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COS’È LA PEDAGOGIA
Tutti noi abbiamo un’idea intuitiva, “ingenua” di cosa significhi educare, insegnare e imparare
(“pedagogia popolare” o “ingenua”), perché siamo stati studenti o persone che hanno appreso.
Perché Pedagogia “Scolastica” anziché “Generale”? Perché la pedagogia generale è molto vasta,
noi ci occuperemo solo di quel che concerne il sistema scolastico.
Fino a poco fa si faceva l’associazione: pedagogia istruzione scolastica. Ma non è così.
Chiariremo questo punto definendo i concetti di educazione e scuola.
EDUCAZIONE E SCUOLA: DEFINIZIONI E DIFFERENZE
L’educazione è una necessità naturale dell’essere umano per adattarsi all’ambiente e una necessità
sociale per vivere nella società.
È come l’alimentazione per sopravvivere. Sia il soggetto sia la società beneficiano dell’educazione:
senza di essa, il soggetto immaturo non avrebbe le risorse per essere inserito nel contesto sociale
e la società collasserebbe ad ogni nuova generazione.
Quindi l’educazione non ha limiti né nel tempo né nello spazio.
Apprendimento continuo (Life Long Learning (L.L.L.)): l’essere umano impara in tutto il corso della
sua vita. La scuola è solo una delle tante fasi.
Dewey associa l’educazione alla comunicazione: partecipazione alle attività di gruppo della società,
avere qualcosa in comune (stessa radice delle parole comunicazione e comune).
Partecipare alle attività della comunità e fare comunicazione struttura le nostre disposizioni.
N.B.: Non tutte le operazioni all’interno della comunità sono una forma di comunicazione: i lavori
meccanici (come il lavoro in fabbrica) non lo sono. Parliamo di attività in cui ci sia condivisione e
accrescimento.
La scuola prima era semplicemente questo, fin dall’Antica Grecia.
Ma, da un certo punto in poi, la comunicazione nel contesto sociale non è più bastata: più la società
diventa complessa e differenziata, più i “saperi” (le discipline) diventano specifici.
È così che Scuola e Università si fanno carico anche di questa necessità e assumono il ruolo come
lo conosciamo oggi:
Scuola: Agenzia educativa specializzata che trasmette saperi specifici (seguendo le esigenze di
una società sempre più complessa e differenziata).
Più la società diventa complessa e differenziata, più c’è bisogno della scuola.
(Qualche teorico estremizza il discorso dicendo che ora si è arrivati ad uno stadio di “villaggio
globale” che è come un ritorno alle origini, villaggio inteso come struttura semplice non servirebbe
più la scuola come la intendiamo noi, descolarizzazione, tornare alla semplice comunicazione.)
Specializzandosi sempre più, la scuola inizia a “scollarsi” dalla vita sociale e quotidiana, diventando
un ambiente un po’ a sé.
RISCHIO: allontanarsi troppo dalla vita e perdere il significato vitale dei saperi.
SOLUZIONE: i saperi devono sempre essere collegati al loro significato vitale, alla quotidianità e alla
società. In che modo? Risposta:
La scuola opera attraverso 3 processi:
• Semplificazione: Semplificare i contenuti dei saperi, adattandosi alle abilità cognitive e alle
individualità degli studenti (“mediazione didattica”).
Contrariamente all’Università, nelle scuole gli studenti non sono necessariamente interessati alla
propria materia, e bisogna tener conto di questo.
• Selezione: Scegliere quali saperi sono più rilevanti di altri, e in ognuno di loro quali parti sono
più rilevanti di altre.
Su questo, per ogni disciplina, sono aperti dibattiti tra scuole di pensiero.
ESEMPI:
▪ Era stato tolto l’insegnamento della geografia, poi ci si è resi conto che in questo
momento storico è necessario reinserirlo.
▪ Inserire o meno le tecnologie nell’ambito scolastico. Questo dibattito si collega
direttamente alla domanda: “Quanto la scuola deve intervenire sulla vita quotidiana?”.
Bisogna capirne portata e rischi.
• Integrazione. In una società sempre più diversificata, bisogna creare un curriculo (cioè un
programma complessivo di varie discipline) che permetta di accedere ad un sapere sociale
comune, per evitare una “polverizzazione sociale”, cioè un fenomeno in cui gli individui,
crescendo solo in determinati contesti, partecipano solo a certe pratiche di vita e non ne
conoscono altre.
PROCESSO EDUCATIVO E FORMATIVO: DEFINIZIONI E DIFFERENZE
L’apprendimento si attua in 3 contesti:
• Formale: operato da agenzie educative gestite dallo Stato (Scuola + Università), le quali erogano
saperi specifici in maniera intenzionale e con delle progettazioni educative ben precise, e
rilasciano un’attestazione (diploma, laurea…).
• Non formale: operato da agenzie non gestite dallo Stato (bensì dal settore terziario), che
erogano saperi specifici sempre con in maniera intenzionale e progettuale.
Il sapere ottenuto in questo modo viene poi riconosciuto da scuole e università.
ESEMPI: EDCL, certificazioni di inglese, ecc.
• Informale: Tutto l’insieme delle esperienze di vita che concorrono all’educazione dell’individuo,
sia prima che dopo la fase scolastica / universitaria.
N.B. Il format del curriculum europeo è suddiviso proprio così.
Quindi si distingue tra apprendimento informale (senza professori, programmi, agenzie educative,
senza intenzionalità educativa) e apprendimenti intenzionali progettuali (che prevedono un percorso
con l’intenzione di raggiungere un obiettivo).
La scuola non è più ambiente separato: la scuola deve essere il perno di questa rete più complessa,
coordinandosi alle altre agenzie del territorio (attraverso il sistema di certificazioni e riconoscimenti),
e integrandosi agli altri contesti sociali (aderendo a progetti per il territorio ecc).
Il sistema formativo integrato ha uno scopo nuovo: l’individuo deve imparare ad imparare.
Schön parla di una condizione di “oltre lo stato di stabilita” (behind stable state) dagli anni ’70 in poi:
non c’è più stabilità nei luoghi di lavoro (le competenze richieste cambiano continuamente, e
l’università non garantisce la loro acquisizione), nei valori familiari e sociali (cambiano velocemente),
ecc. Dobbiamo continuamente “aggiornarci” (la terminologia tecnologica dell’aggiornarsi deriva
proprio da questo), acquisire abilità intellettive e comportamentali che ci permettano di risintonizzarci
su contesti di vita e di lavoro mutati.
Quindi siamo costretti ad imparare continuamente la competenza più importante da acquisire è il
saper imparare!
I docenti, oltre ad insegnare i saperi specifici delle loro materie, devono anche insegnare ad avere
un approccio critico, riflessivo e consapevole.
Che relazione c’è fra il sapere professionale di un professionista e la sua pratica professionale?
Schön spiega come negli anni ‘80 iniziò la crisi delle professioni: i professionisti, che per tanto
tempo erano stati considerati tali dal punto di vista sociale, iniziarono ad essere oggetto di critiche.
Oggi la cosa va ancora peggio: pazienti che fanno da soli le proprie diagnosi, studenti che non
rispettano i professori, ecc.
Per Schön è una crisi epistemologica: va cambiato il modo di intendere la pratica professionale
passare dall’attuale razionalità tecnica ad una nuova razionalità riflessiva.
RAZIONALITÀ TECNICA:
Intende la pratica professionale come mera applicazione del sapere teorico, attuata sotto forma di
problem solving.
Trovare soluzioni ai problemi che si incontrano nel contesto professionale, utilizzando come
strumento i saperi teorici. La pratica è mera applicazione della teoria. Si parte dal presupposto che
nei contesti professionali incontreremo problemi già definiti, per i quali esistono risposte definite.
