Sei sulla pagina 1di 17

DISABILITÀ, FAMIGLIE E SERVIZI

Impegni di alleanza, esperienze di valutazione


(Roberta Caldin - Alessia Cinotti -Fabrizio Serra)

PARTE 1 GLI APPROCCI: SFIDE INCLUSIVE E ITINERARI DI CONDIVISIONE

CAPITOLO 1
Genitorialità, professioni di aiuto e prima infanzia. Quali processi inclusivi nei servizi
educativi? (p.17)

Elementi basilari nelle professioni di aiuto:

- il lavoro di cura e la relazione d’aiuto non sono il fine.

- è malsano prendere iniziative tese a rafforzare il curare in senso medico e psichiatrico, in quanto
rischiano di cancellare l’esistenza della persona è il suo progetto di vita e non solo, rischiamo di
instaurare una relazione d’aiuto che è imposizione, asettica e impersonale, priva della dimensione
dialogica, della relazionalità e di scambio umano che la rende una relazione significativa.

La consapevolezza dei propri limiti, non è un motivo valido per rinunciare a vivere in pienezza,
cioè a fare e ad essere. Chi si trovano situazioni di bisogno, deve individuare l’inizio di una
risposta, anche se ciò avviene nell’esperienza del dolore, della limitazione fisica ecc.

Le professioni d’aiuto, vengono a contatto più di altre, spesso quotidianamente, con il dolore,
con limiti abnormi, con vincoli prepotenti: tale esperienza è spesso logorante. Si tratta perciò di
una professione difficile, ma proprio nell’esperienza del limite vi può essere un autentica
riflessione critica, di affinamento di sé, di ri-apertura di impreviste possibilità, riducendo così la
distanza tra desiderio ed effettiva possibilità di realizzazione. Come è possibile ciò? L’educatore
problematizza situazioni, ricollocandole in un contesto significativo di potenzialità, trasformando
quindi le limitazioni esistenti in possibilità.

L’esserci assume significato in relazione alla cura. Dal punto di vista ontologico, la cura designa
un rapporto di prossimità e di incontro sia con le cose che sono presenti nel mondo sia con le
altre persone che lo popolano.

Individuiamo 2 modi di essere nel mondo:

1) il prendersi cura - è la relazione con gli oggetti

2) avere cura - è la relazione con gli esseri umani

Solamente nell’aver cura noi incontriamo l’altro esserci, riconosciuto in quanto soggetto.

Esistono poi 2 modalità estreme dell’aver cura:

1) pone l’altro “fuori” dalla relazione, ci si sostituisce ad esso, si fa e si decide per lui. L’altro
diviene quindi o un dipendente o un dominato. La relazione è soffocata.

2) si aiuta l’altro ad essere consapevole e libero per la propria cura, lo si rispetta e ci si relaziona
con lui.

La cura ci mostra il senso formativo dell’agire umano il quale è però esposto ad un rischio, quello
di cadere in una relazione inautentintica e dannosa. Questo rischio è più forte nell’ambito della
disabilità, in cui le normalità sono negate, spesso si costringe le persone con la disabilità ad una
vita inautentica e lontana dalla società, costrette entro i margini dei loro deficit, viste come
bisognose delle cure preconfezionate dagli altri.

Per superare questa visione riduttiva e dannosa, occorre che genitori ed educatori attuino la cura
autentica, in cui il bambino venga riconosciuto come persona è non come “sotto persona”,
imprigionata nella dipendenza.

Aver cura dei bambini disabili, significa aiutarli a realizzare responsabilmente la cura di sé, senza
sostituirsi ad essa.

Chi svolge un lavoro educativo deve avere una grande chiarezza verso se stesso: il lavoro con
bambino e genitore, va infatti accompagnato dall’individuazione delle proprie risorse e
potenzialità, ma anche dei propri limiti e delle proprie difficoltà.

L’educatore che lavora con i piccoli dovrebbe possedere una buona maturità psicologica che lo
aiuta ad implementare le capacità personali, ma anche ad accettare le proprie inadeguatezze. In
quest’ottica, divengono rilevanti le conoscenze che alcune discipline offrono agli educatori: in
particolare quelle di stampo pedagogico, psicologico, e della psicoanalisi.

Le professioni educative, infatti, vengono a contatto anche con 2 esperienze psichiche:

1) la frustrazione - è tipica in educazione, poiché i tempi sono estremamente dilazioni e gli


obiettivi, talvolta, sono raggiunti solo parzialmente. L’educatore poco consapevole può
confondere gli insuccessi con l’incapacità personale e accrescere così la disistima e la
svalutazione di sé.

2) i meccanismi di difesa - possono diventare abnormi quando le situazioni risultano


particolarmente frustranti o conflittuali. È importante una sufficiente conoscenza e una buona
consapevolezza dei meccanismi di difesa per un loro veloce riconoscimento, mettendo
l’educatore in grado di attivare strategie di limitazione degli stessi.

A questi accorgimenti nel esercitare la professione educativa, si aggiunge quello di

3) lavorare in equipe, per favorire il confronto, la discussione, per attenuare il senso di


onnipotenza.

Nella relazione con i genitori di bambini piccoli, spesso, l’educatore ha 2 funzioni:

1) funzione promozionale - attraverso progetti, iniziative, proposte, decisioni

2) funzione contenitivo - per l’ansia da separazione, e sensi di colpa

Sono 2 funzioni essenziali per un educatore competente, in grado di incoraggiare e condividere


quei percorsi di autonomia e di emancipazione dei figli.

Tra educatori e famiglie, a volte la relazione è simmetrica

1) educatori e genitori discutono e si attivano insieme per il minore,

2) altre volte invece il genitore è oggetto stesso dell’intervento (esempio: per migliorare le sue
modalità educative).

Negli educatori che lavorano con bambini, sono essenziali gli elementi genitoriali: gli educatori nel
loro lavorano ed affrontano esperienze emotive e difficoltà molto simili a quelle delle famiglie
genitoriali, anche se la loro situazione è molto diversa non solo per il contesto nel quale operano
(un setting maggiormente protetto e transitorio), ma anche per l’assenza di sensi di colpa che
invece possono avere i genitori.

Anche l’educatore che lavora nei servizi per la prima infanzia deve adattare socializzazione e
apprendimento, svolgendo funzioni protettive e emancipate. Le prime volte all’accoglimento del
bisogno e del desiderio del bambino e alla loro traduzione, le seconde intese come richieste di
sforzo graduate secondo le capacità del soggetto in crescita. Tali modalità dovrebbero essere
integrate e non scisse. Al tempo stesso, anche gli educatori possono promuovere crescita
personale (cognitiva, affettiva e relazionale) attraverso l’utilizzo di un approccio protettivo e
emancipativo, teso a sollecitare i primi incontri alle norme comunitarie, al rispetto dell’altro ecc..

