanti: tutti gli esseri umani devono fidarsi, almeno parte del tempo. Una persona che è sempre
sospettosa, che si aspetta sempre l’inganno e il tradimento, non può prosperare in una specie sociale. Allo
stesso modo, una persona che si fida sempre non può prosperare perché sarà, prima o poi, sfruttata.
6. Le persone che si fidano accettano la possibilità che possano essere tradite in quanto pensano che questa
possibilità sia remota.
7. La fiducia si distingue dalla speranza, un sentimento che nasce quando una persona non ha alcuna
possibilità di evitare un comportamento rischioso; la ragione per cui la fiducia è un problema è che stimare la
probabilità di un tradimento da parte di un’altra persona è difficile, e la causa di questa difficoltà è la libertà.

Potere
8. Fiducia e potere s’intrecciano. Se il comportamento degli individui predicesse perfettamente le risposte dei
potenti (ad esempio Dei, genitori, dirigenti), il loro potere, allo stesso tempo, verrebbe meno.

Coloro che vogliono proteggere la loro libertà o il loro potere devono talvolta deludere chi si fida di loro.

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9. Se tutti si fidassero sempre di tutti, la società diverrebbe efficiente ma noiosa. Il concetto di fiducia
perderebbe il suo significato perché non si correrebbe più alcun rischio. Tuttavia, una società di fiduciosi
sarebbe vulnerabile all’invasione di mutanti genetici o sociali pronti a sfruttarli e spodestarli, a meno che i
fiduciosi imparino ad essere strategici. Allo stesso modo, se tutti si legassero ad altri solo in termini di
potenza, la società diverrebbe una guerra hobbesiana, dove tutti sono contro di tutti. La sfida è trovare un
equilibrio tra fiducia e potere e trovare il punto debole che massimizza il benessere sociale e individuale.

Il Gioco
10. In psicologia sperimentale ed economia comportamentale la fiducia e l’affidabilità, sua controparte, sono
studiati in un paradigma preso in prestito dalla teoria dei giochi; essendo prevedibili solo in parte, i giocatori
affermano la loro libertà comportamentale e il potere di dire di no. Sembra che nel gioco, la fiducia si
equilibri con libertà e potere.

Oltre l’equilibrio
11. La fiducia richiede un equilibrio tra forze e motivazioni strategiche in competizione tra loro, ma questo
equilibrio è fragile. Società con alti livelli di fiducia sono più coese e produttive di società con bassi livelli di
fiducia. Coloro che non si fidano o smettono di interagire dopo una delusione, sottovaluteranno in seguito
l’affidabilità di individui o gruppi. Coloro che sono disposti a fidarsi impareranno col tempo a percepire più
accuratamente l’affidabilità, anche se in un primo momento sopravvaluteranno la sua presenza.

Aumentare la fiducia
12. Sono quattro strategie per aumentare la fiducia; la prima strategia consiste nello stimolare una proiezione
sociale attraverso l’aspettativa di vedere gli altri agire come si farebbe personalmente; la seconda strategia è
aumentare l’efficienza del guadagno prodotto dalla fiducia; la terza strategia consiste nel rendere la fiducia
default; la quarta strategia consiste nel segnalare l’affidabilità attraverso un comportamento non verbale in
occasione di interazioni face-to-face.

“IL PERDONO”

1 È difficile perdonarti… eppure ne vale la pena!


Francesca Giorgia Paleari Università degli Studi di Bergamo
In-Mind Italia III, 25–31 http://it.in-mind.org ISSN 2240-2454
Un’esperienza dalla quale nessun uomo o donna è purtroppo in grado di esimersi nel corso della propria vita
è quella del venire feriti, offesi o amareggiati. In tali circostanze, così come nei casi più gravi di violenza ed
abuso, tre risposte adattive, funzionali alla salvaguardia del benessere nostro e/o delle relazioni sociali di cui
facciamo parte, sono particolarmente ricorrenti: la vendetta, la fuga (o evitamento) ed il perdono
(McCullough, 2008; Regalia & Paleari, 2008). Quando la rabbia e il rancore hanno la meglio, tendiamo a
riaffermare il nostro potere sull’altro, a salvaguardare la nostra “faccia” compromessa dall’offesa subita e a
tutelarci dal ripetersi di azioni simili attraverso atti di rivalsa che fungano da deterrente e da monito. Nel
caso in cui la paura prevalga sulla rabbia e la vendetta ci paia troppo rischiosa o difficilmente praticabile,
siamo invece soliti scongiurare il ripetersi di episodi analoghi fuggendo da chi ci ha fatto del male,
estraniandoci il più possibile, psicologicamente e fisicamente, da lui/lei. Se venissimo per esempio derisi da
un collega, potremmo cercare di fargliela pagare sabotando le sue richieste o isolandolo socialmente; ma se
temessimo da parte sua ritorsioni ben più gravi, faremmo in modo di tenercene, nei limiti del possibile, alla
larga. Uno dei risvolti negativi della vendetta e della fuga, come intuibile dall’esempio appena portato, è
tuttavia quello di compromettere, talvolta irrimediabilmente, il rapporto con chi ci ha ferito. Diverse ricerche
longitudinali e sperimentali dimostrano che il perdono, se opportunamente inteso e non equivocato con
forme di pseudo-perdono, è invece in grado di tutelare, a prescindere dalla gravità dell’offesa subita, non
solo il nostro benessere di vittime, ma anche quello delle relazioni in cui siamo coinvolti, compreso il legame
con l’offensore (per alcune rassegne si veda Witvliet & McCullough, 2007; Worthington, Witvliet, Pietrini,
& Miller, 2007). Ciò non è irrilevante se si considera che i torti che percepiamo come più gravi e dolorosi ci
sono arrecati proprio da famigliari, amici e colleghi, la qualità dei rapporti coi quali è fondamentale per la
nostra salute psicofisica (Leary, Springer, Negel, Ansell, & Evans, 1998; Worthington & Scherer, 2004).
1.1 Che cosa il perdono non è