IN TERMINI UNIVERSITARI:
I professori hanno saperi teorici e “saperi applicati” (perché sono già professionisti praticanti), ma
trasmettono solo quelli teorici, lo studente (il “novizio”, colui che deve diventare professionista) li
assimila senza fare pratica, perché i saperi pratici li acquisirà direttamente dopo sul campo, grazie
ai saperi teorici.
Viene criticata la valutazione basata sugli standard: essi si rifanno alla pedagogia ingenua!
ESEMPIO: uno studente è brillante e di successo se dà risposte brillanti alle domande del docente.
La funzione del docente è vista solo dal punto di vista didattico-conoscitivo, non educativo! Io
docente non devo pensarmi solo come un didatta o esperto della mia disciplina, ma anche come un
educatore.
I problemi non sono già definiti, e la pratica non è solo il campo di applicazione della teoria: la pratica
è essa stessa produttrice di sapere!
Il professionista ha un repertorio di mosse per la soluzione di un problema: all’inizio della sua pratica
professionale, il repertorio è piccolo ed è dato dai soli saperi teorici, ma poi con la pratica il repertorio
si arricchisce, aggiungendo nuove mosse che vanno a sommarsi al sapere non solo pratico ma
anche teorico! Non c’è scissione tra teoria e pratica.
IN TERMINI UNIVERSITARI:
L’artistry non si può insegnare, si può solo apprendere, quindi lezioni teoriche frontali non vanno
bene. Allora come facciamo ad apprenderla? Fare solo pratica sul campo nemmeno va bene, perché
danneggiamo le “cavie”. Allora all’università dobbiamo fare un:
“Tirocinio riflessivo”:
➢ Tirocinio: “spazio protetto” in cui c’è un “tutor” (professionista esperto), dal cui repertorio di mosse
il novizio apprende. Il tutor è il responsabile della pratica, non il novizio.
Via di mezzo tra lezione frontale e pratica diretta sul campo.
➢ Riflessivo: Lo scopo è apprendere l’artistry, imparare ad essere riflessivi.
Si seguono 2 principi:
• imparare dalla pratica (non sulla pratica). La pratica produce nuovo sapere teorico.
• essere introdotto alle “tradizioni” della pratica, “entrare” nella pratica: fare bottega, essere
introdotto alla pratica gradualmente, a livelli sempre maggiori. Così familiarizziamo con i
significati, per capire cos’è considerato valido nella tradizione della pratica.
N.B.: Apprendere dalla tradizione non significa ripetere gli automatismi senza mai rinnovarsi, ma
solo familiarizzare con la pratica. Lo scopo rimane sempre quello di essere riflessivi e critici, quindi
anche innovarsi dove serve, o lasciare spazio a soggettività e talento dove serve.
METODO DI VALUTAZIONE DEL PROFESSIONISTA PER VALUTARE LA PRATICA DEI NOVIZI:
“Sistemi di apprezzamento”: valutare della pratica all’interno della pratica stessa, il professionista
partecipa alla pratica del novizio, tenendo conto delle situazioni contestuali e delle specificità.
È la tradizione stessa della pratica che permette di valutare un intervento professionale competente!
ESEMPIO: quando uno studente che non ha mai partecipato alle lezioni si interessa ad un particolare
tema e fa un intervento, anche se questo intervento fosse molto stupido l’insegnante deve comunque
apprezzare e valorizzare il miglioramento che quello studente ha avuto rispetto a prima, deve tenere
conto della specificità.
Questo metodo di valutazione è soggettivo? Dal punto di vista psicologico sì, ma dal punto di vista
pedagogico no, perché è epistemologico: non è soggettivo perché, essendo fondato nella pratica,
deriva da fattori che non sono personali del professionista, bensì sono condivisi, riconoscibili,
codificabili da tutta la comunità di professionisti.
Esempio di fattori riconosciuti nella pratica di docente: una certa idea di scuola, orizzonti di attesa di
un intervento educativo all’interno di un determinato contesto sociale, una certa idea della funzione
educativa…
Ma allora non somiglia al concetto di standard? Sì, ma non lo è, perché lo standard è staccato dalla
pratica, mentre l’apprezzamento nasce dalla pratica!
Quello che interessa non è l’oggettività, bensì la riconoscibilità e la condivisione (la “tradizione”)
all’interno di un contesto della pratica, al fine di valutare le prestazioni professionali “in situazione”,
cioè tenendo conto delle specificità.
L’oggettività e gli standard serviranno invece per altre cose.
Davanti ad una nuova situazione (“sorpresa”), Schön distingue tra due forme di riflessione:
• Riflessione nel corso dell’azione (reflection in action): mosse che il professionista fa sul momento
senza sospendere l’azione, ricalibrando la sua azione rispetto alla sorpresa. Quanto più il
professionista è esperto, tanto più la ricalibratura è efficace. Atteggiamento riflessivo e
sperimentale allo stesso tempo.
• Riflessione sul corso dell’azione (reflection on action): il professionista sospende l’azione per
fermarsi a riflettere, oppure, dopo che l’azione è trascorsa, riprende a riflettere sul modo in cui in
quel momento ha risposto alla sorpresa.
C’era la “filosofia dell’Educazione”, una riflessione filosofica su valori, ideologie, finalità, possibilità
e limiti dell’educazione, implicazioni etiche, morali, politiche, sociali, creando categorie e modelli.
L’elemento empirico c’è pure, ma se si parla di valori si considera disciplina umanistica.
(Oggi, Cambi distingue la Pedagogia dalla Filosofia dell’educazione: la prima indaga sui diversi
risultati delle scienze dell’educazione, mentre la seconda indaga i presupposti con cui noi
indaghiamo il reale (disciplina di metalivello).)
In particolare, si seguiva come teoria della formazione umana la “Bildung”: la formazione umana
era vista come conseguenza dei processi storico culturali, i soggetti si formano perché fanno parte
di una cultura, interiorizzano quella cultura. Esempio: l’apprendimento di una lingua.
Adesso non si segue più questa teoria, bensì si segue la teoria del Processo formativo bio-psico-
sociale, che tiene conto anche della componente biologica, interazioni con l’ambiente non solo
storico culturali.
La Pedagogia era il momento applicativo di tutte quelle discipline: traduceva quei saperi teorici nella
pratica della didattica.
Dewey afferma che si possono dare due accezioni alla nozione di “scienza”:
1. Insieme di conoscenze scientifiche
2. Atteggiamento e metodo scientifico, sperimentale.
Adottare un atteggiamento scientifico non vuol dire applicare risultati scientifici. Se anche le neuro-
scienze arrivassero a scoprire precisamente come è fatto il cervello umano, rimarrebbe il problema
che le leggi scientifiche non si traducono immediatamente in regole pratiche.
La pedagogia non è una scienza pura: semplicemente utilizza le leggi scientifiche come strumenti
per aiutare le osservazioni della pratica, creare delle regole pratiche da usare.
Responsabilità del ricercatore: nessuna, deve solo scoprire la realtà preesistente, per il semplice
accrescimento di conoscenza, la quale ha un utilizzo meramente tecnico.
Metafora della macchina: “il tutto è esattamente la somma delle sue parti”, ognuna delle quali svolge
un ruolo indipendente dalle altre.
Anche le Scienze dell’Educazione seguirono questo paradigma: si pensò che fosse sufficiente che
ogni disciplina educativa (Psicologia, Sociologia, Filosofia) procedesse, per conto proprio e nel
proprio ambito, a scomporre i temi in parti sempre più semplici, fino a capirne i funzionamenti. In
quest’ottica, la Pedagogia non serviva.
CRITICA DI MORIN:
Contestò:
• la natura analitica e riduzionista della Scienza di allora;
• il paradigma positivistico delle Scienze dell’Educazione:
• l’idea che la Pedagogia fosse inutile.
➢ La Pedagogia deve essere intesa come “Scienza della Formazione”: deve raccogliere i risultati
delle scienze dell’educazione, coordinarle e “intenzionarle” (indirizzarle) verso la formazione.
