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L’INTEGRAZIONE NELLA

SOCIETÀ, NELLA SCUOLA E


NEL LAVORO:
Uno dei compiti dell'operatore socio-sanitario è quello di attuare interventi di sostegno e aiuto
nei confronti dell'utente al fine di favorirne l'integrazione sociale.

Inserimento e integrazione:

Integrazione: esso designa quel processo che permette di aggiungere a un intero le sue parti
mancanti, per renderlo completo e armonioso.
Nel campo dell'integrazione sociale a fungere da "tessere" che contribuiscono a determinare
l'intero sono la famiglia, la scuola, il lavoro.
Si può quindi affermare che l'essere umano si sente integrato socialmente se è protagonista
attivo in ognuno di questi ambiti, ossia se riesce ad acquisire un ruolo ben preciso al loro
interno, ad assolvere determinati compiti e funzioni, a collaborare con altri soggetti in tali
contesti e a condividere situazioni, eventi e decisioni.

Inserimento: entrare a far parte di un contesto fino a quel momento sconosciuto ed estraneo,
senza portare alcun contributo personale.
L'inserimento è una premessa indispensabile dell'integrazione, poiché quest'ultima senza
di esso non potrebbe avere luogo.

Fattori che determinano l’integrazione sociale:

La qualità dei servizi socio-sanitari è determinata dalla capacità che essi hanno di:

Lavorare in rete.

Occuparsi della persona nella sua globalità e nell'intero percorso esistenziale.

A livello più specifico, poi, entrano in gioco altri fattori quali la capacità di fornire al soggetto
svantaggiato gli strumenti utili alla sua integrazione.

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Le caratteristiche degli ambienti:

Clima sereno, privo di tensioni, pregiudizi e stereotipi.


Una questione di notevole rilevanza per chi ha una disabilità motoria, poi, è rappresentata dalle
barriere architettoniche, ostacoli fisici presenti negli edifici che rendono difficoltoso, quando non
impossibile, l'accesso ai diversamente abili, costringendoli all'isolamento e alla marginalità.

—>L’integrazione sociale dei diversamente abili:


Con i soggetti diversamente abili spesso si utilizza il termine “normalizzazione”, ovvero
l'equiparazione della loro esistenza ai canoni che caratterizzano la vita delle persone
normodotate.
“Normalizzare” significa:

far sì che il soggetto diversamente abile possa vivere le svariate situazioni quotidiane nel
modo "più normale" possibile. Ciò significa gestire la propria vita in maniera autonoma in
vari ambiti.

permettere al soggetto diversamente abile di attraversare le fasi evolutive tipiche del ciclo di
vita di ogni individuo, nella consapevolezza che ciascuna di esse è caratterizzata da bisogni
particolari: nell'infanzia quello di protezione, nell'età scolare quello di fare nuove esperienze
e di mettere alla prova nuove abilità, nell'adolescenza quello di maturare scelte che orientano
il proprio futuro, nella vita adulta quello di indipendenza e di autonomia.

rispettare gli interessi, le passioni, gli orientamenti dell'individuo disabile.

Le persone diversamente abili avvertono il "bisogno di normalità".


Esistono vari tipi di normalità:

Normalità di immaginario: con il termine "immaginario" si intende la capacità di


prefigurare, grazie all'immaginazione, una futura realtà possibile o desiderata. Tutti i
genitori, attraverso l'immaginazione appunto, si proiettano nel futuro cercando di
rappresentarsi un domani per il proprio figlio.

Quando il figlio è diversamente abile diventa più difficile pensarlo adulto, con una propria
famiglia e un lavoro che gli permetta di mantenersi autonomamente. Il rischio che spesso la

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famiglia corre è quello di continuare a considerare il figlio diversamente abile come un
bambino bisognoso di protezione e cure particolari.
Per favorire il processo di integrazione, quindi, è fondamentale che anche gli operatori
aiutino la famiglia a costruire un immaginario sulla vita del figlio diversamente abile,
affinché si risponda al suo normale bisogno di pensarsi adulto e indipendente.