Un contesto educativo facilitante non potrà mai ridurre il deficit, ma aiuterà a contenere gli
elementi che possono gravarlo.

L’OMS guarda come estrema attenzione all’interazione bambino e ambiente (fatto di persone,
relazioni, occasioni,). Tale incontro tra il bambino con le sue caratteristiche e i fattori contestuali
può produrre un handicap (barriera, pregiudizio).

Lavorare per l’inclusione significa anche lavorare per la riduzione dell’handicap. Cercando di
individuare le variabili che possono costituire un ostacolo e quali invece lo facilitano. Questo è
uno dei compiti prioritari dell’educazione e della pedagogia speciale. L’elemento ricorrente dei
contesti educativi facilitanti è il concetto di inclusione. C’è stata un’evoluzione del termine da
integrazione ad inclusione caratterizzata da una forte centratura sul contesto non solo sul singolo
bambino.

L’educazione inclusiva invita a considerare non solo il bambino con disabilità, ma i compagni
stessi che possono produrre integrazione/ inclusione, considerando anche il problema della
gestione dei tempi sia rallentando lì che spingendoli. La sollecitazione è più incisiva se effettuata
dei compagni.

L’educazione inclusiva infatti necessità del lavoro in rete, nel quale si costruiscono reti di
integrazione che potenziano i processi di apprendimento, Che facilitano la familiarizzazione intesa
come conoscenza diretta di bambini con disabilità.

Quando in una famiglia arriva un bambino disabile, la dimensione temporale è sconvolta più del
normale. Il tempo dovrebbe diventare l’occasione per avviare processi di elaborazione del “lutto”
del “bambino atteso” è un tempo per la madre e il padre ma anche per il bambino. Questo diventa
il tempo in cui il bambino può elaborare l’assenza/separazione della madre in maniera graduale e
non traumatica. Questa separazione permette al bambino con disabilità di avanzare verso la
nascita psicologica.

L’asilo nido può essere un servizio di sostegno e accompagnamento ai genitori che hanno un
bambino con disabilità: l’inserimento graduale, pianificato e accompagnato da educatori preparati
e attenti, in grado di incontrare e tollerare i “vissuti di morte” dei genitori, può favorire l’avvio di
processi di elaborazione del lutto.

Affinché l’integrazione del bambino con disabilita all’asilo nido possa costituire un’occasione di
co-evoluzione per tutti deve:

- fondarsi su una sufficiente relazione oggettuale tra madre e bambino e sul riconoscimento di
una figura emancipativa che favorisca i processi di separazione e di costruzione dell’identità
personale.

- Personale adeguato e competente

- Configurarsi come un intervento educativo che ha cura di tutti e due i genitori, incrementando e

sostenendo le capacità parentali e ampliando e supportando anche le risposte ai bisogni

specifici derivanti dal deficit.

I percorsi di inclusione portano ad individuare delle costanti educative. L’educatore ha bisogno di


fermarsi, riflettere, ascoltare, scrivere, perché quando ci si ferma riflettendo e documentando il
proprio e l’altrui lavoro si sollecitano azioni che spingono la teoria a generare altre pratiche.

Problema riguardante gli educatori: la giusta distanza educativa ed emotiva. Altrimenti potrebbe
portare ad interventi in adeguati.

Problema riguardante il genitore: il conflitto interno. Ossia la colpevolizzazione per la quotidiana


separazione dal figlio e successivamente la gelosia nei confronti di chi si occupa quotidianamente
del bambino.

L’adozione di alcune strategie educative per una giusta distanza educativa è la critica costruttiva.
È uno strumento importante nella relazione educativa con i piccolissimi perché il suo uso
conferma l’impossibilità di proteggere infinitamente e aiuta ad evitare il rischio di volere esonerare
da situazioni spiacevoli.

Riferimenti internazionali e nazionali sui servizi per la prima infanzia:

La Dichiarazione mondiale sull’educazione per tutti del 1990 e la Convenzione sui diritti del
fanciullo del 1989 sostengono l’importanza dell’attenzione che va riservata alla prima infanzia,
specie in condizioni di disabilità.

La convenzione stabilisce che “i bambini hanno diritto alla vita e alle migliori opportunità possibili
di sviluppare pienamente le proprie potenzialità” art.6 e che “i bambini con disabilità devono
essere aiutati a raggiungere il più alto livello di indipendenza possibile e ad acquisire le capacità
per partecipare pienamente e attivamente alle attività della vita quotidiana” art 23.

La“Dichiarazione di Salamanca” invece, pone l’accento sulla prima infanzia vista come fase
cruciale per la scoperta “positiva” delle diversitànella condizione esistenziale. Questi programmi
insistono sull’inclusione precoce in quanto è un fattore straordinario di contenimento
dell’aggravamento di un deficit. L’educazione precoce infatti si configura come uno dei maggiori
fattori di prevenzione degli elementi handicappanti aggiuntivi.

Anche il Word Report on Disability si pone su questa linea. Evidenzia che i bambini con
disabilità hanno meno probabilità di accedere ai servizi educativi e alla scuola dei loro coetanei
non disabili, soprattutto nei paesi poveri.

Vantaggio evolutivo e vantaggio economico:

Nel Report l’inclusione di bambini con disabilità nei sistemi educativi e scolastici e molto
desiderabile anche perché educare/istruire i bambini insieme da un punto di vista economico è
una scelta con il costo più basso.

Inoltre il Report specifica come l’identificazione precoce del deficit e la tempestività dell’intervento
riduca la necessità del livello del supporto educativo. Sempre secondo il Report il coinvolgimento
dei genitori e dei membri della famiglia, degli insegnanti e della comunità rappresenta uno dei
fattori chiave di successo dell’inclusione.

Già nella Dichiarazione di Madrid del 2002 era stato ribadito con forza che “le scuole devono
assumere un ruolo rilevante”. Questo perché l’istruzione è un ruolo fondamentale nella
costruzione del futuro per tutti, sia per l’individuo, sia per la persona come membro della società e
del mondo del lavoro. Il sistema educativo deve assicurare lo sviluppo personale e l’inclusione
sociale per raggiungere indipendenza.

Nella dichiarazione di Madrid si delineava non solo la rilevanza del sistema scolastico ma in
particolare la funzione sociale.

