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PEDAGOGIA DEI PROCESSI FORMATIVI E DIDATTICI

La pedagogia è andata, da sempre, specificandosi più che come “arte del condurre l’allievo” alla
maturazione del pensiero, come “attività di riflessione sul fatto educativo” che ha lo scopo sia di
permettere alla persona di evitare errori (funzione di guida), che di renderla capace di percorrere
nuove strade, in risposta alle esigenze o alle sfide dei cambiamenti della società (funzione di
ricerca).
Un altro cambiamento è rappresentato dal passaggio dalla riflessione sui percorsi e sui processi che
accadono all’interno dei contesti formali di insegnamento e di apprendimento (famiglia, scuola,
università), alla riflessione su ciò che avviene, in termini di pratiche di accrescimento della
conoscenza e di costruzione dell’identità personale e sociale, all’interno dei contesti educativi
informali e non formali (gruppo dei pari, varie forme di strutture associative, mass-media, agenzie
formative specializzate, contesti di lavoro, etc.).
Questi “allargamenti” di confine hanno dovuto lasciare il passo alla necessità del confronto,
orientato alla costruzione di paradigmi gradualmente più ampi di pensiero e di vita.
Un “modello” è la rappresentazione di una certa realtà, caratterizzata dalla somiglianza o
dall'analogia con ciò che si intende rappresentare. Bruner1 ne "La cultura dell'educazione" (1996)
sostiene che, alla base dell'azione formativa, stanno precisi "modelli della mente" e
“dell'apprendimento”, dotati di conseguenze altrettanto riconoscibili sulle pratiche di insegnamento
e sulle modalità di apprendimento degli alunni.
Nell’analisi storica dei modelli educativi, si è soliti contrapporre due tipologie di modelli, uno
basato sull'individuo (con riferimento a Kant e Rousseau) ed uno sulla società (con riferimento a
Durkheim). La teoria kantiana è basata su una valorizzazione della positività dell'uomo: la fiducia
nell'essere umano lo porta a vederlo come artefice di un miglioramento della stessa sfera sociale.
L'educare il fanciullo, evitandogli ogni rapporto con la realtà, lo porterà a cambiare in meglio la
società in cui egli vive.
L'analisi dei modelli educativi è, oggi, particolarmente complessa. Sia psicologi, che pedagogisti,
hanno cercato, in varie occasioni, di fornire indicazioni e proposte per facilitare i docenti nel
delicato compito di conoscere ed educare l’alunno.
Lo studio della realtà umana implica due diversi livelli di approfondimento: un livello interno e un
livello esterno. Il livello esterno riguarda gesti, comportamenti, variazioni della circolazione
sanguigna, mutamenti della secrezione ghiandolare. Tutti fenomeni visibili, percebili, rilevabili. Il

1
Bruner 2002.
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livello interno, invece, riguarda l'attività interna del soggetto e comprende, secondo i casi, le
intenzioni, i motivi, i processi di apprendimento, i meccanismi di difesa.
La maggior parte delle strategie comuni impiegate in classe per fronteggiare il disagio degli allievi e
i comportamenti-problema si fondano prevalentemente sul livello esterno, quello direttamente
osservabile: si pensi alla critica, alla punizione, alla sospensione. Tali strategie, frequentemente
ricorrenti in classe risultano banali, improduttive e ripetitive
Occorre incoraggiare gli educatori a formulare ipotesi relative a cosa c'è dietro un comportamento,
ed inferire cosa vive, pensa, sente l'allievo costituisce una finalità fondamentale e sempre attuale.
I processi cognitivi, in particolare, che non risultano direttamente osservabili, si possono studiare
soltanto in maniera indiretta, seguendo l'agire di un soggetto.
L'insegnante che procede in tal senso, sostanzialmente, si trova a seguire i metodi impiegati dai
ricercatori o dagli psicologi: somministra uno stimolo ad un allievo (es. una domanda o un
problema); ne osserva la reazione; classifica i comportamenti raccolti; risale dagli atti ai processi
interni. L'iter descritto richiama il metodo induttivo, che implica: l'osservazione preliminare,
l'ipotesi, la verifica e la deduzione.
Va precisato che la distinzione tra osservazione preliminare o preparatoria e quella sistematica, in
vista della verifica di un'ipotesi, non risulta sempre netta. L'insegnante, in genere, in base alle
abituali osservazioni, giunge ad elaborare giudizi e considerazioni sull'alunno: valuta se sia
intelligente o poco intelligente; motivato demotivato; creativo o poco creativo, analitico o sintetico.
L'insegnante, tuttavia, basandosi su dati raccolti in modo intuitivo, occasionale, episodico, rischia di
pervenire a conclusioni poco rispondenti alla realtà dell'allievo e tali da risultare perfino deleterie.
Uno dei principali aspetti del complesso processo cognitivo umano, in rapporto alle metodologie
per insegnare ad imparare ed imparare ad imparare, è rappresentata dalla “difficoltà dell’imparare”.
Per questo, è necessario porre una finalità strategica al processo didattico: l’apprendimento
significativo, l’apprendimento per padronanza, l’autoapprendimento. Per “apprendimento
significativo” si intende la modalità concreta con cui si scoprono i significati essenziali interni alla
struttura logica disciplinare. Per “apprendimento per padronanza” s’intende la piena consapevolezza
dei significati, dei contenuti, della logica disciplinare e la capacità operativa di generare, tramite
l’astrazione logica e la generalizzazione, trasferimento di apprendimenti. L’“autoapprendimento” è
apprendimento che struttura una didattica interna al soggetto. Apprendimento significativo /
apprendimento per padronanza / autoapprendimento, possono essere considerati scopi dalle tecniche
di “mastery learning” secondo il modello proposto da Ausubel2 e da Gagnè. Il “mastery” utilizza la

