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GLI ASSISTENTI SOCIALI NON RUBANO PIÙ I BAMBINI?

PREFAZIONE.

Diversi autori sottolineano la necessità di assicurare un welfare razionale, sussidiario e societario:

- Razionale, significa che deve rivolgersi alle relazioni familiari e non ai singoli individui;
- Sussidiario, ovvero deve sostenere le domande di servizi da parte delle famiglie;
- Societario, significa che la mobilitazione delle risorse e delle opportunità delle famiglie deve venire
dalle imprese, organizzazioni, associazioni ecc., attraverso interventi di rete basati sulle partnership
fra enti pubblici e privati.

Oggi, prendendo spunto dal passato, si afferma che le politiche di promozione delle famiglie devono
ispirarsi a forme di welfare innovativo, che riconsiderino le famiglie come un importante soggetto sociale.

Ne segue il bisogno di buone pratiche che tutelino tutti i componenti della famiglia. In questo scenario, è
opportuno che gli assistenti sociali amplino la loro competenza riflessiva, soprattutto in campo relazionale.
Ciò è importante per smentire l’etichetta che i media forniscono agli assistenti sociali, definendoli ladri di
bambini.

CAPITOLO 1 – CRESCERE IN FAMIGLIA, DIRITTO INALIENABILE DI OGNI BAMBINO.

A livello internazionale, il fenomeno dell’abbandono e del maltrattamento dei minorenni da parte dei loro
famigliari, e del loro inserimento in istituti assistenziali, rappresenta un fenomeno molto diffuso e
drammatico. La tutela del diritto di crescere in famiglia, quindi evitare la separazione del bambino dal
nucleo familiare, prende il nome di DE-ISTITUZIONALIZZAZIONE DELL’INFANZIA: infatti le politiche
nazionali sono impegnate nel miglioramento della qualità del Welfare.

Solo nel 1989, la convenzione ONU sui diritti dell’infanzia ha stabilito che tutti i bambini hanno il diritto di
vivere insieme ai loro genitori e che nessuno li può separare a meno che non vi siano particolari situazioni
che richiedono l’intervento delle autorità. Quindi, separare i figli dai genitori si può SOLO se tale intervento
è favorevole e necessario per il loro stesso interesse. Successivamente, molti organi competenti, insieme ai
governi, si sono attivati per provvedere alle varie situazioni, per preservare e tutelare il rapporto del
minorenne con la sua famiglia, con ogni mezzo, sia per evitare che il minorenne esca dal suo nucleo
famigliare, sia per agevolarne il rientro nel momento in cui la separazione è già avvenuta.

In Italia, il processo di de-istituzionalizzazione procede con lentezza fino al 1983: seguono una serie di leggi,
tra queste, la Legge 4 Maggio 1983 n.184 che riguarda la “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei
minori”, un vero e propri punto di svolta nelle politiche rivolte alla tutela dei bambini e delle loro famiglie,
che sancisce il diritto dei bambini e dei ragazzi a crescere ed essere educato nella propria famiglia. Inoltre,
le varie leggi precisano che qualora la famiglia, nonostante gli interventi di sostegno, non fosse in grado di
provvedere alla crescita e all’educazione del figlio, si interviene, a seconda dei casi, con l’AFFIDAMENTO
FAMILIARE dello stesso o con il suo inserimento in una comunità di tipo familiare. Nell’ordinamento
italiano, l’art. 30 comma 1 della Costituzione afferma che i genitori hanno il dovere di mantenere, istruire
ed educare i propri figli. Negli anni successivi al 1983, fu introdotta la legge 149/01, con la quale fu
previlegiato l’inserimento dei minorenni presso famiglie affidatarie. Ma tra il 2006 e il 2009, si è ritenuto più
opportuno chiudere le strutture attive e ricorrere ad altre forme di alternative care più adeguate ai vari
bisogni dei minorenni. L’obiettivo che si cerca di raggiungere in modo adeguato è garantire a bambini e
ragazzi il diritto a crescere in famiglia e di prevenire gli allontanamenti.
Negli anni 60, dalla teoria dell’attaccamento di Bowlby, è emersa l’importanza delle relazioni familiari
intime e affettuose per favorire il sano sviluppo dei bambini, in quanto sia i punti di forza che le loro
difficoltà si sviluppano all’interno delle relazioni familiari.

