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Quello che accumuna queste due tipi di relazione è l’AUTENTICITÀ, che è il processo acquisito nel
tempo che permette di superare la dicotomia (divisione) personale/professionale. La RELAZIONE
AUTENTICA viene generata dalla capacità d’integrare in maniera coerente ed efficacie tutte le parti
emotive della persona. Si è autentici quando tutte le parti della nostra emotività, presente e passata,
hanno raggiunto un equilibrio che ci permette di comprendere gli stati emotivi dell’altra persona.
La professionalità educativa deve essere considerata la capacità di costruire e di utilizzare la relazione
con l’altro all’interno di una matrice interpersonale, in cui le sfumature della personalità entrano in
integrazione dinamica con il processo educativo che si vuole realizzare, rendendolo così autentico.
Ciò che rende l’autenticità un costrutto pedagogico e rende significativa la relazione d’aiuto è
educativa è la RESPONSABILITÀ EDUCATIVA. Interpretare in maniera autentica una
responsabilità educativa equivale ad assumere su di sé la consapevolezza del valore della prevedibilità
all’interno della relazione con l’altro. Attraverso la responsabilità educativa si va ad aumentare la
capacità di tenere sempre presente dentro di sé l’altro. Ciò che rende autentica la responsabilità
educativa è la passione con cui sapremo trovare il modo di agganciare l’altro emotivamente,
coinvolgendo nel processo di cambiamento.
In educazione è molto importante non proiettare in maniera inconsapevole le sofferenze del proprio
sé bambino nel tentativo di riparare alle Carenze emotive dell’altro. È importante, però, sintonizzarsi
sui bisogni emotivi dell’altro. Ed è anche vero che l’aver attraversato in passato determinati stati
emotivi caratterizzati dal dolore, dalla paura e dalla rabbia, possa in qualche modo costituire una
risorsa, in quanto la sintonizzazione su queste emozioni può permettere una comprensione autentica
di come l’altro si possa sentire in una situazione simile.
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Il modo migliore per stabilire relazioni educative autentiche è quello di riprendere in mano il
bambino/a che si è stati, guidarlo lentamente a integrarsi con l’uomo o la donna che si è oggi per poi
attivare dei veri processi trasformativi.
Esercitare la cura in ambito educativo significa non stancarsi mai di effettuare una continua
operazione di scaffolding (aiuto dato da una persona ad un’altra per svolgere un compito), sia nei
momenti strutturati si in quelli non strutturati. Essa avviene con i gesti, ma soprattutto con le parole
che comunicano la volontà di non lasciare da solo l’altro.
I processi di crescita e sviluppo si basano, in gran parte, sulle dinamiche che concernono i meccanismi
riguardanti le aspettative. Quando lo scaffolding non viene esercitato, o non viene esercitato in
maniera adeguata, s’innescano meccanismi dai quali, spesso, risulta difficile tornare indietro.
Innescando così un’escalation di conflitto, basata proprio sulle aspettative che si possiedono rispetto
alle possibili reazioni dell’altro. Esempio: se l’adulto si aspetta che il bambino metta in atto
comportamenti disfunzionali, è verosimile che innalzi la soglia di attenzione e, quindi, di reattività.
Lo scaffolding diviene quel comportamento di prossimità all’interno del quale il comportamento
disfunzionali viene risignificato e ricollocato in una cornice, al centro della quale c’è il bambino con
le sue potenzialità e con la sua capacità di agire in modo diverso, se adeguatamente supportato,
dall’adulto così come dai coetanei.
In molti casi si è portati a pensare che l’elevata frequenza di comportamenti disfunzionali nel bambino
corrisponda necessariamente all’esistenza di un disturbo. In realtà, più che di disturbo, sarebbe più
adeguato parlare di disregolazione.
L’autoregolazione emotiva ha lo scopo, da un lato, di riconoscere l’emozione e, dall’altro, quello di
gestire l’effetto che l’esperire (provare) stati emotivi molto intensi provoca. Quando il bambino viene
compreso nella sua difficoltà di gestire le emozioni diventa un essere emotivo e non solo reattivo.
Così si danno un significato e un peso all’origine dell’emozione e alla funzione del comportamento,
che dal punto di vista del bambino serve ad affrontare l’impatto che determinati contesti o relazioni
suscitano e che appaiono come un generalizzato stato di attivazione che deve in qualche modo essere
risolta. È questa l’operazione di scaffolding che il bambino necessita: avere vicino un adulto che lo
accolga e che lo rassicuri nella sua capacità di riorientare il comportamento.
In questo sussiste il comportamento di cura: il modello della relazione in campo educativo rinuncia
al modello del potere; un modello che si fa scudo del rispetto delle regole per etichettare tutti coloro
che trasgrediscono in qualche modo, cogliendo così l’occasione di ripristinare l’ordine agendo con
meccanismi squalificati o punitivi.
L’obiettivo è il riconoscimento delle regole all’interno di un contesto relazionale interpersonale in
cui il benessere percepito determina la volontà di persistere nel mantenimento delle stesse condizioni
che lo determinano. In altri termini questo è ciò che può essere definito come AUTONOMIA.
Avviene quando l’obiettivo di acquisizione di autonomie rientra all’interno di un processo relazionale
di condivisione, per il quale si diviene indipendenti se si giunge All’interiorizzazione della capacità
di fare da solo. Molto importante qui è la teoria dell’attaccamento, la quale postula che si raggiunge
un’autonomia effettiva quando si perviene alla capacità di concentrarsi su se stessi, impiegando tutto
il proprio potenziale verso il raggiungimento i un obiettivo. Questo, tuttavia, può avvenire solo
quando si è interiorizzata la sicurezza di essere con l’altro.
Può capitare che i bambini piccoli commettano delle azioni, come piangere quando la mamma lo
lascia all’asilo, scappare dalla sezione delle maestre, bagnare il letto mentre dorme, che all’inizio
sono di normale passaggio ma se prolungate nel tempo o se si presentano ad intervalli sono segno che
il bambino/a non stia manifestando un’emozione. Un errore che possono commette i genitori e
maestre è quello di rimproverare il bambino, punirlo o non prestargli attenzione, perché convinti che
così facendo il bambino eliminerà questo comportamento.
Ma si tratta di un errore che viene ancora commesso in ambito educativo. Spesso quando il bambino
manifesta comportamenti come evitare l’adulto, fuggire, mandarlo via, equivalgono alla paura di
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rimanere da soli. A fronte di questa paura, se il bambino viene sgridato o ignorato, sperimenta, oltre
che il disconoscimento del suo bisogno, un’autentica umiliazione.
TUTTI gli interventi punitivi appartengono ad una categoria di modalità interattive che prevedono
l’umiliazione come sistema d’intervento. I meccanismi punitivi derivano da un’assenza
d’integrazione empatica e di sintonizzazione emotiva. I bambini necessitano di un ascolto attento,
che riguardi i loro comportamenti verbali ma soprattutto quelli non verbali.
Ascoltare i bambini prevede:
- DEDICARE TEMPO ALL'ASCOLTO, il quale permette d’instaurare una relazione
significativa con il bambino, il quale poi consentirà di non tornare su alcune modalità
comunicative co-costruite insieme a lui.
- UTILIZZARE un LINGUAGGIO ADEGUATO a far comprendere al bambino che si è
davvero interessati alla sua opinione.
- L’ASCOLTO DEVE ESSERE ANCHE A LIVELLO DI GRUPPO, è importante che i
bambini vengano educati anche all’ascolto reciproco, come spazio di apertura all’altro,
all’espressione e alla comprensione delle emozioni, delle aspettative, come opportunità di
confronto e di espressione della propria individualità.
- L’ascolto necessità di una profonda APERTURA ALL’IGNOTO, ovvero della capacità di
accogliere l’altro per quello che è, senza paura di trovarsi impreparati difronte alle sue
richieste o affermazioni.
