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Mancano capitoli 3e 9

CAPITOLO 1: LA DIDATTICA NELLA STORIA DELLA PEDAGOGIA

 Comenio e la nascita della didattica moderna

La parola didattica può essere fatta risalire a Jan Amos Comenio (1592 – 1670): egli, partendo da una forte
tensione etica e religiosa, propose in maniera organica e sistematizzata, per la prima volta nella storia del
pensiero occidentale, una teoria che connetteva la riflessione sull’uomo, con le considerazioni sulla natura
della conoscenza, con le soluzioni pensate per l’organizzazione dei fini, dei mezzi e dei contenuti
dell’insegnamento. La proposta di Comenio di un percorso educativo si basava su scansioni temporali
precise, su strumenti metodologici idonei e su un’adeguata declinazione dei contenuti, ed inoltre qualificava
all’interno della sua teoria, la scuola come un’istituzione privilegiata ai fini della trasmissione delle
conoscenze e dell’acculturazione delle nuove generazioni. Comenio concepiva la formazione delle nuove
generazioni come una possibilità per l’essere umano di attingere al messaggio divino e come cammino di
rigenerazione dell’umanità, ed egli perseguiva questo ideale etico – religioso disegnando un curriculum
formativo caratterizzato da una forte attenzione a:

- esigenze dell’allievo
- metodi di insegnamento
- contenuti
- spazi e materiali
- strutture

L’arte di insegnare secondo Comenio, era strettamente connessa con la natura, poiché da quest’ultima
riceveva le regole alle quali attenersi: il processo educativo infatti deve ripetere l’ordine naturale, ovvero è
tenuto a rispettare il naturale sviluppo del bambino e quindi ad adeguare contenuti, strumenti, metodi e tappe
della crescita dell’essere umano. Ciò spingeva Comenio a ridelineare i contenuti della conoscenza e a
proporre una necessaria ciclicità nel processo di insegnamento e apprendimento: la scuola dovrà quindi
insegnare sempre gli stessi contenuti, ma dovrà mutare le modalità di presentazione di essi e i coefficienti di
difficoltà, basandosi sui principi della gradualità e della continuità  “Tutto sia fatto per gradi”.
La teoria di Comenio definiva il maestro non solo come colui che conosce i contenuti delle discipline, ma
come colui che conosce e sa rispettare i ritmi di apprendimento, le esigenze, i bisogni dell’allievo e sa
adeguare a questi i metodi e gli strumenti. Il riconoscimento di diverse tappe dello sviluppo e della necessità
di articolare i contenuti e le conoscenze in base alle esigenze degli allievi, spinse Comenio a disegnare un
riordinamento dell’istituzione scolastica, proponendo diversi ordini di scuola:

- la scuola materna  fino ai 6 anni, durante la quale sono esercitati i sensi del bambino ed egli è
abituato a conoscere gli oggetti.
- la scuola nazionale o vernacolare  dai 6 ai 12 anni, in lingua nazionale e non latina, per
l’apprendimento di lettura, scrittura, matematica, lavori manuali, primi principi religiosi e morali.
- la scuola latina o ginnasio  dai 12 fino ai 18 anni
- l’accademia  fino ai 25 anni

Il modello di Comenio rifletteva quanto nel corso del 600 gli Stati moderni si erano proposti di attuare,
razionalizzando la scuola e rendendola più funzionale attraverso istituzione di classi,esami,ordini di scuola
differenziati, precise regole disciplinari,indicazioni organizzative riguardo la durata, i contenuti e i metodi
della lezione ed infine attraverso la creazione di testi scolastici. Proprio riguardo questo punto, Comenio può
dirsi uno dei primi autori di manuali scolastici: partendo dal presupposto che ad ogni età deve corrispondere
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una modalità differente di presentazione dei contenuti, egli si occupò del problema dei libri di testo
giungendo a comporre l’ Orbis sensualium pictus (1654), ovvero un manuale illustrato rivolto ai bambini
basato su immagini che stimolassero l’apprendimento di lettura e scrittura. Il modello di Comenio inoltre
prevedeva che la scuola fosse aperta a tutti e a tutte, come sottolineato chiaramente nelle pagine di
Pampaedia  “. . . si desidera che nessun uomo degeneri in un non uomo . . . se si è privi dell’istruzione è
facilissimo degenerare, per la stessa forza della natura umana . . .”. Al fine di proporre una scuola
accessibile a tutti e a tutte, Comenio delinea i vari aspetti della didattica: attenzione ai metodi, agli strumenti,
ai materiali, ai contenuti (quindi a tutto ciò che rimanda all’oggetto del processo di ins – appr), accento sulle
tappe di sviluppo, bisogni, interessi dell’allievo e anche al ruolo e alla formazione del maestro (quindi ciò
che è connesso ai soggetti implicati nel processo di ins –appr.). Comenio ha il merito di aver enucleato con
chiarezza e sistematicità tali tematiche riguardanti la didattica.

 La scuola come contesto istituzionale e il ruolo professionale dell’insegnante

Prima dell’epoca moderna raramente è possibile rintracciare considerazioni relative alla scuola, al processo
di insegnamento – apprendimento, alla figura dell’insegnante e alle finalità dell’istituzione scolastica.

Epoca antica: importanti riflessioni relative alla figura del maestro nel dibattito del V secolo svoltosi ad
Atene tra Socrate e i sofisti  riflessione sul ruolo di chi si occupava della formazione dei giovani che si
affacciavano alla vita politica e pubblica.

- I sofisti si posero come finalità la formazione di individui in grado di far parte delle istituzioni
democratiche, di frequentare assemblee, di esprimersi in pubblico e proposero quindi la figura di
un’insegnante che elargiva il proprio sapere a tutti coloro che potessero ricompensarlo: nasce con il
movimento sofistico, la figura del maestro retribuito, che suscitò scandalo. I sofisti si ritenevano
depositari di un sapere insegnabile a tutti e fondato su specifiche tecniche di
apprendimento/insegnamento, e pubblicizzavano il loro sapere e i loro metodi, al fine di conquistarsi
il maggior numero di clienti. La loro figura suscitò scalpore e disapprovazione perché per la prima
volta l’insegnante non si poneva come colui che fungeva da esempio per il proprio allievo all’interno
di una relazione fondata sull’appartenenza alla stessa categoria sociale, basata sulla pura passione e
quindi sulla gratuità. Il mestiere di insegnare diviene così una vera e propria professione che come
tutte le altre deve anche essere retribuita.

- Il modello proposto da Socrate vede invece il maestro non come un detentore di sapere, ma come
consapevole del proprio non – sapere, e come facilitatore di conoscenze all’interno di una relazione
fondata sulla gratuità perché strettamente connessa con aspetti fortemente etici dell’insegnamento.
La figura dell’insegnante è vista quindi come una missione non retribuibile perché è impossibile
mercificare una relazione che si colloca all’interno di ambito etico e morale “Io sono egualmente
a disposizione di giovani, poveri, ricchi, chiunque mi interroghi e voglia sentire ciò che rispondo.”

Nel corso del tempo il dibattito sulla figura professionale dell’insegnante si assopì, ma comunque non
continuava ad essere tematizzata una concezione della scuola come contesto istituzionale. Da un lato vi
erano le pratiche educative rivolte ai bambini che vedevano maestri impreparati e che fornivano i più
elementari rudimenti di lettura e scrittura, oppure i maestri privati, più competenti ed efficaci ma svincolati
da ogni tipo di contratto e da qualsiasi contesto istituzionale: la figura del maestro di scuola divenne quindi
quasi paragonabile ad una professione umile, di scarso prestigio e bassa cultura. Dall’altro lato,
l’insegnamento rivolto ai giovani, e soprattutto quello praticato nelle scuole di alta retorica e di filosofia,
restò invece una pratica elitaria, dove il maestro era considerato un maestro di vita, ovviamente limitato a
classi sociali elevate ed a situazione di insegnamento per lo più individuali/di piccolo gruppo.
La concezione cristiana vide da un lato la riduzione dei destinatari del processo di
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insegnamento/apprendimento, e quindi la scomparsa delle istituzioni educative e formative, mentre dall’altro
affermò una concezione fortemente moralistica della professione di insegnante.

Umanesimo e Rinascimento: il maestro era inteso come colui che si dedicava ad una prima alfabetizzazione,
era ancora un professionista mal pagato e dotato di scarso prestigio sociale, e mancava anche una concezione
della scuola come istituzione. D’altra parte il maestro all’interno della bottega artigiana divenne insegnante
di tecniche finalizzate a riprodurre l’opera, e a lui l’allievo restava legato anche da un rapporto di affetto.
Il maestro come docente di alta filosofia e retorica era ancora visto come un maestro di vita, valutato in base
alle competenze culturali e soprattutto ai criteri morali e alle caratteristiche biografiche e personali.

Dopo il Seicento: le aporie relative alla figura professionale dell’insegnante furono affrontate in coincidenza
con l’affermazione della scuola moderna e con la nascita di una vera e propria riflessione pedagogica
autonoma, la quale cercava di riconnettere le molteplici dimensioni del processo di insegnamento, e metteva
in luce sia gli aspetti istituzionali della scuola che la necessità di un profilo professionale dell’insegnante.
Comenio si pone l’interrogativo sulla finalità dell’istituzione scolastica, giungendo a definire con chiarezza
una finalità sia di istruzione e di trasmissione di contenuti, sia di educazione e formazione a dei valori.
Di conseguenza, la figura del maestro deve possedere competenze relative alle discipline insegnate, ai
metodi, ai processi di apprendimento e insegnamento ma anche qualità morali ed etici, capacità di stimolare
la riflessione critica e l’acquisizione di valori. Nel corso del 600, molti ordini religiosi fondano collegi o
scuole primarie o di carità con l’obiettivo di diffondere un livello minimo di istruzione ma anche di educare
bambini e ragazzi, anche di ceti subalterni, e di formarli a comportamenti e condotte socialmente accettabili.
La scuola diviene quindi:

- per le classi più abbienti: luogo dove bambini e ragazzi apprendono, oltre ai contenuti disciplinari,
principali regole di igiene, condotte tollerate, comportamenti più opportuni, valori religiosi e morali.

- per le classi più elevate: luogo dove l’apprendimento delle discipline era accompagnato da un
percorso di trasmissione di norme e valori, che passava attraverso le rigide regole e organizzazione
dell’istituzione stessa.

In questo contesto, il profilo professionale dell’insegnante è ancora ancorato a caratteristiche personali,


aspetti morali, e alla sua adesione a comportamenti socialmente auspicati: il buon insegnante conosce i
rudimenti della sua disciplina, e soprattutto trasmette regole morali  non sono invece per nulla previste
alcune capacità didattiche, capacità metodologiche, capacità di relazione e capacità di comunicazione.
Nascono però alcune voci isolate che iniziano ad interrogarsi sul ruolo dell’insegnante: tra questi Montaigne
che, in uno dei suoi Saggi, cerca di delineare il ruolo professionale dell’insegnante non come colui che
trasmette rigide regole morali, ma come colui che sa suscitare nell’allievo spirito critico e capacità di
riflessione, ed egli deve avere “una testa ben fatta piuttosto che ben piena”, ovvero non riempita di nozioni
da illustrare ma dotata di capacità riflessive nei confronti dei contenuti e delle modalità di trasmetterli, ed
anche di capacità relazionali nei confronti dell’allievo.

Epoca illuminista: il dibattito su istruzione, funzione della scuola e ruolo dell’insegnante si fa interessante e
vivace. Significativo l’ Elogio dell’istruzione pubblica di J.A.C. de Condorcet, che descrive funzioni e ruolo
dell’insegnante: egli deve essere assunto con funzione stabile, per un periodo tra i 15 e i 20 anni, il suo ruolo
è incompatibile con cariche pubbliche continuative e con la carriera ecclesiastica, deve superare una sorta di
esame per poter accedere alla nomina, deve occuparsi di insegnare contenuti fondamentali e di stimolare la
capacità critica dell’allievo, mentre la trasmissione di una morale è compito della famiglia.

Ottocento: nonostante le soluzioni proposte nel secolo precedente, durante l’800 permangono ambiguità e
confusione, sia riguardo la concezione della scuola, sia riguardo il ruolo e le caratteristiche dell’insegnante.

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Quando gli stati europei promulgano le legislazioni scolastiche per regolamentare l’accesso all’istruzione e
stabilire obbligo di scolarizzazione, la scuola continua ad assumersi sia un compito connesso con la sfera
dell’istruzione, sia un compito educativo / formativo. All’interno della scuola, gli allievi apprendono i
fondamenti delle discipline, ma anche molteplici insegnamenti e indicazioni sulle condotte e sugli
atteggiamenti. L’insegnante è per esempio incaricato di trasmettere le principali norme di igiene, e questo
compito di trasmissione di norme di comportamento e di inculturazione, è esplicito a livello politico e
culturale: le legislazioni scolastiche si affermano perché lo Stato si pone come finalità non tanto
un’alfabetizzazione dei ceti subalterni, quanto un controllo delle loro condotte, un addomesticamento di
infanzia e adolescenza percepite come selvagge e potenzialmente pericolose per il futuro. Tale finalità
traspare anche con molta chiarezza dalla letteratura per l’infanzia del tempo ( “Pierino porcospino” –
“Giannetto”) che raccontano di bambini sporchi, violenti, capricciosi che vengono puniti in maniera
esemplare, oppure di racconti morali che miravano a scolpire i doveri verso Dio e la Patria. E’ quindi
evidente un intento persecutorio e moraleggiante che mira a stigmatizzare i comportamenti quotidiani dei
bambini e le difficoltà di apprendimento delle regole di igiene. La scuola come istituzione finisce per
assumersi finalità di istruzione subordinate a finalità educative, che però non coincidono con la formazione
di uno spirito critico e con lo sviluppo di capacità di rielaborazione personale e di autonomia di giudizio.
Tale situazione caratterizzò per decenni la scuola italiana, e si acuisce con l’avvento della dittatura fascista,
durante la quale si verificò una compenetrazione tra istruzione ed educazione, intesa come formazione di
cittadini plasmati a regole sociali e valori costruiti dalla sfera politica, come testimoniato dai libri di testo,
dalla struttura assunta dall’istituzione scolastica, dall’obbligo di giuramento da parte dei docenti.

Novecento: le contraddizioni che hanno caratterizzato la scuola come contesto istituzionale nell’800 e inizio
900, erano presenti anche riguardo alla definizione della figura professionale dell’insegnante. Le grandi
legislazioni scolastiche in Europa tra 700 e 800, misero in luce la scarsa preparazione e lo scarso prestigio
sociale degli insegnanti, ma anche la mancata definizione di un curriculum formativo e di un ruolo
professionale. Riemersero concezione che riconducevano l’insegnamento ad una sorta di professione atipica,
una sorta di missione,con la coincidenza tra competenze professionali e qualità morali. Con le leggi su
obbligo scolastico si ha la conseguenza di diffusione improvvisa di numerosi istituti scolastici: tale
situazione si scontrò con la mancanza di un numero adeguato di insegnanti e con la pratica diffusa di
assumere come docenti persone non sempre provviste di titolo idoneo o dotate di opportuna preparazione.
Gli insegnanti erano religiosi o ex religiosi, persone dedite ad altre professioni o persone che solo in parte
avevano frequentato un curriculum formativo, inoltre l’assunzione era legata più che altro all’intercessione di
personalità influenti o a legami di parentela altolocati, e non invece all’accertamento di un adeguata
preparazione. Questa situazione comportò per lungo tempo la mancata definizione di un curriculum
formativo e di un ruolo professionale, e l’incapacità di definire reali competenze richieste agli insegnanti
favorì la sovrapposizione tra accertamento di qualità professionali e controllo di qualità morali. L’immagine
di insegnante è trasformata in una sorta di missionario a cui erano richiesti sacrificio, dedizione, scarso
attaccamento al denaro, moralità conforme ai valori socialmente accettati: gli insegnanti vivevano il proprio
ruolo con difficoltà e frustrazione, scarso impegno e poca preparazione, svolgendo altre occupazioni.
Nel caso delle maestre elementari, la sovrapposizione tra competenze professionali e qualità morali si
manifestò in maniera drammatica: esse dovevano esibire al momento dell’assunzione, un certificato di
illibati costumi, erano giudicate in base alla moralità e al comportamento, e non secondo le specifiche
competenze, e i requisiti richiesti a una futura maestra erano quasi del tutto connessi con la moralità.
Poche furono le riflessioni che la cultura pedagogica proponeva per tentare di superare tale concezione:

- Maria Montessori: ella riqualificava il ruolo della maestra, indicando la necessità di possedere
capacità di osservazione sistematica e di studio psicologico del bambino, ed inoltre anche la
necessità di un adeguato curriculum formativo, fondato sull’acquisizione di competenze relazionali e
contenutistiche, e sullo svolgimento di un periodo di tirocinio guidato. L’attitudine della maestra

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deve essere insieme positiva, scientifica, spirituale, essa va ad osservare la vita interiore dell’uomo:
la Montessori così evidenzia le competenze e abilità richieste all’insegnante, uscendo da
un’immagine di maestra con poca passione per il suo mestiere o da quella di una maestra come
semplice dispensatrice di conoscenze.

- Movimento attivista: ha cercato di definire il ruolo dell’insegnante con maggior chiarezza, anche al
fine di definire un curriculum formativo adeguato. Mario Lodi fece riflessioni riguardo la necessità
di una scuola che sappia offrire occasioni adeguate di apprendimento a tutti, grazie alla guida di
insegnanti formati non solo a livello di contenuti disciplinari ma anche di competenze
metodologiche, relazionali, e di capacità di lavorare in team.  insegnante = animatore, amico,
punto di riferimento, modello.

Oggi: istituzione di percorsi formativi universitari e post universitari ha promosso superamento di una
formazione professionale esclusivamente contenutistica, che richiedeva alla maestra la comprensione e
conoscenza della propria disciplina, tralasciando formazione didattica e relazionale. Questi cambiamenti
hanno portato ad una proficua ridefinizione del ruolo e del profilo professionale dell’insegnante, e di
conseguenza anche ad una riflessione sulla scuola come contesto istituzionale. Il compito della scuola e
dell’insegnante è quello di realizzare un’adeguata ed efficace trasmissione di conoscenze e competenze,
rispettosa dei ritmi di apprendimento, fondata su metodologie diversificate, conscia degli aspetti relazionali.
Accanto a questo compito si forma un processo di educazione/formazione intesa come promozione dello
sviluppo di capacità di rielaborazione personale, capacità critiche, autonomia di giudizio e di elaborazione di
valori personali.