Differenza tra integrazione e inclusione:

- integrazione: si intende una situazione riferita all’ambito educativo in senso stretto, guarda il

singolo alunno, interviene prima sul soggetto poi sul contesto.

- Inclusione: si riferisce alla globalità delle sfere, educativa, sociale e politica e guarda tutti gli

alunni, interviene prima sul contesto e poi sul soggetto.

Infatti l’inclusive education:

- Ha una dimensione sociale: integrarsi in un contesto scolastico ricco nei confronti di educatori

docenti e compagni.

- Rendere tangibile l’appartenenza ad un gruppo educativo, alla classe, alla comunità scolastica. -
Favorisce il percorso di apprendimento Interindividuale e intraindividuale.

L’educazione inclusiva, si rifà ad un modello antropocentrico (basato sulle esigenze di ciascuno),


ad un modello complesso di disabilità (che contempla apprendimento e socializzazione), alla
familiarizzazione e al protagonismo delle persone e richiede la partecipazione attiva. Ma
l’educazione inclusiva per essere efficace necessita di alcune condizioni: l’educatore necessita di
una permanenza nella professione e competenze che rendono competente il contesto; i contesti
devono favorire una pluralità di incontri con adulti significativi.

Il Comitato dei ministri del consiglio d’Europa indica come tema prioritario quello del diritto
all’educazione, in termini di qualità. L’istruzione e l’educazione di qualità, devono essere garantiti
a tutti. Inoltre il comitato invita ad accertare con precisione le situazioni che necessitano di
interventi educativi specifici. L’art. 24 della convenzione ONU sui diritti delle persone con
disabilità impone agli Stati di garantire l’accesso all’educazione ai bambini, giovani e agli adulti
con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri, in un sistema inclusivo. Se impediti nel
nell’accesso, i bambini con disabilità possono risultare penalizzati. Tale penalizzazione ha una
ricaduta anche sulle famiglie e sulla comunità. Lo stesso articolo chiede anche di procedere ad
un’adeguata formazione di coloro che fanno parte dell’istruzione e dell’educazione; tale
formazione dovrebbe includere la consapevolezza della disabilità e l’utilizzo di appropriate
modalità, mezzi, forme e sistemi di comunicazione, tecniche e materiali didattici adatti.

In Italia la disciplina dei servizi per l’infanzia degli asili nidi nido ne ha affidato la programmazione
e la regolamentazione alle regioni e la loro gestione alle amministrazioni comunali. Questo ha
prodotto una diversificazione delle normative e una distribuzione diseguale degli asili nido sul
territorio nazionale.

In Italia

La legge 1044 del 1971 indicava che i nidi dovevano “essere dotati di personale qualificato
sufficiente e idoneo a garantire l’assistenza sanitaria e psicopedagogica del bambino”, ma non si
prevedevano disposizioni specifiche per l’accoglienza dei bambini con disabilità.

La legge 104 del 1992 (legge quadro) che sancisce il diritto dei bambini con disabilità alla
frequenza della scuola per l’infanzia garantisce anche il diritto all’educazione e all’istruzione delle
persone handicappate nelle sezioni della scuola materna.

All’art. 3 stabilisce che le situazioni riconosciute di gravità determinano una priorità nei programmi
e negli interventi. Vuol dire che i bambini con disabilità complessa hanno diritto di priorità di
accesso agli asili nido,

nell’art. 12, sempre della legge 104, è previsto che l’inserimento dei bambini con disabilita vada
definito anche in collaborazione con i servizi delle Asl e con i servizi sociali dei comuni.

Nel 2002 la Corte costituzionale ha riaffermato che il servizio fornito dall’asilo nido non si riduce
ad una funzione di cura dei figli ma comprende anche finalità formative, pertanto “la frequenza
dell’asilo è un essenziale fattore per il recupero” del bambino disabile.

La legge 5 maggio 2009 numero n 42 ha riconosciuto i nidi come servizi fondamentali e quindi
oggetto di finanziamento.

Il Piano straordinario per lo sviluppo dei servizi socio educativi territoriali per la prima infanzia
legge 27 ha rilanciato politiche statali di promozione e sostegno dei servizi sotto i tre anni.

Con la “Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità” Legge 18 del
3 marzo 2009 si considera la disabilità come un concetto in evoluzione e in interazione con il
contesto nel quale ci si trova a vivere. La convenzione riconosce l’importanza per le persone
disabili della loro autonomia e indipendenza e la libertà di compiere scelte autonomi e riconosce
che i bambini con disabilità dovrebbero poter godere pienamente di tutti i diritti umani e libertà
fondamentali.

CAPITOLO 2
La famiglia al centro del percorso valutativo degli interventi (p.45)

Valutazione è un insieme di dati che, attraverso un percorso scientifico attento, offrono riferimenti
precisi e rigorosi in merito al raggiungimento degli esiti ottenuti affiancate da dimensioni
relazionali e di sviluppo in cui l’elemento quantitativo è rilevante ma non esaustivo.

Nei progetti per bambini con disabilità, la valutazione ha una prospettiva più ampia, lo sguardo è
rivolto al obbietti finale disconoscendo però l’importanza degli esiti. È importante valutare ogni
volta che si prende una decisione rispetto ad un programma, inteso come un insieme di progetti.
Perciò la valutazione non è un momento unico: è un processo per esprimere un giudizio rispetto
alla qualità di un progetto e agli esiti che ha prodotto.

• La valutazione in ambito sociale riguarda 3 momenti specifici:

- ex ante (vale la pena avviare il programma),

- in itinere (modifiche orientate al raggiungimento degli obiettivi),

- ex post (il programma ha funzionato, vale la pena ripeterlo e come).

Non sono separati ma si tratta di un processo continuo; deve inoltre essere fatta in continuità con
quelli che sono gli obiettivi del bambino disabile e tenere conto dei diversi interventi nel loro
insieme (no ottica prestazionale) in quanto essi singolarmente sono necessari ma non sufficienti.
Si devono inoltre considerare anche indicatori proxy (= indiretti) riguardanti il benessere
complessivo della famiglia, il bambino non è la sua patologia ma un soggetto unitario con le
proprie esigenze.

• Si devono valutare:

efficacia interna (raggiungimento dell'obiettivo),

efficacia esterna (soddisfacimento dei bisogni del soggetto)

ed efficienza (rapporto tra i risultati raggiunti e le risorse impiegate).

Bisogna inoltre considerare le caratteristiche del contesto in cui si svolgo- no gli interventi,
affinché siano tra loro coordinati e tutti i servizi collaborino al medesimo progetto di vita, che si
svolgerà per tutta la vita del soggetto.

