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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica

Unità Didattica I
L’integrazione nel sistema scolastico italiano

Lezione 1. Diversità ed integrazione

L’attenzione alla diversità ed alle persone diverse quali persone con diritti e doveri,
che esigono rispetto si è andata sempre più affermando negli ultimi cinquant’anni. In
questa prospettiva la stagione dell’attenzione al diverso e ai suoi diritti che si è
aperta a partire dal secondo dopoguerra ha portato oggi ad una concezione della
diversità quale risorsa per tutta la comunità. Parlare di diversità oggi, specialmente
all’interno del contesti socio-educativi, implica la necessità di prendere in
considerazione almeno due dimensioni che spesso sono intrecciate tra loro: la
dimensione intersoggettiva e la dimensione culturale. La dimensione intersoggettiva
si riferisce all’ambito della rete formale e informale di relazioni, dove entrano in
comunicazione differenti corpi, sensibilità e bisogni, differenti intelligenze, deficit,
handicap e talenti. D’altro canto la dimensione culturale si riferisce all’ intreccio più
ampio e anche invisibile di rapporti, sistemi di segni, gestualità, lingua, riti,
cerimoniali, usi, costumi, valori che permeano i contesti di appartenenza,
condizionando azioni e comportamenti. In questa prospettiva l’istruzione e la
formazione sono i luoghi principali per l’inserimento e l’integrazione del diverso nella
società. Nell'opinione corrente è pervasiva una visione strettamente scolastica, di
natura burocratica e tecnicistica, del concetto di integrazione nell’ambito scolastico,
inteso quale diritto affermato per alcune categorie di persone di frequentare le
scuole comuni. Questa concezione impoverisce fortemente il reale significato del
termine integrazione che nel senso più autentico del termine si riferisce ad un
processo per cui due o più elementi si compenetrano o si compensano
reciprocamente: si rendono quindi integri, interi e completi. Il processo di
integrazione è intrinsecamente intersoggettivo e presuppone che l'essere umano

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non sia completo in sé, non sia autosufficiente, ovvero non sia un sistema chiuso,
ma si realizzi nel rapporto con gli altri. Pertanto il processo di integrazione non si
riferisce al soggetto individuato come svantaggiato o diverso ma all’intera comunità.
La buona integrazione è quella che permette di capire che non stiamo vivendo in
presenza di una diversità ma come una realtà, e pertanto implica l’attivazione di una
comunità nella direzione di una modifica del proprio status in favore del diverso. Da
un'analisi superficiale, potrebbe sembrare che il sistema d'integrazione scolastica
italiano sia di gran lunga migliore rispetto agli altri, e sicuramente esso denota
caratteristiche di evoluzione rispetto agli altri paesi, sebbene in concreto in Italia il
cammino dell'integrazione sia solo ad una fase iniziale. Se analizziamo le strutture
scolastiche sorge lampante agli occhi che la buona integrazione, a più di venti anni
dalla Legge che ne stabiliva l'attuazione, non si è ancora completamente realizzata,
ad esempio le barriere architettoniche nelle scuole hanno spesso uno stato di
provvisorietà tale da far pensare ancora una volta che l’integrazione del diverso sia il
frutto di un intervento sull’urgenza e non una prassi consolidata. Tuttavia è fuor di
dubbio che una persona disabile avrà migliori opportunità laddove esistano oltre che
le basi riabilitative, anche dei setting accoglienti, composti da operatori e strutture
decisamente qualificate ed in grado di operare al fine dell’inserimento sociale. La
difficoltà istituzionale e sociale, sopra delineata, nel concepire le prassi integrative, si
riflette molto spesso anche sul piano della dimensione didattica sotto forma di
concezione delle prassi integrative nei termini di prassi di socializzazione. Le scuole,
a partire da quelle dell’infanzia, sono normalmente frequentate da disabili, questo
però non vuol dire che essi siano veramente integrati; in molti casi gli sforzi compiuti
per individualizzare l’insegnamento si sono rivelati controproducenti sul piano della
socializzazione e d’altra parte l’eccessiva attenzione alla dimensione di
socializzazione spesso ha prodotto esiti deludenti sul piano dello sviluppo delle
abilità cognitive. In questa prospettiva la buona prassi integrativa nel gruppo classe
e nella società si realizza alla luce di un equilibrio tra il principio didattico con quello
della dell’individualizzazione (Pavone, Tortorello, 2002). Cominciamo col far
chiarezza sui termini individualizzazione e integrazione, oggi così frequentemente
utilizzati e spesso equivocati. L’istruzione individualizzata non è un’istruzione
individuale, realizzata semplicemente in un rapporto uno a uno. Essa consiste
nell’adeguare l’insegnamento alle caratteristiche individuali degli alunni (ai loro ritmi
di apprendimento, alle loro capacità linguistiche, alle loro modalità di apprendimento

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ed ai loro prerequisiti cognitivi), cercando di conseguire individualmente obiettivi di
apprendimento comuni al resto della classe. Bisogna attraversare strade diverse, più
corte, più lunghe, più attente ai bisogni di concretezza o più astratte, ma sempre
orientate al raggiungimento di traguardi formativi comuni (Baldacci, 1993). Il dibattito
sui piani di studio personalizzati previsti dalle indicazioni delegate al D.M. n. 59/04
applicativo della legge 53/03 ha riproposto la questione individualizzazione e/o
personalizzazione. La personalizzazione indica la necessità di modificare curricula,
obiettivi contenuti e attività didattica in sintonia con i bisogni propri di ciascuna
persona (Resico, 2005). In altri termini, l’individualizzazione da sola non basta
perché non prende in considerazione una dimensione personale di attitudini,
interessi, bisogni, motivazioni, non riconducibile a quella degli altri, e d’altra parte la
sola personalizzazione si propone come un limite in quanto causa di isolamento
dell’individuo dal resto della classe. L’integrazione dunque nasce e si sviluppa a
partire dalla relazione dialettica tra personalizzazione ed individuazione; la persona
adattivamente integrata conserva una propria identità diversa dalle altre, pur
mantenendo un ruolo nel gruppo. L’integrazione è dunque un processo in continuo
divenire in cui sia il gruppo ricevente sia i nuovi soggetti tendono a cambiamenti atti
a consentire loro occasioni di condivisione di comuni conoscenze, di aiuto reciproco,
di collaborazione in funzione dello sviluppo di tutte le potenzialità dei singoli soggetti
e per lo sviluppo del massimo grado di autonomia di ciascuno. La didattica
individualizzata in tal senso è propedeutica all’integrazione e pertanto non mette i
contenuti scolastici al centro del processo di insegnamento-apprendimento ma li
riporta al loro giusto ruolo di stimolo percepibile e utilizzabile dall’alunno. Il ricorso ad
una didattica integrata, in questa accezione, si fa sempre più urgente se si considera
che nella nostra scuola, oggi, accanto agli alunni disabili sono presenti alunni
stranieri, alunni deprivati culturalmente, alunni con problemi famigliari (genitori
tossicodipendenti, disoccupati, alcoolisti, etc.). L’alunno in difficoltà diventa una
occasione per la scuola per ripensarsi come strumento di successo formativo per
tutti e per le discipline di insegnamento per proporsi come mezzo per promuovere la
personalità dell’allievo in tutte le sue dimensioni

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica
Unità Didattica I
L’integrazione nel sistema scolastico italiano

Lezione 2. Il percorso per l'integrazione nella scuola

L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità costituisce un fiore all’occhiello


per il sistema educativo. Il sistema educativo in generale e scolastico nello specifico
si configura quale comunità accogliente nella quale tutti gli alunni, a prescindere
dalle loro diversità funzionali, possano realizzare esperienze di crescita individuale e
sociale. La piena inclusione degli alunni con disabilità è un obiettivo che la scuola
dell’autonomia persegue attraverso una intensa e articolata progettualità,
valorizzando le professionalità interne e le risorse offerte dal territorio. Tale ottica di
integrazione è indubbiamente stata favorita dalla legge 517/77 che ha segnato una
svolta importante nella cultura pedagogica del nostro Paese, anche con riguardo alle
politiche di integrazione scolastica dei disabili. Grazie a questa legge, infatti, la
scuola è passata da un approccio assistenzialistico nei confronti degli alunni in
situazione di handicap ad un approccio di sistema. Questo ha connotato la scuola
come comunità educativa accogliente e, al tempo stesso, come comunità
professionale competente, capace di ristrutturarsi per consentire anche agli alunni
disabili, e a tutti quelli che oggi definiamo portatori di bisogni educativi speciali, di
condividere la loro esperienza di apprendimento in situazione non emarginante. È
attraverso tale legge infatti che viene affrontata per la prima volta la questione del
recupero del bambino “diversamente abile”, nell’ambito di una programmazione
curriculare fortemente individualizzata, attraverso l’organizzazione di tempi, spazi,
gruppi di alunni e l’apporto di insegnanti specializzati e specialisti del settore e del
servizio socio-pedagogico.
Successivamente, nel febbraio 1992, l’approvazione della Legge Quadro per
l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, sottolinea la
necessità di una continuità educativa tra i diversi gradi di scuola con forme di
consultazione tra gli insegnanti e la stipula di accordi tra gli Enti Locali, finalizzati

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all’attuazione e alla verifica di progetti educativi, riabilitativi e di socializzazione
individualizzati.
L’attuale quadro normativo, sottolinea dunque la possibilità di realizzare l’integrazione
attraverso un preciso percorso che a partire dalla certificazione dell’Handicap fornisca
elementi conoscitivi e progettuali per l’integrazione scolastica. Ciò è reso possibile
attraverso la stesura di alcuni documenti quali la Diagnosi Funzionale, il Profilo Dinamico
Funzionale ed il Piano Educativo Individualizzato.
La Diagnosi Funzionale. "Per diagnosi funzionale si intende la descrizione analitica della
compromissione funzionale dello stato psico-fisico dell’alunno in situazione di handicap,
al momento in cui accede alla struttura sanitaria per conseguire gli interventi previsti dagli
artt. 12 e13 della legge n. 104/92”, essa è un atto sanitario medico legale, che descrive
analiticamente la compromissione funzionale dello stato psicofisico dell'alunno in
situazione di handicap, essa viene redatta dal neuropsichiatra infantile, dal terapista della
riabilitazione e dall’assistente sociale, e descrive analiticamente la compromissione
dello stato psico – fisico dell’alunno in situazione di handicap.

Il Profilo Dinamico Funzionale. La stesura del Profilo Dinamico Funzionale è


finalizzata alla stesura del Piano Educativo Individualizzato. Il Profilo Dinamico
Funzionale è atto successivo alla diagnosi funzionale e indica le caratteristiche
fisiche, psichiche, sociali ed affettive dell'alunno e pone in rilievo sia le difficoltà di
apprendimento conseguenti alla situazione di handicap e le possibilità di recupero,
sia le capacità possedute che devono essere sostenute, sollecitate e
progressivamente rafforzate e sviluppate nel rispetto delle scelte culturali della
persona disabile. Il Profilo Dinamico Funzionale è frutto di un lavoro di equipe cui
partecipano congiuntamente gli operatori delle ASL, i genitori, il personale docente
curriculare e specializzato e il dirigente scolastico, al fine di stabilire oltre alle
difficoltà di apprendimento conseguenti l’handicap, le possibilità di recupero e le
capacità possedute che devono essere sostenute, sollecitate e potenziate. Infatti,
solo un intervento a livello di equipe permette una conoscenza puntuale, estesa e
approfondita della situazione individuale in grado di individuare indicazioni operative
per poter sviluppare le capacità dell'individuo. Il Profilo Dinamico Funzionale
comprende la descrizione funzionale dell'alunno in relazione alle difficoltà che
l'alunno dimostra di incontrare in settori di attività, e l'analisi dello sviluppo potenziale
dell'alunno a breve e medio termine, desunto dall'esame dei seguenti parametri:

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- cognitivo, esaminato nelle potenzialità esprimibili in relazione al livello di
sviluppo raggiunto (normodotazione; ritardo lieve, medio, grave; disarmonia
medio grave; fase di sviluppo controllata; età mentale, ecc.) alle strategie
utilizzate per la soluzione dei compiti propri della fascia di età, allo stile cognitivo,
alla capacità di usare, in modo integrato, competenze diverse;
- affettivo-relazionale, esaminato nelle potenzialità esprimibili rispetto all'area del
sé, al rapporto con gli altri, alle motivazioni dei rapporti e dell'atteggiamento
rispetto all'apprendimento scolastico, con i suoi diversi interlocutori;
- comunicazionale, esaminato nelle potenzialità esprimibili in relazione alle
modalità di interazione, ai contenuti prevalenti, ai mezzi privilegiati;
- linguistico, esaminato nelle potenzialità esprimibili in relazione alla
comprensione del linguaggio orale, alla produzione verbale, all'uso comunicativo
del linguaggio verbale, all'uso del pensiero verbale, all'uso di linguaggi alternativi
o integrativi;
- sensoriale, esaminato, soprattutto, in riferimento alle potenzialità riferibili alla
funzionalità visiva, uditiva e tattile;
- motorio-prassico, esaminato in riferimento alle potenzialità esprimibili in ordine
alla motricità globale, alla motricità fine, alle prassie semplici e complesse e alle
capacità di programmazione motorie interiorizzate;
- neuropsicologico, esaminato in riferimento alle potenzialità esprimibili riguardo
alle capacità mnesiche, alla capacità intellettiva e all'organizzazione spazio-
temporale;
- autonomia, esaminata con riferimento alle potenzialità esprimibili in relazione
all'autonomia della persona e all'autonomia sociale;
- apprendimento, esaminato in relazione alle potenzialità esprimibili in relazione
all'età prescolare, scolare (lettura, scrittura, calcolo, lettura di messaggi, lettura di
istruzioni pratiche, ecc.).

Nell’elaborazione del Profilo Dinamico Funzionale iniziale seguono, con il concorso


degli operatori delle unità sanitarie locali, della scuola e delle famiglie, verifiche per
controllare gli effetti dei diversi interventi e l'influenza esercitata dall'ambiente
scolastico. Il Profilo Dinamico Funzionale è aggiornato a conclusione della scuola
materna, della scuola elementare e della scuola media e durante il corso di
istruzione secondaria superiore.

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Piano Educativo Individualizzato. È il documento nel quale si descrivono
dettagliatamente il progetto operativo interistituzionale tra operatori della scuola, dei
servizi sanitari e sociali, in collaborazione con i familiari ed il progetto educativo e
didattico personalizzato riguardante la dimensione dell'apprendimento correlata agli
aspetti riabilitativi e sociali. A redigere il PEI, provvedono congiuntamente: gli operatori
delle ASL, gli insegnanti curriculari, il docente di sostegno, l’operatore psico –
pedagogico in collaborazione con i genitori. Il PEI tiene presenti i progetti didattico-
educativi, riabilitativi e di socializzazione individualizzati, nonché le forme di
integrazione tra attività scolastiche ed extrascolastiche. Nella definizione del PEI
ciascuna figura coinvolta propone, in base alla propria esperienza pedagogica, medico-
scientifica e di contatto, e sulla base dei dati derivanti dalla diagnosi funzionale e dal
profilo dinamico funzionale, gli interventi finalizzati alla piena realizzazione del diritto
all'educazione, all'istruzione e l’integrazione scolastica dell'alunno in situazione di
handicap. In sintesi il PEI permette innanzitutto l’identificazione della situazione al
momento di ingresso del soggetto nella scuola, contiene la valutazione approfondita
degli aspetti generali, dei livelli di capacità, dei livelli di apprendimento, delle abilità
pratiche e operative ottenute anche attraverso l’uso di strumenti di osservazione come
griglie, schede, etc. Il PEI individua, inoltre, gli obiettivi didattici contenenti ciascuno il
materiale didattico, i luoghi e i tempi, la collaborazione tra i vari docenti; “in
corrispondenza” la definizione di interventi terapeutico-riabilitativi da parte degli
operatori socio-sanitari; e permette la verifica da parte del gruppo del “programma
svolto” anche attraverso una valutazione complessiva volta all’eventuale riformulazione
del “programma per obiettivi”.

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L’integrazione nel sistema scolastico italiano

Lezione 3. Per un intervento integrativo: lavorare sulla classe

La programmazione individualizzata deve necessariamente tenere conto della


programmazione della classe per poter permettere un’adeguata integrazione del
disabile, in altro modo si configurerà come elemento di separazione, di
segregazione e di lavoro individuale condotto dall’insegnante di sostegno, dentro e
fuori la classe. Affinché si instauri un circolo virtuoso tra programmazione
individualizzata e programmazione di classe è necessario che i docenti di sostegno
e i docenti curricolari lavorino insieme in maniera da poter selezionare obiettivi,
contenuti e attività che possono essere scanditi secondo diversi livelli di difficoltà.
Per raggiungere tale scopo sono individuabili alcune semplici strategie in grado di
realizzare una buona integrazione salvaguardando sia i diritti dei disabili che i diritti
dei suoi compagni di classe. A tal fine infatti è necessario costruire un clima classe
inclusivo, che funga da ambiente adattivo per il superamento della disabilità e che
permetta da un lato l’adeguamento degli obiettivi del disabile agli obiettivi della
classe e dall’altro di adeguare gli obiettivi della classe a quelli del disabile.

Creare un clima inclusivo. La realizzazione dell’integrazione degli alunno disabili


all’interno del contesto classe passa e si sviluppa attraverso la definizione di un
clima di accoglienza nella classe, che sia da preludio per l’adeguamento di obiettivi
e di materiali ai bisogni del disabile. Tale operazione infatti sarebbe vana qualora
non si fosse creato un clima di accettazione reciproca nel rispetto delle differenze
individuali. Il concetto di inclusione, ovvero, l’appartenenza ad un gruppo pur
conservando la propria peculiarità e sperimentando l’interdipendenza da esso, si
fonda sul riconoscimento di altri due concetti: quello di normalità e quello di

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specialità. La normalità risponde al bisogno di sentirsi considerati e trattati alla
stessa stregua degli altri. La specialità risponde al bisogno di sentirsi diversi dagli
altri, tale riconoscimento potrebbe passare ad esempio attraverso l’offerta fatta ad
un alunno di poter scegliere tra diverse attività che sono svolte all’interno di un
laboratorio, in tal modo la possibilità di scegliere offerta a tutti (normalità) e la
specializzazione dell’attività (specialità) si coniugano. Pragmaticamente, in un loro
studio sull’inclusività delle classi, Andrich e Miato, focalizzano alcune coordinate
che fungono da mediatori e moderatori dell’integrazione dell’alunno disabile: 1)
l’alunno disabile deve rimanere in classe per il maggior tempo possibile; 2) l’alunno
disabile deve fare il più possibile le stesse cose che fanno i suoi compagni; 3)
l’alunno disabile deve il più possibile essere posto nelle stesse condizioni formative
degli altri studenti; 4) i migliori insegnanti di sostegno sono i suoi compagni; 5) gli
spazi di un’aula inclusiva devono essere ampi. Queste indicazioni sostengono d’altra
parte la tesi per cui la cura per la qualità relazionale e l’allestimento di un setting
educativo adeguato diventano assolute priorità per lo sviluppo di buone prassi di
integrazione per studenti disabili, che sentendosi accolti ed incoraggiati hanno una
percezione di valorizzazione della loro diversità, e tale sensazione funge da volano
per l’integrazione nel gruppo classe, condizione necessaria per sviluppare al meglio
anche la propria dimensione cognitiva.

Adeguare gli obiettivi del disabile agli obiettivi della classe. Sul paino strettamente
didattico l’integrazione dell’alunno disabile nella classe può avvenire attraverso la
strutturazione e la messa in opera di un percorso didattico specifico ed adeguato
che avrà il vantaggio secondario di favorire ed accelerare il processo di integrazione.
Inoltre, l’adozione di strategie didattiche specifiche, come ad esempio il modello
didattico per problemi, o il modello didattico per concetti, o ancora il modello della
didattica breve o per obiettivi, si sono dimostrati vettori particolarmente efficaci per
l’integrazione. Nello specifico il modello per obiettivi, sicuramente per le sue
implicazioni positive rispetto ai processi di individualizzazione (la scansione degli
obiettivi, degli argomenti, il rispetto dei tempi e delle caratteristiche del soggetto, la
preoccupazione circa la verificabilità dei risultati) ha dimostrato una maggiore
efficacia come strategie didattica integratoria del deficit, procedendo dal meno grave
al più grave.

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L’adeguamento degli obiettivi del disabile in relazione agli obiettivi della classe è
definito dal docente sulla base del modello didattico adottato, e, in linea con questa
prospettiva Ianes (2005) individua cinque livelli di adeguamento degli obiettivi in
relazione alla gravità:

- La sostituzione. L’obiettivo non si semplifica, ma viene curata solo l’accessibilità


dei codici linguistici (lingua dei segni, materiale in Braille, registrazioni audio dei
testi).
- La facilitazione. Per garantire il raggiungimento dell’obiettivo è sufficiente utilizzare
tecnologie più motivanti (ad esempio software didattici) e contesti didattici
fortemente interattivi e operativi (tutoring, gruppi di apprendimento cooperativo,
laboratori, simulazioni etc.).
- La semplificazione. Si modifica il lessico, si riduce la complessità concettuale, si
eseguono le operazioni di calcolo utilizzando la calcolatrice, si modificano i criteri di
corretta esecuzione di un compito (consentendo più errori e imprecisioni).
- Scomposizione nei nuclei fondanti. Nell’epistemologia di un sapere disciplinare si
identificano delle attività fondanti e accessibili al livello di difficoltà di cui abbiamo
bisogno.
- La partecipazione alla cultura del compito. Si cerca di trovare occasioni perché
l’alunno sperimenti, anche se soltanto da spettatore, la “cultura del compito” (il clima
emotivo, la tensione cognitiva, i prodotti elaborati, etc.). Nella vita di ogni giorno noi
partecipiamo ad una infinità di situazioni, pur non avendo in esse particolari
competenze. Ci sono settori dei quali non sappiamo molto, ma non per questo ci
esoneriamo dal partecipare all’atmosfera culturale ricavandone sollecitazioni
importanti sul piano personale. In una classe che attua l’integrazione si verificano
dinamiche analoghe. In base alla gravità del deficit, i docenti possono scegliere il
livello di semplificazione degli obiettivi che reputano più idoneo per l’alunno disabile.

Adeguare gli obiettivi della classe alle esigenze del disabile.


D’altra parte essendo il processo di integrazione fondamentalmente un processo
dialogico che implica la compartecipazione dell’alunno disabile e del contesto
classe, gli sforzi di adeguamento dell’alunno alle attività della classe devono essere
compensati da uno sforzo di integrazione da parte della classe, solo in tal modo
infatti potremmo parlare di una vera integrazione.

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La realizzazione del processo di integrazione infatti si realizza richiedendo, sia al
gruppo accogliente sia all’allievo inserito, una serie di cambiamenti capaci di
consentire loro occasioni di collaborazione e aiuto reciproco. Ciò implica per la
classe un generale adeguamento degli obiettivi perseguiti alle esigenze del disabile,
con la consapevolezza che questo adeguamento possa giovare ad entrambi.
Questo concetto non si traduce in una programmazione “al ribasso” in cui viene
richiesto agli studenti di una classe di tornare a ripetere programmi già affrontati, ma
di cercare tutte le occasioni possibili per avvicinarsi al lavoro del disabile. Se, per
esempio, un bambino sta lavorando sulla discriminazione dei colori, si possono
programmare delle lezioni sullo spettro solare e i colori dell’iride; se sta imparando la
successione dei numeri servendosi della retta numerica, la classe può lavorare sugli
assi cartesiani che, in fondo, non sono altro che due rette numeriche perpendicolari.
Tuttavia è auspicabile la messa in atto di un approccio didattico sistematico volto ad
avvicinare le esigenze della classe alle esigenze del disabile, a tal fine alcune
semplici operazioni sembrano supportare tale prospettiva didattica. Ad esempio il
ripasso frequente degli argomenti rappresenta un primo tentativo di andare incontro
alle esigenze del compagno più debole e non è detto che rappresenti una perdita di
tempo per la classe. Un altro esempio può essere un approccio operativo verso tutte
le discipline, e non solo a quelle tecniche o artistiche, che sembra essere in grado di
sostenere l’apprendimento del disabile facendo leva sul suo bisogno di pragmatismo
e di concretezza, ed allo stesso tempo si configura come occasione preziosa per
tutti quegli alunni che vivendo l’esperienza scolastica come un male necessario,
possono trarre dalle attività pratiche (costruire cartelloni, fare esperimenti, utilizzare
il mezzo informatico ai fini didattici, etc.) e nuova motivazione. Un altro esempio può
essere la concentrazione dell’attività didattica a supporto dello sviluppo di abilità di
studio intesa nei termini di individuazione dei concetti chiave di un brano di lettura,
nel sottolineare le parti più importanti e nello schematizzare in maniera gerarchica i
concetti, tale attività infatti si configura come occasione per abbandonare una
concezione esclusivamente nozionistica dello studio e intraprendere un percorso
attento ai processi di studio e non solo ai contenuti.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica
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L’integrazione nel sistema scolastico italiano

Lezione 4. Per un intervento integrativo: lavorare sulla didattica

Come evidenziato nelle lezioni precedenti la realizzazione dell’integrazione si


realizza non solo sul piano della relazione tra individuo disabile e classe ma anche,
e soprattutto attraverso la relazione didattica che assume il ruolo di mediatore del
processo integrativo. Infatti, la programmazione educativa individualizzata deve
prevedere, a livello massimo possibile, tutte le materie della programmazione di
classe, differenziandole solo nel livello di complessità. Tale differenziazione si
realizza attraverso pratiche di rielaborazione ed adattamento delle unità di contenuto
e ciò è auspicabile per almeno due valide ragioni che rendono l’adattamento dei
materiali di studio una buona pratica per l’integrazione: da un lato permette
all’alunno disabile di sperimentare il piacere del successo incrementando la
motivazione e predisponendo a nuove esperienze di apprendimento con i compagni;
dall’altro evita la frustrazione generata dalla consapevolezza di aver bisogno di libri
di testo di un ordine di scuola inferiore.
Tale operazione di semplificazione ed organizzazione dei materiali della classe si
realizza attraverso l’uso di materiali didattici strutturati e non strutturati. Il materiale
strutturato è rappresentato da testi specializzati, schede, giochi didattici, etc. che
hanno il vantaggio di essere costruiti nel rispetto dei principi psico-pedagogici,
sebbene in genere siano molto frammentari e portino alla perdita del significato
globale della esperienza di apprendimento. I materiali non strutturati sono, invece,
quei materiali che i docenti e a volte gli allievi più capaci, costruiscono per mettere
l’alunno disabile nelle condizioni di poter seguire gli stessi lavori della classe. Due
esempi classici di materiali non strutturati sono i cartelloni e gli adattamenti dei libri
di testo.