 La relazione educativa nella scuola

Nel corso dei secoli, la problematica della relazione tra maestro ed allievi si è manifestata all’interno delle
teorie pedagogiche, ed emerge con chiarezza nella considerazione delle pratiche educative, da sempre
caratterizzate da determinati modi di intendere tale relazione.

Socrate e Sofisti: nel V secolo ateniese, quando comparsero i primi discorsi sull’educazione, Socrate e i
sofisti proponevano modelli diversi di intendere il ruolo dell’insegnante e quello dell’alunno. Socrate rifiuta
di definirsi maestro, sostenendo di “non sapere” e proponendosi come guida del processo di
apprendimento/insegnamento: in quest’ottica tale processo non si basa su una relazione tra eguali, ma
neanche su una relazione tra un’autorità e un discepolo, o tra chi detiene il sapere e chi invece deve
acquisirlo. Socrate infatti vede il sapere come già presente nell’alunno, e il maestro ha quindi il compito di
rendere l’allievo consapevole di tale sapere. La visione proposta quindi tende a ridistribuire le autorità tra i
due poli della relazione, e può essere rintracciata nei dialoghi di Socrate con i suoi allievi, dialoghi che si
basano su interrogativi mirati a condurre i discepoli a scoprire una verità in realtà già posseduta. Al contrario
invece, i sofisti, sostengono l’idea che il maestro sia colui che insegna, e l’allievo colui che apprende, quindi
il maestro detiene il sapere e ne rende partecipo l’allievo. In entrambe le concezioni non è comunque
presente la problematica della necessità di conquistare e mantenere l’attenzione degli allievi, in quanto si da
per scontato che essi scelgano liberamente di porsi nella situazione di apprendimento e la relazione è
percepita più come un rapporto individuale che come rapporto con un gruppo di discenti.

Antichità: per quanto riguarda le pratiche educative, la relazione tra maestro ed allievo, ebbe caratteristiche
che restarono quasi immutate nel corso dei secoli e che non furono mai toccate dal dibattito teorico. Si ha
un’immagine di maestro dedito a mantenere la disciplina e a ottenere attenzione e impegno dei propri allievi
tramite punizioni esemplari. Tale modalità era connessa con le uniche metodologie utilizzate, fondate sulla
ripetizione mnemonica e su una trasmissione di conoscenze meccanica e superficiale: ciò mostrava una
relazione basata sul potere da parte dell’adulto, potere che riguardava anche controllo corpi/condotte.
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Nei gradi più elevati di istruzione, nell’antichità, la relazione tra allievo e insegnante si basava su un modello
asimmetrico, consono ad una metodologia basata sulla lezione frontale, sulle spiegazioni, interrogazioni ed
esercitazioni, irrigidite in una comunicazione meccanica e stereotipata. Poche furono le voci discordanti in
questo contesto, e tra queste si può ricordare quella di Quintiliano, che condanna il ricorso a punizioni fisiche
e sottolinea come il maestro debba essere in grado di attirare l’attenzione dei propri allievi grazie alla
capacità di calibrare il proprio intervento sugli interessi degli alunni e alla capacità di utilizzare metodologie
adeguate alle età e che suscitino curiosità. La voce isolata di Quintiliano ha il merito di aver messo in
connessione la condotta dei ragazzi e la relazione tra maestro e allievi con le metodologie e con la
motivazione e l’interesse.

Medioevo: le metodologie didattiche sono sempre più codificate con la lezione frontale, articolata nella
lettura da parte del maestro e nell’ascolto e memorizzazione silenziosa da parte dell’allievo  ciò
sottolineava il ruolo e il potere dell’autorità, da parte dei testi e da parte del maestro. La relazione con la
classe era fondata sull’ottenimento dell’attenzione tramite il controllo delle condotte, grazie all’uso di
punizioni esemplari con la forza.

Età moderna: si verificano mutamenti sostanziali nella percezione, nella rappresentazione dell’infanzia e
nell’organizzazione scolastica, con la diffusione dei primi istituti per l’istruzione e la formazione di base.
Comenio, in tale situazione, offre indicazioni significative, dedicando pagine delle sue opere al problema
della disciplina, connettendolo alla motivazione e condannando i metodi punitivi ribadendo che è importante
prevenire, amministrare, e non infliggere punizioni per incapacità di imparare o per manchevole volontà di
imparare, ma solo per ostinazione. Sostiene quindi che l’ottenimento della disciplina è perseguibile tramite la
“piacevolezza” dell’insegnamento, e quindi tramite metodi commisurati ai bisogni e agli interessi dei
bambini e dei ragazzi, e attraverso una progettazione dei contenuti rispettosa delle capacità delle diverse età.
Queste indicazioni però rimasero inascoltate, e si verificarono situazioni del tutto opposte: si diffonde una
microfisica del potere e l’insegnante è colui che “controlla” la classe.

Settecento: si assiste ad una prospettiva rivoluzionaria, con la riflessione pedagogica di Rousseau, che
ridelinea il percorso educativo e formativo del bambino e del ragazzo partendo dalla centralità della relazione
con l’adulto. La sua opera contiene continui richiami all’importanza della curiosità, dell’interesse, dei
bisogni del bambino  sostiene necessità del rispetto della libertà dell’allievo. Egli ha il merito di porre in
luce l’importanza della relazione e della motivazione, e di riconnettere questa dimensione con quella dei
metodi educativi, improntati alla scoperta e ad un apprendimento non artificioso. A fronte di queste
riflessioni significative, le pratiche educative nei contesti scolastici restarono comunque contrassegnate da
una modalità di relazione tradizionale.

Novecento: grazie sia alle riflessioni pedagogiche che ai mutamenti presenti nelle pratiche educative, la
problematica della relazione assume significativa centralità, soprattutto grazie alla diffusione delle scuole
attive in Europa. All’interno del movimento attivista, il ruolo dell’insegnante muta, poiché egli assume
compiti di regia educativa e di progettazione di spazi e materiali, egli diviene una figura che affianca i
bambini e i ragazzi nello loro scoperte autonome, rimanendo sullo sfondo e riducendo i propri interventi.
Sono messe inoltre in atto metodologie innovative, fondate su uso di materiali di recupero, gruppi di lavoro,
manipolazione e scoperta, e non più sulla sola lezione frontale di spiegazione da parte dell’adulto.
Le riflessioni di Maria Montessori sono un esempio di quanto la tematica della relazione sia intrecciata a
quella delle metodologie e dell’organizzazione della scuola e della classe e soprattutto a quella della
motivazione e dell’interesse: ella dice che la disciplina non si potrebbe mai ottenere con dei comandi o delle
predicazioni, ma il metodo per raggiungerla è il lavoro, e quando un bambino si interessa vivamente ad un
lavoro, allora è sulla via della disciplina. Il nuovo tipo di concezione della disciplina della Montessori,
ridefinisce il ruolo e la professionalità dell’adulto: la maestra deve imparare il silenzio, deve osservare, deve
assumere una veste di umiltà, la sua cooperazione è prudente, delicata e multiforme, quel che occorre è la
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sapienza nell’osservare, nel servire, nell’accorrere, nel ritirarsi, nel parlare o nel tacere. All’interno del
movimento attivista inoltre, la tematica della relazione educativa non è connessa solo con la motivazione e
l’interesse ma è anche intrecciata alle sfera delle relazioni tra coetanei e alla sfera delle metodologie.
Le considerazioni di Dewey appaiono molto articolate: egli attribuisce alla scuola il compito di educare alla
vita sociale e democratica e di conseguenza attribuisce all’insegnante il ruolo di sollecitare gli allievi alla
discussione. La relazione tra insegnanti e allievi e tra coetanei è strettamente connessa all’adozione di una
metodologia fondata sulla sperimentazione e sulla verifica di ipotesi tramite il confronto democratico:
all’interno di questa prospettiva, il termine “disciplina” assume il significato di “decisione, persistenza,
determinazione". Il ruolo dell’adulto resta quindi sullo sfondo e la relazione è improntata al rispetto degli
interessi e delle motivazioni degli allievi, e alla capacità di favorire, la dialettica tra esigenze individuali e
sociali e la possibilità della mediazione reciproca, anche in caso di conflitto tra singoli o tra gruppi.
Le riflessioni proposte ebbero scarsa diffusione in Italia nella prima metà del 900, poiché infatti si stava
diffondendo il modello neoidealista proposto da Giovanni Gentile: all’interno di tale modello la relazione
educativa viene risolta in un processo di identificazione e di unificazione tra maestro ed allievo, e tramite la
lezione frontale (unica metodologia didattica riconosciuta come valida) gli allievi accettano la volontà del
maestro, il quale non deve quindi porsi il problema del rispetto degli interessi degli alunni o della loro
motivazione ad apprendere. Tale concezione gentiliana caratterizzò i programmi della scuola del 1923.
Nella seconda metà del 900 invece si diffondono con maggior vigore in Italia concezioni differenti che si
basavano su una prospettiva attivista: esse propongono una relazione tra allievo e insegnante improntata alla
fiducia e alla promozione dell’autonomia, perseguita anche grazie ad un’organizzazione innovativa della vita
scolastica e all’adozione di metodologie didattiche divergenti rispetto alla tradizionale lezione frontale come
lavori di gruppo, laboratori, stamperia. Negli anni 70 infine, la tematica della relazione educativa assume
grande centralità nel panorama educativo e pedagogico.

 La progettazione degli spazi scolastici

La strutturazione dello spazio, l’uso di determinati materiali e la collocazione degli edifici scolastici
all’interno del tessuto abitativo, costituisce una dimensione essenziale del processo educativo: si tratta di un
aspetto che si intreccia in modo significativo con tutte le altre dimensioni dell’educare, come gli obiettivi
formativi, le metodologie utilizzate, le modalità relazionali e comunicative. . . Tale tematica è marcata nella
nostra cultura spesso dalla mancanza di un’esplicitazione degli obiettivi perseguiti attraverso essa e dalla
mancanza di consapevolezza della sua importanza.

Antichità: la strutturazione degli spazi scolastici è stata caratterizzata dalla mancata progettazione, anche a
causa dell’assenza di una politica scolastica. Il maestro si trovava a svolgere le proprie lezioni in edifici
semipubblici, non progettati per accogliere gli allievi, mentre per i gradi più elevati di istruzione era presente
una maggior progettazione della dimensione spaziale.

Epoca moderna: la strutturazione dello spazio e l’uso dei materiali assumono centralità e vengono tematizzati
all’interno della riflessione pedagogica e nella progettazione di interventi. Durante il 600 vi è la diffusione di
istituzioni scolastiche moderne, e l’affermarsi di una vera e propria riflessione a livello politico e
amministrativo, che prende in considerazione la dimensione spaziale connettendola con la concezione di
scuola, insegnante ed infanzia. Le finalità sia dei collegi che delle scuole ( inculcare norme di
comportamento, pratiche igiene, abitudini di vita, buone maniere) influenzarono pesantemente la struttura
architettonica, l’arredo, la strutturazione interna delle istituzioni scolastiche  gli edifici scolastici sono
quindi progettati in funzione del controllo delle condotte:

- divisioni in classi, seppur numerose, per maggior ordine


- corridoi ampi e vuoti per evitare assembramenti pericolosi
- finestre molto elevate per impedire fughe da parte degli allievi
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L’organizzazione interna e l’arredo dell’aula vedono una situazione così posta:

- allievi collocati ciascuno al proprio posto in base a criteri di condotta e profitto scolastico
- banchi concepiti per correggere posture reputate non adeguate o prive di decoro
- comparsa di cartine geografiche e cartelloni per necessità del mostrare e far copiare
- quaderni sotto forma di risme di carta rilegate
- libro di testo come sorta di compendio enciclopedico dei principali contenuti delle discipline

Ottocento: la promulgazione delle legislazioni scolastiche fece sì che si decretassero norme relative agli
spazi, all’organizzazione e ai tempi delle attività scolastiche. In Italia la strutturazione degli spazi e degli
arredi scolastici era caratterizzata e condizionata da:

- una connessione con una didattica fondata sulla lezione frontale e quindi estremamente passiva
- una concezione della relazione educativa finalizzata al mantenimento di una disciplina rigorosa e al
controllo di condotte e comportamenti
- la situazione di degrado che affliggeva la scuola italiana

In molte zone, gli edifici adibiti ad istituzioni educative e scolastiche erano costruzioni erette per tutt’altre
finalità e utilizzate precedentemente anche per attività di altro genere, come vecchie fabbriche o vecchie
abitazioni. In casi come questi, i pochi interventi apportati erano finalizzati ad ottenere spazi minimamente
utilizzabili per le lezioni e per la possibilità di controllo delle condotte degli allievi.

Novecento: l’Italia non conobbe alcune esperienze innovative fino alla prima metà del 900, e quindi permase
una strutturazione fondata sul controllo delle condotte funzionale ad una didattica passiva e tradizionale.
Successivamente nacquero proposte da alcuni esperti:

- sorelle Agazzi: pur ponendo un forte accento sull’ordine, propongono un utilizzo di materiali poveri
e di riciclo, per favorire attività di scoperta e creatività, e suggeriscono uso innovativo dello spazio,
dando vita al “museo”, ovvero la realizzazione di cartelloni e opere da parte dei bambini.

- Giuseppina Pizzigoni: con l’esperienza della Rinnovata, decentrava la scuola collocandola


all’interno di spazi aperti per coltivare, stare a contatto con la natura, dedicarsi alla cura di animali e
ad attività di libera scoperta, di gioco, di manipolazione e di creatività.

- Maria Montessori: propone realizzazione di spazi, ambienti, materiali esclusivamente a misura di


bambino, rivoluziona la concezione dello spazio educativo ai fini di una didattica centrata sul nuovo
ruolo dell’insegnante (regista), e su un’immagine attiva, competente e autonoma del bambino.

Gli esponenti delle scuole attive, cominciarono a proporre metodologie didattiche che implicavano materiali
differenti dal consueto arredo scolastico: l’aula si apriva ad un uso più ampio e autonomo da parte del
bambino, gli spazi si moltiplicavano e si diversificavano, gli arredi erano costituiti da tavoli comuni, da
pannelli, da scaffali per la raccolta di materiali più vari. La strutturazione di spazi ed arredi diveniva così
subordinata ad un’attenta comprensione dei bisogni o degli interessi del bambino e funzionale ad un ruolo
educativo dell’adulto più simile alla regia e alla guida, e non basato su spiegazioni e interrogazioni.

 Il trattamento delle diversità fra garanzie di uguaglianza e valorizzazione delle differenze

La storia dell’educazione e della pedagogia in Occidente, è marcata dall’eliminazione della problematica


delle differenze individuali, nelle teorie e nelle pratiche educative, fino agli ultimi decenni. Fin dall’antichità,
l’educazione doveva rivolgersi all’individuo sano, maschio, libero, di classi sociali elevate, e aveva come
finalità la formazione di un adulto caratterizzato da tratti fisici e psicologici predefiniti. Era eliminata

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qualsiasi differenza di cui il soggetto avrebbe potuto essere portatore: differenza di abilità, differenza
cognitiva o emotiva, di genere, culturale, di classe ecc … Per quanto riguarda le differenze di genere invece,
le bambine erano percepite con caratteristiche molto differente dai bambini, si credeva che esse erano prive
di qualità fondamentali, e quindi era indicato per loro un itinerario formativo fondate sulla debolezza
emotiva, cognitiva e sulla fragilità delle bambine. Rousseau infatti indica nell’ Emile, che la donna è
destinataria di un’educazione complementare e ornamentale rispetto a quella maschile, proprio perché priva
delle caratteristiche ideali del normale individuo, come capacità di giudizio e di controllo, dominio delle
passioni e dell’emotività, saldezza, vigore ecc. . . A queste convinzioni, si sono opposte delle riflessioni che
tendevano ad eliminare le differenze cancellandole, o riservando loro spazi, tempi, modalità separati.

- Antichità: i contesti formativi istituzionalizzati erano pensati solo per una ristretta categoria di
persone, e l’affermazione delle prime istituzioni scolastiche comportarono l’esclusione di alcuni
soggetti educativi. La scuola era riservata a bambini maschi, liberi e provenienti da famiglie che
potevano permettersi di pagare lo stipendio ai maestri. Le istituzioni educative successive ai primi
ordini scolastici vedevano restringersi il numero di frequentanti, che erano solamente chi aveva la
possibilità di perfezionare studi di retorica per dedicarsi alla speculazione o alla vita politica.
In epoca greca e in quella romana si perpetuò tale modello scolastico: i soggetti educativi
coincidevano con una minoranza di individui sani, maschi e senza preoccupazioni economiche.

- Medioevo: l’alfabetizzazione era riservata solo ad un gruppo ristretto di soggetti e conobbe solo una
parziale inversione di tendenza dopo l’Umanesimo e dopo il Rinascimento.

- Epoca moderna: la diffusione di istituti scolastici anche per i meno abbienti comportò un
ampliamento dei soggetti educativi, che potevano comprendere anche bambini e ragazzi di classi
sociali meno elevate e in rari casi anche bambine.. Per quanto riguarda le bambine e le donne furono
attuati percorsi formativi ed educativi differenziati: tali percorsi escludevano l’accesso all’istruzione,
e si proponevano lo sviluppo di minime capacità di lavori domestici e una rigida educazione al
controllo del corpo, dei comportamenti e della parola. I diversamente abili non potevano giungere
alle soglie delle istituzioni educative ed erano stigmatizzati come soggetti ineducabili e
irrecuperabili, e solo con l’epoca moderna il trattamento della disabilità subì un radicale mutamento:
gli Stati nazionali diedero infatti il via alla fondazione di numerosi ospedali e case di cura, anche se
in realtà erano solo ricoveri coatti in luoghi poco igienici e senza un adeguato sistema formativo.

- Ottocento: Itard  tentativo di riabilitazione e recupero del ragazzo selvaggio, con obiettivo di
disegnare per la prima volta un curriculum educativo per soggetti diversamente abili.
Successivamente si tentò di migliorare la definizione di disabilità, proponendo una maggiore
sistematicità nella diagnosi e nelle terapie. Vicende analoghe interessarono anche i minori devianti,
cioè tutti quei bambini e ragazzi che manifestavano comportamenti socialmente devianti o
inaccettabili: erano anche loro considerati soggetti non educabili e non recuperabili e in passato
venivano internati e giudicati dalla giustizia, non potevano quindi accedere ai percorsi formativi.