In ambito educativo è anche importante LASCIARSI SPIAZZARE, sconvolgere da ciò che non è
sempre caratterizzato da prevedibilità. È la capacità di accogliere l’esperienza dell’altro dentro di sé
a determinare l’arricchimento interiore il quale, se raccolto senza pregiudizio, può portare
all’individuazione di risposte nuove e costruite insieme ai bambini, in base ai loro rimandi. Ascoltare
in questo modo equivale a riconoscere la presenza dei bambini a valorizzare la loro esperienza, a
tendere un filo che la colleghi alla nostra per sviluppare un clima sereno che permetta la crescita
emotiva di ciascuno.
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La RISIGNIFICAZIONE DI CIÒ CHE STA CAPITANDO farsi spiegare dai bambini e chiedere
quelle che gli sta succedendo, cosa sentendo oppure cosa fanno per sentirsi meglio, permette loro di
spiegare con parole adeguate all’età dei bambini quello che sta accadendo loro e, a partire da questo
racconto, co-costruire e condividere strategie di risoluzione.
Il PROCESSO DI RASSICURAZIONE prevede che il bambino venga rassicurato rispetto al fatto
che le emozioni non sono necessariamente distruttive. Su può lavorare su un processo di
riconoscimento che ci aiuti ad attraversare quell’emozione nel modo migliore, senza che sia
l’emozione stessa a dominare la nostra vita o i nostri comportamenti.
La descrizione di queste premesse ci permette di comprendere come il dialogo è L’espressione delle
emozioni possano difficilmente essere ridotti a un laboratorio, per quanto corposo e significativo.
L’espressione delle emozioni diviene efficace e viene legittimata pienamente solamente se essa
diviene un’opportunità quotidiana, una ricerca costante, e se essa viene colta come un’occasione di
arricchimento per se stessi e per gli altri. Solo in questo modo comunicare attraverso le emozioni può
costruire un vero pilastro della relazione educativa propriamente intesa.
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Con “FUNZIONI DI CURA” s’intende quell’insieme di competenze che, su un piano individuale e
interattivo con il minore, un adulto significativo dovrebbe possedere o sviluppare nel corso della sua
esperienza quotidiana come genitore, le quali sono strettamente interconnesse al costrutto interno di
“genitorialità”.
Con l’espressione “PROCESSI RELAZIONALI” si fa riferimento al l’insieme delle dinamiche
famigliari necessarie a favorire lo sviluppo di ciascun componente, partendo dal presupposto secondo
cui in ogni momento della sua storia, ogni famiglia si trova a combinare la realizzazione della
coesione gruppale con la facilitazione dell’accrescimento delle autonomie individuali.
Per lavorare sul piano educativo con le famiglie in chiave relazionale è necessario adottare una
prospettiva multi processuale e multidimensionale adatta a identificare, nello specifico, l’insieme
delle dinamiche, compiti e funzioni a cui le famiglie stesse sono chiamate a rispondere per favorire
lo sviluppo di ciascun componente e dei minori, ovvero:
- La capacità di assicurare ai propri componenti un con testo d’appartenenza gruppale e al
contempo favorire la loro autonomia individuale;
- Garantire cura, protezione, comprensione e introduzione di vincoli, regole e confini;
- La capacità di prefigurare i come luoghi in cui è possibile esprimere le differenze e al tempo
stesso come contesti in cui sperimentare modalità negoziali per la gestione del conflitto;
- Costituirsi come un contesto in cui s’impara a stare in relazione con più di una persona alla
volta, per poter esplorare altre relazioni fuori dalla famiglia;
- Riorganizzare i loro rapporti in termini di vicinanza/distanza, potere, gerarchie, ruoli, regole,
confini;
- Adottare adeguate strategie di coping all’occorrenza di particolari eventi che impongono
cambiamenti talvolta strutturali per rispondere in maniera flessibile alle nuove sfide che
l’ambiente interno o esterno impone.
Passando dal piano gruppale a quello interattivo dei genitori/genitore con il minore, occorre osservare
come si articolano le varie componenti del parenting. Esistono diverse categorizzazioni degli stili
genitoriali o del parenting.
Reder e Lucey (1995) propongono d’indagare prima di tutto l’adattamento del genitore al proprio
ruolo, il tipo di relazione instaurata con il bambino (le emozioni provate nei suoi confronti), le
influenze sulla famiglia, le interazioni con la comunità e le potenzialità di cambiamento.
Browne (1995) propone la conoscenza e gli atteggiamenti che il genitore ha sul proprio figlio e sulle
modalità più adeguate di prendersi cura, il modo in cui il genitore vede e considera alcuni
atteggiamenti del bambino, la capacità di gestire lo stress, la modalità d’integrazione genitore-figlio
e il tipo di legame d’attaccamento presente nel bambino.
Arzar, Lauretti e Loding (1998) adottano un modello di parenting di tipo cognitivo-comportamentale,
propongono di analizzare cinque aree: la capacità del genitore di assolvere il proprio ruolo, le
competenze cognitivo-relazionali, la sua capacità di autocontrollo e infine le competenze sociali.
In prospettiva ecologica e multifattoriale, la valutazione dello stile genitoriale comprende dei modelli
rappresentazioni dell’attaccamento adulto, l’osservazione delle modalità con cui il genitore si prende
cura del bambino nelle prime fasi della vita e la qualità dell’attaccamento sviluppato del bambino
stesso. In questa prospettiva la valutazione dell’attaccamento è integrata in maniera circolare. Qui il
soggetto viene posto al centro di una molteplicità di relazioni che influenzano in modo significativo
le caratteristiche e le abilità personali, comprese quelle genitoriali
e i fattori di rischio o protezione per lo sviluppo del figlio. Il comportamento parentale è
il prodotto comune di
numerose caratteristiche del
genitore e del bambino che si
determinano in una storia di
interazioni e trasformazioni
reciproche.
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L’intervento di PROSSIMITÀ FAMIGLIARE è un dispositivo finalizzato al sostegno genitoriale e
famigliare istituzionalizzato in tempi relativamente recenti. Le prime sperimentazioni di questo
modello nascono con lo scopo di prevenire l’allontanamento dei minori dal proprio contesto
d’origine, attraverso la realizzazione di forme di sostegno alla genitorialità che prevedono la
supervisione del rapporto tra genitori e bambino/a e delle risorse globali delle famiglie, attraverso un
supporto caratterizzato dalla comunicazione tra reti formali e informali, dalla partecipazione della
cittadinanza, delle istituzioni e dal coinvolgimento di specifiche figure professionali. Più nello
specifico le azioni nell’ambito della prossimità famigliare si configurano come forme di sostegno
discreto, non controllato, ma allo stesso tempo strutturate, che rimanda al concetto di scaffolding.
Gli interventi di prossimità rispetto ad altre tipologie di sostegno alla genitorialità sono riassumibili
attraverso sei criteri:
- Lo spostamento del focus dal bambino alla famiglia;
- La presenza di un mandato meno rigido e formale rispetto ad altri tipi d'azione;
- La possibilità di revisione del progetto nel tempo, rendendo flessibile la progettualità;
- L’assunzione della prospettiva del paradigma di rete, il cui assunto principale è che non si
può ragionare per settori ma per connessioni;
- Il consolidamento di una prassi che sappia contemperare il sapere professionale e tecnico con
la capacità di operare secondo un’ottica di adeguatezza relazionale;
- La realizzazione di una conoscenza approfondita delle peculiarità del territorio, delle risorse
che offre e delle potenzialità che esprime.
La prossimità in parole povere è come una tipologia alternativa all’affido diurno, per prevenire il
possibile allontanamento del minore dalla propria famiglia.
Le azioni e le metodologie d’intervento rispetto all’affiancamento famigliare prevedono: interventi
di sensibilizzazione e promozione delle risorse micro comunitarie, in grado di far emergere i nuclei
disponibili in contesti di vita vicini a quelli in cui vivono le famiglie destinatarie degli interventi
stessi.