Le relazioni calorose e affettive influenzano in maniera positiva i bambini: essi riusciranno a realizzare il loro
potenziale a scuola, con gli amici e anche nel lavoro. La qualità delle relazioni affettive che il bambino e il
ragazzo sperimentano incide sulla qualità della loro capacità di mettersi in relazione con gli altri, sia attuale
che futura.

Nella teoria di Bowlby questo fenomeno viene chiamato MODELLI OPERATIVI INTERNI: sono mappe
mentali che si radicano così profondamente da essere in grado di influenzare sentimenti, pensieri e
comportamenti in modo inconscio. Secondo Bowlby, la loro azione consiste nel dirigere l’attenzione del
bambino verso particolari eventi e azioni, plasmando il modo con cui egli ricorda e non ricorda, guidando il
suo comportamento verso gli altri. Lo sviluppo di questi modelli si lega con il bisogno di ogni individuo di
anticipare il comportamento degli altri. Per far questo, gli individui attingono alle varie esperienze e quindi
ai loro ricordi positivi o negativi. Si tratta di rappresentazioni mentali di sé, degli altri e delle relazioni.

La riflessione sugli stili di attaccamento assume importanza nel momento in cui andiamo a studiare la realtà
delle famiglie multiproblematiche, dove la relazione affettiva dei genitori è precaria e insicura e quindi il
bambino sarà “predisposto” ad uno stile insicuro. In questo caso i caregiver di un bambino non sono capaci
di dare risposte ai suoi bisogni o diventano violenti, o vi sono atteggiamenti di maltrattamento. Da ciò nasce
uno stile di attaccamento con tratti deformati.

In una situazione di normalità, le relazioni affettive genitori-bambini sviluppano una forma di attaccamento
sicuro: il bambino è accudito con sensibilità e amore, i caregiver sono flessibili e accessibili. L’effetto
negativo di un attaccamento disfunzionale può essere così profondo e permanente da far cercare al
bambino diventato adulto lo stesso tipo di attaccamento, come fonte di una sofferenza già affrontata nella
famiglia di origine; può giovare offrire al bambino una presenza di figure adulte positive. Ciò può favorire
anche un’esperienza positiva ed emotiva correttiva. Un adulto positivo può accompagnare un bambino o un
ragazzo a fare esperienza di RESILIENZA, cioè a riorganizzarsi nel percorso di vita con la possibilità di
trasformare l’evento doloroso e traumatico in un processo di apprendimento e di crescita. Un adulto
positivo può essere quindi un “tutore di resilienza per il bambino”.

CAPITOLO 2 – DEONTOLOGIA DELL’ASSISTENTE SOCIALE E PROTEZIONE MINORILE NELL’EPOCA DELLA


CRISI DEL WELFARE.

Negli ultimi anni in Italia si è assistito ad una situazione di progressivo indebolimento dei sistemi territoriali
di tutela sociale dovuto ad una mancanza di risorse economiche e dal riemergere di situazioni di tendenze
culturali che spingono verso un ritorno a forme di welfare. Gran parte della popolazione resta priva di
supporto e accompagnamento come per gli ultra anziani, disabili o nuclei familiari con membri con
disabilità.

La crisi del welfare state non è un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca. I ripetuti tagli ai
fondi nazionali per le politiche sociali hanno contribuito a causa degli effetti della morsa ad un processo di
progressiva RAREFAZIONE e RESIDUALIZZAZIONE DEL WELFARE. Ad esempio l’azzeramento del
Fondo Nazionale per le Politiche Sociali.