- Novecento: queste concezioni sono sottoposte a critiche, da parte di alcuni pensatori e alcuni
movimenti, e la storia del 900 in Italia è caratterizzata da un progressivo ampliamento dei soggetti
educativi. Le leggi scolastiche, in Italia e negli altri paesi europei, comportarono una parziale
ammissione di alcuni soggetti educativi, prima esclusi, alle istituzioni scolastiche: venne stabilito
l’obbligo di scolarizzazione, per bambini e per bambine (non avvenne in tempi brevi), ma non per i
diversamente abili, che erano considerati come destinatari solo di una specifica educazione. Anche le
teorie pedagogiche iniziarono a tematizzare tale problematica: significativa l’opera di Maria
Montessori, la quale si occupò di bambini diversamente abili, giungendo alla considerazione di non
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utilizzare metodi educativi per normodotati applicandoli senza alcuna modifica ai bambini disabili.
Con la fondazione del metodo montessoriano e delle Case dei bambini, la Montessori propose una
concezione in cui non c’è soluzione di continuità tra normalità e anormalità, dove la disabilità è una
possibilità di comprendere meglio tutte le differenze di cui i soggetti possono essere portatori.

- Oggi: il tema delle differenze è divenuto centrale nella riflessione pedagogica e nelle indicazioni
presenti nei documenti ministeriali. Si è affermata una prospettiva di individualizzazione, intendendo
con tale termine la necessità di progettare strategie didattiche che permettano a tutti di raggiungere
competenze ritenute fondamentali nel curriculum, ciascuno a partire dalle proprie differenze e
tramite l’uso delle proprie caratteristiche. Si è parlato anche di personalizzazione, intendendo il
raggiungimento di obiettivi diversificati a seconda delle caratteristiche di ciascun soggetto educativo,
che è stimolato ad una propria eccellenza e a coltivare le proprie potenzialità. Oggi la scuola accoglie
soggetti con potenzialità, strategie, provenienze diverse, ed è chiamata a superare una percezione
stereotipata delle differenze e delle disabilità. Non deve ricadere nella tendenza a formulare
previsioni negative che condannano gli tali soggetti a percorsi formativi con obiettivi ridotti.

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CAPITOLO 2: L’AZIONE DIDATTICA

 Dal passato al presente, prime riflessioni sulla didattica

La didattica ha avuto un’evoluzione estremamente complessa nel suo procedere all’interno dello sviluppo
dell’umanità, e molti autori hanno voluto riflettere non solo teoricamente, ma anche cercando di dar voce ad
un’azione concreta. Comenio è il capostipite di questa necessità di realizzare concretamente teorie
pedagogiche, ed egli nel 600 riuscì a sviluppare una teoria che connetteva la riflessione sull’uomo, con le
considerazioni sulla natura della conoscenza, con le soluzioni pensate per l’organizzazione dei fini, dei
mezzi, dei contenuti di insegnamento. La scuola, diveniva così il luogo privilegiato nel quale l’educazione
formale, articolati in cicli, pensata nelle scansioni temporali e contenutistiche, attenta ai metodi, agli
strumenti, e ai materiali, poteva prendere vita. Oggi, la didattica è definita da M. Castoldi, come una
disciplina antiche che negli ultimi decenni ha subito una profonda trasformazione sul piano dei significati e
delle procedure operative. E’ importante che passato e presente si prendano per mano nell’analizzare i
contenuti della didattica, in quanto spesso oggi si definiscono “nuovi” alcuni concetti che sono presenti già
da secoli nella cultura pedagogica, come la centralità dell’alunno o il ruolo dell’esperienza.

Lo sviluppo storico della didattica influenza potentemente ancora oggi le nostre scelte e il nostro agire, ed è
fondamentale ripartire dalla parola didattica osservandola e analizzandola.

- L’etimologia del termine “didattica” rimanda al greco “didaskein” ovvero “insegnare, mostrare”,
che a sua volta deriva dalla radice “dak, dek” cioè “ricevo, accetto, raccolgo, approvo, confermo”.
Il termine dunque richiama tutto ciò che può essere ricondotto all’insegnamento e apprendimento.

- Possono esserci più definizioni della parola.


Didattica: quella parte dell’attività e della teoria educativa che concerne i metodi di insegnamento.
Si distingue una didattica generale, riferita ai criteri e alle condizioni generali della pratica
educativa, dalle didattiche speciali, relative alle singole discipline di insegnamento o alle
caratteristiche particolari dei soggetti dell’apprendimento. (Enciclopedia Treccani)
Didattica: parte della pedagogia che ah come oggetto lo studio delle tecniche e dei metodi
dell’insegnamento. (Dizionario Hoepli)

Le voci di alcuni studiosi italiani pongono in luce diversi aspetti della parola didattica:

- P. Calidoni, parla di un uso corrente della parola, che rimanda all’insegnamento formale e strutturato
nei contesti scolastici, e segue procedure consolidate. La didattica è considerata un’azione
organizzata, strutturata e metodica di trasmissione o avviamento o trasferimento a un sapere che
utilizza tempi e luoghi specifici, differenti dal mondo quotidiano, che nasce da una relazione
asimmetrica tra chi possiede una conoscenza e chi invece non la ha. Sono escluse da tale prospettiva
tutte le occasioni incidentali di insegnamento apprendimento, richiamanti un’educazione informale.

- F. Frabboni evidenzia l’aspetto della relazione e dell’interazione tra apprendenti e oggetti


dell’apprendimento, non limitandosi alle conoscenze, ma esplorando anche aspetti sociali e affettivi.

- A. Calvani sottolinea l’importanza della mediazione come punto nodale dell’azione didattica, ed
introduce la nuova parola di dispositivo didattico.

- R. Cerri interpreta la didattica come un complesso di saperi teorico – pratici, e se assunta come guida
dell’agire educativo, trasforma in azione la riflessione sui processi educativi e culturali.

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I punti fondanti del discorso sulla didattica sono: rapporto tra discente e docente, relazione tra gli apprendenti
e gli oggetti culturali, le metodologie utilizzate, i dispositivi proposti, la relazione teoria – pratica.

 L’azione didattica

Partendo dall’agire e riconoscendolo come elemento fondante della didattica, è denominata l’azione
didattica, che si potrebbe assumere come unità di questo agire, punto di riferimento per approfondire
contenuti specifici della stessa didattica.

Azione didattica: insieme dei diversi elementi/variabili che concorrono a costituire il processo di
insegnamento/ apprendimento. Insieme dei gesti, degli atti, delle relazioni educative in cui si svolge il
processo di insegnamento apprendimento, in un dato contesto didattico, scolastico, legislativo, sociale,
utilizzando diversi strumenti/materiali e metodologie. (Nigris)

Se provassimo ad immaginarci all’interno di una scuola, potremmo vedere un insegnante che fa una lezione a
dei bambini o a dei ragazzi, o che svolge compiti legati al suo mandato istituzionale. Della lezione
osserviamo i vari gesti, i comportamenti che si vengono a compiere, e questi atti specifici sono l’espressione
e la messa in pratica di scelte realizzate precedentemente, e che attiveranno nell’immediato presente o in un
futuro prossimo, delle risposte e delle azioni da parte degli alunni. Questi atti rispondono alle caratteristiche
peculiari dell’azione didattica? Possiamo notare come molte volte ci si trova di fronte a delle specifiche
attività, e non a delle vere e proprie azioni didattiche: l’attività didattica è la singola proposta di lavoro che il
docente rivolge agli alunni, con tempi, spazi, obietti, compiti, consegne, specifiche e più o meno espliciti.
Si percepisce dunque che l’attività abbia un orizzonte più limitato, riferito a singoli atti, mentre nell’azione
didattica possiamo riuscire a rintracciare l’esplicitarsi del processo di insegnamento – apprendimento.
Le azioni didattiche possono essere estremamente diverse anche se riguardano lo stesso argomento: esempio
lezione di storia e approfondimento relativo al Neolitico in una scuola primaria  il docente può scegliere di
leggere direttamente dal testo, può raccontare narrando, può iniziare con un brainstorming, portare degli
oggetti, iniziare con una discussione, utilizzare fonti come foto e video ecc. . . la pluralità di possibilità è
infinita per condurre il processo di insegnamento – apprendimento. Le Indicazioni Nazionali porgono una
traccia, offrono appunto delle indicazioni e dei suggerimenti, ma la scelta di quale azione realizzare con la
propria classe diviene poi elemento singolare della scelta di ogni docente, scelta che si presuppone condivisa
con la comunità di altri insegnanti, e che è influenzata dai paradigmi epistemologici propri di ogni docente.

Insegnare e apprendere sono i due verbi che fondano l’azione didattica: essi sono due processi paralleli che
interagiscono e reificano un sistema co – emergente. I due processi e la fase in cui essi interagiscono
costituiscono differenti dimensioni spazi temporali, che pur comunicando, seguono traiettorie autonome.
Apprendere è una modalità connaturata dall’uomo, prosegue lungo tutto il corso della vita, non è specifica
solo all’esperienza scolastica, ma nasce da esperienze informali. Nell’educazione formale però, vi sono
alcune condizioni determinate e pensate apposte per favorire la realizzazione dell’apprendimento.
Insegnare è invece un’attività che caratterizza in particolar modo i docenti, i quali predispongono tempi,
spazi, ambienti educativi, dispositivi, in cui i processi educativi possano attuarsi, ma per fare ciò i docenti
sono solo gli attori co – primari, mentre i protagonisti sono gli alunni.

I due processi di insegnamento e apprendimento possono viaggiare in modo autonomo e indipendente, ma


esistono momenti in cui si intersecano, si fondono, diventano un processo unico: queste situazioni sono gli
spazi in cui nasce e si sviluppa il fenomeno dell’azione didattica. All’interno dello spazio dell’azione
didattica, insegnanti e alunni operano ciascuno a fianco dell’altro, mettendosi in gioco, imparando
reciprocamente, costruendo nuovi saperi. L’azione è un momento storico, che ha un suo passato e un suo
sviluppo nel futuro, e modifica in modo esplicito le persone coinvolte.

Affinché l’azione diventi in modo specifico un’azione didattica, vi sono tre dimensioni specifiche:
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1. Dimensione metodologica: in cui l’incontro con gli allievi e i contenuti è presente nelle sue modalità.

2. Dimensione relazionale – comunicativa: in cui si mette a tema il rapporto tra docenti e studenti.

3. Dimensione organizzativa: si occupa dei setting formativi.

Accanto a tali dimensioni, vi sono una dei principi che caratterizzano l’azione didattica, ovvero: la
significatività, la motivazione, la direzione, la continuità, l’integrazione, la trasferibilità linguistica.

Per entrare nello specifico dell’azione didattica, bisogna osservare gli elementi che la costituiscono, e per
farlo sono utilizzate le cinque W (Who – Where – What – When – Why) e How:

1. WHO: chi è direttamente implicato nell’azione didattica? Chi la genera? Chi contribuisce al suo
sviluppo? È possibile notare che durante una lezione in classe, ogni persona presente è coinvolta
direttamente nell’azione  il docente l’ha progettata e messa in pratica con un preciso obiettivo,
pensando direttamente agli alunni, che sono gli interlocutori partecipanti dell’azione. Questa è quindi
progettata esplicitamente per qualcuno, per dare via ad altre nuove azioni di apprendimento.
E’ importante non dimenticare che non bisogna chiudersi ad osservare la relazione biunivoca tra
docenti e alunni, ma cogliere anche la ricchezza delle relazioni tra pari: l’agire del docente coinvolge
infatti il gruppo classe, che si comporta come un sistema con una propria specificità, e si può parlare
allora di un apprendimento collaborativo, che si fonda sull’idea che ognuno di noi impara dall’altro e
al contempo ciascuno è responsabile del processo che si sviluppa. E’ possibile riflettere allora su
come possa essere diversa un’azione didattica a seconda della relazione individuata
consapevolmente dalle scelte tra docenti e alunni.

2. WHERE: l’azione didattica è un dato fortemente legato ad un dove, ad un luogo in cui l’incontro tra
insegnanti e alunni è messo in atto. La scuola dispone di diversi spazi come le sezioni, le aule, i
laboratori, le biblioteche, i corridoi, i cortili  si tratta di spazi interni ed esterni (dentro le mura
scolastiche) oppure spazi al di fuori, sperimentati durante le uscite didattiche. Non sempre nel
passato lo spazio è stato assunto come elemento portante del processo di insegnamento e
apprendimento, mentre oggi invece l’importanza dell’ambiente nella didattica è un concetto
concreto, e non più considerato come secondario. Dietro ogni scelta riguardante l’ambiente
scolastico è posizionata un’idea di insegnamento. Il luogo in cui l’azione didattica prende vita è uno
spazio pensato ed intenzionale, che favorisce lo svolgimento delle attività scolastiche, e in questo
senso non si tratta di ambienti immodificabili, ma flessibili per adeguarsi alle diverse proposte: la
progettazione di un’azione didattica dovrebbe infatti andare di pari passo con la scelta della
predisposizione del luogo. Guardando al dove, bisogna anche analizzare il contesto in cui la scuola è
ubicata e al bacino d’utenza a cui fa riferimento: insegnare nelle periferie, o in un piccolo paese, o
nelle zone centrali della città è sicuramente differente.

3. WHAT: tratta di quello che viene fatto concretamente durante l’azione didattica, delle sue scelte,
tematiche e contenuti. L’azione si concretizza nelle proposte che vengono fatte, negli argomenti
individuati, nei contenuti selezionati. Bisogna selezionare all’interno degli orizzonti del sapere, ciò
che può essere significativo per quel gruppo di alunni in particolare, ma che non deve essere chiuso e
distante dalle esperienze personali dei ragazzi e lontano dalle posizioni epistemologiche dei vari
saperi. Cosa resta però poi ai ragazzi di ciò che si è fatto? Si consiglia di presentare gli obiettivi
propri del docente agli stessi bambini, per evitare che il percorso di costruzione delle conoscenze
rimanga un evento senza nome e senza significato per gli alunni.

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4. WHEN: considera il tempo in cui l’azione didattica prende corpo. All’interno della scuola,
l’educazione formale è scandita da lezioni, bimestri, quadrimestri, anni scolastici, che permettono di
comprendere l’evoluzione e la crescita dei singoli percorsi di apprendimento, così come quelli
dell’unità della classe. Il tempo scolastico è il tempo del progresso nell’esposizione del sapere: il
docente è il responsabile del tempo, perché è lui ad assumere la responsabilità dei contenuti ed è lui
che definisce la sua progressione, producendo così lo spazio – tempo didattico. Il tempo della
didattica non è però il tempo dell’apprendimento, poiché ogni alunno deve necessariamente
riscrivere il testo del sapere all’interno della sua organizzazione emotiva – cognitiva. Nell’azione
didattica il tempo è quindi fondamentale, è quello spazio in cui le proposte/azioni del docente si
vengono a saldare con le risposte/azioni degli alunni. Il tempo può essere flessibile, oppure rigido e
piegato alle esigenze del sistema istituzionale ( “Devo finire il programma” ). Il tempo dell’ora della
lezione è strettamente legato alla scelta di tipologia dell’insegnamento, con un preciso obiettivo di
realizzazione, e con momenti definiti dedicati alla spiegazione, ai contenuti e all’operatività.

5. WHY: ci permette di affrontare il tema del senso e del significato  esiste un senso specifico per
l’insegnante che è consapevole del processo messo in atto, e un senso differente per gli alunni.
Possono esserci vari gradi di significatività che un alunno può mettere in campo, ad esempio l’utilità
nel quotidiano di quanto si è appreso, o la creazione di un aggancio con aspetti personali ed emotivi.

6. HOW: come il processo di insegnamento/apprendimento è realizzato? Si tratta delle modalità in cui


viene realizzata la proposta, intendendo con questo i mezzi, i materiali e gli strumenti utilizzati, oltre
all’individuazione delle metodologie, ed il tutto scelto con accuratezza e intenzionalità in base al
risultato che si intende ottenere. Possono caratterizzarsi modalità diverse, come una lezione più
frontale, rispetto ad una invece più dialogata, piuttosto che altre tipologie quali lavori di gruppo,
drammatizzazione, conversazione, brainstorming . . .

Un altro elemento fondante dell’azione didattica è quello dedicato all’opera di mediazione che il docente
mette in campo in modo intenzionale, perché l’apprendimento degli alunni possa avere l’occasione per
svilupparsi. Il termine mediatore indica ciò che si trova a metà strada tra il docente e gli alunni, in una
collocazione spaziale intermedia, si dispongono a metà tra realtà e rappresentazione, e trasferiscono
l’esperienza diretta dal contesto originario esterno all’interno dello scenario predisposto per l’insegnamento.
I mediatori agiscono sulla realtà e la sostituiscono attraverso dei rapporti di metaforizzazione, evidenziando
la presenza di una zona intermedia tra insegnamento e apprendimento. Bruner li divide in quattro tipi:

1. Mediatori attivi: riguardano la massima vicinanza con la realtà esterna, e si tratta di un’intenzionalità
specifica che diversifica l’azione in particolare dalle altre con cui ci confrontiamo nella vita, per il
fatto di aver selezionato una particolare esperienza e di averla trasportata all’interno delle mura
scolastiche. Per i sostenitori dell’attivismo, la vita, con le sue esperienze dirette, forniva alla scuola
un patrimonio, un significato e un modalità per sperimentare e costruire conoscenze. I mediatori
attivi vengono promossi all’interno del contesto scolastico, non sono casuali e sono programmati
secondo un calcolo didattico. Presentano alcuni limiti come il particolarismo ( sono legati a episodi
specifici e non ripetibili ), e la difficile memorizzazione, ma comunque hanno un’innegabile
efficacia, in quanto si fondano sul contatto fisico, personale, intensivo con la realtà.

2. Mediatori iconici: hanno alto grado di vicinanza e di fedeltà con la realtà, mantenendo con questa un
rapporto fisico e percettivo. Sono disegni, foto, audiovisivi ma anche schemi, carte geografiche.
Il vantaggio di questi mediatori è evidente dalla loro capacità di oggettivazione, cioè di rappresentare
un’esperienza come qualcosa di esterno al soggetto, ma rivelano limiti nella bassa capacità di

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generalizzazione, nel particolarismo, come nel caso dei mediatori attivi, poiché non è possibile
riprodurre adeguatamente l’estensione di un concetto o di un valore universale.