Normalità di progetto: vengono creati progetti educativi per tutta la durata della vita della
persona diversamente abile, in modo tale da concretizzare il suo futuro.

Normalità di educazione: per far sì che la normalità di progetto si possa attuare nel
migliore dei modi occorre che sia corredata da un insieme di atti educativi adeguati.
Nel momento in cui all'interno di una famiglia il figlio diversamente abile è concepito come
una persona che non può crescere né diventare adulta, difficilmente si andrà nella direzione
di una normalità educativa.
Il processo di apprendimento prevede generalmente che l'asimmetria iniziale che
caratterizza la relazione tra educatore e educando vada sempre più assottigliandosi.
Tale "avvicinamento" è dovuto anche al fatto che si verifica una trasmissione di conoscenze
e abilità da chi sa di più a chi sa di meno, con il conseguente riequilibrio del rapporto tra i
due soggetti.

In caso di disabilità, soprattutto intellettiva, l'asimmetria iniziale tende a rimanere tale nel
corso del tempo arrivando a "ingessare" il rapporto educativo.

Si parla, a questo proposito, di educazione a permanenza, ossia del processo per cui la
relazione educativa rimane incentrata sull'assistenza piuttosto che sull'educazione vera e
propria dell'individuo.

Normalità di ruolo: ognuno di noi riveste un ruolo particolare, ovvero ha una specifica
funzione, determinata dalla posizione che occupa all'interno del contesto sociale di
appartenenza.
Assumere un ruolo significa anche farsi carico dei diritti e dei doveri a esso connessi,
diventando così responsabili.

Per favorire il processo di integrazione ed evitare dunque la marginalità sociale, diventa


necessaria per i soggetti diversamente abili l'assegnazione di un ruolo che vada oltre l'età
anagrafica e che consideri le loro reali capacità.

—>L’integrazione sociale dei carcerati:

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Con le persone detenute, é importante introdurre il trattamento rieducativo, ovvero quel
trattamento che tende alla rieducazione del detenuto al fine di reintegrarlo nella società e di
abbattere il livello di recidività una volta scontata la pena.
Esso ruota attorno ad alcuni elementi fondamentali, tra cui l'istruzione, il lavoro, le attività
culturali, ricreative e sportive, le relazioni con la famiglia e con il mondo esterno.

Tra questi fattori quello che può risultare più contraddittorio è proprio l'ultimo, poiché stride con
la vita carceraria, caratterizzata dalla reclusione. In realtà, grazie alla legge n. 374 del 1975 è
stata ripetutamente sottolineata l'importanza per la persona detenuta di mantenere i contatti con il
mondo esterno al fine di rafforzare il suo processo di risocializzazione, che sarebbe notevolmente
complicato se l'isolamento fosse totale.

Questi "contatti" per un condannato sono possibili grazie alle misure alternative, ossia a quei
provvedimenti stabiliti dal tribunale o dal giudice che gli permettono di scontare la pena
detentiva al di fuori della struttura penitenziaria.
Tali misure sono:

La detenzione domiciliare, che consente al condannato di scontare alcuni periodi della pena
presso la propria abitazione o presso centri pubblici di cura e assistenza.

L'affidamento in prova al servizio sociale, per un periodo uguale a quello della pena da
scontare, a condizione che il condannato rispetti determinate norme, come il divieto di
frequentare certi locali o di avere rapporti con persone che potrebbero condurlo a
commettere nuovamente reati.

La condizione di semilibertà, che permette al carcerato di trascorrere soltanto parte della


giornata all'interno dell'istituto detentivo e di uscirne per partecipare ad attività formative o
lavorative.

—>L’integrazione sociale di quei soggetti con disturbi mentali considerati socialmente


pericolosi:

In alcuni casi a commettere un reato o un crimine possono essere persone affette da disturbi
mentali considerate socialmente pericolose.
A tale proposito si segnalano le Residenze per l'Esecuzione delle Misure di Sicurezza
(REMS). Grazie alla legge n. 81 del 2014 tali strutture hanno sostituito gli Ospedali Psichiatrici
Giudiziari (OPG), case di reclusione che a metà degli anni Settanta, a loro volta, avevano preso il
posto dei manicomi criminali.

