Sei sulla pagina 1di 21

Ragazzi difficili: pedagogia

interpretativa e linee di
intervento
Pedagogia
Università degli Studi di Verona (UNIVR)
20 pag.

Document shared on https://www.docsity.com/it/ragazzi-difficili-pedagogia-interpretativa-e-linee-di-intervento/9665578/


Downloaded by: Cricetoobesi (C.ambrosoni1@studenti.unibg.it)
RAGAZZI DIFFICILI

PEDAGOGIA INTERPRETATIVA E LINEE DI INTERVENTO


Piero Bertolini, Letizia Caronia

COME “FARE EDUCAZIONE”? ATTUALITÀ DI UN APPROCCIO METODOLOGICO

Proporre un modello ( = un insieme di linee fondamentali che sostengono ogni concreto intervento rieducativo) non
significa stabilire una tabella di marcia rigida, la quale ha delle tappe e delle sequenze obbligatorie e che devono essere
percorse tutte e in un determinato modo, MA è un sistema aperto che deve essere assolutamente flessibile.
Non vi è quindi una ricetta educativa da seguire passo per passo in campo educativo, ma si tratta di metodologie
flessibili che tengono conto della concretezza e della unicità delle situazioni in cui gli educatori dovranno lavorare.
Ciò che è inoltre necessario è l’uso di creatività per far sì che l’esperienza educativa sia significativa per chi la vive e nei
contesti in cui essa accade. Il lavoro educativo, inoltre, richiede di essere continuamente reinventato e messo alla prova
e l’educatore deve essere capace di stare nell’incertezza e di aiutare i ragazzi difficili, i quali devono essere considerati
soggetti possibili.
La finalità del lavoro educativo NON è di modificare i comportamenti delle persone, cercando di riadattarli a quella che
da un determinato contesto sociale è considerata “normalità”, ma portarle ad ampliare la loro visione del mondo,
provocare un ripensamento. E’ necessario andare oltre agli stereotipi che si tende ad avere riguardo i comportamenti dei
ragazzi: visti come soggetti privi di valori e di entusiasmo, iperattivi o depressi, bulli o vittime, apatici e narcisisti al
tempo stesso, nonché accaniti consumatori. Bisogna far sì che queste precomprensioni, che questi pregiudizi e
categorizzazioni siano messi in discussioni, cosa che viene fatta dagli autori di questo libro. Gli autori propongono un
modello metodologico che prima di tutto tenga insieme conoscenza e azione; ma non si tratta semplicemente di
connettere il conoscere e l’agire e viceversa, ma di pensarli quali elementi sempre presenti e sempre intrecciati, il
conoscere implica sempre la necessità di mettere in atto azioni specifiche e l’agire esige un’interrogazione continua sul
significato di quanto si sta vivendo in una data situazione, un ampliamento della conoscenza dell’educatore.
Chi educa deve assumere una posizione entropatica tale da comprendere la visione del mondo dell’altro mantenendo
ruolo e asimmetria relazionale, significa agire in équipe e andare oltre categorizzazione e pregiudizi, significa interrogarsi
costantemente su quanto succede nelle situazioni educative, monitorare costantemente le proprie reazioni, pensieri,
sentimenti, dinamiche affettive che vi sono in gioco. Chi educa deve saper vivere le esperienze educative fino in fondo,
non tanto per raggiungere scopi ed obiettivi, quanto per far sì che i ragazzi imparino altro: altro modo di sentire,
pensare, pensarsi, stare con gli altri, ecc.
Gli educatori non possono improvvisare, ma devono pensare a come e cosa proporre e saperlo modificare in corso
d’opera. Gli educatori devono saper credere a quello che fanno. Il lavoro educativo è descritto dagli autori di questo
libro come una continua introduzione dei ragazzi in esperienze che li coinvolgano e che segnino una sorta di
discontinuità rispetto a quanto vissuto in precedenza, ovvero: cercare di creare un cambiamento del loro contesto
quotidiano, far sperimentare loro qualcosa di differente rispetto alla vita che conducono a casa, qualcosa che li scuota
rispetto al loro abituale modo di agire, pensare, dare significato, far loro sperimentare la possibilità di vivere altrimenti
coinvolgerli in attività altre ed in esperienze altre, verso altri bisogni, desideri, contesti, relazioni; creare uno spazio per
sperimentarsi, scoprire da sé i propri desideri, i propri limiti, capacità, potenzialità.
Metafora del teatro → l’educatore è regista e attore nello stesso tempo, si trova sia dentro che fuori dal processo, in un
costante andirivieni tra queste due posizioni. Educa tramite un’esperienza che fa vivere, ma lui stesso fa parte di questa
esperienza. Il coinvolgimento dell’educatore è condizione necessaria per la riuscita di un progetto educativo.
Chi educa deve essere presente in modo autentico, fino in fondo.
“Ragazzi difficili” → uscire dai pregiudizi, dai preconcetti e dalle categorizzazioni, secondo gli autori questi ragazzi non
sono così (ovvero ad esempio delinquenti piuttosto che devianti), ma diventano così e di conseguenza possono anche
imparare ad essere diversi. L’educazione è difficile perché i ragazzi sono difficili, ma soprattutto perché è un’esperienza
complessa: avventurosa sì, entusiasmante sì, ma assolutamente difficile e che mette fortemente alla prova.

CAPITOLO 1 - I RAGAZZI DIFFICILI

Sono considerati “Ragazzi difficili” coloro che tendono ad avere un comportamento, il quale si discosta da un certo
modello condiviso di competenza sociale e che per questo marcano la diversità di chi li compie rispetto agli altri.
Ma ciò che è culturalmente percepito come comportamento adeguato è un parametro instabile, che tende a cambiare in
base alla storia, alla cultura. Vi è, in genere, alla base di questi ragazzi, la percezione di un problema, di qualcosa che
devia rispetto all’immagine-norma dell’adolescente e della sua vita; considerati come ragazzi la cui vita è costellata da

Document shared on https://www.docsity.com/it/ragazzi-difficili-pedagogia-interpretativa-e-linee-di-intervento/9665578/


Downloaded by: Cricetoobesi (C.ambrosoni1@studenti.unibg.it)
ostacoli che sono tali per loro che fanno sì che essi siano considerati difficili dagli altri; i ragazzi difficili sono infatti, in
primo luogo, quelli che vengono percepiti come tali. I loro comportamenti ed i loro atteggiamenti sono quindi considerati
inadeguati. Detto così, sembrerebbe che quest’area comprenda un numerosissimo numero di ragazzi, una categoria
molto vasta, ma non è così; il termine “difficile” qui è inteso in senso forte e squisitamente pedagogico: esso va ad
indicare quelle condizioni in cui la soglia della problematicità viene superata provocando difficoltà tali da rendere
necessaria una strategia di intervento.

Categorie di minori considerati destinatari di interventi rieducativi (accomunati dalla difficoltà a percepirsi come
soggetto):

● Ragazzi a rischio: ragazzi che vivono in situazioni caratterizzate da carenze di ordine materiale o relazionale;
vivono in povertà, insicurezza economica, disagio abitativo, in cui il contesto sociale è molto degradato; figure
adulte di riferimento poco adeguate, modelli di comportamento che tendono alla devianza.
Qui si mira soprattutto ad interventi preventivi, poiché il futuro del ragazzo può essere a rischio.
L’intervento educativo si fonda in prima istanza sulla necessità di costruire intorno al minore un contesto adeguato
dal punto di vista educativo e di risolvere il disagio presente; poi si cerca di intervenire per evitare che si verifichi
uno sviluppo deviante.
● Ragazzi disadattati: il luogo della difficoltà qui non è più individuato nel contesto di vita del minore, ma nel suo
assumere atteggiamenti o comportamenti più o meno disadattivi. Sono ragazzi che, in risposta a situazioni
dolorose o critiche o a condizioni di vita educativamente hanno atteggiamenti lesivi di sé o del contesto in cui
vivono, comportamenti definibili come irregolari.
● Ragazzi delinquenti: quei minori che hanno infranto le norme del codice penale e che vengono per questo definiti
tali. Sono omologabili alle altre categorie di “ragazzi difficili” in quanto, anche in questo caso, vi è una reazione che
sì è illegale, ma soggettiva a esperienze di vita; cioè: scelgono di agire in modo antisociale, ma questo è indice di
un maggior stato di tensione, di una difficoltà molto profonda nel processo di costruzione di sé; molto spesso il
reato è un mezzo per soddisfare i bisogni (di partecipazione, indipendenza, sicurezza, autostima, significatività) di
questi ragazzi, i quali hanno forti carenze relative alla loro formazione.

Cosa bisogna sapere?

● Dietro ad un agire, anche se è anti-sociale, vi è sempre un soggetto con le sue spesso idiosincratiche (= che crea
avversione) motivazioni.
● È necessario uno sguardo capace di cogliere l’intrinseca complessità di ogni singolo caso (ognuno diverso
dall’altro): bisogna essere capace di ricostruire non solo un’azione, ma anche il significato di quella azione per chi
ne è coinvolto.

CAPITOLO 2 - DEVIANZA MINORILE E PARADIGMI POSITIVISTI

Esigenza di spiegare il significato del fenomeno del disadattamento minorile si è tradizionalmente sviluppata all’interno
di un paradigma eziologico; pratiche che nascono dalla ricerca di un nesso causale che spieghi il fenomeno sociale
della devianza.

-Ai tempi di Lombroso (medico, antropologo, sociologo e giurista italiano, fine 1800 e inizio 1900) vi era il tentativo di
individuare fattori eziologici di ordine biologico all’interno del fenomeno della devianza (ricerca che ancora oggi
avviene). E’ tuttavia possibile che fattori di origine biologica possano (in casi molto particolari) rivelarsi responsabili di
comportamenti devianti, ma non può essere così in assoluto.
La componente biologica non può essere considerata la causa generalizzabile dei comportamenti devianti.
Le teorie di Lombroso si basavano sul concetto del criminale per nascita, secondo cui l'origine del comportamento
criminale era insita nelle caratteristiche anatomiche del criminale, persona fisicamente differente dall'uomo normale in
quanto dotata di anomalie e atavismi, che ne determinavano il comportamento socialmente deviante.
Di conseguenza, secondo lui l'inclinazione al crimine era una patologia ereditaria e l'unico approccio utile nei confronti
del criminale era quello clinico-terapeutico. Solo nell'ultima parte della sua vita Lombroso prese in considerazione anche
i fattori ambientali, educativi e sociali come concorrenti a quelli fisici nella determinazione del comportamento criminale.

- Paradigma di tipo psicologico e psichiatrico focalizza sull’individuo la ricerca delle cause del suo comportamento
antisociale; qui però, a differenza dell’approccio precedente, l’attenzione si sposta sui tratti della personalità o del
carattere. Vengono individuati alcuni tratti specifici e costanti della personalità che sono associati al comportamento
deviante: l’immaturità, l’anaffettività, la punitività, la debole strutturazione dell’Io, l’aggressività sono state considerate

Document shared on https://www.docsity.com/it/ragazzi-difficili-pedagogia-interpretativa-e-linee-di-intervento/9665578/


Downloaded by: Cricetoobesi (C.ambrosoni1@studenti.unibg.it)
cause determinanti del comportamento antisociale. Ma ad esempio non tutte le personalità immature mettono in atto
comportamenti antisociali e non tutti i comportamenti antisociali sono messi in atto da persone immature e così via.

-Vi sono anche studi che hanno preso in considerazione il contesto familiare del soggetto per spiegare quelle
dinamiche e quelle condizioni associabili a forme di azione antisociale.
Esempi: assenza di cure materne, madri possessive, stili educativi lassisti piuttosto che severi, ecc.
Anche se è possibile riscontrare statisticamente una incidenza significativa di questi fattori tra quei giovani definiti
delinquenti, resta il fatto che non tutti i giovani che vivono in analoghe situazioni familiari passano all’atto antisociale.
Cioè: non vi è un passaggio automatico e obbligato. Certamente i ragazzi con serie difficoltà familiari, o privi di figure di
riferimento normativo e valoriale, che vivono condizioni di svantaggio economico e sociale, o che appartengono a
gruppi con tendenze antisociali, corrono il rischio di una crisi adolescenziale di più difficile risoluzione rispetto a quella
degli altri coetanei. Il passaggio da una situazione di disagio individuale, ad una di devianza non è dunque così
automatico, come potrebbe sembrare a prima vista.

