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PEDAGOGIA SCOLASTICA

Lezioni Prof. Oliverio


Appunti Cristina Pinto

PEDAGOGIA, EDUCAZIONE, FORMAZIONE

COS’È LA PEDAGOGIA
Tutti noi abbiamo un’idea intuitiva, “ingenua” di cosa significhi educare, insegnare e imparare
(“pedagogia popolare” o “ingenua”), perché siamo stati studenti o persone che hanno appreso.

Questa idea però non basta.


Dewey (padre della pedagogia) afferma che dobbiamo assumere, nei confronti dell’educazione, un
“atteggiamento scientifico”: sperimentale, indagativo, riflessivo, l’educatore reagisce in maniera
sperimentale, con spirito critico.
Così facendo ottiene un accrescimento professionale (e personale).

Vanno superati gli atteggiamenti usati finora:


▪ Atteggiamento impulsivo: lasciarsi prendere dalle reazioni derivanti da istinti e spontaneità
“irriflessiva” (vedremo cosa significa), soprattutto nelle situazioni difficili da gestire;
▪ Atteggiamento routinario: perpetuazione di atteggiamenti passati che potevano essere
validi nei contesti passati ma che non lo sono più. Esempio: con l’avvento degli smartphone,
gli studenti sono passati dalla “deep attention” alla “iper attention”  la didattica deve
cambiare!

La Pedagogia Scolastica aiuta i corsisti a prendere consapevolezza della propria pedagogia


popolare e delle proprie idee ingenue sull’insegnamento, per imparare a intervenire in maniera più
riflessiva e sperimentale.

Perché Pedagogia “Scolastica” anziché “Generale”? Perché la pedagogia generale è molto vasta,
noi ci occuperemo solo di quel che concerne il sistema scolastico.
Fino a poco fa si faceva l’associazione: pedagogia  istruzione scolastica. Ma non è così.
Chiariremo questo punto definendo i concetti di educazione e scuola.
EDUCAZIONE E SCUOLA: DEFINIZIONI E DIFFERENZE
L’educazione è una necessità naturale dell’essere umano per adattarsi all’ambiente e una necessità
sociale per vivere nella società.
È come l’alimentazione per sopravvivere. Sia il soggetto sia la società beneficiano dell’educazione:
senza di essa, il soggetto immaturo non avrebbe le risorse per essere inserito nel contesto sociale
e la società collasserebbe ad ogni nuova generazione.
Quindi l’educazione non ha limiti né nel tempo né nello spazio.
Apprendimento continuo (Life Long Learning (L.L.L.)): l’essere umano impara in tutto il corso della
sua vita. La scuola è solo una delle tante fasi.

Dewey associa l’educazione alla comunicazione: partecipazione alle attività di gruppo della società,
avere qualcosa in comune (stessa radice delle parole comunicazione e comune).
Partecipare alle attività della comunità e fare comunicazione struttura le nostre disposizioni.
N.B.: Non tutte le operazioni all’interno della comunità sono una forma di comunicazione: i lavori
meccanici (come il lavoro in fabbrica) non lo sono. Parliamo di attività in cui ci sia condivisione e
accrescimento.
La scuola prima era semplicemente questo, fin dall’Antica Grecia.

Ma, da un certo punto in poi, la comunicazione nel contesto sociale non è più bastata: più la società
diventa complessa e differenziata, più i “saperi” (le discipline) diventano specifici.
È così che Scuola e Università si fanno carico anche di questa necessità e assumono il ruolo come
lo conosciamo oggi:
Scuola: Agenzia educativa specializzata che trasmette saperi specifici (seguendo le esigenze di
una società sempre più complessa e differenziata).
Più la società diventa complessa e differenziata, più c’è bisogno della scuola.
(Qualche teorico estremizza il discorso dicendo che ora si è arrivati ad uno stadio di “villaggio
globale” che è come un ritorno alle origini, villaggio inteso come struttura semplice  non servirebbe
più la scuola come la intendiamo noi, descolarizzazione, tornare alla semplice comunicazione.)
Specializzandosi sempre più, la scuola inizia a “scollarsi” dalla vita sociale e quotidiana, diventando
un ambiente un po’ a sé.
RISCHIO: allontanarsi troppo dalla vita e perdere il significato vitale dei saperi.
SOLUZIONE: i saperi devono sempre essere collegati al loro significato vitale, alla quotidianità e alla
società. In che modo? Risposta:
La scuola opera attraverso 3 processi:
• Semplificazione: Semplificare i contenuti dei saperi, adattandosi alle abilità cognitive e alle
individualità degli studenti (“mediazione didattica”).
Contrariamente all’Università, nelle scuole gli studenti non sono necessariamente interessati alla
propria materia, e bisogna tener conto di questo.