Oggi questo modello, viene detto anche Welfare Post-Moderno/Mix/di Rete/Pluralism ed appare incapace
di favorire l’inclusione delle persone che vivono in condizioni di vulnerabilità, con il rischio che si crei una
lacerazione tra società degli inclusi e la società degli esclusi.
In questa situazione, la rete dei servizi risulta incapace di dare risposte ai bisogni di tutela.

La grave crisi del welfare e la riduzione delle risorse si riflette in una visione neo-liberista, ostile alla
promozione del benessere sociale e che influenza le modalità con cui gli assistenti sociali rappresentano e
articolano il proprio lavoro a partire dalla responsabilità nei confronti dei diversi soggetti, come previsto nel
codice deontologico. Secondo una visione neo-liberista il welfare costa troppo, funziona male e va tagliato.

Questa visione non fa altro che amplificare la disfunzione del servizio pubblico.

Si diffonde l’opinione del “difetto morale” degli utenti del servizio sociale che li rende colpevoli della loro
situazione, e quindi non meritevoli e degni di aiuto e sostegno.

L’elemento che caratterizza i servizi di protezione sociale è quello della MACCHIA DI LEOPARDO dove sono
presenti alcune zone di eccellenza in cui la risposta ai bisogni sociali è sufficientemente adeguata, ed alcune
zone desertiche con forme di inefficienza, inefficacia ed iniquità. Affinché il servizio di protezione sia
adeguato ad offrire risposte, occorre che vi sia un giusto equilibrio tra il carico di lavoro complessivo e il
numero degli operatori a svolgerlo. Il CONSIGLIO NAZIONALE DELL’ORDINE DEGLI ASSISTENTI SOCIALI ha
affermato che occorre la presenza di almeno 1 assistente sociale ogni 10.000 abitanti.

La denuncia del CISMAI (coordinamento italiano dei servizi contro il Maltrattamento e l’abuso sull’infanzia)
va a sottolineare che se vi sono pochi operatori che gestiscono il sistema di prevenzione, inevitabilmente
essi diventano più vulnerabili nella gestione dei tantissimi casi.

Un altro elemento della crisi del welfare italiano è la precarizzazione contrattuale come uno dei principali
limiti del proprio sistema di protezione sociale. Questa circostanza di instabilità non favorisce un clima di
serenità per lavorare.

Ultimo problema è quello della mancanza degli strumenti, i mezzi di intervento attivabili nell’azione dei
servizi sociali si presentano sempre più assottigliati. Sono sempre più numerosi i comuni che invitano gli
assistenti sociali a contenere il più possibile l’inserimento dei minorenni nei servizi residenziali. L’elemento
negativo di tutto ciò è la mancata definizione dei livelli essenziali delle prestazioni civili e sociali che lo Stato
deve emanare al fine di assicurare una base minima comune per tutti i cittadini.

Il processo di depotenziamento del sistema di welfare lo si trova nel processo sociale e culturale
caratterizzato dalla frammentazione delle reti sociali: infatti, si sottolinea che il disagio sociale è effetto, e
non causa. È effetto di imprevisti, problemi, gravi forme di solitudine e isolamento. Giuseppe Dossetti
affermava che in questa solitudine si perde l’essere-con, cioè l’esserci al mondo insieme. Tutti gli esseri
umani devono (in teoria) essere accolti, accogliersi, accogliere e condividere: il tutto non è facile da mettere
in pratica e non è molto diffuso.

Questo processo di progressivo isolamento e di rarefazione delle relazioni porta le persone a ripiegarsi su
se stesse. Si determina quindi una DISINTEGRAZIONE SOCIALE (DISAFFILIATION) e si sviluppa una cultura
del benessere materiale che porta a pensare a se stessi. Questo concetto è stato ripreso dalla Chiesa
Italiana, la quale parla di autoreferenzialità: tutto ci spinge a ritenere di essere autosufficienti e la pretesa
di bastare a se stessi elimina l’altro dal proprio orizzonte. Il problema della ridotta tutela dei minorenni è
dovuta ad un problema degli adulti che tendono a concentrarsi su loro stessi, il punto centrale è la loro
INDIVIDUALITA’. Questa situazione si riflette in maniera negativa sulle famiglie, riducendo drasticamente i
rapporti interpersonali con gravi ripercussioni sui rapporti di fiducia che diventano sempre più impoveriti.