- Il paradigma sociale comprende tutte quelle teorie che rintracciano nella società (disorganizzata e non perfettamente
funzionale) la causa della devianza. Il comportamento deviante è visto quindi come il risultato delle pressioni anomiche
(si parte dal concetto di “anomia” di Durkheim stato di dissonanza tra le aspettative normative e la realtà vissuta; perdita
di pregnanza delle norme sociali, esse non controllano più le attività dei cittadini, non ci sono più regole!) e
contraddittorie della società. Le società urbane ed industriali non consentirebbero un uguale accesso ai mezzi da parte
dei membri; la devianza rappresenterebbe l’unico modo per alcune classi per accedere a date mete.
Anche questa teoria non è sufficiente a spiegare la genesi di comportamenti devianti. Merton sostiene che i soggetti
appartenenti a certi gruppi sociali trovano difficoltà nell'accedere alle mete (promesse teoricamente a tutti), utilizzando
norme sociali condivise. La marginalità va ricercata nel disagio causato dall'impossibilità di certi individui di trovare i
mezzi adatti al raggiungimento dei fini condivisi dalla società. La spinta alla delinquenza è proporzionale alla
discrepanza tra aspirazioni e mezzi per raggiungerle, e a soffrire di più questo tipo di pressione sono i più poveri: ne
deriva che la devianza sarebbe un fenomeno tipico delle classi sociali inferiori poiché sono esse a subire maggiormente
il disagio dello scarto tra mete e mezzi.

- Devianza come costruzione sociale deriva dalla prospettiva costruzionista, che considera la realtà come
costruzione sociale, cioè la realtà sociale è il risultato di processi che coinvolgono diversi attori sociali, i quali mettono in
campo, più o meno consapevolmente, le loro risorse, i loro interessi e le loro identità, innescando dinamiche più o meno
complesse di trasformazione sociale. In questo senso la devianza designa l’insieme delle situazioni socialmente definite
e trattate come illegali, non conformi, non convenzionali. Sia l’approccio costruzionista, sia quello interazionista (la
prospettiva interazionista ritiene che il comportamento e le esperienze personali derivino dalle reciproche influenze dei
fattori individuali e situazionali) sono state le prime a riconoscere il consenso del deviante, cioè della sua volontà, mentre
le teorie antecedenti spiegavano la devianza alla luce di forze esterne al soggetto.

Viene quindi abbandonato pian piano il tradizionale paradigma eziologico riguardo la devianza, in favore di una nuova
attenzione agli scambi comunicativi e alle interazioni simboliche che si stabiliscono tra i diversi attori sociali.
Questo ha portato ad una nuova modalità di intendere il fenomeno, trasformandone la sua natura comportamento
deviante non più come una permanente configurazione di cause, ma come frutto di un insieme di interazioni
simboliche e pratiche soggettive situazionate: si tratta di indirizzare la riflessione verso la ricerca del contributo
soggettivo nella costruzione della devianza; viene dunque preso in considerazione anche il soggetto) ed il suo contributo
in quanto conferisce significato agli eventi che lo circondano, stabilisce gli scopi del suo agire, individua i nessi che lo
rendono legittimabile.

[Le teorie di tendenza positivista (psicofisiche) "concepiscono la disuguaglianza, la povertà e l'emarginazione come
fenomeni collegati a fattori naturali, conseguenze di cause ereditarie e di degradazione umana. Possiamo mettere in
risalto la teoria degli elitisti, che secondo lo stile darwiniano considera l'emarginazione come valore in quanto seleziona i
più capaci dagli altri. Il marginale va ritrovato "nel criminale, l'uomo selvaggio e insieme l'ammalato" (Lombroso), le cui
tracce caratteriali e comportamentali dimostrano, tra altro, l'uso del tatuaggio, una diminuita sensibilità al dolore, una
grande acuità visiva, il mancinismo, il carattere atavico, la grande insensibilità morale e affettiva, le passioni (alcool,
gioco, libidine, vanità) ecc. Tale prospettiva ha valore esplicativo del modo in cui spesso, ancora oggi, segmenti della
società interpretano il fenomeno della marginalità. I miserabili, i malati di aids, i drogati, i ragazzi di strada sono
identificati ed etichettati come "marginali" (nel senso morale e medico).]

Document shared on https://www.docsity.com/it/ragazzi-difficili-pedagogia-interpretativa-e-linee-di-intervento/9665578/


Downloaded by: Cricetoobesi (C.ambrosoni1@studenti.unibg.it)
[La tendenza interazionista → Marginalità e devianza sono un costrutto sociale che avviene in un processo interattivo al
quale prendono parte quattro elementi: il soggetto che compie l'atto deviante, la norma che lo sancisce, la reazione
sociale e il controllo sociale. Più che l'azione deviante in sé, viene considerato il significato che essa assume da parte
dell'individuo che la compie, e da parte del senso comune che la percepisce.
La "prospettiva interazionista" indaga sulla formazione del sé dell'individuo quando affronta la reazione di
stigmatizzazione da parte della società: l'assunzione della propria differenza lo costringe ad interiorizzare un concetto di
sé come deviante in consonanza con le aspettative di ruolo provenienti dalla società.
Di qui proviene l'accettazione passiva della marginalità in quanto assume le aspettative del controllo sociale: la devianza
è il modo che il soggetto trova per comunicare il nuovo ruolo che gli viene assegnato dalla società.
L'interazionismo è stata la prima prospettiva a studiare il "processo secondo il quale si diventa deviante".
Le teorie anteriori erano piuttosto preoccupate nello spiegare tale comportamento come causato da forze esterne al
soggetto. L'interazionismo riconosce il consenso del deviante, cioè la sua volontà libera e questo riconoscimento
permette di spiegare il processo secondo il quale il soggetto, in associazione con gli altri (interazione) apprende e
interiorizza norme diverse da quelle convenzionali. L'interazionismo si è ispirato all''utilitarismo, ma le origini della teoria
risalgono alla ricerca di due autori: George Herbert Mead (1863-1931) e Charles H. Cooley (1864-1929).
Gli autori hanno studiato a livello micro-sociale il processo sociale della formazione dell'auto-concetto, della
socializzazione e dell'interazione.
Mentre le teorie macro-sociologiche sono preoccupate di scoprire l'effetto delle strutture sociali sui singoli individui e
gruppi, quelle micro-sociologiche, come la teoria che stiamo studiando, partono dai processi interattivi che intercorrono
tra i singoli soggetti per poi spiegare il loro rapporto con le strutture sociali. Il processo di socializzazione secondo gli
autori sopra citati spiega come i soggetti imparano i significati, i valori, le regole e le norme attraverso l'interazione con
gli altri. Mead distingue i componenti del processo di socializzazione come un dialogo tra il sé (soggettivo) e il me
(oggettivo). Il me rappresenta l'altro generalizzato e funziona come un "deposito" di informazioni riguardanti le norme
sociali. Il self si sviluppa grazie al confronto con gli altri. In altre parole, è come se guardassimo allo specchio e invece di
vedere noi stessi vedessimo quello che (immaginiamo) gli altri pensano di noi. Immaginiamo come siamo rappresentati
dagli altri e sentiamo orgoglio o vergogna di noi stessi, sentimenti che influenzano l'auto-stima e l'autoconcetto.
Lemert, nella "teoria dello stigma", distingue tra devianza primaria (allontanamento occasionale e non significativo dalla
norma, senza serie conseguenze) e devianza secondaria (strutturazione del comportamento deviante in base a un
processo in cui il soggetto interiorizza un'identità negativa motivata dalla reazione sociale ai suoi comportamenti).
D. Matza sviluppa tale teoria, approfondendo il processo secondo il quale il soggetto diventa deviante; egli distingue tre
tappe, graduali e integrate, di questo processo: l'affinità, o la percezione da parte del soggetto di una inclinazione tra
disagi e condizione sociale; l'affiliazione, o l'aderenza al modello deviante come soluzione per l'assunzione di
un'identità attribuitagli dallo stigma; la stigmatizzazione da parte della società che lo considera e lo tratta come
deviante. Tale processo è graduale, crescente e integrato, e si mostra più probabile all'interno delle condizioni di disagio
e di marginalità.]

Il termine “contributo soggettivo” si riferisce a quella capacità del soggetto, il quale non appare mai globalmente
determinato da pressioni e costrizioni a lui esterne, di investire di senso il reale. Un comportamento antisociale non si
configura solo come puro esito di un insieme di motivi causali, nonostante resti comunque pertinente l’attenzione alle
condizioni reali di vita del soggetto: esse sono quei dati di realtà ai quali l’individuo ha dato dei significati, elaborando
una determinata visione del mondo. Se, pertanto, tale processo di elaborazione porta il ragazzo ad assumere
comportamenti devianti, allora è necessario partire da questo, per individuare un percorso mirato per provocare un
cambiamento stabile e duraturo (non tanto nel comportamento del ragazzo, ma piuttosto nella sua visione del mondo).

CAPITOLO 3 - IL PARADIGMA FENOMENOLOGICO

Senso oggettivo e senso soggettivo

Il comportamento deviante è sempre parte di un tutto complesso e originale, cioè il soggetto.

Cosa significa? Significa che, per comprendere realmente il senso di quel comportamento, bisogna reimmergerlo nel
tutto, in modo che la parte diventi intelligibile. Bisogna guardare il ragazzo nella sua totalità: solo così avremo gli indizi
per comprendere il suo comportamento. Il senso oggettivo è costruito dall’osservatore e rischia di non corrispondere al
senso soggettivo, cioè quel nesso che il soggetto sente significativo per lui. Bisogna recuperare il “postulato
dell’adeguatezza” ogni diagnosi, cioè ogni interpretazione di un comportamento anti-sociale che è proposta
dall’osservatore deve essere compatibile con quella proposta da chi quel comportamento ha prodotto.

Document shared on https://www.docsity.com/it/ragazzi-difficili-pedagogia-interpretativa-e-linee-di-intervento/9665578/


Downloaded by: Cricetoobesi (C.ambrosoni1@studenti.unibg.it)
E’ necessaria una negoziazione continua tra senso oggettivo e senso soggettivo altrimenti si rischia di costruire mondi
fittizi. Se vengono proposte interpretazioni che non sono orientate verso l’utente e che non lo tengono in considerazione
nella sua globalità, la prassi educativa tende a fallire e a non far presa su di lui.
E’ necessario tenere in considerazione il punto di vista del soggetto, il significato che egli attribuisce a il comportamento
che mette in atto.

La realtà assume il significato che ciascun soggetto le presta; il soggetto costruisce delle rappresentazioni sensate del
mondo e la realtà risulta essere un’unità funzionale, un “esserci” in cui soggetto e oggetto si costruiscono in modo
reciproco, sono in continua relazione.

• Attribuire significato al mondo nell’interazione con il mondo, il soggetto ne individua alcune porzioni, alle quali dà
valore, significato. La realtà non è imposta al soggetto, non preme su di lui, ma attende che il soggetto stesso dia ad
essa una determinata definizione in modo da essere significativa. Dunque, la soggettività umana, quale coscienza
intenzionale, si rapporta alla realtà, dandole un significato e un valore. Questo processo di costruzione di un
mondo-per-sé (che non è mai concluso) fa sì che ogni individuo si costruisca una propria e personale visione del
mondo, MA NON si consuma in una visione solipsistica (termine che si riferisce alla dottrina filosofica secondo cui
l’individuo pensante può affermare con certezza solo la propria esistenza), ovvero il soggetto non è nel mondo da solo,
è nel mondo con gli altri, i quali hanno analoghi percorsi soggettivi.

• Riconoscimento dell’Altro come alter ego, ossia come soggetto dotato (esattamente come me) di capacità
intenzionale, fa sì che la mia esperienza del mondo sia in qualche modo “oggettiva”, cioè? Affinché il mondo-per-sé non
appaia al soggetto come qualcosa di allucinatorio, come qualcosa che egli stesso si immagina, la sua visione del
mondo deve essere in qualche modo percepita come valida anche per l’altro, il quale, frequenta lo stesso mondo
naturale. Grazie quindi alle relazioni con altri soggetti rispetto al mondo, il mondo stesso risulta in qualche modo
oggettivo, quindi identico per tutti. Il fatto che la propria visione del mondo sia sentita come vera nasce dal suo essere
(anche se a volte solo in parte) condivisa da un altro, considerata da quest’ultimo come verosimile.
Ma il soggetto può anche discostarsi da una determinata interpretazione, rifiutarla e proporne una nuova.

La prima e più immediata forma di dipendenza è quella che lega il soggetto al suo corpo, strumento del suo incontro
con il mondo. Esso è il nostro primo punto di vista sul mondo, né scelto né costruito, ma dato al soggetto come inizio
della sua storia individuale. Ma non è uguale per tutti: ogni cultura elabora una propria visione del corpo e delle sue
attività; nel corpo ha inizio la genesi della soggettività.

Il corpo, non è l’unico vincolo da cui dipende la costruzione di una personale visione del mondo; è importante tenere in
considerazione anche la famiglia, l’ambiente sociale e culturale, il momento storico in cui la vita di un individuo ha inizio
e si svolge; il soggetto inizia la sua specifica attività intenzionale all’interno di un territorio dai confini già tracciati, in un
universo già circoscritto. Inoltre, la sua capacità di intenzionare, è vincolata dall’intenzionalità dell’Altro, con cui il
soggetto entra in relazione.

La pedagogia di Bertolini accredita i suoi presupposti e i suoi fondamenti dalla fenomenologia di Husserl, filosofo
tedesco dell’inizio del ‘900 e si caratterizza sia come momento di riflessione sulla pratica educativa, quindi come teoria,
sia come momento empirico, quindi strettamente collegata all’esperienza concreta e quotidiana.
Per una pedagogia del ragazzo difficile, nel quale Bertolini si richiama infatti tanto alla filosofia di Husserl, quanto alla
sua decennale esperienza (1958-1968) come direttore del “Beccaria”, il carcere minorile di Milano.