➢ La Pedagogia deve essere intesa anche come “Scienza empirica”: legata alla indagabilità
empirica, deve cercare un modo scientifico per studiare il processo bio-psico-sociale (“Scienza
del processo formativo”).
INSERIMENTO
Intervento formale che prevede l’introduzione in un contesto di un soggetto che ne era escluso (o
potenzialmente escluso), senza operare alcuna modifica di quel contesto.
ESEMPIO:
Promulgazione di una legge per far accedere una categoria di persona ad un contesto, ma senza
preoccuparsi della loro effettiva accessibilità. Esempio: leggi razziali negli Stati Uniti, in alcuni paesi
del sud non ebbero alcun effetto.
INTEGRAZIONE
Si opera l’inserimento ma operando una modifica del contesto che abbatta le barriere che causavano
l’esclusione.
ESEMPIO:
Nel caso di un contesto inaccessibile ad una persona in condizione di disabilità, scegliere un
delegato che aiuti il disabile ad accedere a quel contesto o che si sostituisca a lui per portare a
termine il compito.
LIMITI:
• Non elimina le dinamiche di fondo che causano le barriere del contesto (“intervento statico”). Si
eliminano i sintomi ma non le cause.
• Si rifà alla razionalità tecnica. Segue un’epistemologia professionale secondo cui i problemi che
si incontrano nella pratica professionale sono già definiti.
INCLUSIONE
I soggetti esclusi segnalano la loro esclusione e negoziano con gli inclusi per una riconfigurazione
totale del contesto (anzitutto concettuale e poi operativa), che sarà attuata sia dagli inclusi che dagli
esclusi, collaborando. “Intervento processuale”.
Una riconfigurazione del contesto è diversa da una semplice modifica!
L’inclusione è la “non esclusione”. Quel “non” non indica semplicemente l’eliminazione di una
barriera, bensì è un “non” transitivo, attivo: indica che in quel contesto c’è qualcosa che non funziona,
cioè l’esclusione, quindi indica un’azione sull’esclusione (l’azione degli esclusi di richiamare
l’attenzione degli inclusi sui limiti del contesto, esigendo una ricostruzione da negoziare).
ESEMPI:
▪ dato un contesto inaccessibile ad una persona in condizione di disabilità, denunciare
l’inaccessibilità al responsabile, che dovrà modificare quell’ambiente per renderlo
autonomamente accessibile al disabile.
▪ In una lezione frontale, usare non soltanto la spiegazione verbale, ma anche slides a
beneficio dei non udenti o particolari DSA.
Non si può mai affermare di aver raggiunto l’inclusione definitiva: bisogna continuare a chiedersi se
non ci sia qualche altra minoranza esclusa di cui ancora non ci si è accorti. Ci saranno sempre nuovi
problemi che solleciteranno nuove soluzioni.
L’inclusione è il concetto più avanzato dei 3, l’orizzonte in cui ci muoviamo è quello dell’inclusione.
Tuttavia, c’è una forte confusione tra inclusione e integrazione. I documenti legislativi sono caotici,
anche a causa della cronologia: la legge di riferimento è la 104/92, in cui si parlava ancora di
integrazione. Nel caso dell’intercultura anche si parla di integrazione, perché si riferisce all’accezione
sociologica del termine (in sociologia si parla di “integrazione dei migranti” nella società).
BES (BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI)
Tutti i soggetti che, per diverse ragioni, incontrano difficoltà nei processi di apprendimento.
Nonostante questo, la normativa all’inizio creò un po' di confusione, e nel linguaggio quotidiano delle
scuole la confusione è rimasta. Molti docenti fanno la domanda: “Quanti disabili hai in aula? Quanti
DSA hai? Quanti BES hai?”, come se i BES sono una terza categoria! Ciò è dovuto soprattutto a causa
delle altre categorie particolari di BES che non sono né disabili né DSA.
Nel caso di disabili o DSA non certificati per volere delle famiglie, che rifiutano la diagnosi, il docente
non può richiedere la certificazione. Ciò denota arretratezza culturale. Quello che può fare è agire
per vie traverse, applicando strategie inclusive implicite.
C’è un movimento anti-BES che dice che la normativa BES è stata, per quanto fossero buone le
intenzioni, un arretramento rispetto alla logica dell’inclusione, perché spezzettando gli interventi ed
etichettando le persone, non c’è più riconfigurazione complessiva dei contesti.
MODELLI DI DISABILITÀ:
Strumento sia teorico che operativo per la descrizione delle condizioni di salute e di disabilità (sia
permanenti che temporanee), attraverso un sistema di codici (“codifica ICF”), sempre rapportate ai
contesti di vita e alle fasi di vita del soggetto (approccio bio-psico-sociale).
Se c’è uno studente con una condizione di disabilità, si può fare una decodifica ICF, che descrive la
condizione di disabilità in termini di ICF.
Il concetto ICF di disabilità è esteso (anche il portare gli occhiali è una condizione di disabilità).
ESEMPI:
▪ se ci si rompe una gamba E si deve accedere ad un luogo con rampe di scale, si ha da ICF
una condizione (temporanea) di disabilità, sia perché la gamba è rotta sia perché il posto non
è accessibile!
▪ L’ICF è molto usato anche per l’invecchiamento della popolazione: permette di descrivere
come cambiano capacità e performance di una persona che va avanti con l’età.
FUNZIONAMENTO DELL’ICF:
L’ICF è diviso in vari ambiti, denominati per lettera: Funzioni corporee (B, Body), Strutture corporee
(S), Domini (D), Fattori ambientali (E, Environment).
Le lettere sono seguite da un codice che indica se il funzionamento è normale oppure se c’è un
problema.
Codice .0: problema trascurabile (tra 0 e 4%);
Codice .1: problema lieve (tra 5 e 24%);
Codice .2: problema medio (tra 25 e 49%);
Codice .3: problema grave (tra 50 e 95%);
Codice .4: problema totale (tra 96 e 100%).
Nell’ambito D si parla di:
• Attività: esecuzione di un compito in un ambiente “neutro” (privo sia di barriere sia di facilitatori).
Il grado di soddisfacibilità di un soggetto è quantificato dalla “capacità”: ciò che riesce a fare in
un ambiente neutro.
• Partecipazione: coinvolgimento in una situazione di vita.
Il grado di soddisfacibilità di un soggetto è quantificato dalla “performance”: ciò che riesce a fare
in quel contesto di vita.
FILOSOFIA DELL’ICF:
L’ICF segue la filosofia del modello bio-psico-sociale e dell’inclusione.
Nonostante parli solo di strutture corporee, funzioni corporee, domini e fattori ambientali, e non di
interculturalità o di disagio socioeconomico, la filosofia dell’ICF mostra che:
• non conta solo la disabilità: conta la limitazione dell’attività e la restrizione della partecipazione,
• l’inclusione è una questione di dettagli,
• il funzionamento di un soggetto viene influenzato da:
o strategie didattiche,
o strumenti che si fanno o non si fanno usare,
o compiti che si assegnano o non si assegnano.
In una persona non affetta da DSA, le abilità linguistiche di lettura, scrittura e calcolo sono, una
volta acquisite, automatizzate. Una persona affetta da DSA invece ha problemi nell’esecuzione
di questo compito di codifica.
Disturbo molto specifico, misurabile mediante una serie di test molto accurati.
D IAGNOSI DI UN SOGGETTO CON DSA:
• ha un funzionamento cognitivo almeno normale, (ovvero QI di almeno 85, ma molte persone
affette da DSA hanno QI superiori);
• è, nello svolgimento di un compito di lettura / scrittura / calcolo, al di sotto di 2 variazioni
standard rispetto alla media di performance di quella classe di età e di formazione e per
quel determinato compito.