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Il cartellone ha il vantaggio di organizzare idee principali di un’unità di
apprendimento, e la sua elaborazione in tramite parole-chiave permette un uso
collettivo volto ad agevolare la comprensione dei concetti e a potenziare le capacità
di organizzazione degli stessi. D’altra parte l’adattamento dei libri di testo, in linea
con quanto espresso da Scataglini e Giustini (2004) richiede preliminarmente le
seguenti operazioni: l’analisi della modalità percettive del disabile, dello stile
cognitivo, del grado di motivazione e degli interessi e l’analisi del testo da
semplificare o organizzare.
Sulla base di queste due analisi la semplificazione dei testi si snoda in diversi livelli
di semplificazione: un primo livello consiste nell’ estrapolare dal testo i concetti
chiave, ingrandirli graficamente e aggiungere a questi un supporto iconico che sia
particolarmente motivante. L’alunno così potrà lavorare sullo stesso libro dei
compagni. Questo tipo di semplificazione si rivolge a quegli alunni che, pur essendo
in grado di seguire gli stessi ritmi della classe, hanno difficoltà percettive
nell’approccio dei testi. Un livello più avanzato di semplificazione consiste nella
ristrutturazione del testo eliminando le parti non essenziali e riportando solo le idee
più importanti espresse con parole semplici e aspetti grafici in grado di risaltare le
parole chiave. Da ultimo si rende necessario ridurre al massimo la parte linguistica
per lasciare spazio ad una sequenza di immagini in grado di stimolare l’interesse
dell’alunno e facilitargli la comprensione e la memorizzazione delle nozioni
presentate.
Accanto alle forme di semplificazione dei testi è necessario ricordare che
l’apprendimento migliora se a monte della lettura dei testi vengono applicate
metodologie chiare e strutturate in grado di organizzare le informazioni: in questo
senso si rimanda all’utilità di utilizzare organizzatori anticipati, ovvero mezzi di
rappresentazione visiva della conoscenza ossia un modo di strutturare
l’informazione o di organizzare gli aspetti più importanti di un argomento in uno
schema che utilizza le definizioni, in grado di selezionare le idee principali,
individuare i nessi causa-effetto, stabilire analogie e differenze, a supporto della
complessa operazione di organizzazione delle informazioni.
I principali tipi di organizzatori anticipati sono:

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- Diagrammi causa-effetto. Sono usati per evidenziare i nessi causali nelle azioni di
un personaggio di una storia, nelle manifestazioni di un fenomeno, negli eventi che
hanno segnato la Storia.
- Grafici di sequenze. Servono ad evidenziare gli elementi chiave secondo una linea
temporale, oppure nelle Scienze o in Fisica per visualizzare le procedure di un
esperimento scientifico.
- Diagrammi di confronto. Sono un eccellente strumento per evidenziare visivamente
le somiglianze e le differenze tra le idee principali, per costruire la scaletta di testi
comparativi e, in matematica, per trovare il massimo comun divisore ed il minimo
comune multiplo fra più numeri.
- Grafici dell’idea principale e dei dettagli. Sono utilizzati per individuare l’idea
principale ed elencare una serie di dati minori che servono ad illustrarla.

Da una prospettiva didattica il processo di integrazione e di ottimizzazione


dell’apprendimento per gli alunni disabili può avvenire non solo attraverso la
rielaborazione delle unità didattiche da parte degli insegnanti, ma anche attraverso
l’uso di modalità diverse di presentazione dei contenuti. Queste diverse modalità
vengono denominate in letteratura “mediatori didattici”, ovvero azioni messe in atto
dagli insegnanti per favorire l’apprendimento degli alunni. Damiano (1993) identifica
quattro tipi di mediatori:
- I mediatori attivi che fanno ricorso alla esperienza diretta. Un esempio di mediatore
attivo è rappresentato dall’esperimento che si realizza in laboratorio. Il limite
principale di questo mediatore è costituito dal fatto che esso richiede tempi lunghi di
esecuzione, ma se si considerano i vantaggi che derivano dal contatto fisico con il
reale, dalla densità emotiva che si viene a produrre, quello della lungaggine dei
tempi diventa un limite del tutto irrisorio.
- I mediatori iconici che si basano sulla rappresentazione del linguaggio grafico e
spaziale (immagini, schematizzazione di concetti, fotografie, filmati, carte
geografiche etc.). L’apprendimento mediante immagini si fonda sulle abilità
percettive del soggetto. Nonostante siano presenti numerose qualità in termini di
sollecitazione di interessi e di motivazione, il mediatore iconico non può essere
considerato del tutto autosufficiente, ma richiede l’intervento del mediatore
simbolico. Il linguaggio grafico spesso non riesce a riprodurre adeguatamente

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l’estensione di un concetto e sul piano mnestico, poi, è ingombrante e poco
persistente.
- I mediatori analogici cercano di rifarsi alle possibilità di apprendimento insite nel
gioco e nella simulazione. Si tratta di attività ludiche di gruppo in cui i partecipanti
ricreano particolari situazioni e interpretano personaggi. Il tasso di realismo
conseguito con i giochi di ruolo è sicuramente maggiore di altre forme tradizionali di
insegnamento ma bisogna stare attenti ad evitare il rischio di scambiare la
simulazione con la realtà, creando l’illusione di aver fatto veramente esperienze
dirette.
- I mediatori simbolici sono quelli che si allontanano di più dalla realtà di riferimento
e sono considerati i meno validi soprattutto dai sostenitori del principio
dell’apprendimento diretto. La lezione frontale costituisce un esempio di mediatore
simbolico. In termini di risultati di apprendimento è uno degli approcci meno efficaci
soprattutto per la passività che induce presso chi ascolta. In termini di tempo è,
invece, il più economico dei mediatori e questo rappresenta uno dei principali motivi
per cui è preferito dalla gran parte dei docenti.
Accanto alle tecniche mediazionali realizzate dagli insegnanti nell’ultimo trentennio
sono state realizzate molte ricerche, italiane e straniere, che dimostrano l’utilità
dell’insegnamento mediato da pari con studenti con capacità e interessi diversi. Si
tratta di una serie di modalità alternative di insegnamento nelle quali gli studenti
rivestono il ruolo di facilitatori dell’apprendimento dei compagni. L’insegnamento
mediato da pari costituisce un ottimo modo per coinvolgere attivamente gli studenti
nel loro apprendimento, cosa che spesso, con le modalità tradizionali e soprattutto
nel caso di studenti disabili, non accade. I tipi di insegnamento mediati da pari più
noti e utilizzati con maggiore frequenza sono i seguenti: Il cooperative learning che è
centrato su gruppi di lavoro eterogenei, sulla effettiva interdipendenza dei ruoli e
sull’uguaglianza di opportunità di successo per tutti; il tutoring che consiste
nell’affidare ad un alunno specifiche responsabilità di tipo educativo e didattico; il
peer teaching che consiste nell’affidare la realizzazione di compiti a studenti che
sono alla pari come capacità cognitive. Per facilitare un processo di reale
integrazione del soggetto con disabilità, i metodi collaborativi rappresentano una
potenzialità di grande rilievo, ma la loro attivazione richiede un lungo lavoro di
preparazione da parte degli insegnanti. È necessario che essi creino le condizioni
migliori perché il gruppo che lavora con il compagno disabile possa dare risultati

15
soddisfacenti. A fronte del generale consenso sull’efficacia dell’insegnamento
mediato da pari, vi è una scarsa concordanza di opinioni rispetto alle basi teoriche
(Slavin, 2007): l’approccio motivazionale sostiene che l’insegnamento mediato da
pari fornisce agli alunni la motivazione ad aiutarsi reciprocamente aumentando così
il loro rendimento. I teorici della coesione sociale ritengono che nei gruppi
cooperativi gli studenti sono sollecitati nell’aiutarsi perché hanno più cura l’uno
dell’altro (ossia più coesione sociale) e vogliono che gli altri abbiano risultati positivi.
Gli approcci cognitivisti suggeriscono che le interazioni verbali e non verbali tra gli
alunni migliorano le loro abilità di elaborazione mentale e di conseguenza le loro
prestazioni. Insegnando ai compagni contenuti e strategie, gli studenti sviluppano
una comprensione più approfondita dei contenuti stessi (imparare insegnando). Le
prospettive evolutive affermano che le attività collaborative promuovono lo sviluppo
perché gli alunni lavorano nella loro zona di sviluppo prossimale e imitano
comportamenti di collaborazione leggermente più sofisticati dei loro. Per quanto tutte
e quattro le prospettive possano essere valide: Mahed, Yharper e Mallette (2001),
propongono una prospettiva sinottica che utilizza tutte e quattro le ipotesi per
esaminare gli effetti sul piano cognitivo e relazionale dei vari metodi di
insegnamento mediato da pari. In tale prospettiva i metodi collaborativi
rappresentano una potenzialità di grande rilievo, ma la loro attivazione richiede un
lungo lavoro di preparazione da parte degli insegnanti. È necessario che essi creino
le condizioni migliori perché il gruppo che lavora con il compagno disabile possa
dare risultati soddisfacenti. La condizione più importante è che la classe conosca il
deficit del compagno più sfortunato.

16
Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica
Unità Didattica I
L’integrazione nel sistema scolastico italiano

Lezione 5. Note per una didattica integrativa

La presenza di alunni in situazione di handicap nelle classi, piuttosto che essere un


ostacolo alla realizzazione delle normali attività didattiche, costituisce, in definitiva,
una preziosa occasione perché la scuola cambi e si ripensi come strumento di
successo formativo per tutti. Il cambiamento, gestito con competenza, può produrre
notevoli vantaggi per gli alunni disabili, per tutti gli alunni della classe e per l’intera
comunità scolastica. Occorre precisare, comunque, che l’integrazione dei disabili è
compito specifico della scuola, ma non esclusivo. È un compito che investe
numerose altre agenzie: famigliari, sanitarie, lavorative, sociali e ricreative. La
scuola, in quanto agenzia formativa per eccellenza, può dare, però, un contributo
decisivo perché si realizzino alcune condizioni fondamentali per l’integrazione, come
la costruzione di un itinerario didattico integrato con quello della classe e condotto in
maniera da rappresentare un vantaggio per tutti; l’attivazione di un’opera di
sensibilizzazione e di coinvolgimento di tutte le agenzie che a vario titolo si
interessano dell’alunno disabile; la creazione di un nuovo concetto di diversità che
superi la distinzione tra abili e disabili, tra uguali e diversi.
La possibilità di perseguire un’azione integrativa ed inclusiva in una classe o in una
scuola passa necessariamente dalla valorizzazione delle originalità e diversità
attraverso la costruzione di un ambiente classe, di un ambiente gruppo di pari, e di
un ambiente - scuola positivo, affettivamente sicuro, che crea appartenenza, che è
basato sull’istituzione negoziata e condivisa delle regole della vita quotidiana, che
“nutre” l’identità e l’autostima, che mette a punto le condizioni affinché differenti
intelligenze, sensibilità e bisogni, sistemi di segni, climi relazionali e appartenenze

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culturali s’incontrino. D’altra parte l’adozione di misure integrative eleva il livello
potenziale del gruppo classe soprattutto se il lavoro individuale viene affiancato da
approcci di tipo collaborativo tra alunni.
L’apprendimento dalla differenza implica inoltre l’attivazione di importanti processi
meta cognitivi realizzati attraverso un duplice processo di elaborazione cognitiva e
affettiva basato su confronto e riflessione, solo l’attivazione di tali processi infatti
permette di riconoscere e di elaborare l’ambivalente, complesso, sentimento di
attrazione/repulsione per tutto ciò che viene vissuto come differente e dissimile da
sé. I processi di integrazione implicano per tutto il gruppo classe un confronto con la
differenza che richiede sia il riconoscimento della diversità altrui, ovvero la differenza
dell’altro, sia il riconoscimento della propria diversità, ovvero la propria differenza
dall’altro. Questo complesso sistema relazionale che si viene a creare sottende un
meta-apprendimento importante in cui il riconoscimento delle reciproche diversità
funge da volano per l’attivazione di un processo di decentramento in cui è possibile
guardarsi con gli occhi dell’altro. Tale decentramento è ancora più evidente nel
confronto con le differenze culturali poiché chiama in causa significati spesso remoti
e profondi, che si sono storicamente sedimentati, e che richiedono uno sforzo di
avvicinamento e comprensione lento e graduale: la scoperta e l’incontro con culture
differenti si accompagna ad una maggiore acquisizione di “forza” e di fiducia nelle
proprie personali capacità di avvicinarsi e scoprire il nuovo.
D’altra parte accanto a questa funzione assolta dall’interazione del contesto classe
deve essere preso in considerazione il ruolo di strategie individualizzate, che
possono prevedere compiti, materiali, ruoli, percorsi diversificati, facilitati o arricchiti
e accelerati nello sviluppo delle competenze individuali, le specifiche attitudini e
talenti personali. Le ricerche più recenti d’approccio interattivo-costruttivista e
contestualista evidenziano come i gruppi fra coetanei, impegnati in attività di
laboratorio offrano preziose occasioni di confronto di idee e concezioni, di processi
di pensiero (metodo induttivo, deduttivo, messa a punto schemi di sintesi, di
strategie argomentative e di intervento), di co-costruzione e scoperta, di
socializzazione di differenti modi per reagire a situazioni o per esprimere/ controllare
affetti e sentimenti.
Il gruppo classe e l’ambiente scolastico, quindi, in virtù della loro natura di contesti di
interazioni e relazioni (simmetriche e a simmetriche), di gioco e di lavoro, di
proiezioni e di identificazioni, hanno il privilegio di poter essere una vera e propria

18
fabbrica di competenze e di umanità: attraverso l’esempio e l’esperienza di essere
ascoltati e di ascoltare le figure adulte di riferimento ed i compagni, di confrontarsi
con il modo di vedere e di percepire degli altri la relazione interpersonale e
intercultura le può divenire una ineliminabile fonte di apprendimento per sé. Il
massimo potenziale di apprendimento di un gruppo - classe/sezione, di una scuola
sta nel fatto di essere un contesto sociale “quasi naturali” in cui si possono costruire
reti sociali tra pari e si può attivare e coltivare quel delicato, prezioso processo di
elaborazione cognitivo/affettiva e di attribuzione di valore e di significato che rende
la diversità una risorsa.
Alla luce di quanto affermato fin’ora la presenza in classe dell’alunno disabile può
diventare una opportunità positiva per tutti. Purtroppo, però, i docenti curricolari, nel
programmare le attività per la classe, generalmente non prestano la dovuta
attenzione alle esigenze del disabile e questo avviene soprattutto per alcuni motivi: il
rallentamento dei lavori della classe (i programmi sono ampi e non si può modificare
il percorso o tornare indietro per aspettare il compagno più lento); la convinzione che
i diritti della maggioranza a svolgere il proprio programma siano maggiori dei diritti
del disabile che è solo; la consapevolezza da parte della classe di non avere nulla
da guadagnare nel tornare indietro nel programma, nell’utilizzare modalità operative
per la comprensione di concetti astratti e nell’aiutare un compagno in difficoltà.
Logiche di questo tipo difficilmente portano ad una reale integrazione, infatti le
ricerche portate avanti in ambito di didattica integrativa hanno messo in luce come
metodologie didattiche volte a favorire l’integrazione e che seguono le linee
direzionali descritte permettono agli studenti – disabili e non – di ottenere migliori
risultati, rispetto all’insegnamento tradizionale: dal punto di vista cognitivo infatti gli
alunni memorizzano meglio, sviluppano una maggiore motivazione e livelli superiori
di ragionamento; sul piano relazionale si creano rapporti di amicizia e la diversità
viene rispettata e da punto di vista psicologico migliorano l’immagine di sé e il senso
di autoefficacia e di affrontare le difficoltà e lo stress (Johnson, Johnson, 2007).
La condizione più importante è che la classe conosca il deficit del compagno più
sfortunato, infatti se il deficit diventa oggetto di discussione le incertezze
diminuiscono e la diversità assume sempre più la valenza di condizione che non
inficia la dignità della persona. Secondo Ianes (2001), le informazioni sulla disabilità
possono essere integrate nel curricolo in diversi modi: invitando in classe i genitori
dei disabili, i medici e i terapisti; presentando e discutendo filmati sulla disabilità;

19
svolgendo ricerche su personaggi celebri con disabilità; informandosi sulle
tecnologie che riducono l’handicap. Se viene realizzato questo processo di
sensibilizzazione della classe, sarà più facile che la presenza del disabile non
costituisca un ostacolo ai lavori del gruppo bensì una preziosa occasione per i
compagni per sperimentare la solidarietà. Imparare ad aiutare gli altri è una
componente molto rilevante nella formazione di una persona e può avere molti
vantaggi.
Per rendere ancora più tangibile quanto descritto fin ora di seguito riportiamo
qualche esempio di intervento integrativo riferito ai diversi ordini di scuola.
Attraverso tali esempi infatti si intende rende più chiaro come declinare la pratica
della didattica individualizzata. Per la scuola elementare, prendiamo il caso di un
bambino inserito in una prima classe impegnata nell’apprendimento della lettura e
della scrittura con il metodo fonetico. Il bambino non è ancora pronto per questo
obiettivo perché non ha ancora acquisito la capacità di discriminare. Se si
considerano solo i bisogni cognitivi dell’allievo si è tentati di lavorare sulla
discriminazione di colori o forme geometriche, ignorando quello che fa il resto della
classe; se invece ci sta a cuore che il bambino partecipi ai lavoro dei compagni,
potremmo sollecitarlo ad acquisire l’abilità di discriminare utilizzando grandi lettere
dell’alfabeto in stampatello maiuscolo. Nell’ambito linguistico, obiettivi come saper
ascoltare e saper comunicare, sono quasi sempre alla portata degli allievi disabili.
Altri obiettivi come saper leggere, saper comprendere, saper produrre testi scritti si
prestano ad essere utilizzati come punto di partenza di una programmazione
individualizzata che tenga conto di quello che fanno i compagni. Nella scuola media
la situazione si fa più complessa perché la distanza fra gli obiettivi della classe e le
effettive potenzialità del disabile tende ad aumentare. Tuttavia si possono ancora
individuare obiettivi comuni: in una prima media vengono programmate attività per
insegnare ai ragazzi a comunicare verbalmente in modo adeguato. È una buona
occasione per lavorare anche con l’allievo disabile individuando obiettivi specifici al
suo livello: dire il proprio nome in risposta ad una domanda, chiedere in prestito una
matita oppure esprimere il proprio punto di vista, accettare il punto di vista dell’altro.
Nell’ambito storico, un obiettivo adatto anche ai disabili che non sanno leggere può
essere ordinare cronologicamente fatti ed eventi. Questo obiettivo permette di
sistemare su di una tabella fatti ed eventi secondo un ordine cronologico e
insegnare il concetto di prima e dopo anche ad un allievo con difficoltà di

20
apprendimento. In ambito geografico, troviamo l’obiettivo di leggere mappe e carte.
Anche questo obiettivo può essere raggiunto a diversi livelli di complessità: alcuni
leggeranno le carte per programmare un viaggio, altri impareranno a guardare le
carte per conoscere il tragitto da casa a scuola. Per la scuola media superiore il
discorso è analogo. Certamente le difficoltà aumentano e diventa più difficile
realizzare una didattica integrata, ma non impossibile. Le occasioni in cui si possono
realizzare lavori più concreti e vicini alla realtà dell’alunno con problemi diventano
più sporadiche, ma l’importanza di fargli sperimentare un lavoro simile a quello dei
compagni di classe, giustifica anche il lavoro su contenuti poco funzionali. Lo scopo
principale di tutto questo lavoro sull’adattamento degli obiettivi è quello di cercare di
evitare incresciose situazioni di emarginazione.

21
Riferimenti Bibliografici Essenziali

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23
Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica
Unità Didattica II
Bisogni educativi speciali: prospettive per la didattica

Lezione 1. I Bisogni Educativi Speciali

La legge n. 517 del 1977, ha dato avvio al processo di integrazione scolastica per i
disabili, definendo i principi di base per la messa in atto di un processo di
integrazione nel mondo scolastico, e si è configurata come punto di riferimento
imprescindibile per lo sviluppo di adeguate politiche di inclusione a livello Europeo
e non solo. Secondo la prospettiva delineata dal nostro sistema legislativo per
l’inclusione scolastica, infatti il sistema scolastico si viene a configurare non solo
quale un luogo di conoscenza e di istruzione, ma quale luogo di sviluppo e
socializzazione per tutti, sottolineandone gli aspetti inclusivi piuttosto che quelli
selettivi. Forte di questa esperienza, il nostro Paese è ora in grado, passati più di
trent’anni dalla legge n. 517 del 1977 che diede avvio all’integrazione scolastica, di
considerare le criticità emerse e di valutare, con maggiore cognizione, la necessità
di ripensare alcuni aspetti dell’intero sistema.
Oggi giorno, l’esperienza scolastica mette in risalto come gli alunni con disabilità si
trovano inseriti all’interno di un contesto sempre più variegato, dove la
discriminante tradizionale - alunni con disabilità/alunni senza disabilità - non
rispecchia pienamente la complessa realtà delle nostre classi. In questa direzione,
infatti, si fa sempre più forte la necessità di assumere un approccio educativo, per
il quale l’identificazione degli alunni con disabilità non avvenga solo, o
esclusivamente, base della procedura certificativa; se da un lato, infatti la
procedura certificativa mantiene utilità per una serie di benefici e di garanzie per gli
alunni disabili, d’altra parte corre il rischio di relegare gli alunni stessi in una
cornice pregiudiziale e didattica ristretta e definita aprioristicamente.

24
A questo riguardo sia sul piano diagnostico che sul piano del modello culturale che
veicola la dimensione diagnostica appare rilevante l’apporto del modello
diagnostico ICF (International Classification of Functioning) proposto
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che considera la persona nella sua
totalità, in una prospettiva bio-psico-sociale. Il modello ICF, infatti, piuttosto che
focalizzare la dimensione di deficit dell’individuo, presta attenzione al profilo di
funzionamento e all’analisi dei contesti in cui l’individuo è inscritto, in questo modo
il modello ICF consente di individuare i Bisogni Educativi Speciali (BES)
dell’alunno prescindendo da preclusive tipizzazioni. L’ICF si configura pertanto
come modello concettuale finalizzato allo sviluppo di una Diagnosi Funzionale
Educativa. La rivoluzione culturale dell’ICF sta principalmente nella trasmettere
un’idea di “trasversalità” della disabilità, per cui ogni alunno, con continuità o per
determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali; o per motivi fisici,
biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è
necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta. La
prospettiva dell’ICF potenzia quindi l’aspetto inclusivo piuttosto che esclusivo
anche mediante un approfondimento delle relative competenze degli insegnanti
curricolari, finalizzata ad una più stretta interazione tra tutte le componenti della
comunità educante.
L’ICF assume la prospettiva per cui la situazione di una persona va letta e
compresa in modo olistico e complesso, da diverse prospettive, e in modo
interconnesso e reciprocamente causale, pertanto tale modello è utile per una
lettura dei Bisogni Educativi Speciali in un’ottica di salute globale, in grado di offrire
una comprensione qualitativa delle difficoltà di un alunno e una definizione delle
risorse. La situazione di salute di una persona è la risultante globale delle
reciproche influenze tra diversi fattori; da un lato la dotazione biologica e dall’altro
l’ambiente di crescita dove accanto a fattori esterni (relazioni, culture, ambienti,
ecc.) e fattori contestuali personali e le dimensioni psicologiche fanno da sfondo
interno alle azioni (autostima, identità, motivazioni, ecc.).
È quindi nella grande dialettica tra le dimensioni biologico contestuali, intese come
luogo entro cui l’individuo si sviluppa ed agisce nelle sue dimensioni biologico-
culturali, in base alle proprie reali capacità performative che va letto e colto
l’alunno; se questi aspetti si sviluppano attraverso un approccio sinergico lo
sviluppo si configurerà in modo adattivo, altrimenti lo sviluppo necessiterà di

25
Bisogni Educativi Sociali. Proprio per questo l’alunno che viene conosciuto e
compreso, nella complessità dei suoi bisogni, attraverso il modello ICF, necessita
di un’analisi approfondita in grado di focalizzarsi su vari e specifici ambiti:
- Condizioni fisiche: malattie varie, acute o croniche, fragilità, situazioni
cromosomiche particolari, lesioni, ecc;
- Strutture corporee: mancanza di un arto, di una parte della corteccia cerebrale,
ecc.;
- Funzioni corporee: deficit visivi, deficit motori, deficit attentivi, di memoria, ecc.;
- Attività personali: scarse capacità di apprendimento, di applicazione delle
conoscenze, di pianificazione delle azioni, di comunicazione e di linguaggio, di
autoregolazione metacognitiva, di interazione sociale, di autonomia personale e
sociale, di cura del proprio luogo di vita, ecc.;
- Partecipazione sociale: difficoltà a rivestire in modo integrato i ruoli sociali di
alunno, a partecipare alle situazione sociali più tipiche, nei vari ambienti e contesti;
- Fattori contestuali ambientali: famiglia problematica, cultura diversa, situazione
sociale difficile, culture e atteggiamenti ostili, scarsità di servizi e risorse, ecc.;
- Fattori contestuali personali: scarsa autostima, reazioni emozionali eccessive,
scarsa motivazione, ecc.
Il Bisogno Educativo Speciale si manifesta in uno, o più, degli ambiti su descritti, e
la situazione generale dell’alunno, va letta alla luce della peculiare interazione che
avrà ciascuno di questi ambiti specifici con tutti gli altri; ovviamente, il peso dei
singoli ambiti varierà da alunno ad alunno, anche all’interno di una stessa
condizione biologica originaria o contestuale ambientale. Il modello ICF si
configura quindi come un valido supporto per conoscere in modo più approfondito
e le diverse situazioni di difficoltà degli alunni, sottolineando di volta in volta il ruolo
delle componenti biologiche, corporee, contestuali, ambientali, e così via.
Gli alunni con Bisogni Educativi Speciali vivono una situazione particolare, che li
ostacola nell’apprendimento e nello sviluppo: questa situazione negativa può
essere a livello organico, biologico, oppure familiare, sociale, ambientale,
contestuale o in combinazioni di queste. Un alunno con Bisogni Educativi Speciali
può avere una lesione cerebrale grave, o la sindrome di Down, o una lieve
disfunzionalità cerebrale e percettiva, o gravi conflitti familiari, o background
sociale e culturale diverso o deprivato, reazioni emotive e/o comportamentali
disturbate, ecc. Queste (e altre) situazioni causano direttamente o indirettamente -

26
grazie all’opera mediatrice di altri fattori (personali e/o contestuali: si veda poi la
concettualizzazione del funzionamento umano dell’ICF) - difficoltà, ostacoli o
rallentamenti nei processi di apprendimento che dovrebbero svolgersi nei vari
contesti. Queste difficoltà possono essere globali e pervasive (si pensi all’autismo)
oppure più specifiche (ad esempio nella dislessia), settoriali (disturbi del
linguaggio, disturbi psicologici d’ansia, ad esempio); gravi o leggere, permanenti o
(speriamo) transitorie. In questi casi i normali bisogni educativi che tutti gli alunni
hanno (bisogno di sviluppare competenze, bisogno di appartenenza, di identità, di
valorizzazione, di accettazione, solo per citarne alcuni) si «arricchiscono» di
qualcosa di particolare, di «speciale» nel loro funzionamento. Il loro bisogno
normale di sviluppare competenze di autonomia, ad esempio, è complicato dal
fatto che possono esserci deficit motori, cognitivi, oppure difficoltà familiari nel
vivere positivamente l’autonomia e la crescita, e così via. Riconoscere i Bisogni
Educativi Speciali significa rendere conto delle varie difficoltà, grandi e piccole, per
sapervi rispondere in modo adeguato. L’idea del Bisogno Educativo Speciale
rifugge quindi una cultura medico nosografia aprendo all’idea di disabilità
transitoria:si potrebbe dire che ogni bambino può incontrare nella sua vita una
situazione che gli crea Bisogni Educativi Speciali; dunque è una condizione che ci
riguarda tutti e a cui siamo tenuti, deontologicamente e politicamente, a rispondere
in modo adeguato e individualizzato. Gli alunni con Bisogni Educativi Speciali
hanno infatti necessità di interventi tagliati accuratamente su misura della loro
situazione di difficoltà e dei fattori che la originano e/o mantengono. Questi
interventi possono essere ovviamente i più vari nelle modalità (molto tecnici o
molto informali), nelle professionalità coinvolte, nella durata, nel grado di
«mimetizzazione» all’interno delle normali attività scolastiche: una normalità
educativa-didattica resa più ricca, più efficace attraverso le misure prese per
rispondere ai Bisogni Educativi Speciali. In alcuni casi questa individualizzazione
prenderà la forma di un formale Piano educativo individualizzato-Progetto di vita, in
altri sarà, ad esempio, una «semplice» e informale serie di delicatezze e attenzioni
psicologiche rispetto a una situazione familiare difficile, in altri ancora potrà essere
uno specifico intervento psicoeducativo nel caso di comportamenti problema, e
così via. I Bisogni Educativi Speciali sono dunque molti e diversi; una scuola
davvero inclusiva dovrebbe essere in grado di leggerli tutti (individuando così il

27
reale «fabbisogno» di risorse aggiuntive) e su questa base generare la dotazione
di risorse adeguata a dare le risposte necessarie.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica
Unità Didattica II
Bisogni educativi speciali: prospettive per la didattica

Lezione 2. Strategie di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali

Riconoscere i Bisogni educativi Speciali (BES) di alcuni alunni implica la necessità


di elaborare un percorso individualizzato e personalizzato, individuato sulla base
della redazione di un Piano Didattico Personalizzato, individuale o anche riferito a
tutti i bambini della classe con BES.
Sono infatti le scuole – con determinazioni assunte dai Consigli di classe, risultanti
dall’esame della documentazione clinica presentata dalle famiglie e sulla base di
considerazioni di carattere psicopedagogico e didattico – ad avere la possibilità di
avvalersi per tutti gli alunni con bisogni educativi speciali di strumenti compensativi
e di misure dispensative previste dalle disposizioni legislative, in grado di porsi allo
stesso tempo come strumento di lavoro in itinere per gli insegnanti e come
documentazione per le famiglie delle strategie di intervento messe in atto dalla
scuola.
L’elaborazione e la progettazione di tali percorsi per bambini con bisogni educativi
speciali si sviluppa alla luce di una attività progettuale e di intervento che riguarda
tutti gli insegnanti perché l’intera comunità scolastica è chiamata ad organizzare i
curricoli in funzione dei diversi stili o delle diverse attitudini cognitive, a gestire in
modo alternativo le attività d’aula, a favorire e potenziare gli apprendimenti e ad
adottare i materiali e le strategie didattiche in relazione ai bisogni degli alunni.
Infatti, non si può dare vita ad una scuola inclusiva se al suo interno non si avvera
una corresponsabilità educativa diffusa e non si possiede una competenza
didattica adeguata ad impostare una fruttuosa relazione educativa anche con
alunni con disabilità. Non in altro modo sarebbe infatti possibile che gli alunni
esercitino il proprio diritto allo studio inteso come successo formativo, e la
predisposizione di interventi didattici differenziati evidenzia immediatamente una
attenzione del servizio di istruzione verso gli alunni al di là delle loro differenze.