[Pedagogia fenomenologica e devianza minorile: i punti qualificanti di una pedagogia interpretativa e delle sue linee di
intervento. I concetti di intenzionalità, coscienza e coscienza intenzionale, nella fenomenologia di Husserl – e quindi
nella prospettiva pedagogica che ad essa si ispira – assumono un rilievo centrale e primario, poiché spiegano le
modalità costitutive del nostro essere-nel-mondo. Occorre perciò partire da qui. Nel linguaggio filosofico moderno, il
termine intenzionalità viene introdotto da Brentano, maestro di Husserl, che lo utilizza per designare la caratteristica
fondante dei fenomeni psichici, ovvero la loro direzione intenzionale; cosicché essi sono sempre da intendersi in
riferimento e/o in rapporto a qualche cosa. Husserl riprese il concetto di intenzionalità usato da Brentano nell’ambito
della psicologia descrittiva, ma, anziché limitarlo al campo dei fenomeni psichici, lo estese all’intero ambito della
coscienza, ampliando così il suo raggio di applicazione. La coscienza per Husserl è sempre coscienza di…; non esiste
cioè un’attività mentale cosciente senza qualcosa che si ponga come oggetto del pensiero e della coscienza.
In questo modo, ossia col richiamo agli atti intenzionali della coscienza, la fenomenologia afferma la centralità della
relazione (intersoggettività) nella costruzione dell’identità personale e delle rappresentazioni del mondo.

Document shared on https://www.docsity.com/it/ragazzi-difficili-pedagogia-interpretativa-e-linee-di-intervento/9665578/


Downloaded by: Cricetoobesi (C.ambrosoni1@studenti.unibg.it)
Tale processo è, in altre parole, ciò che permette all’individuo di costruirsi una personale visione del mondo, ovvero una
rappresentazione del reale per lui significativa. Una personale visione del mondo che, comunque, dovrà sempre fare i
conti con la visione del mondo delle altre soggettività, poiché, secondo la fenomenologia e la centralità che essa
attribuisce alla nozione di intersoggettività, la libertà individuale non è da intendere in senso assoluto, ma come libertà
condizionata dalla presenza dell’altro/degli altri. Il suo essere sempre coscienza di qualcosa definisce il nostro-essere
nel-mondo come rapporto io-mondo, dove il soggetto si caratterizza sempre come “apertura a” e l’oggetto come
“rivelantesi a”. Non si tratta però di “apertura” nei termini di semplice registrazione del mondo fenomenico (materiale ed
umano), bensì di significazione, in altre parole di attribuzione di senso e di significato da parte del soggetto, sulla base
dei suoi vissuti, via via esperiti nel tempo e costitutivi di una sua personale visione del mondo, mai data una volta per
tutte, e dunque mai immodificabile. La realtà assume così il significato che ciascun soggetto le attribuisce: il mondo
percepibile e il mondo rappresentato si offrono alla coscienza come dati da trascendere mediante un processo di
significazione attiva, vale a dire di investimento di valore, sempre aperto e dinamico. E’ appunto la qualità del rapporto
di significazione che lega ogni individuo al suo ambiente (materiale ed umano) e la visione del mondo che ne è
conseguente, che interessano alla pedagogia fenomenologica, tanto in condizioni educative di normalità, quanto di
devianza, e su di esse rivolge pertanto l’attenzione.]

Genesi passiva e genesi attiva

Per il punto di vista della pedagogia fenomenologica, lo sviluppo del soggetto è legato al tipo di relazione che egli
stabilisce col mondo, tramite l’attività della coscienza intenzionale. La sua costituzione per genesi passiva è la premessa
indispensabile, il punto necessario e di avvio della sua genesi attiva, per cui il “significare attivo” del soggetto comincia
da un mondo già connotato. L’atteggiamento naturale della nostra vita quotidiana tende ad essere caratterizzato da
un’accettazione indiscussa delle convinzioni, delle certezze che passivamente introduciamo nella nostra visione del
mondo. Tramite l’attività intenzionale della sua coscienza, il soggetto cerca la reale realtà oltre il pregiudizio e
l’interpretazione già esistente; avviene una messa in discussione di ciò che è già dato; per genesi attiva il soggetto
prende coscienza del mondo che lo circonda e di se stesso in quanto costituito in modo passivo, prende coscienza del
proprio corpo e prende coscienza del fatto che la propria visione del mondo dipende dalla visione del mondo elaborata
da altri.

I luoghi dell’educare

Ogni intervento pedagogico deve ripercorrere i momenti “passivi” della formazione della soggettività di un ragazzo,
interrogarsi su quanto hanno avuto peso. Cioè: un intervento pedagogico deve tenere in considerazione il fatto che ciò
che un ragazzo pensa, dice, vuole, percepisce… dipende da ciò che gli è stato trasmesso, dai modelli ai quali è stato
esposto, al mondo culturale e sociale frequentato. Necessario dunque uno sguardo al passato familiare e culturale del
ragazzo, per trovare le tracce che possano guidare la comprensione del suo comportamento. Ma, nello stesso tempo,
non fermarsi lì: l’intervento educativo deve andare oltre alla presa di coscienza del passato.

• Il corpo e la sua immagine, le sue funzioni, il suo uso, media il rapporto soggetto-mondo. Ogni individuo riceve una
visione del corpo “ereditata” e andrà ad influenzare ciò che del suo corpo egli penserà, ciò che ne farà o non farà.
E’ necessario comprendere l’interpretazione del ragazzo nei confronti della sua corporeità e intervenire nel caso in cui
sia necessario rimodulare le dipendenze che legano il soggetto al suo corpo e all’immagine che egli ha.

• La capacità di intenzionare del soggetto dipende da quella degli ALTRI: saper andare oltre l’oggetto dato richiede
l’interazione con altri soggetti significativi, capaci di significare il mondo. L’intervento non si limita ad analizzare gli
incontri passati e le possibilità offerte al soggetto, recupera le sue potenzialità incontrandosi con il soggetto nello
scambio e proponendogli modelli attivi di rapporto tra coscienza e mondo.

• Se il soggetto vede il mondo già rappresentato come se fosse il mondo (e non una sua possibile versione), l’intervento
pedagogico può intervenire per sospendere questa immediata assunzione, per interrompere il dispositivo del
dato-per-scontato. Allontanare il dato per scontato e proporre un discorso focalizzato sul contributo attivo e sulla
responsabilità che ciascun soggetto ha nella costruzione della propria visione del mondo. Lo sforzo educativo o
ri-educativo deve dirigere il soggetto verso la progressiva conquista della sua coscienza come coscienza intenzionale,
verso la consapevolezza delle sue capacità si intenzionare attivamente il mondo. Riconoscere che ogni individuo,
proprio per la sua capacità di intenzionare, si costruisce una propria visione del mondo. Il soggetto è responsabile della
propria visione del mondo, anche quando non ne è consapevole, ovvero quando non riconosce la sua intenzionalità.
Giungere alla consapevolezza del proprio contributo nella costruzione della propria esistenza significa assumere che

Document shared on https://www.docsity.com/it/ragazzi-difficili-pedagogia-interpretativa-e-linee-di-intervento/9665578/


Downloaded by: Cricetoobesi (C.ambrosoni1@studenti.unibg.it)
ogni individuo (quindi anche se stessi) è nella sua singolarità l’origine del senso che egli attribuisce al mondo in cui egli è
implicato. Una relazione educativa, per essere autentica, deve fondarsi su una reale comunicazione con l’altro, uno
scambio. Si tratta di centrare il rapporto educativo sul principio dell’attenersi alla relazione sospendere qualsiasi
atteggiamento dell’educatore che sia di esclusiva autoaffermazione, non vi è un modello preciso da seguire né un
elenco di prescrizioni, non si tratta di fornire modelli indiscussi, ma di costruire con l’altro unità di senso che siano
significative per lui e compatibili con il mondo che lo circonda.

CAPITOLO 4 - DEVIANZA MINORILE E PARADIGMA PEDAGOGICO

Ricostruire la storia attraverso cui un individuo giunge alla costruzione di sé come soggetto è la premessa necessaria
per analizzare e comprendere determinate storie. Lo sviluppo di ogni individuo non dipende solamente dalle situazioni a
lui esterne, ma anche e soprattutto dall'attività intenzionale della coscienza individuale.
Capire qual è la storia dei ragazzi difficili, in che modo l’attività della loro coscienza, incontrandosi con determinate
situazioni e circostanze, produce visioni del mondo disfunzionali e anomale. Lo sviluppo del soggetto è legato al tipo di
rapporto che egli instaura con il mondo; il disadattamento è il prodotto di un mancato o alterato funzionamento della
coscienza intenzionale. Infatti, tutti i casi di irregolarità della condotta (almeno quelli che riguardano i “ragazzi difficili”)
possono essere ricondotti a limiti nello sviluppo della coscienza intenzionale. Possiamo individuare due diverse
articolazioni di tali limiti: l’assenza dell’intenzionalità e la distorsione dell’intenzionalità.

a. Con assenza di intenzionalità facciamo riferimento all’incapacità del soggetto di riconoscere l’intima struttura
relazionale della realtà, una presenza eccessiva dell’oggetto nella visione del mondo del soggetto e una incapacità del
soggetto a situarsi come donatore di senso. Il soggetto appare dunque incapace di trasformare la realtà che lo circonda
in un modo che sia significativo per lui e compatibile con i progetti e i valori degli altri.
Una sorta di arresto alla genesi attiva del sé; parliamo di ragazzi che non riescono a considerarsi attivamente implicati
nella costruzione della propria esistenza. Il ragazzo tende a considerare sé stesso come sganciato dal mondo e di non
potervi in nessun modo intervenire in maniera significativa; non riesce a vedere nessuna apertura verso il futuro; il
presente è vissuto come prodotto di un passato e come esito necessario di una storia alla quale il ragazzo sente di non
aver partecipato; rifiuta di essere veramente sé stesso e si lascia trascinare in maniera passiva da ciò che gli accade
intorno. Conseguenze: intensa insoddisfazione, difficoltà, disadattamento prima di tutto interiore.
Non è facile schematizzare i vari comportamenti antisociali che scaturiscono da una simile visione del mondo; viene qui
offerta una griglia di riferimento contenente tre tipologie di comportamenti riconducibili all’assenza di intenzionalità:

- Ricerca esclusiva della soddisfazione immediata: l'unico senso che il ragazzo riesce a dare alla sua esistenza è quello
di fruire, momento per momento, di una soddisfazione attuale che sia più intensa e globale possibile.
Il ragazzo si considera incapace di considerarsi produttore di un progetto e di conseguenza non può regolare il suo
comportamento in base ad un dato fine da raggiungere; la soddisfazione non sarà mai dunque frutto di un agire
consapevole e ragionato, ma di una totale adeguazione di sé al mondo: non avviene una costruzione di un
modo-per-sé, ma ci si adegua ad esso. Inoltre, questa soddisfazione sarà sempre illusoria e destinata ad esaurirsi nel
qui ed ora dove essa è nata e vissuta.

- Fuga da sé, sostanziale sfiducia in se stessi, non accettazione di sé, dei propri limiti e nemmeno delle proprie
possibilità e capacità, totale e devastante svalutazione di sé; desiderio di annullamento o sparizione del mondo, dietro al
quale potrebbe nascondersi un desiderio di voler diventare un altro. Il rifiuto di sé crea continui fallimenti nel tentativo di
voler diventare altro. Questo atteggiamento può condurre a fenomeni di dipendenza da sostanze o persone, alle quali
viene delegata l’attribuzione di un senso alla propria esistenza (di solito, lascia che gli altri facciano l’uso che vogliono
della sua persona).

- “Svalorizzazione consapevole”, modo di essere già più maturo dei due precedenti. In questo caso, il ragazzo è in
qualche modo capace di comprendere se stesso, anche se non riesce ad andare oltre questa apprensione.
Tende a fissarsi sulla sua insufficienza, ad avere sentimenti di autosvalutazione, poiché il ragazzo non riesce a trovare il
modo per superarsi e proiettarsi in un futuro che sia valido per sé e per gli altri.

I comportamenti riconducibili a questa rappresentazione svalorizzante di sé sono essenzialmente di due tipi: il primo
avviene quando il ragazzo ha una certa dose di carica vitale e cerca di distarsi dalla consapevolezza della sua
insufficienza impegnandosi in attività che gli diano brivido (es. fenomeno del teppismo); quando invece il ragazzo non
possiede questa carica vitale necessaria, il rischio maggiore è che metta in atto gesti di autoannullamento fino al
suicidio.