Si tratta di percorsi che non intendono puntellare un’emergenza, ma d’intervento sistemici, forti nella
struttura e al contempo discreti, che mirano a stimolare un lavoro di
consapevolezza/accettazione/ascolto sulla/della propria storia genitoriale per arginare la discrepanza
tra figlio ideale e reale. Il carattere prossimale dell’intervento di affiancamento si realizza attraverso
la percezione della vicinanza fisica, emotiva ed empatica dell’altro nella realizzazione d’aiuto; ciò
richiede l’abbandono di linguaggi tecnico-operativi iperspecialistici, che separano invece di
avvicinare.
Tutte le azioni della sperimentazione sono riconducibili a due principi metodologici di ordine
generale:
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- La centralità della partecipazione da parte della famiglia e di tutti i suoi componenti alla
formulazione del progetto d’intervento che la riguarda;
- Il coinvolgimento e la co-costruzione del progetto attraverso metodologie accessibili e
regolarità nelle verifiche e nella pianificazione di azioni e di impegni da assumere per il
raggiungimento degli obiettivi.
Il supporto genitoriale si colloca su due macro-obiettivi generali, focalizzati sul microcontesto
famigliare e sul contesto generale in cui vivono genitori e bambini. Le azioni riferite al contesto di
vita famigliare sono finalizzate a ridurre la solitudine e L’isolamento ampliando la rete sociale di
riferimento, stimolando la partecipazione attiva dei genitori e bambini alle attività del territorio e
rinforzando il supporto sociale percepito. Il focus degli obiettivi inerenti al sistema famigliare è
prevalentemente centrato su:
- La riduzione dell’esposizione dei figli a situazioni di rischio psicosociale e psicopatologico;
- La capacità dell’interno sistema famigliare di pensare alle proprie difficoltà e alle proprie
risorse e di esprimersi in merito ricercando attivamente soluzioni;
- L’incremento della capacità di esprimere e verbalizzare i propri desideri e le proprie
preoccupazioni rispetto ai figli;
- Il rinforzo della capacità dei genitori di riconoscere le esigenze e i desideri dei propri figli e
di ridurre i propri comportamenti/atteggiamenti non adeguati.
Gli attori coinvolti nelle azioni di supporto sono tenuti a lavorare sul mandato della famiglia,
condividendo la progettazione, e individuando assieme alla famiglia le risorse presenti, i rischi, i
bisogni e le preoccupazioni dei figli.
Un altro tipo d’intervento che possiamo trovare è quello dell’HOME VISITING, il quale rappresenta
una metodologia privilegiata che si rivolge alle famiglie vulnerabili con la finalità di prevenire le
forme di maltrattamento a danno delle persone di minor età e di supportare lo sviluppo del minore
attraverso il sostegno genitoriale (centrato sul supporto genitore-figli). Questo strumento può essere
attivato fin dalla fine della gravidanza e persegue l’obiettivo di curare il minore all’interno della
famiglia senza procedere al suo allontanamento. Permette di monitorare direttamente l’ambiente di
vita del minore così come le dinamiche famigliari che si svolgono nel loro setting “naturale”. Esso dà
la possibilità di realizzare una serie di azioni di supporto alle interazioni precoci del minore con le
figure primarie d’attaccamento fin dalle prime fasi di vita, con lo scopo di promuovere e potenziare
capillarmente pattern, script e routine funzionali, a discapito di quelle disfunzionali che sostanziano
la storia relazionale. Perché sia efficace si rende possibile solo all’interno di un progetto di rete più
ampio, da realizzarsi attraverso un pieno coinvolgimento degli attori del sistema integrato dei servizi
sociosanitari e educativi coinvolgendo degli attori del sistema integrato dei servizi sociosanitarie
educativi e di reti sociali anche a carattere informale.
Dunque l’home visiting (HV) può essere pensato come un intervento che procede su un doppio
binario o focus: a un primo livello, esso si realizza mediante azioni di sostegno alla genitorialità
nell’ottica della cooperazione e non della sostituzione del genitore/dei genitori, si sviluppa sulla
gestione delle faccende domestiche, nell’organizzazione della vita quotidiana, nella promozione di
particolari routine favorevoli per il benessere del minore. Senza sostituzione, dunque, è necessario
cercare d’intercettare le potenzialità dei genitori e di metterli nelle condizioni di riuscire a
decodificare i bisogni del bambino. Sul secondo livello, il minore viene supportato indirettamente
attraverso l’attivazione di supporti finalizzati a porre i genitori nelle condizioni con cui poter
esercitare al meglio il proprio ruolo.
Quando l’intervento viene attivato, è necessario condividere con le famiglie il progetto di sostegno,
formulando un patto di lavoro, ossia sintetizzando tutto quanto discusso in un contratto sottoscritto
dalle parti.
Si possono trovare degli strumenti di lavoro che possono essere trasversalmente applicati sia nelle
progettazioni degli interventi HV che di PROSSIMITA’. Nello specifico gli strumenti possono essere
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adoperati dagli educatori in varie fasi del processo d’intervento psico-educativo a sostegno della
relazione genitoriali. Questi strumenti possono essere adoperati in varie fasi del processo, ossia: nella
fase di prevalutazione; nella fase di co-costruzione dell’intervento; nella fase di progettazione e
monitoraggio in itinere dell’intervento; nella fase conclusiva dell’intervento, in cui è auspicabile
valutare sia l’efficacia dell’esito dell’intervento che del processo.
Gli strumenti sono: l’ecomappa nel processo di prevalutazione e conoscenza delle famiglie; la
realizzazione del patto di lavoro; la costruzione della progettazione educativa individualizzata.
Facendo uso di questi strumenti, lo sforzo educativo dovrebbe essere quello di cogliere, da un lato, le
capacità presenti o potenziali delle persone con cui ci s’interfaccia per contrastare l’immagine
disfunzionale percepita o strutturata in precedenti interventi istituzionali.
Prima di tutto bisogna fare una valutazione, intesa come processo di conoscenza dell’altro. Essa,
come anche l’utilizzo degli strumenti operativi, assumono senso se sono condotti adottando una
prospettiva relazionale avulsa dalla dimensione del giudizio semplificatorio che risulta non produttivo
ai fini dell’intervento globale.
Sia nell’HV che nei PROGETTI DI PROSSIMITA’ FAMIGLIARE, la progettazione dell’intervento
prevede un passaggio preliminare, durante il quale operatori e genitori concordano e definiscono in
modo congiunto quali sono le fragilità di cui si occuperanno insieme, prima ancora di procedere a
una progettazione.
Per la valutazione preliminare delle famiglie possono essere adoperati vari strumenti, tra cui la
diagnosi sociale, strumenti di assessment per il parenting, il genogramma, i cicli di vita famigliare e
L’ECOMAPPA. Quest’ultima è uno strumento versatile e immediato, che può essere adoperato da
varie figure professionali a seguito di un’appropriata formazione. È uno strumento che permette
graficamente d’illustrare le competenze relazionali valutate in diversi contesti di vita, così come le
relazioni significative per un individuo, una coppia o una famiglia. Inoltre è uno strumento che facilita
le interazioni con i bambini e con le persone di diversa cultura.
Ecomappa ambienti di vita
Quindi la definizione degli ambienti di vita è centrale per capire e valutare la persona nella sua totalità
e nelle sue funzioni psicologiche. Così il modello classifica gli ambienti tenendo conto della quantità
e della qualità delle risorse scambiate. Per costruire l’ecomappa bisogna tenere conto dei seguenti
elementi: casa; scuola/lavoro; tempo libero; ambienti transitori (banche, negozi, hotel…); contesti di
transito (auto, treno, bus…).