29
Pertanto diviene compito del Collegio dei docenti provvedere a mettere in atto
azioni volte a promuovere l’inclusione scolastica e sociale degli alunni con
disabilità, inserendo nel Piano dell’Offerta Formativa la scelta inclusiva
dell’Istituzione scolastica e indicando le prassi didattiche che promuovono
effettivamente l’inclusione (gruppi di livello eterogenei, apprendimento cooperativo,
ecc.). I Consigli di classe/interclasse hanno pertanto l’importante funzione di
coordinarsi in merito ad attività didattiche, di preparazione dei materiali, di
definizione delle attività in grado di consentire all’alunno con disabilità la
partecipazione allo svolgimento della vita scolastica. A ben vedere tale ruolo
coordinativo e di definizione di adeguate strategie di intervento, sebbene sia
portato avanti a livello di consigli di classe, assume la sua valenza pragmatica
all’interno del contesto classe dove diviene compito dell’insegnante assumere
comportamenti non discriminatori, essere attento ai bisogni di ciascuno, accettare
le diversità presentate dagli alunni disabili valorizzandole come arricchimento per
l’intera classe in modo da favorire la strutturazione di un senso di appartenenza.
Assume quindi particolare rilevanza l’adozione di strategie didattiche e di strumenti
in grado di favorire l’inclusione di alunni con Bisogni Educativi Speciali. Alcuni
esempi potrebbero essere:
- l’apprendimento cooperativo;
- il lavoro di gruppo e/o a coppie;
- il tutoring;
- l’apprendimento per scoperta;
- la suddivisione del tempo in tempi;
- l’utilizzo di mediatori didattici;
- l’avvalersi di attrezzature e ausili informatici.
Le strategie elencate sono solo alcuni artifizi in grado di trasformare l’ambiente
scuola in un sistema inclusivo in grado di considerare l’alunno come il protagonista
dell’apprendimento qualunque siano le sue capacità, le sue potenzialità e i suoi
limiti. E ciò a nostro avviso è potenziato da pratiche di costruzione attiva della
conoscenza, che attivino personali strategie di approccio al “sapere”, rispettando i
ritmi e gli stili di apprendimento e “assecondando” i meccanismi di
autoregolazione.
È dunque solo all’interno di tale logica che assume senso parlare di pratiche di
insegnamento/apprendimento individualizzate e/o personalizzate. Infatti, se ciò che

30
caratterizza gli alunni con Bisogni Educativi Speciali non è una diagnosi medica o
psicologica, ma una qualche situazione di difficoltà specifica per ciascun alunno,
allora è necessaria la messa a punto di strategie di intervento individualizzate, o
meglio personalizzate: individualizzazione si riferisce alle strategie didattiche che
mirano ad assicurare a tutti gli studenti il raggiungimento delle competenze
fondamentali del curricolo, quindi obiettivi comuni, attraverso una diversificazione
dei percorsi di insegnamento; personalizzazione indica, invece, la messa in atto di
strategie didattiche finalizzate a garantire ad ogni studente una propria forma di
eccellenza cognitiva, attraverso possibilità elettive di coltivare le proprie
potenzialità intellettive.
Alla luce di questa distinzione “individualizzato” è l’intervento calibrato sul singolo,
anziché sull’intera classe o sul piccolo gruppo, che diviene “personalizzato”
quando è rivolto ad un particolare alunno. Se contestualizziamo tale differenza
all’interno del contesto di insegnamento alla classe l’azione formativa
individualizzata pone obiettivi comuni per tutti i componenti del gruppo-classe,
sebbene tale azione sia sviluppata attraverso l’uso e l’adattamento delle diverse
metodologia alle caratteristiche individuali degli alunni, per poter permettere a tutti
gli studenti, in modo trasversale la possibilità di conseguire le competenze
fondamentali previste dal curriculo formativo nel pieno rispetto delle differenze
individuali. L’azione formativa personalizzata ha, in più, l’obiettivo di dare a ciascun
alunno l’opportunità di sviluppare al meglio le proprie potenzialità e, quindi, può
porsi obiettivi diversi per ciascun discente, essendo strettamente legata a quella
specifica ed unica persona dello studente a cui ci rivolgiamo.
Alla luce di questa differenziazione possiamo definire la didattica individualizzata
come l’attività di recupero individuale svolta dall’alunno per potenziare alcune aree
o affinare specifiche competenze attraverso la messa in atto di strategie
compensative realizzate all’interno del contesto classe o in momenti specifici
secondo tutte le forme di flessibilità del lavoro scolastico consentite dalla
normativa.
D’altra parte potremmo definire la didattica personalizzata, anche sulla base di
quanto indicato nella Legge 53/2003 e nel Decreto legislativo 59/2004, come la
possibilità di sviluppare una adeguata offerta didattica, sulla base della specificità
ed unicità dell’alunno, ovvero a partire dal livello personale dei bisogni educativi
che lo caratterizzano, considerando le differenze individuali dal punto di vista

31
qualitativo, in modo da favorire lo sviluppo e l’accrescimento dei punti di forza di
ciascun alunno.
Dal punto di vista della metodologia didattica, la personalizzazione concepisce
l’apprendimento come un processo aperto e problematico, in cui ogni soggetto può
sviluppare una propria forma di eccellenza cognitiva attraverso il perseguimento e
conseguimento di obiettivi diversi. Le pratiche didattiche in tale direzione si
diversificano nei termini di elaborazione e realizzazione di plurimi progetti didattici
ed attivazione di una didattica diversificata.
Ecco che allora la didattica individualizzata si arricchisce sempre più di procedure
metodologiche innovative che vanno dalla lezione frontale al mastery learning, alle
tecniche di problem solving, alla didattica per soluzione di problemi, che offrono
opportunità per sviluppare la collaborazione, la discussione e la riflessione al fine
di far acquisire ad ogni allievo un’adeguata autonomia nei processi acquisitivi e
nella costruzione delle competenze disciplinari e trasversali.
Dal punto di vista della metodologia la didattica l’individualizzazione trova maggiori
possibilità di felicità nella messa in atto di metodologie e strategie didattiche tali da
promuovere le potenzialità e il successo formativo in ogni alunno; l’uso dei
mediatori didattici (schemi, mappe concettuali, etc.), l’attenzione agli stili di
apprendimento, la calibrazione degli interventi sulla base dei livelli raggiunti,
nell’ottica di promuovere un apprendimento significativo.
Tuttavia la strategia didattica individualizzata non deve essere vista come
un’antitesi alla strategia didattica personalizzata, infatti è nel loro lavoro sinergico
che l’alunno con BES trova le condizioni più favorevoli per il raggiungimento degli
obiettivi di apprendimento.
Concepire il lavoro con alunni portatori di BES in termini di messa in atto di
strategie didattiche personalizzate ed individualizzate nei termini di progettazione
didattica liquida, ovvero di messa in opera di azioni didattiche finalizzate allo
sviluppo di percorsi appropriati e motivati in modo da contribuire alla crescita delle
potenzialità e dei talenti individuali.
Se, infatti la procedura individualizzata mira a far acquisire le competenze
essenziali di base, tenendo nella giusta considerazione la storia relazionale e
formativa, d’altra parte la personalizzazione della didattica con la conseguente
diversificazione dei traguardi e dei livelli di apprendimento favorisce lo sviluppo
dell’eccellenza individuale favorendo una comparazione intraindividuale ed

32
interindividuale in grado di verificare in quale capacità un soggetto mostra
maggiore attitudine e propensione. Il lavoro sinergico di didattica individualizzata e
personalizzata consente ad ognuno, partendo dalle conoscenze e dalle
competenze acquisite, di aspirare all’eccellenza una volta acquisiti, ma anche
mentre si acquisiscono gli obiettivi di base comuni a tutti, infatti la conoscenza in
sé non ha alcun valore sufficiente se non riesce ad essere parte integrante e
stabile delle acquisizioni del soggetto fino a divenire promotrice di ulteriori
conoscenze e competenze. Lo scopo ultimo della formazione, in tal senso si
propone come opportunità per sviluppare competenze personali attraverso forme
di eccellenza che l’alunno deve salvaguardare ed arricchire e favorire durante tutto
l’arco della vita. In questa accezione si delinea tra l’altro un’idea di cultura non
cumulativa ma frutto di conoscenze integrate ed interagenti fortemente
personalizzate, frutto della valorizzazione del talento e dell’eccellenza personale in
un contesto di assoluta uguaglianza delle opportunità e degli esiti.

33
Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica
Unità Didattica II
Bisogni educativi speciali: prospettive per la didattica

Lezione 3. La professionalità docente come vettore per una scuola inclusiva

La realizzazione di una buona prassi didattica inclusiva si sviluppa a partire da una


concezione dei docenti in termini di “gruppo docente” in grado di porsi come una
risorsa finalizzata al sostegno ed allo sviluppo di competenze di ciascun alunno.
Seguendo questa direttiva la possibilità di mettere in atto buone prassi didattiche
nasce e si sviluppa attraverso una concezione della professionalità del docente
basata su alcuni elementi fondamentali che consentano ad ognuno di realizzare
una scuola inclusiva e favorevole all’integrazione e che, al contempo, favorisce il
superamento della concezione dell’apprendimento come trasmissione di nozioni.
Troppo a lungo, a purtroppo ancor oggi, la didattica è stata concepita nei termini di
trasmissione di saperi, in cui l’alunno rappresenta il destinatario dell’azione
d’insegnamento, relegato al ruolo di memorizzare le nozioni apprese onde poterle
eventualmente applicare in un futuro più o meno prossimo. Tuttavia, negli ultimi
anni, si sta sempre più affermando la consapevolezza del ruolo attivo e partecipe
da parte dell’alunno nei termini di nodo cruciale per lo sviluppo di un corretto
processo d’insegnamento apprendimento; il riconoscimento delle discipline di
studio come strumenti di pensiero che come tali costituiscono non solo la
componente contenutistica, ma anche quella metodologica. La comprensione del
ruolo strumentale delle discipline rispetto alla formazione della persona e la
concezione di apprendimento non ristretta solamente alla dimensione del sapere,
ma anche a quella della promozione di competenze relative al saper fare, a quelle
relazionali, comunicative e al saper essere, hanno portato ad un superamento di
tale concezione approdando ad un’dea di didattica in cui non è più sufficiente la
conoscenza della propria disciplina, ma l’associazione tra la passione per essa e la
conoscenza degli alunni per attivarne le potenzialità e per poterne adeguare le

34
proprie proposte. Tale spostamento dal punto di vista del modello didattico che
sottende le prassi di insegnamento si rende ancor più necessario nel momento in
cui le diversità ed i bisogni specifici degli alunni costituiscono una, più o meno
forte, resistenza alla riduzione di asimmetria tra essere e dover essere, attivata nel
processo didattico. In questi casi l’analisi delle disposizioni raggiunte e la prognosi
disposizionale relative a tutte le dimensioni della personalità, anche con l’aiuto di
esperti, consente di individuare gli obiettivi sui quali appoggiare la
programmazione educativa e didattica che guida il processo d’integrazione. In
questa direzione l’organizzazione della propria programmazione didattica deve
assumere come punto di partenza i livelli di competenza effettivamente posseduti
dagli allievi ed i loro potenziali di apprendimento e, a tal fine, la conoscenza
approfondita degli allievi, e nei casi necessari la stesura del loro profilo dinamico
funzionale, accanto ad una preparazione specifica dei docenti per moderare e far
crescere gli intrecci relazionali che si realizzano nella vita di gruppo; la conoscenza
e la capacità di attuazione di più metodologie e più tecniche didattiche si configura
quale approccio imprescindibile per la didattica di oggi.
In questa direzione la realizzazione della professione docente per lo sviluppo di
una didattica inclusiva necessita il superamento della lezione frontale e collettiva
come unica modalità didattica: la classe è infatti una realtà eterogenea e
considerarla come un insieme omogeneo non consente di promuovere la crescita
delle individualità di ciascuno: prendere atto delle diversità significa sostenere i
singoli nello sviluppo dei loro potenziali di apprendimento superando la frustrante
situazione di impossibilità e limitatezza: sull’insegnamento individualizzato ci sono
stati e ci sono tuttora vari fraintendimenti, a volte fino a crederlo coincidente con
quello fatto ad un solo alunno.
Al contrario garantire la simultaneità del diverso, cioè la coeducazione di alunni
con diversi livelli di formazione e diverse competenze trasformano l’eterogeneità in
risorsa per il successo formativo di ciascuno, e ciò è ancor più efficace se tale
approccio viene ampliato attraverso l’utilizzo di diversi mediatori didattici; nella
scuola si utilizzano prevalentemente mediatori simbolici con scarso ricorso invece
ai mediatori di esperienza, iconici e analogici. Si tratta di diversificare le esperienze
di apprendimento offerte agli allievi superando la prassi prevalente, e quasi
esclusiva, dell’uso della parola del docente o del libro.

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D’altra parte si rende necessario considerare nella propria prassi didattica i diversi
stili cognitivi degli alunni in riferimento alla realtà della propria classe, tale
operazione infatti consente all’insegnante di non proiettare e riconoscere come
adeguato solamente il proprio stile cognitivo, ma di valorizzare i diversi stili
proponendo esperienze diversificate che nella loro “pluralità” offrano più possibilità
di apprendimento per tutti gli allievi. Tale operazione ha forti implicazioni nelle
prassi valutative degli alunni, trasformandola da prassi classificatoria, che fa
riferimento al paragonare la situazione di un alunno con un modello prescelto o
con la media della classe, ad una prassi comparativa, in cui valutare significa
attribuire il valore a quanto verificato rapportandolo alla crescita personale
dell’allievo. La valutazione così intesa ha una valenza propriamente formativa
poiché permette di evidenziare il collegamento di quanto realizzato dall’alunno con
il proprio personale processo di crescita.
Tuttavia i cambiamenti suggeriti nella prassi didattica necessitano di cambiamenti
nel paradigma organizzativo all’interno del gruppo docente attraverso lo sviluppo di
un’integrazione tra i docenti; da consiglio di classe a gruppo docente. La prima
condizione di una scuola capace di integrare i propri alunni è che si realizzi
un’integrazione di progettazione e di azione tra i docenti di una stessa classe.
Come non si può dare per scontato che una classe sviluppi delle dinamiche
relazionali positive, così non basta ritrovarsi insieme in un consiglio di classe
perché questo operi come un gruppo docente. Servono consapevolezza
dell’importanza di operare in tal senso, condizioni istituzionali che lo favoriscano e
capacità relazionali che promuovano la crescita di un gruppo di lavoro. Certamente
accanto a queste dimensioni di sistema che abbiamo delineato devono essere
prese in considerazione ulteriori dimensioni legate alla professione docente che si
configurano quali vettori di una didattica volta all’integrazione ed allo stesso tempo
attenta alla formazione degli alunni che meriterebbero spazi appositi per essere
approfondite, quali: la capacità di riconoscere, moderare, promuovere per il meglio
le dinamiche relazionali che compaiono nel gruppo classe, e nelle relazioni tra
docenti e famiglie; il possesso di più tecniche didattiche, che di volta in volta
rendano più agevole l’acquisizione di nozioni diverse; la capacità di organizzare in
più modi il lavoro scolastico, per essere in grado fra l’altro di salvare la produttività
complessiva nelle diverse situazioni.

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Quanto messo in luce evidenzia come lo sviluppo di una didattica inclusiva ed
attenta tanto al bisogno dei singoli quanto al raggiungimento di adeguati standard
formativi trasversali nasce primariamente dallo sviluppo di una professionalità
competente nel corpo docente nel senso di capace di adeguarsi e modellarsi sulla
base del contesto classe in cui si trova ad operare.
È dunque l’insegnante che si configura quale primo mediatore del rapporto
didattico, e pertanto la competenza della professione docente deve svilupparsi
anche nella direzione di riconoscere il mediatore didattico più idoneo alle diverse
situazioni classe in cui è inserito. Il mediatore si interpone tra il soggetto e la realtà
interpretandola e dando modo agli allievi di apprendere. L’insegnante mediatore
offre agli allievi la possibilità di imparare a interpretare, organizzare e strutturare le
informazioni provenienti dall’ambiente. Il mediatore non elimina le difficoltà ma
propone difficoltà graduate, esplicita gli obiettivi, cerca di indurre autonomia negli
apprendimenti stimolando il superamento degli ostacoli. È proprio all’interno di una
azione di mediazione che si può costruire, creare un contesto nel quale le persone
e le loro idee si evolvono continuamente, si modificano, si incontrano,
interagiscono. Il docente si pone in un ascolto continuo delle esigenze dell’allievo e
stimola in lui l’attivazione di schemi elaborativi attraverso i quali poi orienta l’attività
cognitiva dell’allievo determinando un cambiamento che porta ad un
apprendimento costruttivo e non nozionistico. L’insegnante è chiamato a “tras-
formare” il saper da insegnare affinché sia possibile apprenderlo. Strutture,
concetti, contenuti vengono tradotti e rielaborati secondo il livello di sviluppo del
discendente. Un buon mediatore crea un ambiente favorevole, pertanto nelle
situazioni scolastiche, il docente deve essere in grado di affiancare alla parola altre
modalità, capaci di stimolare le diverse forme di intelligenze ed attivare diversi
canali di comunicazione, in modo da coinvolgere tutti gli alunni e da stimolarne la
partecipazione al processo di apprendimento. A tale scopo la metodologia didattica
deve comprendere il maggior numero possibile di tecniche, al fine di rendere vario,
flessibile, ricco ed efficace l’insegnamento.
In tal direzione assumono particolare rilevanza l’utilizzo di strumenti tecnologici
quali ad esempio gli ipertesti che consentono di fare dell’allievo il protagonista del
suo sapere poiché non solo permettono di rendere possibile la ripetizione e quindi
la chiarificazione dei concetti, ma anche offrono la possibilità di autovalutazione da
parte dell’utente offrendo la possibilità di imparare dagli errori. Infine, permettono

37
fare leva sull’aspetto ludico-motivazionale. Oltre alla conoscenza di differenti
tecniche utili all’insegnamento, occorre che il docente sappia variarne anche, a
seconda delle situazioni, gli stili, scegliendo di volta in volta diversi mediatori: attivi
(attraverso visite guidate, esplorazione su campo), simbolici (con l’uso e la
manipolazione del linguaggio), iconici (da impiegare soprattutto nel metodo di
studio, per stimolare l’analisi degli oggetti visualizzati), analogici (come i giochi di
simulazione), tecnologici (che racchiudono in sé tutti gli altri tipi di mediatori). Tale
prospettiva si rende necessaria anche alla luce delle attuali condizioni di forte
accessibilità alle fonti di sapere che ridefiniscono il ruolo del docente da detentore
del sapere a veicolo per agli alunni per l’apprendimento di metodi di fruizione
culturale e strumenti che li rendano autonomi nella ricerca e nell’acquisizione di
nuove conoscenze. Il sapere dell’insegnante da oggetto di conoscenza si configura
quindi come punto di partenza per un ulteriore arricchimento culturale e autonomo
da parte dello studente.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica
Unità Didattica II
Bisogni educativi speciali: prospettive per la didattica

Lezione 4. Cooperative Learning come metodologia per i BES

Tra le numerose metodologie didattiche offerte oggi agli insegnanti quali


metodologie per lo sviluppo di una didattica integrativa, e rispettosa al contempo
sia delle esigenze di insegnamento apprendimento degli studenti sia delle loro
individualità e dei loro bisogni educativi speciali, viene citato il Cooperative
Learning. Il Cooperative Learning o Apprendimento cooperativo, è definito come
una metodologia didattica che sviluppa l’apprendimento del singolo attraverso una
cooperazione attiva tra i compagni di classe.
Il Cooperative Learning, tuttavia non coincide con la pratica di lavoro di gruppo, già
adottata da molto tempo nella scuola italiana. Nel lavoro di gruppo, infatti, al di là
della situazione gruppale, ciascun allievo si preoccupa di imparare per se stesso
senza sentirsi responsabile dell’apprendimento altrui, vi è un solo leader che di
solito guida il gruppo, l’attenzione dei docenti è rivolta maggiormente ai livelli di
apprendimento conseguiti e non alle relazioni instauratesi fra i membri del gruppo,
e la valutazione stessa del lavoro che ricade sul gruppo disincentiva la
partecipazione adeguata di alcuni membri. Vengono dunque a mancare quegli
elementi di organizzazione strutturale che rappresentano le caratteristiche
fondamentali proprie del Cooperative Learning quali l’interdipendenza positiva fra i
membri del gruppo, la responsabilità della leadership condivisa fra tutti i suoi
membri, l’instaurarsi di un’interrelazione positiva (o interazione costruttiva diretta),
l’insegnamento diretto delle abilità sociali (in particolare quelle relazionali)
necessarie a instaurare dei rapporti di collaborazione all’interno del gruppo e la
valutazione non solo individuale ma anche di gruppo. Accanto a tali caratteristiche
i gruppi di Cooperative Learning differiscono dai gruppi di lavoro tradizionali anche
per altri aspetti: la formazione del gruppo secondo criteri di eterogeneità anziché in
maniera omogenea o causale come avviene invece nel gruppo tradizionale; la

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possibilità per l’insegnante di intervenire, dando dei feedback rispetto al modo di
relazionarsi dei membri del gruppo vs interventi di mero recupero o pacificazione
delle tensioni; l’autonomia del gruppo vs i continui interventi dell’insegnante. Il
Cooperative Learning grazie alla sua peculiarità rappresenta un metodo ed un
modello didattico fondamentale per gli studenti con bisogni educativi speciali, infatti
se da un punto di vista metodologico rafforza la motivazione degli studenti e si
adatta maggiormente a coloro i quali hanno necessità particolari, da un punto di
vista sociale migliora e rinforza le relazioni interpersonali fra studenti
“diversamente abili” e “normali”. L’atteggiamento cooperativo del gruppo classe
contribuisce al successo del gruppo ed è più probabile che in questo contesto di
successo anche gli studenti con disabilità o bisogni educativi speciali siano
accettati. Mettere insieme delle diversità, dal momento che ognuno è portatore di
una diversità, offre la possibilità a tutti di arricchirsi. In definitiva la strategia di
apprendimento cooperativo si offre come la possibilità di risposta personalizzata ai
bisogni educativi di ciascuno e a maggior ragione a chi è portatore di bisogni
educativi speciali. La personalizzazione, che si contrappone all’individualismo, e
l’integrazione delle diversità sono occasioni di conoscenza e rispetto delle
differenze, di lavoro comune e modalità di trovare il proprio percorso
individualizzato e personalizzato in un contesto di cooperazione finalizzata al
raggiungimento di obiettivi specifici sia di gruppo che individuali. Di seguito
proveremo a mettere in evidenza alcune caratteristiche dei Cooperative Learning
delineando quali aspetti si configurano come elementi di efficacia di questa
metodologia:
Il primo elemento che caratterizza i Cooperative Learning è la presenza di
un’interrelazione fra i membri del gruppo che, da un lato è finalizzata a raggiungere
l’obiettivo della conoscenza, e dall’altro persegue il superamento dei conflitti
all’interno delle relazioni instauratesi nel gruppo. L’interazione che si sviluppa
all’interno di tali gruppi pertanto non è fine a sé stessa ma è volta a sviluppare un
senso di fiducia reciproca e di accettazione dell’altro. Tale senso di fiducia passa
dal riconoscimento della diversità delle idee dall’altro e dalla condivisione di risorse
e delle paure all’interno del gruppo, nell’ottica di un reciproco sostegno. Tale
prospettiva infatti si offre quale volano per lavorare non solo sugli obiettivi
dell’apprendimento in sé legati alle diverse discipline di studio, ma anche quale

40
momento per sperimentare relazioni positive, che potranno rivelarsi preziose nei
momenti di difficoltà che potrebbero essere incontrate nel percorso scolastico.
Il secondo elemento imprescindibile per il Cooperative Learning è il riconoscimento
del bisogno dell’altro quale componente competente per il raggiungimento del
risultato del gruppo. Tale prospettiva di interdipendenza positiva offre una
prospettiva del successo come frutto di un lavoro di squadra in cui ognuno ha
specifiche responsabilità individuali definite dal ruolo che viene attribuito. Questo
comporta che ognuno deve essere messo in grado di conoscere la finalità
generale del lavoro di gruppo, i metodi da utilizzare e gli strumenti da adottare.
Gli aspetti delineati mettono in luce il ruolo principe delle abilità sociali e relazionali,
tuttavia è luogo comune che tali abilità siano innate e non necessitino di alcuna
spiegazione o che non possano essere affinate più di tanto. Le conoscenze e le
abilità sociali relative alla gestione dei rapporti all’interno del gruppo devono essere
insegnate allo stesso modo in cui si insegnano le conoscenze e le abilità
disciplinari. Tuttavia, la trasformazione delle abilità sociali in competenze sociali è
un processo piuttosto lungo; si tratta quindi di un risultato di prospettiva ma
necessario per lo sviluppo di un processo di apprendimento cooperativo.
L’esperienza dei cooperative learning mette in luce come la mancanza di abilità
sociali è uno degli ostacoli principali, specie all’inizio di un percorso di
apprendimento portato avanti secondo tale metodologia. La capacità di
comunicazione, la capacità di prendere decisioni, la funzione di guida, le strategie
di soluzione positiva dei conflitti sono tutte abilità sociali che si possono e si
devono apprendere nei gruppi di lavoro cooperativo.
Un ulteriore caratteristica del Cooperative Learning è la capacità di sviluppare nel
gruppo una componente auto valutativa, capace di prendere in considerazione il
proprio processo di formazione e di individuare gli elementi positivi e negativi delle
proprie azioni, al fine di modificare alcuni comportamenti che possono incidere
sull’efficacia del lavoro di gruppo e di conseguenza sull’apprendimento. In questo
senso il Cooperative Learning si configura quale metodologia didattica auto
regolativa in grado di offrirsi autonomamente dei feedback e quindi di mettere in
atto prospettive di cambiamento autonome e funzionali. Oggetto di valutazione
sono sia i comportamenti individuali che quelli del gruppo nel suo complesso,
anche rispetto ai risultati raggiungibili da un punto di vista didattico. Data la
specificità di tale metodologia il Cooperative Learning si distingue anche da altre