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In che cosa consiste il perdono autentico? Come distinguerlo da forme di pseudo-perdono? Gli psicologi
concordano nel ritenere che, contrariamente a quanto si possa pensare, perdonare non significhi dimenticare,
sminuire, giustificare o scusare l’accaduto, né abdicare al diritto di ottenere giustizia, né riconciliarsi
(Fincham, 2009). Innanzitutto il perdono comporta, nel momento in cui viene accordato, il ricordo
dell’accaduto e della sua gravità e, successivamente alla sua concessione, non ne implica l’oblio. Non è del
resto possibile dimenticare a comando, né sarebbe adattivo farlo, ma solo accantonare temporaneamente i
ricordi indesiderati impegnandosi in attività distraenti, come quando andiamo al cinema con gli amici per
non pensare al litigio furioso avuto con il nostro partner (Wegner, 1989). In secondo luogo il perdono è tale
se la vittima, pur arrivando col tempo a fare attribuzioni (si veda glossario) più favorevoli nei confronti di chi
l’ha ferita, ne riconosce comunque le responsabilità e le colpe, così come la natura biasimevole delle azioni
compiute, senza sminuirle o giustificarle. Inoltre, anziché rinunciare alle proprie legittime pretese di ottenere
giustizia, la vittima che perdona, al contrario di quella che si vendica, è in genere convinta che le norme
vigenti nell’ambiente sociale e culturale in cui vive tutelino adeguatamente tali pretese; rifiuta sì di farsi
giustizia da sé, ma non necessariamente al diritto di avere giustizia (Aquino, Tripp, & Bies, 2006). È però
generalmente persuasa che, invece di una giustizia retributiva, finalizzata a punire il colpevole in modo
proporzionale al danno arrecato, sia opportuno perseguire una giustizia ricostituiva, orientata a ricomporre la
controversia e a ristabilire una comunanza con l’offensore attraverso l’ammissione ed il riconoscimento
concorde del torto compiuto e subito (Braithwaite, 1989). Alcuni studi sperimentali condotti in quest’ambito
dimostrano, ad esempio, che il perdono è più associato sul piano cognitivo e più simile dal punto di vista
fisiologico alla giustizia ricostituiva, che non a quella retributiva (Strelan, Feather, & McKee, 2008; Witvliet
et al., 2008). Infine, benché una riappacificazione autentica necessita del perdono della vittima come sua
premessa irrinunciabile (in assenza della quale si parla di semplice riunione), il perdono può sussistere,
perlomeno nelle nostre culture occidentali, anche in assenza di riconciliazione. Esistono circostanze in cui
non è auspicabile riconciliarsi con chi si è perdonato, poiché così facendo si perpetuerebbe e alimenterebbe
un legame fonte di sofferenze. Gli studi clinici (per alcune rassegne o metaanalisi si veda Wade, Johnson, &
Meyer, 2008; Wade, Worthington, & Meyer 2005) ci dicono, a questo proposito, che il perdono è salutare,
anche nel caso di abusi familiari o traumi particolarmente gravi, purché la vittima non lo confonda con la
riconciliazione, con la necessità di ristabilire una relazione che potrebbe esporla a nuove violenze,
compromettendone ulteriormente l’incolumità e la salute psicofisica. Anche laddove una riconciliazione sia
opportuna, non è inoltre detto che riesca di fatto ad avere luogo. Fare pace è per molti versi più complesso
che perdonare. Mentre il perdono può essere un atto unilaterale e incondizionato, la riconciliazione
presuppone l’impegno e gli sforzi congiunti di entrambe le persone coinvolte, non solo della vittima che
perdona, ma anche dell’offensore, che deve assumersi le proprie responsabilità e offrire rassicurazioni circa
la propria moralità e le proprie intenzioni future (“Molte riconciliazioni promettenti falliscono perché
entrambe le parti arrivano preparate a perdonare, ma non ad essere perdonate” asseriva con acume lo
scrittore inglese Charles Williams).
1.2 Che cosa è il perdono
Oltre a definirlo per negazione, evidenziandone i tratti che lo distinguono dalle dinamiche affini, gli
psicologi ritengono che il perdono interpersonale possa essere connotato positivamente come un processo
prosociale (si veda glossario) attraverso il quale la vittima affronta l’offesa subita riducendo
progressivamente le sue reazioni negative a livello di pensieri, sentimenti, motivazioni e/o comportamenti
nei confronti di chi ne è stato l’autore per sostituirle con reazioni positive (McCullough, 2000). In questo
processo l’offensore viene percepito e considerato più come uno specifico individuo (Mario, Susanna,
Hussein) che non, come avviene invece nel caso del perdono intergruppi, come membro di determinati
gruppi sociali (interista, sindacalista, mussulmano). Concependolo in questi termini, la vittima che perdona
ridimensiona a poco a poco i giudizi di condanna ed i pensieri negativi su di lui, supera il risentimento o la
paura provati nei suoi riguardi, rinuncia ai propri intenti vendicativi o di fuga. Non solo. A differenza di chi
semplicemente si astiene dal vendicarsi o dall’evitare, colui che perdona arriva anche a provare compassione
per l’offensore, ad essere benevolo e generoso e, qualora a lui legato da un rapporto stretto, a nutrire
nuovamente affetto nei suoi riguardi (Enright & Fitzgibbons, 2000; McCullough, Worthington, & Rachal,
1997 ; Ripley & Worthington, 2002). Si tratta ovviamente di cambiamenti difficili, che suppongono una lenta
e dolorosa rielaborazione interiore, una bella metafora dei quali può essere ravvisata nel lungo viaggio
intrapreso da Alvin Straight, le cui vicende sono ripercorse nel film Una storia vera di David Lynch (1999).
Quando viene a conoscenza dell’infarto che ha colpito il fratello, con cui non parla da oltre un decennio per