La realizzazione dello strumento dell’ecomappa avviene in tre fasi:
I. Raccolta dei dati;
II. Elaborazione dei dati raccolti;
III. Restituzione della valutazione/diagnosi.
Poi abbiamo il PATTO DI LAVORO che è lo strumento che formalmente da inizio al progetto di
prossimità familiare e, come una sorta di contratto o di accorda, definisce le reciproche responsabilità
tra le parti, gli obiettivi e i tempi di realizzazione. Prevede al momento della stipula la definizione di
tutti i partecipanti alla progettualità di prossimità famigliare, i quali saranno “vincolati” all’impegno
attraverso la firma consensuale del patto educativo.
Nello specifico, il patto di lavoro, prevede la definizione dei componenti del nucleo famigliare a cui
si rivolge l’intervento di prossimità famigliare. Devono essere definite le figure professionali che
saranno coinvolte nel progetto di prossimità famigliare, tra cui il coordinatore, l’assistente sociale e
l’educatore e tutte quelle contemplate nel progetto. Nel patto di lavoro vanno inoltre riportati gli
obiettivi generali che s’intende perseguire e raggiungere mediante il progetto. Inoltre, nella
definizione degli obiettivi è importante fin da subito valutare la loro realizzabilità.
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educativa individualizzata realizzata nelle comunità per minori, che può essere tranquillamente
utilizzata all’interno di un contesto operativo come quello che caratterizza l’HV e i PROGETTI DI
PROSSIMITA’ FAMIGLIARE da parte dell’educatore nel lavoro con le famiglie. Essa si propone
come uno strumento in grado di realizzare un intervento strutturato e strutturante all’interno di
un’ottica relazionale e tale da rendere il destinatario dell’intervento un protagonista costantemente
partecipe, attivo e consapevole di ciò che viene realizzato. La SEI prevede una serie di step
processuali per la sua applicazione pratica, che sono una serie di obiettivi scelti in base alla loro
realizzabilità. La SEI è divisa in tre parti strutturali:
I. Obiettivi, che possono essere a tempo o a esito. I primi implicano un monitoraggio
continuativo per un certo periodo di tempo, più o meno lungo. I secondi, una volta raggiunti,
non prevedono il monitoraggio delle azioni con cui l’obiettivo si è perseguito;
II. Descrittori, i comportamenti che una madre (o un bambino/adolescente) sono chiamati a
tenere secondo i tempi e i modi concordati;
III. Atti educativi, le azioni dell’educatore volte a facilitare un comportamento/descrittore.
Presuppongono una chiave d’intervento relazionale e la modulazione delle funzioni educative
a seconda degli obiettivi.
Dopo aver inserito gli obiettivi e azioni facilitanti, può iniziare la fase di monitoraggio su base
settimanale. Aggiornando quotidianamente i vari risultati si possono anche visualizzare i grafici che
riportano i risultati raggiunti per ogni obiettivo.
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• CHECKLIST: contengono elenchi di comportamenti che afferiscono a determinati ambiti e
contesti;
• SCALE DI VALUTAZIONE: sono in grado di rilevare l’assenza, la presenza e il livello di
padronanza di determinate caratteristiche e abilità.
- Strumenti qualitativi:
• NARRAZIONI: report lunghi, esaustivi e particolareggiati di tutto ciò che avviene davanti
agli occhi dell’osservatore nel corso dell’intervallo d’osservazione. La descrizione deve avvenire
utilizzando un linguaggio descrittivo e operazionale, ma lasciano spazio al dettaglio delle sensazioni
e delle reazioni dell’osservatore;
• DIARIO: contiene resoconti di azioni che sono accadute in tempi e luoghi diversi. Lo scopo
del diario è quello di mettere in relazione avvenimenti accaduti in momenti diversi in modo da poterli
porre in sequenza e identificare eventuali elementi ricorrenti. la differenza dalle narrazioni è l’assenza
di contemporaneità tra la trascrizione e il verificarsi degli eventi.
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educativa. Il colloquio va concluso ringraziando tutte le persone, indipendentemente dal loro ruolo.
Il colloquio andrebbe concluso tirando le fila delle cose dette, per riassumere i punti principali e
ritrovare un filo conduttore.
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La progettazione degli interventi educativi
Da tutto questo si evince come la progettazione d’interventi educativi che sappiano tener conto della
situazione di partenza di ciascun individuo, del suo potenziale e dei bisogni di cui è portatore è
tutt’altro che banale e richiede attenta riflessione e analisi. La progettazione educativa parte dal
metodo, il quale comprende le conoscenze, le competenze, le convinzioni teoriche che appartengono
al gruppo di lavoro. Un secondo aspetto riguarda le istituzioni, ovvero la rete di contesti che spesso
circondano le persone destinatarie del progetto educativo. Un ultimo aspetto è quello che fa
riferimento all’esperienza più o meno consolidata di istituzioni e gruppi di lavoro.
La progettazione degli interventi educativi deve partire da una fotografia della situazione attuale. È
necessaria un’analisi complessiva e dettagliata di tutte le caratteristiche e dei bisogni di ciascun
individuo.
La costruzione di un progetto educativo deve tenre conto di alcuni parametri fondamentali.
Innanzitutto la definizione di obiettivi specifici, soprattutto in riferimento ai destinatari
dell’intervento. Successivamente è fondamentale indicare i contenuti del progetto e le metodologie
che si intendono impiegare. È infine importante indicare le modalità di verifica delle ricadute nel
breve e medio termine.
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- È necessario SELEZIONARE ACCURATAMENTE IL TEST O LO STRUMENTO,
analizzando quindi lo scopo per il quale s’intende effettuare la valutazione. Bisogna avere chiaro il
processo di sviluppo del bambino;
- Saper INTERPRETARE I RISULTATI DELLA VALUTAZIONE, una corretta
interpretazione dei risultati ottenuti potrà solo se il valutatore avrà raggiunto una giusta conoscenza
degli stessi e la dovuta dimestichezza nella loro somministrazione;
- Bisogna fare un’ANALISI DEL CONTESTO PRELIMINARE alla scelta e somministrazione
del test, ad esempio la rilevazione dell’appartenenza del bambino a determinati gruppi (per età, etnia,
funzionamento sociale e cognitivo…).
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- TEMPERAMENTO DIFFICILE, bambini che mostrano una preponderanza delle emozioni
negative su quelle positive.
Le caratteristiche di queste tipologie temperamentali sono già rilevabili nei primi mesi di vita.
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un’immagine); comprensione di un testo figurato (valuta la capacità di individuare la sequenza di
alcune immagini); produzione di storie (valuta la capacità di ricostruire verbalmente una storia
partendo da stimoli visivi).
L’abilità fonologica è composta da due sub-test: A che valuta la capacità di discriminare parole che
contengono suoni simili; B valuta la capacità di riprodurre frasi che presentano difficoltà articolate.
La prova di abilità logico-matematica è costituita da 4 sub-test: concetto di numero (indaga la capacità
di riconoscimento numerico); contare (capacità di contare stabilmente in ordine); organizzazione
spaziale (saper indicare la posizione corretta degli oggetti); geometria euclidea (capacità di
riconoscere le forme geometriche).
La prova relativa alla valutazione dello sviluppo psicomotorio riguarda lo sviluppo della motricità
generale e l’acquisizione del controllo dello schema corporeo e il controllo della motricità fine,
attraverso la coordinazione oculomanuale.
SR 5: formato da 5 sub-test: abilità linguistica formata a sua volta da 5 sub-test (comprensione di
consegne, comprensione del testo figurato e orale, produzione di parole, produzione di frasi e funzioni
linguistiche).
La prova di abilità fonologica è composta da 5 sub-test (discriminazione di fonemi, discriminazione
di sillabe, raddoppio di consonante, somiglianza fonologiche, riproduzione di difficoltà articolatorie).
La prova di abilità logico-matematica è costituita da 3 sub-test (concetto di numero, localizzazione
nello spazio, contare).
La prova di simbolizzazione è costituita in 3 sub-test (lettura e riconoscimento dei simboli,
simbolizzazione linguistica, simbolizzazione matematica).