Document shared on https://www.docsity.com/it/ragazzi-difficili-pedagogia-interpretativa-e-linee-di-intervento/9665578/


Downloaded by: Cricetoobesi (C.ambrosoni1@studenti.unibg.it)
b. Con distorsione dell’intenzionalità si intende un secondo limite nello sviluppo della coscienza intenzionale; si tratta
sempre di una incapacità di cogliere la genesi relazionale dell’io, ma, a differenza del primo caso, qui si nasce da una
sorta di “eccesso dell’io”. In questo caso, la capacità di incorporare l’oggetto secondo un’attribuzione personale di
senso non è assente, ma eccessiva. eccessiva incorporazione dell’oggetto, fagocitazione e imposizione di una
soggettività assoluta e onnipotente, l’oggetto e l’altro sono prede. Non riconoscendo i limiti impostigli dalle cose, il
soggetto crede di poter fare tutto, elabora un mondo-per-sé in cui è onnipotente, senza equilibrio tra dati e schemi
propri. Può sfociare in ribellione, violenza, irresponsabilità e assenza di autocontrollo. I problemi più seri nascono in
relazione con l’altro: a questo non viene attribuita la stessa dignità e lo stesso valore che vengono dati a sé stesso e si
giunge ad un rifiuto e ad una vera e propria incapacità di comunicare con l’altro. Questo comporta ricadute sul soggetto
il quale da solo si impoverisce poiché non amplia la sua sfera di conoscenza; irresponsabile verso il mondo e verso
l’altro, diventa irresponsabile verso sé stesso.

Le difficoltà a cui questi ragazzi vanno incontro sono di due tipologie:

- la realtà quotidiana contraddice il senso di onnipotenza, il ragazzo vacilla ed è disorientato; quando vi è scarso slancio
vitale si giunge al fallimento; quando invece vi è slancio vitale si tende a sospettare di aver sbagliato strada e si ha
desiderio di cambiamento che spesso rimane però al limite della consapevolezza e su di un piano molto vago; l’ansia di
riscattarsi e la consapevolezza del proprio fallimento provocano comportamenti antisociali.
- Ragazzi che stabiliscono mete troppo alte rispetto alle loro reali capacità; avviene uno scarto tra il sé ideale e il sé reale
che può provocare una sorta di paralisi all’agire: non persevera nello sforzo e diventa incapace di ricominciare da capo.
Cercano nella compagnia, nell’aggregazione con altri ragazzi, una soluzione ai loro problemi, ma l’incontro è per loro un
modo per poter imporre la loro egoità (=mettere sé stessi al centro di ogni discussione). Dietro a questi incontri, non vi è
una reale apertura alla dimensione sociale: l’altro è essenzialmente un mezzo necessario all’affermazione di sé.
Quando questi ragazzi incontrano soggetti tendenti alla gregarietà (spinta ad unirsi) si crea un equilibrio perverso: da un
lato vi è un leader che trascina e propone e stimola all’azione, dall’altro ragazzi che hanno deciso di delegare ad altri le
proprie azioni e i propri pensieri.

N.B. Quelli elencati sopra non sono da considerare come categorie mutuamente esclusive: non si tratta di due classi
contraddittorie per cui un soggetto appartiene ad una o all’altra. Sono modelli, ma, essendo tali, sono mondi sempre
semplificati. E’ necessario valutare caso per caso, ogni ragazzo è differente da un altro e ogni contesto è diverso.
Solo raramente il ragazzo assume uno solo degli schemi di significato elencati sopra; molto più spesso quelle modalità
vengono assunte contemporaneamente oppure si alternano. Il fenomeno è molto complesso e tutt’altro che
scomponibile in classi distinte e discrete. Serve un lavoro interpretativo, serve uno sguardo retrospettivo che riesamina
fatti del passato per individuare le possibili connessioni con il presente. Inoltre, bisogna tenere in considerazione che
l’oggetto dell’educazione non è più il comportamento da reprimere o controllare, ma il vissuto all’origine del soggetto,
cercando di rivisitare il suo modo di pensare la realtà; in questo modo, il suo comportamento verso il mondo e verso gli
altri cambierà di conseguenza.

CAPITOLO 5 - VERSO UNA PEDAGOGIA DEI RAGAZZI DIFFICILI

Cosa significa ri-educare?

Rieducare: non si tratta di puntare sulla scomparsa del comportamento irregolare, ma di eliminare i motivi che avevano
condotto il ragazzo ad assumere quel comportamento. E’ necessario chiedersi quale sia il malessere, il disturbo alla
base del comportamento irregolare.

Come abbiamo visto, il comportamento di un individuo è strettamente legato alla sua visione del mondo e l’irregolarità
della condotta ha origine in una visione del mondo disfunzionale. Quest’ultima non è solo l’insieme di certezze e di valori
con cui interpretiamo il mondo e attraverso cui diamo significato al presente, ma è anche la griglia che indirizza il nostro
modo di pensare al futuro (ciò che quindi da peso non è solo il passato, ma anche la proiezione al futuro).
Aiutare il ragazzo significa tralasciare il comportamento o usarlo solo come punto di partenza per cercare di
comprendere la sua visione del mondo. Ri-educare significa procedere ad una profonda trasformazione della visione del
mondo del ragazzo, del suo modo di intendere sé stesso, gli altri, le cose, nello scegliere quindi i suoi atteggiamenti e
comportamenti. Inoltre, risulta necessario chiedersi se e in cosa la prassi rieducativa differisce da quella educativa.
In realtà, non vi sono sostanziali differenze tra le due; nessuna delle due impone modelli e regole di comportamento.
Affinché possa compiersi una trasformazione, è necessario permettergli di fare nuove esperienze pensate e costruite per
stimolarlo verso la consapevolezza della necessità di rivedere i suoi valori e le sue convinzioni.

Document shared on https://www.docsity.com/it/ragazzi-difficili-pedagogia-interpretativa-e-linee-di-intervento/9665578/


Downloaded by: Cricetoobesi (C.ambrosoni1@studenti.unibg.it)
Ogni intervento educativo è proiettato verso il futuro; durante il suo vissuto, il ragazzo ha avuto modo di consolidare una
certa visione del mondo che egli sente propria e come per nulla disadattiva (ma lo è). Deve rivedere le sue convinzioni,
rimettere in gioco il proprio modo di vedere sé e il mondo e gli altri e non è cosa facile. Infatti, l’intervento rieducativo è
tanto più difficile quanto più il ragazzo, crescendo, ha raggiunto una certa stabilità e strutturazione interiore.
Una prima differenza tra intervento educativo e intervento rieducativo consiste nella qualità delle difficoltà che in essi si
incontrano. Nel caso della rieducazione, queste difficoltà richiedono un diverso ritmo di intervento.
Infatti, nell’esperienza educativa, la scoperta e la formazione di sé come oggetto possono avvenire in modo graduale e
progressivo, mentre nell’esperienza rieducativa questa scoperta ha un carattere di immediatezza e di drasticità, provoca
nel ragazzo profondo disorientamento: sta nell’educatore saperlo controllare.
Un altro tratto caratteristico dell’intervento rieducativo sta nella sua direzione: non procede dal passato al futuro, ma dal
futuro al passato; non può partire dal passato del ragazzo pretendendo che egli ne prenda le distanze, ma questo
semmai è il punto di arrivo di un processo costruttivo rivolto fin dall’inizio verso il futuro.
Bisogna sfruttare quegli aspetti della personalità del ragazzo che possono essere valorizzati e fargli vivere nuove
esperienze. Nel momento in cui il ragazzo avrà cominciato ad ampliare o modificare la sua tavola di valori e sarà mosso
da nuove esigenze e da nuovi interessi, allora e solo allora avrà senso provocare un ripensamento del suo passato;
infatti, sarà la trasformazione della sua visione del mondo a provocare una rivisitazione del suo passato e una nuova
attribuzione di senso al proprio vissuto e un effettivo superamento.

I momenti del percorso rieducativo (futuro e passato)

Proporre un modello non significa stabilire una rigida tabella di marcia, una sequenza obbligata di tappe da percorrere.
Una pedagogia NON può essere un sistema chiuso e definitivo, ma deve essere assolutamente flessibile.

-Il primo momento fondamentale della pratica rieducativa è quello della conoscenza, giungere ad una conoscenza che
sia più autentica possibile del ragazzo; cercare di mettersi dal suo punto di vista, cogliendo la sua particolare visione del
mondo e la sua capacità di intenzionare, il suo modo di relazionarsi con la realtà. Non si tratta solo di recuperare più dati
possibili riguardo la storia della sua vita e l’ambiente in cui vive, ma anche (e soprattutto) di percepire COME queste
condizioni siano state vissute dal ragazzo. Cercare di comprendere la visione del ragazzo: è a partire da questa che si
può comprendere il perché del suo agire. Osservare per comprendere e l’osservazione affila la comprensione.
Si crea un circolo tra osservazione e comprensione.

La conoscenza del ragazzo

Più osservo, più i dati personali in genere disaggregati si trasformano in un disegno coerente, che ha un senso; più
aumenta il livello di comprensione, più l’osservazione si fa attenta ed emergono dettagli molto preziosi. L’osservazione
non si configura come uno “stare a guardare”, ma come un “vivere con”. Scopo dell'osservazione: constatare l’esistenza
di una difficoltà pedagogica che richieda un intervento e capire di che tipo di difficoltà si tratti. Il vero e proprio
intervento rieducativo ha inizio dopo l’osservazione. NON si tratta di una rigida successione di momenti da seguire, ma
essi possono intrecciarsi e sovrapporsi. Per comodità, sono descritti qui in successione.

● Destrutturazione e ristrutturazione: interventi rivolti principalmente alla dimensione psico-fisica del ragazzo.
Azioni principalmente mirate al superamento di alcuni limiti oggettivi che impediscono al ragazzo di esercitare la
sua capacità di intenzionare; sollecitare determinate attività, soddisfare determinati bisogni, colmare alcune lacune.
● Dilatazione del campo di esperienza: si tratta di azioni che sono volte a rendere dinamica la vita del ragazzo per
cercare di fargli superare la fissazione verso determinati interessi o atteggiamenti che lo costringono dentro a
schemi di comportamento asociali. L’idea è di fargli vivere una serie di situazioni nuove e sollecitanti.
La scelta del tipo di esperienza si svolge in base a ciò che siamo riusciti a capire di lui e della sua visione del
mondo.
● Costruzione di una nuova visione del mondo: momento in qualche modo conclusivo; il ragazzo, dopo aver
avuto occasione di scoprirsi responsabile delle sue scelte, fa proprio questo modo di pensare sé stesso nel
mondo-e-con-gli-altri (momento dell’appropriazione soggettiva), conquista di un nuovo punto di vista su di sé e sul
mondo. Per giungere a questo momento è necessario che avvenga una ristrutturazione dell’intenzionalità, cioè un
cambiamento profondo degli schemi di significato che il ragazzo utilizza per approcciarsi al mondo; un’immersione
in un nuovo campo di esperienze, un rovesciamento di prospettiva che porta ad un ripensamento del proprio
passato e la produzione su di esso di un giudizio proprio. Anche quest’ultimo momento è un processo graduale;
compito dell’educatore è guidare il ragazzo a prendere consapevolezza del proprio cambiamento.

Document shared on https://www.docsity.com/it/ragazzi-difficili-pedagogia-interpretativa-e-linee-di-intervento/9665578/


Downloaded by: Cricetoobesi (C.ambrosoni1@studenti.unibg.it)
Ragazzi difficili e educatori tra autonomia e dipendenza

Il senso comune tende a far coincidere lo scopo della rieducazione con una idea di adattamento o riadattamento del
ragazzo difficile all’ambiente sociale. E’ necessario però confrontarsi con questa idea. Bisogna innanzitutto chiedersi
che cosa si intende per “ambiente sociale”, ripensare l’idea di ambiente e anche quella di adattamento.
L’adattamento suggerisce in qualche modo l’idea di acquisizione di certi automatismi comportamentali, ma non è al
conformismo che una ri-educazione deve educare. L’intervento rieducativo deve educare ad una certa criticità
responsabile, alla consapevolezza dei vincoli sociali, della propria autonomia e delle proprie possibilità di andare oltre o
(se è il caso) contro quegli stessi vincoli. Si tratta di portare il ragazzo alla costruzione del proprio senso.
Si può intendere qui l’adattamento come un inserimento attivo nel tessuto sociale ed esso diventa (se dotato di questo
significato) una conseguenza necessaria dell’azione educativa. Tutta l’interazione tra educatore ed educando è
incentrata sulla dialettica tra autonomia e dipendenza. L’autentica autonomia del ragazzo consiste in primo luogo nella
capacità di riconoscere le sue dipendenze e di capire che esse sono necessarie alla sua esistenza: non si tratta di
essere autonomi, ma di pensare, muoversi, scegliere in modo autonomo. Non si tratta di svuotare il ragazzo della sua
visione del mondo per sostituirla con un pacchetto confezionato di modelli, ma di far leva sull’autonomia soggettiva in
modo che il ragazzo possa costruire una sua visione del mondo. Educatore conduce il ragazzo verso una nuova
consapevolezza, deve saper ascoltare, riconoscere l’altro come soggettività. L’educatore è pienamente in gioco, non è
solo dispensatore di iniziative. Ogni azione educativa, modificando “l’oggetto” a cui si rivolge costringe l’educatore a
modificarsi di conseguenza. Non è un “dare”, ma un “darsi”. Si tratta anche, da educatori, non solo di proporre interventi
volti alla trasformazione del ragazzo, ma anche di accettare e riconoscere sé stessi come soggetti e oggetti di
trasformazione.