I DSA sono “invisibili”, non si notano clamorosamente. Per molti anni a scuola si diceva “il
ragazzo non si impegna”, deve leggere di più, si deve esercitare di più.
TIPI DI DSA:
• DISLESSIA:
Difficoltà di codifica nelle abilità di lettura.
ESEMPI:
o discriminare grafemi diversamene orientati nello spazio (p e d),
o discriminare grafemi relativi a fonemi simili (t e d),
o discriminare l’aspetto sequenziale, da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso.
Nei modelli cognitivisti si è parlato della questione della memoria a breve termine: non deve
essere ingolfata, perché altrimenti il compito di gestione diventa difficile. Anche qui, se una
persona impegna tutte le sue risorse a dover decodificare i caratteri, allora quella persona avrà
difficoltà a capire il testo!
L’incidenza statistica della dislessia è legata alla lingua: per l’italiano è il 3%, per l’inglese più
alta, perché il rapporto tra grafema e fonema non è lineare come nell’italiano. In Inghilterra infatti
le legislazioni sulle Learning disabilities ci sono da 25 anni!
• DISGRAFIA:
Difficoltà di codifica nelle abilità di scrittura.
ESEMPI:
o problemi a gestire lo spazio in cui scrivere (uscire fuori dai margini),
o disomogeneità nella forma della scrittura.
Tutte cose facilmente confondibili con l’essere disordinati.
• DISORTOGRAFIA:
Difficoltà nella scrittura corretta delle parole.
ESEMPI:
o confusione fra grafeni simili,
o omissioni di parti di parole (le doppie),
o discriminare l’aspetto sequenziale, da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso.
Tutte cose facilmente confondibili con il non aver studiato bene la grammatica.
• DISCALCULIA:
Difficoltà nel riconoscimento e nella discriminazione dei numeri.
ESEMPI:
o si confondono 32 e 23, 536 e 563,
o i numeri doppi sono confusi, l’orientamento sequenziale manca,
o non si codifica la posizione dello zero: 5036 diventa 536.
Tutte cose facilmente confondibili con sbadatezza o poca propensione per il calcolo.
Non si può guarire. Nelle forme lievi, si può riuscire a perfezionarsi da soli con personali strategie di
compensazione. La diagnosi medica è preferibile intorno ai 7-8 anni di età.
N.B.: In realtà è improprio anche chiamarlo “disturbo”, c’è un filone della ricerca più radicale che
sostiene sarebbe più opportuno parlare di neuro-diversità, un diverso stile cognitivo che non si confà
alla comunicazione tipografica, in un mondo senza scrittura tipografica non ci sarebbero DSA.
STRUMENTI DI INTERVENTO:
Non esiste una regola unica, la filosofia generale è sempre quella dell’inclusione e della
sensibilizzazione.
Il docente dovrebbe innanzitutto parlare privatamente con la persona affetta da DSA, per decidere
insieme a lui come gestire la situazione e quale strada il ragazzo ritenga più opportuna (far parlare
il docente alla classe, far parlare il ragazzo, far venire un esperto del centro sinapsi a spiegare il
problema).
Sono situazioni reali e identificabili, ma per le quali non c’è nessuna normativa con cui il docente è
legittimato ad agire. Tutto è rimesso alla sensibilità del docente.
Ianes propose di intervenire in una forma più codificata. Così il Ministero trasmise una circolare che:
• ha introdotto la categoria di tutti gli altri BES,
• ha stabilito come strumento di intervento il PDP (e in questo caso il termine “personalizzazione”
è appropriato).
Il consiglio di classe può stabilire se uno studente appartenga ad una di queste categorie BES ed
elaborare un PDP.
È un sistema di “buon senso”, e rimane informale: una circolare non ha il rigore di una normativa.
PROBLEMI INIZIALI:
• le scuole si riempirono di file di genitori per cui tutti i figli avevano bisogno di un PDP;
• le dirigenze si divisero fra due poli estremi:
o quelle che concedevano PDP a tutti, anche per evitare ricorsi;
o quelle che lo rifiutarono a tutti, perché era troppo complicato.
In democrazia le decisioni non devono essere preso da un polo (politici, amministratori, esperti),
bensì devono essere prese da tutti quelli che sono coinvolti nelle conseguenze di quelle decisioni.
In ambito educativo l’inclusione prevede la stessa cosa. L’inclusione ha carattere democratico: gli
educandi devono intervenire nelle decisioni inclusive che li riguardano.
ESEMPIO: concordare con un DSA su come agire.
1. Il saluto. L’inclusione ha come suo livello primo il riconoscere e accogliere l’altro in una dinamica
relazionale.
ESEMPIO: se c’è uno studente paralizzato, che non può comunicare normalmente con la classe,
i compagni eviteranno di interagire non (solo) per cattiveria ma soprattutto per timidezza e
incapacità di gestire la situazione. Deve essere il docente a favorire una dinamica relazionale,
coinvolgendo i compagni nei momenti in cui egli comunica con lo studente paralizzato. Deve
avvenire una forma di saluto, cioè di riconoscimento e accoglienza.
2. La retorica: il modo in cui parliamo delle cose e presentiamo i fenomeni, il quale induce una
certa interpretazione del fenomeno piuttosto che un’altra. Nelle pratiche educative: una
terminologia scorretta nel definire i BES induce ad interpretarli come un problema da risolvere,
mentre una terminologia adeguata induce ad interpretarli come persone con delle specificità che
hanno bisogno di attenzioni speciali.
Se il docente conta quanti “BES” o “DSA” ha in una classe, sta pensando alla loro condizione
come un problema, non sta pensando alla didattica nel suo complesso. Non è una questione di
correttezza politica, ma di mentalità.
L’inclusione non ha solo aspetti didattici, ha soprattutto una valenza pedagogica: veicola una certa
ideologia di educazione, quella democratica. (In Pedagogia l’ideologia esiste sempre!)
Negli anni ’70 c’era, e sta riemergendo adesso, la “Pedagogia dell’esclusione”: differenziazione
senza solidarietà classi differenziate per i bes e per gli alunni geniali.
È logico che abbia i suoi vantaggi didattici:
• per un bes è più facile lavorare in una classe di bes,
• per un alunno geniale è più proficuo lavorare in una classe per geni.
Ma ha il suo svantaggio pedagogico: mette da parte l’inclusione, con tutte le conseguenze sociali e
relazionali.
Sono due concetti diversi, benché abbiano un importante punto in comune che vedremo.
Nel corso delle stagioni politiche si sono susseguiti come ideologie di governo.
MULTICULTURALISMO
LIVELLO DESCRITTIVO: su un territorio c’è la presenza di più culture.
LIVELLO NORMATIVO: Relativismo: ciascun soggetto fa esperienza del mondo attraverso le
categorie acquisite dalla propria cultura, che sono diverse tra loro, quindi danno interpretazioni
diverse del mondo.
Allora bisogna preservare l’integrità culturale e evitare dialogo fra culture, perché si rischia un
“annacquamento” delle culture, o la prevalenza delle culture dominanti su quelle oppresse (per
ragioni storiche).
Per “fare esperienza” si intende organizzare l’esperienza in un certo modo. Le differenze fra culture
non sono solo valoriali o etiche: cambia tutto il modo in cui si percepisce e si interpreta sé stessi, le
relazioni sociali, lo scorrere del tempo, e tutta la realtà, attraverso diversi codici simbolici e linguaggi.
Quindi: Ciascuno di noi è determinato dalla propria cultura. L’identità dell’individuo è innanzitutto
identità culturale.
L’idea del Relativismo nacque nell’800 col Romanticismo, per contrastare la Razionalismo del ‘700
che era diventata l’idea della “cultura per eccellenza, per antonomasia”, l’uomo bianco è portatore
del lume della ragione, e quindi della cultura. Stesso discorso per la democrazia: si pensava che vi
fosse un solo modello di democrazia, quello europeo, e invece anche nelle culture che secondo noi
avevano bisogno di apprendere la democrazia, c’erano delle tradizioni democratiche che, da punti
di vista diversi, arrivano a posizioni molto simili!