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un vecchio litigio, l’anziano Alvin, che non ha più la patente e cammina a fatica, decide di andarlo a trovare
prima che sia troppo tardi, percorrendo 317 miglia, dall’Iowa al Wisconsin, a bordo di un trattorino-taglierba.
Non vuole viaggiare in treno o in pullman, sente che, per poter rompere il silenzio di tanti anni e colmare la
distanza con il fratello, deve procedere lentamente e da solo. Spostandosi per oltre sei settimane con il suo
curioso mezzo di trasporto ha l’occasione di riflettere, capire e vedere meglio lo spazio (non solo geografico)
tra le persone. Il viaggio diventa il simbolo del suo cammino verso il perdono e ogni incontro è un aiuto in
questa direzione: il colloquio notturno con una ragazza incinta fuggita da casa gli dà modo di ripensare al
valore dei legami familiari che i rancori del passato hanno rischiato di distruggere; l’incontro con una donna
che ha investito un cervo è occasione per una dolorosa presa di coscienza dell’impotenza di fronte alla morte
e del fatto che si può essere portatori di sofferenza anche involontariamente; il dialogo con il sacerdote che
ha conosciuto il fratello all’ospedale gli infonde fiducia che la propria offerta di perdono sarà accolta. Dopo
un lungo viaggio, Alvin riesce ad arrivare fino in fondo, a testimonianza che la distanza si può ridurre e
abbattere, ma solo dopo averla metabolizzata lentamente e a fatica. Non ha senso esigere i cambiamenti
dolorosi che il perdono presuppone nell’immediato. Forse anche per questo le domande dei cronisti, che, a
ridosso dell’ennesima atrocità riportata dai media, interrogano le vittime circa un loro eventuale perdono,
paiono quanto mai inopportune e irrispettose della sofferenza altrui. Proprio per questo un perdono accordato
repentinamente, in modo immediato e impulsivo, fa giustamente dubitare della sua autenticità.
1.3 Le conseguenze del perdono
Se è davvero tale, il perdono comporta ripercussioni generalmente positive sia sulla salute psico-fisica della
vittima sia sul benessere delle relazioni in cui è coinvolta. Sono innumerevoli le testimonianze di persone
che, dopo aver accordato il perdono, si dicono rinate. Eva Kor, sopravvissuta insieme alla sorella gemella ad
Auschwitz (dove perse numerosi famigliari tra cui i genitori) e vittima degli atroci esperimenti medici
realizzati dal dottor Josef Mengele, riconosce che il perdono, concesso allo stesso Mengele a quasi
cinquant’anni dalle torture patite, è un dono fatto innanzitutto a se stessa, una terapia che le ha permesso di
guarire dalla sofferenza e riconquistare il controllo della propria vita (per la sua testimonianza e quella di
molte altre vittime di crimini efferati si veda http://theforgivenessproject.com/stories/). Perché e quando
perdonare fa bene? Numerose evidenze sperimentali e longitudinali, raccolte nella popolazione comune così
come in campioni clinici esposti alle offese più disparate (uomini le cui compagne hanno deciso di abortire a
loro insaputa, donne vittime di incesto, ex-coniugi, figli di alcolizzati, veterani di guerra), attestano che,
come conseguenza del superamento dello stress generato dall’offesa, la concessione del perdono determina
nella vittima condizioni psico-fisiche solitamente migliori di quelle ricorrenti in chi non perdona. Comporta,
ad esempio, una pressione cardiaca più bassa, un sistema immunitario ed endocrino più forte, una
sintomatologia fisica più contenuta; stili di vita più salutari (un minor ricorso a farmaci, alcool e fumo);
minori livelli di stanchezza, rabbia, odio, ansia, tristezza, solitudine e depressione; un umore più positivo,
maggiore ottimismo e una più intensa soddisfazione di sé e della vita in generale (Bono, McCullough, &
Root, 2008; Harris & Thoresen, 2005; Lawler et al., 2005; Witvliet & McCullough, 2007). Poiché la sua vita
psichica cessa di essere monopolizzata dai vissuti legati all’offesa e dalla sofferenza che ne è conseguita, la
vittima che perdona è inoltre facilitata nel decentrarsi cognitivamente, nello spostare la propria attenzione da
sé agli altri, nell’essere maggiormente sollecita ai loro bisogni e necessità, a beneficio delle relazioni sociali
in cui è coinvolta. Attraverso alcuni studi sperimentali Karremans, Van Lange e Holland
(2005) dimostrano ad esempio che, quando le persone vengono indotte a soffermarsi sulle offese che hanno
perdonato, anziché su quelle che non hanno perdonato, sono significativamente più inclini a pensare in
termini di “noi” invece che di “io” o di “tu”, a fare del volontariato e a donare del denaro a favore di
un’associazione umanitaria. Il perdono tende poi ad avere effetti positivi anche sul rapporto con l’offensore.
Preludendo in molti casi alla riconciliazione, di cui è una componente essenziale, il perdono fa infatti in
modo che i legami interpersonali, così come accaduto al rapporto tra Alvin ed il fratello, non siano
irrimediabilmente compromessi dai torti che inevitabilmente vi occorrono. Diversi studi longitudinali
dimostrano che, quando la vittima è legata all’offensore da un rapporto stretto (di coppia, familiare o
amicale), il perdono contribuisce a far sì che tale rapporto torni ad essere altrettanto intimo, soddisfacente e
coinvolgente di quanto lo fosse prima del verificarsi dell’offesa (Fincham & Beach, 2007; Paleari, Regalia,
& Fincham, 2005; Tsang, McCullough, & Fincham, 2006). Favorendo la continuità di relazioni che sono
fondamentali per il benessere psico-fisico dell’individuo, non sorprende che il perdono risulti per la vittima
ancor più salutare proprio quando concesso all’interno di tali relazioni (Karremans, Van Lange, Ouwerkerk,
& Kluwer , 2003). Ad una condizione però: analogamente alla vittima, anche colui che l’ha ferita deve dar