Il depotenziamento del welfare fa sì che ci si ponga la domanda di quale fosse il ruolo del servizio sociale
professionale. Un servizio sociale debole, sovraccaricato e precario, rischia di diventare PRESTAZIONALE,
cioè caratterizzato da singoli interventi scollegati, non tenuti insieme da un lavoro sistematico con la
comunità locale, e che porta alla conseguenza di percepire un servizio sociale distante da loro, estraneo, di
cui diffidare. Questo mette in crisi il modo di essere assistenti sociali: infatti, gli interventi incompresi e
tardivi diventano involontariamente stigmatizzanti. Si diffonde l’idea secondo cui essere seguiti da assistenti
sociali diviene un male, una macchia, un’etichetta. Tutto questo produce:

 PROBLEMI ETICI: quando l’assistente sociale deve prendere una decisione difficile dal punto di vista
morale;
 DILEMMI ETICI: quando l’assistente sociale deve assumere scelte difficili tra due principi etici in
conflitto;

La “costrizione” degli assistenti sociali ad operare in base alle risorse e non in base ai bisogni pone problemi
riguardanti l’uguaglianza e la giustizia sociale.

La domanda che ci si pone oggi è: GLI ASSISTENTI SOCIALI RUBANO ANCORA I BAMBINI? TUTELANO
ANCORA I MINORENNI BISOGNOSI DI ACCOGLIENZA?

Questa domanda è un credo piuttosto generalizzato che accusa il servizio sociale di prepotenza e
repressione autoritaria. Però è una domanda grave ma concreta, che inizia dai dati annuali del ministero del
lavoro e delle politiche sociali in merito ai minorenni che vivono fuori dalla propria famiglia.

Negli ultimi anni si è notato un calo del numero di bambini e ragazzi inseriti nelle comunità residenziali o in
affidamento familiare. Il timore è che questo calo indichi una riduzione del bisogno, sintomo di una
gravissima “mancanza di protezione” per un crescente numero di bambini e ragazzi. L’art. 1 della Legge
184/83 del 2001 afferma che gli interventi di allontanamento di bambini e ragazzi dal loro nucleo familiare
vanno sempre considerati come risposta estrema ad azioni di sostegno dei nuclei familiari a rischio, non si
può negare, infatti, che quando nonostante i supporti le condizioni del nucleo familiare restano gravemente
pregiudizievoli, occorre mettere in sicurezza il minorenne inserendolo per il tempo necessario in un
contesto in grado di provvedere alla sua crescita.

La crisi del welfare porta a numerose difficoltà per l’intervento degli assistenti sociali nel campo della tutela
minorile e familiare. Tra le difficoltà notiamo una riduzione del numero dei minorenni inseriti nelle
comunità residenziali e in affidamento familiare, questo evidenzia il rischio che si sviluppi una dicotomia tra
il mandato istituzionale e il mandato professionale degli assistenti sociali.

Molte volte il non voler allontanare dalla famiglia un bambino o un ragazzo è dovuto al fatto che si vede
nella famiglia e nel legame di sangue un dato sempre sano che porta a vedere gli assistenti sociali come
“sequestratori” di bambini e gestori di business milionari.

I problemi di ridotta tutela minorile emergono da diversi elementi, come dalle forme di intervento tardo-
riparative e gli allontanamenti coatti di medio-lunga durata. Il depotenziamento dei servizi sociali riduce di
molto il lavoro di sostegno ai nuclei familiari ponendo seri problemi agli assistenti sociali. In Italia si assiste
ad uno cambiamento di approcci assistenziali, incapaci di individuare il disagio minorile e familiare,
mettendo in crisi i doveri dell’assistente sociale, a cui fa capo l’art.14 del codice deontologico che dichiara il
dovere di tutelare i minori. Inoltre, sul piano pratico del lavoro assistenziale, vi è difficoltà di prevenzione e
promozione degli allontanamenti dei minorenni dalla famiglia.