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forme di approccio collaborativo (ad esempio il tutoraggio) rappresentandosi allo
stesso tempo sia quale ambiente di lavoro sia come strategia didattica specifica. Al
di là delle teorie e delle tecniche alla base del Cooperative Learning, viene
riconosciuta in maniera unanime la centralità dell’effettiva ed efficace cooperazione
fra gli alunni per lo sviluppo del processo di apprendimento; la collaborazione tra
alunni risulta l’elemento centrale in tutte le tecniche che si basano sulla
mediazione sociale ed ancor più nel caso dell’apprendimento cooperativo. La
dimensione cooperativo-interattiva si configura quale presupposto essenziale per
un’educazione efficace di tutti gli allievi, compresi quelli che sono a rischio di
dispersione, quelli che sono portatori di difficoltà e bisogni speciali e quelli
diversamente abili.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica
Unità Didattica II
Bisogni educativi speciali: prospettive per la didattica

Lezione 5. la costruzione del gruppo-classe come condizione per l’integrazione

Il passaggio dall’inserimento all’integrazione dei soggetti disabili o con bisogni


educativi speciali trova nel clima relaziona interno alla classe un elemento di
mediazione essenziale Al di là delle dimensione tecnico metodologiche messe in
atto dagli insegnanti è quindi necessario spendere alcune parole sul ruolo svolto
dal clima classe nelle prassi di insegnamento quale condizione contestuale entro,
e per mezzo del quale, si realizza l’integrazione scolastica degli alunni con bisogni
educativi specifici e con disabilità certificate.
L’aspetto socio-affettivo all’interno delle relazioni tra scolari e tra scolari ed
insegnanti riveste un ruolo fondamentale nei processi. Questo aspetto, gestito
spesso inconsapevolmente dai docenti all’interno della classe, può contribuire non
poco, alla qualità dell’apprendimento e può permettere positive interazioni tra
docenti e discenti creando le basi per l’attuazione della programmazione didattica,
rendendone più autentici i contenuti didattici ed educativi. La relazione è un
elemento fondamentale, che veicola e stimola gli apprendimenti. Non è facile
mediare gli aspetti relazionali con quelli cognitivi e solo la consapevolezza, dei
docenti, dell’interdipendenza dei due aspetti, permette l’attuazione di
apprendimenti significativi. Siamo consapevoli che all’interno di un gruppo classe,
le dinamiche che vengono a scatenarsi sono molteplici e sono legate a contesti
diversi, sempre più vari e questo non facilita certamente la gestione del gruppo. La
dinamica di gruppo è fondamentale al fine di un buon insegnamento e, soprattutto,
di un buon apprendimento. Senza la creazione di una relazione di classe positiva,
si rivela inutile ogni riflessione su come insegnare, su come costruire situazioni che
consentano apprendimento e su come procedere in maniera efficace. È infatti

43
all’interno del contesto classe che si realizza il processo di integrazione perché
costituisce il contesto naturale di sviluppo della relazione insegnante-alunno.
Il gruppo-classe, inoltre, rappresenta la struttura di base attraverso cui
l’organizzazione scolastica persegue gli obiettivi istituzionali dell’acquisizione
sistematica e programmata di conoscenze ma costituisce anche l’ambito entro il
quale si manifestano bisogni di natura individuale, differenti da quelli istituzionali,
ad esempio il bisogno di avere amicizia, di conquistare prestigio o di scaricare
aggressività Quest’ultimo aspetto caratterizza profondamente il processo di
socializzazione ed è spesso considerato dagli insegnanti l’ambito all’interno del
quale si manifestano problemi di relazione tra gli alunni e tra gli alunni e il corpo
docente. D’altra parte non sempre l’insegnante riesce a cogliere correttamente la
qualità e la quantità dei rapporti interpersonali che si instaurano all’interno di una
classe. Il gruppo di bambini dà a ciascuno la necessaria sicurezza e costituisce un
insieme funzionale le cui attività si evolvono a partire dagli scambi tra i bambini
stessi, dagli scambi tra questi e gli insegnanti e dai cambiamenti che gli alunni
contribuiscono a suscitare nell’ambiente.
Considerare in tale direzione il contesto classe implica riconoscergli un ruolo
formativo essenziale, oltre la funzione contenitrice, ma quale luogo entro e per
mezzo del quale è possibile garantire una positiva esperienza scolastica per tutti
gli alunni. Le classi inizialmente si presentano come aggregato di alunni, non come
gruppo, che, al contrario rappresenta un obiettivo da perseguire da parte degli
insegnanti, non un punto di partenza. Affinché ciò si realizzi è necessario creare e
mantenere un equilibrio tra la dimensione dell’efficienza e quella dell’affettività,
riuscendo così a garantire ai suoi membri una produttività adeguata alle proprie
capacità all’interno di un buon clima sociale. La socializzazione si configura quindi
come principio metodologico alla base delle prassi didattiche, come veicolo
affinché ogni alunno viva i rapporti con i compagni e con l’insegnante in una
dimensione dialettica, ovvero una dimensione in cui gli interlocutori sono in grado
di prendere in reciproca considerazione il valore dell’altro. Il clima classe,
rappresenta il contesto socio-psicologico in cui avvengono le relazioni, e scaturisce
come risultante delle modalità di svolgimento dei rapporti. La costruzione di un
clima umano positivo è un elemento fondamentale per favorire la formazione in
tutti i suoi membri di benessere psicologico e di un’identità positiva; inoltre questo
consente al gruppo di raggiungere una coesione sempre maggiore, fino a maturare

44
un senso di appartenenza alla classe che consente l’integrazione piena di tutti i
suoi membri.
La trasformazione di un gruppo di alunni in un gruppo classe è il risultato di
un’attività didattica individualizzata e personalizzata che permetta all’alunno di
fissarsi degli obiettivi da raggiungere di tipo personale e di potersi confrontare
all’interno di questa personalizzazione degli obiettivi con i risultati ottenuti dagli
altri; i gruppi-classe i cui insegnanti “spingono l’acceleratore” solo sulla dimensione
dell’efficienza, rischiano di creare dinamiche personali e sociali che innescano
circoli viziosi di insuccesso scolastico. La realizzazione del gruppo classe al
contrario si realizza attraverso la dimensione dell’affettività/socialità, ovvero quegli
aspetti della realtà interpersonale che riguardano l’attenzione alla persona, al suo
trovarsi a proprio agio, al suo sentirsi accettata e valorizzata. La costruzione del
gruppo classe passa dall’offerta da parte dell’insegnante di opportunità per
l’instaurarsi di relazioni significative che permettano ad ognuno di introdursi nei
rapporti interpersonali come persone autentiche con propri bisogni, aspettative,
idee e interessi.
Una scuola ad hoc dovrebbe essere caratterizzata da un buon clima interno
impostato al rispetto reciproco e al dialogo, all’ascolto e ad una collaborazione che
non esclude conflitti, ma ha la capacità di riconoscerli ed elaborarli per metterli al
servizio dello sviluppo e non delle forze regressive della mente. La scuola va
intesa come un "sistema di rapporti" che promuova la crescita e lo sviluppo delle
persone e non badi solo alle regole esteriori e formali. Le relazioni vanno
improntate allo sforzo di far fronte alle difficoltà piuttosto che a cercare di eluderle
in maniera illusoria. Si dovrebbero formare soggetti e gruppi che si muovano nella
prospettiva di lavorare insieme per individuare soluzioni di problemi e per
dialogare. Cosi facendo, il fine ultimo della scuola non è solo quello di trasmettere
sapere e cultura e introdurre gli individui nella società, ma anche quello di
svilupparne le potenzialità a tutti i livelli, quello emotivo-relazione compreso.
Il gruppo classe costituisce una risorsa educativa e didattica dove ognuno può
attingere l’energia ed il sostegno per dedicarsi alla propria autorealizzazione; è un
luogo in cui è possibile costruire insieme con gli altri la propria mappa cognitiva e
la propria personalità. Coltivando in classe il benessere, l’accoglienza, la
solidarietà e la responsabilità, si rende più piacevole ed efficace il processo di

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formazione. L’esistenza di un gruppo ed il suo sviluppo psico-sociale sono
determinati dalla realizzazione al suo interno delle seguenti componenti essenziali:

1) un’influenza reciproca: affinché un gruppo esista, è necessario che tra i suoi


partecipanti ci sia un’influenza reciproca, che, cioè, i singoli individui
interagiscano tra di loro e che il gruppo come tale incida, a sua volta, sul
comportamento di ogni individuo;
2) la percezione di ogni individuo di essere parte di un gruppo; prescinde
dall’effettiva partecipazione alle attività sociali del gruppo-classe. Questa
componente è necessaria per costruire una unità di gruppo che consenta di
ricercare una coerenza psicologica nei rapporti e nelle azioni, in maniera che
ogni individuo interagisca nell’ambiente sociale non più come singolo, ma come
gruppo. Nell’ambiente scolastico, in genere, la percezione soggettiva di far
parte di un gruppo-classe si verifica molto lentamente; è un processo
psicologico che matura gradualmente nel tempo e che non raggiunge gli stessi
risultati per tutti gli alunni;
3) una concordanza negli obiettivi da raggiungere; è importante che i partecipanti
al gruppo-classe abbiano una meta comune, perché il raggiungimento di uno
scopo dà senso all’esistenza del gruppo. In genere, le finalità che una classe
tende a raggiungere sono di tre tipi: aspetto di conoscenza, ovvero
l’interiorizzazione e l’elaborazione di informazioni, lo sviluppo di capacità di
strutturazione logica e di interpretazione dell’esperienza, l’acquisizione di
conoscenze specifiche e dettagliate delle materie di studio; aspetto didattico
inteso nei termini di efficacia delle attività disciplinari, stimolazione delle
capacità di ogni alunno e delle sue procedure di intervento, l’acquisizione di
competenze tecniche e operative; aspetto psicologico, nei termini di crescita
interpersonale, sviluppo di capacità di collaborazione e di relazione nel lavoro
di gruppo;
4) le regole di comportamento accettate da tutti i partecipanti. Le norme
scolastiche, esplicitamente oppure implicitamente stabilite, hanno la funzione di
regolare le attività che si svolgono nel gruppo. Per questo è necessario un
certo grado di osservanza di esse (conformità) affinché il gruppo possa esistere
e funzionare. Ciascun individuo deve osservare le regole del gruppo e si
aspetta che gli altri facciano altrettanto. Si è rilevato che, in genere, quando

46
l’alunno rispetta le regole, gli altri componenti del gruppo attuano
spontaneamente delle ricompense emotive e didattiche, mentre, quando ciò
non si verifica, essi applicano delle sanzioni a chi viola la norma, con la
conseguente emarginazione dal gruppo stesso. Le regole possono essere
esplicite (orario di entrata e di uscita da scuola, giustificazione dopo
un’assenza, ecc.) o implicite (non parlare o non distrarsi durante le lezioni, non
uscire dall’aula senza permesso, ecc.). Comunque esse siano, è stato rilevato
che le regole imposte al gruppo da parte di una persona dotata di autorità
(insegnante) vengono osservate soltanto se si effettuano controlli con
ricompense o punizioni. Regole concordate in un rapporto di autorevolezza,
vengono interiorizzate spontaneamente, per cui ciascun alunno le considererà
come proprie e sarà intrinsecamente motivato ad osservarle.

Sentirsi accettati nel gruppo, valorizzati per le proprie competenze, oggetto di


aspettative positive da parte degli altri e inseriti in una rete di rapporti amichevoli
sono bisogni fondamentali di ogni individuo, il cui soddisfacimento influisce in
modo consistente sullo sviluppo del concetto di sé, sul comportamento sociale, ma
anche sul rendimento scolastico. Per questo motivo è importante che il gruppo
docente riconosca le strutture interattive nella concretezza della vita delle proprie
classi ed individui gli interventi che consentano una loro evoluzione favorevole ad
una positiva intersoggettività nel gruppo.
Nel progettare in modo innovativo l’organizzazione didattica, la scuola, anziché
assegnare alla classe il ruolo di unità amministrativa intorno alla quale far ruotare
rigidamente tutte le attività scolastiche, pone l’attenzione primaria sulla
personalizzazione dei loro apprendimenti. Al docente è richiesto di salvaguardare il
gruppo classe come comunità, quando gli alunni sono chiamati a svolgere
prevalentemente attività omogenee ed unitarie. Il gruppo classe rimane quindi uno
spazio irrinunciabile quando contribuisce a ridurre gli scarti di partenza dei
bambini, quando la sistematicità del lavoro offre stimoli a tutti i livelli e quando è
possibile organizzare l’attività in modo che gli alunni più competenti supportino
efficacemente gli alunni meno competenti.

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BIBLIOGRAFIA

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica
Unità Didattica III
Prospettive per lo sviluppo di un sistema didattico integrativo

Lezione 1. Scuola e Teoria Generale dei Sistemi


Lo studioso a cui viene attribuita la Teoria Generale dei Sistemi è von Bertalanffy il quale
descrisse una serie di principi e di modelli interdisciplinari applicabili a tutti i sistemi. Secondo
l‟autore, per comprendere un fenomeno, è necessario studiarne gli elementi che lo
compongono non solo nelle loro peculiarità ma anche e soprattutto nella loro interazione. La
Teoria Generale dei Sistemi nacque come risposta alle nuove conoscenze che la biologia
cominciò a sviluppare nei primi anni del secolo XX.
Storicamente la si può ritenere scaturita da due diversi fattori quali l‟esigenza di riconoscere
“scientificità” alle scienze del comportamento - psicopedagogiche e sociali -, e il bisogno delle
scienze dei sistemi di elaborare una teoria più ampia che superasse la divisione e l‟isolamento
tra le varie discipline. Tra gli anni „80 e „90 venne estesa alla psicologia dello sviluppo e venne
considerata in relazione al contesto scolastico, in particolare alla relazione bambino-
insegnante. Approcciare la scuola e la didattica secondo l‟ottica sistemica significa guardarla
contemporaneamente come sovra sistema, ovvero come apparato burocratico, differenze
gerarchiche e generazionali, e come sottosistema, cioè come rete di relazioni che crea “la realtà
di quella specifica scuola”; significa riconoscerla come un vasto ed ampio sistema aperto allo
scambio con l‟esterno e allo stesso tempo chiuso al suo interno. L‟individuo - insegnante,
allievo, genitore - quindi, non considerato più come monade, può essere osservato, nel contesto
scolastico, come membro di uno o più sistemi relazionali (es. la relazione insegnante-allievo/i;
insegnante-colleghi; insegnante/i-genitore/i degli allievi ecc.). La pragmatica della
comunicazione umana e gli ulteriori sviluppi dell‟approccio promosso dalla prospettiva della
Teoria Generale dei Sistemi possono offrire strumenti utili alla comprensione e allo studio dei
comportamenti comunicativi e relazionali a scuola e ai differenti significati che essi possono
assumere per i differenti soggetti che entrano in relazione. Condizione necessaria perché si
stabilisca un sistema, e che sia mantenuto come tale, è che i diversi elementi che lo
compongono possano interagire tra loro scambiandosi informazioni; le parti agiscono in

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maniera organizzata e interdipendente al fine dell‟adattamento e della sopravvivenza delle
unità nel complesso. Un intervento sistemico non è sugli elementi , ma sulle relazioni e sulle
interazioni tra di essi; nessun individuo può essere compreso al di fuori del contesto in cui vive.
La Teoria Generale dei Sistemi fornisce agli insegnanti non solo utili suggerimenti per
impostare, in modo proficuo relazioni tali da promuovere sviluppo e, nell‟ambito di situazioni
di rischio, realizzare percorsi favorenti un miglioramento del comportamento dei bambini in
difficoltà, ma offre anche una serie di principi per penetrare e comprendere la complessa natura
dei percorsi evolutivi del bambino e dei sistemi nei quali è immerso. I principi della Teoria
Generale dei Sistemi mettono in evidenza la necessità di comprendere il comportamento delle
parti in relazione al tutto e la comprensione delle dinamiche del tutto in relazioni alle parti.
Come dire che le modalità di relazione dell‟insegnante, nel contesto della classe, permettono di
comprendere il comportamento sociale del bambino e possono prevederne il miglioramento. I
sistemi sono unità composte di diverse parti interconnesse che agiscono in modo organizzato e
interdipendente per promuovere l‟adattamento o la sopravvivenza dell‟unità intera. Ogni
contesto come comunità, scuola, classe, gruppi, famiglie e ogni procedura come pratiche
disciplinari o linguistiche, relazioni bambino-insegnante, situazioni di apprendimento, regole di
gioco ecc. sono sistemi che implicano differenti livelli di interazione e differenti attori
interagenti e che quindi non possono essere considerati isolatamente e/o indipendentemente
uno dall‟altro. L‟analisi dei sistemi evolutivi permette, quindi, di comprendere la loro influenza
reciproca nei contesti scolastici. In modo notevolmente diverso da quello proprio di altre
organizzazioni, il sistema scolastico vive naturalmente in una condizione di continua
instabilità, generato dal cambiamento continuo di una parte dei suoi membri, e dalla la rapidità
con cui i membri che si succedono agli altri introducono, al suo interno, aspettative, idee,
orientamenti e valori di un sistema sociale in continuo movimento.
Questo tipo di situazione risulta notevolmente interessante. Costituendosi nella zona di confine
tra l‟organizzazione propria della scuola e il resto della società, il sistema scolastico- come
anche il sistema familiare- richiede, per essere studiato e conosciuto, concetti dinamici ed
evolutivi quali quelli richiesti dai sistemi lontani dall‟equilibrio. Nonostante il cambiamento
costante dei suoi membri, il sistema scolastico ancora la sua stabilità organizzativa alla legge
della distribuzione del potere al suo interno. La distribuzione del potere all‟interno di un
sistema interpersonale è questione assai complessa anche se volessimo occuparci di relazioni
tra due soli soggetti. Riguardo alla distribuzione del potere nel sistema scolastico, ci limiteremo
qui a ricordare:

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a) i membri di un sistema relazionale sono ordinati in una gerarchia che permette di
distinguere le diverse generazioni: nel caso della famiglia i genitori e i figli; in quello della
classe il maestro e gli allievi e così via; dal punto di vista del potere e della sua
distribuzione, la divisione in generazioni dei membri di un sistema ha spesso importanza
decisiva;
b) i membri di un sistema relazionale possono contrarre fra loro alleanze e/o coalizioni di
vario tipo: si tratta di alleanze e/o coalizioni che possono avere conseguenze importanti in
termini di potere;
c) i membri di un sistema relazionale aperto hanno la possibilità di ottenere l‟appoggio di
figure autoritarie o di regole istituzionali che si trovano fuori al sistema e che hanno
tuttavia influenza su di esso (sistema sanitario, giudiziario ecc). La distribuzione del potere
comunque non crea solo vincoli ma introduce anche possibilità.

È all‟interno di questo complesso sistema di relazioni e nell‟incontro con l‟insegnante che il


bambino prende coscienza del come relazionarsi con gli altri, regolando la propria esperienza
all‟interno della classe. Tuttavia, non è da sottovalutare l‟influenza esercitata dalla cultura
locale e dalla comunità, anche se in modo indiretto, sull‟educazione dei bambini. Esse
indicano i momenti importanti della vita; l‟apprendimento della cura della persona, l‟entrata
nella scuola, con tappe prestabilite per età, quando imparare a leggere e a scrivere con la
conseguente accettazione della verifica e della valutazione sui percorsi educativi e di
apprendimento. Le tappe sono istituzionalizzate, l‟assegnazione alle classi per età e per
numero sono dettate dall‟amministrazione scolastica. Anche i piccoli gruppi, come famiglia,
scuola, classe hanno i loro codici che influenzano i comportamenti, indirizzandoli a uno
scopo. In questa prospettiva gli insegnanti potrebbero adottare un sistema di gestione del
comportamento che preveda conseguenze costanti per un certo comportamento (sia positivo
che negativo) in modo tale che le reazioni dell‟adulto siano prevedibili e nel bambino si
formi una valida struttura che gli indichi quanto sia importante valutare le conseguenze del
proprio comportamento. Nelle interazioni tra due persone, specialmente bambino-insegnante,
c‟è bisogno di tempo, di assiduità nei contatti per conoscersi a fondo e le aspettative vengono
esplicitate sulla base della fiducia reciproca. Il meccanismo di regolazione nei rapporti spesso
avviene per prove ed errori. La regolazione della diade insegnante allievo si realizza tramite
codici individuali. Questi codici coinvolgono i sentimenti e le credenze che gli adulti hanno
riguardo al come ci si debba comportare con i bambini; ciò che ci si può attendere da essi e in
che modo. Tali sentimenti e tali credenze si manifestano nell‟interazione quotidiana che

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possiamo definire microregolazione; la reciprocità, la sensibilità, la coordinazione e la
sincronia ne costituiscono gli aspetti più importanti. La prospettiva sistemica considera
importante la relazione bambino-insegnante, ne evidenzia le qualità dinamiche e interattive
perché dà valore anche a quello che i bambini si aspettano dall‟adulto. Le credenze del
bambino nei confronti dell‟insegnante possono influenzare il rapporto e provocare, con il
loro comportamento, nell‟insegnante stesso reazioni positive o negative dal punto di vista
emotivo e comportamentale. Anche il bambino costituisce un sistema strutturato secondo
unità interdipendenti e organizzate tra loro che non possono essere studiate separatamente;
l‟unità biologica con potenzialità funzionamento e, qualche volta, deficit, lo sviluppo motorio
e linguistico, gli aspetti cognitivi ed emozionali un tutto espresso nella singola personalità
con le sue peculiari caratteristiche. Quando le pratiche educative si concentrano
esclusivamente su uno di questi ambiti (es. la lettura ad alta voce di un soggetto insicuro non
raggiunge livelli di prestazione ottimali), si può verificare che nell‟insegnante si rafforzi
l‟idea che il bambino possa essere valutato su ciascuno dei singoli comportamenti e non su
una gamma di aspetti che riflettono funzioni integrate scaturite anche dalle situazioni in cui si
manifestano. Dalla concettualizzazione del bambino e del suo funzionamento derivano
implicazioni nel contesto scolastico. Le previsioni sul rendimento, gli indicatori di progresso,
gli obiettivi educativi sono tutti influenzati dall‟immagine del bambino come sistema
educativo nel contesto delle relazioni sociali. Ovviamente, come il bambino è considerato
facente parte di un sistema globalmente strutturato a cerchi concentrici, così è da considerare
l‟insegnante che interagisce con lui; anche quest‟ultimo instaura relazioni diadiche, che, di
volta in volta, hanno come riferimento l‟alunno, il partner, i figli, o i propri genitori; fa parte
di piccoli gruppi. È inserito, infine, in gruppi più ampi in seno alla comunità in cui vive.
Tutto ciò può influenzare il singolo rapporto in modo del tutto inconsapevole, ma non senza
effetti sui meccanismi di regolazione dell‟esperienza che il bambino fa nel contesto classe,
sia dal punto di vista emotivo che dal punto di vista relazionale con l‟insegnante e con i pari,
fornendo occasioni utili per modellare i propri processi di autoregolazione in via di sviluppo.
La teoria presentata non considera il cambiamento di ciascun sistema in termini di
acquisizione di nuove competenze, ma è visto come una riorganizzazione o trasformazione,
in termini discontinui, che interessa il sistema considerato. La complessità della relazione in
trasformazione tra i sistemi va oltre il comportamento del singolo bambino; alla base dei
processi di cambiamento nell‟organizzazione dei sistemi proposti dalla Teoria Generale dei
Sistemi vi sono i concetti di auto-stabilizzazione e di autorganizzazione. L‟auto-
stabilizzazione consente al sistema di rispondere ai mutamenti richiesti dall‟esterno senza che

53
sia necessario riorganizzare le caratteristiche interne. Le richieste di cambiamento
consentono l‟adattamento attraverso il riequilibrio delle dinamiche interne senza la necessità
di modificare la struttura di base o del sistema. L‟autorganizzazione richiede, invece, un
processo di completa ristrutturazione di sé quando alcune richieste sono costanti e intense. Le
caratteristiche del sistema non garantiscono una risposta adeguata alla richiesta e, quindi,
vengono progressivamente riadattate. I cambiamenti previsti dalla Teoria Generale dei
Sistemi necessitano di tempo per potersi verificare e realizzarsi pienamente data la
complessità del singolo sistema e dei sistemi dei quali fa parte.
La Teoria Generale dei Sistemi, all‟interno delle prassi didattiche si propone quindi come
radicale cambiamento nei termini di sviluppo di visioni sintetiche di situazioni molto
complesse, ricche di dati interdipendenti l‟una dall‟altra, che presuppone che si costruisca
all‟interno della mente uno scenario globale, che rappresenti il sistema di riferimento su cui
si debba lavorare localmente. Pertanto sembra configurarsi quale modello teorico ed
epistemologico su cui poggiare le nuove concezioni e metodologie didattiche in grado di
concepire gli alunni nella loro totalità e specificità all‟interno del sistema scolastico, e quindi
di favorire l‟adozione di prassi a sostegno dell‟integrazione educativa e didattica.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica
Unità Didattica III
Prospettive per lo sviluppo di un sistema didattico integrativo

Lezione 2. La teoria della mente nei contesti di insegnamento apprendimento

La Teoria della Mente consente di capire non solo gli stati mentali, (ossia, emozioni, desideri,
credenze) di chi entra in relazione con noi, ma anche intuire o prevedere il suo
comportamento, poiché solo se siamo in grado di prendere in considerazione ciò che l‟altro
“ha in mente”, saremo in grado di interagire con lui, entrare in relazione e capire quello che
dice, perché reagisce o si comporta in quel modo. La Teoria della Mente può essere
concepita come la capacità meta-rappresentativa di stati mentali complessi che si sviluppa in
relazione ai contesti socio-culturali a partire dal possesso innato di capacità di regolazione
delle attività a capacità di fare inferenze. È un processo concettuale che permette di elaborare
le informazioni e di produrre costrutti teorici sugli stati mentali.
Tale processo viene affinato nel tempo ed in questo processo assume un ruolo chiave la
figura del docente che nel rapporto col bambino, può giocare un ruolo importante, per lo
sviluppo della capacità di quest‟ultimo di saper cogliere e gestire i propri e gli altrui stati
cognitivi, emotivi e comportamentali. Capire che cosa c‟è dietro uno stato di agitazione o di
apparente disinteresse per le attività che si svolgono in classe, un‟aggressione o, ancora, un
isolamento, considerandoli linguaggi non verbali, permette di offrire un contenimento a tali
situazioni attraverso la vicinanza, la comprensione e il dialogo. La teoria della mente può
essere definita come l‟abilità di assumere la propria e l‟altrui prospettiva. La capacità di
interagire in modo adattivo, con le persone con le quali si viene a contatto, può essere
raggiunta solo se si sviluppa e si rende sempre più funzionale la capacità di comprendere il
loro comportamento attraverso un‟inferenza sui loro stati mentali (intenzioni, desideri,
credenze, sentimenti) ad essi sottostanti. Essa si sviluppa sin dai primissimi anni di vita, si
matura durante l‟età prescolare, e il suo sviluppo continua anche in età adulta. Ogni persona
nel rapporto con gli altri quotidianamente utilizza questa abilità. Per questo, la Teoria della
Mente è stata anche definita come psicologia del senso comune, essa, infatti, permette di

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comprendere anche il contesto sociale nel quale si vive e adattarsi ad esso. La Teoria della
Mente ha una funzione sociale che va al di là della comprensione degli altri basata
sull‟osservazione dei movimenti del corpo o sul significato letterale delle singole parole.
Essa ci permette, infatti, di attribuire stati mentali per spiegare, predire e agire sul
comportamento proprio e altrui. Per questo in ogni attività comunicativa è necessario, per
una corretta e reciproca comprensione, immergerci nel concreto uso del linguaggio,
conoscere il significato che gli interlocutori impongono ai termini usati, cogliere i segnali e i
feedback, assicurarsi che quanto è stato detto sia stato compreso correttamente specialmente
quando viene usato un linguaggio figurato. Mentre interagisce con gli altri, il bambino che
mentalizza, impara a dare senso al loro comportamento, in un certo senso lo prevede e riesce,
a mettere in atto comportamenti adattivi più consoni alla situazione che vive, per cui questa
abilità esercita, non solo una funzione sociale, ma anche una funzione adattiva. Inoltre è
proprio grazie allo sviluppo di un pensiero sul proprio pensiero che il bambino comincia a
riflettere sui propri processi mentali, cerca di capire che cosa lo spinge ad agire in un certo
modo, pensa prima di agire, mettendo in atto, tra le possibili alternative, esaminate
mentalmente, la soluzione meno problematica. Da una prospettiva più legata alla psicologia
la competenza alla mentalizzazione fa parte dell‟organizzazione del Sé, essendo essa una
delle caratteristiche che definiscono il Sé insieme alla coscienza del Sé, l‟autonomia e la
funzione riflessiva.
Se nel contesto primario della famiglia il bambino impara a relazionarsi con gli adulti
attraverso il primo sviluppo della teoria della mente, è nella scuola che egli trova uno spazio
protetto, un tempo, con i suoi ritmi ai quali adattarsi, e rapporti costanti con persone che gli
forniscono gli aiuti di cui ha bisogno per migliorare le sue già acquisite abilità di
mentlizzazione. Questo aspetto, molto importante, è sotteso al fatto che la scuola, per
istituzione, rappresenta il contesto privilegiato per la crescita cognitiva, affettiva e sociale. La
scuola, quindi, esercita un‟influenza decisiva sul bambino, in una fase in cui in lui si aprono
nuovi orizzonti, mette alla prova se stesso e gli altri, può soddisfare il desiderio di
acquisizione di nuove conoscenze, per aiutarlo a sviluppare e potenziare la teoria della
mente. Quando egli entra nella scuola, comincia a confrontarsi con i propri pensieri e quelli
degli altri e, quindi, ad affrontare più agevolmente il processo di scolarizzazione. Tale
processo richiede che il bambino trovi le modalità per inserirsi nel gruppo dei pari, valuti se e
quando partecipare ai giochi con i compagni, se e quando rispondere alle domande che gli
vengono rivolte o prendere la parola durante le lezioni. Questo tipo di decisioni vengono
prese dal bambino in base ai criteri suggeriti dalle abilità meta cognitive.