2
Ausubel 1978.
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formula dell’approccio collettivo all’istruzione individualizzata, sulla scia del principio che gli
studenti imparano proprio collaborando tra loro.
Ulteriore specificazione riguarda la connessione tra tecniche di “mastery” e insegnamento
individualizzato/socializzato. Le strategie vanno pianificate innanzitutto in funzione dei tipi di
apprendimento (loro tipologia e grado qualitativo) e in rapporto ad una scala tassonomica che si
organizza in base alla stessa attività didattica produttrice di modalità di apprendimento graduali.
I tipi di apprendimento scolastico distinti da Ausubel sono:
a. “apprendimento meccanico per ricezione”, come tipo di apprendimento di livello iniziale;
b. “apprendimento meccanico per scoperta”, come tipo di apprendimento di livello medio-basso;
c. “apprendimento significativo per ricezione”, come tipo di apprendimento medio-alto;
d. “apprendimento significativo per scoperta”, come tipo di apprendimento alto, veicolo di
autoapprendimento, che garantisce ritenzione non temporanea e transfer.
Il pensiero è, dunque, scissione, rottura, conflittualità, costa fatica, deve rimuovere certezze,
sicurezze apparenti, forti sedimentazioni. Deve collocarci in una condizione di ricerca aperta,
precaria, problematica, mai garantita.
Molto conta la “disponibilità ad apprendere” e, quindi, diventano rilevanti i fattori
dell’apprendimento socio-affettivi, di natura relazionale e psicologica. L'apprendimento è, dunque,
sempre mediato dal mondo interno del soggetto che apprende.
Quest’affermazione fa anche riferimento al ruolo giocato dalla dimensione emotiva nelle dinamiche
di apprendimento. La dimensione emotiva, infatti, contribuisce a determinare la qualità e il tipo di
incontro con le conoscenze esterne e chi è preposto a trametterle. In definitiva, la flessibilità è il
contrassegno di ogni strategia didattica che si ponga l'obiettivo finale dell'autoapprendimento, come
formazione alla liberazione e alla creatività. Queste strategie didattiche saranno quelle che
efficacemente condurranno alla tappa più importante della conoscenza: l'autonomia creativa.
Dunque, insegnare ad apprendere per imparare ad imparare.
Ne deriva un modo di guardare all’educazione come ad un progetto di vita, e alla pedagogia come
ad una teoria dell’educazione che si pone in termini di conoscenza, che riflette sul fatto educativo e
che, più di ogni altra disciplina, si misura con il futuro. In questo contesto si pongono i sistemi di
pensiero di Maria Montessori e di V. E.Frankle: ambedue alla ricerca di un senso del compito e dei
valori che, nel momento stesso in cui vengono realizzati, permettono di trovare il senso della vita di
ogni individuo. Sarebbe interessante verificare se la pedagogia scientifica montessoriana e l’analisi
esistenziale frankliana si fondino sulla stessa visione di tipo antropologico.
Non a caso, infatti, questa ipotesi prende il via dall’idea stessa di educazione, alla base della pratica
pedagogica montessoriana e del metodo psicoterapeutico frankliano, esaminandola nella sua

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accezione di educazione alla responsabilità intesa come capacità personale di rispondere, in modo
originale e critico, alle varie situazioni della vita e alle sfide che essa ci pone.
L’educazione così intesa risulta decisiva riguardo al problema della alienazione dell’individuo nella
società e dell’educazione all’integrazione comunitaria, alla tolleranza e alla pace. Il termine
responsabilità appare collegato ai valori della libertà e dell’autonomia individuale.
La libertà va intesa non come assoluta, bensì come adeguata alla capacità effettiva di assumerla
responsabilmente e di gestirla in un contesto ambientale e relazionale, che non è di abbandono o di
indifferente tolleranza, ma di non-intervento e di atteggiamento non coercitivo nei confronti del
soggetto.
La pedagogia montessoriana nasce come pedagogia speciale e, solo in un secondo momento,
ritenendo che non ci fossero differenze tra le leggi di sviluppo seguite dal bambino disabile e quelle
del bambino normale, la Dottoressa Montessori applica i principi adottati per l’educazione dei
«deficienti» all’educazione dei bambini normali.
V. E. Frankl, invece, ritiene che gli insegnamenti della logoterapia costituiscano un valido aiuto per
tutti coloro i quali sono impegnati nell’elaborazione dei piani educativi individualizzati e per
l’elaborazione del Progetto di vita.
La pedagogia montessoriana e la logoterapia frankliana sono accomunate da una chiara valenza
preventiva in quanto offrono al soggetto un valido aiuto a trovare quella strada da percorrere, quel
senso della vita per portare avanti nel migliore dei modi il proprio cammino.
Come dicevamo prima, la tendenza attuale nell’ambito della riflessione e della ricerca pedagogica è
quella orientata al “confronto di pratiche”, capaci di produrre risultati sempre più accettabili in
contesti anche differenti rispetto a quelli in cui sono state inizialmente ‘praticate’.
Il grande pedagogista contemporaneo Morin3 che ha dedicato gran parte della sua opera ai problemi
della necessità di riformare il pensiero, si rende conto che occorre far maturare una nuova
conoscenza che superi la separazione dei saperi presente nella nostra epoca e che sia capace di
educare gli stessi educatori ad un pensiero della complessità, distinguendo tra civilizzazione e
cultura. La cultura è da considerare l’insieme delle credenze e dei valori caratteristici di una
determinata comunità. La civilizzazione è, invece, ciò che può essere trasmesso da una comunità
all’altra: le tecniche, i saperi, le scienze.
È necessario umanizzare i saperi per limitare la dispersione della conoscenza: questo è un problema
da affrontare già nei primi anni di scuola e deve proseguire lungo tutto il percorso degli studi e
lungo tutto l’arco della vita.

3
Morin 1999.
5
Una conoscenza priva di contestualizzazione è una conoscenza povera. E siamo a quella “riforma di
pensiero” che - sempre per seguire Edgar Morin - consentirebbe il pieno impiego dell’intelligenza,
per rispondere alle sfide del mondo d’oggi. Apre la via a quella “coniugazione delle differenze” che
rende significativo l’abbattimento delle frontiere culturali prima che fisiche e politiche, tra Stati ed
etnie, in vista della costruzione di condizioni di vita umana sempre più allargate, in cui si affermi
l’importanza di scelte che valorizzino le differenze dei popoli.
Il “confronto di pratiche” è alla base della stessa politica culturale della Comunità Europea come
linea di metodo e come principio ordinatore anche per rendere dignitoso lo stesso ingresso di
sempre nuove realtà statuali che portano ad allargarne progressivamente i confini. E’ andata
emergendo, in tutta la sua complessità, la considerazione di come il “confronto di pratiche” vada
accrescendo la consapevolezza delle possibilità che si aprono all’interno di una costruzione
condivisa di regole e modi di vivere, alla luce di una nuova cultura del confronto che si arricchisce
di modalità rispettose delle diversità.

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PROBLEMATICHE FORMATIVE
L’apprendimento, tanto che avvenga nei contesti formali che in quelli non formali di insegnamento,
riceve forza da una validazione di “senso” da parte di chi apprende che accende i processi
motivazionali; operazione questa fortemente compromessa quando mancano dei riferimenti
identitari specifici, legati alla diversità culturale oltre che a quella linguistica.
La diversità, dunque, rappresenta un vincolo o una risorsa per lo sviluppo?
C’è chi, come Liliana Dozzi (dell’Istituto Pedagogico di Bolzano) sostiene e si batte per il
riconoscimento de “i guadagni pedagogici e didattici della diversità” nei contesti formali di
apprendimento. Ogni bambino – come correttamente sottolinea la stessa Dozza – può raggiungere
risultati formativi positivi sia a livello cognitivo, sia a livello affettivo-emotivo e sociale solo se, e a
condizione che, il curricolo scolastico si ponga obiettivi che guardino il raggiungimento di
progressivi livelli di inclusione.
L’inclusione dovrebbe contestualmente scaturire dal coltivare la normalità quanto la specialità. Ma
il contesto formale di apprendimento per eccellenza, la scuola, si è lasciata “intorpidire” dalle
pratiche trasmissive che mortificano l’originalità e la differenza, soffocano il confronto e la
discussione, appiattiscono la diversità” 4(Franca Pinto Minerva).
L’apprendimento implica la trasferibilità delle competenze da contesti all’interno dei quali sono
maturate ad altri contesti, con un passaggio, laddove si tratta di apprendimenti conseguenti ad
insegnamenti scolastici, da contesti formali, appunto, come la scuola, a contesti informali.
All’interno del contesto scolastico, l’apprendimento viene vissuto come un dovere, avvolto da fatica
talora insopportabile, che interrompe il fluire della vita e delle attività che il soggetto compie con
entusiasmo e trasporto, nonché a considerare inutile o non utilizzabile per la vita il bagaglio di
conoscenze e di esperienze che ne consegue.
D’altro canto, invece, gli apprendimenti che maturano quotidianamente nei contesti di vita, nascono
dalle attività che, appunto, il soggetto si trova a svolgere e che si collocano in una sorta di “doppio
fondo” che viene caratterizzato da situazioni esplorative, da procedure osservative, da attività di
ricerca che procurano apprendimenti che modificano i comportamenti e che generano competenze,
accompagnate da un generale senso di padronanza e di autoconsapevolezza.
Le attività di questo “doppio fondo” costituiscono, quindi, le occasioni più felici
dell’apprendimento significativo. Si tratta, allora, di tentare di portare i vantaggi degli
apprendimenti formali a livello degli apprendimenti informali, o mettere in atto strategie didattiche
che favoriscano un continuo scambio fra questi due livelli di apprendimento, un’interferenza che
consenta la massima valorizzazione.