La prova relativa alla valutazione dello sviluppo psicomotorio è costituita da 5 sub-test (prassi e
[valuta la possibilità di programmare ed eseguire gesti], lateralizzazione [valuta il riconoscimento dei
concetti spaziali di destra e sinistra], schema corporeo [valuta la capacità di saper raffigurare lo
schema corporeo], coordinazione oculomotoria, coordinazione generale).
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essere raggiunto il potenziali di sviluppo della persona. Ciò che principalmente si vuole mettere in
risalto nella strutturazione di qualsiasi progetto educativo sono le potenzialità della persona. Bisogna
quindi fare un’attenta analisi delle criticità che contraddistinguono la diagnosi della persona e
l’osservazione di come esse si ripercuotono sul suo funzionamento.
Il LAP permette di definire il profilo complessivo di sviluppo dell’alunno in sette aree:
- Abilità grosso-motorie, esamina la capacità del bambino di coordinare movimenti e gesti dei
grandi gruppi muscolari. Vengono prese in considerazione attività come saltare, correre, camminare,
mantenere l’equilibrio.
- Abilità fini-motorie, valuta le capacità connesse alla coordinazione oculomanuale, la quale
consente la manipolazione di oggetti nonché l’utilizzo di tutta la strumentazione tipica dell’età
infantile.
- Abilità di prescrittura, valuta i prerequisiti necessari per l’apprendimento della scrittura.
- Abilità cognitive, valuta funzioni intellettive quali il ragionamento, il problem solving e varie
conoscenze.
- Abilità di linguaggio, esamina la capacità del bambino di eseguire le principali funzioni del
linguaggio, gli item esaminano le competenze linguistiche sia in produzione che in ricezione.
- Abilità di autonomia personale, valuta l’abilità del bambino di risolvere senza aiuto le diverse
richieste del vivere quotidiano, gli item riguardano l’alimentazione, il vestirsi, l’uso del bagno e
l’igiene personale.
- Abilità interpersonali e conoscenza di sé, valuta la capacità del bambino di rispondere
adeguatamente alle richieste del suo ambiente sociale, esamina la capacità di cooperare, di
relazionarsi con gli altri in gruppo, di dimostrare empatia e disponibilità all’aiuto.
- Nella scheda finale informazioni dalla valutazione si possono riportare i dati emersi dalla
valutazione iniziale e finale, in termini di abilità possedute e defict, per poi poterne effettuare una
comparazione ai fini dell’analisi dei PEI o di qualunque altra progettualità educativa.
Per registrare gli esiti basta segnare con un + se l’abilità è posseduta o con un – se l’abilità è assente.
Si possono registrare più valutazione nel tempo, così da confrontare i risultati.
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AMOS Abilità e Motivazione allo Studio: prove di valutazione per ragazzi dagli otto ai quindici anni.
Alcuni strumenti che fanno parte dei test AMOS 8-15 sono:
- Questionario sull’approccio allo studio;
- Questionari sulle strategie;
- Prove di studio “Parchi” e “Abitazioni” per la scuola primaria;
- Prove di studio “Limpopo” e “Demografia” per la scuola secondaria di primo e secondo grado;
- Questionario sulle convinzioni.
Nella fascia d’età, 8-15 anni, i problemi connessi allo studio risultano più critici, e con questi test si
cerca di individuare che cosa preadolescenti adolescenti pensino delle loro attività di studio e di poter
successivamente progettare adeguati interventi di supporto e rimotivazione.
TCS-A Test sul superamento dei Compiti di Sviluppo in Adolescenza. Compito di sviluppo avvero
un compito che si presenta in un momento dato del ciclo di vita di una persona, la qui buona riuscita
risulta cruciale nell’affrontare con serenità le sfide successive, producendo spesso ulteriori successi;
viceversa un fallimento, produce infelicità, sfiducia e fatica nei confronti del futuro, con conseguente
disapprovazione sociale. La maturazione di un soggetto passa attraverso una successione di compiti
che devono essere risolti a loro tempo. Se non avviene l’intero sviluppo dell’individuo ne risente.
Havighurst individuò nove compiti evolutivi tipici degli adolescenti della classe media americana
degli anni ’50: instaurare nuove relazioni mature con coetanei d’entrambi i sessi; acquisire un ruolo
sociale maschile o femminile; accettare e usare efficacemente il proprio corpo; conquistare
indipendenza emotivo dai genitori o da altri adulti; raggiungere indipendenza economica; orientarsi
verso un’occupazione professionale; prepararsi al matrimonio e alla vita famigliare; sviluppare
competenza civica; desiderare e consolidare un comportamento socialmente responsabile;
interiorizzare un sistema di valori e una coscienza etica come guida al proprio comportamento. Ad
oggi questi obiettivi non hanno risonanza in quelli che definiremmo i compiti di sviluppo in
adolescenza, questo perché i compiti di sviluppo sono sempre storicamente definiti all’interno di una
società che cambia. Mentre secondo Palmonari è difficile individuare compiti di sviluppo predefiniti
e uguali per tutti, lui più che su singoli problemi si concentra su classi legate a quelli che normalmente
sono i cambiamenti che caratterizzano l’adolescenza: una prima area di compiti è quella relativa alla
gestione della pubertà e della maturazione sessuale; una seconda area riguarda l’ampliamento degli
interessi attraverso anche l’acquisizione del pensiero ipotetico-deduttivo; una terza area concerne
l’acquisizione di una nuova identità con conseguente riorganizzazione del se; un’ultima area di
compiti di sviluppo è quella che fa riferimento all’acquisizione di nuovi orizzonti relazionali.
Il TCS-A è fondato su un modello gerarchico dell’auto-efficacia nello sviluppo, all’interno del quale
12 dimensioni contribuiscono a definire il fattore generale dello sviluppo:
- Area A, compiti di sviluppo legati alla pubertà e alle pulsioni sessuali, indaga tre dimensioni:
accettazione del corpo; integrazione delle pulsioni sessuali e relazioni con gli amici dell'altro sesso;
- Area B, compiti di sviluppo legati alle competenze cognitive, tre dimensioni: capacità di
coping (valutazione dell’adolescente nell’affrontare i compiti); competenza emotiva e efficacia nello
studio;
- Area C, compiti di sviluppo legati alle relazioni, tre dimensioni: relazione con gli amici,
efficacia filiale (percezione di auto-efficacia nella relazione con i genitori) e inserimento sociale;
- Area D compiti di sviluppo legati alla costruzione dell’identità personale, tre dimensioni:
acquisizione dell’identità, conoscenza e coerenza del se e il senso e soddisfazione di vita.
Lo scopo del TCS-A è quello di valutare l’auto-efficacia percepita dagli adolescenti tra i quattordici
e i diciannove anni nel superare i compiti di sviluppo relativi della loro età. I punteggi determinano il
fattore generale dello sviluppo, il quale indica come il soggetto percepisce la sua crescita (quanto
l’adolescente percepisce di aver superato i compiti evolutivi tipici della sua età.
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dove 73 compongono 8 scale: insoddisfazione corporea (7 item); ansia (10); depressione (8); abuso
di sostanze (10); conflitti interpersonali (8); problemi famigliari (9); incertezza per il futuro (9);
autostima e benessere (12). Una sola scala denominata rischio psicosociale, è costituita da 28 item.
Gli adolescenti devono dare un punteggio da 1 a 4 ai vari item e la somma dei punteggi viene
effettuata relativamente alle singole scale, costituendo così 8 punteggi relativi alle aree
psicopatologiche individuate. È consigliato somministrare il test a ragazzi di età superiore ai 12 anni.
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- Sostegno della rete sociale (marrone);
- Difficoltà incontrate ed avolutive genitoriale (arancione):
Con disabilità cognitiva ad oggi si va ad indicare il ritardo mentale. Il deficit nell’intelligenza, nel
livello di sviluppo cognitivo, è una difficoltà di fondo nell’adattamento alla realtà. Ma i casi di
disabilità cognitiva differiscono tra di loro in quanto a deficit e a caratteristiche, anche se con il
passare della vita, la personalità dei soggetti mentalmente ritardati tende ad assumere un profilo di
carattere prevalente, le cui modalità sono abbastanza riconoscibili con regolarità e universali.