Per “dialogo” tra culture si intende scambi culturali, mescolamento.
Per il Relativismo, il dialogo porta, in ultima istanza, alla discriminazione delle culture oppresse.
ESEMPI STORICI:
▪ Colonialismo europeo a scapito dei paesi africani e sudamericani. Tutt’oggi non le
consideriamo vere culture al pari di quelle europee, le consideriamo “folklore”.
Quel che è peggio è l’oppressione interiorizzata: quando le popolazioni oppresse quasi
riconoscono il diritto dell’oppressore, poiché è portatore del sapere razionale.
▪ Crisi dell’ideologia Melting Pot degli Stati Uniti, negli anni ’60: la cultura è stata
segregazionista nei fatti, quindi i gruppi culturali hanno avvertito l’esigenza di proteggere la
propria cultura.
ESEMPI PEDAGOGICI:
▪ Non si studiano quasi per niente le culture diverse da quella europea e americana.
▪ Studiare Shakespeare perché “è oggettivamente il più grande drammaturgo di tutti i tempi”
presuppone una certa idea di letteratura e di eccellenza letteraria, che spazza via ogni altra
forma di manifestazione artistica.
▪ Nello studio della letteratura italiana del ‘900 c’è solo un autore meridionale: Pirandello.
Quindi:
OBIETTIVO PEDAGOGICO: I soggetti devono essere educati ciascuno rispetto alla propria cultura.
Il Multiculturalismo è stato un’importante stagione del pensiero politico e pedagogico soprattutto nel
mondo anglosassone e soprattutto negli anni ‘70 e ’80.
“Relativizzazione dei punti di vista” non significa Relativismo, infatti l’intercultura è dialogica, il
contrario di Relativismo.
È la stessa cosa del conoscere sé stessi: si può conoscere davvero se stessi solo confrontandosi
con altre persone, che a volte ci mostrano aspetti di noi che non vedevamo.
L’intercultura non arriva al Melting Pot, cioè a una mescolanza indifferenziata: arriva semplicemente
a una maggiore consapevolezza delle differenze culturali.
OBIETTIVO: Creare uno spazio del dialogo, dove individui con culture diverse si incontrano e
condividono esperienze, attraverso cui:
• conoscere meglio l’altro punto di vista,
• conoscere meglio il proprio punto di vista,
• costruire nuovi orizzonti comuni.
A scuola si fa intercultura? C’è l’Educazione civica, ma incastrata in poche ore del programma non
serve!
OBIETTIVO PEDAGOGICO: Riconfigurare l’intero sistema, ricostruire i curricoli, i programmi, le pratiche
didattiche, rivisitandoli in chiave interculturale. Anche le discipline più tradizionali devono essere
rivisitate in ottica interculturale.
ESEMPIO: Il liceo classico. È una forte tradizione italiana (anche grazie alla vecchia riforma Gentile),
noi italiani siamo un po’ presuntuosi sulla nostra eredità greco-romana, ma anche la cultura greco-
romana era a sua volta fortemente influenzata da altre culture! Alla luce di questo, non ha senso
pensare nell’ottica multiculturale, sarebbe come dire che noi italiani ci teniamo i nostri licei classici e
gli studenti di altre culture studino in scuole differenziate.
L’intercultura è più inclusiva della multicultura!
ATTENZIONE: Questa enfasi sulla cultura (anche quella del Multiculturalismo, non solo
Interculturalismo) rischia di essere poco attenta alle caratteristiche personali degli individui, a
schiacciare i soggetti sulla loro cultura di appartenenza. Nella scuola non avviene l’incontro “tra
culture”, avviene l’incontro tra studenti, che tra le altre cose hanno anche la caratteristica della loro
cultura. L’enfasi sulla cultura rischia di offuscare le nostre capacità di azione nella pratica.
Vediamo ora alcuni aspetti legati all’Intercultura su cui il Ministero pone molta enfasi, perché
recepiscono alcune urgenze del momento.
MEDIAZIONE INTERCULTURALE
Nelle scuole troveremo ragazzi figli di immigrati, che vengono chiamati “seconda generazione”.
È uno di quei termini che sembra neutro, sensato, ragionevole e invece ha tante trappole, perché
implica una doppia esclusione:
a. dalla famiglia: è come se ci fosse stato un azzeramento della storia familiare, un ricominciare,
la situazione familiare ha avuto un nuovo inizio, magari drammatico;
b. dal contesto: anche se sono cresciuto in Italia, ho fatto le scuole italiane, non sono italiano, sono
seconda generazione.
Dizione corretta: “nuovi italiani”. Indica il modo di vedere il fenomeno: se lo vedo come “seconda
generazione”, nonostante la persona parli perfettamente italiano e sia cresciuto in Italia e si senta
italiano, lo rischiaccio solamente sulla sua cultura, invece dicendo “nuovo italiano” gli riconosco le
potenzialità e le risorse della sua posizione: non solo l’italianità nei fatti, parlare perfettamente la
lingua, esser cresciuto tra i suoi coetanei, ma anche il potenziale di mediatore culturale fra la
comunità italiana e quella della sua cultura, una risorsa per stabilire il dialogo!
2. Affettivo: il pregiudizio molto spesso non ha a che fare solo con la conoscenza dei fatti: a volte
siamo abbarbicati ad un pregiudizio perché tocca corde profonde di noi. Quindi vanno create
occasioni per smontare questi legami affettivi con certe nozioni.
ESEMPI:
▪ La storia di Rollins fu raccontata in TV dal drammaturgo Stefano Massini, che l’ha
raccontata con un forte impatto emotivo, con forte sapienza nel creare la suspense, con
un effetto di sorpresa che aiuta a smontare.
▪ “Pedagogia della perplessità e del disagio”: mettere le persone in una condizione in cui
scoprano i propri presupposti, però una condizione che sia emotivamente coinvolgente.
▪ Molti automatismi emotivi vengono imposti dai mass media! Per esempio, dei criminali
immigrati sappiamo tutto, di quelli italiani non se ne parla. L’insegnamento deve anche
essere attento agli aspetti educativi e diseducativi dei discorsi mediatici.
RISCHI DI PREGIUDIZIO:
❖ Antisemitismo: importanza di organizzare momenti di riflessione. ESEMPIO: la Giornata della
Memoria o la Shoà non devono essere solo ritualistici, devono essere occasione di riflessione
profonda sull’argomento, che è sempre attuale.
❖ Islam-fobia: paura della cultura islamica, è una forma di pregiudizio. ESEMPIO di intervento:
approfondire (nelle ore disciplinari) le differenze nel mondo islamico, Sunniti e Sciiti, e osservare
come l’attuale guerra dell’Islam al mondo occidentale sia anche guerra tra quelle fazioni. Così si
amplia il campo cognitivo e si stemperano gli automatismi emotivi imposti dai mass media!
❖ Anti-tziganismo: pregiudizi verso la cultura rom, dovute ad alcune caratteristiche della loro
cultura: il fatto che non accettano lavori stabili, che non considerano disdicevole il vivere nella
carità… Già il termine “zingaro” è diventata nel tempo fortemente connotata: ha assunto
accezione negativa, insulto. Un approccio anti-ziganista sta attento anche all’uso del linguaggio,
che vada anche a ricostruire il senso originario, e i motivi per cui è cambiato. (Stesso discorso
delle parole “mafioso” e “negro”).
APPRENDIMENTO DELLA LINGUA:
Abbiamo parlato dei figli di immigrati, che sono nuovi italiani. Ma nella scuola secondaria troveremo
anche ragazzi immigrati appena arrivati in Italia, che hanno diritto alla scuola ma ancora non
conoscono la lingua. Per loro, l’italiano è L2 (seconda lingua).