• Selezione: Scegliere quali saperi sono più rilevanti di altri, e in ognuno di loro quali parti sono
più rilevanti di altre.
Su questo, per ogni disciplina, sono aperti dibattiti tra scuole di pensiero.
ESEMPI:
▪ Era stato tolto l’insegnamento della geografia, poi ci si è resi conto che in questo
momento storico è necessario  reinserirlo.
▪ Inserire o meno le tecnologie nell’ambito scolastico. Questo dibattito si collega
direttamente alla domanda: “Quanto la scuola deve intervenire sulla vita quotidiana?”.
Bisogna capirne portata e rischi.

• Integrazione. In una società sempre più diversificata, bisogna creare un curriculo (cioè un
programma complessivo di varie discipline) che permetta di accedere ad un sapere sociale
comune, per evitare una “polverizzazione sociale”, cioè un fenomeno in cui gli individui,
crescendo solo in determinati contesti, partecipano solo a certe pratiche di vita e non ne
conoscono altre.
PROCESSO EDUCATIVO E FORMATIVO: DEFINIZIONI E DIFFERENZE
L’apprendimento si attua in 3 contesti:
• Formale: operato da agenzie educative gestite dallo Stato (Scuola + Università), le quali erogano
saperi specifici in maniera intenzionale e con delle progettazioni educative ben precise, e
rilasciano un’attestazione (diploma, laurea…).

• Non formale: operato da agenzie non gestite dallo Stato (bensì dal settore terziario), che
erogano saperi specifici sempre con in maniera intenzionale e progettuale.
Il sapere ottenuto in questo modo viene poi riconosciuto da scuole e università.
ESEMPI: EDCL, certificazioni di inglese, ecc.

• Informale: Tutto l’insieme delle esperienze di vita che concorrono all’educazione dell’individuo,
sia prima che dopo la fase scolastica / universitaria.
N.B. Il format del curriculum europeo è suddiviso proprio così.

Quindi si distingue tra apprendimento informale (senza professori, programmi, agenzie educative,
senza intenzionalità educativa) e apprendimenti intenzionali progettuali (che prevedono un percorso
con l’intenzione di raggiungere un obiettivo).

Di conseguenza: c’è differenza tra formazione e educazione.


L’individuo impara in tutto il corso della vita, e che la scuola rappresenta una fase del percorso.
Invece fino a 50 anni fa non era così: la scuola rappresentava l’unico ambito di educazione, uno
spazio a sé, e si distingueva tra chi “è andato a scuola, ha studiato” e chi invece “non è andato a
scuola, non ha studiato”. Non c’era distinzione tra processo educativo e processo formativo.
Oggi invece si fa questa distinzione:
• Processo formativo (bio-psico-sociale, bio-socio-antropologico): dura tutta la vita (L.L.L.),
l’individuo impara a far parte della società attraverso tutti e 3 i contesti di apprendimento.
• Processo educativo: (si innesta dentro quello formativo), l’individuo apprende (nel contesto
formale e/o non formale), attraverso agenzie (statali e non) che erogano saperi specifici in
maniera intenzionale e progettuale.

ESEMPI DEL PROCESSO FORMATIVO:


▪ il bambino iniziano il processo formativo già da quando apprende gli stimoli del mondo esterno:
impara a parlare, camminare, ecc.
▪ il processo formativo continua anche nella vecchiaia, in cui può capitare di imparare cose
completamente nuove, come gli anziani di oggi con la tecnologia.
SISTEMA FORMATIVO INTEGRATO
Appare chiaro che l’apprendimento formale e quello non formale richiedono attenzione, e bisogna
capire come declinarli. Sorgono le domande:
▪ Se il processo formativo dura tutta la vita, come deve inserirsi il processo educativo? E come
si integrano i diversi saperi specifici?
▪ Come evitare il rischio che il sistema scolastico sia dissociato dalla vita quotidiana?

È stato quindi definito il:

SISTEMA FORMATIVO FORMALE (o INTEGRATO): sistema strutturato di agenzie formative


(agenzie formali + agenzie non formali + contesti informali) a cui i soggetti partecipano, attraverso
una complessa rete di educazione organizzata e soprattutto integrata, cioè che raccoglie tutti i saperi
specifici e li collega tra loro e ai loro significati vitali.
È il corrispettivo istituzionale dell’idea del L.L.L. e dell’idea che i processi educativi si insediano nei
processi formativi bio-psico-sociali.
I 3 contesti di apprendimento (formale, non formale e informale) si integrano tra di loro ed entrano
in questa rete istituzionale.

La scuola non è più ambiente separato: la scuola deve essere il perno di questa rete più complessa,
coordinandosi alle altre agenzie del territorio (attraverso il sistema di certificazioni e riconoscimenti),
e integrandosi agli altri contesti sociali (aderendo a progetti per il territorio ecc).