Un aspetto controverso da un punto di vista clinico è rapporto tra disabilità intellettiva e patologia
psichica, cioè tra un ritardo mentale e psicosi. Tutto ciò apre delle ricerche sul funzionamento psichico
e affettivo, sulla dimensione dell’esperienza emotiva e soggettiva nella disabilità cognitiva, a partire
dal riconoscimento del fatto che le persone mentalmente ritardate provano affetti e desideri sessuali,
con le proprie peculiarità, ma anche con profonde similitudini con le persone normodotate.
Il lavoro clinico con le persone con ritardo mentale sottopone l’educatore a massicce forme
d’impotenza (perde la fiducia), ma in realtà, soprattutto nell’infanzia e nei casi più lievi, le potenzialità
e le possibilità di recupero dei soggetti con deficit cognitivo possono essere anche notevoli. Il senso
d’impotenza e il pregiudizio comune diffuso nella società fanno si che gli educatori possano tendere
ad accostarsi al lavoro con le persone con deficit cognitivo on scarsa convinzione e dunque con scarso
impegno e fiducia di cimentarsi con le giuste strade d’intervento e di trattamento.
Il nodo dell’approccio psicodinamico si trova nel contenimento delle angosce della persona oggetto
dell’intervento, nell’ascolto partecipe, nella giusta capacità di sintonizzazione per accrescere la
capacità di sentire e di pensare. Il fine a cui tendere è quello di rendere la persona con deficit cognitivo
un po' meno infelice e un po' più adattata alla realtà.
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Tre punti molto importanti quando si parla di diagnosi cognitiva sono:
- Bisogna far capire ai genitori di figli con disabilità cognitiva quanto sia importante investire,
emotivamente e fattivamente, nelle competenze attuali e in quelle emergenti dei bambini, in
modo da assumere un atteggiamento proattivo e adeguatamente supportivo. Infatti, essere
troppo accondiscendenti o fornire un sostegno eccessivo, fino quasi a sostituirsi al proprio
figlio, possono rilevarsi, nel tempo, controproducenti.
- Dare sempre molta attenzione alle persone con diagnosi cognitiva, soprattutto nell’ambito
scolastico, anche quando viene diagnosticata una disabilità lieve.
- Quando viene affiancato un insegnante di sostegno e si va a prevenire i bisogni degli alunni,
non spronarli a fare da sé, mediare in ogni situazione i rapporti con i compagni non consente
loro di sviluppare un adeguato livello di autonomia.
Per quanto riguarda l’autismo, possiamo dire che l’essenza della disabilità autistica si trova in un
deficit d’integrazione sociale. L’autismo va visto come un approdo finale di un nucleo di processi
neurobiologici disfunzionali: cause diverse e molteplici che alla riorganizzazione della mente secondo
quelle peculiarità e quei meccanismi disfunzionali, che rendono conto, sia pure a maglie molto larghe,
di una sindrome univoca, definita da una regolarità di criteri diagnostici.
Ad oggi l’autismo non è più considerato una forma di psicosi; di autismo nei casi gravi non si
guarisce; e pur tuttavia le forme d’intervento, di riabilitazione e di presa in carico attuali sono tutte
basate sul ruolo chiave del rapporto interpersonale, al quale l’importanza è conferita al ruolo
dell’educazione e dell’educatore nel lavoro con le persone autistiche fin dall’infanzia, per tutto l’arco
del ciclo di vita.
Attualmente si vede un ritorno delle tecniche comportamentali e neocomportamentiste nell’autismo.
Le quali fanno leva sul concetto di rinforzo, mirano ad aggredire il funzionamento cognitivo dei
bambini/ragazzi autistici, partendo dall’assunto di base che la mente del soggetto autistico è
“allenabile” e che molto può apprendere, se opportunamente stimolata.
Cottini parla d’integrazione possibile con il soggetto autistico, ma si può discutere d’inclusione nel
significato pregnante del termine, laddove mai come per il bambino autistico vale il principio che
deve essere l’ambiente per primo a cercare di adattarsi ai suoi bisogni e non viceversa. L’ambiente
classe adattato alle esigenze del bambino autistico prevede stabilità e ripetitività, grazie alle quali il
bambino autistico possa vivere l’inserimento nel contesto con sufficiente fiducia.
Con il soggetto autistico possiamo misurare e toccare con mano tutta l’importanza del contenimento
sul piano emotivo, ciò che dovrebbe sempre contraddistinguere le doti di un buon educatore, insieme
alle tecniche di stimolazione cognitiva.
Il bambino autistico quando contiene angosce mette in mostra comportamenti-problema (morsi,
pugni, aggressività…), per limitare questi comportamenti l’educatore deve contenere l’agito del
bambino, quindi l’educatore deve avere la capacità d’integrazione e sintonizzazione affettiva con lui.
Questo fa capire che non è vero che il bambino autistico non è in grado di provare emozioni.
L’approccio psicodinamico e intersoggettivo muove dal presupposto che se con tatto si tengono
presenti certe peculiarità, il lavoro con i bambini autistici non è così diverso da quelli con quelli
normali. Si tratta, i tutti i casi, di far leva sulla volontà del bambino di giocare e di provare emozioni
spontanee.
L’analisi funzionale dei comportamenti-problema
I comportamenti-problema (come tentativi di fuga, eccessi di pianto, manifestazioni aggressive come
morsi o graffi) si verificano con una certa frequenza nei bambini con disturbo dello spettro autistico.
Lavorare sui comportamenti-problema è fondamentale nel recupero delle competenze sociali e
relazionali ma anche linguistiche e comunicative. Comprendere la motivazione per cui un
comportamento-problema viene messo in atto consente di poterlo prevenire impedendo che si
manifesti in tutta la sua portata dirompente, ma si può anche trasformare i comportamenti-problema,
sostituendolo con comportamenti adattivi e socialmente più adeguati.
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Analizzare la funzione dei comportamenti-problema è un compito delicato, che può essere effettuato
attraverso un’osservazione prolungata e dettagliata delle situazioni e dei contesti educativi.
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centrale di “emancipazione”. Il piano del progetto di vita spetta agli educatori, insegnanti e a tutti gli
operatori che insieme collaborano.
Tale piano esalta a tutti gli effetti il nuovo orizzonte dell’inclusione nella disabilità, configurandosi
come un possibile intervento ad ampio raggio, che pone al centro i concetti di empowerment e di
benessere non solo della persona disabile, ma anche di tutti coloro che vivono con lui e in ultima
analisi della comunità nel suo insieme.
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Questi ragazzi hanno bisogno inconscio di un ambiente famigliare che li sappia contenere attraverso
una struttura di sostegno, che eserciti funzioni ad ampio raggio e ad ampio spettro, tali da consentire
loro di fare un’esperienza emotiva riparatrice di importanti e notevoli traumi subiti nel loro passato.
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Il lavoro clinico con questi bambini comporta massici sentimenti d’impotenza, d’identificazione
controtransferale con il ruolo ora del perseguitato, ora del persecutore e con quello salvifico di un
genitore onnipotente che salverà il bambino da parti di se interne completamente cattive, proteggendo
il soggetto nel tentativo di eludere una sofferenza mentale intollerabile.
La capacità del bambino di entrare in contatto con questa sofferenza segnerà un risultato terapeutico
importante, che aprirà le porte a un percorso di cambiamento verso un paesaggio interno meno
tormentato e perturbato. A ciò corrisponderà l’interiorizzazione della figura del terapeuta come
oggetto buono, in grado di mettere ordine nel mondo interno, di fronte alla confusione di un vissuto
interiore popolato di oggetti cattivi, grandiosi e tirannici.