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prova di tenere al rapporto, mostrandosi pentito, accondiscendente, e desistendo dal reiterare le proprie
offese. Se, al contrario, questi lo recepisce come una sorta di legittimazione a ferire nuovamente, il perdono
concesso in una relazione intima può rivelarsi per la vittima controproducente, portandola, come si evince da
ricerche longitudinali condotte su coppie sposate o convinventi, ad essere più insoddisfatta della relazione e
ad avere minor rispetto di sé (Luchies, Finkel, McNulty, & Kumashiro, 2010; McNulty, 2011). Queste
considerazioni rimandano alla delicata questione delle modalità più opportune per comunicare il perdono e di
come esso possa venire accolto dall’individuo al quale è diretto. Gli studi empirici sull’argomento, per la
verità numericamente ancora molto limitati, suggeriscono che il rapporto vittima-offensore possa trarre
maggiore benefici dalla concessione del perdono quando questo viene comunicato in modo diretto, attraverso
asserzioni verbali o segnali non verbali espliciti, che accrescano la percezione di vicinanza ed intimità (per
esempio abbracciando l’altro, sorridendogli o dicendogli “ti perdono”). Al contrario il rapporto può risultare
indebolito e venir percepito come meno soddisfacente quando la manifestazione del perdono è accompagnata
da clausole e condizioni (“ti perdonerò se…” ) che possano apparire, agli occhi dell’offensore manipolatorie,
indici di scarsa fiducia e lesive della propria immagine personale (Waldron & Kelley, 2008). Se a ciò si
aggiunge che, soprattutto laddove non sia stato richiesto o corrisposto da atti analoghi di clemenza, il
perdono tende ad accrescere lo stress, il senso di colpa, di indebitamento e di incompetenza di chi lo riceve,
si può capire l’importanza di agire con una certa accortezza nel comunicarlo (Kelln & Ellard, 1999; Paleari,
Regalia, & Fincham, 2011). Pur con queste difficoltà, nel complesso il perdono sembra comunque avere
risvolti prevalentemente positivi. A partire da questa premessa la ricerca si è prodigata al fine di individuare
la variabili che più influiscono sulla sua concessione cosicché, quando opportuno, sia possibile incentivarlo
facendo leva su di esse.
1.4 Quali fattori ostacolano il perdono? Quali lo facilitano?
Nel corso degli ultimi quindici anni, si è andata accumulando una considerevole mole di evidenze empiriche
in merito ai predittori più significativi del perdono, buona parte delle quali sono state recentemente
sintetizzate in un lavoro realizzato da Fehr, Gelfand e Nag (2010); questi autori hanno considerato 175 studi
su questo tema, per un campione totale di oltre 26.000 soggetti. Da tale lavoro emerge che tre ordini di
variabili sono significativamente correlati all’elargizione del perdono: i processi affettivo-cognitivi, che la
vittima sviluppa in relazione all’offesa patita e a chi l’ha perpetrata, i comportamenti riparatori dell’offensore
e la qualità del rapporto che, prima del verificarsi dell’offesa, eventualmente sussisteva tra vittima ed
offensore. È più probabile che il perdono venga accordato quando la vittima, senza disconoscere le
responsabilità dell’offensore, riesce col tempo a mitigare le attribuzioni sfavorevoli ed i giudizi di biasimo
nei suoi confronti, considerando l’eventuale presenza di circostanze attenuanti; quando, pur ripensando
all’accaduto e cercando di trovare un senso in esso, evita di rimuginare continuamente sull’offesa, di lasciarsi
sopraffare dal suo ricordo e di vivere in balia di esso; quando riesce ad essere empatica e a nutrire
compassione nei confronti del proprio offensore, percependolo più come un essere umano simile a sé,
limitato e bisognoso, che come una minaccia per il proprio io. Questi processi vengono agevolati se
l’offensore offre alla vittima delle scuse sincere, dettate da un autentico ravvedimento, anziché da motivi
opportunistici di convenienza, e si comporta di conseguenza, cercando di porre rimedio al male fatto. Chi
dimostra di saper riconoscere la scorrettezza del proprio agire, di soffrirne e di impegnarsi per porvi rimedio
dà infatti prova della propria moralità e offre rassicurazioni circa l’eventualità che possa in futuro reiterare
offese analoghe. Gemma Capra, vedova del commissario Calabresi, riconosce di essere stata facilitata nel
perdonare Leondardo Marino, uno dei responsabili della morte del marito, dal suo pentimento autentico e
dal suo travaglio interiore che lo hanno indotto a costituirsi pur non essendo indagato. Dice di lui: “Marino è
un vero pentito. Infatti non era in carcere e non ha deciso il pentimento per avere sconti di pena. (…)
Marino, che dopo essersi costituito ha subìto le peggiori angherie, è un uomo che ha molto sofferto e
siccome la sofferenza, anche se ha origini diverse, accomuna, io mi sono sentita vicina a lui e ho sentito che
dovevo perdonarlo. (…) Molto più difficile è perdonare gli altri responsabili dell’omicidio che non chiedono
perdono e non lo vogliono” (Gemma Capra, 1999). Le reazioni funzionali al perdono appena descritte,
ovvero il pentimento dell’offensore e le reazioni affettivo-cognitive della vittima a lui favorevoli, sono più
ricorrenti nei casi in cui, antecedentemente al verificarsi dell’offesa, vittima e offensore erano uniti da un
rapporto intimo, soddisfacente e coinvolgente (“si perdona finché si ama” asseriva in modo provocatorio lo
scrittore francese François de La Rochefoucauld). Il fatto di avere alle spalle un legame consolidato,
abitualmente percepito come fonte di benessere e di felicità, motiva infatti ancor più le parti coinvolte a fare
il possibile per recuperarlo. Intervenendo soprattutto sulle reazioni affettivo-cognitive della vittima è stato