Ci sono due livelli di conoscenza della lingua:
➢ conoscenza della lingua per comunicazione,
➢ conoscenza della lingua per studio.
Il livello di comunicazione viene raggiunto facilmente dal ragazzo, perché l’apprendimento della
lingua comunicativa si ha in tutti i contesti di apprendimento: formali, non formali e informali! In
famiglia e in strada ha varie occasioni di familiarizzare con la lingua della comunicazione.
Il problema è che non ci si può minimamente accontentare del livello di conoscenza comunicativa
nel momento in cui si vuole mettere i soggetti nelle condizioni di avere un successo scolastico (non
avere ritardi e ripetenze o dispersioni), perché la lingua di studio è una lingua più specialistica,
astratta, e settoriale.
Dunque deve raggiungere il livello di studio. Questa è una fase smodale delicata, ed è una “fase
ponte”: il ragazzo deve raggiungere il livello della lingua di studio, e non può imparare l’italiano ad
un livello L1 (perché non è quella la sua prima lingua), ma non deve nemmeno lasciarla a livello
della comunicazione, deve imparalo in forme diverse da queste due, con un intervento che sia
iperspecifico e iperspecialistico ma non L1! Inoltre, l’intervento che deve essere “a tempo”, (ecco
perché di transizione!).
CARATTERISTICHE GENERALI:
PRIMA:
Uno dei problemi italiani è la mortalità scolastica e universitaria (abbandono, dispersione) che, per
un paese che vuole essere competitivo a livello mondiale, è uno spreco enorme.
Spesso deriva da scelte sbagliate fatte al momento della scelta della scuola secondaria superiore e
dell’università.
Allora le scuole e le università dovrebbero farsi carico di supportare gli studenti nella scelta della
scuola secondaria superiore e dell’università. Come? Due modi:
1) progetti e servizi specifici: sportelli, staff, che si occupano di orientare le persone.
2) didattica orientante: all’interno delle discipline, i docenti devono aiutare gli studenti a diventare
consapevoli dei tipi di competenze e abilità legate allo studio di quei campi del sapere, cosa
viene richiesto in termini di modi di organizzare la conoscenza che devono essere mobilitati.
ESEMPI:
▪ se a uno studente piace la geografia, il docente non dice solamente che “può diventare
geografo, o geopolitico”, ma anche che può utilizzare la geografia per lavorare nel campo del
turismo, e spiegare qual è il livello di studio della geografia che riguarda il turismo!
▪ Oppure allo studente non piace la geografia per gli aspetti che potrebbero interessare a un
economista, ma potrebbero essere molto utili per il turismo.
▪ Viceversa, allo studente non piace ragioneria ma gli piace moltissimo la geografia, e questo
non esclude il fatto che possa studiare aspetti dell’economia applicati alla geografia.
SECONDA:
Si pensa all’orientamento informativo: sbocchi occupazionali, materie di studio… Ma il vero
orientamento è formativo: comprendere quali sono i suoi modi di funzionare dal punto di vista
dell’apprendimento e della conoscenza.
ESEMPIO: somministrare raccolta di narrazioni, in cui riflettere su quali esperienze di apprendimento
abbiano avuto nella loro vita, non solo nel settore formale (cioè non interessa dove “vanno bene”),
ma anche nei contesti informali, chiedendo: “Quand’è che hai imparato qualcosa? Chi ti ha
veramente insegnato qualcosa e perché? Se tu dovessi descrivere il tuo modo di funzionare
conoscitivamente, come lo descriveresti? Qual è il modo in cui impari meglio?”.
SPECIFICITÀ LEGATE ALL’INTERCULTURA:
PRIMA:
Negli studenti immigrati o figli di immigrati c’è una preponderanza di scelta di percorsi professionali
e tecnici, rispetto ai licei. Vari motivi:
• non hanno acquisito il livello della lingua di studio,
• è più facile immettersi nel mondo del lavoro, soprattutto nelle zone del meridione,
• in particolare per il liceo classico, è visto come legato prettamente alla cultura italiana.
È uno spreco e un’ingiustizia se i soggetti la vivono come l’unica opzione loro offerta, come un senso
di destinazione. Magari tra questi ragazzi alcuni sarebbero degli eccellenti letterati, scienziati…
perché perderseli?
Una scuola interculturale deve aiutare i soggetti a prendere consapevolezza delle opzioni che sono
loro aperte, mettere ciascuna persona nelle condizioni di scegliere quello per cui si sente portato.
E non dicendo “c’è il liceo classico”, ma dicendo: “guarda, a te sembra che non sei portato perché
non parli italiano fluente ancora come i tuoi colleghi, ma in realtà io noto una creatività culturale,
un’operatività di lingua, un interesse per le altre culture, che ti potrebbe aiutare nell’affrontare il latino
e il greco, in cui parti dallo stesso livello dei tuoi colleghi.”
SECONDA:
Orientamento verso la scuola dell’infanzia.
Il Ministero non dice come farlo, ma (ed è importante) perché farlo. Mentre nella cultura italiana la
scuola dell’infanzia è vissuta come il primo segmento della formazione del soggetto (perché la
pedagogia non si occupa solo della fase educativa, ma riguarda la formazione del soggetto lungo
tutto l’arco della vita, quindi anche la pedagogia scolastica non parte dalla prima elementare ma
prima), per molte comunità di stranieri invece potrebbe non essere così.
Invece sarebbe fondamentale per i bambini stranieri accedere alla scuola dell’infanzia, perché è
l’epoca in cui hanno la prima fase di socializzazione e un primo apprendimento della lingua italiana!
Si ridimensionerebbe molto il problema dell’apprendimento della lingua.
INDIVIDUALIZZAZIONE E PERSONALIZZAZIONE
Sono due concetti diversi, benché abbiano un importante punto in comune che vedremo.
Nel corso delle stagioni politiche si sono susseguiti come ideologie di governo (Individualizzazione
= centro sinistra, Personalizzazione = centro destra).
Se ne sono occupati Baldacci (individualizzazione) e Chiosso (personalizzazione).
Il nostro tempo è definito nel Memorandum di Lisbona (2000) ed esplicitato nel Consiglio d’Europa
di Bruxelles (2004) come “società della conoscenza”: l’apprendimento è L.L.L., quindi bisogna
creare l’Europa dell’istruzione e della formazione, come spazio di conoscenza permanente, creando
iniziative L.L.L. nella realtà concreta, concentrare riforme ed investimenti in settori chiave.
Solo così si può essere al passo con l’innovazione tecnologica e creare una economia competitiva
rispetto ai Paesi leader mondiali.
Dunque, tutti i lavoratori hanno bisogno di competenze nella sfera intellettuale. Come? Tre
presupposti di Baldacci:
1. Qualità dell’istruzione. Formare l’individuo su 3 dimensioni:
o Dimensione del cittadino: formare cittadini consapevoli,
o Dimensione del lavoratore: consentire di trovare lavoro di alta professionalità,
o Dimensione del consumatore: permettere di accedere a consumi culturali più sofisticati (libri,
teatri, musei).
In generale:
Individualizzazione: 1+2 qualità dell’istruzione in riferimento all’uguaglianza delle opportunità
formative.
Personalizzazione: 1+3 qualità dell’istruzione in riferimento alla valorizzazione delle differenze.
Si ricollega al discorso che abbiamo visto nelle prime lezioni: si deve partire dall'esperienza dei
soggetti, e la conoscenza interviene e si innesta sull'esperienza dei soggetti.
Il criterio generale porta il nome di Individualizzazione perché fu formulato da Baldacci, che è (come
vedremo) un sostenitore dell’Individualizzazione anche come strategia didattica, quindi pone
l’accento su questo concetto, è la posizione ideologica di Baldacci (l’ideologia è sempre presente in
Pedagogia!).