3. Mediatori analogici: riguardano l’ambito del gioco e della simulazione, l’utilizzo di essi ai fini
dell’apprendimento ha una grande tradizione alle spalle. Esperienze di simulazioni, giochi di ruolo,
permettono agli alunni di impersonificare ruoli diversi, di drammatizzare azioni e situazioni, di
imparare a mettersi nei panni degli altri. I vantaggi di tali mediatori, riguardano l’elevata
motivazione e la comprensione della complessità che producono le emozioni, ma il rischio è quello
di confondere la realtà con la finzione, oltre al tempo necessario per la preparazione e al fatto che la
situazione sperimentate comunque non basta a fissare gli apprendimenti.

4. Mediatori simbolici: si tratta delle lettere, dei numeri e degli altri tipi di simboli, che non incorrono
nel pericolo del particolarismo, ma anzi raggiungono il massimo grado di generalizzazione. Sono i
più usati universalmente, e la loro distanza dalla realtà può in alcuni casi implicare una non
comprensione da parte degli alunni, che accolgono questi mediatori senza averli però assimilati. Tali
mediatori trovano la loro applicazione più immediata nella lezione, frontale e unidirezionale.

Per utilizzare tutti i mediatori, bisogna attuarli in un percorso non lineare, ma reticolare, ed essi possono
essere distinti in mediatori caldi, che inducono motivazione e mobilitano le risorse emotivo – affettive, e in
mediatori freddi, che permettano il decentramento, la raccolta e l’organizzazione delle conoscenze. Un tipo
di approccio didattico legato ad una comunicazione fluida e ad una negoziazione di significati condivisa si
orienterà verso mediatori caldi, invece nel caso di un approccio più codificato ai saperi ci si rivolgerà alle
altre tipologie. Comunque, l’indispensabile fase di elaborazione delle esperienze e di sistematizzazione delle
stesse vede la necessità di utilizzare, nel momento della formalizzazione, i mediatori freddi.

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CAPITOLO 4: IL CONTRATTO DIDATTICO

 Teoria delle situazioni didattiche

Una delle funzioni centrali della scuola è quella della trasmissione dei saperi, e all’interno del contesto
scolastico le relazioni tra insegnanti e alunni ruotano attorno agli oggetti di conoscenza, costituendo così una
relazione ternaria: insegnante, alunno e saperi in gioco. Questi tre elementi non possono essere considerati
separatamente, e soggetti e azioni devono infatti essere analizzati in interazione tra loro, perché ciò che
contraddistingue l’azione didattica è la relazione particolare che si svolge tra gli elementi. I soggetti in
interazione, cioè gli insegnanti e gli alunni, sono situati in un contesto, la scuola, che determina aspettative,
norme, e comportamenti specifici. La teoria della situazioni didattiche, delineata da Guy Brousseau, quindi
studia i processi di insegnamento – apprendimento da un punto di vista sistemico, globale indagando le
dimensioni epistemologiche, sociali e cognitive che tengono conto delle interazioni tra il sapere, gli allievi, e
l’insegnante all’interno del contesto classe.

Una situazione didattica, è definita da Brousseau come un insieme di relazioni stabilite esplicitamente o
implicitamente tra un alunno o un gruppo di alunni, in un certo ambiente e un sistema educativo,
rappresentato dall’insegnante, con la finalità di far si che gli alunni si approprino di un sapere stabilito.
Le situazioni didattiche sono dunque specifiche delle conoscenze che si vuole far raggiungere agli alunni e
implicano la predisposizione dell’ambiente da parte dell’insegnante, affinché gli alunni apprendano.
Entrambe le figure coinvolte sono consapevoli del loro ruolo e sono condizionate dal contesto istituzionale
da quello sociale. Seguendo il pensiero di Brousseau, l’azione didattica deve avere come obiettivo che
l’alunno possa utilizzare le conoscenze acquisite all’interno del contesto scolastico in situazioni non
didattiche, cioè fuori dalla scuola. In questo senso l’agire didattico deve permettere all’alunno di stabilire
relazioni con un ambiente sempre più vicino alla realtà, per questo l’azione didattica deve includere una
rappresentazione delle future relazioni in cui quella conoscenza potrà essere applicata, e l’autore scrive:

Un alunno deve poter ricostruire la conoscenza in assenza delle condizioni didattiche che l’hanno generale,
perché non avrà acquisito veramente quel sapere finché non sia capace di utilizzarlo in situazioni che
troverà al di fuori della scuola. (Brousseau)

Nel progettare una situazione, l’insegnante deve tenere conto di come il sapere da insegnare viene attivato
nella realtà, con quali scopi e funzioni, in quali contesti d’uso ecc . . . Secondo Brousseau, per far si che
l’alunno possa ricostruire le sue conoscenze fuori dalla scuola risulta indispensabile dar vita ad una
situazione a–didattica all’interno della dimensione didattica: tale dimensione assomiglia ad una non
didattica, cioè lontana dal contesto di insegnamento, poiché invita l’alunno a cimentarsi con un problema
come soggetto conoscente più che come alunno, ma si differenzia dalla situazione non didattica poiché forma
parte della situazione didattica ed è creata appositamente per provocare apprendimento. L’alunno non avrà
veramente acquisito una conoscenza fino a quando non sarà capace di metterla in opera da solo nelle
situazioni che incontrerà al di fuori di ogni contesto di insegnamento e in assenza di ogni indicazione
intenzionale. Una tale situazione, è definita come una situazione a – didattica, ed è solo all’interno di essa
che può essere attribuito un senso al sapere, in quanto l’alunno agisce in modo autonomo e senza interventi
dell’insegnante. Sembrerebbe un paradosso, poiché è necessaria una situazione a – didattica per far si che
l’alunno possa adattarsi a nuove situazioni didattiche. Pertanto, una situazione a – didattica vede come
elementi protagonisti gli alunni e i saperi, senza la presenza dell’insegnante che gioca un ruolo da regista. Gli
alunni forniscono risposte, elaborano ipotesi, realizzano tentativi e ne verificano l’efficacia e la motivazione
è data dall’attività stessa e da ciò che è stato proposto loro dalla situazione.

In sintesi, la situazione didattica deve comprendere la situazione a – didattica, cioè deve contenere al suo
interno condizioni necessarie per permettere all’alunno di costruire le proprie conoscenze autonomamente.
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Tutto ciò configura un ruolo complesso per l’insegnante, che deve tenere conto dei saperi in gioco, delle
conoscenze, ed esperienze pregresse degli alunni, delle potenziali situazioni a – didattiche che spingono gli
alunni ad apprendere, e deve evitare di spiegare, dare info su ciò che gli alunni devono scoprire da soli.

Come proporre situazioni problematiche che richiedano costruzione di nuove conoscenze da parte degli
alunni, per legittimare in questo modo il diritto rielaborare conoscenze? E’ necessario che gli alunni possano
mettere in azione le proprie concettualizzazioni, idee (anche se errate) e che possano confrontarle poi con i
propri compagni, cooperando tra loro. Una collaborazione risulta possibile solo in un rapporto tra pari, in
quanto esso è orizzontale e flessibile, a differenza invece del rapporto con gli adulti che risulta asimmetrico e
verticale. Il potere degli adulti può agire in modo costrittivo, ed esercitare coercizione sul pensiero infantile.
L’insegnante deve quindi restituire agli alunni la possibilità di agire in modo autonomo, proponendo delle
situazioni sfidanti che li spingano ad affrontarle, avvalendosi delle proprie strategie e conoscenze pregresse.
Contemporaneamente deve evitare di suggerire, dare risposte, giudicare . . . questa è una della funzioni
principali che l’insegnante dovrebbe esercitare, ovvero la devoluzione.

L’insegnamento è la devoluzione all’alunno di una situazione a – didattica e l’apprendimento è


l’adattamento a quella situazione. L’insegnante non deve effettuare la comunicazione di una conoscenza,
bensì la devoluzione di un buon problema. Il valore delle conoscenze apprese dipende dalla qualità
dell’ambiente, cioè nella misura che questo consenta un funzionamento reale, culturale, del sapere .
(Brousseau)

Analizzando le parole dell’autore, il concetto di devoluzione racchiude l’azione di trasferire ad altri (agli
alunni in questo caso) un ruolo diverso dall’usuale: è l’insegnante che pone gli alunni in relazione con
l’ambiente, e facendo questo devolve agli alunni la responsabilità del loro apprendimento.

La devoluzione consiste nel provocare l’interazione dell’alunno con l’ambiente, in una situazione a-
didattica, situazione nella quale scompare la volontà esplicita di insegnare. (Brousseau)

Questo è il senso del concetto, ovvero restituire agli alunni la possibilità di costruire le proprie conoscenze, e
per far ciò l’insegnante deve organizzare una relazione tra allievo e ambiente, considerando tutte le situazioni
a-didattiche che sono a portata degli alunni. L’insegnante deve:

- evitare di comunicare ciò che si aspetta che i suoi ragazzi rispondano,


- riuscire a far sì che gli alunni si impegnino nel risolvere i problemi di cui ignorano la risposta,
- tacere la parte del sapere che consentirebbe agli alunni di risolvere il problema proposto,
- evitare indizi e giudizi di valore, che potrebbero incitare gli alunni a rispondere concentrandosi più
sulle aspettative dell’insegnante che sulla produzione della conoscenza richiesta.

 Il contratto didattico

Ci sono due dimensioni che caratterizzano qualsiasi azioni didattica:

1. dimensione contenutistica = in essa l’azione didattica è necessariamente un’azione congiunta, in cui


il termine insegnare evoca il termine imparare e viceversa.
2. dimensione contenutistica = la relazione è centrata su un oggetto molto specifico, ovvero il sapere
che deve essere trasmesso.

Dunque, per poter comprendere un’azione didattica è necessario considerarla in quanto azione congiunta che
si svolge all’interno di una relazione ternaria tra il sapere, l’insegnante e gli alunni.

In questa relazione, le azioni dei soggetti vengono regolate da alcuni presupposti non dichiarati,che svolgono
una funzione normativa nell’orientare i comportamenti degli attori della relazione. Esistono quindi delle
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regole e delle routine scolastiche che guidano il comportamento di insegnanti e alunni nelle loro interazioni,
e tali norme si costruiscono ogni giorno, nella vita quotidiana scolastica: sia alunni che insegnanti danno vita
ad un insieme di comportamenti accettabili da entrambe le parti e che diventano aspettative reciproche.
Tale sistema di norme e regole implicite, è denominato da Brousseau contratto didattico.

Il contratto didattico è l’insieme dei comportamenti dell’insegnante attesi dall’alunno, e l’insieme dei
comportamenti dell’alunno attesi dall’insegnante. (Brousseau)

L’autore spiega inoltre che il contratto didattico si elabora sulla base della ripetizione di abitudini specifiche
del maestro, e consente, reciprocamente all’alunno di decodificare l’attività didattica. Il senso attribuito alla
situazione dipende dal risultato delle azioni ripetute del contratto didattico e così, questo si presenta come
l’impronta di esigenze abituali del maestro su una situazione particolare. Alunni e insegnanti in questo modo
elaborano dunque delle linee di condotta accettabili che si trasformano in aspettative da entrambe le parti, e
questo sistema di norme è legato a specifici settori della conoscenza, cioè il contratto didattico forma la
relazione tra insegnante e alunno a proposito di una data conoscenza. Le regole del contratto didattico non
nascono da accordi espliciti, ma sono implicite, perché tacitamente costruite nel corso della prassi didattica.
Esempio di un dettato in una classe prima della primaria:

Quali transazioni avvengono tra insegnante e alunni a proposito del dettato, oggetto della transazione?
La transazione necessaria per produrre produrre un dettato consiste nel fatto che l’insegnante detti, e che
l’alunno scriva. Possono esserci però molti modi in cui ciò accade: l’insegnante potrebbe dare una serie di
istruzioni indirette, cioè non esplicite, che Brousseau definisce camouflage didattici, oppure non offrire
nessun tipo di istruzione e dettare naturalmente.  tra un insegnante che dona dei segnali e tra uno che
invece non ne dà, la natura della transazione e le azioni svolte dagli attori non sono le stesse.

Se l’insegnante ripetesse diverse volte la parola pompelmo, rafforzando le consonanti “m e l”, gli alunni
potrebbero produrre scritture del tipo “pommpellmo” , e questo rivela che essi pensano di dover tenere conto
degli indizi offerti dall’insegnante per poter scrivere correttamente. Ma perché l’insegnante non rende
esplicite le istruzioni? Se lo facesse, cioè se dicesse direttamente agli alunni ciò che desidera ottenere,
negherebbe ad essi la possibilità di apprendimento, e di ciò l’insegnante è consapevole, per cui di
conseguenza mette in atto questi camouflage didattici, per poter poi valutare le competenze degli alunni.
Quindi rivelare le attese specifiche da parte dell’insegnante, renderebbe vano l’apprendimento, dato che la
conoscenza dovrebbe procedere proprio da ciò che quelle attese hanno di implicito.

Cosa accadrebbe invece se l’insegnante decidesse di non dare più istruzioni indirette ai suoi alunni e di
dettare naturalmente, senza separare parole e sillabe? Si possono prevedere negli alunni delle difficoltà per la
mancanza di segnali, soprattutto per lo spiazzamento rispetto alle abitudini alle quali sono ancorati. Questo
cambiamento di contratto didattico, cioè il non dare più indizi, implica la rottura del contratto didattico
iniziale o abituale, cioè quello con indizi. Questo nuovo tipo di contratto presuppone la configurazione di
nuove transazioni didattiche, e non è detto che l’alunno assuma questo nuovo ruolo, e la rottura del contratto
può portare a processi apprendimento solo se l’alunno accetta di assumere una posizione attiva di fronte ad
esso, e nell’esempio del dettato l’accettazione della rottura consisterebbe nel lanciarsi a scrivere come si è
capaci, seguendo le proprie idee sulla scrittura.

Dunque, quando l’insegnante attuando la devoluzione, attraverso la situazione a – didattica, lascia spazio agli
alunni, sta proponendo una rottura del contratto, e se l’alunno accetta la presa in carico del problema, allora
si potrà realizzare l’apprendimento. Come dice Brousseau infatti l’apprendimento poggia non sul buon
funzionamento del contratto, ma sulle sue rotture.

 Gli attori del contratto didattico

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- L’alunno e il contratto didattico: con la formulazione di contratto didattico, si da vita all’idea di
soggetto didattico, ovvero l’alunno, che è diversa da quella di soggetto sociale ed epistemico, ovvero
il bambino. Quando un bambino entra a scuola diventa un alunno, e i suoi comportamenti e le sue
azioni assumono una particolare connotazione, derivata dal nuovo ambiente. L’analisi e la
valutazione del funzionamento cognitivo di un alunno non possono essere svolte senza tenere conto
della situazione scolastica nella quale egli è inserito. Il contratto didattico ci porta a pensare ad un
soggetto situato e quello che si sa dell’alunno in quanto soggetto conoscente, non è direttamente
desumibile dalle sua azioni o risposte, poiché molte di queste sono chiare solo attraverso la
conoscenza delle regole del contratto didattico. Chevellard sostiene che in una situazione scolastica,
il compito dell’alunno consiste nel dare risposte secondo la logica del contratto didattico, la quale
per funzionare richiede la disattivazione della logica profana, ovvero quella del soggetto sociale ed
epistemico. Quindi, il contratto didattico consente di comprendere, nelle risposte dei bambini a
scuola, l’andirivieni tra il seguire le proprie idee e l’adeguarsi alle aspettative dell’insegnante.

Esempio: l’insegnante pone il problema “un pastore ha 12 pecore e 6 capre, quanti anni ha il pastore?”
i bambini rispondono che il pastore ha 18 anni e la maestra reagisce con sgomento. La risposta dei
bambini è legata al contratto didattico, in quanto l’insegnante non aveva mai posto dei problemi
impossibili o senza soluzione come questo, e dunque i bambini hanno risposto semplicemente seguendo
ciò a cui sono abituati  “se l’insegnante ci dà un problema, questo deve essere certamente risolto, e per
risolverlo dovremo utilizzare i dati numerici presenti”. Quindi le risposte degli alunni non derivano dalla
loro incompetenza, bensì sono un effetto del contratto didattico, che induce loro a dare delle risposte
indipendentemente dalla situazione problematica proposta.

Altri sviluppi del contratto didattico hanno dimostrato che gli alunni possono comportarsi in modo
differente rispetto allo stessa situazione di contratto, cioè presentano una reattività diversa a esso.
Alcuni alunni appaiono meno condizionati dalle regole del contratto e pensano in modo autonomo,
mentre altri seguono le regole del gioco. Questa diversa reattività deriva dallo specifico ruolo
dell’alunno all’interno della classe, cioè del suo status. Questo implica che il contratto didattico ha
un profondo impatto sul comportamento e sull’autostima degli alunni, perché rende legittimo ciò che
alunni e insegnanti si aspettano reciprocamente l’uno dall’altro.

- L’insegnante e il contratto didattico: può accadere che l’alunno, di fronte ad un compito, interpreti le
domande e le informazioni offerte dall’insegnante secondo quello che pensa che l’insegnante voglia
o si aspetti da lui. In questi casi, il sapere viene percepito dall’alunno come un obbligo, come
qualcosa fine a se stesso e che ha senso solo all’interno della scuola, perché serve per essere valutato.
Per far si che ciò non accada, è necessario attuare e coinvolgere gli alunni in una sequenza di
situazioni che costituiscono una genesi artificiale del concetto, ovvero che è provocata
intenzionalmente. Inoltre bisogna considerare le concettualizzazioni infantili dal punto di vista del
sapere, cioè fare ricorso alla genesi psicologica dei saperi. L’azione dell’insegnante sarà quella di
regolare e modificare il contratto didattico in funzione alle risposte degli alunni e alle caratteristiche
del sapere, non deve invece mettere in atto un unico contratto e sostenerlo fino alla fine. Sono
presenti quindi delle regole perenni e delle mutazioni costanti delle aspettative dell’insegnante, e
queste ultime sono necessarie all’apprendimento, poiché avranno una necessaria ricaduta sulle
aspettative degli allievi. Se le situazioni didattiche restano immutate, l’alunno si adagia e si
compiace, magari sentendosi esperto ma non progredisce nella conoscenza.

 Il contratto didattico tra gli alunni

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L’asimmetria esistente tra insegnanti e alunni può portare l’allievo ad assumere un ruolo passivo, e in questo
caso egli non svilupperà le competenze autonome di apprendimento, bensì aspetterà che il docente trasmetti
tutto il contenuto necessario per superare il compito. Esistono certamente delle forme meno rigide e più
orizzontali nella relazione tra alunni e insegnanti, ma ci possono essere anche altri tipi di contratto didattico
che potrebbero favorire il superamento degli ostacoli derivati dall’asimmetria della classe. Questi nuovi e
diversi tipi di contratto, sono quelli che si stabiliscono tra gli alunni, che apprendono insieme attraverso la
cooperazione e la collaborazione, e possono esserci diverse modalità.