4
Pinto Minerva 1998.
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La prima analisi di queste speciali interferenze da promuovere anche nei contesti formali (scuola) di
apprendimento si deve a Poggeler che individuò una sorta di permeabilità dei due livelli che può
essere espressa come “effetto doppio fondo”.
Alcuni accorgimenti favoriscono lo scambio, in particolare quando:
a. l’informazione non viene affidata al solo messaggio verbale, ma le parole sono accompagnate da
gesti, attività, esperienze di vita;
b. l’iniziativa didattica da cui dipende l’apprendimento ha sempre un inizio ben definito, un intento
chiaro, un momento terminale inequivocabile e concorre a realizzare qualcosa di preciso;
c. l’informazione che preme far passare, collegata ad un’attività, procura e stimola delle funzioni e
il loro esercizio;
d. la ripetizione verbale dell’informazione - quando necessaria - viene richiesta come
verbalizzazione.
Partiamo dal presupposto che le competenze sono presenti nei soggetti, almeno allo stato
potenziale; consideriamo lo scarso funzionamento come risultato dell’interazione degli individui
con la struttura sociale e della mancanza di risorse che impediscono alle competenze disponibili di
essere spese efficacemente. Per tale ragione il concetto di empowerment risulta centrale.
L’empowerment è stato definito, per la prima voltanel 1981 da J. Rappaport come: <<Un processo
intenzionale che continua, centrato sulla comunità locale che implica il rispetto reciproco,
l’elaborazione critica, il prendersi cura di e la partecipazione del gruppo>>.
In un’accezione generale, empowerment può essere inteso come “accrescere la possibilità dei
singoli e dei gruppi di controllare attivamente la propria vita”.
Il concetto di empowerment contiene in sé sia il riferimento all’auto-determinazione individuale, sia
alla partecipazione alla vita di comunità; esso si traduce dunque, tanto nel senso di controllo
personale quanto nell’influenza sociale.
L’apprendimento permanente
Un apprendimento comporta sempre una trasformazione intenzionale, capace di generare nuovi stili
di vita. Il nesso tra “apprendimento adulto” e “formazione” non è solo dato dall’applicazione di
teorie dell’apprendimento adulto alla pratica formativa ma ne rappresenta anche un necessario
collegamento.
Oggi, si ritiene di poter parlare di “sviluppo per l’intero corso della vita”, in quanto l’uomo può
cambiare ed evolvere, nel corso dell’“età adulta”, attraverso interventi educativi o formativi. La
formazione si può inserire nei processi di cambiamento, favorirli e aiutare i soggetti ad individuare i

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compiti evolutivi della fase in cui si trovano; quando un cambiamento è vicino, la formazione può
essere molto efficace, perché aiuta l’individuo a portare avanti nel modo migliore il cambiamento
stesso5.
Oggi, si parla molto dell’imparare ad apprendere come fondamentale obiettivo educativo e
l’istruzione e la formazione sono un mezzo indispensabile per promuovere la coesione sociale, la
realizzazione personale e professionale, l’adattabilità e l’occupabilità.
L’apprendimento permanente agevola la libera circolazione dei cittadini e consente di conseguire le
aspirazioni individuali; dovrebbe consentire a tutti di acquisire le conoscenze necessarie per
partecipare come cittadini attivi alla società della conoscenza e al mercato del lavoro. A tal
proposito, è importante il ruolo svolto da quella che è definita la “formazione invisibile” che è, per
esempio, quella che avviene sul posto di lavoro, denominata Work Learning Place e che sottolinea
l’opportunità di riunire lavoro e apprendimento in un unico “punto” spazio-temporale; ciò porta a
concentrarsi sui luoghi, i momenti, le modalità più opportune per poter accelerare il processo di
apprendimento naturale delle persone. In questo senso, la formazione deve diventare un sistema
ricco di proposte e risorse formative personalizzabili6.
Web Based Learning: l’apprendimento basato sul web
Il WBL (letteralmente apprendimento basato sul web) è un complesso di metodi, strategie e
strumenti didattici che utilizzano le possibilità offerte dal web considerato “ambiente di
apprendimento”. Inizialmente sviluppati per superare i problemi legati alla distanza fisica degli
allievi dalle scuole, oggi, si configurano come un terreno di sperimentazione per nuove teorie
dell'apprendimento.
Si possono individuare 3 stagioni del WBL caratterizzate dalle forme del:
 C.B.T (Computer Based Training - letteralmente Addestramento basato sul computer) e
C.A.I. Computer Aided Instruction - letteralmente Istruzione supportata da computer)
sviluppato negli anni '70 - '80: indicano i primi tentativi di utilizzare il personal computer
come postazione di studio individuale.
 F.A.D (Formazione a Distanza) e O.L. (Open learning - letteralmente Apprendimento
Aperto) sviluppato negli anni '80 - '90: si riferiscono a strategie didattiche caratterizzate da
modalità aperte piuttosto che da rigida programmazione dei percorsi di apprendimento,
utilizzate quando non era ancora disponibile Internet.
 E-learning (letteralmente Apprendimento elettronico) e Web Based Learning (Web Based
Learning letteralmente Apprendimento basato sul web) sviluppati negli anni '90 fino ad