Il pacchetto base verrà appreso tenendo conto delle individualità dell’educando (anche attraverso
forme differenziate di apprendimento). Ignorare le individualità degli educandi non sarebbe saggio:
sono un potente strumento da usare per agevolare l’acquisizione del pacchetto base!
FATTORI DI APPRENDIMENTO:
• fattori interni: le proprie inclinazioni,
• fattori esterni: il trattamento didattico.
LEZIONE DI SUCCESSO: è stata capita da tutti gli studenti del gruppo classe, non solo da quelli che
hanno inclinazioni favorevoli per quella disciplina. Tutti devono aver acquisito un certo livello di
conoscenze e competenze.
Perciò bisogna rendere la disciplina accessibile anche a coloro che possiedono altre inclinazioni. È
compito del docente trovare le strategie didattiche adatte a rendere i contenuti accessibili a tutta la
classe.
Poi ci saranno gli studenti con le inclinazioni favorevoli alla materia che la approfondiranno e
proseguiranno gli studi in quella direzione. Ma l’obiettivo è che tutti acquisiscano il pacchetto base,
perché:
Il pacchetto base di conoscenze e competenze garantisce la formazione come cittadino, lavoratore,
consumatore.
VANTAGGI DELL’INDIVIDUALIZZAZIONE:
• favorisce l’inclusione
• favorisce la solidarietà differenziata.
Si lega alle intelligenze multiple di Gardner: ciascuno ha una propria intelligenza e una forte
inclinazione per alcune, e non per altre.
I governi di centrodestra hanno favorito questo approccio (ministro Moratti e riforma Gentile).
Un'idea molto forte riguardò la ricostruzione del sistema formativo italiano, siccome, dopo la riforma
Berlinguer, c’era stata la licealizzazione della scuola secondaria (non c'era più solo il liceo classico
e scientifico, ma diversi licei, rimaneva solo il comparto della scuola professionale/tecnica). Questo
non fu visto bene dalla destra: ha senso che tutti si incanalino in un percorso di scuola secondaria
di carattere para-liceale? Ci sono persone i cui talenti vanno più nella logica della formazione e
possibilità del rapporto con la scuola e noi li perdiamo perchè li ingabbiamo in questo sistema
scolastico.
Un’altra ragione per cui una certa parte del mondo pedagogico si è orientato verso la
Personalizzazione è stata la “pedagogia cattolica”: in Italia c'è divisione tra pedagogia laica e
cattolica, che non ha niente a che fare con le convinzioni personali. Sono 2 filoni che hanno degli
accenti diversi, in particolare la pedagogia cattolica ha un forte accento sulla centralità della persona
e sulla “sussidiarietà”: non tutto deve essere fatto dallo Stato (dalla Scuola): devono esserci diverse
agenzie a diversi livelli, privilegiando quelle di massima positività.
Tuttavia, Baldacci afferma che Individualizzazione e Personalizzazione non sono concetti del tutto
distinti. Sarebbe facile considerarli separatamente, anche in virtù degli schieramenti politici che in
passato li hanno redatti. Ma non è così.
Entrambe le strategie possono avere un ruolo importante in differenti contesti e casi. Questa è
una posizione scientifica, non ideologica!
Baldacci infatti riformula i concetti:
Individualizzazione = “Individualizzazione convergente”,
Personalizzazione = “Individualizzazione divergente”.
ESEMPIO: Per uno studente svogliato, si può pensare di applicare prima la Personalizzazione per
evitare di perderlo, e dopo convergere verso l’Individualizzazione.
PENSIERO DI CHIOSSO:
Anche Chiosso afferma che il concetto sovra-ordinato è quello di individualizzazione.
Tuttavia, la posizione ideologica di Chiosso è in favore della Personalizzazione.
In generale:
• Presidia e contiene il rischio di insuccesso e abbandono scolastico,
• Sviluppa le capacità di auto-orientamento (grazie all’eccellenza cognitiva);
• Eleva gli standard di apprendimento (grazie all’eccellenza cognitiva);
• Consente un primo approccio con il mondo del lavoro e delle professioni (grazie all’auto-
orientamento).
• Favorisce il rapporto con le agenzie del territorio (“sussidiarietà”: non tutto deve essere fatto
dallo Stato - dalla Scuola, devono esserci diverse agenzie a diversi livelli, privilegiando quelle di
massima positività).
Da notare che: le posizioni di Baldacci e Chiosso hanno gli stessi stimoli sensoriali (immagine
bistabile, profilo della vecchia e della giovane), ma a seconda che uno metta un accento sulla
personalizzazione e sull'individualizzazione, muta l’interpretazione di questi strumenti e cambia
l’organizzazione gestaltica e percettiva.
➢ Baldacci: siccome l'extra scuola si occupa molto dei talenti personali, la scuola dovrebbe
rimanere un campo della coltivazione di competenze e conoscenze base.
➢ Chiosso: proprio perchè fuori ci sta molta attenzione ai talenti, la scuola deve avere gli
strumenti per anticipare il primo contatto con questo!
DISPERSIONE SCOLASTICA
Si pensava che la dispersione scolastica avesse a che fare soprattutto con l’aspetto socio-
economico: deprivazione sociale / economica abbandono.
Invece si è visto che l’abbandono avviene anche nelle zone benestanti, in percentuale minore ma
non trascurabile.
Inoltre, non è vero che alla fine i soggetti arrivano a obiettivi formativi di qualità adeguati a quelle
che sono le potenzialità del territorio: un territorio ricco non può permettersi di avere persone che
hanno solo la III media, perchè il problema non è semplicemente di avere la manodopera! Il problema
è la dispersione scolastica.
FATTORI ENDOGENI: Organizzazione interna dell’offerta formativa, non in linea con le esigenze degli
educandi e del territorio.
ESEMPIO: Educazione ancora di natura tipografica, le nuove generazioni hanno ormai altri linguaggi.
Al nord, molto industrializzato, c’è dispersione scolastica soprattutto verso i licei, soprattutto classico.
Il tessuto produttivo non ha interesse ad interagire con le scuole che non hanno nulla da offrirgli.
Allora quello che si può fare è adattare e rinnovare l’offerta formativa per andare incontro alle
esigenze del territorio.
SOLUZIONI:
➢ Personalizzazione;
➢ Sistema formativo integrato: non bisogna agire solo sulla scuola, ma anche sulla comunicazione
con le altre agenzie del territorio, non solo dal punto di vista economico (didattica funzionale alle
esigenze del territorio e agenzie di collocamento sul territorio), ma anche progetti di qualsiasi
natura che possono collegarsi alla scuola come formazione (progetti sociali e culturali promossi
da altre agenzie).
STRATEGIE:
1. Prevenzione: orientamento già verso la scuola dell’infanzia, la dispersione scolastica la si
combatte ben prima che gli studenti entrino in classe;
2. Intervento: nel momento in cui sta avvenendo la dispersione, si interviene con un cambiamento
della didattica o ampliamento dell’offerta formativa;
3. Compensazione: dopo che è avvenuta la dispersione, si prova a recuperare i ragazzi che hanno
abbandonato con altre occasioni formative (scuole serali, laboratori culturali o sociali, attività
promosse dal comune, volontariato.
Inoltre:
4. Sistema di monitoraggio: un’anagrafe nazionale dello studente basata sui dati delle rilevazioni
del Sistema nazionale di valutazione (INVALSI), per valutare un rischio basso, medio o alto di
abbandono precoce degli studi;
5. Interventi mirati verso studenti a rischio.
BULLISMO
Sottotipo di comportamento aggressivo.
Un comportamento aggressivo, che arreca danni fisici / psicologici / emotivi / relazionali, si definisce
bullismo se e solo se verifica le seguenti caratteristiche:
1. intenzionalità e deliberatezza: il bullo è perfettamente consapevole di esercitare violenza;
2. insistenza e sistematicità: il bullo “prende di mira” le sue vittime;
3. asimmetria relazionale: il bullo è una persona in una posizione di forza fisica o popolarità
sociale, è una figura di riferimento all’interno di un gruppo, mentre la vittima è in una posizione
di debolezza fisica o socialmente esclusa per qualche motivo (aspetto, sensibilità, sessualità).