- Il tutoraggio: gli alunni tutor agiscono come “assistenti” degli insegnanti, perché consigliano i
compagni, danno spiegazioni, correggono, offrono loro strumenti necessari per risolvere il problema
che affrontano, concludendo così l’attività intrapresa. Gli studenti più competenti in un certo ambito
aiutano i coetanei a progredire nella conoscenza, senza ricevere nulla in cambio. Il vincolo tra i due
attori del tutoraggio è più paritario rispetto al contratto didattico tra insegnante – alunno, e questo
accade per i rapporti di amicizia che si instaurano tra i partecipanti, per il clima di confidenza, e
anche per un possibile scambio di ruoli tra i partecipanti, determinando una relazione flessibile.

- Attività collaborative in gruppi/coppie: durante tali attività, i partecipanti possono esprimere


liberamente le proprie idee, e hanno meno paura di commettere errori. Gli alunni entrano entrano in
interazioni diverse rispetto a quelle che si sviluppano con l’insegnante o con il compagno tutor,
perché non si tratta di seguire informazioni o di offrire indicazioni, ma di collaborare attivamente tra
uguali per portare avanti un’attività congiunta.

- Scaffolding reciproco: è un fenomeno molto frequente all’interno delle attività di apprendimento


collaborativo,e avviene quando gli alunni si aiutano reciprocamente mentre risolvono situazioni
complesse. Ogni alunno agisce contemporaneamente come apprendista e come tutor, offrendo
conoscenze ed esperienze agli altri, costruendo nuovi significati e sviluppando competenze sociali.

Il contratto didattico tra alunni può presentarsi naturalmente di fronte ad ostacoli di natura diversa, ma in altri
casi il contratto non emerge automaticamente, bensì richiede delle condizioni concrete. Non si presenta come
un’imposizione ineludibile rispetto al contratto tra insegnante e alunno nell’aula tradizionale: può infatti
essere oggetto di resistenza o negoziazione. I ruoli non sono quindi assegnati in modo unidirezionale e
definitivo, ma possono essere trasformati nel corso del tempo. Il criterio per stabilire il contratto didattico tra
alunni è fondamentalmente pratico, e non basato sull’autorità: i ruoli non dipendono da un principio di
superiorità, poiché non è sempre l’alunno scelto dall’insegnante quello che impone il contratto. In alcuni casi
infatti il contratto dipende dal fatto che l’alunno non esperto accetti la distribuzione dei ruoli.

Il contratto didattico quindi è proposto generalmente dall’alunno che sa come superare l’ostacolo, cioè che è
esperto, ma viene stabilito in ultimo da chi accetta il ruolo che gli è stato assegnato. Per questo motivo si può
distinguere tra proporre il contratto e stabilirlo: si stabilisce quando lo studente interpellato assume la
posizione richiesta, e così facendo rinforza il ruolo dell’altro. Tale situazione può essere un’occasione di
apprendimento da parte di entrambi i partecipanti, se questi riconoscono i ruoli di uno e dell’altro.

CAPITOLO 5: LA COMUNICAZIONE IN CLASSE


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Il processo di insegnamento-apprendimento può essere considerato come un processo di comunicazione.
La trasmissione di abilità, conoscenze, atteggiamenti, avviene tramite il dialogo e l’interazione tra insegnanti
e alunni. Nel processo sia alunni che insegnanti sono alternativamente emittenti e ricettori di informazioni,
perché producono e interpretano sistemi di messaggi che includono parole, gesti, sguardi, posture.
La comunicazione in classe comprende quindi l’insieme di processi di relazione e di interscambio di
informazione che avvengono tra i partecipanti del processo di insegnamento – apprendimento, ed essa
comprende contenuti verbali, contenuti non verbali, e tutto ciò che riguarda le relazioni tra le persone
presenti in classe. La comunicazione è quindi molto più dell’insegnante che parla e dell’alunno che ascolta, è
molto più dell’interscambio di parole tra le persone. Le interazioni comunicative nelle classi dipendono dalle
regole del gruppo, dalla personalità dell’insegnante, dal suo stato d’animo in quel momento, dalle
caratteristiche di ogni componente, dalle loro personalità, dal clima che si presenta in ogni momento.

Oggi l’attenzione della ricerca in campo educativo è posta su quello che le persone fanno e dicono all’interno
della classe, cioè sulle pratiche di insegnamento – apprendimento, e sui discorsi dei partecipanti. L’aula
diventa così non solo lo scenario fisico dell’apprendimento scolastico, ma anche lo scenario comunicativo in
cui le forme del discorso pedagogico del maestro dialogano con i discorsi degli alunni  nel parlare,
nell’ascoltare, nel leggere si interscambiano significati, si mettono in dialogo diverse culture, si acquisiscono
linguaggi delle diverse discipline, si risolvono compiti, si impara a regolare il proprio comportamento, si
costruisce una conoscenza condivisa sul mondo. Oggi si svolgono diversi studi sulla comunicazione nelle
classi, ma non esiste un unico approccio per studiare e comprendere questo tipo di linguaggio.

La maggior parte delle pratiche di insegnamento e la maggior parte delle modalità con cui gli alunni
manifestano ciò che sanno, si concretizza all’interno dell’aula attraverso il linguaggio sia scritto che orale, e
per ciò esiste un rapporto tra la ricerca sulla comunicazione in classe e tra quella sulle relazioni in classe.
I primi lavori sulla comunicazione all’interno delle aule, provengono dall’ambito didattico e si pongono
come obiettivo quello di determinare quali processi di insegnamento siano più efficaci ai fini
dell’apprendimento. Flanders, sviluppò un sistema di categorie di interazione in classe, distinguendo tra il
discorso dell’insegnante e il discorso dell’allievo.

DISCORSO DELL’INSEGNANTE DISCORSO DELL’ALUNNO

1. accetta i sentimenti 1. risposta all’insegnante

2. loda o incoraggia 2. avviato dagli alunni

3. accetta o utilizza le idee degli alunni 3. silenzio

4. formula domande 4. confusione

5. fa lezione

6. dà direttive

7. critica o si appella all’autorità

Nascono ricerche in Inghilterra sulla conversazione in classe di forte impronta linguistica, che hanno
sottolineato l’importanza della struttura del discorso, il controllo del linguaggio e la costruzione condivisa di
21
significati. I linguisti inglese Sinclair e Coulthard hanno identificato la struttura tipica del discorso in classe
distinguendo tra forma e funzione del linguaggio: i ricercatori hanno identificato uno schema ripetuto del
discorso scolastico, denominato IRF, come acronimo di una tripletta di atti comunicativi:

- Inizio dell’insegnante
- Risposta dell’allievo
- Follow up (seguito) dell’insegnante

In altri contesti è stata ritrovata la stessa struttura tipica del discorso: Mehan ha modificato l’acronimo in
IRE, e in questo modo la sequenzialità degli interventi deve essere analizzata non solo in funzione
dell’enunciato precedente, ma soprattutto in considerazione degli obiettivi della situazione didattica.

- Inizio dell’insegnante
- Risposta dello studente
- Valutazione (evaluation) dell’insegnante

Altre ricerche si sono occupate invece delle differenze culturali sulle pratiche discorsive in classe: le
differenze culturali insite in una classe spiegano in parte le difficoltà, spesso prevalentemente comunicative,
dei bambini che provengono da culture diverse. Per questo motivo, risulta particolarmente importante che gli
insegnanti siano consapevoli del modo in cui queste differenze culturali possono incidere non solo nella
comunicazione in classe, ma anche nella costruzione dell’apprendimento poiché mediato dalla
comunicazione. A tal proposito B. Rogoff sottolinea come ogni contesto culturale si differenzi rispetto alle
aspettative riguardo ai bambini e al loro sviluppo: per creare una condizione che permetta al bambino di
potersi sviluppare in modo adeguato è necessario che l’insegnante capisce la logica sottesa a quello che
fanno e dicono i membri di diverse culture.

In Italia, C. Pontecorvo ha ampliato lo studio dei discorsi tra i bambini e la relazione tra il tipo di intervento
dell’insegnante e i discorsi dei bambini, ed in particolare le ricerche sulle discussioni in classe hanno messo
in evidenza le condizioni ottimali di interazione tra insegnante e allievi e hanno verificato la sua incidenza
sui processi di insegnamento – apprendimento. Sono nati accordi metodologici condivisi riguardo l’analisi
della comunicazione in classe:

- il rilievo dei discorsi spontanei in classe


- l’inclusione del contesto e la sua organizzazione sociale
- la considerazione della relazione intrinseca tra i discorsi e le azioni dei soggetti
- la considerazione di altri modi simbolici di rappresentare il mondo
- la necessità di integrare lo studio della struttura del discorso in classe con il contenuto stesso.

 Le modalità comunicative dell’insegnante

L’insegnante, per entrare in relazione con gli alunni deve prima di tutto disporsi come persona e non solo
come ruolo, e accettare l’allievo come persona e non solo allievo, promuovendo un clima relazionale
piacevole e produttivo. Lo stretto rapporto tra relazione e comunicazione afferma che comunicare non vuol
dire solo trasmettere informazioni tramite linguaggi condivisibili, ma anche stabilire e modulare relazioni,
giocare con i bisogni e con le emozioni. Esistono diverse componenti che possono influenzare la
comunicazione di un insegnante nell’interazioni con i suoi alunni in classe: i tratti della personalità, le
convinzioni sul proprio ruolo, le rappresentazioni dei bambini, la padronanza della disciplina. Negli anni 50,
si tentò di delineare, tramite ricerche ed indagini, il modello di insegnante comunicativo.

 L’insegnante efficace

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Norton ipotizza che gli insegnanti efficaci siano di fatto i comunicatori più competenti. Egli sostiene l’idea
che le caratteristiche dello stile comunicativo, costruiscono una sorta di modello di comportamento che crea
negli alunni delle aspettative sul modo di trattare il significato del messaggio. Norton propose dieci tipologie
di stili comunicativi: dominante, drammatico, polemico, animato, rilassato, attento, aperto, amichevole,
preciso e d’impatto. Tra i vari stili esistono rapporti specifici e alcuni sono più affini rispetto ad altri  a tal
proposito, l’autore ha individuato due grandi insiemi:

1. insieme del comportamento comunicativo “attivo” che comprende stili dominante, drammatico,
animato, polemico, aperto e d’impatto.
2. insieme dello stile orientato verso il prossimo, appartengono gli stili attento, amichevole, rilassato.

I risultati delle ricerche confermano l’importanza di uno stile comunicativo, amichevole, aperto, drammatico
e d’impatto. Gli alunni incidono sullo stile comunicativo dell’insegnante, in ambiti come la motivazione
intrinseca, la partecipazione in classe, l’uso di strategie auto-regolative, atteggiamenti psico-affettivi.
L’auto-percezione dello stile comunicativo degli insegnanti è discordante rispetto a quella degli alunni: è
emerso infatti che gli insegnanti non hanno consapevolezza dell’impatto del proprio stile comunicativo e
tendono a valutarsi in modo più positivo rispetto le valutazioni dei propri studenti.

 La comunicazione non autoritaria

La rilevanza delle modalità comunicative nella relazione educativa emerge dai contributi di C. Rogers.
Il “colloquio non direttivo” si configura come una metodologia di indagine che tenta di sondare i vissuti, gli
atteggiamenti, le opinioni dei soggetti intorno a certe tematiche. Per poter esplorare e accedere alle idee, alle
concezioni e ai vissuti risulta necessario avvalersi di tecniche comunicative peculiari, tra le quali la più nota
risulta la tecnica del rispecchiamento.

Tale tecnica è contraddistinta da una ripresa di qualche aspetto del discorso altrui (senza l’aggiunta di giudizi
di valore) che cerca di sostenere l’interlocutore nel proprio discorso in modo tale che possa riformulare,
chiarire, ristrutturare, modificare quanto già affermato. E’ un intervento verbale con cui si intende
testimoniare esclusivamente attenzione, senza alcuna valutazione, e quindi totale accettazione di chi parla.
Tale tecnica tratteggia il profilo di un insegnante non autoritario che promuove un’elaborazione del discorso
da parte dei bambini, e di una didattica centrata sull’alunno, e fondata su un’interazione comunicativa,
sostenuta da sentimenti di accettazione e di fiducia, di comprensione empatica e di autenticità del rapporto.
Con il rispecchiamento, si cerca di attivare processi di autoconsapevolezza e di riflessione, ed esistono
diverse forme di esso: reiterazione del contenuto, riformulazione, riepilogo. Le riprese inserite in espressioni
del tipo “ Tu pensi quindi che . . .” oppure “ Se ho ben capito vuoi dire che . . .” sono modalità comunicative
che incoraggiano l’alunno a continuare. Le riprese a specchio, sono accompagnate da altre tipologie di
tecniche, come richieste di spiegazione, di chiarimento, d’accordo, riepilogo di interventi precedenti.

Attraverso tali modalità comunicative, l’insegnante:

- dimostra un’attenzione acritica, una totale accettazione delle idee infantili in modo da consentire la
loro libera espressione
- testimonia la ricerca di comprensione degli alunni, tramite domande aperte, di richiesta, di
chiarimento, di spiegazione (bambini colgono interesse insegnante e proseguono)
- promuove la riflessione su alcune tematiche per sollecitare approfondimenti o chiarimenti
- favorisce l’ascolto reciproco dei discorsi
- favorisce la possibilità di comprensione dei discorsi

Gli interventi dei bambini possono essere risposte elaborate, cioè risposte nelle quali l’info introdotta dai
compagni è continuata con l’aggiunta di nuove info, oppure risposte nelle quali le info sono messe in
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discussione o sostenute. Questo tipo di comunicazione dunque, sostiene e aiuta l’apprendimento, fa in
modo che i bambini si sentano autonomi e sicuri nell’esprimere i propri pensieri, sapendo che dall’altra
parte (compagni e insegnante) troveranno accettazione e accoglienza.

 L’insegnante mediatore dell’apprendimento

Pontecorvo dice che il discorso in classe, si configura come esercizio di pratica discorsiva di un dominio
di conoscenza. L’impostazione di fondo è che il discorso collettivo deve essere funzionale alla pratica e
all’apprendimento di strategie di argomentazione e di ragionamento, e di procedure epistemiche di
ambiti specifici, e per fare ciò è necessario che diminuiscano il potere e il controllo dell’insegnante sul
pensare e sul parlare degli studenti. Contemporaneamente la dinamica discorsiva tra insegnanti e alunni
sembra essere un ottimo dispositivo per promuovere in quest’ultimi lo sviluppo delle competenze
comunicative. La sostituzione di feedback valutativi per i vari tipi di interventi di rispecchiamento e la
formulazione di domande contingenti, favoriscono lo sviluppo di discorsi esplicativi, conflittuali,
argomentativi degli alunni. Il modello di apprendimento sottostante è quello di una cognizione
distribuita, costruita attraverso l’interscambio, il quale può portare ad un ragionamento collettivo per
risolvere una questione, oppure può trasformarsi in una discussione in classe, ovvero un ragionamento
collettivo ad alta voce in cui si costruisce il sapere tramite interdipendenza e collegamento degli
argomenti. Un altro intervento chiave per lo sviluppo delle competenze argomentative, è quello
dell’opposizione, la dimensione più caratterizzante della discussione perché permette di portare avanti il
discorso – ragionamento, provocando sviluppi e approfondimenti. I bambini hanno la possibilità di
dimostrare di saper mantenere il filo del ragionamento nel susseguirsi degli interventi, e un argomento
può diventare una discussione significativa per gli alunni quando possono collegarlo a qualche
esperienza o conoscenza pregressa. Quindi, all’interno di una discussione con un gruppo di alunni si
verifica un apprendimento quando, con lo scopo di risolvere una questione giungendo a conclusioni
condivise, i contenuti a disposizione vengono manipolati, resi oggetto di riflessione da diversi punti di
vista e collegati tra loro a conoscenze ed esperienze.

Nella maggior parte delle indagini svolte, l’insegnante risulta essere la persona che parla più di tutti,
utilizzando le domande come modalità di intervento più diffusa per gestire l’interazione. Le domande
sono mosse conversazionali, creano attesa o necessità di un completamento o di una risposta,
coinvolgendo necessariamente l’altro. La varietà di funzioni delle domande può essere messa in
relazione all’approccio metodologico dell’insegnante, alla fase del percorso didattico, all’età degli
alunni, al clima della classe, nonché al tipo di argomenti trattati. Le ricerche hanno evidenziato la
presenza di coppie “domanda – risposta” (IR) e di triplette “ domanda – risposta – valutazione” (IRE),
all’interno delle interazioni in classe, dove l’insegnante è l’interlocutore dominante, cioè colui che pone
maggior numero di domande.

Le domande dell’insegnante rivestono un importante ruolo nel processo educativo, poiché fungono da
stimolo alla riflessione e alla discussione, e da controllo e monitoraggio della produzione degli allievi.
Fungono anche da spie del tipo di interazione, in quanto indicano il rapporto esistente tra insegnante e
allievi, segnalano la quantità ed il tipo di controllo esercitato dall’insegnante e le opportunità di
partecipazione concesse agli allievi. Tra i tipi più frequenti di domande poste dall’insegnante ci sono:

- Tripletta: è una mossa conversazionale caratterizzata dalla presenza di una prima domanda
dell’insegnante seguita dalla risposta dell’alunno ed infine la valutazione o feedback immediato
da parte dell’insegnante.

- Domande retoriche: sono in realtà false domande in quanto non emergono da un vuoto
informativo, dal desiderio di conoscere ma da uno scopo istruttivo e valutativo. L’insegnante
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conosce già la risposta alla sua domanda, ma vuole semplicemente verificare attraverso il suo
utilizzo, se gli alunni hanno appreso determinati contenuti sia per proseguire con l’argomento,
sia per valutarli.

- Domande imbeccata: dette anche di completamento, cercano di stimolare maggiormente la


partecipazione degli alunni suggerendo una parte della risposta. In realtà, anche queste
costituiscono delle false domande, non solo perché l’insegnante già sa la risposta, ma anche
perché la parte offerta condiziona la risposta dell’alunno all’interno di uno schema prefigurato
dall’insegnante per ottenere la risposta esatta.