CAPITOLO 6 - CONOSCERE COMPRENDERE

L’incontro tra educatore e ragazzo è un processo di mutua conoscenza, di reciproco riconoscimento, passaggio che
non è però affatto garantito, in quanto è probabile che si incontrino ostacoli: pregiudizi, fraintendimenti, ecc.
L’osservatore deve essere consapevole del senso di vulnerabilità che pervade l’incontro in quanto quest’ultimo prevede
un’esposizione di sé all’altro e ad un suo probabile giudizio. Inoltre, il ragazzo, essendo la relazione
educatore-educando asimmetrica, si trova in una posizione di inferiorità, di debolezza e molto più esposto all’ansia, al
disagio, al sentirsi vulnerabili nei confronti dell’altro. Tenderà a presentarsi all’educatore tramite modalità centrate sulla
difesa (e non sulla fiducia), atteggiamenti di chiusura, lontananza, no comunicazione.
Il ragazzo sente che difficilmente il suo incontro con l’educatore non verrà giudicato.
L’educatore stesso non può pensare di essere immune dal giudicare: solo il fatto di sapere che è un ragazzo difficile, il
fatto di incontrarlo in date situazioni e contesti, le informazioni raccolte su di lui, il suo aspetto sono tutti segnali che
portano ad interpretazioni già costituite.

L’educatore, vive immerso nel senso comune e nel sapere condiviso e questo fa sì che il suo sguardo non sia immune
da ciò che si pensa e dalle considerazioni che si hanno circa questi ragazzi. Non è un talento naturale avere uno
sguardo senza pregiudizi, ma è frutto di un lungo lavoro (mai concluso) in cui si mette fra parentesi l’opinione e
l’interpretazione del mondo nei confronti del ragazzo difficile. Non si può pensare di essere immuni a priori, per natura.
Bisogna “depurare” il proprio sguardo e questa depurazione non è da pensare come un risultato raggiunto, ma come un
vero e proprio stile educativo una modalità di interazione con il ragazzo che chiede prima di tutto di interrogarsi in
continuazione riguardo ai propri modi e alle proprie strategie di conoscenza.

Per fare fronte a questi problemi che può causare l’incontro con il ragazzo, si può cercare di recuperarne la funzione
rituale: è centrata sulla sospensione di qualsiasi discorso informativo con lo scopo di creare una progressiva confidenza
e uno sfondo di fiducia, la quale anch’essa tende a costruirsi progressivamente. Costruire una sorta di terra neutra, di
nessuno, impersonale per evitare che il ragazzo si senta direttamente in scena.

Risulta poi necessario passare ad una forma di conoscenza sempre più rivolta alla specificità e all’individualità del
ragazzo. Qui bisogna mettere in campo due forme di conoscenza:

-La prima è di tipo descrittivo-esplicativo implica un rapporto tra un soggetto ed un oggetto, in cui quest’ultimo viene
sezionato e analizzato per coglierne i suoi elementi costitutivi (dal punto di vista dell’osservatore). Conoscere un oggetto
significa saperlo descrivere in modo oggettivo. Nel caso del ragazzo difficile, si procede poi con la descrizione dei suoi
comportamenti irregolari, cercando di isolare quei fattori che, nella storia del ragazzo, hanno avuto importanza decisiva.

Document shared on https://www.docsity.com/it/ragazzi-difficili-pedagogia-interpretativa-e-linee-di-intervento/9665578/


Downloaded by: Cricetoobesi (C.ambrosoni1@studenti.unibg.it)
Sguardo rivolto verso il passato e verso quelle esperienze che pare abbiano agito in modo deterministico su di lui.
Questo approccio tende soprattutto ad individuare le cause oggettive dell’agire.

-La seconda è di tipo comprendente, l’educatore cerca di capire quali sono stati gli scopi di quei comportamenti e al
nesso che tutto questo ha per il ragazzo. L’educatore, ovviamente, non riesce ad interpretare quell’agire allo stesso
modo con cui lo interpreta il ragazzo, poiché non ha i suoi stessi vissuti né le stesse esperienze e non vi ha attribuito lo
stesso significato. Ma ciò non vuol dire che non possa giungere ad un’autentica comprensione dell’altro, bisogna
semplicemente essere consapevoli del fatto che vi sono dei limiti. Ciò che occorre è esercitarsi continuamente a
mettersi dal suo punto di vista e di osservare così il suo mondo; è necessario quindi spogliarsi delle proprie convinzioni
e del proprio modo di pensare. Ciò non toglie che vi è un senso che dà il ragazzo alle cose e vi è un senso (diverso) che
vi da l’educatore, il cui compito è mettere in comunicazione questi due sensi. Si tratta di assumere uno stile educativo
fondato sull’entropatia tecnica pedagogica volta a cogliere la visione del mondo del ragazzo. Questo non significa
accettare il senso che il ragazzo dà al mondo e a sé stesso come valido e non vuol dire neanche adeguarvisi, ma
cominciare da qui per darvi una prospettiva differente.

Avere informazioni sul ragazzo, ad esempio il suo ambiente socio-culturale di provenienza, la sua famiglia, la scuola, il
gruppo dei pari… sono dati significativi per ricostruire il contesto e fare ipotesi e per riuscire a comprendere cosa
determinati eventi/persona hanno significato per lui.

L’autentica comprensione del ragazzo difficile implica la messa in scena di più sguardi; l’educatore non può essere solo.
Il lavoro d’équipe è fondamentale per avere più sguardi sul ragazzo, più punti di vista, più ottiche differenti.
Il lavoro in équipe è un percorso collettivo che mira alla comprensione della visione del mondo del ragazzo, attraverso
un continuo movimento di andata e ritorno, il “circolo ermeneutico” di cui parla Dilthey [ l’interpretazione è un processo
che va continuamente dal tutto alle parti e viceversa. Quando uno studioso si accosta a un testo da comprendere, la
sua mente non è del tutto vuota e sgombra dell'ambiente storico e culturale che l'ha formata nel tempo. Questo "tutto
ideale", quindi, interviene prima ancora che si svolga il lavoro d'interpretazione e lo condiziona, lo impronta di sé. La
conoscenza, cioè, risente dell'ambito storico e psicologico in cui essa si svolge, così che essa è il prodotto di una
sovrapposizione circolare di nozioni. D'altra parte vi è un continuo scambio tra le cose conosciute e quelle da
conoscere, "le parti", che vanno a loro volta a modificare il complesso del sapere, "il tutto".]
Inoltre, è fondamentale che il lavoro di équipe sia finalizzato al recupero di un orientamento al futuro, un luogo di nuovi
orizzonti e possibilità.

Quale è il ruolo dell’educatore all’interno dell’équipe?


-Indirizzare il lavoro dell’équipe: deve continuamente regolare l’attività dei membri, i quali sono tra loro molto diversi, in
modo che lo sguardo conoscitivo sia sempre improntato al modello della conoscenza pedagogica fin dall’inizio.

Lo specifico dell’educatore è vivere con il ragazzo e cercare di creare un rapporto di comunicazione tendente alla
conoscenza autentica dell’altro. Condividere esperienze non devono essere vissute dal ragazzo come qualcosa a lui
estranee, artificiali, ma l’educatore deve fare in modo che siano per lui autentiche e sensate.
L’educatore ha un ulteriore compito: valutare l’educabilità: deve costruire una mappa dei luoghi di maggiore resistenza e
di quelli su cui invece vi è maggiore possibilità di fare leva durante il percorso educativo.

CAPITOLO 7 - VERSO IL CAMBIAMENTO: LE PRIME STRATEGIE EDUCATIVE

Dalla destrutturazione alla ristrutturazione educativa

Il primo passo necessario per indirizzare l’intervento educativo è comprendere se e quali alcune oggettive condizioni
esistenziali abbiano influito nel soffocare o distorcere l’attività intenzionale del ragazzo. Bisognerà analizzare l’incidenza
di fattori socio-familiari o cogliere alcuni disturbi psicologici che possono divenire un ostacolo all’instaurarsi di un
rapporto con l’educatore. Vi saranno casi in cui sarà necessario un intervento terapeutico, altri in cui invece bisognerà
allontanare il ragazzo da un determinato contesto, altri ancora in cui necessiterà di un educatore nella sua vita
quotidiana (non si tratta di scelte esclusive, ma possibili loro combinazioni).
Al di là di alcuni casi in cui sarà necessario l’intervento di uno specialista, negli altri basterà mutuare il contesto di vita
del ragazzo o ridefinirlo.

Document shared on https://www.docsity.com/it/ragazzi-difficili-pedagogia-interpretativa-e-linee-di-intervento/9665578/


Downloaded by: Cricetoobesi (C.ambrosoni1@studenti.unibg.it)
Il valore iniziatico del cambiamento

Il passaggio a nuove forme di vita quotidiana, costituisce un momento di discontinuità con il passato; allontanarsi da ciò
che era consueto e trovarsi di fronte a nuove forme di organizzazione di spazio, tempo, relazioni.
Questi ultimi possono essere assunti come figure simboliche di un distanziamento dal passato, dar loro un valore
iniziatico, compito che spetta all’educatore. Non basta collocare il soggetto in nuovi spazi, tempi o attività, ma è
necessario lavorare sul loro valore simbolico; questo avviene solo se le condizioni materiali e relazionali sono motivanti
per il ragazzo. In genere, il soggetto non ha a priori alcun buon motivo per discostarsi dal consueto, a parte un generico
stato di sofferenza di cui molto spesso non è per niente consapevole.
Può capitare che il cambiamento sia vissuto con una certa dose di resistenza o di apatia; bisogna far sì che ciò non
avvenga; ad esempio: non basta uno spazio diverso di vita, bisogna che sia rassicurante, divertente, ecc.
Caso della carcerazione: qui la gestione dell’innovazione rieducativa in funzione destrutturante si fa estremamente
complessa. Con il Nuovo Processo Minorile (la detenzione solo per reati gravi e l’ingresso in carcere prima della
condanna tende ad essere evitato) è notevolmente diminuita la presenza di minori in carcere, ma si è fatta più
problematica. Vi sono infatti in genere ragazzi che hanno commesso reati gravi o gravissimi o che si sono ripetutamente
sottratti alle decisioni prese dai giudici. L’educatore ha di fronte un ragazzo non solo con un certo vissuto, ma anche
vivente la drammatica situazione della carcerazione. Il ragazzo vede in queste misure solo un’azione punitiva, una
vendetta della società nei suoi confronti e l’educatore è visto solo come qualcuno che potrà dargli informazioni circa la
sua situazione giuridica. L’obiettivo è fargli capire che non vi è nessuna vendetta della società nei suoi confronti, che
nessuno ce l’ha con lui ed offrirgli un’occasione per riformulare la sua collocazione nel mondo e con gli altri.

Partire dalla superficie per accedere al profondo

Preparare il terreno per l’intervento educativo vero e proprio, dove poter ricostruire una visione del mondo e di sé.
Partire dai sintomi più visibili ed immediati e cercare di ridurli, prestando attenzione ad una questione fondamentale: può
capitare che i sintomi scompaiano, ma non bisogna credere che l’intervento sia riuscito, può essere cosa temporanea e
solo un cambiamento di superficie.

Il valore di una profezia: trasformare l’immagine

Trasformare l’immagine trascuratezza nel vestire, noncuranza del proprio corpo, possono essere testimonianza del
particolare modo con cui il ragazzo percepisce sé e il mondo. Interventi che hanno lo scopo di proporre un diverso stile
di vita cominciando proprio a lavorare sull’immagine e sui segni più manifesti e visibili del sé.

Stare con gli altri: i primi momenti di un cambiamento possibile

Stare con gli altri → è necessario intervenire sul suo modo di stare con gli altri. L’educatore può trovarsi di fronte a
ragazzi aggressivi verso gli altri, che disprezzano o rifiutano lo stare insieme, oppure di fronte ad apatia ed indifferenza.
Deve allora assumere un atteggiamento di tipo entropatico nei confronti di questi atteggiamenti del ragazzo: ciò significa
che essi devono essere visti come testimonianze della particolare visione del mondo del ragazzo.
Possiamo (schematizzando) individuare due situazioni differenti: la prima è quando il ragazzo non sa riconoscere l’altro
come soggetto paragonabile all’altro soggetto che è lui stesso, si colloca quindi in una posizione particolarmente
egocentrica; la seconda è quando ci si trova di fronte un ragazzo incapace di riconoscersi come soggettività, cioè come
individuo incapace di intervenire in modo attivo nel processo di costruzione della sua relazione con gli altri;
eterocentrico (che pone gli altri al centro della propria realtà).
In tutti e due i casi, la relazione non può essere autentica, ma rischia solo di trasformarsi in una relazione di potere
(prendere l’altro o farsi prendere dall’altro).
Possibili soluzioni? Attività di gruppo che implichino un’interazione in cui i ruoli del sé e dell’altro siano già strutturati in
modo simmetrico ed equilibrato. Può poi esserci il caso in cui il ragazzo riesca ad avere una relazione positiva solo con
alcune persone; si può mostrargli che, se alcune dinamiche interpersonali o alcune regole di interazione si rivelano
efficaci verso determinate persone, allora possono esserlo anche verso altre.