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Donald Meltzer distingueva diversi tipi di caratteri in adolescenza. In particolare, accennava al profilo
dell’adolescente che soffre, di quello che nega la sofferenza nell’isolamento e di quello che invece
sembra avere successo nella vita, potendo evitare così di soffrire.
Per Meltzer l’ultimo profilo di adolescente no si rivolge ad uno specialista perché il successo
raggiunto e la realizzazione dei propri desideri e obiettivi narcisistici gli consentono di non aver
bisogno di chiedere aiuto, negando la sofferenza depressiva e la dipendenza interna dagli oggetti
d’amore. Chiederà aiuto solo in età adulta quando accrescerà il senso di frustrazione delle proprie
gratificazioni e aspirazioni narcisistiche, dove incontrerà la propria depressione interna.
Mentre il carattere dell’adolescente isolato, ovvero quello che sembra non soffrire affatto della
propria condizione d’isolamento, è il genere di carattere schizoide che sembra ritenersi
autosufficiente, che non sente il bisogno di nessuno. È un adolescente con il quale è molto difficile
lavorare ed entrare in rapporto, proprio per il senso di grandiosità nascosto, che lo porta a non sentire
dolore e a negare il bisogno d’aiuto.
Mentre il tipo dell’adolescente che soffre è quello più sano. È l’adolescente che è consapevole della
difficoltà della crescita, che non nega il bisogno di dipendenza e che invece chiede il soccorso di un
adulto competente, che lo aiuti non tanto a mettere ordine nel suo mondo interno, quanto a percorrere
quella strada verso l’età adulta che gli è già chiara, anche se da solo non ha la forza di portarla avanti
fino in fondo.
Lavorando con questi adolescenti li si porta ad individuarsi come soggetto avente una mente e un
pensiero propri e autonomi [a detta da Cahn]. Per Meltrez il pensiero autonomo è il pensiero di quella
mente che è in grado di vivere esperienze emotive degne del nome, in contrasto con le pressioni di
gruppo patologiche incentrate sul conformismo e sull’adattamento sociale a una struttura di falsi
valori collettivi, che oggi individuiamo nel dilagare del Narciso patologico.
Siamo difronte ad un lavoro difficile, perché il compito è quello di raccogliere i cocci dello scompenso
psichico avvenuto, per aiutare l’adolescente a trovare un nuovo equilibrio. Si tratta per il ragazzo di
riscoprire la fiducia nel futuro e nella possibilità di avere una vita meritevole di essere vissuta, nella
quale coltivare la speranza che i propri desideri e le proprie aspirazioni autentiche si possano
realizzare, ritrovando sé stessi e il proprio vero se.
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disperazione disarmante, per un fallimento sociale ed esistenziale che può apparire a tratti come una
prigione senza vie d’uscita.
Le nuove dipendenze (videogiochi, social network, pornografia) disponibili in dosi massicce,
sembrano produrre conseguenze negative in molte e diverse direzioni. Si rischia di perdere il contatto
con la realtà. Quello che preoccupa di più non è la visualizzazione di materiale pornografico, ma il
sadismo, la violenza e crudeltà di queste immagini. Si tratta di materiali sempre più perversi, Ciò lenti
e mortiferi, che finisce per invadere il campo delle fantasie di chi l’adolescente si nutre e rischiano
d’infiltrarsi potenzialmente nella sessualità nei rapporti di coppia realmente sperimentati. Il
messaggio che ne deriva sembra quello di una concretezza della realtà psichica tale da sconfinare
nella psicosi o nella psicopatia
Si arriva al paradosso che gli adolescenti di oggi hanno la pornografia come modello pedagogico di
riferimento per come deve compiersi e svolgersi un atto sessuale e ciò naturalmente non è un bene,
per la quota d’aggressività e potenzialmente d’assuefazione alla sessualità che la pornografia
inevitabilmente veicola.
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inconscia come ostaggio dei propri genitori, provocherebbe un breakdown evolutivo o scompenso
psichico, tale da riverberarsi a valanga su una serie di sintomi e conseguenze infauste n tutta la fase
adolescenziale.
Una considerazione della depressione in adolescenza è cruciale, perché tutta questa fase evolutiva è
caratterizzata da un lutto collegato a una perdita. Con la pubertà muore infatti la rappresentazione di
sé infantile, che chiama in causa il precedente vissuto di rapporto idealizzato con i genitori. Per andare
avanti nella crescita, il ragazzo deve dismettere i panni di una serie di rappresentazioni di sé, per
accogliere altre, in parte già adulte in parte tipicamente adolescenziali.
Un ruolo fondamentale in questo processo è legato al rapporto con i coetanei e alla rappresentazione
del futuro. Se tale rapporto non è buono e la rappresentazione del futuro negativa è a tinte fosche, con
più difficoltà sarà possibile elaborare il lutto per quanto di idealizzato si perde del precedente periodo
infantile. Molto importante è anche il rapporto con i genitori; perché se l’infanzia è stata caratterizzata
da aspetti troppo aggressivi, persecutori e ambivalente possono portare ad un cortocircuito o ad uno
scompenso psichico.
Per scompenso psichico Martinetti intende una frattura del senso di continuità del sé, la rottura della
coesione strutturale, con l’emergere di un’ampia sintomatologia, ma soprattutto di un’angoscia a fior
di pelle, che non viene cioè riassorbito dalla struttura psichica, ma che è sempre la pronta a risalire in
superficie, ponendosi alla base di un’inevitabile confusione a livello psichico. Nei casi più gravi,
seguendo L’idea di Wilfred Bion, si chiama “disastro”, vale a dire un evento cerniera nella realtà
interna, che ha creato una profonda lacerazione e una falda nella struttura psichica, che impone un
lavoro di riparazione. È necessario che l’intervento d’aiuto sia immediato. Tale soccorso richiede
l’aiuto di uno psichiatra (per un intervento farmacologico), uno psicoterapeuta (per un trattamento
psicologico) e un educatore (per creare una relazione tra adolescente, genitori, specialisti e scuola).
L’adolescente non tollera la pensa depressiva, non accetta di essere depresso e vira pericolosamente
verso l’onnipotenza, con la fantasia di essere autosufficiente e di negare la dipendenza dagli oggetti
amati, rifugiandosi in una segreta o manifesta megalomania. Un’altra strada può essere l’emergere di
una rabbia furibonda e pericolosamente agita, proprio nei confronti dei genitori. Una terza condizione
è quella di uno stallo nella depressione, ovvero l’adolescente si rende conto di essere depresso e
appare rassegnato alla persistenza in questa condizione.
Il tempo aiuta a curare questo stato emotivo; l’educatore deve accompagnare l’adolescente in questo
processo, sostenerlo, mostrargli la via, aiutarlo a non perder la speranza e la fiducia che piano piano
egli possa riparare lo scompenso psichico.
Una chiave di volta è data da una ritrovata capacità di sentire; fare investimenti affettivi e riscoprire
il piacer per qualcosa che appassiona. Una volta innescato questo processo, per Meltrez, l’adolescente
diventa un vero e proprio adulto, una persona diversa, temperata si dal dolore mentale, ma capace di
assumersi delle responsabilità di un individuo maturo.
Collegato a quello della depressione è il tema del suicidio in adolescenza. Per il ragazzo scompensato
il suicidio può avere una naturale e quasi facile chiave di lettura. Dopo essere stato nell’imbuto della
depressione e dello scompenso psichico, l’adolescente perviene al suicidio come per liberarsi da un
dolore psichico insopportabile. La fantasia può essere quella di morire per rinascere in una nuova
vita, dove sarà possibile fare bene i propri compiti evolutivi.
È evidente che questo rappresenta un caso estremo e disperato. In verità non tutti i ragazzi che
formulano fantasie di suicidio si trovano a un livello di funzionamento caratterizzato dal grave
scompenso psichico.