5
Lichener 1999.
6
Paneforte 2005.
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oggi: richiamano e racchiudono un po’ tutti i programmi di istruzione e formazione che
utilizzano Internet, costruendo percorsi personalizzati a distanza.
Il WBL ha una serie di campi specifici di utilizzo:
 l’istituzione scolastica;
 l’e-learning nelle grandi organizzazioni;
 la formazione professionale;
 l’apprendimento informale.
Affrontando le tematiche relative all’educazione degli adulti e alle prassi educative della società si
coglie sia l’importanza dell’operare pedagogico oltre e fuori la scuola, sia l’esigenza di
cambiamento dell’organizzazione scolastica in temi di rapporto educativo con chi si colloca al suo
esterno.
In tale prospettiva, molto importante si rivela l’impegno e la vigilanza dell’educatore. Agli operatori
della formazione è richiesto un repertorio di conoscenze di vario tipo, idonee a gestire in forma
esperta una professione che, in relazione al profilo professionale specifico e al ruolo che sono
chiamati a svolgere, appare particolarmente delicata e impegnativa.
La professionalità dell’operatore della formazione appare direttamente finalizzata all’obiettivo di
ottimizzazione e facilitazione dei processi di apprendimento di soggetti adulti. Fondamentale è la
capacità di comunicazione empatica, ossia realmente disponibile e aperta e di ascolto attivo.
L’operatore predispone un’azione orientativa atta a sostenere tre aspetti psicologici importanti in chi
si trova a doversi orientare e ri-orientare, soprattutto se ciò avviene in età adulta. Innanzitutto,
l’autostima: in particolare, in quei soggetti con basso livello di scolarità o scolarità non brillante, i
quali non trovano in se stessi il sostegno emotivo per uscire dalle difficoltà.
In secondo luogo, l’autoefficacia, che mette in risalto la capacità di svolgere compiti in modo
autonomo. In terzo luogo, un’adeguata motivazione da parte del soggetto in apprendimento:
fondamentali, in tale direzione, appaiono le strategie di “apprendimento cooperativo”.
Un operatore della formazione può anche fungere da negoziatore e mediatore tra domanda e offerta
formativa. Tali figure sono presenti nei diversi organismi educativo/formativi pubblici e privati,
quelli relativi al terzo settore e le infrastrutture delle amministrazioni pubbliche. La figura del
formatore assume una personalità multiforme ma, nello stesso tempo, non è facile definire con
certezza il suo ruolo nell’ambito del proprio settore di attività e, quindi, la sua complessità è legata
ai diversi settori nei quali si trova ad operare.
Tra le varie figure professionali operanti nella formazione è possibile distinguere il docente
disciplinarista; il formatore e il progettista di formazione; l’operatore di orientamento.

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Il docente disciplinarista svolge attività riguardanti prevalentemente l’alfabetizzazione degli utenti
con livelli via via sempre più alti (dal conseguimento della licenza elementare a quella del diploma
di scuola superiore).
Il formatore e il progettista di formazione sono in possesso sia di competenze di tipo gestionale-
organizzativo e di gruppo sia di competenze di pianificazione/progettazione/valutazione dei percorsi
di apprendimento.
L’operatore di orientamento che svolge le seguenti funzioni: informativa dell’orientamento;
formativa (con riferimento alle figure di tutoring, coaching, mentoring…); consulenziale (con
compiti di counseling orientativo, di consulenza alla scelta, alla persona…); gestionale-
organizzativa (responsabile di progetto, di centri e strutture di orientamento…).

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PROCESSI DI INTEGRAZIONE SCOLASTICA E METACOGNIZIONE
Si sente parlare, in molti convegni sull’integrazione, in svariati corsi di formazione per personale
scolastico e/o educativo, della necessità di adottare una didattica realmente inclusiva che tenga
conto delle svariate problematiche e necessità che presenta un mondo scolastico multiforme, per
appartenenza etnica, religiosa, sociale.
L’inclusione, come da tempo sostiene Dario Ianes, è divenuta, da qualche anno, la scelta teorica
fondamentale e la linea guida delle politiche sociali per l’integrazione a livello nazionale ed
internazionale. Una didattica realmente inclusiva deve tenere in considerazione non solo le
disabilità certificate ma individuare e intervenire in presenza di difficoltà più sfumate. Queste,
spesso, non sono immediatamente individuabili ma costituiscono altrettante fonti di disagio che
l’allievo vive dentro e fuori i contesti formali e non formali di apprendimento e che lo portano a non
utilizzare al meglio le proprie abilità personali. I nuovi orientamenti didattici abbracciano una serie
di interventi che convergono sull’obiettivo di avvicinarsi sempre più al concetto e alla pratica
dell’inclusione scolastica intesa come capacità di fornire risposte efficaci ai Bisogni Educativi
Speciali (BES) degli utenti dei servizi formativi in possesso o meno di idonea certificazione,
secondo il principio della “speciale normalità” di montessoriana memoria, richiamata appunto da
Ianes. Tale didattica non deve essere attuata da insegnanti specializzati bensì da insegnanti
curricolari adeguatamente formati e aperti alle possibilità di didattiche alternative complementari a
quella ufficiale e tradizionale e può essere realizzata sin dalla scuola dell’infanzia e fino a quella
secondaria ed oltre, nella formazione universitaria, professionale e degli adulti.
La pedagogia che si occupa della formazione è chiamata a ricercare le strategie didattiche non solo
in presenza di situazioni “normali” e in quelle di “disabilità” bensì, per dirla con Don Milani, in
relazione a tutti gli alunni che hanno diritto a risposte adeguate alla loro condizione perché “non è
giusto far parti uguali fra disuguali”. Secondo l’OMS, infatti, “una persona funziona bene se
partecipa socialmente, se riveste ruoli nella società in maniera attiva e integrata”. È opportuno
conoscere un repertorio ampio di modelli di lavoro che indubbiamente andranno, poi, adattati in
base alle esigenze particolari dell’allievo e/o del gruppo classe. In questo lavoro verranno prese in
considerazione alcune metodologie didattiche alternative e tipologie di interventi che agiscono su
abilità cognitive e metacognitive. Studi recenti evidenziano come esistano intelligenze multiple
(Gardner: logico-matematica, linguistica o verbale, spaziale, musicale, grafico-pittorica, cinestetica-
corporea, intrapersonale, interpersonale o sociale, naturalistica, filosofica) e come lo sviluppo di
queste vari notevolmente da un soggetto all’altro. È compito dell’insegnante strutturare un ambiente
complessivamente stimolante per qualsiasi intelligenza e prevedere diversi interventi che possono