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Lo sviluppo della competenza meta cognitiva negli alunni è universalmente riconosciuta
come necessaria per migliorare le prestazioni in compiti cognitivi; quanto più una persona è
cosciente di ciò che fa e di come la propria mente lavora, tanto più ottiene risultati positivi
nelle attività che esegue. In questa prospettiva, pertanto, le difficoltà evidenziate da alcuni
studenti nel lavoro scolastico possono dipendere non da una carenza nelle abilità
metacognitve di base, che di conseguenza non permettono ad un alunno di ottenere scarsi
risultati perché organizza il proprio lavoro in modo poco funzionale agli obiettivi che si
prefigge. L‟obiettivo del lavoro didattico sulla componente metacognitiva è quello di offrire
agli alunni l‟opportunità di imparare ad interpretare, organizzare e strutturare le informazioni
ricevute dall‟ambiente, riflettere su questi processi e divenire sempre più autonomi.
L‟avvicinamento dell‟alunno alle dimensioni meta cognitive passa da operazioni semplici
relative al pensiero proprio e altrui; imparare a distinguere tra il significato di
un‟affermazione (contenuto proposizionale), individuare, nei diversi brani letti, il punto di
vista dell‟autore, le sue intenzioni, le sue credenze, qualche volta è anche richiesto di pensare
una conclusione diversa da quella offerta dall‟autore. In questo modo il bambino è
incoraggiato a sviluppare un pensiero critico che può facilmente essere collegato alla
comprensione della falsa credenza; può, cioè , riflettere sulle proprie e altrui credenze,
riconoscere i propri errori e valutare i punti di vista degli altri. La scuola, nel favorire le
attività di scolarizzazione, richiede al bambino, nello stesso tempo, capacità di
mentalizzazione, considerandola indispensabile per vivere nei diversi contesti in modo
adattivo, ma va anche tenuto conto dell‟importanza dell‟interpretazione del pensiero
dell‟altro, di chi, cioè, è nella fase di apprendimento, quando si vogliano studiare i processi di
insegnamento-apprendimento. L‟insegnante assolve il suo mandato se comprende ciò che il
bambino già sa, ciò che vuole sapere, il suo stato emotivo, utilizzando la teoria della mente
per regolare il proprio comportamento sulla base degli stati mentali di chi deve apprendere.
D‟altra parte il bambino, già all‟età di cinque anni, è in grado di mettere in relazione quello
che l‟educatore insegna con le credenze (vere o false) che egli ha sul suo conto come
discente. Pertanto, non si può considerare il rapporto tra teoria della mente e interazione
educativa solo dal punto di vista del docente, ma tale interazione dovrebbe essere osservata
anche nel discente quando la utilizza nel momento in cui fruisce dell‟intervento educativo. Si
apprende, infatti, non tanto quando l‟altro agisce su di noi, quanto attraverso l‟altro. In questo
modo si costruisce la propria conoscenza in maniera intersoggettiva attraverso la
comprensione della mente altrui.

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Sostanzialmente si posso individuare tre modi di apprendere: per imitazione, mediante
istruzione, e utilizzando la collaborazione. Queste modalità di apprendimento possono essere
correlate ai tre concetti base della teoria della mente cioè la comprensione delle intenzioni, la
falsa credenza di primo ordine e la falsa credenza di secondo ordine. L‟apprendimento per
imitazione avviene quando il bambino inferisce correttamente, osservando il comportamento
dell‟insegnante, le intenzioni di questo finalizzate al conseguimento del risultato . Gli autori
definiscono in questo caso l‟altro come “agente intenzionale” (x tenta di... ). Si apprende
tramite istruzione attraverso il confronto comunicativo dei diversi punti di vista che possono
essere esposti, spiegati, confrontati tra docente e discente nella relazione educativa.
L‟apprendimento tramite istruzione è reso possibile dal possesso del concetto dell‟altro come
“agente mentale” (x pensa che …). L‟apprendimento collaborativo (l‟idea di base è che x
pensa che y pensi che z... ) è connesso con la capacità di pensiero ricorsivo complesso. Se
l‟insegnante considera l‟alunno come agente mentale che impara attraverso il riconoscimento
e il confronto delle proprie e delle altrui credenze, ci troviamo di fronte al modello che gli
autori definiscono “scambio intersoggettivo”, in cui l‟alunno è considerato lui stesso
costruttore di conoscenza e cultura. Il dialogo e la collaborazione portano necessariamente ad
utilizzare forme linguistiche basate sul possesso di credenze che permettono ai partner di
riconoscere gli stati mentali propri e altrui e di riflettere su di essi.
Dal punto di vista educativo il ruolo della metacognizione consiste nel rilevare che il
processo educativo non deve incidere soltanto sulle abilità di base possedute o acquisite o
sulle nozioni via via apprese, ma soprattutto sulle modalità di comprensione e di utilizzazione
delle stesse. L‟approccio metacognitivo tende a formare le capacità di essere gestori diretti
dei propri processi cognitivi dirigendoli attivamente con proprie valutazioni e indicazioni
operative. Dal punto di vista educativo il ruolo della metacognizione consiste nel rilevare che
il processo educativo non deve incidere soltanto sulle abilità di base possedute o acquisite o
sulle nozioni via via apprese, ma soprattutto sulle modalità di comprensione e di utilizzazione
delle stesse.
Per favorire questo tipo di didattica il corpo docente ha a disposizione diverse e semplici
metodologie, quali:
- sollecitare momenti di meta cognizione;
- favorire l‟autoregolazione;
- percepire stati mentali;
- orientare il locus of control;
- analizzare il linguaggio, le espressioni del viso e i linguaggi non verbali;

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- favorire la lettura di testi narrativi, l‟attività autobiografica, la riflessione sulle proprie
emozioni;
- discriminare tra eventi e intenzioni, credenze e eventi;
- usare predicati mentalisti: intuire, volere, desiderare, sperare, credere, dubitare …

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica
Unità Didattica III
Prospettive per lo sviluppo di un sistema didattico integrativo

Lezione 3. Una nuova concezione dell’apprendimento: il socio costruttivismo

Negli ultimi due decenni si è sviluppata una rinnovata attenzione intorno ai processi di
apprendimento. Attualmente, anche alla luce della spinta delle proposte concettuali della
psicologia culturale e del socio-costruttivismo, vi è una pluralità di approcci e di teorie
sull‟apprendimento che vanno oltre il modello cognitivista, in tal senso è indicativo quanto
scrive Pontecorvo, nel capitolo introduttivo al diffuso e citato Manuale di Psicologia
dell‟educazione da lei curato:

“Un lettore avveduto si potrà chiedere come mai né in questo né in altro capitolo si trovi
una esposizione sistematica della prospettiva cognitivista al di là di molti accenni. Le
teorie cognitiviste, nelle loro applicazioni specifiche secondo il principio della specificità
di dominio, sono presenti come riferimento rilevante in alcuni dei capitoli che seguono
(…). Tuttavia ne manca una presentazione generale e soprattutto non vengono
riconosciute come guida per impostare un discorso psicoeducativo che vuole avere una
valenza sociale e una spendibilità formativa. La ragione profonda è che chi scrive,
insieme a molti che hanno contribuito a questa opera, non ritengono di poterla
considerare come teoria generale di riferimento, come era sembrato possibile tra gli
anni „70 e gli anni „80, quando si era pensato che il cognitivismo potesse essere la guida
per innovare profondamente l‟educazione e la psicologia dell‟educazione fino ad allora,
almeno nella vulgata angloamericana prevalente, completamente dominata dal
comportamentismo. (…) La motivazione più profonda di questa scelta è che si è preferito
un approccio psicologico quale quello esposto in questo capitolo che fosse capace di
interpretare e guidare i processi educativi complessi, tenendo conto delle dimensioni di
contesto, cultura, contenuto e metodo, e che non trascurasse la costruzione dell‟identità
dell‟individuo e le sue valenze etico-sociali.” (Pontecorvo, 1999, pp. 13-14)

In questa direzione l‟approccio socio-costruttivista si viene a delineare quale innovativo


quadro teorico di riferimento pedagogico che vede il soggetto che apprende quale reale

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protagonista di un processo di costruzione della propria conoscenza, tale concezione
sottolinea il carattere costruttivo, dialogico e quindi dominio- specifico dei processi di
apprendimento.
Per quanto concerne la nozione di carattere costruttivo dell‟apprendimento, esso non è il
risultato immediato delle informazioni proposte dall‟insegnante e più in generale veicolate
dal contesto bensì l‟alunno costruisce il proprio conoscere elaborando le informazioni nei
termini ed in funzione dei propri modelli mentali e di conoscenza (schemi, conoscenze,
sistemi di credenze, categorie). Non sono dunque i dati in se stessi ad avere potere
informativo; il ruolo preminente lo hanno i modelli che presidiano il modo con cui tali dati
sono elaborati. Tale approccio si pone come modello alternativo ad un approccio d‟istruzione
tradizionale, dove il fulcro dell‟attività didattica è rappresentato dall‟insegnante; è l‟alunno
che, spinto dai propri interessi e situato in uno specifico contesto educativo, apprende
attraverso un processo di elaborazione ed integrazione di molteplici prospettive, informazioni
ed esperienze, offerte dal confronto e dalla collaborazione con i pari o con un gruppo di
esperti. Il modello di progettazione didattica proposto dal costruttivismo è centrato quindi
sugli allievi, sui loro bisogni e sulle loro risorse, ed in senso lato la formazione diviene
interiorizzazione di una metodologia d‟apprendimento che rende progressivamente il
soggetto autonomo nei propri processi conoscitivi. In linea con questa prospettiva
l‟informazione, ovvero la conoscenza, non sta nella stimolazione ambientale, ma nel sistema
di categorie e più in generale nei dispositivi interni al soggetto attraverso cui e nei termini dei
quali la stimolazione stessa è trattata e organizzata. Il che in altri termini significa che il
soggetto costruisce l‟ambiente, attribuendogli significato in funzione delle categorie che
possiede. Nell‟ambito di questa concezione epistemologica, la conoscenza si sviluppa nei
termini di adeguatezza, piuttosto che di una rappresentazione che tenda ad avvicinarsi sempre
più al vero.
L‟altro aspetto caratterizzante l‟impostazione della didattica da una prospettiva socio
costruttivista è la nozione dialogica dell‟apprendimento. Tale prospettiva sottolinea il ruolo
intrinsecamente sociale della mente; la mente è strutturalmente sociale in quanto è il prodotto
dell‟esperienza interpersonale. Il che in altri termini significa che pensare è un atto sociale,
finalizzato, strumentale e subordinato alle esigenze di regolazione della relazione sociale. Le
opinioni, i giudizi, i significati che le persone producono nella quotidianità non sono, dunque,
proiezioni epifenomeniche di un funzionamento cognitivo, basato su procedure incapsulate,
rispondente a regole date. Al contrario, il pensiero è intrinsecamente argomentativo e

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retorico, orientato dall‟esigenza degli attori di proporre e sollecitare l‟adesione alle visioni
del mondo proposte.
Questa impostazione ha influenzato profondamente il modo di concepire i processi di
apprendimento considerato inscindibilmente legato al contesto di socializzazione entro il
quale - ed in ragione del quale - si produce. L‟apprendimento, infatti, avviene entro ed
attraverso lo scambio dialogico che si instaura nel gruppo degli allievi e nella relazione con
l‟adulto/docente. Esso, inoltre, si realizza per il tramite delle risorse cognitive e di senso
proprie del gruppo sociale. Inoltre ancora, non esiste in sé, ma in quanto processo (luogo ed
insieme strumento) di partecipazione e di appartenenza del singolo ad una comunità di
pratiche. Il costruttivismo di matrice socio-culturale,propone una visione del processo di
apprendimento entro la quale l‟accento è posto non tanto sull‟acquisizione di informazioni
predefinite, quanto sulla costruzione dialogica di nuove conoscenze. Lo stesso termine di
apprendimento viene in questa prospettiva messo in discussione. Al suo posto si propone la
nozione di apprendistato, che dà l‟immagine dell‟apprendimento come processo di
inscrizione entro una comunità attraverso la socializzazione alle pratiche - sociali, di ruolo,
discorsive, cognitive - caratteristiche di tale comunità.
L‟impostazione socio costruttivista ha avuto un influenza notevole dal punto di vista della
didattica; quanto messo in luce implica che lo sviluppo delle conoscenze avviene attraverso
traiettorie e percorsi multipli interagenti sotto l‟influenza dei contesti sociali di riferimento,
pertanto gli studenti sono forieri di “teorie ingenue” sulla realtà, cornici interpretative,
modelli mentali anche fortemente strutturati che tendono a modificarsi a fatica.
L‟apprendimento, allora si configura come un‟attività di ristrutturazione di questi schemi
rappresentativi, un adeguamento delle strutture cognitive inadeguate alle nuove esigenze. La
didattica pertanto deve volgere alla costruzione piuttosto che alla riproduzione di conoscenza,
finalizzata a rendere invece visibile la complessità della realtà e della sua poliedricità
rappresentativa. L‟attenzione si posiziona non solo sui contenuti ma sui processi attraverso i
quali essi vengono elaborati e costruiti. In questo senso, occorre progettare percorsi di
apprendimento che consentano la formazione e la ristrutturazione dell‟identità personale in
una logica orientativa, attraverso l‟esplorazione, come esperienza di nuove possibilità, e la
riflessione come autoconsapevolezza delle modalità di interpretazione della realtà. Il
costruttivismo non ha al momento una didattica “forte” da proporre piuttosto coagula
esigenze quali da un lato un‟esigenza di rifiuto d‟una figura di insegnante come fornitore di
informazioni, dall‟altro di rifiuto del distacco della scuola dalla vita e del carattere “inerte”
della conoscenza, associato ad una carica oppositiva al modello corrente di scuola. Alcuni

62
orientamenti generali ricorrenti si possono sintetizzare nell‟enfasi alla costruzione della
conoscenza e non alla sua riproduzione, nell‟evitare eccessive semplificazioni
rappresentando la naturale complessità del mondo reale, nell‟offerta di ambienti di
apprendimento assunti dal mondo reale nell‟alimentazione di pratiche riflessive e nella
contestualizzazione delle conoscenze.
Per certi versi la didattica ad impronta socio costruttivista rappresenta una miscela di
elementi e di prassi che però non sono lasciate all‟attivismo del singolo insegnate, piuttosto
sono realizzate alla luce di una impostazione epistemologica che taglia radicalmente i ponti
con l‟idea di apprendimento - e di didattica - di impostazione cognitivista; in ogni progetto
costruito su tale impronta, la costruzione di uno scaffolding, in particolare il complesso di
regole comportamentali e sociali, è molto forte e strutturato. Si dà spazio allo studente
agendo più pesantemente sul contesto (norme cooperative molto precise, forte intervento di
responsabilizzazione, presenza ed impiego analitico di dispositivi e strumentazioni, ecc.).
L‟approccio didattico costruttivista, in questa direzione, si propone quindi come elemento
aggregatore e integratore di metodologie preesistenti, ricollocandole e riqualificandole
all‟interno di una visione epistemica ne valorizza ulteriormente l‟uso e ne costituisce la
legittimazione e il fondamento.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica
Unità Didattica III
Prospettive per lo sviluppo di un sistema didattico integrativo

Lezione 4. Dalla Programmazione alla Progettazione

Oggi giorno all‟interno del panorama scolastico e didattico parlare di programmazione


didattica e di progettazione didattica significa parlare di curriculo scolastico. Tale concetto
può essere visto da una duplice, ed alternativa prospettiva. Da un lato il curricolo può essere
considerato il programma di studi (le materie scolastiche), ovvero, una sequenza di corsi
all‟interno dei quali vengono definiti una serie di obiettivi in termini di risultati e che
definiscono il complesso degli apprendimenti e delle esperienze degli studenti, al contrario
può essere concepito come l‟insieme degli aspetti che caratterizzano l‟istruzione, e
l‟orientamento e i rapporti interpersonali, e che definisce il prodotto di un processo, che
coinvolge l‟alunno, l‟insegnate ed il contesto scolastico. Al di là delle diverse definizioni che
possiamo dare al curriculo esso è indissolubilmente legato ad una concezione in senso
progettuale della funzione docente. Il concetto stesso nasce entro il contesto pedagogico
anglosassone caratterizzato dalla mancanza di dimensioni uniformi di programma. Lo
sviluppo della interpretazione in senso progettuale dell‟insegnamento risponde a diversi
ordini di sollecitazioni teoriche e culturali. Il curricolo indica quindi la progettazione di una
situazione educativa, ovvero l‟insieme organicamente progettato e realizzato per far
conseguire agli alunni i traguardi di istruzione e formazione previsti. Tale concezione, d‟altra
parte, pone in primo piano la capacità di progettazione che devono avere i docenti ed i
traguardi di formazione previsti dai programmi in vigore. Il curricolo si snoda quindi tra le
prescrizioni ministeriali e l‟autonomia locale sostenuta dalle competenze didattico-
metodologiche dei docenti. In questa prospettiva , il programma non copre l‟intero spettro
delle dimensioni che intervengono a definire l‟azione dell‟insegnamento. L‟orientamento a
definire saperi essenziali, in riferimento alle competenze, e la ricerca di forme di
rappresentazione della conoscenza maggiormente coerenti sia con lo statuto epistemologico
delle discipline, sia con le caratteristiche dei processi di apprendimento, costituiscono una
parte essenziale della programmazione. Tuttavia, l‟innovazione nel campo dei modelli di

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programmazione è condizione necessaria ma non sufficiente per pensare alla funzione
docente come progettualità. Per assumere un carattere progettuale il docente deve definire sia
il che cosa che il come della pratica di insegnamento-apprendimento, facendosi carico della
messa a punto delle dimensioni del contesto curricolare che determina le condizioni di
felicità della scelta didattica. In questa direzione l‟insegnamento si qualifica come
progettuale in quanto, come abbiamo già avuto modo di evidenziare, si fonda su una opzione
strategica e valoriale circa la definizione dei fini dell‟agire educativo.
Come abbiamo osservato nelle lezioni precedenti, grazi anche alla svolta socio costruttiva
della pedagogia, le pratiche di insegnamento-apprendimento sono sempre più concepite nella
loro dimensione di processo dialogico e contingente. Qualsiasi contenuto di comunicazione
tra insegnante ed allievo non ha valore informativo in se stesso, ma si traduce in senso - e
quindi in informazione - in ragione di come esso viene interpretato, pertanto per quanto un
programma possa proporsi come vincolante, è sempre e comunque l‟interpretazione che di
esso fa il docente (il gruppo dei docenti) a funzionare in ultima istanza da vettore
dell‟insegnamento. È la dimensione interpretativa, operata dall‟insegnante, che permette di
concepire l‟insegnamento come una funzione teorico-pratica, e come una professionalità di
carattere riflessivo, cioè capace di incorporare al suo interno una competenza metalinguistica
volta a rintracciare le categorie che organizzano l‟azione professionale stessa.
Il curricolo pertanto diviene criterio, luogo, e momento di costruzione collettiva di senso
dell‟agire didattico. Il nesso curricolo-progettualità emerge dalla constatazione
dell‟illusorietà dei diversi tentativi, normativi e concettuali, di risolvere/saturare in termini di
razionalità tecnica la dimensione progettuale dell‟insegnamento. La letteratura ha
ampiamente registrato il fallimento dei vari tentativi di innovazione curricolare basati sulla
logica top-down dei due tempi; prima la progettazione razionale, scientificamente fondata (in
genere operata in ambiti separati dalla scuola), poi l‟attuazione (da parte dei docenti).
Pontecorvo e Fusè a tal proposito hanno sostenuto:

“la presenza di materiale didattico nuovo, di libri di testo adeguati alle innovazioni, di
sussidi diversi, non è bastata a garantire un reale cambiamento del lavoro didattico nelle
classi, dove spesso gli insegnanti continuano a insegnare quello che sanno meglio e che
ritengono più importante. (…). Anche quando non si è cercato di proposito di costruire
dei curricoli “a prova di insegnante”, cioè indipendenti dall‟insegnante, e ci si è
seriamente preoccupati della riqualificazione dei docenti, non si è data adeguata
importanza a quelle modalità di conduzione del lavoro didattico già acquisito dai

65
migliori insegnanti e non si è cercato di coinvolgerli a sufficienza in una ricerca che -
pur richiedendo il contributo di diverse competenze disciplinari - non può fare a meno
della partecipazione di coloro che insegnano e deve essere strettamente collegata alle
concrete situazioni di insegnamento.” (Pontecorvo, Fusè, 1981, pag. 17)

D‟altra parte, l‟implicazione dei docenti nei processi di trasformazione non va intesa come
mera esigenza tattica, finalizzata all‟acquisizione di consenso. Il punto è più profondo,
riguardando l‟impossibilità di dare fondamento universale alle scelte curricolari. La
riflessione epistemologica ha infatti chiarito che l‟agire educativo non può essere pensato
come una risposta conseguente ad un‟analisi razionale e neutrale dei suoi compiti e dei suoi
oggetti. Ciò in quanto l‟oggetto dell‟agire educativo non precede l‟agire stesso, ma è da
questo costruito; la pedagogia non può assumere come proprio ancoraggio il discente, i suoi
bisogni, in quanto questi sono comunque definiti dalla pedagogia pur non fondandola.
Tuttavia non è sufficiente affermare che la progettazione formativa oggi è importante perché
incidere concretamente sul buon funzionamento delle scuole; i modelli progettuali, infatti
devono essere valutati alla luce dei risultati di apprendimento che essi sono in grado di
garantire. Oggi la scuola ha il compito di fornire a tutti i soggetti gli strumenti necessari per
l‟esercizio di una cittadinanza attiva e consapevole, ed è in questa prospettiva che
progettazione curricolare e formativa devono interagire quali dimensioni in grado di offrire
sia la possibilità di permettere ad ogni individuo una autonoma costruzione di conoscenze e
competenze sia di formarsi come persona in tutte le molteplici articolazioni.
La prospettiva di sviluppo progettuale delle pratiche di insegnamento apprendimento diviene
pertanto una metodologia di lavoro per perseguire il fine didattico in chiave integrativa
poiché l‟attuazione di un‟attività progettuale sugli alunni da parte dell‟insegnate implica lo
sviluppo di un pensiero riflessivo sugli alunni e sulla classe stessa, che funga da base per
l‟attuazione di prassi didattica in grado di permettere l‟interazione tra di ogni individualità
nella propria peculiarità e specificità. In questa direzione ogni attività didattica intesa in una
prospettiva progettuale diviene intrinsecamente integrativa, volta cioè a permettere
contemporaneamente la realizzazione del singolo ed il raggiungimento di specifici standard
formativi predefiniti in sede programmatica. L‟azione progettuale viene inserita nel contesto
della decisionalità e, quindi, declinata attraverso la possibilità di scegliere tra più condotte
possibili quelle modalità capaci di rendere efficace l‟intervento della formazione in rapporto
alle caratteristiche degli alunni, al materiale d‟apprendimento, al contesto ai mezzi e alle
risorse didattiche e agli obiettivi del processo. Pertanto la prospettiva progettuale passa

66
necessariamente dall‟attivazione di procedure logiche intenzionali precedentemente
pianificate dall‟insegnante che predispongano una condizioni di razionalizzazione del
processo di insegnamento/apprendimento, e che siano coadiuvate da un controllo/gestione
sistematica sulla complessità dell‟intervento formativo

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica
Unità Didattica III
Prospettive per lo sviluppo di un sistema didattico integrativo

Lezione 5. Prospettive di innovazione per la didattica


Il sistema scolastico negli ultimi anni è stato oggetto di numerosi cambiamenti sia dal nelle
concezioni della conoscenza e dei processi di apprendimento sia dal punto di vista epistemico
che dal punto di vista delle prassi professionali In particolare la concezione didattica
modulare sembra configurarsi quale punto di riferimento rappresentativo del quadro culturale
e metodologico che caratterizza il campo della riflessione pedagogica, e che possono essere
intese come altrettante strategie per una nuova concezione dei setting di apprendimento in
chiave integrativa e che supera la concezione tradizionale dell‟insegnamento come
trasmissione lineare di conoscenze aprendo verso una concezione di didattica integrante ed
integrativa, capace di rispondere alle esigenze di progettualità per ciascun alunno.
Il docente oggi è chiamato a una progettualità nuova all‟interno del quadro di riferimento
generale dell‟ordinamento, una progettualità che ha la sua massima rappresentatività nella
strutturazione di moduli originali. Il modulo non deve presentarsi come un nucleo chiuso ma
come un nodo di una rete di relazione e interferenze interdisciplinari o tecnico-professionale.
Esso rappresenta una parte significativa, altamente omogenea e unitaria rispetto al suo
impianto concettuale, di un più ampio percorso formativo, facilmente suddivisibile in
ulteriori segmenti unitari; le unità didattiche.
Il principio fondamentale della didattica modulare è la flessibilità del curricolo. Si rompe
l‟assetto rigido, determinato dall‟accoppiamento gruppo classe/corpo docente/insegnamenti
disciplinari incapsulati, operanti in parallelo lungo tutto l‟arco dell‟anno. Le attività
didattiche vengono ricomposte in unità temporali e spaziali di forma e periodizzazione
variabile, secondo le esigenze, le caratteristiche e possibilmente le preferenze degli allievi.