Un ulteriore elemento di grave debolezza causata dalla crisi è la scarsa qualità della sinergia tra i vari servizi:
si assiste alla crisi della capacità di collaborazione. In questo scenario, l’assistente sociale vengono soffocati
poiché non riescono ad esercitare la propria responsabilità professionale che gli chiede di promuovere lo
sviluppo di un sistema di rete integrato e di ricercare la collaborazione tra i vari soggetti pubblici e privati.

Un altro elemento abbastanza preoccupante è la quasi inesistente capacità dei servizi di stimolare la
collaborazione e la l’attivazione delle comunità locali. Per comunità locali s’intendono le community work:
alcuni dati dell’ISTAT affermano che le reti di solidarietà interfamiliare, presenti in Italia, si sono ridotte di
un terzo negli ultimi anni.

Questo accade per l’insufficiente presenza di famiglie affidatarie rispetto al numero di bambini e ragazzi che
avrebbero bisogno di un’accoglienza familiare. Secondo i dati diffusi dal Ministero del Lavoro e delle
Politiche Sociali, si predilige l’inserimento dei ragazzi nelle comunità piuttosto che darli in affido,
nonostante le priorità prevista dalla Legge n.184/1983, che prevede l’inserimento nelle comunità solo nel
caso in cui non sia possibile l’affidamento.

CAPITOLO 3 – TUTELA MINORILE OGGI. LE RESPONSABILITÀ DELL’ASSISTENTE SOCIALE.

COSA SI INTENDE PER RESPONSABILITÀ DELL’ASSISTENTE SOCIALE?

L’etimologia della parola, afferma Elena Spinelli, deriva dal latino “RESPONDEO” e significa rispondere e
dare risposta, non solo del proprio operato ma anche delle conseguenze che con esso si producono sugli
altri. Max Weber afferma che “ogni agire è orientato in senso etico”, e può essere orientato secondo:

 L’ETICA DELL’INTENZIONE, nella quale il soggetto opera da giusto e rimette l'esito nelle mani di
Dio;
 L’ETICA DELLA RESPONSABILITÀ, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze delle
proprie azioni;

I primi 10 articoli del codice deontologico sanciscono che l’assistente sociale ha il mandato di promuovere il
valore, la dignità e l’unicità delle persone, delle famiglie e delle aggregazioni sociali. Nel fare questo,
l’assistente sociale si impegna a tutelare i diritti fondamentali e inalienabili delle persone. La responsabilità
dell’assistente sociale è quella di rifarsi al principio di attuazione secondo il quale è obbligatorio e
importante restituire i diritti, riconosciuti dall’ordinamento, al cittadino che, per ragioni diverse, viene
ingiustamente privato. Come commentava Martin Luther King, la responsabilità dell’assistente sociale sta
proprio nell’aiutare le persone a cambiare, ovvero migliorare la situazione nella quale si trovano.

È importante chiedersi di cosa e a chi deve rispondere l’assistente sociale, ed anche entro quali limiti (fino
a che punto). Vengono individuati cinque macro-destinatati:

 Nei confronti della persona utente e cliente;


 Nei confronti della società;
 Nei confronti di colleghi e altri professionisti;
 Nei confronti dell’organizzazione di lavoro;
 Nei confronti della professione;

La responsabilità è utile per costruire il profilo professionale degli assistenti sociali. Fin dal principio, i
professionisti in tale materia hanno ritenuto che l’esercizio corretto delle capacità fosse connesso ai principi
e valori etici, utili per aiutare le persone in modo competente. La responsabilità viene definita come un
custode del corretto esercizio della libertà.