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essere attuati sia direttamente sul singolo sia, soprattutto, utilizzando il gruppo classe nella sua
articolazione di dinamiche relazionali complesse.
La modalità prevalente con cui si esercita l’attività di insegnamento in classe è costituita dalla
tradizionale lezione frontale in cui il docente seleziona i contenuti salienti di un ambito disciplinare
e li presenta verbalmente agli allievi. In una classe dove si punta a riconoscere le intelligenze
multiple, l’insegnante cambia frequentemente le modalità di presentazione dei contenuti, dal
linguaggio verbale alle forme visuospaziali a quelle musicali e così via, coinvolgendo creativamente
le diverse intelligenze. Il primo passo è scoprire la combinazione delle intelligenze, per così dire
dominanti, in ogni alunno, attraverso l’osservazione di comportamenti, tendenze e abilità con le
quali le intelligenze si manifestano. In questo senso, la scuola dell’infanzia si presenta come il
contesto privilegiato, poiché offre l’opportunità di osservare l’allievo nelle sue diverse dimensioni,
grazie all’utilizzo accentuato di metodologie ludiche e all’organizzazione degli spazi che prevedono
vari angoli – laboratorio con attività che i bambini scelgono liberamente. Tale struttura è da tenere
in considerazione anche per gli ordini di scuola successivi come criterio di base, sia pur con le
modifiche che l’età degli alunni richiederà. Si rende, pertanto, necessario impostare un’attività
educativa che integri apprendimento, motivazione, collaborazione e metacognizione. Una delle
funzioni che si considera fondamentale nel favorire l’apprendimento è la capacità di ritenere per un
tempo più o meni lungo dati acquisiti: la memoria. Una delle possibili strategie per memorizzare le
informazioni è quella di collegare le nuove conoscenze con quelle già possedute. Secondo Ausubel
e la sua teoria dell’apprendimento per assimilazione7, affinché ci sia un apprendimento significativo
è importante che la persona integri, appunto, informazioni e concetti nuovi con quelli già presenti
nella sua struttura cognitiva. Chi apprende, può decidere di mettere in atto tale processo ma ciò può
anche essere insegnato, incoraggiando i propri allievi a collegare le nuove informazioni con quelle
già possedute, attraverso, ad esempio, la creazione di mappe cognitive. Altra metodologia che si
fonda sulla teoria della pedagogia realmente inclusiva è il tutoring ovvero una modalità di
insegnamento reciproco tra alunni. La base di tale metodologia prevede che l’alunno tutor svolga
attività di insegnamento diretto in coppia ad un altro alunno con o senza bisogni educativi speciali.
Il tutoring offre grandi risultati non solo in termini strettamente scolastici ma, anche, nello sviluppo
dei rapporti interpersonali, nella crescita della motivazione e dell’autostima. La collaborazione tra
alunni, sia attraverso forme di tutoring sia di apprendimento cooperativo, crea opportunità
straordinarie per l’educazione di tutti gli alunni compresi quelli certificati a rischio o disabili. Questi
metodi permettono un’istruzione realmente individualizzata e perseguono, al contempo, gli obiettivi
sociali dell’opera di inclusione / integrazione.

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Ausubel 1968.
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L’andare a scuola, per molti ragazzi, è vissuto come un impegno gravoso, talvolta causa di
malessere e ansia; può capitare che anche studenti brillanti manifestino noia, disinteresse e apatia. È
necessario sviluppare un approccio che valorizzi oltre alle variabili cognitive anche le componenti
sociali dei soggetti e gli aspetti emotivi e motivazionali legati all’apprendimento. La didattica
metacognitiva e i programmi che inseriscono nella progettazione didattica momenti dedicati
all’educazione razionale emotiva, costituiscono validi strumenti che rispondono, appunto, a tale
“necessità”.
Una rassegna delle diverse teorie motivazionali evidenzia concetti specifici che vogliono puntare
allo sviluppo della motivazione ad apprendere. Il concetto di autoefficacia di Bandura8, ad esempio,
propone una nuova concezione della mente la quale si configura come un apparato capace di
esercitare ed estendere il proprio controllo su se stessa, sull’organismo e sull’ambiente. È risaputo
che le abilità di memoria sono di fondamentale importanza nel percorso scolastico e nello sviluppo
degli apprendimenti. La didattica meta cognitiva interviene per offrire un metodo alternativo per
rendere l’apprendimento significativo, inducendo gli studenti ad una riflessione attiva delle
conoscenze da apprendere; con tale impostazione metodologica, l’insegnante aiuta lo studente a
sviluppare un pensiero critico e ad affrontare lo studio in maniera autonoma e consapevole.
Da diverse ricerche, in cui sono stati utilizzati i criteri fondamentali della didattica metacognitiva, è
emerso che il soggetto che riesce a sviluppare una buona metamemoria, avrà potenziato le proprie
capacità di memoria e apprendimento. Oltre ai programmi di stimolazione metacognitiva generale,
ve ne sono altri che intervengono su determinate abilità in maniera più specifica.
L’approccio metacognitivo ha esteso gradualmente la sua applicabilità in molteplici ambiti
operativi. La meta cognizione interviene per aumentare la motivazione, il senso di autoefficacia
nell’apprendimento, per correggere gli stili attributivi disfunzionali, per sviluppare
l’autoaccettazione, la conoscenza delle proprie caratteristiche e dei propri limiti negli
apprendimenti, per stimolare le abilità di autotutela. Uno dei metodi più adeguati per
l’insegnamento di strategie cognitive in ambiti molto diversi, dalla semplice memorizzazione alla
risoluzione di problemi, alla comprensione di un testo scritto e ad altro ancora, è quello denominato
insegnamento reciproco. In questa metoologia gli alunni riuniti in gruppo di due o tre soggetti
imparano a rivolgersi reciprocamente delle domande relative alla loro attività. Nell’insegnamento
reciproco, ogni alunno svolge un ruolo attivo, comprendendo ciò che sta facendo, spiegandolo agli
altri allievi e aiutandoli a comprendere e a ‘fare’. La metodologia dell’insegnamento reciproco si
fonda sulla base teorica del costruttivismo sociale, centrata sulle modalità con cui il soggetto
costruisce attivamente la sua conoscenza. Le modalità più efficaci per l’applicazione di tale

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Bandura 1993.
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metodologia sono l’apprendimento cooperativo e il tutoring. In un progetto educativo-didattico che
intenda ‘svegliare’ le coscienze degli allievi per abituarli a concentrarsi su se stessi e le proprie
potenzialità, è indispensabile la cornice relazionale di un rapporto qualitativo tra docente/alunno e
alunno/alunni che inglobi metodologie didattiche quali l’ascolto attivo, e punti a generare l’empatia
in una relazione positiva. Una relazione si avvia a diventare empatica quando ci si accetta
profondamente per quello che si è, quando l’altro è accolto al di là delle sue capacità e non ha
valore solo se cambia secondo le aspettative proprie, quando ci si sente ascoltati e compresi
profondamente anche negli aspetti emotivi, in un progetto di azioni coerentemente orientate ad un
obiettivo. Gli insegnanti devono concentrarsi sui comportamenti positivi e trasmettere messaggi di
fiducia. L’apprendimento cooperativo è, quindi, un insieme di tecniche di insegnamento –
apprendimento che si basa sul lavoro di gruppo e che ha come componente fondamentale la
funzione della mediazione sociale fra gli alunni. I gruppi sono formati da pochi soggetti, quattro o
cinque, eterogenei, per etnia, sesso, abilità cognitive e sociali, in modo da formare una realtà
diversificata dove ognuno porta il proprio contributo in relazione alle proprie peculiarità. Il primo
passo da compiere, nel proporre alla classe di lavorare in gruppo, consiste nella preparazione degli
alunni alla cooperazione, in modo che sappiano come comportarsi in situazioni di gruppo, senza
bisogno di una continua supervisione. L’altro passo importante consiste nell’insegnare agli allievi
l’equità della partecipazione, che, cioè, vanno rispettate all’interno del gruppo alcune regole dalle
quali non si può prescindere, come la possibilità, per tutti i componenti, di esprimere le proprie idee,
confrontandosi con quelle degli altri, di motivare le proprie convinzioni, rimanendo comunque
aperti a idee diverse dalle proprie. Altra differenza fondamentale dell’apprendimento cooperativo
consiste nell’approccio didattico basato sulla cooperazione dei soggetti che lavorano per migliorare
reciprocamente l’apprendimento di ognuno. Varie ricerche dimostrano come l’apprendimento
cooperativo permette risultati migliori sotto diversi punti di vista: tutti gli studenti ottengono
migliori risultati scolastici, si sviluppano relazioni più positive tra gli studenti che vivono un
maggiore benessere psicologico. Nella metodologia del cooperative learning, si può lavorare,
tradizionalmente, con tre tipologie di gruppi: gruppi formali che possono essere utilizzati per un
tempo che può durare fino ad alcune settimane; gruppi informali, formati ad hoc per il tempo di una
lezione o di pochi minuti; gruppi di base, a lungo termine, con membri stabili che si scambiano il
sostegno e l’incoraggiamento per apprendere.
Fondamentale, nell’approccio a tale metodologia, risulta la preparazione degli allievi
all’acquisizione delle competenze sociali e all’alfabetizzazione emotiva, attraverso attività
propedeutiche, magari proposte con carattere ludico. L’adulto deve saper sostenere un ruolo di
guida, prendere decisioni, comunicare, creare un clima di fiducia, saper gestire i conflitti. Altre