“(…) la modularità - che rappresenta una particolare forma di adattamento dell‟azione


didattica ai contesti educativi - è una strategia formativa flessibile, ma altamente
strutturata, in cui l‟organizzazione del curricolo, delle risorse materiali, del tempo e

68
dello spazio prevede l‟impiego opportunamente modellabile di segmenti di itinerari
non lineari di insegnamento-apprendimento - i moduli - che hanno struttura, funzioni
ed estensione variabili, ma formalmente e unitariamente definite. Ciascun modulo
viene a costituire una parte significativa, altamente omogenea ed unitaria (in termini di
contenuti informativi offerti, di categorie e schemi concettuali proposti, nonché di
processi cognitivi attivabili) di un più esteso percorso formativo, disciplinare o pluri,
multi, interdisciplinare programmato o programmabile, una parte del tutto, ma in
grado di assolvere ben specifiche funzioni educative e didattiche, e di far perseguire
ben precisi obiettivi cognitivi verificabili, documentabili (quando necessario
certificabili) e capitalizzabili (cumulabili).” (Domenici, 1999, pp. 128-129)

La dimensione modulare nella prassi pedagogica ridefinisce la pratica didattica sia da punto
di vista temporale permettendo di definire il monte ore sulla base degli obiettivi formativi sia
dal punto di vista spaziale. I moduli non essendo vincolati al gruppo classe permettono una
logica innovativa di cooperazione tra docenti, non solo gli insegnanti sono chiamati ad
aggregarsi in team sulla base delle discipline implicate nel modulo ma soprattutto, essi si
ritrovano a dover orientare la propria azione non più sulla base dei contenuti di competenza e
di conoscenza disciplinari di cui sono individualmente portatori e insieme garanti, ma in
ragione dell‟obiettivo sovraordinato e negoziato posto a scopo del modulo.
L‟idea di modulo quindi si propone da un lato come rottura dell‟autoreferzialità
dell‟insegnamento, e dall‟altro come possibilità di progettazione di interventi integrativi
verso studenti con bisogni educativi speciali o certificati in grado di considerare le reali
esigenze del singolo in ragione delle diverse domande e necessità di istruzione, in concerto
con le esigenze formative dell‟intera classe; l‟agire educativo diviene pertanto una azione
collettiva organizzata.
Complementarmente la didattica modulare permette di differenziare l‟offerta didattica,
articolandola in termini di contenuti e/o obiettivi e/o metodi di insegnamento. È bene
ricordare, però, che la realizzazione di una didattica modulare non si realizza in termini di un
“calderone” formativo, al contrario la sua realizzazione esige il costante monitoraggio delle
variabili in gioco (contenuti culturali, funzioni e dispositivi didattici, risorse didattiche;
caratteristiche degli allievi).
I moduli sono appositamente studiati in luce di una logica di programmazione curricolare
centrata sulle competenze, che non prescrive percorsi, contenuti e modalità rigide ed
uniformi, ma individua il bagaglio essenziale di saperi e abilità, attese come risultato in

69
uscita. L‟apprendimento modulare si realizza pertanto nei termini di nuclei di conoscenze in
grado di organizzare le conoscenze, configurandosi come una strategia didattica che propone
al contempo un metodo di progettazione e di organizzazione dei contesti di insegnamento-
apprendimento.
Tale prospettiva risponde, d‟altra parte all‟esigenza delle prassi didattiche integrative di
individuare una sintesi entro la dialettica tra il riconoscimento del carattere scarso e vincolato
delle risorse e l‟esigenza di diversificare l‟offerta formativa, in modo da renderla appropriata
alle esigenze, alle attitudini e agli interessi dell‟utenza, anzi delle utenze ed impegna la
scuola a favorire un‟integrazione che non poggi sull‟omogeneizzazione coatta o sulla perdita
di identità, ma che trovi basi comuni e valori condivisi per rispondere alle esigenze formative
di allievi provenienti da esperienze e culture molto diversificate.
Se i principi alla base della didattica modulare hanno trovato grossi favori tra i riformisti
della pedagogia e della didattica tuttavia trovano difficoltà a innervarsi pragmaticamente
all‟interno dell‟istituzione scolastica italiana per svariati motivi, alcuni, infatti, ritengono che
l‟organizzazione modulare della didattica implichi, in ragione della sua formalizzazione, un
carico di lavoro non sostenibile piuttosto che di potenziamento dell‟azione didattica.
Un‟ulteriore critica a questo modello didattico, che assume una prospettiva epistemologica
forte, viene da chi sostiene che una didattica fortemente modulare condivide un‟idea di
formazione che rinuncia a porsi come obiettivo l‟apprendimento di conoscenze, per puntare
sulla promozione di abilità funzionali; la didattica modulare parte dalla premessa
fondamentale che i contenuti non sono il fine del processo educativo, e da questo deriva che i
moduli devono servire allo scopo non di approfondire la conoscenza, ma di sviluppare delle
competenze.
Al di là dell‟acceso dibattito, nel quale per ovvie ragioni di spazio non ci dilungheremo, la
rottura dell‟assetto univoco dei percorsi di apprendimento, con la conseguente
trasformazione dei percorsi didattici in una sorta di reticolo, apre ad una riflessione sul ruolo
della didattica modulare nel contesto formativo ed integrativo odierno. Infatti, la
pluralizzazione dei percorsi modulari, la loro costruzione e segmentazione, trova la sua
ragion d‟essere, ed insieme il suo vincolo, nel riferimento al fruitore. Si provi ad immaginare
cosa possa essere la modularità priva di questo criterio di ancoraggio; un gioco
potenzialmente infinito di composizione e scomposizione dei saperi, in percorsi che
rispondono di volta in volta alle dinamiche interne di organizzazione delle discipline, così
come possono venir interpretate e veicolate entro i processi di negoziazione del gruppo
docente. D‟altra parte il curricolo modulare quando svuota il momento didattico dalla sua

70
uniformità prescrittiva, implica per definizione un allievo che si faccia almeno in parte
compartecipe della costruzione del percorso. In altri termini, la modularità non è compatibile
con una posizione di assoluta adempitività da parte del discente. Questi è chiamato a
scegliere, ad operare una selezione, sia tra i nodi del reticolo, sia all‟interno del singolo nodo,
tra la massa di informazioni e di potenziali connessioni che gli si apre dinanzi. Insomma: il
modulo implica un allievo che in qualche modo, naturalmente dalla posizione di discente,
interviene come co-costruttore del curricolo.

71
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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica
Unità Didattica IV
Prospettive per una didattica integrativa nella scuola

Lezione 1. L’integrazione tra programmazione individuale e programmazione


di classe

Molto spesso la presenza di bambini disabili o con Bisogni Educativi Speciali viene
concepita in termini di ostacolo allo sviluppo della programmazione didattica.
Quest‟atteggiamento si traduce in un percorso formativo per gli alunni caratterizzato da forti
accelerazioni e improvvise frenate. Inoltre la messa a punto di un programma di
apprendimento individualizzato a partire da un profilo dinamico funzionale rende innegabile
la presenza di una distanza con il percorso dei compagni, e la programmazione
individualizzata stessa diventa un percorso che separa l‟alunno dal percorso dei compagni.
L‟obiettivo generale di questa lezione non è affermare la possibile coincidenza
incondizionata dei due percorsi, né d‟altra parte di sottolineare l‟incommensurabilità dei
diversi percorsi di apprendimento, al contrario riteniamo che il riconoscimento e la
consapevolezza della differenza tra la programmazione di classe e la programmazione
individuale possa fungere da volano per la ricerca di punti di contatto tra le due
programmazioni e quindi favorisca la costruzione di situazioni formative altamente congiunte
per l‟alunno disabile perché in essi si incrociano le dimensioni dell‟individualizzazione e
della socializzazione. In questa prospettiva la ricerca di punti di contatto tra programmazione
classe e programmazione individuale si configura quale fattore di qualità per una reale
integrazione, in grado di eliminare la connotazione negativa legata al concetto di differenza,
unendo in maniera più diretta il binomio obiettivo/apprendente, slegandolo da quello di
standard minimo, che risulta riduttivo per coloro che sono in grado di superarlo e privo di
senso per coloro che non hanno la possibilità di raggiungerlo o per i quali non è significativo.
La dimensione integrativa dell‟agire educativo all‟interno del contesto scolastico rappresenta
dunque il risultato del riconoscimento della diversità e della sua promozione all‟interno della
dimensione d‟insegnamento apprendimento. Tale nozione di didattica non deve essere
dunque circoscritto alla dimensione disciplinare, ma deve riguardare tutte le condizioni di
esercizio che consentono l‟incremento di sviluppo dell‟alunno. Riconoscere la dimensione
non omogenea del gruppo classe si configura come punto di partenza per la messa in atto di

74
un approccio didattico in grado di favorire l‟interazione e l‟integrazione tra individui, tale
aspetto è essenziale per una corretta individualizzazione intesa nei termini di adeguamento
della proposta culturale alle caratteristiche dei singoli, in grado di attivare un processo di
socializzazione come promozione della dimensione socio-affettiva dell‟esperienza scolastica
orientata alla crescita. D‟altra parte il processo di integrazione richiede attenzione alla qualità
intesa come mantenimento di un adeguato profilo di insegnamento sia per il gruppo classe sia
per l‟alunno con Bisogni Educativi Speciali o disabilità; è il mantenimento del proprio senso
di agentività e di competenza che permette all‟alunno disabile di sentirsi parte di un
processo/percorso didattico, che, pur nella sua specificità, richiede lo stesso impegno
richiesto al gruppo classe, e viceversa tale impegno riconosciuto da parte del gruppo classe
nei confronti dell‟alunno disabile diviene volano per un corretto processo integrativo a livello
sociale. L‟avvicinamento degli obiettivi della classe a quelli dell‟alunno disabile si può
realizzare attraverso diverse piste che però possono essere colte e sviluppate solamente se
l‟insegnante ha un‟attenzione a favorire negli alunni un apprendimento di qualità e alla
dimensione affettivo-relazionale dell‟esperienza scolastica:

- un momento di riflessione su un aspetto del programma già superato;


- un ripasso;
- un‟attività motoria, manuale o riferita alle autonomie;
- un‟analisi di come si arriva a un risultato;
- aiutare un compagno.

Sicuramente tale modello didattico diviene perseguibile a patto di un‟approfondita


conoscenza da parte del corpo docente sia delle programmazioni disciplinari sia delle aree di
potenzialità dell‟alunno: è grazie alla conoscenza degli obiettivi e della successione delle
unità didattiche che è possibile individuare punti di contatto tra le due programmazioni e
quindi permettere concretamente all‟alunno disabile di essere parte di una proposta formativa
che lo inglobi nel contesto classe pur differenziandolo. In questa prospettiva la dimensione
integrativa assume un taglio inclusivo, in grado di contribuire a prendersi carico dei soggetti
diversamente abili presenti nelle classi. Dal “sostegno unico”, come risorsa aggiuntiva,
troppo spesso autoreferenziata, si deve passare a “sostegni distribuiti”. Bisogna passare
dall‟insegnante di sostegno, a un insegnante che sia parte di una struttura di sostegno. È tutta
la struttura scolastica che deve essere organizzata per realizzare una didattica inclusiva, e a
tal fine è necessario rivedere i modi di insegnare, di programmare, di essere insegnante e di

75
essere organizzazione. Questa prospettiva, infatti, ridefinisce la realizzazione
dell‟integrazione non solo da un punto di vista sociale ma anche, e soprattutto, educativo di
tutti gli alunni. Questa prospettiva di approccio sistemico permette all‟alunno disabile di
seguire l‟unità di lavoro proposta alla classe in tutti i suoi obiettivi.
Realizzare una didattica integrata tra individuo e gruppo classe si può realizzare attraverso la
messa a punto, in sede di programmazione, di mappe didattiche in grado di offrire adeguati
stimoli per tutti gli alunni in grado di contemplare obiettivi e percorsi differenziati, che siano
parte di un percorso comune definito da obiettivi di diversa complessità ma che orientino un
lavoro convergente per il gruppo classe nella sua totalità. In questo modo gli obiettivi della
programmazione individualizzata divergono da quelli della programmazione della classe, ma
l‟attività prevista può consentire all‟alunno disabile la partecipazione anche parziale. Il valore
aggiunto di tale impostazione, rispetto a quella del lavoro disgiunto da quello della classe,
risiede certamente nell‟operare congiuntamente nella direzione sia dell‟individualizzazione
sia della differenziazione attraverso l‟offerta di stimoli per tutto il gruppo classe e di continui
punti di convergenza. La ricerca della compatibilità, dei punti di contatto tra la
programmazione della classe e quella dell‟alunno disabile è certamente un compito
impegnativo che si snoda principalmente attraverso due punti, da un lato la conoscenza delle
programmazioni e delle attività della classe, mentre dall‟altro la consapevolezza della
necessità di utilizzare una “speciale didattica” che pensi continuamente alla definizione di
strategie e materiali di facilitazione del lavoro, anche nei termini di mediatori didattici.
Il problema della programmazione individualizzata e della necessità di raccordarla con la
programmazione di classe, in genere viene affrontato nei termini di adattare la didattica
individuale a quella del gruppo classe, tuttavia la prospettiva che stiamo proponendo
sottolinea un approccio dialettico in cui è anche la programmazione di classe ad adattarsi a
quella del singolo. Questa prospettiva fa fronte all‟idea che adattare gli obiettivi della classe
ai bisogni individuali di un alunno disabile significhi far perdere del tempo prezioso a tutti gli
altri poiché gli alunni normodotati non hanno nulla da guadagnare nel cercare di adeguarsi ai
bisogni di un compagno più lento. Al contrario lo spazio per una reale integrazione si
configura quando si inizia a cogliere come l‟inserimento sia un‟opportunità positiva per tutti
gli alunni, non solo in termini di apprendimento ma in termini di sviluppo e maturazione
personale.
Da ultimo la prospettiva delineata si propone come base per l‟attuazione di un principio di
democratizzazione che da sempre si è posto a fondamento dello sviluppo del sistema
educativo italiano.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica
Unità Didattica IV
Prospettive per una didattica integrativa nella scuola

Lezione 2. Raccordare la programmazione di classe e quella dell’alunno disabile

L‟integrazione non è un processo che prevede l‟adattamento di una parte al tutto, ma in cui
ciascuno possa giovarsi del tutto per rispondere ai suoi bisogni, per migliorare il suo livello di
relazione con la realtà circostante. Gli alunni disabili portano all‟interno del contesto scolastico
esigenze di tipo formativo in cui attraverso l‟apprendimento si sviluppano processi cognitivi
sempre più evoluti ed esigenze di tipo sociale intese come capacità interpersonali d‟adattamento a
contesti diversi, assimilabili alla variegata forma in cui si manifesta la comunità sociale. Affinché
un percorso possa dirsi integrato è necessario che il soggetto possa arricchirsi dello stimolo/degli
stimoli forniti dall‟ambiente che quindi devono essere fruibili ma nel contempo arricchenti. Lo
stimolo individuale ha indubbiamente un valore positivo perché consente la strutturazione di
percorsi attraverso linguaggi e strumenti prossimali a quelli utilizzabili e noti all‟alunno, ma non
può essere considerato esaustivo se non permette all‟alunno di farne uso in un contesto allargato,
il più possibile assimilabile al contesto socio – ambientale che l‟alunno può incontrare all‟esterno
della struttura scolastica. Queste esigenze dell‟alunno disabile molto spesso si scontrano con le
esigenze della classe, e molto spesso la programmazione di classe e quella relativa all‟alunno
disabile spesso vengono viste come incommensurabili, e pertanto gli insegnanti fanno difficoltà a
individuare una forma di incrocio tra le due programmazioni. Tale prospettiva, nella maggior
parte dei casi, si sviluppa come risultato dell‟esistenza stessa della necessità di una
programmazione individualizzata a partire da un profilo dinamico funzionale che reifica la
dimensione fantasmatica relativa al fatto che per il bambino disabile la distanza con il percorso
dei compagni risulti incolmabile. Questa prospettiva travisa totalmente l‟idea di programmazione
individualizzata, la quale si viene a configurare quale percorso che separa l‟alunno dal percorso
dei compagni, ed in questa direzione sfavorisce l‟integrazione dell‟alunno sia dal punto di vista
dell‟apprendimento che dal punto di vista sociale. Con questo non intendiamo affermare la
possibile coincidenza dei due percorsi, ma sottolineare la necessità da parte degli insegnanti di
una ricerca di punti di contatto tra le due programmazioni. Questa eventualità si definisce, infatti,
come una situazione formativa e significativa per l‟alunno disabile perché in essa si incrociano le
dimensioni dell‟individualizzazione didattica e della socializzazione.

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La condizione imprescindibile per realizzare progetti di integrazione è che il disabile si senta
“accolto” nella classe. Non ha senso, infatti, parlare di adeguamento di obiettivi e di materiali ai
bisogni del disabile, se non si è creato un clima di accettazione reciproca nel rispetto delle
differenze individuali. Il concetto di inclusione, cioè l‟appartenenza ad un gruppo pur
conservando la propria peculiarità, richiama altri due concetti: quello di normalità e quello di
specialità. La normalità risponde al bisogno di sentirsi considerati e trattati alla stessa stregua
degli altri; la specialità risponde al bisogno di sentirsi diversi dagli altri. Se questo è un valore, un
fattore di qualità di una reale integrazione, allora l‟ovvia difficoltà non è l‟ultima parola, ma
solamente l‟inizio di una ricerca da parte dell‟insegnante di sostegno e dei docenti curricolari che
richiede competenza disciplinare, capacità didattica e creatività.
Per lavorare in questa direzione occorre che gli insegnanti conoscano a fondo sia le competenze
dell‟alunno disabile che le programmazioni disciplinari. Un insegnante di sostegno o un gruppo
docente che pensa di costruire la programmazione individualizzata senza considerare quanto
prevede la programmazione curricolare della classe compie un grave errore di prospettiva ai fini
dell‟integrazione. La conoscenza degli obiettivi, ma anche delle unità didattiche che verranno
realizzate consente di ricercare il punto di contatto tra le due programmazioni e il modo di
permettere concretamente all‟alunno disabile di seguire parte della proposta formativa della
classe, restando nel contesto e in interazione con i compagni progredendo contemporaneamente
nel proprio percorso individualizzato.
Semplificando si possono verificare le seguenti situazioni:
-L‟alunno disabile è in grado di seguire l‟unità di lavoro proposta alla classe in tutti i suoi
obiettivi. Questa situazione è certamente la più rara, ma non va escluso a priori che, perché
certificato, egli non possa in alcune discipline condividere alcuni degli obiettivi dei compagni.
-L‟alunno disabile è in grado di seguire l‟unità di lavoro proposta alla classe raggiungendone gli
obiettivi minimi previsti. L‟attenzione a impostare attività didattiche in grado di offrire stimoli
adeguati a una classe eterogenea, già nella sua presunta normalità, consente spesso di articolare il
lavoro in modo che contempli obiettivi e percorsi differenziati. Questa situazione è quella che
trova nell‟utilizzo delle mappe logico disposizionali un notevole contributo alla realizzazione.
Infatti, la costruzione della mappa operata per tutti gli alunni traccia il percorso delle unità
didattiche della classe. La partecipazione dell‟alunno disabile al percorso comune è consentito
dall‟elaborare un approfondimento di mappa che permetta agli insegnanti di prevedere le
„sottodisposizioni‟ che orienteranno il lavoro didattico in modo convergente rispetto a quello della
classe. Ogni obiettivo può essere scomposto in obiettivi minori e così ogni attività può essere
affrontata con percorsi di diversa complessità.

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-Gli obiettivi della programmazione individualizzata divergono da quelli della programmazione
della classe, ma l‟attività prevista può consentire all‟alunno disabile la partecipazione anche
parziale, seppur finalizzata ai propri obiettivi. Si tratta di attività comuni che perseguono obiettivi
diversi, il guadagno che rende significativa, e preferibile al lavoro individuale fuori dalla classe,
per l‟alunno disabile anche questa situazione è la maggior offerta di stimoli e l‟operare
congiuntamente nella direzione sia dell‟individualizzazione sia della differenziazione. Si tratta di
utilizzare da parte dell‟insegnante di sostegno il contenuto proposto a tutta la classe per perseguire
un obiettivo proprio della programmazione individualizzata. La scelta di obiettivi della classe
adeguati ai ragazzi disabili, la ricerca di obiettivi della classe in parte connessi alla
programmazione della classe, la connessione delle attività proposte all‟alunno disabile con quelle
proposte a tutta la classe sono tre modalità per rendere proficua l‟integrazione che altrimenti
sarebbe relegata solamente nei momenti extracurricolari perdendo perciò notevolmente in
significatività. La ricerca della compatibilità, dei punti di contatto tra la programmazione della
classe e quella dell‟alunno disabile è certamente un compito impegnativo che non può essere
affrontato definendolo improponibile fin dall‟inizio. Non si può pensare di trovare non iniziando
nemmeno la ricerca. Si tratta di individuare tra le proposte offerte alla classe delle possibilità
didattiche adatte o adattabili all‟alunno disabile. Certamente il primo passo, scontato, ma non così
ovvio, è la conoscenza delle programmazioni e delle attività della classe da parte dell‟insegnante
di sostegno. Il secondo passo è la consapevolezza della necessità di utilizzare una “speciale
didattica”, vale a dire una didattica che utilizzi comunemente, e non solo per l‟alunno disabile,
strategie e materiali di facilitazione del lavoro scolastico. Quest‟attenzione nasce almeno da due
riflessioni. La prima rimanda alla constatazione che la conoscenza dei soggetti alla quale è
destinata la proposta didattica e la padronanza della stessa sono due condizioni indispensabili per
consentire, attraverso un‟analisi del compito e quindi delle difficoltà in esso implicite
congiuntamente a una ricerca di compatibilità con le competenze del soggetto, la costruzione di
un percorso che consenta il “superamento delle barriere architettoniche”. La seconda riporta
l‟attenzione a un ampio utilizzo di quelli che in didattica sono definiti i mediatori.
Abbiamo considerato il problema dal punto di vista della programmazione dell‟alunno disabile
che si adatta a quella della classe. Potremmo vedere invece leggere il problema dal punto di vista
della programmazione della classe che, in alcuni suoi momenti, si adatta a quella dell‟alunno
disabile. La „stranezza‟ della prospettiva ha alla radice due pregiudizi. Il Primo ritiene che i diritti
della maggioranza a svolgere un programma utile siano maggiori dei diritti del disabile che è solo;
il secondo che il gruppo degli alunni normodotati non abbia nulla da guadagnare nel tornare
indietro nel programma, nel fermarsi, nel cercare di adeguarsi ai bisogni di un compagno più

79
lento, ma tutto da perdere. Sostanzialmente si ritiene che adattare gli obiettivi della classe ai
bisogni individuali di un alunno disabile significhi far buttare via tempo prezioso a tutti gli altri.
In un contesto scolastico che coglie l‟inserimento dell‟alunno disabile solamente come una
possibilità per lui è chiaro che lo spazio per una reale integrazione è limitato, tutto ciò viene
“tollerato”, purché non “disturbi”. Siamo nella logica dell‟incidente delineata in apertura di questo
contributo. Lo spazio per una reale integrazione si apre quando si inizia a cogliere come
l‟inserimento sia un‟opportunità positiva per tutti gli alunni, non so lo per l‟alunno disabile, sia
nei termini dello sviluppo di una „speciale‟ didattica, e quindi di un miglior apprendimento, ma
ancor di più come contributo allo sviluppo della personalità. Per chi ha vissuto esperienze di reale
integrazione è evidente come il risultato sia stato una miglior qualità di scuola per tutti e una
maturazione personale degli alunni che altrimenti non sarebbe stata pensabile.
L‟avvicinamento degli obiettivi della classe a quelli dell‟alunno disabile si può realizzare in
diversi modi: un momento di riflessione su un aspetto del programma già superato; un ripasso;
un‟attività motoria, manuale o riferita alle autonomie; un‟analisi di come si arriva ad un risultato;
aiutare un compagno. Si tratta solamente di alcune piste di lavoro che però possono essere colte e
sviluppate solamente se l‟insegnante ha un‟attenzione a favorire negli alunni un apprendimento di
qualità (consapevolezza metacognitiva, processi di pensiero e non solo contenuti) e alla
dimensione affettivo-relazionale dell‟esperienza scolastica.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica
Unità Didattica IV
Prospettive per una didattica integrativa nella scuola

Lezione 3. Favorire l’apprendimento didattico

La possibilità di trasformare le conoscenze in competenze nelle pratica di insegnamento-


apprendimento è coadiuvata da particolari modalità di lavoro all‟interno del contesto classe
nei termini metodo di messa in atto di strategie e tecniche insegnamento che siano in grado
non solo di trasmettere un sapere nozionistico ma che al contempo permettano all‟alunno di
studiare e di imparare come si fa a studiare a scuola. Tale approccio, infatti, ha il vantaggio
secondario di sviluppare nei discenti una competenza ad apprendere gradatamente come si fa
da soli, con un sostegno e una guida alla costruzione di un metodo di apprendimento.
Se i contenuti ad offrire i materiali per l‟apprendimento, sono le metodologie che
garantiscono un qualche tipo di apprendimento favorendo l‟individuazione delle esperienze
(situazioni formative) che innescano tale processo, l‟elemento cruciale per l‟apprendimento
(e per le motivazioni all‟apprendimento) è dato dalle pratiche didattiche che gli insegnanti (e
studenti) realizzano in relazione alle discipline di studio. Da qui la centralità del metodo
didattico che dovrebbe essere strettamente legato all‟epistemologia propria di ciascun campo
del sapere.
Il modo in cui un insegnante gestisce la classe è, infatti, in se stesso un modello: ogni
atteggiamento di un insegnante nei confronti di un allievo è una lezione rivolta ad altri venti
o trenta studenti pertanto è fondamentale scegliere in maniera competente, ovvero finalizzata,
la metodologia didattica da adottare affinché la scuola possa effettivamente essere un luogo
essenziale di educazione, un luogo in cui gli studenti si sentano rispettati, seguiti, curati e
legati ai compagni, agli insegnanti e alla scuola stessa. È la possibilità di attuare strategie
didattiche idonee che permette di rinforzare il senso di autoefficacia dello studente,
incrementando l‟apprendimento attraverso lo sviluppo di un maggiore livello di impegno, e
pertanto aprendo a un circolo virtuoso in cui il senso di efficacia influenza i processi
motivazionali e cognitivi. In altre parole, il compito didattico della scuola inteso come
alfabetizzazione cognitiva può essere perseguito attraverso un adeguato perseguimento
dell‟alfabetizzazione emotiva e sociale.