- Domande stimolo: o dette anche domande aperte, sono in generale domande autentiche
attraverso le quali si cerca di indagare le idee, le conoscenze, le esperienze pregresse degli
alunni. Possono favorire l’interscambio tra punti di vista e il collegamento di concetti o di
esperienze, stimolando la comprensione e la riflessione degli argomenti trattati.

Se l’insegnante utilizza le domande come una forma di aiuto per mettere in luce le loro riflessioni
sull’argomento in questione, allora egli può essere definito come insegnante mediatore. Possono esserci
anche alcune modalità comunicative che impediscono la libera espressione da parte degli alunni, come:

- domande che costringono gli alunni a dare delle risposte che l’insegnante si aspetta, cioè domande
che alimentano la tendenza ad accondiscendere  domande chiuse, domande a imbeccata, di
completamento, retoriche.

- i giudizi di valore, soprattutto i commenti negativi, che esprimono una valutazione sul discorso
dell’interlocutore e quindi in qualche modo lo guidano nella sua espressione.

E’ importante concedere agli alunni tempo di attesa per rispondere. Se l’insegnante manifesta difficoltà nel
tollerare il tempo di attesa, questa problematica può essere messa in relazione con il tipo di domande poste:
un’insegnante che pone domande di cui già sa la risposta, vede nella risposta corretta dell’alunno la conferma
del suo ruolo di esperto o di autorità. Inoltre, i tempi di attesa/silenzi degli alunni possono essere intesi come
una non comprensione dell’argomento, con la conseguente svalutazione del suo ruolo educativo. Il modo in
cui l’insegnante utilizza il silenzio riguarda il più delle volte il richiamo dell’attenzione degli alunni o per
segnalare la disapprovazione del comportamento di essi. Per gli alunni invece, il silenzio è un
comportamento cooperativo nei confronti dell’insegnante, poiché corrisponde ad un’accettazione della
richiesta di non disturbare e di prestare attenzione alla lezione.

La scuola deve promuovere le varie tipologie di competenze comunicative, per far si che le interazioni tra
alunni e insegnanti costituiscano il collante della didattica. Concepire l’educazione come un processo di
apprendimento della comunicazione, significa concepire l’aula come uno scenario comunicativo, in cui
alunni e insegnanti cooperano nella costruzione del senso dei discorsi. Per permettere ciò, è necessario
adeguare i contenuti scolastici, le forme di interazione, la metodologia e le attività didattiche. Così facendo
gli alunni possono acquisire strategie discorsive che consentono loro non solo di sapere che cosa dire e a chi,
ma anche quando e come dirlo. Gli insegnanti in tutto ciò detengono importanti responsabilità, poiché hanno
il potere di tendere un ponte di comunicazione con gli alunni e tra gli alunni.

CAPITOLO 6: LA TRASPOSIZIONE DIDATTICA

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 Insegnare le discipline. Stereotipi, pregiudizi e nuove prospettive

Dewey sosteneva che il compito principale degli insegnanti fosse quello di “suscitare il desiderio” di
imparare, di immergere i propri alunni in esperienze significative che suscitino in loro curiosità verso ciò che
ancora non conoscono, che li mettano in atteggiamento di ricerca verso il mondo che li circonda, per
diventare cittadini di domani.  questo messaggio sembra ispirare docenti dei giorni nostri, specialmente
riguardo esperienze e attività legate a tematiche ampie e generali, oppure riguardo competenze trasversali.
Non sempre però, questo messaggio riesce a trasferirsi all’insegnamento delle discipline.

A scuola (specialmente nella primaria) una delle maggiori preoccupazioni degli insegnanti è quella di trovare
il modo più efficace per tradurre i contenuti disciplinare in pratiche didattiche capaci di raggiungere i
bambini e facilitare il loro apprendimento nei diversi ambiti del sapere. L’insegnante, si pone delle domande
intorno alle quali si struttura la sua professionalità e la sua identità:

- “Perché insegno una certa disciplina?”


- “Perché i ragazzi dovrebbero appassionarsi a certi contenuti e concetti disciplinari?”
- “Cosa potrei decidere di insegnare in questo preciso ambito del sapere?”

La questione è quella di come riuscire ad appassionare ad una disciplina, e contemporaneamente garantire il


rigore concettuale degli apprendimenti, non solo con l’entusiasmo e la passione, ma con un radicale
investimento esistenziale del docente nella disciplina, che sappia renderla interessante e significativa per i
suoi alunni. L’insegnante si assume l’importante compito di diventare mediatore del sapere operando quella
che Y. Chevellard definisce trasposizione didattica.

Processo in base al quale vengono selezionati i contenuti disciplinari da insegnare e organizzati allo scopo
di dar loro una ‘forma’ scolastica, insegnabile ed accessibile agli alunni. (Chevellard).

E’ il processo in base al quale i docenti si pongono il problema di “che cosa vorrei che i ragazzi
imparassero in un certo ambito del sapere, oggi, il mese prossimo e magari per l’intera vita?” (Martini)

Le domande di questo tipo che l’insegnante si pone acquisiscono un ruolo centrale nella formazione
dell’alunno, perché attraverso i contenuti proposti, l’insegnante, anche inconsapevolmente, costruisce un
rapporto con l’allievo e allo stesso tempo determina l’atteggiamento dell’allievo stesso verso una disciplina.

 Le rappresentazioni degli insegnanti sui saperi disciplinari

Shulman sostiene che le modalità con cui l’insegnante intende la sua disciplina, la maniera in cui la propone
ai ragazzi, il modo in cui cerca di appassionarli, o se obbliga invece a studiare passivamente, dipende dalle
norme, dagli assunti ideologici, filosofici e valoriali del docente stesso, dunque con le rappresentazioni che
egli ha della disciplina. Per tal motivo, è importante che un’insegnante si interroghi su quale
rappresentazione ha di quel particolare ambito del sapere, e più in specifico, deve chiedersi:

“Cosa so di quella disciplina e quando ne sono venuto a conoscenza? Da dove vengono le spiegazioni che
ho acquisito e quali sono le loro fonti? Come decido cosa insegnare, e come lo rappresento?”

Inoltre, l’esperienza personale influenza il sapere del docente: esiste, il più delle volte, uno scarto tra questi
due aspetti che invece andrebbe colmato, proprio per evitare di riprodurre inconsapevolmente quanto è stato
trasmesso. Per Develay infatti, l’immagine che ogni docente ha interiorizzato di una certa disciplina permette
ad egli di capire il motivo per cui ne è stato attratto oppure no, ma anche il motivo per cui si possono
avvicinare gli alunni a quel mondo di conoscenze.

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La trasposizione didattica di una certa disciplina, che permette agli allievi di raggiungere questo sapere, di
appassionarli ad essa, di rendere i contenuti più accessibili e comprensibili, richiede che gli insegnanti,
riflettano sulle proprie rappresentazioni rispetto ai diversi saperi e sul senso di auto-efficacia che hanno
maturato nel tempo, per le proprie capacità innate e per le modalità di insegnamento a cui sono stati esposti.

Ciò richiama l’importante necessità da parte dell’insegnante di operare quella che viene definita vigilanza
epistemologica (Chevallard) secondo la quale, il docente si interroga sulla logica interna di una certa
disciplina, sulla sua evoluzione nei diversi contesti storici, politici, culturali, sul confronto e sulle possibili
integrazioni tra i differenti paradigmi in quel campo.

 Mis – concezioni e vigilanza epistemologica

Per contrastare le mis – concezioni provenienti dal mondo dei non esperti, è necessaria la vigilanza
epistemologica operata dall’insegnante, che richiede la conoscenza dei differenti modi di intendere e
comprendere la disciplina e le sue distorsioni. Il tal modo, il docente può produrre spiegazioni alternative di
stessi principi o concetti, per far fronte alle difficoltà e diversità degli studenti.

Interrogarsi sul proprio modo di pensare, diventa il primo passo per riflettere sulla logica interna di una certa
disciplina, poiché il modo di insegnare le diverse discipline da parte dei docenti deriva dalla capacità di
intravedere e riconoscere logiche tra loro diverse, individuando mis – concezioni e possibili integrazioni.

Esempio: nel caso della letteratura italiana, la trasposizione didattica richiede che si riconosca e si superi un
approccio che si richiama unicamente a obiettivi di elevato tecnicismo, e che persegua invece l’obiettivo di
offrire gli strumenti necessari al fine di apprezzare e valutare gli elementi di un testo. In questo modo,
Leopardi non richiamerà alla nostra memoria il transito tra pessimismo storico e pessimismo cosmico, ma ci
ricorderà un giro di versi in cui niente è lasciato al caso, dove tutto risponde ad uno scopo e senso preciso.

 La legittimazione sociale dei saperi e preservazione del senso

Un altro principio fondamentale per il docente, che si appresta a scegliere contenuti disciplinari intorno a cui
costruire percorsi di apprendimento per i propri bambini, cercando le forme più adatte per appassionarli e per
promuovere apprendimenti efficaci, è quello della rilevanza sociale o di legittimazione sociale del sapere.
Tale principio, riflette su quali basi, in vista di quali scopi e con quali orizzonti di senso il docente opera la
scelta dei contenuti: le discipline infatti non rappresentano solo saperi discorsivi, ma rimandano anche ad un
mondo di carattere sociale e produttivo che costituisce la sua ragione autentica.

Il docente potrà tessere una tela che ricompone tre livelli di attribuzione di significato, aiutando i ragazzi a
cogliere e comprendere il rapporto che riconduce i saperi sapienti alle pratiche sociali di riferimento, perché
ogni disciplina costituisce una finestra sul mondo, un suo principio di intelligibilità, che utilizza specifici
strumenti, materiali, fonti, ed è diversa da ogni altra disciplina. I tre livelli di attribuzione di significato sono:

1. Epistemologico della disciplina


2. Rappresentazione che ne delinea l’insegnante
3. Senso per l’alunno

Come può un insegnante appassionare un bambino ad un certo sapere, che magari può essere interpretato
come qualcosa di lontano e astratto dalla loro vita reale? Come introdurli a concetti complessi in modo che
aiutino a interagire con la realtà e a risolvere problemi pratici? Come contestualizzare la nozione di un sapere
con quelle di altri domini conoscitivi, in modo da rendere maggiormente accessibile un contenuto per i
bambini, in termini di gradualità e articolazione della complessità?

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Per costruire percorsi che seguano questa direzione, è necessario superare l’idea che il sapere disciplinare sia
costituito da una serie di dati, date, formule, leggi . . . ma piuttosto che rappresenti l’ingresso in
un’interpretazione esperta del mondo, più potente di quella del senso comune.

 Trasposizione didattica ed evoluzione storica delle discipline

Operare una trasposizione didattica consente di avvicinare gli alunni alla disciplina che insegniamo,
facendone apprezzare lo sguardo che apre sul mondo, facendoli appassionare allo studio degli strumenti, dei
metodi e delle fonti utilizzate  tutto ciò significa farli appassionare al percorso che quelle discipline hanno
tracciato nella storia, con le difficoltà e gli ostacoli incontrati, con gli errori commessi sulla strada della
conoscenza, i cambiamenti di rotta e i salti creativi.

Per operare in questa direzione, l’insegnante prima di tutto dovrebbe conoscere non solo i contenuti della
disciplina insegnata, ma anche ciò che la caratterizza in profondità, come è cambiata nel tempo e nei diversi
contesti storico – economici e politici, in cui ha avuto origine e si è sviluppata. Conoscere e riconoscere i
diversi passaggi epistemologici che hanno interessato una certa disciplina e la sua evoluzione, può influire
molto direttamente sulle pratiche didattiche concrete. Queste conoscenze e queste consapevolezza possono
essere l’aiuto per cogliere il fascino che le discipline hanno avuto nel tempo, ma possono anche contribuire a
cogliere alcune mis – concezioni nostre relative ai saperi in oggetto che ancora permangono implicitamente.

L’insegnante, non può non considerare a fondo la conoscenza informale che i ragazzi hanno assorbito tramite
le loro esperienze dirette, che peraltro possono trasformarsi in grandi risorse per la costruzione di nuove
conoscenze. Queste conoscenze informali possono però contribuire a consolidare alcune mis – concezioni
spesso difficili da scardinare e rimuovere. La possibilità di confrontare i saperi sapienti con le pratiche sociali
da cui traggono origine o a cui vengono applicati, richiama il rapporto tra apprendimenti informali (ingenui)
e apprendimenti formali (esperti).

 Everyday cognition: saperi esperti, saperi taciti, senso comune

Gli studi che approfondiscono il passaggio dalle conoscenze formali/ingenue a quelle formali/esperte, sono
gli studi interculturali relativi alla everyday cognition: con questo termine si intende la conoscenza prodotta
nell’esercizio delle attività quotidiane e nel tentativo di risolvere i problemi della vita di ogni giorno, e
definita anche conoscenza tradizionale o popolare, in contrasto con la conoscenza scientifica, scolastica e
degli esperti. Alcune ricerche su tale argomento dimostrano che le abilità aritmetiche degli adulti
nell’esercizio delle attività quotidiane, rivelano competenze non sempre sviluppate a scuola. Tali ricerche
partono dall’idea che i processi di apprendimento degli individui dipendono dai modi in cui diversi soggetti
coordinano reciprocamente le loro attività sociali e come collegano le loro azioni con gli strumenti connessi.

Secondo gli studi antropologici di Rogoff, lo sviluppo cognitivo e le conoscenze nei diversi ambiti del sapere
non consistono nell’acquisizione passiva di conoscenze e abilità, ma si compiono in un processo attivo di
trasformazione del modo di pensare, percepire, comunicare, ricordare, classificare, riflettere, pianificare,
porsi e risolvere problemi, in attività in cui sono presenti anche altre persone che condividono stesse pratiche
e tradizioni culturali. Lo sviluppo individuale e l’attività di costruzione delle conoscenze nei diversi ambiti
del sapere consiste in un’attiva partecipazione ad attività culturali: interagendo con gli altri, gli esseri umani
perfezionano ed utilizzano i costumi e le pratiche culturali ereditati dalle precedenti generazione, e nel
contempo costruiscono conoscenze non formalizzate nei diversi campi del sapere e partecipano alla loro
trasformazione. E’ necessario allora chiedersi come il docente può accogliere le enciclopedie dei ragazzi, gli
apprendimenti acquisiti in ambito informale, le conoscenze ingenue o anche le mis – conoscenze che
possono derivare, e come tradurle in risorse per dar vita al sapere sapiente, formale e appropriato che
vogliamo promuovere con il gruppo dei bambini della classe.

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In che modo il docente può attuare una trasposizione didattica intera, definita anche come mediazione
didattica, partendo da tali presupposti? Il docente sarà innanzitutto chiamato a considerare i saperi come
risorse da mobilitare, per mettere in relazione le proposte scolastiche con le esperienze di vita e i problemi
reali in cui i ragazzi sono immersi, andando verso una minore chiusura delle discipline. In secondo luogo,
l’insegnante dovrà tenere presente che la costruzione della conoscenza non può che partire da ciò che Piaget
definisce conoscenza ingenua, detta anche tacita, inespressa, informale. L’insegnante non potrà che partire
da quelli che Bachelar definisce saperi ignoranti, farli emergere e metterli a confronto con esperienze,
materiali, attività e stimoli capaci di verificarli e modificarli.

Partendo dall’osservazione e dall’ascolto paziente e appassionato degli allievi, si cercherà di capire come essi
provino per la prima volta a darsi conto delle cose, come cerchino di trovare relazioni tra i diversi elementi
della realtà che studiano in che modo i ragazzi possono arricchire di significati le parole dell’esperienze.

La scelta di partire dall’emersione dei saperi taciti, dal modo in cui i ragazzi si danno conto delle cose e
danno un nome all’esperienza, valorizzandone il percorso di conoscenza a esse legato, corrisponde ad un
duplice obiettivo:

1. si riuscirà ad agganciare gli alunni sul loro terreno e a motivarli


2. si potranno progettare attività e compiti capaci di interrogare le loro concezioni ingenue e metterle in
discussione per costruire conoscenze scientifiche formalizzate.

Esempio: progettazione di un percorso che aiuti i bambini a comprendere il funzionamento delle corde
vocali, fenomeno che però non permette al maestro di mostrare concretamente qualcosa che ai bambini
potrebbe apparire interessante.

- si potrebbe partire dalle definizione di corde vocali  la nozione è corretta, il linguaggio


appropriato, ma il bambino non avrà la possibilità di capire di cosa si sta parlando.

- dobbiamo cercare di rendere il fenomeno più vivo possibile  un esempio potrebbe essere quello di
mostrare un disegno dell’organo, e questo permetterebbe ai bambini di acquisire un’idea visiva ma
comunque difficilmente riuscirebbero a collegare l’immagine con il loro corpo.

Testimonianza di Alberto Manzi: esempio di come i bambini possono essere in grado di immergersi in un
fenomeno come quello delle corte vocali, intuendone il funzionamento, senza però toccare con mano
l’oggetto di cui si parla e non potendone visualizzare il processo. Un bambino sostiene che le corde vocali
sono 21, come le lettere dell’alfabeto, e posso usarle per parlare tutte le lingue, quindi se voglio dire Y,
questa è fatta da i,p,s,o,l,o,n.

Come si può dimostrare che era un concetto sbagliato? Bisogna imporlo? L’imposizione però non forma un
concetto, si dimentica facilmente, oppure rimane astratta nella mente, ma non porta una crescita intellettuale.
Manzi ci riesce con un violino, mostrano al bambino che il violino ha solo 4 corde, ma fa tanti suoni diversi.

La testimonianza di Manzi ci suggerisce alcuni spunti didattiche che seguono la direzione della trasposizione
e mediazione didattica: queste ci permettono di costruire un sapere capace di ricondurre concetti e
conoscenze alla vita reale e alle esperienze dei ragazzi, attraverso la partecipazione a compiti di senso.

 Conoscenza della disciplina e scelte concettuali

Per poter operare la trasposizione didattica, l’insegnante deve conoscere la tematica/la disciplina che insegna.
La semplificazione di una disciplina infatti richiede grande conoscenze di essa, perché è necessario
conoscere e capire il suo fondamento epistemologico che dovrebbe essere l’oggetto delle didattiche
disciplinari e dell’insegnamento proposto ai futuri insegnanti. Tale conoscenza, ci permette di operare delle
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scelte su che cosa insegnare, quali argomenti, contenuti, concetti, oggetti a partire dai nuclei concettuali di
quella porzione di sapere. I nuclei fondanti indicati dalle Indicazioni Nazionali, sono caratterizzati da alcuni
elementi che li distinguono dai contenuti/argomenti:

- la verticalità, in quanto ricorrono nel sapere per l’intero arco di studi


- la trasversalità, in quanto si evidenziano collegamenti tra un nucleo e l’altro e con altre discipline
- l’ampliabilità, in quanto per approfondimenti successivi si giunge alla teorizzazione e alla
definizione delle proprietà fondamentali.