• La valutazione di efficacia deve avere alla base una definizione chiara e condivisa di quelli che
sono gli obiettivi specifici progettuali. Tali obiettivi devono tenere in considerazione la necessità di
non considerare solo le aree di deficit del bambino, e l'importanza di lavorare sulla famiglia,
contesto principale nel quale il bambino vive (approccio centrato sulla fa- miglia); tale approccio si
basa sull'adozione di interventi evidence based ma spesso rischia di rimanere un principio a cui
tendere e non una pratica reale.

Perché ciò avvenga i progetti di vita devono tenere conto 1) dell'intero corso di vita e

2) dell'impatto nel tempo sui vari componenti della famiglia, assumendo una visione dinamica e
considerando la valutazione stessa come un processo dinamico che ha un ruolo centrale nella
presa in carico globale della famiglia del bambino disabile (non compliance ma alliance).

CAPITOLO 3
Valutazione di esito e disabilità complessa (p.55)

• Valutare l'outcome di un intervento di aiuto (sociale, sanitario, educativo) significa mettere a


confronto la situazione di partenza con quella finale per capire se effettivamente l'intervento ha
generato dei benefici con riguardo al benessere, all'integrazione sociale, allo sviluppo delle
potenzialità del soggetto o alla riduzione degli ostacoli a tale potenzialità. Lo scopo dell'intervento
non è gestire la criticità e mantenere la situazione, quanto piuttosto generare eccedenza (= +
benessere).

• Per valutarlo è possibile utilizzare la metodologia SP, che si basa sull'utilizzo di strumenti
somministrati in tempi diversi e riferiti a 4 settori della persona:

1) funzionale organico,

2) cognitivo comportamentale,

3) socioambientale e relazionale,

4) valoriale e spirituale.

Il metodo integra la visione bidimensionale del tracciato di base e la visione multidimensionale


fattoria- le (considera al suo interno contesto, individuo, risorse...) e segue le fasi del progetto
personalizzato: raccolta della domanda - analisi della situazione - definizione del problema -

predisposizione del progetto - verifica e valutazione di efficacia.

• Nella metodologia SP gli indici di efficacia presi in considerazione sono 2:

la differenza tra indice di benessere nella situazione di partenza e quella di arrivo (quantitativo) e
l'analisi dei fattori osservabili (qualitativo).

L'utilizzo di metodologie sia qualitative che quantitative consente di raccogliere meglio i


cambiamenti in gioco, così come l'utilizzo dello schema polare (se non mi concentro solo sul
centro, il problema, vedo meglio globalmente). Lavorare in metodologia outcome based è
fondamentale non solo per i destinatari dei servizi ma anche per coloro che ci lavorano, poiché
consente di umanizzare i risultati e sapere quanto benessere generiamo (investire sul creare
realmente risultati di qualità, non solo qualità di processo spesso standardizzata).

• Esempio metodologico → giovani adulti disabili ospitati in servizi residenziali o semiresidenziali,


gli operatori osservando i comportamenti presenti nell’esperienza quotidiana dei ragazzi rilevano 2
aree di criticità: (autolesionismo e comportamenti stereotipati) e fatto un’analisi specifica per ogni
comportamento. È così stato ricavato un Indice di Positività e Criticità dei Comportamenti.

CAPITOLO 4
Valutazione clinica e relazionale dei progetti individuali per i bambini con disabilità
complessa (p.69)

• Il progetto di vita di un bambino con disabilità ha una valenza ambivalente (doppia) sia per il
bambino che per la famiglia:

da una lato è espressione concreta dell’attenzione della società a questo problema e


all’organizzazione (la famiglia ha bisogno della società perché ha un bambino disabile),

dall'altro lato la famiglia è costretta a condividere con altri quello che in una situazione normale
non viene condiviso. Normalmente il senso di “proprietà” dei figli da parte dei genitori, soprattutto
quando sono piccoli, è molto forte. Perciò non è semplice essere costretti a doverlo condividere.

Quando quieta proprietà (figlio) viene messa in discussione significa modificare il senso stesso
che i figli hanno, verso di loro, cioè da “oggetti posseduti” a “oggetti condivisi”.

Il rischio è quindi che ci sia 1) una delega totale ai servizi o 2) un rifugio nel tecnicismo della
gestione quotidiana, entrambi segnali di uno slivellamento relazionale tra famiglia e servizi che
rischia di far vedere ai genitori i servizi come i “genitori affidatari” del proprio figlio, con tutte le
dinamiche conseguenti.

• Elementi di valutazione del progetto dei bambini con disabilità:

1) Tasso di compartecipazione della famiglia al progetto: si realizza non solo coinvolgendo la


famiglia nella stesura del progetto ma anche analizzando i meccanismi di supporto alla coppia e
alla famiglia, analizzando la loro efficacia ed i loro esiti, osservando tramite:

fattori diretti (ad esempio: persistenza di shock nella coppia dopo un anno di nascita del bimbo,
sviluppo di meccanismi riparativi, sviluppo dei sensi di competenza amorosa nei confronti del
bimbo), ed indiretti (ad esempio: livello di socialità della copia, ruolo dell’attività lavorativa) e lo
stato di funzionamento della coppia stessa.

2) Supporto alla ricerca edonistica (piacere) della famiglia: anche se spesso questo elemento
(piacere) viene totalmente ignorato è necessario che la coppia abbia questo elemento, che riporti
alla normalità e segnali l'evoluzione (coltivare il piacere, ad esempio: uscire con amici andare al
cinema fare una vita normale) e non colpevolizzare il figlio.

3) Attenzione allo sviluppo del sibling (definito fratello/sorella con disabilità): attenzione allo
sviluppo di sibling: tutti i bambini hanno il diritto al piacere e al divertimento, disabile e non (ma
anche gli adulti).

4) Valorizzazione delle risorse non formali del processo di cura: più le risorse saranno
multidimensionali maggiore efficacia avranno, e minore sarà l’estromissione della famiglia da un
ruolo attivo. La presenza di iniziative connesse con l’area del auto-mutuo aiuto rappresenta un
fattore di qualità del progetto. Perché l’auto-mutuo aiuto rappresenta la strategia più efficace nella
ricostruzione del senso di se. La nascita di un figlio con disabilità e la vita con lui rappresentano
una forma di frattura biografica per la coppia e smarrimento del senso della genitorialità e del se.
La condivisione profonda con i pari è uno strumento potenzialmente capace di generare un senso
nuovo, restituendo il ruolo del curante e non solo di curato.