Il richiamo alla sistematicità

L’intervento educativo richiede un approccio sotto il segno della sistematicità; l’individuo è un sistema aperto, cioè è
formato da dimensioni strettamente interconnesse: significa che l’educatore (che ne sia consapevole o meno), che lo
voglia oppure no, ogni suo gesto, ogni sua azione, parola, non consuma i suoi effetti su una sola dimensione del

Document shared on https://www.docsity.com/it/ragazzi-difficili-pedagogia-interpretativa-e-linee-di-intervento/9665578/


Downloaded by: Cricetoobesi (C.ambrosoni1@studenti.unibg.it)
ragazzo (affettiva, cognitiva, motoria), ma l’approccio è globale.
La prospettiva entropatica non deve mai essere abbandonata dall’educatore, anche quando pensa di essere giunto ad
una chiara comprensione della visione del mondo del ragazzo; deve mantenere vigile il suo sguardo durante tutto il
percorso. Il percorso educativo, infatti, non è mai del tutto preservato dal rischio che si stabilizzino nuovi atteggiamenti
asociali: il ragazzo non vive in un ambiente asettico, ma all’interno di un contesto sociale (è influenzabile da ciò che lo
circonda).

CAPITOLO 8 - LA DILATAZIONE DEL CAMPO DI ESPERIENZA

Luoghi comuni sui ragazzi difficili → notevole ampiezza di esperienze, “è cresciuto troppo in fretta”, ha affrontato
esperienze sproporzionate rispetto alla sua età, segnate dalla precocità, che hanno portato i ragazzi a viverle in un
determinato modo.

L’aver vissuto determinate esperienze ha generato in loro una visione del mondo in qualche modo disfunzionale e
questo poiché sono state vissute ad un’età molto precoce, sono sproporzionate rispetto all’età del ragazzo.

Che fare?
• Dilatare il campo di esperienza del ragazzo non bisogna limitarsi a sostituire esperienze-causa di un
comportamento antisociale con esperienze-causa di un comportamento sociale, MA ampliare l’orizzonte qualitativo
degli incontri del ragazzo con il mondo. Far sì che il ragazzo si confronti con esperienze differenti e che pensi che il
mondo possa essere significato in altri modi. Ampliare la sua gamma di incontri con il mondo e con gli altri, creare
occasioni per sperimentare modi diversi di relazionarsi alle persone e alle cose. In primo luogo, bisogna fornirgli
l’opportunità affinché ciò possa avvenire. Un intervento educativo che tenda solamente ad allontanare il ragazzo dalla
sua vita piena di difficoltà sostituendola con una vita povera di esperienze non è efficace. E’ necessario aiutarlo a
superare/rivedere quei luoghi della sua visione del mondo che sono all’origine dell’antisocialità e poi dilatare il campo di
esperienze, condurlo ad un ripensamento del mondo, diversificare i tipi di incontro, moltiplicare i punti di vista possibili
per fargli capire che la realtà può essere anche in altri modi.

• Ottimismo esistenziale uno degli obiettivi fondamentali di un intervento educativo. Intendiamo: quel senso di
appagamento nato dal pensarsi all’origine di un progetto di investimento di senso al mondo capace di realizzarsi a
partire da vincoli imposti dalla realtà e tramite una pratica di negoziazione di senso con gli altri. Esso si realizza tramite
pratiche di restituzione è indispensabile colmare ogni carenza del ragazzo, sia essa affettiva, materiale o formativa.
Sarebbe vano proporre esperienze e occasioni di scambio produttivo con gli altri ad un ragazzo la cui vita continua a
svolgersi nel segno della mancanza.

• L’educazione “al bello” far compiere al ragazzo un certo numero di esperienze centrate sul bello e capaci di favorire
la costruzione di un vero e proprio senso estetico. Di solito, questi ragazzi risultano essere sordi rispetto al bello o
comunque lo vedono come qualcosa di cui appropriarsi e poi consumare. Quando i presupposti sono questi,
un’esposizione al bello (es. andare ad una mostra) può rivelarsi del tutto inutile, poiché il ragazzo non ha ancora
elaborato nessuno schema interpretativo che gli permetta di cogliere quelle cose come cose belle o sottoponibili ad un
giudizio estetico. Ciò che è possibile prevedere è un percorso che passi dal “bello naturale” (gita in montagna) ad un
“bello artistico” e che venga proposto tramite ad esempio giochi o attività (ad esempio la fotografia o tramite uno sport).
Questo può rivelarsi un esercizio per pensare il mondo da un diverso punto di vista e che il ragazzo si collochi in modo
nuovo rispetto al mondo. Fargli attraversare queste esperienze per far sì che egli riesca a vedere del bello un po’
ovunque, anche nelle piccole realtà quotidiane.

-L’educazione al bello ha valore cognitivo (verso la definizione del bello). L’esposizione a varie esperienze estetiche
diverse tra loro può portare a fargli sperimentare la possibilità di emettere un giudizio e di attribuire un significato al
reale. Proporre al ragazzo l’idea che ci sia del bello possibile in ogni incontro con il mondo e con le persone e che anche
le esperienze più dolorose e difficili possano avere la loro bellezza specifica. L’educazione al bello è la strada più diretta
all’acquisizione dell’ottimismo esistenziale.

-L’educazione al bello ha valore esistenziale. Quando si incontra il bello e quando si è capaci di riconoscerlo come tale,
si ottiene gratificazione e appagamento.

-L’educazione al bello ha valore pragmatico. Ha capacità di provocare la costruzione di progetti di trasformazione del
mondo. Capire che il mondo non è bello ma che può esserlo a certe condizioni significa pensare non solo che il mondo
può essere significato, ma anche che può essere trasformato perché sia possibile attribuirvi un certo significato.

Document shared on https://www.docsity.com/it/ragazzi-difficili-pedagogia-interpretativa-e-linee-di-intervento/9665578/


Downloaded by: Cricetoobesi (C.ambrosoni1@studenti.unibg.it)
Educazione alla costruzione del bello: può tradursi ad esempio tramite attività volte a migliorare un ambiente oppure la
produzione di oggetti, basta che siano motivanti per il ragazzo, il quale possa rendersi conto che a volte è necessario
modificare la realtà perché essa possa essere definita bella. E’ poi importante tenere presente due aspetti fondamentali:
l’educazione all’impegno personale e alla responsabilità sociale.

• L’educazione “al difficile” per promuovere l’impegno e il senso di responsabilità, poiché la vita del ragazzo difficile
scorre sotto il segno della non-responsabilità o comunque non percepisce il suo contributo nella costruzione della realtà
e nemmeno i vincoli che lo legano ad essa. Senza dubbio, i casi in cui i ragazzi si impegnano (ad esempio a scuola o in
un lavoro) non sono pochi, ma di fronte a questi casi l’educatore deve interrogarsi riguardo la natura di quell’impegno
(perché si impegna? Perché crede che sia una scorciatoia nel percorso educativo, per avere riconoscimento da parte
dell’educatore o perché è effettivamente un impegno reale?); queste forme di impegno ottenuto troppo facilmente
devono suscitare nell’educatore perplessità. L’educatore deve proporre delle esperienze in cui l’impegno e la
responsabilità si rivelino, prima di tutto, delle strategie di azioni efficaci per raggiungere uno scopo che sia motivante per
il ragazzo. Quindi: proporre attività che abbiano scopi che siano nello stesso tempo sia motivanti per il ragazzo sia
irraggiungibili se non attraverso l’impegno e la responsabilità. Il lavoro o le attività formative implicano un esercizio
all’impegno, ma in genere hanno uno scopo che non pare essere significativo per il ragazzo. Tramite un’attività
motivante, il ragazzo constata che tanto più aumenta il suo impegno, tanto più riesce a raggiungere dati scopi. E, può
anche imparare, che spesso necessita dell’aiuto degli altri e che nelle situazioni collettive è fondamentale che ognuno
faccia la sua parte secondo uno schema d’azione. Stiamo parlando di progettazione di esperienze in cui il percorso per
raggiungere lo scopo significativo per il ragazzo sia costellato di ostacoli e di prove da superare posti dall’educatore
(essi variano in base alla difficoltà: è bene iniziare con una difficoltà bassa e poi aumentare e comunque dipende molto
dal ragazzo che si ha davanti) e qui si userà l’aiuto in base al bisogno asse che va dalla piena autonomia (posso farcela
da solo) fino alla cooperazione (chiedere aiuto agli altri). Imparare a non arrendersi alla prima difficoltà e scoprire che,
adattando il suo intervento ai vincoli che la realtà gli presenta, può contribuire alla modifica di quella stessa realtà.

-Costruire contesti che permettano al ragazzo di pensare la sua nuova collocazione nel mondo rispetto agli altri.
Prevedere versioni collettive nella gestione delle esperienze del difficile, a volte insuperabili se non tramite l’impegno di
più persone.

-Le situazioni proposte al ragazzo devono essere genuine e verosimili e devono tenere presente che egli ha una vita alle
spalle e sarebbe del tutto fuori luogo agire come se ciò non fosse. L’educatore deve fare i conti con ragazzi che hanno
vissuto nel mondo.

• Le esperienze dell’altro → esperienze caratterizzate da pratiche di scambio, di negoziazione e di accordo con l’altro.
Possiamo distinguere due tipi di esperienza dell’altro: l’incontro tra ragazzo ed educatore e l’incontro tra ragazzo e un
gruppo di pari. Il senso di identità - ciò che pensiamo di essere, di essere stati e di voler essere - è frutto di un
progressivo accumularsi di rappresentazioni del sé, costruite in contesti di confronto con gli altri.
L’identità si costruisce, decostruisce e ricostruisce sempre in relazione e in situazione.
Ciò che siamo dipende da una storia e dai rapporti con gli altri ormai passati.
-L’identità diacronica è ciò che ciascuno è, possiede, conosce già
-L’identità sincronica è il modo tramite il quale queste acquisizioni sono messe in gioco in funzione di nuovi rapporti,
scambi, prospettive che nascono dall’incontro con l’altro.
E’ importante creare e moltiplicare nuove relazioni con gli altri affinché il ragazzo possa modificare il proprio punto di
vista su di sé e sugli altri. Occorre guardare la qualità di questi incontri, bisogna che siano autentici.
Occorre anche guardare come essi si relazionano con le esperienze pregresse del ragazzo, il quale non ha un’identità
vuota, ma dipendente dai vissuti precedenti.

-La vita di gruppo → costruire esperienze, tramite la forma della vita di gruppo, è la strategia più adeguata per far
maturare nel ragazzo un senso di “appartenenza a”. Ma, non sempre i gruppi che si formano spontaneamente tra i
ragazzi assumono la configurazione di un contesto formativo che risponde allo scopo.
Compito dell’educatore è quello di guidare la formazione del gruppo dove nasce il sospetto che il gruppo stesso si
costituisca sulla base di dinamiche che hanno contribuito alla genesi di una certa visione dell’altro e del sé.
Dunque, l’educatore, dovrà fare in modo che il gruppo assuma un’opportuna configurazione (es. distribuzione ruoli e
comportamenti di ruolo) senza però che ciò venga percepito dai ragazzi come una prescrizione imposta dall’esterno.
Qualunque attività venga proposta, è importante che sia vissuta in comune, in condivisione, fatta insieme.
Questo è efficace per sperimentare le relazioni con gli altri, il modo in cui porsi nei loro confronti, capire che un gruppo
può anche essere un punto di riferimento.

Document shared on https://www.docsity.com/it/ragazzi-difficili-pedagogia-interpretativa-e-linee-di-intervento/9665578/


Downloaded by: Cricetoobesi (C.ambrosoni1@studenti.unibg.it)
-Dimensione dei gruppi e obiettivi formativi → è fondamentale che l’educatore tenga ben presente la dimensione del
gruppo, poiché da essa dipendono le dinamiche interpersonali che tenderanno a crearsi tra i ragazzi.
Ad esempio, nei piccoli gruppi (5 o 6 ragazzi) tenderanno a stabilirsi rapporti faccia-a-faccia, scambi incentrati su forma
di confidenza e di intimità, che possono scivolare in rapporti a due. Questi ultimi non sono controproducenti in assoluto,
anzi, possono creare sentimenti di solidarietà e di aiuto reciproco, ma difficilmente producono la costruzione di un “noi”
come senso di appartenenza ad una intersoggettività. I gruppi invece più ampi (10 persone) possono portare alla
creazione gerarchie, in cui vi è una distribuzione di ruoli e di potere che spesso annullano qualsiasi forma di
comunicazione e conoscenza reciproca tra i ragazzi. C’è da dire che, anche la gerarchia, non è da evitare in assoluto,
ma porta ad una organizzazione del gruppo stesso; nello stesso tempo, se il gruppo è troppo grande, l’organizzazione
gerarchica e i suoi risvolti tendono a non essere controllabili dall’educatore.
Quindi, cosa è necessario? Che l’educatore regoli anche la dimensione dei gruppi, o che, quantomeno, sia consapevole
dei rischi che può comportare. L’educatore deve regolare la costruzione dei gruppi, fare in modo che il gruppo contenga
o risolva i suoi membri devianti.