Il sistema formativo integrato ha uno scopo nuovo: l’individuo deve imparare ad imparare.
Schön parla di una condizione di “oltre lo stato di stabilita” (behind stable state) dagli anni ’70 in poi:
non c’è più stabilità nei luoghi di lavoro (le competenze richieste cambiano continuamente, e
l’università non garantisce la loro acquisizione), nei valori familiari e sociali (cambiano velocemente),
ecc. Dobbiamo continuamente “aggiornarci” (la terminologia tecnologica dell’aggiornarsi deriva
proprio da questo), acquisire abilità intellettive e comportamentali che ci permettano di risintonizzarci
su contesti di vita e di lavoro mutati.
Quindi siamo costretti ad imparare continuamente  la competenza più importante da acquisire è il
saper imparare!
I docenti, oltre ad insegnare i saperi specifici delle loro materie, devono anche insegnare ad avere
un approccio critico, riflessivo e consapevole.

La scuola, da agenzia dell’insegnamento, è diventata un ambiente di apprendimento, in continua


interazione con le esigenze della società (lo vedremo più avanti).
EPISTEMOLOGIA PROFESSIONALE
Teoria del sapere professionale che un professionista ha.

Che relazione c’è fra il sapere professionale di un professionista e la sua pratica professionale?

Schön spiega come negli anni ‘80 iniziò la crisi delle professioni: i professionisti, che per tanto
tempo erano stati considerati tali dal punto di vista sociale, iniziarono ad essere oggetto di critiche.
Oggi la cosa va ancora peggio: pazienti che fanno da soli le proprie diagnosi, studenti che non
rispettano i professori, ecc.
Per Schön è una crisi epistemologica: va cambiato il modo di intendere la pratica professionale 
passare dall’attuale razionalità tecnica ad una nuova razionalità riflessiva.

Vediamo cosa sono.

RAZIONALITÀ TECNICA:
Intende la pratica professionale come mera applicazione del sapere teorico, attuata sotto forma di
problem solving.
Trovare soluzioni ai problemi che si incontrano nel contesto professionale, utilizzando come
strumento i saperi teorici. La pratica è mera applicazione della teoria. Si parte dal presupposto che
nei contesti professionali incontreremo problemi già definiti, per i quali esistono risposte definite.

IN TERMINI UNIVERSITARI:
I professori hanno saperi teorici e “saperi applicati” (perché sono già professionisti praticanti), ma
trasmettono solo quelli teorici, lo studente (il “novizio”, colui che deve diventare professionista) li
assimila senza fare pratica, perché i saperi pratici li acquisirà direttamente dopo sul campo, grazie
ai saperi teorici.

METODO DI VALUTAZIONE DEL PROFESSIONISTA PER VALUTARE LA PRATICA DEI NOVIZI:


Seguire gli “standard”: unità di valutazione della pratica esterna alla pratica stessa, in quanto deve
essere “massimamente generalizzato”, prescinde dalle situazioni contestuali.
ESEMPIO: per valutare il successo scolastico e la qualità delle scuole, si seguono degli standard che
sono uguali per tutto il paese: non tengono conto dei punti di partenza ma solo dei punti di arrivo,
quindi non valutano l’effettivo miglioramento che c’è stato in uno specifico territorio, valutano solo a
quale punto si è arrivati! Conseguenza: le regioni del sud, che partono da situazioni svantaggiate,
possono avere un grande miglioramento ma arrivare comunque ultimi rispetto agli standard.
CRITICA DI SCHÖN:
Questo sistema non funziona, perché non è vero che la teoria e la pratica sono separate, non è vero
che nel contesto professionale si incontreranno solo problemi già definiti con risposte definite!
Si incontreranno invece:
• Situazioni indeterminate: problemi non definiti. Bisogna capire prima qual è il problema
(problem setting). Esempio:
• Situazioni uniche: non riconducibili a situazioni studiate nella teoria. Esempio: un dislessico
potrebbe non trovarsi bene con nessuno strumento specifico della dislessia, potrebbe invece
trovarsi bene con uno strumento pensato per un disturbo completamente diverso. Ogni
individuo ha la sua individualità.
• Situazioni conflittuali: una possibile soluzione può risolvere un aspetto del problema ma
essere in conflitto con altri aspetti del problema. Esempio: assegno ad un dislessico il suo
strumento compensativo (computer), lui si trova bene, però in classe si sentirà discriminato
(lui è l’unico che usa il computer in classe), e anche questo è un aspetto del problema che
non può essere ignorato.
Inoltre, imparare sul campo va a discapito delle nostre “cavie” (pazienti, studenti, ecc.).