La deontologia (dal greco deon-ontos, cioè “ciò che necessario fare”) definisce gli standard etici di
condotta, cioè i comportamenti da attuarsi in casi in cui un evento si materializza, seguendo una procedura
decisionale. I valori etici non sono altro che criteri di discernimento nelle scelte degli obiettivi generali,
scelte che facciano riferimento ai principi ispiratori della professione. Il codice deontologico ha anche lo
scopo di proteggere l’utente dallo sfruttamento o dalla cattiva condotta del professionista, considerato che
la relazione tra assistente sociale e utente è diseguale per il fatto che il primo ha più potere. Attraverso il
codice deontologico e la responsabilità dell’assistente sociale, si raggiunge l’obiettivo di sancire la priorità
dei valori professionali rispetto ai valori istituzionali o personali.
Per ciò che riguarda i limiti entro i quali bisogna rispondere è necessario interrogarci sul futuro che si vuole
costruire con uno sguardo che sappia considerare la dimensione di lavoro con l’utente, il rapporto con la
propria organizzazione e con i colleghi e le altre realtà della rete di intervento, e il rapporto con l’intera
società. La politica sociale fa maturare una nuova sensibilità nell’ambito del servizio sociale, spostando
l’attenzione verso il benessere dell’individuo. Si tratta di far emergere la dimensione politica del servizio
sociale, trasformando il concetto statico di assistenza ad una prospettiva dinamica in cui i destinatari del
servizio sociale sono tutti i cittadini. Il codice deontologico richiama il compito politico degli assistenti
sociali.

Denis Waitley afferma che “ci sono due scelte nella vita: accettare le condizioni in cui viviamo o assumersi la
responsabilità di cambiarle”. Gli assistenti sociali devono sempre collocarsi nella seconda opzione.

Gli assistenti sociali hanno il dovere di denunciare quelle attività politiche che contribuiscono a peggiorare
la situazione, aumentando la sofferenza. Inoltre, gli assistenti sociali contribuiscono alla promozione, allo
sviluppo e al sostegno di politiche sociali integrate favorevoli all’emancipazione di comunità marginali.
Elena Spinelli sottolinea che è necessario potenziare la capacità di leggere il contesto e situare l’azione
professionale in ampio quadro generale.

Il codice deontologico ha un solido fondamento psico-affettivo, che lo sorregge e ne rende possibile


l’attuazione. Il dover essere prescritto trova la sua base in un essere morale ed emotivo che fornisce
all’assistente sociale la forza e la motivazione per proseguire il suo percorso. Questo aspetto è molto
fondamentale e va inserito in uno scenario in cui il servizio sociale soffre di una crisi di fiducia: viene
attaccato di continuo dai politici, dagli utenti. Questi attacchi non fanno altro che mettere in discussione
l’integrità professionale e gli assistenti sociali si trovano a dover giustificare la propria esistenza
professionale; inoltre, viene chiesto loro di fare di più con minori risorse e di diventare più efficienti ed
efficaci nel razionare gli interventi.

Secondo Teresa F. Bertotti, gli assistenti sociali reagiscono alla crisi del welfare ripiegandosi su se stessi o sul
gruppo professionale.

Secondo Lena Dominelli gli assistenti sociali vivono un diffuso senso di impotenza, e che ci sono tre
possibilità di reazione dell’assistente sociale che emergono:

 GLI ASSISTENTI SOCIALI ADATTIVI, sono coloro che pensano che non è loro compito migliorare il
sistema, ma che fanno di tutto per fornire ed erogare il miglior servizio possibile nei limiti esistenti.
 GLI ASSISTENTI SOCIALI DIFENSIVI, sono coloro che pensano non è loro compito migliorare il
sistema, né il «servizio» nel quale sono impegnati, cercano di «esporsi il meno possibile». In questo
caso, vi è un ripiegamento sulla propria professione. È una posizione in cui l’assistente sociale si tira
indietro affermando che la sua figura non può contribuire più di tanto a migliorare il sistema.
 GLI ASSISTENTI SOCIALI MODIFICATIVI, sono coloro che sono determinati a dare il migliore servizio
possibile ed anche ad assumere un’azione volta a migliorare il sistema. Questa reazione viene
assunta dall’assistente sociale nel momento in cui egli pensa di essere parte integrante di quel
meccanismo che deve migliorare la qualità del servizio.