• Educare con l’avventura intendendo per avventura: “ricerca di un nuovo, di un non ancora dato che si presenta
tuttavia sotto il segno dello straordinario, ovvero di ciò che non può essere perseguito nella quotidianità”.
Risulta necessario che le esperienze che vengono proposte al ragazzo siano dotate di eccezionalità, in modo che
facciano sì che il ragazzo diventi consapevole di una nuova possibilità sul mondo. L’eccezionalità fa sì che
improvvisamente il mondo appaia in modo diverso al ragazzo, una possibilità di pensare il mondo, sé stesso e gli altri in
modo nuovo. Inoltre, creare delle esperienze basate sull’avventura è una strategia che può funzionare in quanto fa leva
su quel bisogno esplorativo, sul desiderio di mettersi alla prova che caratterizza tanti adolescenti.
Tuttavia, nessun educatore può pensare che vi sia in tutti i ragazzi un naturale bisogno di avventura, ma ciò che deve
fare è individuare una possibile motivazione all’avventura se esiste, provocarla se assente e, in ogni caso, trasformarla in
una spinta a partecipare a quelle esperienze che, sotto il segno dell’avventura, sono gestibili come contesti formativi.
Proporre un’esperienza di questo tipo non significa eliminare il valore formativo della quotidianità, ma tra l’una e l’altra
deve instaurarsi un rinvio reciproco che permetta al quotidiano di non trasformarsi in smorte abitudini e allo straordinario
di non essere semplice evasione e fuga. Quindi ciò che si propone è creare un contesto in cui il ragazzo possa affrontare
i momenti di avventura con determinate conoscenze e competenze. Il valore delle esperienze di avventura sta nella loro
forza destrutturante di vissuti cristallizzati, sempre che esse mantengano il tratto dell’eccezionalità (che le distingue dalle
esperienze quotidiane). Rompere con la consuetudine non significa infatti perdere il quotidiano, ma costruire nuovi
schemi per fare i conti con esso.

CAPITOLO 9 - LA FIGURA E IL RUOLO DELL’EDUCATORE PROFESSIONALE

Le strategie pedagogiche di tipo relazionale:

• La disponibilità → l’incontro e la relazione con l’educatore devono essere per il ragazzo un’occasione per
sperimentare che l’adulto può essere anche diverso, dal momento che, nella sua vita, non ha mai incontrato figure di
adulti che abbiano provato ad evitare di classificarlo dentro a determinati stereotipi che rappresentano i ragazzi difficili,
che non abbiano provato a guardarlo con un’ottica differente.

Il primo passo dell’educatore è far capire al ragazzo quanto sia inutile e infondata la sua diffidenza; dovrà quindi farsi
accettare come una persona di cui è possibile fidarsi e a cui guardare con interesse, stima e rispetto.
Sarà l’educatore a dover iniziare questa costruzione di fiducia reciproca e soprattutto a scommettere in una possibilità di
cambiamento del ragazzo, il quale deve essere riconosciuto come soggetto degno di rispetto.
E’ fondamentale che, nei primi momenti dell’incontro, l’educatore metta tra parentesi ogni giudizio nei confronti del
ragazzo a favore di una comprensione entropatica. Per molti ragazzi, questa può essere la prima occasione in cui si
trovano a parlare con qualcuno che non li giudichi o sanzioni per il loro comportamento antisociale.
Il parlare del comportamento del ragazzo prima di consolidare il rapporto tra i due, può diventare rischioso e fonte di
scontro tra i due che rischia di innescare nel ragazzo reazioni di evitamento della relazione.
Non parlare del comportamento non vuol dire fare finta di niente, ma creare le basi per la costruzione di un rapporto
significativo; dopo di questo si potrà parlare dello stesso comportamento.

Inoltre, l’educatore deve proporsi come punto di riferimento costante all’interno della vita quotidiana del ragazzo,
disponibile ed attento alle sue necessità, pronto a risolvere insieme al ragazzo i problemi e le incertezze che si
presenteranno. Deve sapersi mettere dal punto di vista del ragazzo, mostrare interesse per le cose che interessano al
ragazzo, anche quando appaiono banali. Deve intervenire di persona alle sue richieste, anche quando sono eccessive

Document shared on https://www.docsity.com/it/ragazzi-difficili-pedagogia-interpretativa-e-linee-di-intervento/9665578/


Downloaded by: Cricetoobesi (C.ambrosoni1@studenti.unibg.it)
poiché un’assenza di risposta ad alcune richieste rischierebbe di essere vissuta come un rifiuto alla propria persona.
Molti ragazzi mostrano il desiderio di essere ascoltati e che qualcuno prenda sul serio le loro preoccupazioni, le loro
ansie e le loro difficoltà l’educatore deve quindi avere la capacità di ascoltare.
Una qualunque forma di indifferenza può essere vissuta dal ragazzo come un tradimento. Spesso, i ragazzi mettono in
atto determinate strategie per mettere alla prova la tenuta dell’educatore, per vedere fino a che punto sia solida la sua
disponibilità nei loro confronti. Di conseguenza, l’educatore deve cogliere queste provocazioni e capire che esse sono
un modo tramite cui il ragazzo lo sta considerando come una persona per lui significativa. L’educatore non deve avere
fretta nel costruire un rapporto con il ragazzo, per cercare di stargli subito simpatico ad esempio tramite lo scherzo o la
facile confidenza, altrimenti rischierebbe di sembrare come un adulto facile da manipolare e disposto al compromesso.
Deve dunque porre dei limiti, istituire delle soglie, un equilibrio tra distanza coinvolgimento personale e distanza
pedagogica, creando le condizioni per un’autentica accettazione reciproca.

• L’autorevolezza → l’educatore deve proporre se stesso quale persona autorevole in modo che il ragazzo debba ogni
volta sperimentare che adeguare il suo comportamento alla regola, accettare i vincoli impostigli dall’educatore è un
modo per agire in maniera conveniente in primis per lui.

Come l’educatore può mostrare la sua disponibilità e la sua autorevolezza?

Può scegliere la strada del discorso, oppure impegnarsi in un linguaggio delle cose concrete, cioè una comunicazione
del proprio modo di essere che passa dalle azioni e dalle esperienze che quotidianamente egli condivide con il ragazzo.
Le parole (ad es. “puoi contare su di me”) non fanno molta presa sul ragazzo, il quale ha invece bisogno che la
disponibilità dell’educatore venga mostrata tramite il comportamento, i gesti, le azioni.
Inoltre, quando l’educatore si mostra disponibile (e non solo si dichiara tale) a modificare la sua visione del mondo, a
metterla in discussione di fronte a nuove esperienze, il suo stesso atteggiamento verso la realtà diventa un “enunciato
vivente” della possibilità di cambiamento.

È fondamentale che l’educatore non si presenti come il modello da seguire, ossia come portatore dei migliori punti di
vista sul mondo, detentore di saperi e saper fare che il ragazzo sarebbe portato ad imitare e rendere propri.
L’educatore, così facendo, porterebbe un'unica interpretazione del mondo, univoca e definitiva, alla quale non resta che
adeguarsi. L’obiettivo non è quello di sostituire ad una visione del mondo distorta (quella del ragazzo), la visione
dell’educatore, ma di comunicare al ragazzo l’idea che il mondo, se stesso e le persone possano essere diversi da come
lui li ha percepiti fino ad ora. L’educatore, non ha che un mezzo per testimoniare questa possibilità: mostrarsi egli stesso
disponibile a modificare la sua visione del mondo.

Il transfert pedagogico

Le strategie pedagogiche di tipo relazionale in genere attivano nei ragazzi delle risposte emotive piuttosto forti.
Difficilmente il ragazzo resta indifferente, dal momento in cui lo chiamano direttamente in causa.
Le risposte del ragazzo, di qualunque genere siano, costituiscono il segno che le strategie comunicative e di
animazione adottate dall’educatore hanno provocato una messa in discussione degli abituali schemi di comportamento
del ragazzo, anche quando da parte sua vi è un rifiuto o un tentativo di sottrarsi.
La costituzione di quello che può essere definito come transfert pedagogico, è un momento centrale nell’educazione dei
ragazzi difficili. A questo è affidato il passaggio dalla rottura degli abituali schemi di relazione alla costruzione di un
nuovo schema centrato sulla capacità intenzionale; si fa riferimento qui infatti al modello di intenzionalità incarnato
dall’educatore, cui il ragazzo tenderà ad aderire nella misura in cui avrà sviluppato nei confronti dell’educatore
sentimenti di stima, ammirazione e affetto. Il ragazzo tenderà a far proprio il modello dell’educatore e ciò avviene tramite
una erotizzazione della relazione tra ragazzo ed educatore, che non sempre è da costruire, ma spesso si costituisce in
modo spontaneo. Non sono rari i casi in cui i ragazzi mostrino segni palesi di un’ammirazione verso l’educatore che
sconfina in una vera e propria forma di innamoramento. Quando la dimensione erotica non fa già parte del modo con
cui il ragazzo si relaziona con l’educatore, essa deve essere in qualche modo provocata e, in entrambi i casi, il ruolo
dell’educatore è quello di costruirla sub specie pedagogica.

La differenza di genere influisce sulle forme e sui contenuti della comunicazione tra educatore o educatrice e ragazzo o
ragazza. I segni di legami che testimoniano l’esistenza di una relazione significativa tra educatori e ragazzi dello stesso
sesso sono diversi da quelli messi in atto di fronte a persone dell’altro sesso (leggi esempi pag. 166-7).
Risulta fondamentale la presenza di educatori di entrambi i sessi nei servizi per minori in quanto permette lo strutturarsi
di una particolare esperienza pedagogica dell’altro: di fronte all’altro dello stesso sesso o di sesso diverso, il ragazzo

Document shared on https://www.docsity.com/it/ragazzi-difficili-pedagogia-interpretativa-e-linee-di-intervento/9665578/


Downloaded by: Cricetoobesi (C.ambrosoni1@studenti.unibg.it)
può sperimentare i differenti modi che riguardano la costruzione di una relazione significativa con l’alterità di genere.

I rischi implicati da una gestione non professionale del transfert sono notevoli. Al di là del rischio che si instauri una vera
e propria relazione sentimentale tra educatore e ragazzo, vi possono essere altre situazioni meno vistose, ma comunque
poco controllabili. Forse il pericolo più grave consiste nel fatto che il ragazzo potrebbe fare proprio lo stile di relazione di
cui l’educatore si fa portatore per un meccanismo di pura compiacenza. Le situazioni caratterizzate dal desiderio di
compiacere l’educatore, in apparenza le più facili da gestire, sono in realtà le più delicate.
In realtà, dietro a questo comportamento, si nasconde un'ennesima incapacità di riconoscersi come soggetto
responsabile della costruzione del proprio modo di essere-nel-mondo-con-gli-altri.
Inoltre, un altro pericolo è che l’educatore ceda alle manovre di seduzione che talvolta caratterizzano il comportamento
del ragazzo. Solo in rari casi questo cedimento si configura come trasporto sentimentale, molto più di frequente diventa
una forma di resa al ragazzo a cui l’educatore passa il controllo della relazione e rischia di perdere la distanza
pedagogica necessaria a mantenere uno sguardo dall’esterno su una situazione che prevede un’indispensabile
implicazione personale. Questa perdita rende impossibile gestire il transfert quale strumento di formazione.

La dimensione affettiva tra educatore e ragazzo, fa sì che le proposte fatte a quest’ultimo vengano accolte con
entusiasmo; lo sviluppo di una forma di attaccamento nei confronti dell’educatore fa sì che le sue proposte siano in
presa diretta sul ragazzo e questo moltiplica la possibilità che l’intero percorso rieducativo provochi una modificazione
graduale di quel profondo sistema di significati. Un modo per gestire la relazione transferale è quella di pensarla nei
termini di una collettività a due: l'educatore dovrà mettersi in gioco con quegli atteggiamenti che adotta o adotterebbe in
gruppo. Si tratta di un modo differente di manifestare l’affetto e l’interesse che rimangono personali, ma non scivola in
forme palesi di intimità, ma diventa un modo per dosare il distacco affettivo.
Un’altra tecnica è quella di “spendere” il più possibile questo affetto in un fare insieme, magari attraverso la mediazione
di un progetto o l’esecuzione di qualcosa. È utile inserire il ragazzo all’interno di un gruppo e far sì che vi sia
coinvolgimento diretto in attività collettive, questo rappresenta un modo per instaurare delle relazioni interpersonali che
si affiancano a quella con l’educatore, così da non renderla quindi privilegiata ed esclusiva; si evita così la nascita di una
simbiosi tra educatore e ragazzo, a favore della costruzione di una collettività a due.