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Pertanto il percorso didattico e il relativo apprendimento può essere tanto più efficace quanto
più è attuato attraverso una relazione educativa costruttiva, attenta alle esigenze poste da
diversi stili cognitivi, emozionali, relazionali, e all‟opportunità di valorizzare e socializzare i
saperi già posseduti.
Il possesso di alcune abilità scolastiche non garantisce affatto di avere buoni risultati nella
scuola e nella vita, in quanto il loro possesso non significa automaticamente capacità di uso
nelle situazioni difficili o particolari o di svolta per affrontare le quali, con successo, invece è
determinante la competenza al loro uso in maniera efficace, creativa e flessibile; competenza
che d‟altra parte si sviluppa attraverso la capacità ad essere socialmente responsabili nei
modi opportuni mantenendo il controllo sulle proprie emozioni.
La costruzione di conoscenze e delle procedure per adoperarle si sviluppa attraverso il
riconoscimento della propria agentività nel proprio processo di conoscenza, realizzata
attraverso l‟affinamento di strategie personali per organizzare e ricordare le conoscenze,
formulare ipotesi e ricorrere a teorie (più o meno consapevoli) per rendere coerente la propria
esperienza del mondo. Tale dimensione di attività è la base per l‟attivazione di una pluralità
di azioni cognitive che si integrano e si rafforzano con l‟uso di più canali sensoriali e di
intelligenze diverse, sia quelle tradizionalmente privilegiate nell‟apprendimento che altre. Ma
c‟è anche una dimensione sociale e partecipativa dell‟apprendimento, che rende importante il
contesto in cui il soggetto attribuisce significati a ciò che via via incontra, ma lo fa sempre a
partire dal contesto culturale di vita, perciò il processo di conoscenza e di significazione è
anche, insieme, un processo di integrazione sociale nella comunità in cui entra proprio grazie
all‟istruzione.
Occorre, quindi, differenziare nettamente le didattiche attive dall‟apprendimento sociale:
nelle prime c‟è il percepire, lo sperimentare, il fare ma a livello individuale, nelle seconde c‟è
anche, in presenza, la relazione con l‟adulto e il confronto con i pari, e quindi la costruzione
cooperativa del sapere e la negoziazione dei significati dei concetti del linguaggio delle
soluzioni.
Tali schemi rappresentano strategie che utilizzano l‟operatività come risorsa fondamentale
per l‟apprendimento in situazioni formative concrete e finalizzate in cui si imparano
conoscenze dichiarative e procedurali e il loro uso, in cui si lavora per compiti di realtà
(problem setting e problem solving), non limitandosi a soluzioni già conosciute ma
individuando gli strumenti di intervento più adatti alla risoluzione del problema.
Nell‟apprendimento sociale c‟è anche il gruppo di pari e il docente, l‟esperto con competenze
professionali e disciplinari, che insieme possono lavorare sugli stessi strumenti. Il riferimento

82
è a tutte le strategie attive, ma di gruppo, dal laboratorio all‟apprendistato cognitivo fino al
cooperative learning. Si parla così di laboratorio, bottega, officina, cantiere, non tanto come
luogo fisico per mostrare quanto piuttosto come metodo di lavoro, come specifico contesto di
apprendimento (contesto come insieme che dà significato a ogni singola cosa), come
ambiente (insieme poliedrico che circonda) in cui ci sono strumenti e risorse a disposizione
di tutti e dove si apprende facendo e collaborando con altre persone. Seguendo l‟esempio
degli adulti e provando a fare da soli, in cui il problema non è ciò che si insegna, ma ciò che
si impara e in cui il docente è un adulto esperto che sostiene e sollecita l‟apprendimento; si
tratta di una modalità di lavoro che ha origini lontane e una lunga tradizione di esperienze e
di teorizzazioni, in cui non solo i soggetti sono impegnati attivamente in azioni che abbiano
sempre sufficienti motivazioni, ma è molto curato l‟aspetto comunicativo e cooperativo del
lavorare insieme (clima). Si parla anche di apprendimento laboratoriale (che dovrebbe essere
prioritario e prevalente nella scuola dell‟obbligo e in cui possono sussistere diverse possibili
interazioni a piccoli gruppi, a grandi gruppi, etc.) in cui si parte da situazioni stimolo che
mettono a contatto con oggetti e fatti reali, si fanno attività operative-creative che danno
risultati concreti, si assegnano compiti di realtà basati su situazioni reali (lavoro di ricerca,
lavoro su problema, lavoro su prodotto etc.) e significative sia sul piano cognitivo che
emotivo, si attuano pratiche di riflessione (metacognizione e metaemozione). In tal modo si
aiutano i giovani a costruire conoscenze e competenze e ad aprirsi all‟esterno (esperienze di
lavoro). Per collegare di più la scuola, la vita e il mondo del lavoro, ma anche per mettere a
disposizione modalità diverse, è utile, infatti, introdurre nella scuola forme di apprendimento
proprie del mondo esterno alla scuola. In questo caso si parla di apprendistato cognitivo:
l‟allievo è in un contesto in cui può imparare, apprendere in modo funzionale per la presenza
di un esperto che sa come fare e che è in grado di guidarlo a praticare le nuove competenze,
infatti, le abilità e le conoscenze si devono praticare in un contesto e il ruolo dell‟esperto è
quello di offrire un modello di funzionamento, da imitare ed è anche quello di esercitare un
monitoraggio dell‟attività del non esperto che renda esplicito ciò che nel comportamento
dell‟esperto è implicito; la scuola diventa così una comunità di pratiche di apprendisti e di
esperti, in cui l‟esperienza abitua all‟uso degli strumenti tipici di un certo ambito e costruisce
competenze specifiche, consente una pratica graduale attraverso diverse attività finalizzate
alla formazione di competenze esperte e serve a elaborare saperi sia pratici che simbolici, ma
anche metodo e creatività.
La dimensione laboratoriale della didattica si realizza in 4 momenti: il modellamento
(modelling) in cui l‟esperto mostra come si fa una certa cosa e l‟apprendista osserva;

83
l‟allenamento (coaching) in cui l‟apprendista esegue il compito assegnatogli dall‟esperto che
lo affianca, lo osserva, interviene se occorre correggendo o spostando l‟attenzione in
modoche l‟apprendista sviluppi la propria autonomia; il sostegno (scaffolding) teso a favorire
il lavoro autonomo; e la riduzione graduale (fading) in cui l‟esperto si allontana sempre più
dall‟apprendista che acquista sempre maggiore autonomia. Poiché il metodo è fondamentale
anche se le strategie e le tecniche si utilizzano effettivamente solo alla fine, nella pratica in
classe occorre operare una scelta preventiva, perché da essa dipende il tipo di progettazione
delle azioni didattiche più adatto. Al di là delle componenti tecniche della didattica
laboratoriale, la sfida che essa pone al docente, come modello in grado di favorire la
dimensione di apprendimento, è la possibilità di generalizzazione delle abilità/sapere
acquisiti, ovvero, permettere agli alunni di utilizzare non solo le situazioni opportunamente
create dagli insegnanti, ma i normali contesti di vita quotidiana come rinforzatori delle
abilità. Tale opera di generalizzazione delle competenze acquisite avverrà più facilmente se
l‟alunno riconoscerà in altri contesti e in differenti situazioni quelle dimensioni organizzate
artificiosamente dall‟insegnante e che hanno permesso l‟acquisizione della
competenza/conoscenza specifica. Tale operazione ha inoltre l‟ulteriore vantaggio di
permettere l‟assimilazione e l‟esercizio delle competenze in contesti diversi. In questa
direzione invitiamo gli insegnanti a fare un largo uso di esempi o di creare situazioni
laboratori ali sempre nuove in modo da poter permettere agli allievi di sperimentarsi su una
pluralità di contesti. Un ulteriore modo per stimolare la generalizzazione e il mantenimento
dell‟abilità acquisita è detta modificazione delle contingenze di rafforzamento, ossia avere
l‟accortezza di produrre il rinforzo positivo al comportamento corretto con meno
sistematicità, fare in modo che esso arrivi non sempre continuo e immediato. Differire la
risposta di rinforzo nel tempo, offrirlo in modo intermittente e irregolare, fa sì che l‟alunno
sleghi il rinforzo dalla contingenza originaria e faccia proprio in suo modo di comportarsi.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica
Unità Didattica IV
Prospettive per una didattica integrativa nella scuola

Lezione 4. L’azione didattica come azione perturbativa

Parlare di didattica come perturbazione all‟interno del contesto scolastico odierno significa
riconoscere una visione articolata dell‟insegnamento fondata sul riconoscimento
dell‟autonomia e dell‟organizzazione cognitiva del discente. Come abbiamo già osservato, i
saperi non sono costituiti da repertori di conoscenze, ma dal modo con cui i soggetti
organizzano le informazioni entro modelli di rappresentazione della realtà e di attribuzione di
senso all‟esperienza. La conoscenza, in altri termini, non risiede nei dati, ma nel rapporto tra
dati e soggetto. Questa concezione costruttivista critica la logica incrementalista
dell‟insegnamento come azione volta a produrre/favorire l‟accumulo di informazioni nella
mente/contenitore del discente. A tale concezione classica si contrappone la visione
dell‟insegnamento come azione di stimolazione e al contempo di supporto agli allievi
impegnati nella costruzione e organizzazione delle conoscenze. Il soggetto discente apprende
non solo e non tanto aggiungendo nuovi elementi al proprio bagaglio di saperi, ma
ristrutturando ricorsivamente le rappresentazioni del mondo e dell‟esperienza che possiede e
che utilizza come mediatori semantici della relazione con l‟ambiente di vita. I nuovi elementi
di sapere non si inscrivono, dunque, in un vuoto, ma entrano nel sistema di conoscenze più
complessivo proprio dell‟allievo. Il rapporto tra modelli mentali (la semantica propria
dell‟allievo) e i saperi proposti dall‟insegnamento è dunque dialettico: da un lato i modelli
mentali definiscono il significato delle informazioni, assimilandole secondo i criteri
semantici che li contraddistinguono; dall‟altro, l‟input per il fatto stesso che diviene oggetto
di assimilazione, può costituirsi come fonte di ristrutturazione del sistema di conoscenze. In
quest‟ottica, l‟insegnamento è concepito come azione in un certo senso indiretta. Viene meno
l‟idea di un‟istruttività intrinseca dello stimolo didattico (in altri termini, la fiducia nell‟idea
secondo la quale l‟azione didattica funzionerebbe da vettore che trasporta l‟informazione
nello spazio mentale, in precedenza libero, del soggetto). Diversamente da questa visione
tradizionale, la didattica predispone situazioni di stimolazione di natura perturbativa volti a
sollecitare lo sviluppo dall‟interno dell‟organizzazione concettuale dell‟allievo. In altri
termini, situazioni pensate al contempo per mobilitare i sistemi di conoscenza degli allievi,

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per sfidare la tenuta dei presupposti che ne fondano l‟organizzazione, per sostenere
metodologicamente i tentativi di ristrutturazione concettuale con i quali gli allievi rispondono
alla perturbazione del precedente assetto. La concezione dell‟insegnamento, i cui lineamenti
stiamo tratteggiando, offre una nuova e diversa considerazione di alcuni temi che, soprattutto
sul piano dell‟agire quotidiano degli insegnanti mantengono spesso posizioni periferiche. Ne
evidenziamo in particolare due. In primo luogo la questione del senso dell‟esperienza di
apprendimento, inteso come oggetto, metodo e obiettivo. Nella concezione costruttivista i
soggetti sono visti come operatori costantemente alle prese con l‟esigenza di dare significato
all‟esperienza. L‟apprendimento, in quest‟ottica, è in se stesso l‟espressione di questa
tensione e allo stesso tempo il suo risultato. La riorganizzazione delle conoscenze è la
risposta che il soggetto produce per dare senso al dato di esperienza con cui si
incontra/scontra. In definitiva, è il senso che egli attribuisce a tale dato: il nuovo rapporto
semantico che istituisce con quel determinato segmento di esperienza/realtà; da un punto di
vista complementare, il senso entra come criterio metodologico. Se è vero che la necessità
per l‟apprendimento è la mobilitazione del sistema di conoscenza dell‟allievo (in quanto
l‟apprendimento è la ristrutturazione a cui va incontro tale sistema nel momento in cui si
esercita in contesto perturbante), allora l‟insegnamento non può che coniugarsi come capacità
di predisporre contesti sensati; in altre parole, situazioni e stimoli che, in quanto iscrivibili
nel loro orizzonte cognitivo e di esperienza, funzionino da attrattori e alimento delle
operazioni mentali degli allievi. A tal proposito si evidenzia come questa concezione inscriva
nella struttura stessa del processo/esperienza di apprendimento la dimensione motivazionale.
Essa in questo senso implica una critica netta di due approcci al tema della motivazione che
trovano ampia diffusione nel comune sentire didattico. Da un lato, l‟idea della necessità di
integrare/diluire il lavoro di apprendimento con momenti compensativi (di tipo
ludico/espressivo) pensati con finalità motivazionali. Un‟idea, questa, che presuppone il
carattere intrinsecamente non motivante (se non demotivante) dell‟esperienza di
apprendimento scolastico, per questo motivo da equilibrare con iniezioni di elementi di
gratificazione extradidattica, volte a riprodurre (dunque contenere) entro il processo di
insegnamento-apprendimento l‟esperienza di uscita dall‟esperienza scolastica. Dall‟altro, una
visione strumentale dell‟apprendimento, in base alla quale può risultare sensato per l‟allievo
solo quella conoscenza e quei processi di apprendimento che risultino spendibili entro lo
spazio di vita dell‟allievo. Queste due idee di motivazione sono tra loro evidentemente
diverse. Esse tuttavia condividono un assunto comune ovvero l‟idea che il senso non sia
immanente all‟apprendimento, e che per questa ragione vada alimentato in maniera

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vicariante, sia come indotto delle componenti prosociali e/o ludiche - comunque
extradidattiche - dei contesti scolastici, sia come connotazione di spendibilità dei suoi
risultati. Al contrario, nell‟ottica che stiamo proponendo, è l‟esperienza in sé dell‟esercizio
della conoscenza a essere significativa, indipendentemente dalla finalità dei suoi prodotti, in
quanto la ricerca autoregolativa di nuovi livelli di equilibrio dinamico è un attrattore
intrinseco del funzionamento cognitivo. Il senso, infine, è anche obiettivo dell‟insegnamento.
La conoscenza è tale nella misura in cui è sensata; il dato acquista la valenza di informazione
nel momento in cui chi lo possiede ha su di esso un progetto di utilizzazione semantica, che
si traduce nella costruzione di connessioni e di implicazioni tali da proiettare l‟elemento
entro il più complessivo reticolo concettuale che sostanzia il punto di vista del soggetto. Il
secondo tema che qui prendiamo in considerazione è quello dell‟errore. La didattica
tradizionale di matrice incrementale segue una logica modello-scarto. La prestazione
dell‟allievo è interpretata in ragione del modello che fissa il comportamento/esito atteso
(progettato), come distanza/devianza da tale norma; in definitiva, in termini di assenza. Entro
questa prospettiva l‟errore dell‟allievo non ha significato, se non in quanto indicazione di ciò
che l‟allievo non ancora è/ha. Rovesciando questa impostazione, l‟approccio didattico che
stiamo illustrando sottolinea la valenza costruttiva dell‟errore. L‟interesse si sposta in questo
senso dalla valutazione della distanza tra comportamento atteso e comportamento reso, alla
comprensione del modo con cui l‟allievo organizza la propria rappresentazione della realtà,
per come esso si riflette nella performance. In altri termini, l‟errore viene a essere interpretato
come presenza di uno specifico modello implicito di conoscenza, i cui presupposti orientano
le modalità e gli esiti (per quanto idiosincratici possano essere) dell‟elaborazione dei saperi
di cui il discente è protagonista. L‟errore acquista in questo senso un doppio statuto
pedagogico: sul piano epistemologico, esso si propone come il segno dell‟autonomia della
soggettività del discente, dell‟universo di significati di cui si sostanzia; sul piano
metodologico, si presta a essere utilizzato come testo rivelatore della peculiare semantica che
organizza il modo di pensare del discente. Sul piano dell‟azione didattica questa concezione
si traduce in uno spostamento di focale dai contenuti dell‟insegnamento ai modelli cognitivi e
semantici nei termini dei quali gli allievi li interfacciano e se ne appropriano. Dinanzi
all‟errore il docente cercherà in primo luogo di comprendere il presupposto concettuale di cui
l‟errore stesso costituisce declinazione coerente. L‟azione didattica si proporrà dunque di
favorire lo sviluppo del modello dell‟allievo. Operare in tale direzione significa muoversi su
un doppio registro: da un lato, con una funzione decostruttiva, volta a favorire l‟esplorazione
da parte del discente dei limiti semantici del suo modello di conoscenza; dall‟altro, con una

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funzione costruttiva, volta a sostenere la ristrutturazione da parte dell‟allievo del campo di
conoscenze e della sua organizzazione concettuale. L‟approccio metodologico ora delineato
presuppone una visione “a salti” dell‟apprendimento. La conoscenza secondo una sequenza
di rotture e ristrutturazioni, dove l‟equilibrio raggiunto non sostituisce, ma potenzia la
condizione precedente. Merita di essere segnalato, come indicativo di questo approccio, il
concetto di campo di ogni fenomeno, naturale o storico, può essere teorizzato a diversi livelli
di concettualizzazione. Piuttosto che in rapporto ad un criterio di verità assoluto, ciascuna
teoria (per quanto ci interessa, qualsiasi teoria proposta dall‟allievo) può essere interpretata
come un livello di formulazione dotato di un determinato campo di validità. Il campo di
validità costituisce dunque allo stesso tempo il vincolo e il senso della teoria formulata. Esso,
infatti, è interpretabile come l‟ambito di coerenza entro cui può legittimamente muoversi il
ragionamento dell‟allievo, per come viene a essere definito dai presupposti impliciti da cui
egli parte. Da un punto di vista complementare, tuttavia, il campo di validità di una
formulazione è dato dal rapporto che si stabilisce tra l‟allievo e le esigenze/domande
cognitive del contesto (compiti di apprendimento, forme di esperienza, compiti cognitivi). In
questo senso, il campo di validità di una formulazione sta nel tipo di operazioni semantiche
che tale formulazione permette al discente di realizzare, nella coerenza tra queste operazioni
e le richieste del contesto. Come si può vedere, il concetto di campo di validità sostituisce un
criterio “ortopedico” assoluto di verità, una visione contingente, funzionale e dinamica.
Contingente, in quanto parametra le performance del discente al contesto entro cui e in
funzione del quale si realizzano; funzionale, in quanto adotta come criterio di validità la
capacità della formulazione di sostenere la presenza nel mondo del soggetto; dinamica, in
quanto concepisce l‟apprendimento come processo di approssimazioni successive, cadenzato
dall‟acquisizione di livelli progressivi di organizzazione concettuale.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica
Unità Didattica IV
Prospettive per una didattica integrativa nella scuola

Lezione 5. Il ruolo delle Nuove Tecnologie nella Didattica

Le nuove tecnologie sono uno strumento fondamentale per facilitare l‟integrazione a scuola degli
alunni con disabilità e con disturbi specifici dell‟apprendimento e in generale rappresentano uno
strumento utile a favorire la didattica e a potenziare le possibilità di imparare.
La prima utilizzazione sistematica del computer in campo educativo è legata all‟istruzione
programmata. I software di istruzione programmata scandiscono percorsi didattici lineari,
articolati in fasi, ciascuna corrispondente a un sottobiettivo, il cui raggiungimento, verificato
tramite test, è propedeutico al passaggio alla fase successiva. Sono dunque predisposti da un lato
per strutturare le sequenze didattiche dall‟altro per verificare i sottoapprendimenti. Inoltre,
vengono utilizzati per rinforzare la risposta corretta dell‟allievo (elogio e/o possibilità di
proseguire nel percorso). Questo tipo di programmi è concepito come strumento che supporta e
potenzia l‟attività didattica, permettendone un‟organizzazione più efficiente (ad esempio, velocità
nella correzione delle risposte, possibilità di operare in parallelo con diversi allievi
simultaneamente) e rigorosa (ad esempio, aumento della precisione e riproducibilità delle
sequenze risposte). Il modello di attività didattica in gioco è quello di una relazione di
insegnamento apprendimento di tipo asimmetrico e prescrittiva, entro la quale non vi è spazio per
l‟iniziativa autonoma dell‟allievo, che è chiamato a seguire il percorso di apprendimento
prefissato, di volta in volta rispondendo alle richieste di prestazione del software. Lo sviluppo del
cognitivismo e degli studi nel campo dell‟Intelligenza Artificiale ha favorito l‟affermarsi di un
altro tipo di software didattico i cosiddetti programmi ITS (Intelligent Tutoring System). A
differenza dei programmi dell‟istruzione programmata, i software ITS sono maggiormente
dinamici, in grado di evolversi, di apprendere in ragione delle informazioni raccolte durante il
loro funzionamento, dunque di differenziare le loro prestazioni in relazione alle caratteristiche
degli allievi utilizzatori. Essi, tuttavia, condividono con le applicazioni di matrice
comportamentista dell‟istruzione programmatica sia la funzione di tipo tutoriale (fungono cioè da
guide per l‟allievo impegnato nel compito di istruzione), sia la concezione dell‟apprendimento
come processo lineare e individuale. Il programma LOGO, elaborato verso la fine degli anni „70
da Seymour Papert, già collaboratore di Piaget, rappresentò la prima svolta nel campo, segnando

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in questo senso il passaggio alle Nuove Tecnologie (NT). Il programma LOGO è un linguaggio di
programmazione di facile utilizzabilità, che offre al gruppo degli allievi un ambiente di
apprendimento suscettibile di essere da essi sviluppato. Questo programma rovescia la logica
d‟uso educativo della tecnologia non è più il computer che programma il bambino, ma il bambino
che programma il computer. Programmi quali LOGO sono pensati per favorire l‟apprendimento di
abilità metacognitive e metalinguistiche; impegnare l‟allievo nel compito di programmare la
macchina, ad esempio per insegnarle a produrre frasi corrette, significa proiettarlo sul piano di
riflessione relativo alle regole che sovrintendono il ragionamento e il linguaggio. Le NT possono
essere considerate lo sviluppo di questa logica; dispositivi progettati per creare ambienti di
apprendimento che permettano ai discenti di attivare percorsi di esplorazione, di ricerca di
informazione, di autoapprendimento, di costruzione negoziata di conoscenza. In questo senso, essi
s‟inscrivono in modo naturale entro una prospettiva psicopedagogica di matrice
sociocostruzionista, secondo la quale la conoscenza non si realizza per mera trasmissione, in
quanto passaggio di saperi già definiti da una persona esperta al novizio, ma in quanto prodotto
conseguente dell‟attività dell‟allievo (del gruppo di allievi) impegnato nell‟attribuzione di
significato, insieme personale e negoziato, alle informazioni. Entro questa epistemologia, le
tecnologie hanno trovato una diversa concettualizzazione. Esse non sono strumenti con i quali gli
allievi operano, ma contesti di apprendimento entro i quali lavorano. In altri termini, esse si
propongono non solo e non tanto come dispositivi che potenziano - senza tuttavia modificarle
nella loro logica interna - le attività di insegnamento, ma come forme nuove di insegnamento-
apprendimento (attivanti le valenze distribuite, situate, collaborative, costruttive delle dinamiche
di conoscenza), in quanto tali - secondo la prospettiva vygotskiana - capaci di promuovere
peculiari modalità di funzionamento mentale. All‟interno di questa prospettiva, trovano posto e si
intrecciano due linee di lettura, in definitiva tra loro più complementari che antagoniste. Una
chiave interpretativa, che riflette un orientamento di tipo cognitivista costruttivista, evidenzia il
significato delle NT nella costruzione della conoscenza e della metaconoscenza. L‟allievo esplora
dati e situazioni, elabora significati, manipola e costruisce la realtà (ovviamente quella mediata
dal supporto tecnologico) e i saperi che a essa attengono. Inoltre, l‟allievo ha l‟opportunità di
confrontarsi con i prodotti ostensibili di questo suo fare-pensare e nel far ciò, ha modo di
sperimentare il “farsi” della conoscenza, in questo modo accedendo al piano metacognitivo della
riflessione, sulle regole di funzionamento dei processi cognitivi e semantici, sulla natura delle
conoscenze e sui metodi richiesti per acquisirle. In modo complementare, si sottolinea come le
NT offrano la possibilità di istituire contesti di apprendimento variabili, capaci in questo senso di
valorizzare didatticamente la diversità interna al gruppo degli allievi, inerente le diverse forme del

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modo di essere della mente. Un‟altra possibilità che viene offerta da un uso consapevole e
meditato della multimedialità richiama la distinzione bruneriana fra pensiero narrativo e pensiero
paradigmatico. J. Bruner afferma che possiamo ordinare e costruire la realtà attraverso due
metodi, due modi di pensare quali il pensiero narrativo e il pensiero paradigmatico (logico-
scientifico). Ognuno di questi tipi di pensiero opera e determina criteri di validità e di verifica
profondamente diversi e “qualsiasi tentativo di ricondurli l‟uno all‟altro o di ignorare l‟uno a
vantaggio dell‟altro produce inevitabilmente l‟effetto di farci perdere di vista la ricchezza e la
varietà del pensiero”.
Come superare questa contrapposizione a scuola dove generalmente la prevalenza del pensiero
paradigmatico impoverisce gli aspetti e affettivi e cognitivi dell‟apprendimento? È dimostrato che
la costruzione di un prodotto multimediale prevede momenti di lavoro in cui si privilegia ciò che è
figurativo, sintetico, intuitivo, fantasioso, unificante e concreto (pensiero narrativo), ma anche
altri in cui si agisce attraverso operazioni logiche, analitiche, simboliche e astratte (pensiero
paradigmatico). L‟altra ottica esprime la sensibilità sociocostruzionista per il nesso tra pratiche di
scambio sociale e apprendimento. Essa individua la funzione psicopedagogica delle NT nella
definizione di contesti di comunicazione e di collaborazione tra i discenti; gli spazi di discorso e
di pratica condivisa entro i quali si realizza la costruzione negoziata degli apprendimenti. In
quest‟ottica, le NT attualizzano il carattere distribuito dell‟apprendimento; la partecipazione a un
contesto di apprendimento mediato dalle NT, infatti, permette all‟allievo di sperimentare come la
costruzione del sapere, la risoluzione di problemi, la realizzazione di un artefatto risieda nella
capacità di integrare il bagaglio di competenze possedute con ciò che gli altri fanno, sanno e
dicono. In questo modo, gli allievi accedono a un contesto entro il quale trova tendenziale
ricomposizione la tradizionale divaricazione, propria nel mondo scolastico, tra i percorsi
individuali e formalizzati di apprendimento e il possesso condiviso di competenze non codificate,
legate alla partecipazione dei soggetti ai contesti informali di vita quotidiana. Entro questa
prospettiva, come evidenzia Caravita (2003), le NT sono interpretate e utilizzate entro una visione
dell‟apprendimento come attività collettiva, portata avanti da un gruppo che ripropone le
caratteristiche del funzionamento distribuito proprio delle comunità scientifiche. La riflessione
teorica sulle NT e sulle sue funzioni in campo educativo ha messo dunque bene in evidenza la
densità di implicazioni didattiche in gioco. Allo stesso tempo, tuttavia, va detto che lo stato di
avanzamento del dibattito permette più di comprendere la discontinuità del paradigma didattico
implicato nell‟uso delle NT che di qualificarne in modo sistematico i contenuti. Non si è infatti
ancora coagulato un modello formativo unitario capace di precisare analiticamente (e di
connettere) da un lato le dinamiche psicopedagogiche implicate nell‟uso delle NT (le modalità

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microsociali di lavoro, le caratteristiche dei processi sociocognitivi implicati…), dall‟altro le
variabili metodologiche implicate nella costruzione e finalizzazione dei setting di apprendimento
mediati da tali dispositivi (i fattori di successo e critici a essi connessi). Allo stato attuale, questa
indisponibilità di un modello metodologico di interfaccia tra la teoria e le pratiche d‟uso didattico
delle NT costituisce un ostacolo significativo per il radicamento e la diffusione sistemica
dell‟innovazione entro il mondo scolastico. Lo scollamento tra la teoria psicopedagogica e la
pratica didattica impedisce lo sviluppo entro il mondo scolastico di una cultura d‟uso delle NT
capace di cogliere e valorizzare la carica trasformativa, le valenze di rottura epistemologica e le
potenzialità metodologiche che le NT posseggono. Di conseguenza, la proposta innovativa
subisce, senza possibilità di dialettizzarlo, il processo - tipico di ogni grande struttura, soprattutto -
di assimilazione del nuovo/ignoto alle pratiche istituzionali consolidate. Il che si traduce nella
semplificazione, spesso di sapore tecnicistico, e nella neutralizzazione dell‟innovazione.
“A nostro giudizio si è spesso fornita una distorta interpretazione del contributo formativo delle
tecnologie informatiche, distorsione che ha enfatizzato e, per molti aspetti falsato, l’effettivo
risultato dell’innovazione, soprattutto se considerato sotto l’aspetto della possibile
ristrutturazione del sapere e del mutamento culturale che i media possono produrre in quanto
elementi fortemente significativi della contemporaneità. Benché la ricerca nel campo delle
tecnologie didattiche vanti ormai qualche decennio di storia ed abbia prodotto significativi
cambiamenti, tanto nel modo di intendere, quanto nella modalità di offerta e d’uso degli
strumenti tecnologici, raramente sul piano operativo si è raggiunto un risultato qualitativo atteso.
Se è vero che un rilevante cambiamento di paradigma ha segnato la riflessione psico-pedagogica
del ventesimo secolo con il passaggio da un approccio alla realtà e alla conoscenza di tipo
comportamentista ad uno di tipo costruttivista, è anche vero che al variare del paradigma di
riferimento sono cambiati gli obiettivi dell’apprendimento e la concezione della progettazione
didattica. La qual cosa avrebbe richiesto, sul piano della prassi, corrispondenti mutamenti
effettivi dell’azione didattica, in coerenza con i cambiamenti della prospettiva epistemologica”.
(Pinnelli, 2007, pp. 343-344)
In definitiva, è difficile evitare l‟impressione che le NT, più che cambiare la scuola, siano state da
questa “cambiate”. Non che siano mancate esperienze significative di utilizzo. Tuttavia, esse
rappresentano casi specifici, frutto della particolare (e idiosincratica) competenza e
dell‟investimento del docente e dei ricercatori, in quanto tali difficilmente generalizzabili sul
piano del sistema, dove nella maggior parte dei casi i media quando hanno consolidato la loro
presenza, lo hanno fatto in termini di nicchia, come attività di laboratorio e/o di tipo extra o para
didattico. La crescente consapevolezza di questo scenario ha nei tempi più recenti portato i

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ricercatori a relativizzare la fiducia assoluta inizialmente riposta nella capacità delle NT di
funzionare da fattore trasformativo, da volano del cambiamento di paradigma epistemologico, in
favore di una posizione più prudente e articolata che se da un lato continua a evidenziare la carica
innovativa delle NT, dall‟altro si interroga sulle condizioni istituzionali, culturali e metodologiche
che il contesto educativo e organizzativo deve preventivamente possedere per rendere possibile,
entro la scuola, la prospettiva di un loro utilizzo.