Guido Calogero afferma che, un buon assistente sociale deve reagire e indurre la possibilità di sviluppo
della situazione sociale; questo avviene se si è MODIFICATIVI. Solo così facendo la crisi diventerà
un’opportunità. Si specifica che si tratta di reazioni dinamiche, che nel tempo si possono modificare.
Secondo alcune ricerche svolte durante un seminario formativo per l’aggiornamento professionale, la quasi
totalità degli assistenti sociali ha affermato di rispecchiarsi nella reazione adattiva. I motivi che si celano
dietro questa scelta sono per lo più psicologici, in quanto molti hanno affermato di non farcela a lottare e
che si accontentano di fare bene la loro parte. Queste risposte indicano un vissuto di solitudine emotiva che
accompagna l’operato dell’assistente sociale. In coloro che si rispecchiano nella reazione difensiva, sono
presenti dei tratti tipici del burn-out, cioè il processo stresso che colpisce diversi operatori e professionisti
che sono impegnati quotidianamente in attività che implicano le relazioni interpersonali.

L’azione dell'assistenza sociale non dipende dalle risorse disponibili, ma secondo Folgheraiter, è necessario
cambiare paradigma, e cioè dotarsi di principi, modelli e tecniche.

Il concetto di CRISI, secondo il cambio di paradigma, sta ad indicare un veloce cambiamento in bene e in
male, ed un momento che separa una maniera di essere da un’altra differente. Di fronte alla crisi, occorre
cambiare paradigma, modificare l’idea che si ha dei servizi e degli interventi sociali. Però la crisi non è del
tutto negativa, in quanto rappresenta un’occasione per eliminare la convinzione che il benessere si produce
con i soldi e per recuperare la consapevolezza che i bisogni più alti della vita possono essere raggiunti a
costo zero.

Con la crisi, si può iniziare a concretizzare alcune idee come:

- introdurre le modalità innovative di valorizzazione delle risorse parentali- amicali delle famiglie in
difficoltà. L’esempio principale è il metodo delle FAMILY GROUP CONFERENCE: il metodo pone i nuclei
familiari al centro di un processo che, tramite il coinvolgimento di alcune figure tecniche come il facilitatore
e l’operatore di Advocacy, favorisce la costruzione di progetti di fronteggiamento delle difficoltà sociali.

- introdurre modalità innovative di rafforzamento delle risorse solidali informali delle comunità locali. Un
importante ambito è quello dell’individuazione e dello sviluppo delle reti solidali spontanee e attive nei vari
territori. Negli ultimi anni, in alcuni territori meridionali sta prendendo forma una specifica metodologia di
lavoro definita NUOVI CORTILI, che pone un percorso a tappe a partire dalla valorizzazione dei processi
solidali già attivi e articolato in un lavoro di sviluppo e organizzazione di comunitaria, capace di affiancare
all’intervento dei servizi, una crescente rete di solidarietà locale. Un altro aspetto che va curato è la
valorizzazione formale di reti informali tra i vari operatori territoriale, cioè creare una rete di collaborazione
e sostegno tra i vari assistenti sociali locali, per combattere la solitudine. Si deve prestare attenzione anche
alla decisione di allontanare o meno un minorenne dalla sua famiglia. Questa decisione, oltre a chiamare in
causa le autorità giudiziali, spetta agli assistenti sociali, che hanno il compito di compiere un adeguato ed
approfondito assessment che valuti i bisogni e le risorse del minorenne e del nucleo familiare. Questo
compito potrebbe essere svolto meglio da équipe con più professionisti. Un ultimo aspetto richiama il ruolo
politico dell’assistente sociale, che deve cercare di attivare alleanze con i portatori di interesse e impegnarsi
nel cambiare la direzione di politiche sociali per promuovere la solidarietà sociale, lavorando in modo
parallelo alla ricerca, alla formazione e alla produzione di cultura sociale. Si tratta di lottare affinché il
servizio sociale sia motore di cambiamento dei sistemi di protezione, permettendo di stare di fronte agli
sviluppi della società.

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