L’adolescente è meno tollerante rispetto al l’adulto nei confronti del dolore psichico. L’adolescenza
si caratterizza spesso per un dolore intenso e acuto, che emerge alla coscienza come una mazzata.
Ecco che a quel punto l’unica strada percorribile può essere quella di togliersi la vita.
Pietro polli Charmet faceva notare come la profonda umiliazione subita tra i pari può essere un potente
motivatore di tentativi di suicidio (come per omosessualità, vittime di bullismo).
Nel lavoro clinico con l’adolescente del suicidio si deve parlare il meno possibile. Perché se parlato
in continuazione può esercitare sul soggetto un’attrazione, come lo scompenso psicotico. Solo quando
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il giovane avrà percorso un importante pezzo di strada sulla via della guarigione e dell’elaborazione
del dolore psichico, allora diverrà possibile parlare di qualcosa di brutale che si è portati alle spalle.
I comportamenti autolesivi
Per questo tipo di comportamenti i clinici sono concordi nel ricondurre queste manifestazioni al
disturbo borderline di personalità. Questa ha nella dispersione dell’identità un suo tratto patologico
centrale, che di per sé tende a collegare le origini del disturbo a un legame stretto con l’adolescenza;
epoca nel ciclo di vita nel quale il concetto d’identità assume un Rolo essenziale.
Rossi Monti e D’Agostino hanno fatto notare come l’autolesionismo abbia origini storiche (come il
macchiarsi a fuoco la pelle, autopunizione o la flagellazione). Esso rappresenterebbe una pratica dai
contorni sfumati, nella quale rientrano comportamenti e linee di condotta più o meno socialmente
tollerati e incentivati, e ad oggi diventate moda.
Nei comportamenti autolesivi infatti possiamo riscontrare il body painting, i tatuaggi, i piercing,
quanto agiti patologici a tinte anche più fosche e macabre, come tagliarsi il corpo con lamette e
forbici, per provare dolore e contemplare ad esempio il sangue che esce dal corpo e dalle vene.
Rossi Monti e D’Agostino individuano diversi significati e indicatori dei comportamenti autolesivi,
riconducibili al disturbo borderline; inteso non come un’organizzazione di personalità ad ampio
spettro, quanto un disturbo di personalità specifico che s’individua in una triade di elementi:
impulsività, instabilità affettiva e disperazione dell’identità.
Il significato centrale del comportamento autolesivi rimane quello, già individuato da Otto Kernberg,
di controllare un dolore psichico, convertendo il dolore fisico in un piacere sadomasochistico
erotizzato, recuperando il soggetto un ruolo attivo di fronte a un trauma subito dall’infanzia e mai del
tutto elaborato e superato.
Più nello specifico, secondo Rossi Monti e D’Agostino, l’atto autolesivi può concretizzare uno stato
psichico in uno fisico per riempire un vuoto interiore angosciante. Può donare la sensazione di
purificazione da uno stato di peccato e di sporcizia del sé, da cui il soggetto può avvertire così di
lavare le ferite. Può fungere da equilibratore e controllo da uno stato di disforia cronico, ricercando
un’esperienza che fa, almeno momentaneamente, sentirsi vivi.
Attuarsi nei giovani può rappresentare una moda, per uniformarsi e amalgamarsi nel gruppo dei
coetanei.
È evidente che ci sia bisogno di una vera e propria pedagogia del comportamento autolesivo. I giovani
d’oggi, invece che abbandonarsi a quello che suona come un tipico acting out, dalle conseguenze
dolorose per l’equilibrio psichico, dovrebbero essere a conoscenza dei rischi che concorrono. Ma per
fare questo, l’area della cura del corpo dell’adolescente dovrebbe essere presidiata dal mondo degli
adulti, anche se in un modo non punitivo e non coercitivo, ma capace di benevola comprensione e
lungimiranza, doti di ascolto e umile consiglio e accoglimento del dolore psichico.
Adolescenza e bullismo
Il bullismo insorge dall’infanzia e negli anni dell’adolescenza ha un picco d’incidenza cruciale, che
si diffonde in forme di violenza, abuso e sopraffazione. Ad oggi chi tende ad essere diverso viene
sempre più offeso, escluso, marginalizzato, attraverso il dileggio e la presa in giro. Per questi motivi
il bullismo esprime una grave violazione dei diritti umani.
Il bullismo può essere concepito come una patologia relazionale e in modo particolare la forma con
cui si manifestano le dinamiche di umiliazione nelle relazioni tra pari in età evolutiva.
L’inquadramento del bullismo conduce ad una triade di elementi: intenzionalità, asimmetria di potere
tra bullo e vittima e reiterazione. Nell’approccio psicodinamico vediamo che il bullismo riflette
sempre dalla parte del bullo uno stato mentale narcisistico, in virtù del quale esso si esplica nella
volontà di umiliare una vittima, per difendersi ed esprimere nello stesso tempo le conseguenze di un
attacco invidioso. In secondo luogo, sempre in una cornice psicodinamica, sia la vittima che il bullo
sono due bambini/adolescenti abusati entro le mura della famiglia d’origine, che riattualizzano una
forma d’abuso subito secondo ruoli precisi, come a volte intercambiabili. Il bullo è un bambino
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invidioso dei sentimenti buoni che la vittima prova e che egli sente di avere come ucciso dentro di sé,
essendo dunque votato a una vendetta e a una rivalsa.
La vittima non riesci a liberarsi del bullo perché in lui un’imago paterna, materna o una combinazione
delle due; una figura genitoriale che ammira e seduce e nello stesso tempo frustra, manipola, maltratta,
a causa della propria invidia verso le qualità emotive del figlio.
In questo senso il bullismo funziona come una perversione relazionale che dimostra aspetti di
somiglianza con le forme d’abuso nei rapporti di coppia, dove c’è una donna che subisce una violenza
sessuale dal compagno, perché regredendo nel ruolo di vittima, dal punto di visa del suo
funzionamento emotivo, non riesce di fatto a trovare la forza di ribellarsi all’uomo che esercita
l’abuso. Trovare questa forza significherebbe attraversare la fantasia di liberare dentro se stessi una
quota tale d’aggressività è di sentimento di rivalsa, che ha una chiara radice nell’infanzia e in una
lunga storia di violenze subite, a tal punto da determinare il rischio di uno scompenso e una rottura
della propria struttura psichica.
Venendo al bullismo adolescenziale nella società di oggi possiamo identificare una vera e propria
sindrome definita da dei tratti precisi, ascrivibili al narcisismo, ovvero grandiosità, individualismo e
al contempo adesione Acritica alle norme del gruppo, dipendenza dall’ammirazione degli altri, ricerca
del benessere edonistico, spirito di competizione esasperato e deficit di empatia, di solidarietà sociale
e di vicinanza emotiva nei confronti di chi soffre.
Questo tipo di personalità descritto da Adorno può essere in alternativa designato come
“neoliberista”, esalta al massimo i principi della difesa della proprietà privata e del libero mercato, si
è reso portatore fin dai primi anni ’80 di un messaggio sociale edonistico, quanto mai distante dai
valori dell’uguaglianza sociale e della solidarietà. In questa prospettiva, il bullismo, rappresenta
l’aspetto patologico più rilevante di una tendenza collettiva giovanile volta a dispensare esclusione
sociale e a infliggere e somministrare prevaricazione e sofferenza, particolarmente ai danni di quei
coetanei più indifesi, problematici o semplicemente tali da non incarnare l’ideale simbolico del
successo e del potere.
Per gli studiosi per intervenire in questi casi è molto importante l’ambito della scuola e un approccio
integrato a diversi livelli. Questo ruolo è affidato a specifici educatori ma anche insegnanti, i quali
possono rivestire una funzione educativa che ricorda quella genitoriale. Quindi sarebbe utile costruire
un osservatorio permanente di monitoraggio e contrasto del fenomeno, che responsabilizzare gli
allievi attraverso l'informazione e la spiegazione del fenomeno.
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