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Le REMS sono strutture piccole, senza celle, con una funzione terapeutico-riabilitativa e socio
riabilitativa. La loro funzione principalmente sanitaria rende queste strutture luoghi di cura.

Le REMS nascono per porre fine ai cosiddetti ergastoli bianchi, ossia alla proroga illimitata
della misura di sicurezza mediante continui rinnovi.
Prima che venissero istituite, gli individui considerati socialmente pericolosi vivevano negli
OPG a tempo indeterminato, in molti casi senza avere, di fatto, una pena da scontare perché
avevano già pagato il loro debito con la giustizia: da ciò deriva il termine "internati" per
designarli.

Le REMS, dunque, non vanno intese come carceri, ma come vere e proprie strutture sanitarie,
finalizzate a reinserire i soggetti che curano nel tessuto sociale di appartenenza, nel pieno rispetto
della loro dignità personale.

—>L’integrazione nella scuola:


La scuola appare come il luogo più appropriato per favorire il superamento delle condizioni di
emarginazione sociale che possono riguardare soggetti in condizione di disabilità, di difficoltà o
di svantaggio.

Pedagogia speciale: ambito della pedagogia che si occupa della disabilità e dei soggetti che
hanno bisogni educativi speciali.
Fino agli anni Settanta i disabili studiavano nelle cosiddette classi differenziali. Le classi
differenziali erano state istituite con l'obiettivo di fornire ai soggetti svantaggiati opportunità di
apprendimento differenti, maggiormente graduate e calibrate
sulle difficoltà di ciascuno. In realtà tale reinserimento non avveniva quasi mai e questo
configurò le classi differenziali come un percorso parallelo a quello ordinario

La vera svolta giuridica in questa direzione si ebbe con la legge n. 517 del 1977. Grazie a questa
legge, oltre ad abolire le classi differenziali, si istituì l'insegnante di sostegno.

Per i bambini e i ragazzi ciechi e sordi, invece, esistevano vere e proprie scuole speciali.

Dall’inserimento all’integrazione:

La capacità di accoglienza della scuola non bastava a far sì che l'inserimento assicurasse risultati
positivi, ma era necessaria una riorganizzazione complessiva della didattica e dell'offerta

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formativa. Bisognava collaborare ampiamente con i servizi socio-sanitari presenti sul territorio al
fine di creare una rete di sostegno intorno al soggetto diversamente abile.

Gli atti normativi che hanno giocato un ruolo decisivo in questo processo sono:

la legge n. 104 del 1992, che sancisce il diritto all'istruzione e all'educazione dei soggetti
diversamente abili e sottolinea l'importanza di creare ambienti favorevoli alla loro
integrazione.

il DPR del 1994 in cui si specifica che ogni alunno diversamente abile ha diritto a una
diagnosi funzionale, un profilo dinamico funzionale e un piano educativo individualizzato.

I documenti dell’integrazione:

La diagnosi funzionale: essa specifica il tipo di disabilità, il livello di gravità e le eventuali


tipologie di assistenza necessarie.

Il profilo dinamico funzionale: permette di individuare i livelli di sviluppo dell'alunno


diversamente abile considerando le aree più problematiche e quelle in cui vi sono maggiori
possibilità di miglioramento.

Il piano educativo individualizzato: il documento in cui vengono definiti gli interventi


predisposti per gli alunni in situazione di disabilità in un certo periodo di tempo. Esso
stabilisce gli obiettivi da perseguire, le metodologie didattiche da utilizzare e le modalità di
valutazione da adottare.

Dall’integrazione all’inclusione scolastica:

L'obiettivo di una scuola inclusiva è quello di soddisfare i bisogni educativi speciali (BES),
ovvero esigenze educative particolari dettate da svariati fattori e condizioni come disabilità,
deprivazione sociale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici,
difficoltà derivanti dalla non conoscenza della lingua italiana.