5) Attenzione al "dopo di noi": I genitori oltre che a preoccuparsi del futuro del figlio si angosciano
per quando non ci saranno più loro a seguirli. Sono nati i progetti “durante noi per il dopo di noi”
per questi situazioni.Fondamentale la presenza di Associazioni che presiedono alla gestione e
verifica ai programmi attuati. Questi progetti sono ancora molto superficiali.

6) Passaggio dal progetto al programma: il passaggio da progetto a programma rappresenta il


passaggio dalle iniziative di un’epoca sperimentale ad una più matura e stabile con impatto
positivo sul senso di sicurezza delle famiglie. Questo è realizzabile se si realizza il secondo
concetto cioè un finanziamento stabile e garantito delle iniziative. È perciò indispensabile costruire
sistemi di valutazione autorevoli pluridimensionali responsabili. Queste prospettive hanno
naturalmente sul loro percorso ostacoli o rinforzi.

Il primo (ostacolo) è la ricerca di un equilibrio fra sistemi di valutazione formale e sistemi innovativi
o compartecipati. Le organizzazioni sanitarie hanno la tendenza ad impiegare sistemi valutativi
ritenuti neutrali ed asettici ma che risultano inadeguati a cogliere aspetti sostanziali quali ad
esempio la continuità del percorso di cura.

Il secondo (rinforzo) è l’adeguatezza del progetto all’epoca in cui si realizza, quindi la sua capacità
di esprimere la sensibilità della società e del tempo sull’argomento.

Si deve quindi essere un continuo aggiornamento dei sistemi di valutazione.

CAPITOLO 5
Criticità nella riabilitazione delle disabilità complesse: il punto di vista delle famiglie (p.85)

Sebbene in Italia ci siano circa 200 mila persone disabili con meno di 18 anni, i progressi nel
trattamento sono stati davvero pochissimi (eccetto autismo) anche perché le prassi cliniche sono
poco supportate da prove oggettive e c'è poca attenzione nel coinvolgimento della famiglia, cosa
che porta la stessa famiglia a riconoscere meno autorevolezza ai medici nella riabilitazione
infantile.

L'approccio scientifico è fondamentale per lo sviluppo medico (nonostante uno ricerchi spie-
gazioni generali (l’approccio scientifico) l'altro soluzioni individuali (approccio medico) la medicina
si fonda sull’approccio scientifico viene detta Evidence Based Medicine.

Purtroppo le linee guida di poche patologie si ispirano a tale medicina (autismo verso paralisi
cerebrale infantile), utilizzando invece soprattutto una visione autoreferenziale degli esperti; poche
sono anche quelle che considerano il ruolo della famiglia come risorsa centrale (e non solo nei
casi di disfunzionalità).

Sono però 2 aspetti (scientifico+medico) che non si possono dimenticare per non illudere le
famiglie e non sprecare i pochi finanziamenti.

È quindi necessario che sia favorita la partecipazione delle famiglie a tutti i livelli del sistema di
riabilitazione, e che ad essa siano fornite le informazioni necessarie per poter scegliere
liberamente e consapevolmente il trattamento a cui affidarsi.

L’urgenza e la necessità di:

- evitare ogni visione autoreferenziale e promuovere la ricerca medico scientifica

- valutare le prestazioni offerte dei servizi di riabilitazione in termini di efficacia oggettiva ed

efficacia percepita dalle famiglie.

- favorire la massima partecipazione delle famiglie in tutti i livelli organizzativi

Le famiglie devono essere messe/poste in condizione di prendere una scelta libera e


consapevole. Per questo alle famiglie servono:

- informazioni esaurienti e concrete sui trattamenti

- un’adeguata formazione sullo sviluppo umano e sui trattamenti riabilitativi

- la condivisione di esperienze con altre famiglie

- l’assunzione di un ruolo attivo sia operativo che decisionale

L'approccio di cura centrato sulla famiglia (Family Centered Care - FCC) si basa sugli assunti di:
1) I genitori sono risorsa fondamentale nella vita del bambino

2) il processo riabilitativo è basato sulla cooperazione tra famiglie e professionisti

3) i professionisti hanno un ruolo di sostegno alle responsabilità dei familiari

4) per essere efficaci, i servizi e le strutture devono basarsi sui valori, le preferenze, le priorità e le

esigenze della famiglia.

Sarebbe opportuno diffondere la corretta applicazione dell’approccio e valutarne la qualità della


realizzazione.

In sintesi il modello riguarda la famiglia:

1) i genitori conoscono i loro figli meglio di chiunque altro

2) ogni famiglia è diversa e unica

3) lo sviluppo ottimale del bambino avviene all'interno della famiglia

4) il bambino risente dello stress dei propri genitori

Il modello riguarda le interazioni genitore-professionisti

- ogni famiglia deve avere l’opportunità di decidere il grado di partecipazione alle cure del figlio

- genitori devono essere responsabile ultimi nella cura dei loro figli

- ogni famiglia e membro di essa devono essere trattati con rispetto

- devono essere tenute in considerazione le necessità di tutti i membri della famiglia

- deve essere incoraggiata e sostenuta la partecipazione di tutti membri della famiglia

Il modello riguarda le responsabilità dei servizi:

- incoraggiare la presa di decisione da parte dei genitori

- individuazione dei punti di forza della famiglie

- fornire informazioni

- individuazione delle necessità

- collaborare con i genitori

- fornire servizi accessibili

- condividere le informazioni che riguardano il bambino

- rispettare le famiglie

- sostenere le famiglie

- ascoltare

- fornire servizi individualizzati

- accettare le diversità

- credere e avere fiducia nei genitori

- comunicare chiaramente

- considerare le necessità psico-sociali di tutti membri della famiglia

- incoraggiare la partecipazione di tutti membri

- rispettare le diverse strategie

- incoraggiare l’uso di servizi di supporto da parte della comunità

- investire sui punti di forza e della famiglia.

Nonostante la validità dei principi della FCC e il modello proposto siano stati riconosciuti in Italia,
tutt’oggi essi sono ancora largamente ignorati.

Nella riabilitazione delle disabilità complesse in età pediatrica non sono ancora disponibili i
trattamenti di efficacia scientificamente provata. Quindi, ogni singolo professionista opera “da
solo”, cercando di evitare il ricorso a visioni pregiudiziali o autoreferenziali.