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competenze di base da far acquisire agli alunni nel lavoro preliminare all’apprendimento
cooperativo sono: l’interdipendenza positiva con la quale si forniscono chiari messaggi che
l’obiettivo del lavoro è arrivare ad essere “uno per tutti e tutti per uno”, si orientano gli studenti fino
a far comprendere loro che non esiste successo individuale o del singolo al d fuori del successo
collettivo. Ancora, la presa di coscienza della doppia responsabilità: il gruppo deve essere
consapevole della responsabilità collettiva per il raggiungimento dei suoi obiettivi e, allo stesso
tempo, ogni allievo deve essere individualmente responsabile nel contribuire con la propria parte di
lavoro al successo finale del gruppo. Ulteriore competenza è rappresentata dall’interazione
costruttiva diretta: gli studenti vengono portati a lavorare realmente insieme, aiutandosi,
incoraggiandosi e lodandosi a vicenda per gli sforzi compiuti, utilizzando le abilità specifiche
individuali; nel gruppo veramente cooperativo, ogni soggetto sa che può contare sugli altri. Ultima
competenza essenziale da sviluppare è la valutazione del grado di cooperazione del gruppo: i
membri verificano e discutono dei progressi compiuti verso il raggiungimento degli obiettivi e
l’efficacia dei loro rapporti di lavoro.
Ultimo punto fondamentale da considerare, nel cooperative learning, è quello relativo alla
formazione e alla composizione dei gruppi. Le dimensioni dipendono dall’età, dalle materie di
studio, dalla disponibilità del materiale, dall’esperienza degli studenti nel lavoro di gruppo; come
regola di massima, si deve considerare che il gruppo più è piccolo, meglio funziona. L’insegnante,
dopo aver scelto l’argomento di cui gli studenti si dovranno occupare, organizza i gruppi in tre fasi:
nella prima suddivide gli studenti in tanti gruppi (gruppi specializzati) per quanti sono i settori in
cui vuole ripartire l’argomento prescelto. Nella seconda fase, gli studenti lavorano a coppie (coppie
di insegnamento reciproco), sempre formate dall’insegnante e con studenti scelti da gruppi diversi;
qui gli studenti si scambiano le informazioni apprese nella fase precedente. Nella terza fase, gli
studenti si dividono nuovamente in gruppi (gruppi di sintesi) e analizzano tutti i settori del
problema, giungendo, così, alla comprensione complessiva e alla eventuale risoluzione.
Si è visto come è necessario un intervento specifico per incrementare le abilità prosociali degli
studenti e favorire l’accettazione dei compagni. Un programma strutturato che lavora sul
riconoscimento delle emozioni, sull’accettazione delle caratteristiche e dei limiti propri e altrui,
sull’apprendimento di strategie di facilitazioni per il superamento di situazioni negative e
incoraggiamenti nei riguardi di abilità e pensieri positivi, costituisce un ottimo ausilio al sistema
educativo-didattico, nell’obiettivo di uno sviluppo integrale del bambino e risulta, altresì, un
coadiuvante nella riuscita ottimale delle metodologie didattiche alternative a quelle tradizionali.
Uno studio molto interessante riguarda i programmi educativo-didattici di Mario Di Pietro che

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applicano i principi dell’Educazione Razionale Emotiva9. Essa si fonda su un assunto che si può
sintetizzare con il concetto che se le reazioni emotive di un soggetto sono in gran parte determinate
dal suo modo di pensare, cambiando modo di pensare, si riuscirà a cambiare anche il modo in cui
egli si sente. Nei programmi strutturati, sono, in genere, presenti diverse attività finalizzate al
conseguimento di obiettivi specifici ad iniziare dalla stimolazione verso il dialogo interiore. Lo
sviluppo del dialogo interiore fa parte del normale sviluppo di crescita (è possibile osservare come i
bambini, soprattutto molto piccoli, parlano a se stessi anche mentre giocano e non solo in situazioni
di conflittualità) e, fin dalla sua comparsa, esso assume un ruolo fondamentale nel dirigere le
reazioni emotive del bambino. La capacità di cooperare è un’abilità che può essere appresa anche in
bimbi molto piccoli con tutti i vantaggi della prevenzione e della formazione in tenera età di
apprendimenti utili nell’arco dell’intera vita e dei suoi molteplici contesti. Compito successivo è
quello di agevolare la consapevolezza del bambino nel riconoscimento delle proprie emozioni;
saper assegnare loro un nome ed essere in grado di comunicarle agli altri. Spesso, infatti, non solo i
bambini ma anche soggetti più grandi, ricorrono ad una stessa parola per indicare stati d’animo
diversi. Con attività ludiche, si muove il bambino verso il riconoscimento degli stati d’animo, ad
esempio, attraverso la lettura dei tratti del volto e si potenzia tale competenza con vari interventi che
abbinano le figure ai termini che identificano le emozioni. Una volta che si diventa consapevoli
delle proprie emozioni è importante comprendere come queste si sono formate, rendersi conto che
sono influenzate dalla mente cioè dal proprio modo di pensare. Questa consapevolezza attribuirà
alla persona maggiore fiducia in sé stessa e nelle risorse personali, facendola sentire meno in balìa
degli eventi esterni. L’inserimento, nella didattica, dei programmi di educazione razionale-emotiva
si pone l’obiettivo immediato di creare presupposti per il benessere in classe e l’applicabilità di
metodologie basate sulla cooperazione tra tutti i soggetti interagenti, ma ha anche l’obiettivo più a
lungo termine di rendere l’alunno in grado di interiorizzare le tecniche apprese per, poi, applicarle
nella vita di ogni giorno, al fine di risolverne i problemi e le difficoltà, tendendo al benessere
globale.