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possibile delineare dei protocolli di intervento efficaci nel promuovere il perdono per una specifica offesa
sofferta. Tra i più noti, si possono ricordare quello di Robert Enright (2001) e il modello piramidale di
Everett Worthington (1998). Il primo si articola in quattro fasi principali – riconoscere l’offesa subita e la
rabbia provata, decidere di perdonare, lavorare su di sé per raggiungere il perdono, approfondire il senso del
perdono e le sue conseguenze – ciascuna delle quali a propria volta composta da diverse unità di trattamento.
Il modello piramidale per raggiungere il perdono delinea invece un processo scandito da 5 tappe, riassumibili
nell’acrostico inglese REACH: ricordare (recall, R) l’offesa, identificarsi empaticamente (empathy, E) con
chi ha offeso, offrirgli altruisticamente (altruism, A) il dono del perdono, impegnarsi (commit, C) a
perdonare e tenere saldo (hold, H) il proprio proposito (Worthington, 1998).
1.5 La tendenza a perdonare è innata o appresa?
Oltre ad imparare a perdonare un’offesa specifica, è anche possibile apprendere ad essere tendenzialmente
inclini al perdono, a prescindere dalle offese subite? O si tratta di una predisposizione già delineata alla
nostra nascita? In altri termini, se pensiamo a uomini e donne come Martin Luther King, Madre Teresa, il
Mahatma Ghandi e Nelson Mandela, che sembrano aver incarnato in modo paradigmatico questo tratto, si
può dire che siano nati con un’indole sostanzialmente incline al perdono o l’hanno sviluppata ed appresa a
partire dalle circostanze e dagli incontri che hanno caratterizzato la loro vita? Sia le loro vicende personali,
sia gli studi accademici sembrano indicare che l’ambiente familiare, sociale e culturale di cui facciamo parte
condiziona la nostra propensione al perdono, influendo sia sulla modalità di vivere che di intendere questo
delicato processo. Una ricerca longitudinale condotta su triadi famigliari composte da padre, madre e figlio/
a adolescente ha, ad esempio, provato che più i genitori sono inclini a perdonare il proprio figlio/a più questi
diventa a distanza di un anno maggiormente propenso/a a perdonarli a propria volta (Maio, Thomas,
Fincham, & Carnelley , 2008). Non solo, da adulti le persone assomigliano più ai loro genitori nella
propensione a perdonare il coniuge che non al coniuge stesso (Paleari, Donato, Iafrate, & Regalia, 2009) e
hanno un’idea del perdono molto simile a quella dei genitori (Mullet, Riviere, & Munoz-Sastre, 2006). Studi
cross-culturali evidenziano inoltre che gli individui sono più inclini a concedere il perdono, tanto ai loro cari
che alle persone sconosciute, soprattutto se sono cresciuti in paesi collettivisti asiatici, africani e latino-
americani; meno se vengono educati in paesi individualisti nordamericani ed europei (Karremans et al.,