CAPITOLO 10 - LA COSTRUZIONE DI UNA NUOVA VISIONE DEL MONDO

Gli obiettivi del processo rieducativo

• Obiettivi finali: provocare una modifica di quel sistema profondo di significati, la costruzione di una nuova visione di
sé e della realtà e dunque un nuovo modello per orientare il proprio comportamento.
Il ragazzo si presenta all’educatore con una certa visione del mondo, più o meno stabile, più o meno consolidata, è la
griglia con cui il ragazzo attribuisce significati al mondo e regola il suo comportamento; è un modello di realtà, ma anche
un modello per la realtà e orienta quindi l’azione del soggetto nel mondo. Si deve verificare un cambiamento stabile e
duraturo della visione del mondo del ragazzo.

• Obiettivo intermedio: per far sì che il ragazzo si appropri di un nuovo punto di vista, è necessario che venga
raggiunto un obiettivo intermedio: la consapevolezza da parte del ragazzo dei suoi schemi di significato, della
rappresentazione di sé e degli altri. È un momento di consapevolezza e distacco critico che segue logicamente
l’acquisizione di un nuovo punto di vista. Finché il ragazzo non fa proprio un punto di vista alternativo a quello abituale,
non potrà assumere una prospettiva critica nei confronti del suo passato.

Ripensarsi nel presente

L’assimilazione di un nuovo schema non implica necessariamente l’abbandono globale di quello abituale.
Nella maggior parte dei casi si crea una zona di disequilibrio caratterizzata da una coesistenza di punti di vista spesso
incompatibili. Il ragazzo, in questo passaggio testa l’efficacia del nuovo modo di rapportarsi alla realtà confrontandosi
continuamente con quello per lui consueto. È fondamentale che l’incontro tra vecchio e nuovo schema di
rappresentazione della realtà venga risolto a favore del nuovo, ma il ragazzo deve cogliere i vantaggi insiti
nell’assunzione di una nuova visione del mondo. I riflessi sul piano del comportamento non tardano a manifestarsi: il
ragazzo cambierà modo di relazionarsi alle cose e agli altri e pretenderà che gli vengano affidate responsabilità sempre
maggiori; man mano che matura un senso di autonomia e di autostima, la dipendenza emotiva e cognitiva
dall’educatore tenderà ad affievolirsi.

Document shared on https://www.docsity.com/it/ragazzi-difficili-pedagogia-interpretativa-e-linee-di-intervento/9665578/


Downloaded by: Cricetoobesi (C.ambrosoni1@studenti.unibg.it)
Ripensarsi nel passato

Ogni esperienza educativa, in quanto storia, possiede una caratteristica che non può in nessun modo essere eliminata:
l’irreversibilità; infatti, non si può tornare indietro, annullare o modificare qualcosa che è avvenuto nel passato.
È però possibile tornare sui fatti accaduti, accostando ad essi significati nuovi. Nel caso della rieducazione dei ragazzi
difficili la rivisitazione del proprio passato è un momento necessario alla determinazione di un cambiamento stabile e
duraturo della propria visione del mondo. L’esperienza della rieducazione è un’occasione per maturare un pensare e un
sentire nuovi rispetto ad eventi sempre saputi. Non serve a niente la dimenticanza del passato perché è in quel passato
che si collocano le motivazioni con cui lo stesso ragazzo può rendersi spiegabile il suo presente e la sua esperienza
rieducativa. Puntare sulla dimenticanza del passato, inoltre, significa sottrarre al ragazzo l’unica possibilità di giustificarsi
a vicenda, quella della rieducazione, che non riguarda la maggior parte dei suoi coetanei e quindi non è ovvia.
Il ruolo dell’educatore è quello di provocare un riconoscimento, un superamento di ciò che il passato ha significato per il
ragazzo. Perseguire il principio di appropriazione critica: l’educatore deve fare in mondo che il ragazzo attribuisca un
significato diverso e maturi pensieri e sentimenti differenti; cogliere il nesso soggettivo tra queste e il proprio
comportamento, nesso costituito da una particolare visione del mondo alla cui costruzione il ragazzo ha contribuito.

Il ragazzo come protagonista del suo cambiamento

Un altro compito dell’educatore è quello di provocare nel ragazzo un processo di autorinnovamento, riconoscendo in lui
una possibilità di cambiamento e rendendolo primo protagonista di questo processo. Per raggiungere questo obiettivo,
l’educatore non può presentare al ragazzo una revisione del suo passato o un modello di realtà elaborato dall’esterno
nei cui confronti il ragazzo sarebbe semplicemente chiamato a dichiarare la sua adesione.
L’educatore deve suggerire percorsi di interpretazione e soprattutto provocazioni a ripensare la realtà attuale, passata e
futura alla luce di quelle nuove modalità di approccio al mondo acquisite durante la vicenda rieducativa.

Pensarsi nel futuro

I processi di cambiamento che costituiscono un’esperienza educativa pedagogicamente legittimabile si svolgono lungo
un asse temporale orientate al futuro. La dimensione prospettica si fa particolarmente saliente nel caso dell’educazione
dei ragazzi difficili; questi ultimi, nella maggior parte dei casi mostrano una sorta di incapacità di collocare il loro essere
attuale in una dimensione prospettica, di rintracciare gli scopi e i motivi del loro agire in un “dopo” percepito come
significativo. Vi è una sorta di paralisi di ogni capacità di collocarsi come attore protagonista del proprio futuro: l’unico
universo rilevante è il presente, il futuro non è altro che il susseguirsi di situazioni alla cui costruzione il ragazzo non si
sente affatto chiamato a partecipare. Prima o poi l’educatore si trova di fronte all’incognita del suo futuro: cosa farò
adesso? Cosa vorrà fare nella sua vita? Come spenderà il suo cambiamento? Di solito si tende a riempire in maniera
strutturata, prevedibile ed organizzato il futuro del ragazzo. In ogni caso al di là di qualsiasi programmazione, i contenuti
con cui il ragazzo riempirà il suo pensarsi nel futuro, dipenderanno dalle sue scelte e dall’elaborazione personale con cui
avrà dato forma agli interventi educativi nei suoi confronti.
L’educatore è impossibilitato a prevedere totalmente l’esito futuro del suo intervento. Il ragazzo deve essere partecipe
alla scelta delle soluzioni per il suo futuro: la funzione dell’educatore non è quella di presentare al ragazzo progetti già
confezionati ma di suscitare in lui un pensiero di se stesso nel futuro e di provocarlo a mediare continuamente istanze
soggettive e vincoli reali. L’individuo deve conoscere sia le proprie possibilità che i propri limiti, deve cioè disporre di
una serie di informazioni che gli permettano di fare previsioni, discriminare scopi e progetti, di valutarne la praticabilità.
La capacità di pensarsi nel futuro è una conquista graduale che si intreccia in continuazione con altre conquiste.
È importante sottolineare anche la questione riguardo al tempo della rieducazione, il quale non è per nulla prevedibile.
Ogni ragazzo ha un suo tempo, non lineare e non progressivo, ma tendenzialmente ciclico e fatto di ritorni, bruschi
passaggi dall’entusiasmo all’indifferenza sul proprio futuro e ciò non permette di capire a priori la sua durata.
L’educatore deve concedere al ragazzo il suo tempo e aiutarlo ad individuare i suoi limiti, le sue possibilità.

STORIE DI FORMAZIONE

Un campeggio estivo in alta montagna

Un’esperienza formativa importante per i ragazzi difficili proposta da Bertolini è il campeggio estivo: un’occasione
formativa particolarmente significativa. Il punto di partenza di questo progetto era lo scoutismo, da qui nasce anche la
collaborazione con alcuni capi scout estranei al corpo degli educatori dell’istituto che prendevano parte al campeggio.

Document shared on https://www.docsity.com/it/ragazzi-difficili-pedagogia-interpretativa-e-linee-di-intervento/9665578/


Downloaded by: Cricetoobesi (C.ambrosoni1@studenti.unibg.it)
Questa iniziativa viene proposta per la prima volta nell’estate del 1959 e venne poi ripetuta per le dieci estati successive,
al progetto i ragazzi parteciparono sempre numerosi.

L’organizzazione del campeggio

- Lanciare l’impresa: il progetto veniva presentato ai ragazzi che rispondevano subito con entusiasmo, venivano
sottolineate anche le complessità della sua realizzazione;
- Preparazione del materiale e dell’equipaggiamento da campo cui partecipavano attivamente anche i ragazzi;
- Veniva stabilita la legge del campeggio:
1. Al campo ognuno è leale;
2. Al campo si obbedisce agli ordini senza discutere;
3. Al campo non si litiga;
4. Al campo si lavora senza brontolare.
- Veniva organizzato il sistema di squadra, piccoli gruppi di sette o otto elementi;
- Lo spirito di avventura era importante, diede subito entusiasmo ai ragazzi.

Il linguaggio delle cose concrete

Nell’esperienza del campeggio estivo importante era l’amicizia autentica, i ragazzi potevano collaborare e conoscersi in
una maniera del tutto nuova ed estranea a loro prima in quanto erano abituati al contesto carcerario.
Le amicizie rappresentavano un bisogno di affettività da parte dei ragazzi e spesso queste continuavano anche dopo il
periodo del campeggio. Importante è anche l’educazione all’arrangiarsi, significa sapersela cavare senza fare appello
all’aiuto e all’appoggio altrui, significa formarsi a contatto con le persone concrete quella fiducia in se stessi e quel
senso di sicurezza che nascono soltanto nell’essersi messi alla prova e all’aver constatato quanto possano la volontà e
l’impegno.

Bilancio conclusivo

L’intenzione e l’obiettivo del campeggio era quello di contribuire alla rieducazione dei ragazzi difficili, aprendoli verso un
tipo di esperienza esistenziale autentica che scaturisse un incontro con il mondo e con i valori.

Tre punti importanti e significativi:

1. Determinare un incontro dei ragazzi con il modo e sviluppare il gusto per il bello e il loro senso estetico;
2. Importante è l’elemento dello sforzo;
3. Interesse per ciò che si conquista da sé.

Nel progetto del campeggio estivo è stata fondamentale l’osservazione, essa fornisce la vera giustificazione dello
svolgimento del campeggio per un istituto, di osservazione e non di vera e propria rieducazione. Questo potrebbe anche
essere un banco di prova per constatare il grado di formazione raggiunto da ciascun ragazzo.

I ragazzi difficili nel nuovo millennio (Pierangelo Barone)

Il lavoro di Bertolini è senza ombra di dubbio il più importante manuale di pedagogia che mette in luce la devianza
minorile e i modi opportuni per poter mostrare ad un educatore professionista le tecniche per poter sviluppare
un’adeguata rieducazione.

Oggi però, a distanza di decenni da quando Bertolini ha scritto “Ragazzi difficili”, alcune strategie che caratterizzano la
prospettiva pedagogica negli interventi di inclusione rivolti ai ragazzi difficili sono cambiati.
Anzitutto il significato del reato oggi viene visto come atto comunicativo di un adolescente, in cui si rende manifesta la
ricerca di aiuto rivolta agli adulti e alla società nel suo complesso. Il soggetto agisce in rapporto ad una complessità di
situazioni concomitanti di cui l’atto criminoso mostra il lato più drammatico. Partire da questa consapevolezza significa
intendere il lavoro rieducativo come necessità di operare una destrutturazione e una ricostruzione degli elementi che
contribuiscono a delineare la storia soggettiva dell’adolescente autore di reato.
Bisogna quindi procedere con una profonda trasformazione della visione del mondo del ragazzo, come sosteneva
Bertolini, dal suo modo di intendere se stesso, gli altri e le cose, del suo mettersi in relazione con queste realtà e di
procedere nella scelta dei suoi atteggiamenti e comportamenti.
Le strategie fondamentali per riuscire a ottenere quel doppio movimento che qualifica la progettualità educativa sono da

Document shared on https://www.docsity.com/it/ragazzi-difficili-pedagogia-interpretativa-e-linee-di-intervento/9665578/


Downloaded by: Cricetoobesi (C.ambrosoni1@studenti.unibg.it)
un lato la possibilità dell’aggancio del ragazzo, ovvero il suo coinvolgimento relazionale ed esperienziale; dall’altro il
processo di ingaggio, ovvero il passaggio dal coinvolgimento alla partecipazione del minore alla definizione di un
progetto di vita che consenta di ridefinire e superare in modo concreto e profondo la propria storia difficile.
La questione dell’espressione del sé delinea una seconda questione problematica importante: il reato racconta di un
vissuto deterministico del sé, con cui gli adolescenti devianti congelano la propria immagine identitaria.
Importante è anche il rapporto con l’errore, il reato appare frequentemente sottovalutato rispetto alla sua portata sociale.
Il tempo di elaborazione dell’errore permetterà poi di comprenderlo per poi aprire l’orizzonte esistenziale dei ragazzi
difficili ad altre possibili visioni del mondo.

Document shared on https://www.docsity.com/it/ragazzi-difficili-pedagogia-interpretativa-e-linee-di-intervento/9665578/


Downloaded by: Cricetoobesi (C.ambrosoni1@studenti.unibg.it)

Potrebbero piacerti anche