A seconda del profilo psicologico / familiare / situazionale, ci sono varie forme di bullismo (nate
anche con l’avvento della tecnologia e dei social media).
Non bastano più le forme di prevenzioni tradizionali, e non è possibile avere una strategia unica per
tutte le forme: occorrono strategie di intervento distintive per ogni forma.
BULLISMO TRADIZIONALE
È il bullismo scolastico, perpetrato “in presenza” (dal vivo) e consumato nell’ambiente scolastico
(non continua al di fuori della scuola, è limitato nello spazio e nel tempo).
Riguarda attacchi fisici (spintoni, calci, lotta), verbali (insulti, minacce) o relazionali (isolamento
sociale, diffusione di voci) da parte di uno studente dominante fisicamente / psicologicamente verso
uno studente più debole.
Il movente è una dimostrazione di predominanza per ottenere popolarità in un gruppo.
STRATEGIE EDUCATIVE:
➢ Prestare molta attenzione ai segnali e alle dinamiche di classe.
➢ Programmi scolastici anti-bullismo (tanto più efficaci quanto più lunghi e intensi):
• incontri con i genitori,
• politica di sensibilizzazione per gli studenti, far capire quali sono i comportamenti che
umiliano gli altri e la differenza fra scherzo e umiliazione;
• miglioramenti nella supervisione e disciplina scolastica,
• psicologi scolastici (nei casi più gravi).
➢ Intervenire sul contesto eliminando le esclusioni sociali, indagando sulle cause di esclusione e
su come abbatterle, favorendo un clima di inclusione: non devono più esserci potenziali vittime!
Questo varrà anche nel caso del SVO, in cui invece l’escluso è il bullo!
CYBERBULLISMO
È il bullismo perpetrato mediante strumenti informatici: social, chat, e-mail, siti, ecc.
Riguarda attacchi verbali (insulti, minacce) o relazionali (diffusione di voci) da parte di uno studente
o di un gruppo dominante verso uno studente più debole.
2. Il cybermondo fornisce un livello di anonimato che non si riscontra nel contesto faccia a faccia.
Conseguenze:
• è quasi impossibile per la vittima identificare e affrontare il proprio aggressore;
• il cyberbullo può non essere un pari della vittima: può avere qualsiasi età;
• è difficile creare prevenzioni e interventi sia verso la vittima che verso il bullo;
• problemi legali in termini di monitoraggio del bullo nel caso di accusa di persecuzione;
• “bullismo di gruppo”: maggiore probabilità che più persone partecipino ad atti di bullismo
online sulla stessa vittima, anche persone che dal vivo non avrebbero mai partecipato.
MOTIVI:
o l’anonimato riduce la paura dei rischi;
o la mancanza di feedback tangibile ostacola maggiormente l’empatia;
o bassa autostima / problemi di rabbia + natura fisica debole non riescono a esprimere
questa frustrazione nella vita reale compensano nel cybermondo.
3. Notevole mancanza di controllo sui mezzi informatici. Il cybermondo è popolato dai giovani,
quindi la sorveglianza dei genitori o delle autorità è quasi zero.
4. Il movente è la pura umiliazione della vittima (non direttamente fisica, ma porta a conseguenze
fisiche nella vittima).
Le cybervittime hanno le stesse caratteristiche e corrono gli stessi rischi delle vittime di bullismo
tradizionale. Le vittime donne possono correre anche il rischio di sfruttamento sessuale.
STRATEGIE EDUCATIVE:
➢ Cercare di riconoscere le vittime, notando improvvisi cambiamenti, cali delle prestazioni
scolastiche, ecc. Una volta individuate, supportarle.
➢ Educare ad un uso consapevole e responsabile della Rete, far capire quali sono i comportamenti
che umiliano gli altri e la differenza fra scherzo e umiliazione, far capire i rischi anche legali.
BULLISMO MISTO
È l’unione di bullismo tradizionale e cyberbullismo. In genere vengono filmati e condiviso online gli
attacchi perpetrati in presenza a scuola.
BULLO GRAVEMENTE VIOLENTO (SVO)
Bullo ferocemente aggressivo, che segue come movente il puro piacere per la violenza fisica.
Il rischio inizia nelle prime fasi di sviluppo, sotto forma di avversità prenatale e perinatale (fumo
materno o abuso di droghe).
Ambiente familiare:
• genitori criminali,
• episodi vissuti o assistiti di violenze / maltrattamenti,
• legami familiari poveri,
• eventi familiari stressanti.
Questi primi fattori di rischio si ripercuotono nell’adolescenza, prendendo parte a uno stile di vita
criminale, e manifestando bassi livelli di autocontrollo.
STRATEGIE DI INTERVENTO:
➢ Strategie sensibili e orientate verso i problemi degli aborigeni, che dovrebbero essere analizzati
nel loro contesto storico.
Esempio: i trattamenti per questo gruppo potrebbero essere più efficienti utilizzando gruppi di
terapia con aborigeni, in cui vengono coinvolti ad esempio gli anziani.
• Un’educazione attiva non assume una posizione “falsamente intellettuale” (cioè meramente
conoscitiva): mira non solo a conoscere la realtà (acquisendo semplicemente dei contenuti
teorici), ma anche a trasformare la realtà. Il mondo è in continuo divenire, quindi il soggetto deve
agire per trasformarlo. Quindi l’educazione non è meramente trasmissiva, è un atto politico.
È una visione politica: i suoi primi destinatari erano i contadini analfabeti che dovevano prendere
coscienza della propria condizione di oppressione. La vera difficoltà non sta nell’oppressione
“esterna”, bensì l’oppressione “interiorizzata”: ritenere che la condizione di oppressione sia naturale,
derivante dalla nascita. Acquisendo coscienza critica della propria condizione, si supera lo status
quo. L’apprendimento spontaneo implicherebbe che i soggetti apprendano la realtà guardandola
attraverso le “categorie” dei loro oppressori, senza nemmeno accorgersene.
Il dialogo si radica nella dimensione ontologica dell’essere umano (il suo modo di essere), è la
massima espressione di alcune caratteristiche peculiari dell’uomo:
• l’uomo è costitutivamente immerso in relazioni sociali;
• l’uomo è un essere storico: ogni uomo può intervenire consapevolmente e riflessivamente per
il cambiamento della storia (“Pedagogia della speranza”).
La storicità non ha né accezione meccanica (la storia è una catena di cause ed effetto in cui
l’uomo non può intervenire) né accezione idealistica (la storia riguarda solo i grandi uomini):
queste due accezioni appartenevano alla “Pedagogia della rassegnazione”.
RUOLO DELL’INSEGNANTE:
Non mira a modellare i soggetti che apprendono, altrimenti cadrebbe nella sfera degli oppressori!
La relazione educativa vive nella dialettica fra insegnamento e apprendimento:
• l’insegnante è un attivatore di azione e riflessione,
• ma non è in posizione asimmetrica rispetto ai soggetti che apprendono: nella relazione dialettica
anche l’insegnante apprende alcuni aspetti e si lascia educare, prendendo coscienza della sua
condizione in divenire. Confronto critico intergenerazionale!
Vanno abbandonate le lezioni frontali trasmissive unilaterali. Però non deve diventare nemmeno un
luogo di semplice conversazione, altrimenti si creerebbe un ambiente di semplice benessere in cui
però non c’è carattere epistemologico, sarebbe un presupposto all’educazione che ancora non è
pienamente educazione.
In Pedagogia bisogna sempre porsi la domanda: questa attività è educativa? Tutte le esperienze
sono formative, ma non tutte sono educative!