2011; Neto & Da Conceição Pinto, 2010; Suwartono, Prawasti, & Mullet, 2007). A differenza delle culture
individualiste, quelle collettiviste valorizzano maggiormente l’armonia, gli obblighi e le reazioni sociali e
incentivano quindi il perdono, anche nei confronti di estranei, quale strumento utile per favorire il benessere
e la coesione sociale. Prevedono di conseguenza che un più ampio spettro di soggetti siano passibili di
perdono. Rispetto ai francesi, ad esempio, gli uruguayani ed i congolesi ritengono che si possa perdonare non
solo quello che è noto essere il responsabile di un’offesa, ma anche i suoi parenti o amici, gli offensori che
non sono stati ancora identificati come tali, i morti, le istituzioni (quali lo Stato e la Chiesa) o le associazioni
(Bagnulo, Muñoz Sastre, & Millet, 2009; Kadima Kadiangandu, Gauché, Vinsonneau, & Mullet, 2007).
Nonostante queste differenze familiari e culturali, il perdono pare comunque universalmente diffuso quale
mezzo utile alla salvaguardia dei rapporti più stretti. Gli studi etnografici indicano che il perdono è un
fenomeno sociale riscontrabile in ben il 93% delle culture, ove viene considerato uno strumento appropriato
per risolvere offese e conflitti verificatesi tra coniugi, tra genitori e figli, tra vicini e comunità in lotta.
Qualcosa di simile al perdono sembra del resto occorrere persino tra i nostri parenti più stretti, le scimmie e
i primati, inclini ad esibire comportamenti conciliatori nei confronti di coloro coi quali hanno forti legami
affiliativi (Aureli, van Schaik, & van Hoof, 1989; Cords & Thurnheer, 1993). Questi dati non solo
avvalorano l’ipotesi di una componente innata, oltre che appresa, del perdono, ma ancora una volta
testimoniano la valenza adattiva del processo. Il bisogno di affiliazione ci spinge ad aprirci e affidarci agli
altri, esponendoci però a ferite anche profonde, un po’ come i porcospini di Schopenhauer che, per difendersi
dal freddo di una gelida giornata d’inverno, si avvicinano tanto gli uni agli altri da pungersi dolorosamente
coi loro aculei. Per far fronte a tali ferite è possibile intraprendere il viaggio del perdono che, come ci ricorda
David Lynch, è lento, faticoso e, diversamente dalla vendetta, non può essere delegato ad altri. Coinvolge
infatti in profondità diversi aspetti della nostra psiche: i pensieri sull’offesa e su chi l’ha commessa, che
devono farsi meno insistenti e più positivi, i sentimenti, che anziché dominati dal rancore e dalla paura
devono lasciare spazio all’empatia, le motivazioni sottostanti il nostro agire, che devono divenire più
benevole e generose. Per quanto questi cambiamenti siano personali, ciò non toglie che possano essere
agevolati dagli altri, primo fra tutti l’offensore, e dalla buona qualità dei rapporti avuti con loro. A fronte
delle difficoltà che comporta, il perdono, se elargito con una certa accortezza e non equivocato, si rivela