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Di Pietro 1992.
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UNA SCUOLA PER CRESCERE
Ogni riflessione sullo sviluppo e sull’educazione del pensiero infantile deve partire dagli studi di
Jean Piaget che ha identificato quattro stadi distinti di evoluzione:
1. STADIO SENSO-MOTORIO (dalla nascita ai due anni circa): le interazioni con gli altri e con l’ambiente
sono limitate a percezioni ed azioni motorie guidate da schemi senso-motori;
2. STADIO PRE-OPERATORIO (da due a sette anni): si formano gli schemi mentali che consentono di
rappresentare mentalmente oggetti ed eventi;
3. STADIO OPERATORIO CONCRETO (da sette ad undici anni): molti dei limiti presenti nello stadio
precedente vengono superati grazie alla coordinazione degli schemi mentali in strutture d’insieme;
4. STADIO OPERATORIO FORMALE (dopo gli undici anni): è la tappa più avanzata dello sviluppo
dell’intelligenza.
Il periodo dell’intelligenza senso-motoria è caratterizzato dalla comparsa di una prima capacità di
rappresentazione che, a sua volta, discende dalla capacità di interiorizzare le azioni. Questa vicenda
evolutiva genera tre distinti momenti, i primi due dei quali riguardano l’età della scuola
dell’infanzia: la fase del pensiero pre-concettuale o pre-operatorio, la fase del pensiero intuitivo e
la fase del pensiero operatorio o logico-concreto. Nelle prime due fasi si ha un pensiero che tende
ad incorporare le cose, si potrebbe parlare di intelligenza pratica, basata sulla manipolazione degli
oggetti che utilizza, al posto delle parole e dei concetti, le percezioni ed i movimenti. Lungo tutto il
periodo che va dai due-tre anni sino ai sette anni, l’universo del bambino sembra centrato sul suo Io
non essendo capace di distinguere fra il proprio punto di vista e quello degli altri. E’ la fase dei
perché. L’egocentrismo spaziale e temporale mette in evidenza la scarsa differenziazione dello
spazio vitale; così, ad esempio, il bambino che riesce a distinguere la destra dalla sinistra sul proprio
corpo, non è ancora capace di operare la stessa distinzione sul corpo altrui; analogamente, il
bambino non riesce a percepire differenze di tempo e calcola l’età delle persone e la durata degli
avvenimenti sulla scorta della propria personale esperienza.
L’egocentrismo si evidenzia anche, in forma indiretta, nel modo in cui il bambino rappresenta le
cose a se stesso. Ne è prova la tendenza a concepire e rappresentarsi le cose come viventi e dotate di
intenzionalità (animismo), e ritiene che ogni cosa sia frutto della manipolazione dell’uomo, tanto
che tutti gli oggetti della natura sono costruiti dall’uomo: il sole, le monete etc. (artificialismo).
Connesso all’animismo e all’artificialismo, vi è quell’atteggiamento infantile che viene detto
partecipazione magica (magismo), e la natura, quando non è colorata di dimensioni magiche,
risponde a criteri di causalità morale. Per il bambino, non esiste il caso, tutto è fatto per l’uomo,
serve all’uomo. I concetti de bambino sono ancora dei pre-concetti, infatti differenze e analogie
risultano ancora poco controllate ed espresse, secondo la forma della trasduzione, cioè emergono
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dall’accostamento o dal collegamento di un particolare ad un altro, senza alcuna necessità logica. Si
dice che il bambino pensa una sola cosa per volta ed accosta gli oggetti sulla base di un solo
elemento di analogia. Ne consegue un ulteriore attributo del pensiero infantile che è
l’unidirezionalità, l’ impossibilità del bambino di ripercorrere mentalmente all’indietro un processo
o una trasformazione. La chiave dell’intero processo è data, quindi, dalla capacità di produrre
simboli. In questa età, il simbolo è un segno come lo è la parola o il segno verbale, ma è un segno
individuale che matura attraverso il gioco simbolico che consiste nella trasformazione della realtà in
funzione del desiderio e dell’immaginazione. In esso il bambino attribuisce alle cose un significato
che deriva da immagini che sono dentro di lui (proiezione) e, poi, si identifica con personaggi o
situazioni rese sfruttabili dalla proiezione appena operata.
Bisogna anche capire cos’è l’educazione linguistica?
Lingua e linguaggio sono due parole utilizzate come sinonimi, ma non sono tali. Il linguaggio è la
capacità della mente umana di codificare il pensiero e di usare il codice come fosse il pensiero
stesso; tale capacità viene ereditata geneticamente ed è particolarmente disponibile nei primi anni di
vita, ma deve essere attivata mediante l’apprendimento di una lingua. La lingua è un codice
convenzionale, che ogni gruppo umano si è costituito nel tempo, e la cui forma è data da una scelta
di suoni e loro combinazioni (fonologia) per formare le parole, e da una scelta di parole (lessico) e
di loro combinazioni (sintassi) per formare frasi e discorsi. Tutti i bambini pur possedendo
geneticamente la capacità di linguaggio, devono apprendere ed arricchire la lingua.
L’apprendimento della lingua inizia fra le pareti domestiche, fin dalla nascita, ad opera delle madri
e di altre persone della famiglia. La lingua viene insegnata in modo informale, e appresa nella sua
particolare forma, avviando da un lato il collegamento fra pensiero e codice (funzione semantica del
linguaggio) e utilizzando dall’altro il pensiero codificato, per ottenere scopi importanti nella
comunicazione (funzione pragmatica del linguaggio). I primi scopi o funzioni del linguaggio si
identificano nell’ampliamento della comunicazione non verbale. Altre funzioni, svolte
dall’emergere della parola parlata, sono la funzione interattiva, che funge da intrattenimento
piacevole con la madre, o altri adulti, in giochi ritmati da filastrocche e commenti quotidiani, e la
funzione personale che mira a far affermare la personalità del piccolo. È da questo momento, che
inizia, per tutti i bambini, la necessità di essere coinvolti direttamente in attività di educazione
linguistica, per espandere la forma linguistica con l’ampliamento del lessico e l’espansione della
frase, ma soprattutto per imparare a svolgere autonomamente i diversi usi del linguaggio. A mano a
mano che il bambino cresce scopi e funzioni del linguaggio aumentano e si diversificano,
innestandosi su altre due funzioni: euristica (che cosa so del mondo che mi circonda) e
immaginativa (racconti, resoconti, storie), garantendo anche l’espansione del codice.