Solo in questo modo possiamo individuare gli aspetti imprescindibili di un concetto, le trame di
ragionamento che li collegano, e quindi il filo che dobbiamo ricostruire con i bambini a diversi livelli di
approfondimento e di formalizzazione, a seconda della loro età.

Alcuni esempi di come sia possibile partire dalle conoscenze e dalle osservazioni più elementari dei bambini
e che fanno parte delle loro esperienze di vita quotidiana, per proporre contenuti e concetti complessi. Con
esperienza personale si intende non solo quella quotidiana, ma anche la nascita di un bambino, i cambiamenti
del corpo negli anni, il giorno che un uccellino entrò in casa . . .  partire dalle conoscenze più elementari
può essere un ottima opportunità di apprendimento, anche per l’insegnante che riuscirà a padroneggiarle con
maggior sicurezza rispetto a conoscenze invece più sofisticate e quindi a renderle anche più efficaci
didatticamente. Partire dalle esperienze dei bambini, dalle loro rappresentazioni può far emergere mis –
concezioni dei bambini ma anche mobilitare le loro risorse e fornire all’insegnante occasione di aprire a
interrogativi, situazioni – enigma, manipolazioni, esplorazioni ed esperienze che sono in grado di avviare la
curiosità e lo spirito di ricerca dei bambini.

 Percorsi a partire da saperi taciti e da esperienze dei bambini: attività e compiti autentici

Se l’insegnante volesse far tesoro delle conoscenze tacite e delle esperienze dei bambini, accompagnando il
ripensamento e la revisione delle conoscenze ingenue, in quale modo potrebbe introdurre per esempio ai
bambini di città l’idea del mondo agricolo? Tale argomento occupa poco spazio all’interno del sussidiario,
che propone solo nozioni da imparare a memoria, con definizioni estranee del tutto al loro mondo e spesso
anche corredate da immagini stereotipate che non corrispondo alla realtà odierna, che vede un’agricoltura
industrializzata, tecnologizzata e regolata scientificamente. Da dove partire allora?

- far disegnare ai bambini come si immaginano il contadino un’azienda agricola


- avviare un brainstorming sulla parola campagna
- far raccontare l’esperienza di un contadino
- accompagnare una classe in visita ad una grande fattoria
- mostrare foto di oggetti impiegati dagli agricoltori
- intervistare gli agricoltori dei giorni nostri

Queste sono tutte attività che permettono ai bambini di esplicitare la loro idea e rappresentazione di un
mondo sconosciuto, e che aiutano a mettere in discussione gli stereotipi senza dover correggere o svalutare
quanto proposto dai bambini  sono attività che permettono di aprire una finestra su un mondo del sapere.

Già Piaget sosteneva che l’alunno messo a contatto con una formazione nuova, la interpreta secondo le
proprie conoscenze, competenze, esperienze e secondo i propri comportamenti. Gli alunni ri – organizzano
quello che conoscono in funzione di nuove conoscenze, per poterle usare appropriatamente. Questo processo
di appropriazione delle conoscenze porta gli alunni a capire i concetti nell’ambito di un certo campo. Sempre
secondo Piaget poi, a partire dall’esplorazione e dalla conoscenza implicita che ognuno ha della realtà,
l’acquisizione di nuove conoscenze e la costruzione di significati avviene tramite tre passaggi:

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1. il riferimento alla rappresentazione (concezione) della realtà, in contesti formali e non formali, di
tipo esperienziale e concreto, di cui non sempre il soggetto è consapevole
2. l’individuazione dei legami tra la precedente rappresentazione e la nuova realtà fenomenica, le
nuove attività e i nuovi compiti a cui ci si accosta
3. la capacità di ricostruire un sistema gerarchico tra i diversi elementi di un sistema e tra i diversi
concetti a cui si ricorre per comprendere il funzionamento e le leggi che regolano tale sistema.

Una modalità per avviare azioni didattiche che seguano tale direzione, è quella di iniziare da domande forti e
stimolanti, domande che incuriosiscono, stupiscono e a cui si possa rispondere ragionando insieme. Tali
domande aprono ad altre domande, per capire un funzionamento o un fenomeno, per provare ad immaginare,
a immedesimarsi in un mondo. Domande che possono trasformarsi in nuovi compiti, nuove situazioni
enigma o situazioni problema e che inducano i bambini a porsi come ricercatori, cercando soluzioni concrete
a concetti disciplinari che altrimenti possono apparire come astratti e lontani.

Il docente quindi, dovrà operare una scelta di attività, consegne, problemi, situazioni, compiti che siano
autentici, ossia che non solo permettano ai bambini di ricollegarsi al loro mondo esperienziale ma anche ai
problemi complessi, aperti, posti agli studenti come mezzo per dimostrare la padronanza di qualcosa, e che
richiedano abilità multiple, che aprano a più soluzioni, implichino giudizi e interpretazioni personali,
richiedano applicazione di vari criteri, comportino incertezza, disordine . . .

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CAPITOLO 7: I DISPOSITIVI DIDATTICI

 Il dispositivo e l’azione didattica

Il concetto di dispositivo, può essere considerato una categoria “euristica” per analizzare l’agire didattico.
Il significato del termine ha subito variazioni a seconda del contesto storico o istituzionale all’interno del
quale è stato utilizzato. Si tratta di un concetto caratterizzato da una plasticità intrinseca, e che spesso è stato
utilizzato per conciliare aspetti apparentemente discordanti dell’agire educativo. Foucalt, il primo autore a
parlare di dispositivo, lo ha definito come la rete che si può stabilire tra gli elementi.

La definizione di dispositivo appartenente al senso comune ha un duplice significato: per un verso è


considerato come “ciò che è stato disposto”, mentre per un altro si intende un congegno predisposto ad una
determinata funzione. Rispettivamente la prima definizione si rivolge ad una dimensione dell’intenzione,
mentre la seconda si riferisce ad una dimensione più concreta e meccanica. Questo duplice significato,
induce a pensare ai mezzi, agli strumenti, alle modalità che consentono il funzionamento di un oggetto, ma
anche allo scopo per cui sono stati composti, quindi all’intenzionalità.

In ambito educativo, se si considera l’azione didattica come l’agire del docente che opera nella sua classe,
diventa allora possibile intendere il dispositivo come il costrutto che presenta una duplice e correlata
funzione: 1) descrive l’organizzazione dell’azione, 2) rende possibile tale azione.

Dispositivo: categoria euristica per analizzare l’agire didattico, interrogandone la sua dimensione
intenzionale e la sua dimensione materiale.

 L’intenzionalità e il curriculum implicito

L’insegnante, agisce in un contesto istituzionale ampliamente codificato rispetto a regole e norme.


Le Indicazioni Nazionali, sono il riferimento ministeriale per lo sviluppo delle progettazioni scolastiche
rispetto all’organizzazione del curricolo e ai traguardi di competenza, ma comunque non prescrivono un
metodo per raggiungere gli obiettivi  indicano invece delle strategie che il docente può organizzare.
In questo spazio di azione, può essere analizzato il dispositivo che si occupa del come fare, cioè del docente:
è possibile quindi osservare come l’intenzionalità dell’insegnante è influenzata da diversi fattori.

Sull’intenzionalità del docente, agiscono una vasta rete di saperi, discorsi, dimensioni che lo portano a
elaborare significati e strategie, che incidono sul livello profondo della progettazione, e la ricaduta di questo
si registra sulla conseguente disposizione organizzative dell’azione del docente, determinandone la
componente materiale, ma anche sul contesto relazionale e valoriale. Questa dimensione va a definire un
curricolo implicito dell’azione, il quale può essere dipendente da:

- i documenti ministeriali (le Indicazioni Nazionali), da cui deriva la scelta degli obiettivi in termini di
competenza disciplinare o trasversale, e che definiscono le finalità dell’azione didattica.

- l’ambito disciplinare insegnato, poiché le domande che l’insegnante si pone riguardo ciò che insegna
assumono un ruolo centrale, in quanto, attraverso il contenuto proposto, l’insegnante costruisce un
rapporto con l’alunno e al tempo stesso, determina l’atteggiamento di questo verso la disciplina.

- i destinatari dell’azione in quanto il docente ha il compito di sintonizzare la sua azione didattica


rispetto non solo al gruppo classe, ma anche al singolo alunno che ne fa parte.

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Con l’espressione “curricolo implicito” (hidden curriculum) si intende richiamare quindi l’insieme delle
componenti dell’azione che non sono oggetto di una progettualità esplicita, e da collocare al fianco del
“curricolo esplicito” ovvero alle scelte intenzionali del docente, in merito agli obiettivi, ai contenuti, alle
metodologie della propria azione didattica. La didattica implicita, racchiude tutte quelle dimensioni che
compongono il setting formativo entro il quale si sviluppa l’azione intenzionale del docente:

- la gestione dello spazio


- la gestione del tempo
- la gestione del gruppo classe
- il grado di strutturazione delle proposte didattiche
- le regole che strutturano le modalità di relazione e di funzionamento del gruppo
- i canali comunicativi tramite cui si sviluppa la relazione
- il rapporto con i saperi della sua disciplina, poiché la modalità con cui il docente intende essa e il
modo in cui la propone ai bambini dipende dalle norme e dalle idee del docente stesso

L’insieme di questi aspetti costituisce una pedagogia latente, la quale veicola con un determinato modello
educativo, più o meno congruente con quello dichiarato intenzionalmente.

Nella categoria dell’intenzionalità del docente, è possibile trovare una dimensione di progettualità che regola
il concretizzarsi dell’azione didattica, ma anche della strategicità, che consiste nell’esplicitazione delle
finalità a partire dalle quali è definibile il piano di azione. Sono due dimensioni che riguardano due tempi
dell’azione didattica: la prima un tempo presente, mentre la seconda uno slancio verso il futuro.

- Progettualità : il docente deve interrogarsi sul senso dell’azione didattica, da cui dipende la
motivazione che ricerca per i suoi alunni  dare un senso all’azione didattica significa progettare in
modo tale il discente provi interesse per il sapere affrontato, e deve quindi realizzarsi un rapporto tra
il sapere e l’alunno, con i suoi problemi, domande, storie, desideri, bisogni . . . De Vecchi sostiene
che sono tre gli aspetti che consentono di dare un senso a un sapere: 1) quando è utile per i bambini,
2) quando tocca l’affettivo o il simbolico, 3) quando permette di innalzare lo statu scolastico.
Ciò riguarda un senso personale che ciascun alunno costruisce una volta coinvolto nell’azione
didattica, ma esiste anche un senso universale utilizzato da tutti. Ricercare un senso, è una modalità
di attivazione della motivazione degli alunni, efficace però solo se parte da conoscenze pregresse.
Il compito dell’insegnante è quello di stimolare il desiderio di conoscere, ovvero di basarsi sulla
realtà per renderla accessibile, e non di manipolarla per renderla più attraente.

- Strategicità : essa riguarda gli obiettivi dell’azione didattica del docente, e trova il principale punto
di riferimento nelle Indicazioni Nazionali, perché rappresentano una linea guida per le progettazioni
scolastiche degli insegnanti e indica piste didattiche da percorre per finalizzare l’azione educative
verso traiettorie di sviluppo dell’alunno. L’insegnante predispone il dispositivo per raggiungere
determinate finalità, ma il raggiungimento di queste è dipendente anche dall’intenzionalità degli
allievi  a tal proposito, è richiamata la tassonomia dei processi cognitivi di Bloom, che prevede sei
livelli, partendo da obiettivi di performance fino ad arrivare a obiettivi di competenza:
1) conoscenza: capacità di rievocare materiale memorizzato
2) comprensione: capacità di cogliere senso di un’info e saperla trasformare
3) applicazione: capacità di far uso di materiale conosciuto per risolvere nuovi problemi
4) analisi: capacità di separare degli elementi
5) sintesi: capacità di riunire elementi per formare nuova struttura organizzata
6) valutazione: capacità di auto valutazione con giudizi critici

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All’interno di questa gerarchia, possono essere individuati, dal docente:

- obiettivi curriculari (conoscenza): implicano l’appropriazione da parte degli alunni di conoscenze


dichiarative specifiche e legate ad un ambito disciplinare. Si presuppone quindi che l’azione
didattica possa prevedere un’unica direzione di percorrenza, ovvero quella della trasmissione dei
contenuti da parte dell’insegnante agli alunni  un esempio classico è quello di una lezione
tradizionale, condotta dal docente oratore che espone informazioni in quanto esperto, e dove lo
studente è considerato solo un semplice uditore che non prende parte alla formulazione di contenuti.
Il processo di insegnamento/apprendimento è inteso come una trasmissione lineare di conoscenze.

- obiettivi formativi trasversali (comprensione, applicazione, analisi, sintesi): si fa riferimento a quelle


attività che mostrano attenzione agli aspetti di condivisione, regolazione, negoziazione di tematiche
o contenuti all’interno del gruppo. E’ prioritario, per il docente, sviluppare esperienze di
condivisione di concetti, metodi, epistemologie, e le direzioni per far ciò sono due, ovvero
confrontare varie esperienze soggettive per evidenziare interpretazioni e concettualizzazioni diverse,
oppure dare vita ad una ricerca collettiva riguardo l’argomento esaminato le metodologie più
frequenti per raggiungere tali obiettivi sono la discussione oppure il lavoro di gruppo, dove la pratica
discorsiva e il confronto sono il motore della conoscenza e dell’apprendimento. In quest’ottica, il
docente si pone come sostegno o facilitatore del processo collettivo di scoperta, attraverso un ascolto
autentico di quanto vogliono esprimere gli alunni.

- obiettivi meta cognitivi (valutazione): in tale ambito, l’insegnante ha il compito di strutturare


l’azione didattica in modo da promuovere la consapevolezza di sé e del proprio stile di
apprendimento, e in questo senso l’azione deve considerare diversi elementi quali l’oggetto della
riflessione, i tempi della riflessione e uno strumento per dare visibilità ai processi riflessivi.
Riflettere è stabilire un contatto con se stessi e con i mondi di significato che sono stati creati nella
comunità di appartenenza  la riflessione sui propri processi, sull’azione e durante l’azione
costituisce un passaggio ineludibile in un’ottica di sviluppo della competenza.

La dimensione della strategicità del dispositivo, può essere anche letta alla luce della tripartizione dei
dispositivi, proposta da Rossi e Toppano: gli autori descrivono l’azione didattica utilizzando l’immagine di
un triangolo equilatero, dove collocano nei tre vertici i dispositivi con obiettivi e finalità differenti.
La tripartizione dei dispositivi consiste in:

1) dispositivi con attività istruzionali  obiettivi curricolari

2) dispositivi con attività di regolazione e collaborative  obiettivi formativi trasversali

3) dispositivi con attività riflessive e auto valutative  obiettivi metacognitivi

 Il dispositivo e la mediazione

Il dispositivo chiama in causa una dimensione intenzionale maggiormente visibile e una parte sommersa,
invisibile. Nell’intenzionalità dell’insegnante, le dimensione sono quelle della progettazione e della
strategicità. Nella prima, è l’insegnante a presidiare questo spazio e ad allestire l’azione, ma invece nella
seconda non si può non considerare l’alunno  egli mette in gioco i propri saperi e li fa dialogare con quelli
dell’insegnante e della comunità. Il focus del dispositivo è ritrovabile quindi nella mediazione tra un
presupposto dal docente e uno realizzato dall’alunno e dal docente stesso nella loro interazione. Per

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mediazione didattica si intende quindi l’azione dell’insegnante che intenzionalmente mette in atto al fine di
favorire l’apprendimento dei propri alunni.

L’insegnante può essere concepito come un mediatore vivente, e il suo ruolo mediatico si snoda attraverso
due tipi di versanti differenti:

- affettivo relazionale, creando nella classe un clima positivo, di valorizzazione delle differenze e
dell’integrazione dei diversi punti di vista.

- didattico, agendo sulla trasposizione dei contenuti, al fine di renderli maggiormente accessibili agli
alunni e avvalendosi dell’utilizzo di differenti strumenti e metodologie coerenti con il tipo di
apprendimento promosso e utilizzato.

Damiano, ha elaborato una teoria secondo la quale il processo di costruzione di conoscenze deriva
dall’interazione di soggetto, oggetto e mediatori.

- Mediazione verticale: l’insegnamento è concepito come sostituzione della realtà con segni, grazie
all’uso di mediatori capaci di mantenere il riferimento alla realtà e di rinviare la rappresentazione del
sapere che il docente elabora all’interno del processo di insegnamento. E’ l’insegnante a decidere
come gestire la distanza tra il reale e il ricostruito, e occorre utilizzare la complementarietà dei
diversi mediatori perché gli alunni hanno diversi stili di pensiero, e il passaggio da un mediatore
all’altro richiede all’alunno un ruolo attivo. Questa può definirsi una concezione verticale di
mediazione tra mondo e rappresentazione di mondo.

- Mediazione orizzontale: è concepita la mediazione tra il mondo dell’insegnante e il mondo


dell’alunno. I riferimenti dell’insegnante nascono dalla sua filosofia educativa e dalla sua identità
professionale, e accanto a essi sorgono i mondi degli studenti. Il confronto tra questi mondi produce
nuova conoscenza in entrambi i soggetti, e tale mediazione orizzontale mira a proporre un dialogo
tra diversità che potrebbero rimanere tali ma imparare a coesistere.

L’idea di mediazione e la sua pratica non possono prescindere dall’idea generale di didattica: si tratta di un
processo che avviene sempre in situazione. Una didattica attenta alla dimensione della relazione, che non
perde il senso degli apprendimenti e la ricaduta delle nozioni sui soggetti, necessita di vari livelli di
mediazione. Quest’ultima obbliga a porre una doppia attenzione nelle analisi dell’azione didattica: alle
modalità con cui i soggetti assegnano un significato alle esperienze vissute, e alla partecipazione dei soggetti
al processo di costruzione del sapere.