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tuttavia uno strumento particolarmente prezioso per salvaguardare le relazioni e il nostro benessere, messi a
dura prova delle offese che inevitabilmente arrechiamo e subiamo.

2 Glossario
Attribuzioni. Processi cognitivi attraverso i quali si identificano le cause e le responsabilità di eventi o
comportamenti.
Prosociale. Processo o comportamento a vantaggio di un’altra persona o di un gruppo di persone

3 Sintesi
Premessa
1. Un’esperienza dalla quale nessun uomo o donna è purtroppo in grado di esimersi nel corso della propria
vita è quella del venire feriti, offesi o amareggiati. In tali circostanze, così come nei casi più gravi di violenza
ed abuso, tre risposte adattive, funzionali alla salvaguardia del benessere nostro e/o delle relazioni sociali di
cui facciamo parte, sono particolarmente ricorrenti: la vendetta, la fuga (o evitamento) ed il perdono
2. Quando la rabbia e il rancore hanno la meglio, tendiamo a riaffermare il nostro potere sull’altro, a
salvaguardare la nostra “faccia” compromessa dall’offesa subita e a tutelarci dal ripetersi di azioni simili
attraverso atti di rivalsa che fungano da deterrente e da monito
3. Nel caso in cui la paura prevalga sulla rabbia e la vendetta ci paia troppo rischiosa o difficilmente
praticabile, siamo invece soliti scongiurare il ripetersi di episodi analoghi fuggendo da chi ci ha fatto del
male, estraniandoci il più possibile, psicologicamente e fisicamente, da lui/lei
4. Uno dei risvolti negativi della vendetta e della fuga è, tuttavia, quello di compromettere, talvolta
irrimediabilmente, il rapporto con chi ci ha ferito. Il perdono, se opportunamente inteso e non equivocato con
forme di pseudo-perdono, è invece in grado di tutelare, a prescindere dalla gravità dell’offesa subita, non
solo il nostro benessere di vittime, ma anche quello delle relazioni in cui siamo coinvolti, compreso il legame
con l’offensore
Che cosa il perdono non è
5. Perdonare non significa dimenticare, sminuire, giustificare o scusare l’accaduto, né abdicare al diritto di
ottenere giustizia, né riconciliarsi; il perdono è tale se la vittima, pur arrivando col tempo a fare attribuzioni
(si veda glossario) più favorevoli nei confronti di chi l’ha ferita, ne riconosce comunque le responsabilità e le
colpe, così come la natura biasimevole delle azioni compiute, senza sminuirle o giustificarle
6. È però generalmente persuasa che, invece di una giustizia retributiva, finalizzata a punire il colpevole in
modo proporzionale al danno arrecato, sia opportuno perseguire una giustizia ricostituiva, orientata a
ricomporre la controversia e a ristabilire una comunanza con l’offensore attraverso l’ammissione ed il
riconoscimento concorde del torto compiuto e subito
7. Esistono tuttavia circostanze in cui non è auspicabile riconciliarsi con chi si è perdonato, poiché così
facendo si perpetuerebbe e alimenterebbe un legame fonte di sofferenze (ad esempio, nel caso di abusi
familiari); anche laddove una riconciliazione sia opportuna, non è inoltre detto che riesca di fatto ad avere
luogo; fare pace è per molti versi più complesso che perdonare. Mentre il perdono può essere un atto
unilaterale e incondizionato, la riconciliazione presuppone l’impegno e gli sforzi congiunti di entrambe le
persone coinvolte, non solo della vittima che perdona, ma anche dell’offensore, che deve assumersi le
proprie responsabilità e offrire rassicurazioni circa la propria moralità e le proprie intenzioni future