La scuola in carcere:

Uno degli obiettivi di molti penitenziari italiani è quello di fornire un adeguato livello di
istruzione ai propri detenuti.

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La legge n. 374 del 1975, infatti, prevede che nelle carceri italiane vengano organizzati corsi
della scuola dell'obbligo e di formazione professionale. Oltre ai corsi della scuola dell'obbligo,
sono molto richiesti anche i corsi di alfabetizzazione.

—>L’integrazione nel lavoro:

Il lavoro è uno degli ambiti fondamentali della vita, attraverso il quale ciascuno può soddisfare i
propri bisogni, applicare le proprie competenze e capacità, partecipare a un'organizzazione
produttiva collaborando con altri individui e instaurando relazioni.

Per questi motivi l'ambito lavorativo gioca un ruolo essenziale nel processo di integrazione
sociale.

Il ruolo delle cooperative sociali:


Le cooperative sociali sono imprese particolari che, come specificato dalla legge n. 381 del
1991, hanno lo scopo di «perseguire l'interesse generale della comunità promuovendo
l’integrazione sociale dei cittadini», tramite:

la gestione di servizi educativi e socio-sanitari (cooperative sociali di tipo A).

Alcune cooperative sociali di tipo A gestiscono particolari tipologie di comunità (come


quelle per tossicodipendenti o per soggetti diversamente abili) che basano il loro intervento
proprio sul lavoro, tramite la creazione e/o la produzione di determinati articoli (alimentari,
in legno, in ceramica, in stoffa ecc.).
In questi casi le finalità perseguite attraverso l'attività produttiva sono di carattere
riabilitativo e terapeutico e sono orientate a promuovere la socializzazione e a sviluppare le
potenzialità del soggetto e la sua autonomia, l’autostima e il senso di utilità.

lo svolgimento di varie attività finalizzate a inserire nel mondo del lavoro i soggetti
svantaggiati (cooperative sociali di tipo B).

Nelle cooperative sociali di tipo B, invece, il lavoro diventa un'opportunità vera e propria
per inserire soggetti svantaggiati nel mondo del lavoro.

L'intento di queste cooperative non è tanto quello di offrire posti di lavoro a soggetti in
difficoltà fisica, psicologica o sociale, quanto piuttosto quello di dare vita a nuove imprese
che possano formarli e occuparli.

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Le attività maggiormente ricorrenti in queste cooperative sono la manutenzione di aree
verdi, la raccolta differenziata dei rifiuti, la pulizia di ambienti, la gestione dei parcheggi, ma
anche attività più particolari come quelle di lavanderia industriale, tipografia o falegnameria.
Le persone in condizione di svantaggio a cui si rivolgono le cooperative sociali di tipo B
sono:

invalidi fisici, psichici e sensoriali.

ex degenti di istituti psichiatrici e soggetti in trattamento psichiatrico.

tossicodipendenti e alcolisti.

minori in età lavorativa.

Esse non hanno finalità di lucro e la loro particolarità, rispetto alle società cooperative
tradizionali (di credito, di produzione e lavoro, agricole, edilizie ecc.), risiede nel fatto che
nascono con l'intento di soddisfare non soltanto i bisogni dei soci, ma anche bisogni collettivi.

Il lavoro in carcere:
L'attività lavorativa in carcere può assumere due forme differenti:

quella intramuraria, che si svolge all'interno del carcere e riguarda principalmente la


gestione delle attività quotidiane, quali la pulizia, la preparazione dei pasti.

quella extramuraria, che si svolge all'esterno del carcere e alle dipendenze di terzi.
Quest'ultima, in particolare, anticipa il reinserimento lavorativo del detenuto e, di
conseguenza, anche quello sociale.

Nel lavoro in carcere acquista particolare rilevanza la collaborazione fra la struttura detentiva e le
istituzioni presenti sul territorio, come gli enti locali, le associazioni di volontariato, le
cooperative sociali.

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