Per garantire il miglioramento dell’attività riabilitativa, si ritiene urgente ed essenziale:

- la valutazione dell’efficacia di tutti i trattamenti proposti

- una convinta promozione della ricerca medico-scientifica metodologicamente corretta

- la costituzione di un gruppo di lavoro multidisciplinare con il compito di definire una carta dei

principi base per la riabilitazione dei bambini

- la promozione della massima partecipazione della famiglia a livello decisionale e operativo

- il miglioramento dell’informazione alle famiglie sulle principali caratteristiche dei trattamenti

riabilitativi e sull’importanza del loro ruolo attivo, favorendo così il passaggio da una richiesta

indiscriminata di trattamenti a una scelta consapevole tra le alternative disponibili.

- una completa applicazione dell’approccio FCC

- l’organizzazione di ogni singolo trattamento in termini di obiettivi e di verifiche del loro

raggiungimento nei tempi stabiliti.

CAPITOLO 6
Valutazione e processi inclusivi. Condivisione e co-apprendimento (p.99)

Il nostro paese risulta all’avanguardia per quanto riguarda l’inclusione scolastica delle persone
con la disabilità ma è più debole nel processo di presa in carico delle persone con la disabilità e
dei loro familiari.

Nel contesto italiano sono presenti differenze tra nord e sud ma anche a livello locale, ed
all’interno di singole regioni.

Il processo di preso in carico della famiglia comincia e dipende dalla comunicazione della
diagnosi.

La comunicazione è diversa se avviene:

1) in situazioni d’urgenza

2) in situazione di patologia cronica

3) in situazione di cronicità rapidamente evolutiva.

Le modalità della comunicazione variano a seconda della patologia e la patologia varia da


bambino a bambino.

Disabilità complessa = identifica una condizione di bisogno cronico o permanente,

da eziologia (causa della malattia) spesso multifattoriale tanto da interessare le componenti


organiche, cognitive e comportamentali e funzionali della persona.

La disabilità complessa si muove all’interno di 3 orizzonti:

1) labile (diagnosi non chiara),

2) composito (quale trattamento intraprendere),

3) eterogeneo (quando ci sono delle patologie indipendenti dalla disabilità cioè di una specifica
età e vanno ad aumentare i problemi connessi alla disabilità).

(Quando si presenta una malattia in più fuori dalla disabilità relativa ad un periodo di età del
bambino va ad aumentare i problemi già dovuti alla disabilità.

La valutazione degli interventi è strettamente legata alla qualità dei servizi, che andrebbe
considerata secondo un modello ecologico (sistemi di Brofenbrenner), che comprende:

1) microsistema - la persona disabile, la famiglia, l’operatore socio-educativo, il professionista


dell’area sanitaria.

2) mesositema - le relazioni tra i contesti e le persone (esempio rapporto tra azienda


sociosanitaria e famiglia)

3) esosistema - le strutture sanitarie, le agenzie socio-educative, la scuola, la comunità

4) macrosistema - il sistema politico, la cultura, la società.

Importante realizzare dei nuovi percorsi che siano multidisciplinari e cerchino di rispondere ai
molteplici bisogni delle famiglie e dei bambini.

Per la valutazione dei percorsi socio-educativi occorre delineare una serie di indicatori di qualità
condivise all’Interno di un gruppo di lavoro attraverso i quali valutare i risultati attesi e gli esiti
raggiunti. Tuttavia la determinazione degli indicatori di qualità non è sufficiente a completare
l’operazione valutativa.

3 diverse dimensioni dovrebbero essere presi in considerazione:

1) relazionale-comunicativa (come gli specialisti dialogano con la famiglia),

2) organizzativa (il setting creazione di un contesto inclusivo e facilitante con la predisposizione


degli spazi delle attività e dei materiali)

3) metodologica (cioè le metodologie e strategie messe in atto per regolare la distanza tra i
servizi offerti e i soggetti).

Valutare la qualità dei servizi ed il risultato degli interventi ha 2 finalità:

1) promuovere la trasparenza dei servizi

2) la soddisfazione delle persone coinvolte

Questo aiuta le famiglie ad orientarsi nella scelta tra le agenzie socio-educative e sanitarie.

La valutazione dovrebbe portare ad un progetto sempre più consapevole e possibile di


cambiamento ed avere una dimensione Inter-soggettiva con una natura:

1) transattiva - valutazione come processo dinamico di costruzione e interscambio dov’è tutte le


persone coinvolte portano il proprio punto di vista.

2) negoziale - necessità di dare valore al confronto tra gli individui. Ogni partecipante ha un
proprio punto di vista della qualità del servizio e degli esiti degli interventi; per tanto la qualità non
avrà lo stesso significato per tutti. Allora il processo valutativo necessita di una negoziazione,
dove la qualità è un punto d’incontro.

Valutazione autoriflessiva - è una riflessione sulla pratica, sulle abitudini, sulle finalità, e sugli
obiettivi dei servizi. La valutazione dovrebbe produrre una trasformazione migliorativa della realtà.

La valutazione riconosce i genitori come “esperti” e “protagonisti” rispetto alle disabilità dei loro
figli. Sovente i genitori si rivolgono ai specialisti alla ricerca di risposte che li aiutino a conoscere il
loro bambino, sperando che questi sappiano cosa fare e come farlo.

Gli specialisti però dovrebbero avere l’onestà di ammettere di non conoscere il bambino meglio
dei loro genitori.

Per questa ragione decentrare il sapere è un requisito nel processo valutativo.

Questa unione specialista/genitore sostiene lo sviluppo dei bambini, in quanto il riconoscere il


ruolo genitoriale e valorizzare le competenze parentali, sono dei principi guida da seguire nella
presa in carico efficace per la crescita del bambino con disabilità.

Abilitazione su base comunitaria - una delle strategie migliori per assicurare l’inclusione e la
partecipazione dei disabili nei diversi ambiti di vita, che garantisce l’uguaglianza delle opportunità
e l’integrazione sociale, attraverso l’impegno delle persone disabili, dei loro familiari e della
comunità tutta.

CAPITOLO 7
Accompagnamento e progetto di vita (p.119)

In primo luogo è necessario riflettere sulla concezione di disabilità:

- Fino agli anni '60 la persona con la disabilità ha subito processi di esclusione e di

emarginazione.

- 1971 con la Legge 118 non più concetto assistenziale ma persona suscettibile di cambiamento

attraverso la riabilitazione per un inserimento nella società (categoria invalido).

- 1992 Legge 104 concetto non più invalido ma persona handicappata (handicappata - con

minorazione fisica, psichica, e sensoriale, stabile o progressiva, che causa difficoltà di

apprendimento, di relazione, o di integrazione lavorativa e che determina uno svantaggio sociale

o di emarginazione).