Che cosa è il perdono


8. Il perdono interpersonale può essere connotato positivamente come un processo prosociale attraverso il
quale la vittima affronta l’offesa subita riducendo progressivamente le sue reazioni negative a livello di
pensieri, sentimenti, motivazioni e/o comportamenti nei confronti di chi ne è stato l’autore per sostituirle con
reazioni positive
9. La vittima che perdona ridimensiona a poco a poco i giudizi di condanna ed i pensieri negativi su di lui,
supera il risentimento o la paura provati nei suoi riguardi, rinuncia ai propri intenti vendicativi o di fuga;
colui che perdona arriva anche a provare compassione per l’offensore, ad essere benevolo e generoso e,
qualora a lui legato da un rapporto stretto, a nutrire nuovamente affetto nei suoi riguardi

Le conseguenze del perdono

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10. Il perdono comporta ripercussioni generalmente positive sia sulla salute psico-fisica della vittima sia sul
benessere delle relazioni in cui è coinvolta; comporta, ad esempio, una pressione cardiaca più bassa, un
sistema immunitario ed endocrino più forte, una sintomatologia fisica più contenuta; stili di vita più salutari
(un minor ricorso a farmaci, alcool e fumo); minori livelli di stanchezza, rabbia, odio, ansia, tristezza,
solitudine e depressione; un umore più positivo, maggiore ottimismo e una più intensa soddisfazione di sé e
della vita in generale
11. Poiché la sua vita psichica cessa di essere monopolizzata dai vissuti legati all’offesa e dalla sofferenza
che ne è conseguita, la vittima che perdona è inoltre facilitata nel decentrarsi cognitivamente, nello spostare
la propria attenzione da sé agli altri, nell’essere maggiormente sollecita ai loro bisogni e necessità, a
beneficio delle relazioni sociali in cui è coinvolta
12. Diversi studi longitudinali dimostrano che, quando la vittima è legata all’offensore da un rapporto stretto
(di coppia, familiare o amicale), il perdono contribuisce a far sì che tale rapporto torni ad essere altrettanto
intimo, soddisfacente e coinvolgente di quanto lo fosse prima del verificarsi dell’offesa; analogamente alla
vittima, anche colui che l’ha ferita deve dar prova di tenere al rapporto, mostrandosi pentito,
accondiscendente, e desistendo dal reiterare le proprie offese

Quali fattori ostacolano il perdono? Quali lo facilitano?


13. Tre ordini di variabili sono significativamente correlati all’elargizione del perdono: i processi affettivo-
cognitivi, che la vittima sviluppa in relazione all’offesa patita e a chi l’ha perpetrata, i comportamenti
riparatori dell’offensore e la qualità del rapporto che, prima del verificarsi dell’offesa, eventualmente
sussisteva tra vittima ed offensore
14. È più probabile che il perdono venga accordato quando la vittima, senza disconoscere le responsabilità
dell’offensore, riesce col tempo a mitigare le attribuzioni sfavorevoli ed i giudizi di biasimo nei suoi
confronti, considerando l’eventuale presenza di circostanze attenuanti; quando, pur ripensando all’accaduto
e cercando di trovare un senso in esso, evita di rimuginare continuamente sull’offesa, di lasciarsi sopraffare
dal suo ricordo e di vivere in balia di esso; quando riesce ad essere empatica e a nutrire compassione nei
confronti del proprio offensore, percependolo più come un essere umano simile a sé
15. Questi processi vengono agevolati se l’offensore offre alla vittima delle scuse sincere, dettate da un
autentico ravvedimento, anziché da motivi opportunistici di convenienza, e si comporta di conseguenza,
cercando di porre rimedio al male fatto; le reazioni funzionali al perdono appena descritte, ovvero il
pentimento dell’offensore e le reazioni affettivo-cognitive della vittima a lui favorevoli, sono più ricorrenti
nei casi in cui, antecedentemente al verificarsi dell’offesa, vittima e offensore erano uniti da un rapporto
intimo, soddisfacente e coinvolgente

La tendenza a perdonare è innata o appresa?


16. l’ambiente familiare, sociale e culturale di cui facciamo parte condiziona la nostra propensione al
perdono, influendo sia sulla modalità di vivere che di intendere questo delicato processo. Studi cross-
culturali evidenziano inoltre che gli individui sono più inclini a concedere il perdono, tanto ai loro cari che
alle persone sconosciute, soprattutto se sono cresciuti in paesi collettivisti asiatici, africani e latino-
americani; meno se vengono educati in paesi individualisti nordamericani ed europei
17. Nonostante queste differenze familiari e culturali, il perdono pare comunque universalmente diffuso
quale mezzo utile alla salvaguardia dei rapporti più stretti. Gli studi etnografici indicano che il perdono è un
fenomeno sociale riscontrabile in ben il 93% delle culture, ove viene considerato uno strumento appropriato
per risolvere offese e conflitti verificatesi tra coniugi, tra genitori e figli, tra vicini e comunità in lotta

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