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Gli scopi o funzioni del linguaggio sono molteplici, ma tutti possono essere raggruppati in due vaste
categorie: scopi o usi sociali e scopi o usi cognitivi. Gli usi sociali vengono svolti per una
comunicazione diretta fra individui, mentre gli usi cognitivi, che iniziano con la denominazione e il
commento, sottendono la riflessione su ciò che si sta facendo, si è già fatto o si sa fare, e si
estendono con la capacità di descrivere, raccontare, prevedere, criticare, valutare, richiedono al
bambino la capacità di decontestualizzarsi, cioè di astrarsi dalla situazione immediata e reale per
proiettarsi nel lavoro mentale. I bambini non possono espandere il codice soltanto con l’ascolto
orale hanno bisogno di usare tutte e quattro le forme del linguaggio: parlando, ascoltando, leggendo
e scrivendo. Perché tutti gli alunni possano avere l’occasione di ascoltare e di parlare è
indispensabile il lavoro educativo in piccoli gruppi, composto al massimo da cinque bambini.
L’insegnante bisogna che parli e spieghi meno per far parlare soprattutto i bambini, in modo che
essi si sentano protagonisti. È opportuno che venga adottato l’insegnamento per domande, più
efficace sul piano della motivazione, in quanto aiuta i bambini ad evocare quanto essi già sanno. Per
abituare i bambini a parlare con proprietà è indispensabile che l’argomento sia ben conosciuto in
modo che tutta l’attenzione possa essere rivolta solo al livello verbale. I bambini saranno poi
incoraggiati a fissare col disegno, o con la scrittura, l’esperienza fatta nel piccolo gruppo.
Un esempio è dato dall’osservazione individuale, la descrizione verbale e la rappresentazione
grafica di un oggetto o di un “concetto” o di un fenomeno che per bambino è una delle attività più
importanti. Per accostare i bambini alla natura una delle esperienze più coinvolgenti è rappresentata,
appunto, dall’osservazione e manipolazione di piante o parti di esse. La quasi totalità dei bambini,
attraverso opportune sollecitazioni dell’insegnante, evidenziano generalmente alcune caratteristiche
percettive come il colore e la forma. Una breve descrizione di una foglia del tipo “è verde, è un po’
gialla ma anche marrone, è liscia …” può via via arricchirsi di particolari, spesso senza bisogno
della guida dell’insegnante, come la sua consistenza, l’effetto che produce al tatto, l’odore.
L’autunno è il tema di molte attività didattiche, per imparare a sapere osservare la realtà; saper
raccogliere elementi in base ad una richiesta; saper catalogare gli elementi raccolti; saper
individuare classi di appartenenza; saper individuare elementi ed informazioni per definire una
situazione.
Bisogna far provare curiosità, desiderio di esplorare e capire; sviluppare la capacità di cogliere i
dati rilevanti in un fenomeno; la capacità di sviluppare idee in merito a fatti e di comunicarle agli
altri; la capacità di intuire progressivamente il senso del limite di ogni soluzione e di intravedere la
provvisorietà delle spiegazioni; la capacità di provare interesse per le condizioni di vita degli altri
esseri viventi e rispetto per essi; la capacità di apprezzare l’ambiente naturale e di sviluppare
attitudini e impegno per la sua salvaguardia. Esplorare, manipolare, osservare con l’impiego di tutti

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i sensi; confrontare oggetti, scoprendone attributi, somiglianze, differenze; riconoscere attributi in
oggetti o immagini; confrontare due lunghezze e due grandezze diverse; comprendere le dimensioni
spaziali usando correttamente gli indicatori appropriati (grande, piccolo, alto, basso, lungo, corto);
discriminare, conoscere e, rappresentare forme geometriche fondamentali in elementi della natura.
Come primo grado della scuola di base accessibile a tutta la comunità infantile, si propone i
seguenti traguardi formativi:
 sviluppare tutte le dimensioni della personalità del bambino attraverso una specifica
progettualità pedagogica e didattica,;
 allestire ambienti didattici promotori di una effettiva uguaglianza delle opportunità;
 valorizzare l'identità culturale e personale di ciascun bambino.
Lo studio delle fiabe tradizionali fornisce un modello efficace per comprendere le funzioni e le
dinamiche sociali che si esprimono nel gioco. Avvicinare il gioco tradizionale alla fiaba aiuta a
comprendere i processi e le possibili evoluzioni; fornisce inoltre elementi nuovi per adattare le
diverse situazioni di gioco alla realtà dei gruppi. Per certi aspetti i giochi e le fiabe si rivelano come
ambienti dove si possono esercitare modi per ricercare obiettivi specifici di apprendimento. Nella
fiaba e nel gioco i concetti di spazio e di tempo non hanno lo stesso senso che assumono nella
realtà, dove subiscono condizionamenti culturali molto complessi. Nelle pratiche formative per
scegliere i giochi è necessario partire dalla realtà del gruppo che si ha di fronte e dalla scelta
consapevole degli obiettivi che si vogliono perseguire. Per orientare e adattare i giochi alla realtà
nel gruppo occorre individuare: le funzioni esercitate nel gioco; gli scopi e gli obiettivi che si
vogliono perseguire e le dinamiche sociali attive. Giocare significa agire nella realtà con fantasia e
con una coscienza particolare: la consapevolezza di fingere.
Anche il disegno infantile è espressione di un linguaggio naturale di cui il bambino si serve sin dalla
più tenera età per manifestare sentimenti, idee e preoccupazioni. Per il bambino, il disegno è una
forma di gioco tranquillo che non richiede compagni. Al pari del gioco, il disegno offre al bambino
uno spazio protetto per rapportarsi al mondo esterno. Secondo le ipotesi dei teorici della stadialità
dello sviluppo, i disegni dei bambini ne riflettono le rappresentazioni mentali interne; quindi, è
possibile distinguere un “realismo intellettuale” da un “realismo visivo”.
Secondo Rhoda Kellog, nello scarabocchio, il bambino manifesta la sua intenzionalità, la sua
necessità di rappresentare graficamente esperienze, situazioni e oggetti specifici; ma questo non
implica mai una riproduzione realistica. L’autrice identifica tre stadi, attraverso i quali si sviluppa la
capacità grafica che si articolano dai primi segni dei bambini di età inferiore ai due anni alle
rappresentazioni dei bambini di 5 anni, età in cui il bambino comincia a copiare la realtà che lo
circonda:
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1. LO STADIO DEI MODELLI, tipico dei 2 anni e caratterizzato da scarabocchi elementari ,
2. LO STADIO DELLE FORME, tipico della fascia d’età compresa tra i 2-3 anni, nella quale gli
scarabocchi assomigliano sempre di più a forme geometriche;
3. LO STADIO PITTORICO, caratteristico dei 4-5 anni, in cui gli aggregati rappresentando la realtà.
Jean Piaget e Barbel Inhelder ritengono che l’evoluzione del grafismo infantile corrisponda alle
tappe fondamentali dello sviluppo mentale. Secondo questa interpretazione, più il bambino cresce,
più i suoi disegni diventano dettagliati, proporzionati e visivamente realistici.
Eleonora Cannoni fa notare che, pur con le loro limitazioni, i disegni dei bambini di 4-5 anni
rispecchiano due tipi di abilità: cogliere e rappresentare la forma di oggetti famigliari e delle parti
che li compongono (schema della forma dell’oggetto) e collocarli nel foglio, tenendo conto delle
relazioni spaziali non metriche come vicino-lontano, dentro fuori. I bambini, però, non sono ancora
capaci di integrare questi due schemi e di utilizzarli contemporaneamente e, quindi, se sono attenti
all’aspetto di un oggetto, non riescono a controllarne anche la collocazione contestuale. Verso i 5
anni, l’affinarsi delle abilità oculo-motorie ed il progresso cognitivo rendono il bambino un
disegnatore sempre più competente.

22
BIBLIOGRAFIA

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23
INDICE

Pedagogia dei processi formativi e didattici p. 2


Problematiche formative p. 7
Processi di integrazione scolastica e meta cognizione p.12
Una scuola per crescere p.18
Bibliografia p.23

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