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CAPITOLO 8: SCUOLA E TERRITORIO

 Una scuola che apre le sue porte

Nei secoli passati, ma purtroppo anche attualmente, in molti casi l’istituzione scolastica si è posta come uno
“spazio altro” separato dalla vita esterna e codificato grazie ad un suo preciso rituale. L’intento significativo
è stato quello di ottimizzare il passaggio trasmissivo di conoscenze già stabilite a priori, per confermare e
tramandare uno status sociale legato a valori morali ed economici che si voleva conservare immutato.
In questo senso, si è sentita la necessità di collegare la scuola alla realtà quotidiana, e oggi alcune facce del
mondo esterno alla scuola sono divenute imprescindibili nella costruzione di un curricolo aderente alla vita

Natura, ambiente, paesaggi, musei, teatri, archivi, biblioteche, patrimoni culturali, società civile . . .
Questi sono stati gli elementi emersi prioritariamente all’attenzione e che si potrebbero definire con il
termine di “territorio” intendendo con questo, tutto quello con cui si relazione o può relazionarsi la scuola
nell’accezione più ampia, uscendo dai suoi cancelli. Ciò, perché è ritenuto di grande importanza far
impadronire gli alunni degli spazi esterni alla scuola, che sono e che saranno l’ambito in cui esercitare la
cittadinanza attiva, ma ci si può occupare solo di ciò che si conosce e che si sente come proprio.

Concetto di fuori  suddiviso in tre categorie: natura, cultura, società.

Un’istituzione che lavora in tale direzione, sposa la causa dell’essere presente e partecipe all’interno del
dibattito politico e culturale, lancia segnali verso un’idea di cultura condivisa e non elitaria, si muove
sull’onda del pensiero di autori di grande portata come Freinet o Milani.

L’idea che la scuola debba necessariamente inserirsi a pieno titolo nella società contemporanea è un dato
certo, bisogna però ora capire come possa tradursi questo progetto in una realtà che riesca a confermare tale
necessità. Una scuola è sentita come mondo perché essa stessa è aperta costantemente verso di esso, si pone
in relazione continua, è protesa a farsi conoscere, comprendere, interrogare, esplorare, ricercare . . . Tale
prospettiva permette di ritrovarsi con quanto affermato nelle Indicazioni Nazionali, che sostengono di
allargare l’orizzonte territoriale della scuola e di possedere legami con le varie aree del mondo.

“E’ necessario allargare il nostro concetto di scuola fino a sentire che la scuola è il mondo” (Pizzigoni)

 Scuola e natura

Come inserire la natura all’interno della scuola? Come prospettare esperienze di contatto con l’esterno, fin
dai primi cicli di istruzione? Innanzitutto bisogna sottolineare che si sta sempre più rimarcando la necessità
di recuperare una dimensione più primitiva della vita umana soprattutto nelle prime fasi della vita di bambini
e ragazzi  si cerca sempre più un contatto diretto con la terra e i suoi ritmi, sentiti ormai come perduti.
Fin dal passato, un’attenzione peculiare verso la natura era sempre stata reputata come fondamentale, e
questo interesse si è manifestato anche in ambito educativo, delineando due vie: la prima dedicata
all’attenzione naturale e non forzato, la seconda che si concentrava sulla presenza di ambienti naturali per
sviluppare al meglio il portato educativo.

I pensieri di alcuni autori riguardo l’argomento:

- Rousseau: sosteneva che il progetto educativo dovesse avvenire all’interno di un ambiente naturale,
in modo che la crescita del bambino fosse pienamente inserita in quei ritmi e in quel mondo, il solo
possibile per permettere una crescita armoniosa e sana, lontana dall’artificiosità della città. L’autore,
era dunque convinto dell’idea di un bambino che doveva vivere immerso nella natura, in campagna,
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lontano dalla città, al quale era permesso quindi di inseguire i ritmi naturali, rispettando così anche
quelli della sua crescita e del suo sviluppo. Se il fanciullo era mantenuto nella sola dipendenza delle
cose, allora si seguiva l’ordine della natura nel progresso della sua educazione. L’attenzione del
bambino deve quindi essere orientata verso la natura sempre, la quale è la sola maestra di tutti gli
apprendimenti, e per favorire ciò, l’adulto non deve dare immediate risposte ai quesiti dei bambini,
ma lasciare che questi abbiano il tempo di trovare autonomamente le soluzioni. Se al bambino era
concesso di rivolgersi alla natura, allora egli sarebbe diventato curioso, e avrebbe utilizzato il suo
corpo come migliore contatto con il mondo, attraverso i suoi organi e sensi, che lo avrebbero
orientato, portato a conoscere e a conoscersi.

- Frobel: nel 1839 realizza il primo giardino d’infanzia, progettando spazi all’interno di scuole, in cui i
bambini potessero giocare liberamente all’aperto, insieme a orti destinanti alla coltivazione proprio
da parte dei bambini. Laddove fosse impossibile trovare luoghi esterni alla scuola, l’autore ipotizza
l’uso di una strumentazione agevole, come semplici cassette o vasi da collocare all’interno delle
aule, per non far perdere a nessun bambino questa occasione di crescita.

- Montessori: l’autrice sottolineò la necessità di porre una soluzione al divario tra il mondo dei
bambini e della natura, poiché essi non avevano molte occasioni per relazionarsi con questa.
E’ importante cercare lo sviluppo di speciali sentimenti suscitati dai meravigliosi oggetti della
natura, come i fiori, le piante, gli animali, i paesaggi, i venti, la luce, ma anche dalla coltivazione
fatta direttamente dai bambini, i cosiddetti “campicelli educativi”, di origine froebeliana. Il bambino,
sostiene l’autrice, ha il bisogno di vivere naturalmente, e non soltanto di conoscere la natura, ed il
fatto più importante risiede proprio nel liberare il fanciullo dai legami che lo isolano nella vita
artificiale creata dalla realtà cittadina. In questo senso, ella prospetta la necessità di lasciare al corpo
dei bambini la possibilità di costante contatto con gli elementi naturali: propone allora di liberare i
bambini da scarpe e vestiti troppo ingessati, per permetter un accostamento continuo con aria, acqua,
sole, senza alcun timore perché il fisico ne trarrà sicuramente giovamento.

- Pizzigoni: pone alla ribalta del suo progetto educativo la tematica della natura, inserendo nella sua
scuola l’orto, i campi e il lavoro della terra come punti principali di ogni azione educativa. Il lavoro
della terra diventa l’asse attorno al quale si orienta la progettazione complessiva della scuola, e tutte
le discipline sono direttamente implicate e devono collegarsi costantemente a quanto si è osservato e
realizzato nell’orto. Si tratta di un dentro e fuori vissuti con complementarietà, di un passaggio senza
interruzione dai banchi di scuola agli spazi verdi coltivati. Quindi, pensiero e azione si muovono
contemporaneamente, sperimentando concretamente le varie discipline. L’autrice però sostiene
anche che sia necessario un’attenzione specifica verso particolari, come una porta in ogni classe
corrispondente ad un’uscita diretta sul cortile. Di valore fondamentale sono anche le uscite al di fuori
della scuola, che permettevano ai bambini di conoscere in diretta la geografia, attraverso la scoperta
e l’esplorazione. La natura era quindi sperimentata quotidianamente a scuola con l’orto e i cortili, ma
anche ricercata e ritrovata all’esterno e vissuta con rispetto, riconosciuta come familiare e preziosa.

Avvicinandosi all’attualità, sono necessarie altre posizioni per comprendere i nuovi approcci alla natura che
hanno rivoluzionato alcune ipotesi educative in modo significativo:

- Gardner ha manifestato grande attenzione nei confronti della natura, riconoscendo, oltre alle sue
sette intelligenze, l’ottava intelligenza, che ha chiamato naturalistica, o “arte di arrangiarsi nella
natura”. Essa è definita come la capacità di riconoscere piante, animali, nuvole, rocce e tutte le parti
dell’ambiente naturale. Ognuno è in grado di farlo ma alcuni bambini eccellono in questo campo.

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Questa intelligenza nel tempo è stata sempre meno utilizzata, dirottando la sua attenzione
nell’ambito delle produzioni di oggetti umani.

- I disturbi da deficit di natura è un termine con cui si indica non le carenze di esperienze da realizzare
in regioni selvagge o pittoresche, quanto più la mancanza di un contatto quotidiano con gli elementi
della natura. Louv sostiene che nel bambino abituato a stare in mezzo alla natura si manifesterebbero
numerose potenzialità, perché la natura amplifica il tempo, richiede processi di visualizzazione,
permette interpretazioni multiple, obbliga all’uso di tutti i sensi.

- Il mondo di oggi, progettato e realizzato dagli adulti, è un mondo di divieti e vincoli che cercano in
ogni modo di ostacolare il contatto diretto del corpo dei piccoli con l’ambiente circostante. Si tratta
di un continuo trattenere, impedire, immobilizzare, immaginando pericoli a ogni distanza, a scapito
però delle necessarie ricerche di esperienze da effettuarsi soprattutto negli spazi esterni. In questo
senso, anche i giardini perdono il loro margine di segretezza, di possibilità di misurarsi con azioni
nuove e diverse e che propongono un solo possibile utilizzo in termini di tempo e modalità.
Sono così smarrite tutte le possibilità che questi spazi possono offrire.

- I bambini non vivono più esperienze primarie, ma secondarie, quelle offerte dalla televisione, vissute
quindi da altri e percepite dai bambini solo in modo passivo. Anche le esperienze primarie spesso
nella scuola sono già completamente progettate dagli adulti in tutti i loro passaggi. Dewey aveva già
messo in guardia riguardo questa problematica, ricordando di proporre oggetti grezzi e non finiti,
esperienze piene di difficoltà e non già trattate dai docenti.

- Nell’ultimo periodo sono state realizzate numerose esperienze, che hanno cercato di mettere in
stretta relazione la scuola con la natura, come ad esempio la forest school, ovvero delle vere e
proprie scuole create nei boschi, dove la scelta educativa predominante è quella di immergere
completamente i bambini nella natura, con tutte le prospettive che essa può donare. Altre esperienze
sono quelle che sperimentano in vari luoghi, ma caratterizzandosi però per essere sempre svolte
all’aperto e che si discostano dai tradizionali metodi di insegnamento. Il nome che accomuna queste
esperienze è quello di outdoor education: si tratta di proposte che implicano che le azioni educative
vengano realizzate direttamente nei contesti naturali, al di fuori delle mura cittadine o scolastiche.
In tal modo, ci si rivolge direttamente ai bambini ma anche a tutte quelle persone che vogliono
entrare in un contatto diverso con il mondo e misurarsi quindi in contesti differenti dai soliti.

Ma come si può riuscire a mettere in modo significativo la natura all’interno delle progettazioni scolastiche?

Una scelta auspicata e sperimentata da molti studiosi, per favorire l’approccio con la natura, è quella di
partire dall’ambiente circostante, già conosciuto per la frequentazione quotidiana, incominciando però ad
osservarlo con scrupolo ed attenzione, utilizzando in questo incontro un nuovo sguardo.

Ma come e dove collocare queste ricerche? Possono essere inserite nel progetto di educazione ambientale?

Possiamo scegliere se pensare questa specifica educazione come una vera e propria disciplina, oppure come
uno sguardo che supera le frammentazioni e le appartenenze. Nel sistema scolastico italiano l’educazione
ambientale non si riconosce come una singola materia autonoma, ma collega a differenti insegnamenti che
variano a seconda dei cicli scolastici.

E’ una consapevolezza che far sperimentare ai bambini esperienze di ricerca e di scoperta all’esterno è molto
più complesso e faticoso rispetto a tenere una lezione di insegnamento frontale, ma la fatica sarà ripagata
dalla ricchezza delle scoperte, della gioia, delle esplorazioni e delle infinite possibilità che la natura offre.
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E’ necessario porre una riflessione relativa alla natura, ovvero quella legata al paesaggio. La Convenzione
europea del Paesaggio lo definisce come una determinata parte di territorio così come è percepita dalle
popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni.
Se osserviamo con attenzione il mondo è difficile trovare spazi in cui l’intervento umano non abbia inciso
dei profondi cambiamenti. Con il tempo la definizione di paesaggio è mutata, e se nel passato la definizione
corrispondeva quasi esclusivamente alle bellezze naturali, attualmente ci sta orientando verso un concetto più
esteso di bene ambientale. Il paesaggio muta in relazione al punto di vista, all’ottica disciplinare in cui ci si
colloca: da nozione a concetto, a categoria sia dello spirito che della realtà,per cogliere e interpretare ciò che
appare ma continuamente cambia e sfugge. Questa posizione ha importanti ripercussioni anche in ambito
educativo/didattico  la conoscenza del paesaggio che ci circonda diventa un elemento fondante della
pratica scolastica, declinandosi in diverse discipline. Per comprendere un paesaggio però bisogna
innanzitutto imparare a guardarlo, immergendovisi, ed esso ci ha aperto le porte verso una doppia
dimensione: naturale e umana. E’ cosi divenuto elemento del nostro patrimonio culturale, e nei suoi confronti
sono numerosi i possibili atti educativi che possono essere compiuti, sia dal vicino che dal lontano,
dall’osservazione attiva alla sperimentazione di forme di partecipazione. L’idea è sempre quella di una presa
di coscienza diretta del contesto in cui si vive, con un’apertura costante nei confronti di contesti differenti. In
questo modo la percezione più consapevole del proprio mondo diventa un elemento diffuso di rispetto,
intervento e cura.

 Scuola e patrimonio culturale

Nel tempo, l’attenzione delle scuole nei confronti di quanto le circondava nel territorio si è andata sempre
più approfondendosi. Nel 2015, è stato siglato un protocollo dal Miur e dal Mibact per tracciare un percorso
comune che veda la scuola insieme ai beni culturali come degli esseri attivi e propositivi su uno stesso fronte.
Quando la scuola esce allo scoperto posizionandosi nella società, si scopre la sua enorme potenzialità, capace
di mobilitare energie nuove, convogliando le azioni di studenti, genitori, insegnanti e riuscendo anche
laddove forze più istituzionali falliscono. Da una scuola centrata su processi di acquisizione di conoscenze
per lo più astratte e che si auto confermano al proprio interno, si è passati ad una scuola che spalanca le sue
porte, esce nei propri quartieri o paesi alla ricerca di un patrimonio spesso dimenticato, da utilizzare come
tramite di conoscenze che vanno esplorate, ricercate, studiate e salvaguardate.

Andare al museo . . . La scuola, fin dai tempi lontani, ha imparato a frequentare musei, anche se in Italia
questa relazione si è articolata in modo articolato e con vicende non sempre positive. In altre parti del
mondo, in America per esempio già dall’800 molti musei avevano mostrato attenzioni nei confronti delle
istituzioni scolastiche, dedicando attività particolari a docenti e studenti. In Francia, negli anni 30, ci si
interrogava invece su quale fosse il miglior modo per far visitare i musei, sostenendo che il contatto dei
bambini con essi non doveva essere passivo, cioè non si doveva far subire il museo come visite guidate
nozionistiche, ma farlo vivere, ponendo proprio agli stessi ragazzi delle domande e facendo appello alle loro
conoscenze. Il museo nel suo rapporto con la scuola ha attraverso nel tempo delle diverse concezioni:

- descolarizzazione: azione di quei musei che non vogliono proporre alcun programma specifico per le
scuole, ma mantengono un’offerta indifferenziata per tutti i pubblici.
- parascolizzazione: musei che pensano a questo luogo come un prolungamento della vita scolastica,
con proposte educative in tutto simili a quelle scolastiche.
- armonizzazione: riconoscimento delle specifiche diversità e dei differenti obiettivi come base
essenziale per creare lavori di confronto e cooperazione con la scuola.

Sono molte le similitudini tra museo e scuola nelle finalità che si vogliono ottenere, ma sono ancora più
molteplici le differenze ed è fondamentale che le due strutture vengano salvaguardate, soprattutto riflettendo

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sui tipi di educazione che nei due luoghi vengono realizzati a scuola si tratta di educazione formale,
mentre nel museo invece di educazione informale.

Ma perché è cosi importante che le classi si rechino al museo?

Una prima risposta è perché al museo ci si può confrontare in diretta con oggetti culturali, e riflettere con
accanto opere originali è sicuramente ben differente dal lavorare esclusivamente sulle riproduzioni. Il museo
ci permette quindi di fare significativi approfondimenti. Anche le persone che si incontrano nel museo, ci
fanno sperimentare delle storie che si sovrappongono costantemente a quelle che partono dagli oggetti.
Ai bambini poi è concessa un importante azione riflessiva e partecipata, con attività educative di laboratori
museali, in cui l’operatività porta a sviluppare domande e a posizionarsi in modo nuovo di fronte all’oggetto.
Il museo quindi è sicuramente un deposito di conoscenze che ha però bisogno della nostra presenza per
ricominciare a parlare.

 Società, prime prove di cittadinanza

Dalle forme di partecipazione con i beni culturali e dall’attenzione e protezione verso la natura, si muovono
istanze che hanno a che fare con un discorso sociale e collettivo. L’idea è quella di essere parte di una
comunità sempre più ampia, verso la quale, fin da molto piccoli si deve imparare a rapportarsi, condividendo
e partecipando pienamente a questo mondo. Diventa in questo senso un modo specifico di fare scuola, e le
Indicazioni Nazionali evidenziano che non basta vivere nella società, ma che bisogna creare questa
continuamente insieme, ed il sistema educativo deve appunto formare cittadini in grado di partecipare
consapevolmente alla costruzione di collettività più ampie e composite.

L’ipotesi è allora quella di costruire una società che, a partire dalla vita in classe, si apra, si confronti e si
contamini costantemente con l’esterno. Se dunque molte azioni educative si muovono in questa azione,
almeno ipoteticamente un modo diverso di agire socialmente e politicamente può essere messo in atto.
Per esempio sono molte le numerose esperienze che parlano di consigli di zona dei ragazzi, di spazi
progettati con l’apporto delle idee dei bambini, di proposte di utilizzi differenti di aree dismesse, di
riflessioni su come vivere la scuola in rapporto con la società.

Il valore della relazione tra scuola e territorio diventa una condizione necessaria per provare ad influenzare le
decisioni delle sfere più alte. Il territorio diventa quindi quello che Frabboni ha definito negli anni 80, ovvero
un’ aula didattica decentrata. L’aula scolastica non può bastare a se stessa e ai bambini, oltre che ai docenti:
lo sguardo sul mondo deve essere sempre vivo, sfruttando a pieno le possibilità di creare legami, in modo
tale di poter crescere da un punto di vista sociale e culturale e di sentirsi appieno cittadini del mondo.

Lavorare con, sul, nel territorio diventa un modo per sanare la frattura tra bambini e spazi pubblici, per
permettere di riappropriarci del mondo, e di crescere in autonomia, allontanando l’idea dell’educazione
intesa come totale dipendenza dall’adulto.

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