- anni '90 si introduce la visione multidimensionale e si passa al concetto di persona con

disabilità

- anni 2000 passaggio dal modello di integrazione a quello di inclusione, che implicita la

globalità della sfera educativa e la costruzione di un contesto facilitante.

Ancora oggi tuttavia il l’approccio biomedico è quello più utilizzato dagli operatori nel settore
della disabilità dove l’attenzione si focalizza solo sul deficit della persona. Dove l’incontro con una
persona disabile non è una biografia ma una diagnosi, e si valuta la persona esclusivamente in
riferimento al suo deficit.

É invece necessario spostarsi su un approccio sistemico, che garantisca che i diritti delle persone
disabili non sono quelli di una categoria debole quanto piuttosto quelli di ogni persona;

questa prospettiva (ICF) considera il comportamento umano come risultante di 4 categorie di


fattori:

1) corpo con le sue strutture

2) attività intenzionali

3) contesto

4) fattori ambientali (aggiunto di recente)

Questi 4 elementi si influenzano fra di loro

Disabilità è quindi l'incontro tra il deficit e un contesto sfavorevole.

La presa in carico del bambino e della famiglia in ottica inclusiva è un processo che deve
garantire in primo luogo l'assistenza sanitaria e riabilitativa necessaria, serve però anche che gli
interventi messi in atto siano multidisciplinari ma coordinati fra loro (importanza del case
manager), che si lavori a fianco della famiglia e non sulla famiglia (promozione dell'empowerment
familiare), che si ponga l'attenzione necessaria ai contesti e ai potenziali ostacoli e facilitatori
ambientali e che si produca insieme un progetto di vita personalizzato.

Una buona presa in carico significa:

1) affiancare da subito la famiglia per affrontare insieme tutti i problemi

2) istituire un equipe multidisciplinare ma con un referente unico che organizzi e coordini gli
interventi ed i rapporti con i vari ti servizi

3) attivare i programmi che portino i genitori ad acquisire una gamma di abilità educative

4) attivare gruppi di auto-mutuo aiuto

5) garantire attività abilitative riabilitative educative, di accompagnamento nell’inserimento,


assistenza domiciliare

6) produrre con la famiglia il progetto di vita personalizzato

Il progetto di vita deve tenere conto che il bambino disabile è prima di tutto un bambino con
tutte le caratteristiche dei comuni bambini.

Affinché sia un buon progetto deve tenere conto di:

1) unitarietà del bambino,

2) non identificazione con la diagnosi,

3) coinvolgimento di bambino, famiglia e contesti,

4) buona struttura valutativa.

Una buon metodo di valutazione ha bisogno che tutti gli attori raggiungano un alto livello di
condivisione della nozione di disabilità e della metodologia di valutazione della stessa.

Nella valutazione si considerano le attività svolte e quelle da svolgere, si verificano quanti più
elementi possibili (adeguatezza alle caratteristiche del bambino, partecipazione della famiglia,
obiettivi raggiunti, rispetto dei tempi...) e si verifica e arricchisce il proprio sapere professionale.

Chi si occupa di portare avanti progetti di vita sono i servizi, e l'organizzazione dei servizi influenza
molto gli interventi che verranno messi in atto. Sono solo gli operatori dei servizi infatti che
possono adoperarsi per una completa personalizzazione dell'intervento e per la costruzione di reti
ed occasioni più o meno formali.

Occorre fare investimenti culturali e formativi, avere intelligenza e competenza, ma anche quale
logica utilizzare nell’organizzazione dei servizi territoriali.

Normalmente le logiche utilizzate sono 2:

1) la logica dei bisogni

2) la logica dei diritti

Le 2 logiche non sono intercambiabili.

1) La logica dei bisogni genera relazioni asimmetriche:

- tra servizi e professionisti da una parte e persone da aiutare dall’altra

- tra chi è forte (presta aiuto) e tra chi è debole (riceve aiuto)

- tende a costituire servizi diversificati secondo di categorie di bisogno

Questa logica è attualmente dominante nel nostro sistema

2) La logica dei diritti riconosce che le persone con disabilità sono cittadini con diritti riconosciuti
dalla costituzione. È complicato però pensare a una riorganizzazione di tutti i servizi per essere in
grado di garantire realmente l’esigibilità di tali diritti. (Esempio: diritto alla salute, diritto di
diventare adulti, a manifestare le proprie capacità ecc...).

Il nostro Welfare è diventato obsoleto (non più sostenibile) le cause sono, riduzione dei
finanziamenti e degli organici (personale) aumentano le domande ma diminuiscono le risposte.

Lavorare per un cambiamento significa riattivare e valorizzare le risorse, le competenze e


responsabili. Gli operatori devono essere il motore del cambiamento. Un nuovo processo
partecipativo sta iniziando.

Alcuni lo chiamano Welfare di comunità/prossimità/generativo, con l’obietti di creare reti sociali ed


esplorare nuovi opportunità per ricostruire un welfare basato sull’esigibilità dei diritti fondamentali.
Per questo è necessario partire dalla convinzione che apparteniamo a un gruppo umano che ha
bisogno di simili. Il welfare di prossimità non si deve limitare a risposte tecniche ma deve essere
capace di generare partecipazione del contesto sociale e dare protagonismo a tutti i soggetti.

A supporto di tale cambiamento serve un sistema operativo condiviso.

Uno di questi è il budget di salute: è modello operativo che promuove il protagonismo degli utenti
(contratto) e la sussidiarietà, è finalizzato alla promozione dell'inclusione sociale e al
mantenimento delle persone con disabilità all'interno del contesto sociale e si attua con
prestazioni flessibili definite non sulla base dell'offerta dei servizi quanto piuttosto sui diritti
esigibili della persona.

CAPITOLO 8
"Spazio di vita" e valutazione dei progetti personalizzati (p.149)

• L'obiettivo di chi lavora con la disabilità è quello di:

- ridurre le difficoltà

- superare gli ostacoli e

- generare opportunità

che permettano di:

- migliorare la qualità di vita della persona.

Questa visione sposta la progettazione da una serie di attività a un lavoro integrato e centrato
sugli obiettivi. Per poter attuare progetti personalizzati di questo tipo è necessaria l'analisi dello
spazio di vita e le risorse (economiche e non) attivabili.

Studiare lo spazio di vita = considerare la persona nel suo ambiente di vita e come essa si adatta
e lo modifica:

Social network map di Tracy e Whittaker (1990) ha valutato i cambiamenti nella


responsabilizzazione della famiglia e della rete sociale. La rete sociale è costituita da diversi
soggetti collegati tra di loro: famiglie, vicinato, amici, scuole, lavoro. Sono unità diverse che si
influenzano assumendo una valenza educativa nei confronti delle singole persone.