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Strategie e metodi di integrazione educativa e didattica
Glossario

Adattamento: processo attraverso cui un individuo o un gruppo stabiliscono con il proprio


ambiente naturale o sociale una condizione di equilibrio o per lo meno di assenza di conflitto. Il
processo avviene attraverso la combinazione di manovre alloplastiche, volte a modificare
l’ambiente, e autoplastiche, tese a modificare se stessi in vista di un accettabile equilibrio. Quando
il risultato di queste manovre non sortisce l’effetto si parla di disadattamento, solitamente riferito
all’ambiente sociale.

Ambiente: complesso degli elementi che costituiscono la realtà in cui un determinato evento si
verifica e che influisce sulla vita dell’organismo o dell’individuo. Il concetto ha rilevanza sul piano
fisico, biologico, psicologico, sociologico, pedagogico. Infatti, come l’ambiente fisico subisce tutte
le trasformazioni che l’uomo per vivere vi compie, così l’uomo, talvolta, è costretto ad adattarsi a
quelle condizioni naturali e culturali che risultano immodificabili o che richiederebbero per la loro
trasformazione un intervento eccessivo di lavoro. In psicologia si è soliti distinguere l’ambiente
come luogo ove si attua una crescita, e l’ambiente come fattore di crescita. Nella prima eccezione
rientra la descrizione di tutte le variabili che caratterizzano un determinato ambiente, nella seconda
si va alla ricerca della forza di condizionamento e di influenza che le caratteristiche ambientali
determinano nell’individuo.

Apprendimento: in psicologia l’apprendimento può essere designa le modificazioni piuttosto


durevoli delle possibilità di comportamento che si basano sull’esperienza. Se l’apprendimento è una
“modificazione” del comportamento, allora è possibile individuare, analizzare o quantificare il
comportamento precedente l’apprendimento e quello successivo, e riscontrare precise differenze fra
i due. Questi cambiamenti inoltre devono essere “piuttosto durevoli”, altrimenti la loro comparsa
potrebbe essere dovuta al caso o ad altri fattori che non hanno nulla a che vedere con
l’apprendimento. Naturalmente ciò che si è appreso può essere modificato o dimenticato, per cui la
sua durata può variare nel tempo. L’apprendimento inoltre riguarda non soltanto le modificazioni
effettive del comportamento, ma anche le modificazioni delle possibilità di comportamento. Questo
vuol dire che c’è una differenza fra apprendimento e prestazione: ad esempio, un italiano che
conosce perfettamente l’inglese non parlerà sempre in questa lingua, ma lo farà soltanto nelle
circostanze opportune. Tuttavia la locuzione “possibilità di comportamento” possiede anche

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un’altra accezione: e cioè che il comportamento in questione deve essere “possibile” per il soggetto
che apprende. Ad esempio, un ratto può imparare il percorso corretto in un labirinto estremamente
complesso, ma non potrà mai imparare il linguaggio umano. Le possibilità di apprendimento
variano dunque a seconda delle caratteristiche fisiche e mentali dei soggetti considerati.

Cooperazione: la cooperazione in relazione all’apprendimento è una metodologia in cui si ritiene


che sia fondamentale inserire gli allievi in contesti sociali in cui essi possano apprendere con e dagli
altri. Scommette sull'idea che la dimensione sociale dell'apprendimento possa positivamente
influenzare le altre componenti. La metodologia dell'apprendimento fa parte dei cosiddetti sistemi
didattici ad "anello aperto". Secondo Kaye della Open University, perché ci sia un'efficace
collaborazione o cooperazione ci deve essere una reale interdipendenza tra i membri di un gruppo
nella realizzazione di un compito, un impegno nel mutuo aiuto, un senso di responsabilità per il
gruppo e i suoi obiettivi e deve essere posta attenzione alle abilità sociali e interpersonali nello
sviluppo dei processi di gruppo. Consiste nell’assegnare a gruppi di lavoro la realizzazione di uno
specifico progetto, sotto la guida di un tutor. Questa metodologia sfrutta al massimo le potenzialità
dei singoli e l’apporto che ognuno di loro dà al gruppo, mettendo a disposizione dei compagni le
proprie conoscenze e competenze. I membri del gruppo, condividendo idee, esperienze e
conoscenze, cooperano nella costruzione di nuovo sapere e riescono a risolvere i problemi che il
compito presenta, nel più breve tempo possibile. Internet e gli strumenti della telematica consentono
di sfruttare al massimo le potenzialità dell’apprendimento cooperativo.

Attenzione: capacità di selezionare gli stimoli e di mettere in azione i meccanismi che provvedono
ad immagazzinare le informazioni nei depositi di memoria a breve e a lungo termine con influenza
diretta sull’efficienza delle prestazioni nei compiti di vigilanza.

Attività (professionale): termine generale che designa un lavoro svolto dal personale per
raggiungere un determinato obiettivo. Le attività possono essere a loro volta frazionate in atti più
specifici che possono essere chiamati compiti o azioni. Le attività corrispondono, nel processo
educativo, alla definizione degli obiettivi educativi intermedi.

Compito: lavoro determinato che si deve eseguire, classificabile in tre campi - gestuale, intellettivo,
comunicativo - non sempre necessariamente contemporaneamente presenti.

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Comportamento: insieme delle reazioni (di un soggetto) accessibili all’osservazione esterna; il
pensiero, la comprensione, sono componenti implicite che non sono osservabili direttamente, ma
soltanto per deduzione da altri comportamenti osservabili. Modo di apparire o reagire di un soggetto
in una determinata situazione; manifestazione globale dell’intero organismo, è costituito (il
comportamento), da elementi descrivibili in termini oggettivi ed è uniforme.

Competenza: il bagaglio di conoscenze, capacità ed atteggiamenti che la persona possiede ed alle


quali fa ricorso per l’efficace svolgimento di un compito. In ambito lavorativo: le qualità
professionali e personali possedute da un individuo, che lo mettono in grado di assolvere
adeguatamente alle esigenze rappresentate dal ruolo.

Comunicazione: la comunicazione è un processo di trasmissione di informazioni che riguardano un


mittente ed un destinatario, i quali scambiano i propri ruoli, in ragione di un feedback continuo
che si instaura tra gli attori della comunicazione. Nella comunicazione succede che un soggetto
(mittente) trasmetta un messaggio ad un altro soggetto (destinatario), il quale, in base al messaggio
ricevuto, dà a sua volta un altro messaggio; quindi si innesca un processo in forma di feed-back, nel
senso che il messaggio che viene trasmesso da parte di uno dei partner della relazione è in funzione
del messaggio ricevuto dall'altro e così via. La comunicazione può essere asincrona o sincrona.
Nella prima gli attori della comunicazione hanno un margine di libertà nei tempi e nei modi
dell’interazione nell’invio dei messaggi e nella loro lettura. Situazioni di comunicazione asincrona
sono:
Mailing-Lists;
Forum;
Bacheche Elettroniche.
La comunicazione sincrona richiede che tutti gli interlocutori siano collegati nello stesso tempo.
Tipiche forme di comunicazione sincrona sono:
- Chatting
- Videoconferenza.

Gruppo/Comunità: la conoscenza più efficace, più “significativa” è quella che nasce da un


processo di costruzione sociale. Quando sul lavoro si incontra un problema, la prima cosa che ci
viene in mente è interpellare coloro che ne sanno più di noi o che hanno comunque un bagaglio di
esperienze da mettere in comune. Le comunità di pratica sono gruppi informali di persone che
condividono le stesse mansioni lavorative o gli stessi interessi, e che nascono, spesso in maniera

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spontanea, per scambiarsi esperienze, consigli o pratiche quotidiane di lavoro. Gli attuali strumenti
di comunicazione on-line consento di poter pensare a comunità di pratica che prosperano grazie alla
rete e in virtù del ruolo di animazione della comunità assunto da un formatore. Il formatore non
deve far altro che predisporre il terreno migliore per la vita delle comunità, mettendo a disposizione
gli strumenti di collaborazione e l’infrastruttura tecnologica che permetteranno alle comunità di
nascere e prosperare anche in rete. Generalmente le comunità di pratica nascono come prosecuzione
di attività formative volte ad aggiornare le competenze di un gruppo. Iniziate durante il corso
proseguono e si incrementano nel corso dei mesi successivi. Le comunità di pratica sono spesso
utilizzate nell’ambito del Knowledge Management. Alla comunità di pratica si ispira il metodo della
Learning Community e dell'Authonomy Laboratory. Nella Learning Community i soggetti che
apprendono scelgono obiettivi di apprendimento e il gruppo con cui collaborare per la loro
realizzazione. Si basano sul principio della massima responsabilizzazione degli utenti e hanno per
fine lo sviluppo dell'autonomia personale e della creatività. Nell'Autonomy Laboratory autonomia
individuale e sviluppo della creatività costituiscono l'essenza stessa delle attività di apprendimento,
che mirano alla attivazione delle risorse personali dei soggetti che apprendono. Learning
Community e Authonomy Laboratory privilegiano, sopra ad ogni altra cosa, la capacità di
apprendere ad apprendere.

Gruppi di lavoro o comunità di apprendimento: luoghi di apprendimento (learning community),


dove è possibile scambiare con altri utenti, idee, opinioni, esperienze e informazioni utili. Nelle
comunità di apprendimento, grazie all’interazioni all’interno del gruppo, si possono accrescere le
conoscenze di ognuno Queste comunità hanno come fine precipuo l'apprendimento. Appaiono
orientate a costruire cooperativamente i significati con cui si lavora.
Attivano flussi comunicativi caratterizzati da movimenti circolari. Grazie a tali movimenti gli
allievi apprendono più uno dall'altro che non dall'insegnante. La divisione dei compiti è funzionale
al raggiungimento dell'obiettivo che la comunità s'è posta; nella comunità di apprendimento vigono
sistemi ecologici di autoregolazione. Il docente che vi partecipa, non avendo compiti trasmissivi,
che sono banditi, supporta gli allievi in ragione dei bisogni che essi esplicitamente ed
implicitamente esprimono. Le comunità di apprendimento realizzano non solo obiettivi di
conoscenza, ma anche condivisione di valori e di atteggiamenti. Attraverso le interazioni stabilite è
possibile creare un sistema condiviso di conoscenze e significati.

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Cooperative Learning: il Cooperative Learning è prima ancora che un metodo didattico un ampio
movimento educativo che pone attenzione alla integrazione tra gli studenti per la realizzazione di
obiettivi sia di tipo educativo che didattico. In quanto metodo il Cooperative Learning ha le seguenti
specifiche caratteristiche:
a. interdipendenza positiva;
b. interazione faccia a faccia;
c. insegnamento diretto delle abilità sociali;
d. lavoro in piccoli gruppi eterogenei;
c. revisione e valutazione individuale e di gruppo.
I principali studiosi del Cooperative Learning sono: Johnson e Johnson; Svlavin; Kagan;
Sharan,Cohen.

Formatore: il formatore ha per scopo quello di produrre, attraverso opportune azioni, sempre
maggiore integrazione dell’identità dei soggetti che apprendono, affinché si verifichi un
miglioramento della qualità della loro vita. Il formatore prevede, in sede di progettazione, i risultati
attesi con l’intervento formativo e definiti sotto forma di obiettivi educativi, in base ai quali
pianifica le esperienze di apprendimento e i metodi didattici e valutativi.

Facilitatore dell’apprendimento: è il docente che, attraverso una serie di azioni, insegna al


discente a migliorare le sue prestazioni, facilitando il raggiungimento degli obiettivi professionali.
Tale rapporto è detto anche Coaching.

Formazione: la Formazione è una azione complessa, motivata ed intenzionata, in virtù della quale
si producono effetti di apprendimento su dei soggetti nell’ambito di una situazione, generalmente di
tipo lavorativo, che si viene, in ragione di ciò, a modificare. Questa definizione tuttavia soddisfa
solo parzialmente le molte accezioni annesse al termine. Il quale è usato, in taluni contesti, come
sinonimo di educazione, ovvero, in altri, come il complesso delle azioni e dei fatti educativi che
riguardano la dimensione dell’esercizio delle professioni ovvero, ancora, per designare attività di
addestramento, aggiornamento e perfezionamento erogate nei confronti di soggetti che necessitano
di esse per entrare nel mondo del lavoro o per permanervi. Probabilmente per cogliere la specificità
del termine “formazione” è indispensabile riuscire a distinguerlo da altri termini contigui:
“educare”, “istruire”, “insegnare”, “animare”. Formare significa trasmettere delle cognizioni e nel
contempo modellare un certo comportamento, attraverso l’esercizio e il fare. Attraverso la
formazione si ottengono delle modificazioni strutturali della dimensione cognitiva ed emotiva del

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soggetto. Accanto a questa definizione bisogna mettere quella per la quale formazione è bagaglio di
conoscenze teoriche e pratiche indispensabili per l’esercizio di una professione o di un ruolo. La
formazione, intesa come modificazione profonda della struttura cognitiva ed emotiva del soggetto, è
vicina alla nozione di Bildung, che prevedeva lo sviluppo interiore delle capacità umane nella
prospettiva della unitarietà della cultura e della integrazione della persona. Tale nozione, come si sa,
è diventata obsoleta a causa della crisi degli universalismi etici e culturali del Novecento. La
formazione si trova a dover fare oggi i conti con la complessità del sociale e la molteplicità dei
valori umani, con le istanze di flessibilità, competitività ed efficienza che caratterizzano il lavoro
nella fase della post-modernità. La formazione appare disponibile a sperimentare nuove modalità di
insegnamento/apprendimento orientate al compito, nonché ad avvalersi di metodologie “non
direttive” che tengono conto delle dimensioni relazionali sottese all’apprendimento e del desiderio
di espressione dei singoli, impegnati in processi di acquisizione delle conoscenze. Tende a superare
la separazione tra luoghi formativi e luoghi sociali. Piuttosto che sospendere i soggetti dagli usuali
luoghi di lavoro e di vita per inserirli in contesti formativi pensati ad hoc, preferisce esperienze
cognitive che si realizzano “in situazione”: tali sono le tecniche di problem finding, come l’Action
Learning, o le comunità di pratica, che vogliono valorizzare l’esperienza degli individui e dei
gruppi, le loro capacità costruttive di conoscenza. La formazione in tal modo tende ad incontro le
problematiche dell’educazione permamenente. Essa infatti si pone la questione di come fare
dell’apprendimento un’esperienza integrata con la vita dei soggetti, grazie al costituirsi di una
attitudine alla riflessività e una disponibilità al cambiamento, stimolate da specifici momenti
formativi ricorrenti, a carattere intensivo, capaci di rimotivare i soggetti e di offrire loro nuove
opportunità di conoscenza. Rispetto alla pedagogia e alla didattica scolastiche, la formazione
sembra accettare la sfida posta dagli attuali assetti socio-economici, che, avendo necessità di un
apprendimento continuo, quale fattore intrinseco di sviluppo dinamico dei processi produttivi, sotto
la spinta della concorrenza dei mercati divenuti globali, spingono verso il superamento della
separazione fra sapere e fare, fra momento della costituzione delle conoscenze (istituzioni
formative) e momento di applicazione delle stesse (lavoro). La formazione dà per acquisito il
superamento dell’aula quale luogo di realizzazione degli apprendimenti, della lezione quale
strumento per veicolare il sapere, assume come importanti gli apprendimenti che si realizzano per le
vie non-formali e informali. Essa appare disponibile a concepire le proprie azioni come integrate
agli obiettivi gestionali della qualità totale, del miglioramento continuo, dello sviluppo
organizzativo. Pertanto la formazione appare configurarsi come azione di stimolo e supporto di
processi di apprendimento che si sviluppano all’interno dei processi produttivi, in una prospettiva di
sviluppo del potenziale dei soggetti. La formazione aspira ad innescare reali processi trasformativi,

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che incidano sui processi di soggettivazione, avendo essa l’esigenza di distinguersi da interventi di
natura differente, che hanno carattere comunicativo, informativo, di marketing, ecc. Il formatore ha
per scopo quello di produrre, attraverso opportune azioni, sempre maggiore integrazione
dell’identità dei soggetti che apprendono, affinché si verifichi un miglioramento della qualità della
loro vita. Nella formazione c’è inevitabilmente un qualcosa che eccede il dispositivo tecnico-
professionale messo in atto. Con ciò la formazione condivide la natura utopica del gesto
pedagogico.

Intelligenza: non esiste una definizione univoca, ogni definizione risente dell’orientamento di
pensiero che la formula. Schematicamente le varie definizioni possono essere suddivise nei seguenti
gruppi: a. definizioni generali, in cui l’intelligenza è vista come quel processo che consente
all’uomo o all’animale dotato di struttura cerebrale evoluta di risolvere nuovi problemi che
implicano una ristrutturazione del rapporto di adattamento con l’ambiente; b, definizioni specifiche,
che considerano l’intelligenza come un insieme di processi mentali specificatamente umani che
investono il ragionamento logico; c. definizioni operative, nate dalla difficoltà di approdare a una
definizione univoca di intelligenza, per cui si preferisce sottoporre alcuni aspetti a determinati test
la cui soluzione definisce di volta in volta il comportamento intelligente.

Mediazione: è la capacità di rendere accessibile, attraverso una facilitazione, un compito che


altrimenti non potrebbe essere affrontato: questa facilitazione avviene attraverso la presenza di un
mediatore, che si interpone tra il soggetto e la realtà, interpretandola e dando modo all’individuo di
apprendere.

Motivazione: le motivazioni sono i moventi del comportamento, consci e inconsci. Per quanto
riguarda l’apprendimento si suole distinguere una motivazione intrinseca da una motivazione
estrinseca: la motivazione intrinseca è sorretta dal bisogno di conoscere ed apprendere, dal bisogno
di sentirsi competenti ed efficaci, dal piacere che deriva dal controllo e dalla realizzazione del
compito; la motivazione estrinseca è costituita dal rinforzo che viene dato al soggetto dall'esterno
per aumentare, mantenere o ridurre la frequenza di un dato comportamento. Variabili della
motivazione estrinseca sono: l'autorità della persona che rinforza e la fiducia che l'allievo ripone in
questa fiducia. Costituiscono motivazioni estrinseche nel caso degli apprendimenti il bisogno di
realizzazione personale, il bisogno di approvazione.

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Percezione: la percezione è ciò che ci consente di accedere a qualche cosa, a ciò che “c’è”: è
apertura all’effettività, conoscenza delle esistenze. Questa prima definizione, apparentemente
evidente, permette di cominciare a caratterizzare la percezione per differenza rispetto a ciò che non
è. La percezione si distingue anzitutto dal pensiero in senso stretto proprio per il suo carattere
sensibile, a cui corrisponde la presenza concreta di qualcosa. Si distingue in secondo luogo dal
sentimento, in quanto apre a un’esteriorità invece di ridursi all’esperienza di uno stato dell’io: La
percezione è dunque caratterizzata da una doppia dimensione. Da un lato è un modo di accesso alla
realtà quale è in se stessa; nella percezione in nessun momento ho la sensazione di avere a che fare
con un doppione, con una immagine della cosa: ho, al contrario la convinzione di scoprire una realtà
che precede il mio sguardo, così come esisteva prima ancora che la percepissi. Dall’altro la
percezione è sensibile, vale a dire mia: è l’esperienza che io ho della realtà. Si traduce in questo
modo il fatto incontestabile che, senza soggetto percepente, precisamente senza organi di senso,
niente apparirebbe. È sufficiente distogliere lo sguardo o chiudere gli occhi perché scompaia un
pezzo intero dello spettacolo, oppure spostarsi perché il paesaggio cominci a muoversi: proprio
mentre si dà a noi come precedente la nostra esperienza, il percepito sembra allo stesso tempo
totalmente tributario della nostra soggettività sensibile. Nell’esperienza immediata coesistono,
dunque, due evidenze opposte; la percezione si fa laggiù, nel mondo, e si fa in me, raggiunge la
cosa così come è in sé e coglie questa stessa cosa attraverso degli stati del soggetto. Se queste due
dimensioni sono conciliabili agli occhi dell’esperienza esse si rivelano al contrario incompatibili
non appena si tenti di nominarle, non appena la riflessione tenti di impadronirsene. Ora, come è
possibile partire da stati soggettivi, immanenti, e dunque relativi, e accedere a ciò che risposa in sé e
non è relativo che a se stesso? Come può il vissuto raggiungere una cosa spaziale che gli è
profondamente estranea? Questo è il problema della percezione, così come è posto essenzialmente
dalla tradizione filosofica. Così formulato il problema riposa interamente sull’assimilazione,
considerata come ovvia e pacifica tra le due caratterizzazioni della percezione: il “qualcosa” non
può designare che la cosa estesa nello spazio e la percezione uno stato soggettivo. Non ci sarà in
questo ragionamento una grave incoerenza? Si conferisce in prima istanza un senso determinato
all’essere del percepito così come a quello del percepente, si comincia con il sottomettere la
percezione a delle categorie disponibili, quelle del soggetto vissuto e dell’oggetto esteso – categorie
edificate dal cartesianesimo – e si sfocia allora nella problematica questione della relazione fra il
soggetto e l’oggetto. Se è vero che nella percezione qualcuno percepisce qualche cosa, niente ci
autorizza a definire questo “qualcuno” come un insieme di stati soggettivi e questo “qualche cosa”
come un oggetto esteso. Si può al limite affermare che un soggetto raggiunga un oggetto, senza con
ciò pregiudicare il senso stesso di queste nozioni. L’incoerenza consiste nella subordinazione

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aprioristica della percezione, è la percezione stessa, in quanto originario accesso alla realtà, che può
liberarcene il senso.

Progetto: il progetto può essere definito come «un’impresa complessa, unica e di durata
determinata, rivolta al raggiungimento di un obiettivo chiaro e predefinito mediante un processo
continuo di pianificazione e controllo di risorse differenziate e con vincoli interdipendenti di costi-
tempi-qualità»1.
È in altre parole l’anticipazione delle possibilità, cioè qualsiasi previsione, predizione,
predisposizione, piano, ordinamento nonché il modo d’essere o d’agire che è proprio di chi fa
ricorso a possibilità. In questo senso nella filosofia esistenzialistica il progetto è il modo d’essere
costitutivo dell’uomo, o come dice Heidegger, che per primo ha introdotto la nozione, è la sua
“costituzione ontologico-esistenziale”2.

Valutazione: la valutazione è uno degli elementi del dialogo didattico tra soggetti, insegnante/i e
studente/i, in una precisa, ma cangiante, dinamica di poteri, attraverso cui l’insegnante misura
qualcosa - e si sottopone così alla contro-valutazione degli studenti - dando implicitamente o
esplicitamente indicazioni operative e di valore attraverso le quali, sia l’insegnante, che gli studenti
elaborano le proprie risposte e la propria immagine di sé, e mettono a punto le regole del loro
lavoro, in termini operativi e di valore, stimolando così o inibendo lo sviluppo di determinate
potenzialità. La valutazione è fondamentale per la formazione dell’immagine di sé e per il rapporto
con l’insegnante. In essa anche l’insegnante forma una immagine di sé esercitando il potere della
valutazione, e questa immagine ha una influenza sulla valutazione stessa. Poiché la valutazione
avviene nel contesto della classe, essa ha un’influenza nella immagine di sé dello studente, mediata
dall’immagine degli altri. Per tutte queste ragioni la valutazione è quindi, a pieno titolo, parte del
rapporto di formazione. In nessun modo può essere considerata soltanto una semplice “misura”,
anche se, sempre, in qualche modo, la valutazione misura qualcosa. Ma guardare al “voto”, vuol
dire aprire lo spazio intenzionale come un simbolo, che si dà solo nell’atto di quell’uso munito di
senso, che apre il gioco linguistico. Con il mero uso di griglie, tassonomie, test e apparati
multimediali resta inevaso il pensiero pedagogico.
La pedagogia non è la parata dei valori come non è il repertorio delle tecniche.

1
F. CAPPA, Progetto senza Soggetto, in ID., a cura di, Intenzionalità e progetto, Franco Angeli, Milano 2007,
p. 199.
2
M. HEIDEGGER, Essere e Tempo, Utet, Torino 1969, § 37.

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Il “dar voti” è quindi soltanto uno dei momenti che compongono l’atto della valutazione, ma
costituisce spesso il punto di incrocio, reale e simbolico, in quest’ultimo caso soprattutto per gli
studenti, delle linee di forza delle relazioni legate al potere e all’immagine di sé che sono messe in
gioco dall’atto della valutazione. Dunque, l’intenzionalità del valutare risulta essere un momento
costitutivo fondamentale per l’azione formativa, in quanto processo interpretativo, di attribuzione di
significato alla realtà osservata. Una realtà mai assoluta, ma una realtà commistione di significati
assegnati all’evento educativo. Il percorso fenomenologico consente di ridisegnare questa serie di
discorsi e delineare i nuovi campi da pensare. Pertanto l’intenzionalità del valutare non è rivolta al
raggiungimento di una presunta obiettività, né ad una “verità sull’evento”, bensì è finalizzata a
fornire una informazione aggiuntiva su di esso, utile a prendere decisioni e a modificare l’evento
stesso. La valutazione deve tener conto delle prospettive di valore dei soggetti coinvolti e della
valorizzazione e confronto di tale pluralità. L’assegnazione di un valore dipende dalla progettualità.
Il progetto diviene la cornice entro la quale leggere l’evento e definire i criteri di giudizio. Ma il
lavoro dell’educatore spesso si sintetizza in uno stilare, eseguire e valutare progetti. L’educatore,
che credesse di realizzare davvero quello che si propone, quasi a dominare con i suoi progetti la
realtà, sarebbe cieco alla possibilità stessa dell’educazione come esperienza e novità. E ancor più
dannoso sarebbe intendere il valutare, come il sancire quantitativamente il successo della
realizzazione dello stesso progetto. La progettualità propria dell’educatore e l’attività del valutare
non sono la culla sulla quale ci addormentiamo sicuri, ma il pungolo che rende rischiosa ogni
mossa, che può portare all’inautenticità del nostro educare, come condizione esistenziale. Leggere il
passato, il presente per proiettare il futuro, è uno studiare per agire più consapevolmente. È
importante, pertanto, distinguere la valutazione dalla verifica e dal controllo. La valutazione non si
limita a ratificare l’esistente, ad individuare gli errori, - l’obiettività viene sostituita dall’imparzialità
– ma, in quanto processo di ricerca, si pone in un ottica strategica, cerca quanto non era a priori
prevedibile, e leggendo l’evento a posteriori, ne direziona l’intervento, al fine di realizzare un
apprendimento per il miglioramento.
La validità della valutazione dipende non solo dalla possibilità di confrontare i dati raccolti nella
valutazione con analoghi dati raccolti prima dell’intervento effettuato, o dalla possibilità di
confrontare ciò che si ritiene essere un “risultato” con ciò che si prefiggeva di raggiungere come
risultato, quindi dalla definizione degli obiettivi di partenza, ma, anche e soprattutto, dalla ricaduta
formativa, offrendo un feedback per l’azione, per generare cambiamento all’interno del contesto in
cui si svolge.
La valutazione può essere certificativa, procedura di valutazione che ha come scopo quello di
classificare gli studenti e giustificare le decisioni circa la promozione all’anno seguente o al

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conseguimento di un titolo di studio; si effettua periodicamente o alla fine di un insegnamento (o
di un gruppo di insegnamenti) o di un certo periodo di apprendimento; può essere formativa,
valutazione del progresso, del profitto del discente dal momento in cui comincia un programma fino
a quello in cui lo conclude; mette a disposizione del discente la possibilità di rendersi conto dei suoi
progressi e del cammino che gli resta da fare per il conseguimento degli obiettivi educativi;
permette di adattare le attività di apprendimento al progresso ottenuto o alla sua mancanza e procura
all’insegnante dei dati qualitativi e quantitativi per modificare il suo insegnamento; ha carattere di
continuità e non deve essere usata come sanzione né apparire in documenti ufficiali; la sua
utilizzazione è controllata dal discente.

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