◦ Approccio sistemico-relazionale

◦ Reciprocità triadica di Bandura

Cioè la relazione tra fattori personali interne (cognitivi, emotivi, biologici) il comportamento e le
influenze ambientali. In altri termini, tra l’agire della persona, le influenze strutturali e quelle
ambientali.

È ancora carente l’utilizzo di strumenti in grado di valutare lo spazio di vita per poi poter
sviluppare le soluzioni.

Fondazione Zancan - ha ideato strumenti di misurazione dello spazio di vita, che fa parte della
lettura multidimensionale dei bisogni del soggetto sul quale si fa il progetto personalizzato.

• Strumenti utilizzabili:

- Mappa dei soggetti e delle risorse (attuali e potenziali)

- Scala di responsabilizzazione (valore dei soggetti attuali)

- Livello di protezione dello spazio di vita (soggetti e risorse attuali)

- Livello potenziale di protezione (soggetti e risorse potenziali)

- Metodologia S-P/F-O (schermo polare/fattori osservabili,) (l’importanza della valutazione che

esca dalla logica solo di efficacia burocratica per entrare nell'ottica della valutazione riguardo ad

indicatori specifici che hanno valore per quel soggetto e che mostrano che stiamo lavorando per

generare benessere al soggetto specifico).

Caso: Vittoria, ragazza down di 19 anni, costruisco la mappa, calcolo le scale a T0, poi faccio lo
stesso lavoro a T1, con gli indici posso costruire lo schema polare e le differenze tra i due poligoni
che si formano mi mostrano come ho lavorato (si dovrebbero avvicinare al rombo esterno che è la
situazione reale).

Caso: progetto personalizzato di Antonio, prima raccolgo le informazioni (dati anagrafici e


familiari, domanda espressa e ridefinita, servizi già attivi e condizione economica, storia
personale, sistema delle responsabilità) e faccio la verifica a T0, quindi in base a questi elementi
definisco gli obiettivi e degli indicatori osservabili di questi obiettivi, ad ogni check up rilevo se gli
obiettivi sono stati raggiunti, faccio schema polare e in base a quello decido come procedere e
come è meglio coinvolgere i soggetti.

CAPITOLO 9
Sociomorfogenesi e disabilità (p.175)

Nelle persone con disabilità le traiettorie di sviluppo sono caratterizzate da un deficit e la distanza
tra queste e quelle delle persone "normali" tende a crescere in maniera sempre più rapida
all'aumentare dell'età, in quanto in quelli delle persone disabili con l'età tende a diminuire la
complessità sociale (il contrario di ciò che avviene normalmente).

Tale prospettiva può venire in aiuto alla progettazione perché:

1) descrizione della condizione di disabilità sulla base dei limiti alla orto-socio-morfogenesi

2) capacità di contrasto del mio intervento alle derive anti-orto-socio-morfogenetiche

3) saperi sulla orto-socio-morfogenesi prodotti.

• La crescita umana (morfogenesi) è la sintesi di 3 processi differenti e complementari:

Biomorfogenesi = sviluppo fisico, passaggio da embrione a vecchiaia, con tutte le fasi


intermedie. Lo stadio adulto coincide con la maturità sessuale, con il raggiungimento della
capacità riproduttiva. Può essere modificato in alcune parti (aspetto estetico, più o meno
muscoli,più o meno grasso o magro, un processo uguale per tutti impostato dal DNA, con 7na
determinata struttura ed impostazione (stiamo tutti in piedi, le mani fatte in un certo modo,
possedere determinati organi, eccc) se manca qualcosa ho il deficit.

Psicomorfogenesi = sviluppo psichico. Fino alla costruzione di un mondo mentale complesso


con tutte le fasi intermedie. Allo stadio adulto si ha una maturità cognitiva e affettiva, ogni
individuo ha una psiche diversa ma devono essere rispettate alcune caratteristiche per non
incorrere in quelli che sono deficit psichici

Sociomorfogenesi = sviluppo della forma sociale. Dalla dipendenza totale materna


all’assunzione di ruoli sociali variegati con tutte le fasi intermedie. Lo stadio adulto coincide con la
maturità comunicativa, ogni cultura ha dei canoni di normalità specifici.

La pedagogia deve fare i conti con la sociomorfogenesi e con le categorie sociali di giusto e
sbagliato, di normalità e devianza, senza scegliere una delle due polarità o sottrarsi a ogni presa
di posizione. Se è vero che è importante mettere al centro il corpo e l'espressività personale, è
anche vero che ogni esperienza educativa è un incontro e che non si può quindi prescindere dalla
sociomorfogenesi, al massimo non assumersene la responsabilità.

Lo sviluppo sociomorfogenetico di un individuo può essere definito normale sulla base di alcuni
parametri :

- Struttura della rete relazionale: moltiplicazione delle relazioni e diversificazione delle tipologie

- Articolazione dei ruoli: diversificazione dei ruoli e capacità di uscire da un ruolo per entrare in

quelli contigui, complementari, sotto e

- Attraversamento dei luoghi: complessificazione della geografia dei luoghi attraversati e capacità

di abitarli riconoscendone la singolarità e assumendo il ruolo adeguato

- Rete materiale delle appartenenze: capacità di mantenere un grado sostenibile di compatibilità

reciproca tra le appartenenze

- Livelli di autodeterminazione: riconoscimento sociale della libertà di scelta e di non scelta e delle

responsabilità connesse.

Non esiste un percorso tipo ma c'è la caratteristica comune della complessità crescente, cosa
che invece ha un andamento retrogrado nella maggior parte dei percorsi di vita delle persone con
disabilità.

Per valutare un progetto che si propone di andare nella direzione opposta è necessario
considerare:

- Contesto molto prestazionale che induce condizione di handicap sempre più elevato nelle

persone con deficit, e questo a sua volta riduce le possibilità di costruzione della rete sociale e

la disponibilità di ruoli e luoghi. La valutazione di un progetto deve partire dall'analisi del

contesto e delle premesse.

- Gli interventi devono mirare alla ricchezza e alla diversificazione dell'esperienza sociale, per non

rendere la persona solo figlio e utente di servizi, e va garantito il più alto grado di

autodeterminazione possibile anche nella scelta di quali servizi scegliere e quali no.

- Non considero solo se ho ridotto la fragilità ma anche cosa l'intervento specifico mi ha

insegnato sui processi di adattamento richiesti socialmente e che posso utilizzare per ridurre le

condizioni negative del contesto.

Potrebbero piacerti anche