Viene criticata la valutazione basata sugli standard: essi si rifanno alla pedagogia ingenua!
ESEMPIO: uno studente è brillante e di successo se dà risposte brillanti alle domande del docente.
La funzione del docente è vista solo dal punto di vista didattico-conoscitivo, non educativo! Io
docente non devo pensarmi solo come un didatta o esperto della mia disciplina, ma anche come un
educatore.

Alla razionalità tecnica, Schön contrappone la razionalità riflessiva.


RAZIONALITÀ RIFLESSIVA:
Intende la pratica professionale come un percorso di indagine, “conversazione riflessiva” con le
situazioni e i problemi. Il professionista deve sviluppare un’“abilità artistica” (“artistry”): agire
riflessivamente in ogni specifica situazione.

Davanti ad un problema, il professionista deve:


1. Osservare e analizzare la situazione (che in genere è indeterminata e/o unica)
2. Dare una definizione al problema (problem setting)
3. Formulare delle ipotesi di soluzione
4. Ragionare sulle possibili conseguenze (prevedere il conflittuale)
5. Testare le soluzioni e valutarle. Se risolve il problema bene, altrimenti si ristruttura il problema
sulla base delle nuove informazioni.

I problemi non sono già definiti, e la pratica non è solo il campo di applicazione della teoria: la pratica
è essa stessa produttrice di sapere!

Il professionista ha un repertorio di mosse per la soluzione di un problema: all’inizio della sua pratica
professionale, il repertorio è piccolo ed è dato dai soli saperi teorici, ma poi con la pratica il repertorio
si arricchisce, aggiungendo nuove mosse che vanno a sommarsi al sapere non solo pratico ma
anche teorico! Non c’è scissione tra teoria e pratica.

IN TERMINI UNIVERSITARI:
L’artistry non si può insegnare, si può solo apprendere, quindi lezioni teoriche frontali non vanno
bene. Allora come facciamo ad apprenderla? Fare solo pratica sul campo nemmeno va bene, perché
danneggiamo le “cavie”. Allora all’università dobbiamo fare un:
“Tirocinio riflessivo”:
➢ Tirocinio: “spazio protetto” in cui c’è un “tutor” (professionista esperto), dal cui repertorio di mosse
il novizio apprende. Il tutor è il responsabile della pratica, non il novizio.
Via di mezzo tra lezione frontale e pratica diretta sul campo.
➢ Riflessivo: Lo scopo è apprendere l’artistry, imparare ad essere riflessivi.

Si seguono 2 principi:
• imparare dalla pratica (non sulla pratica). La pratica produce nuovo sapere teorico.
• essere introdotto alle “tradizioni” della pratica, “entrare” nella pratica: fare bottega, essere
introdotto alla pratica gradualmente, a livelli sempre maggiori. Così familiarizziamo con i
significati, per capire cos’è considerato valido nella tradizione della pratica.

N.B.: Apprendere dalla tradizione non significa ripetere gli automatismi senza mai rinnovarsi, ma
solo familiarizzare con la pratica. Lo scopo rimane sempre quello di essere riflessivi e critici, quindi
anche innovarsi dove serve, o lasciare spazio a soggettività e talento dove serve.
METODO DI VALUTAZIONE DEL PROFESSIONISTA PER VALUTARE LA PRATICA DEI NOVIZI:
“Sistemi di apprezzamento”: valutare della pratica all’interno della pratica stessa, il professionista
partecipa alla pratica del novizio, tenendo conto delle situazioni contestuali e delle specificità.
È la tradizione stessa della pratica che permette di valutare un intervento professionale competente!
ESEMPIO: quando uno studente che non ha mai partecipato alle lezioni si interessa ad un particolare
tema e fa un intervento, anche se questo intervento fosse molto stupido l’insegnante deve comunque
apprezzare e valorizzare il miglioramento che quello studente ha avuto rispetto a prima, deve tenere
conto della specificità.

Questo metodo di valutazione è soggettivo? Dal punto di vista psicologico sì, ma dal punto di vista
pedagogico no, perché è epistemologico: non è soggettivo perché, essendo fondato nella pratica,
deriva da fattori che non sono personali del professionista, bensì sono condivisi, riconoscibili,
codificabili da tutta la comunità di professionisti.
Esempio di fattori riconosciuti nella pratica di docente: una certa idea di scuola, orizzonti di attesa di
un intervento educativo all’interno di un determinato contesto sociale, una certa idea della funzione
educativa…

Ma allora non somiglia al concetto di standard? Sì, ma non lo è, perché lo standard è staccato dalla
pratica, mentre l’apprezzamento nasce dalla pratica!

Quello che interessa non è l’oggettività, bensì la riconoscibilità e la condivisione (la “tradizione”)
all’interno di un contesto della pratica, al fine di valutare le prestazioni professionali “in situazione”,
cioè tenendo conto delle specificità.
L’oggettività e gli standard serviranno invece per altre cose.

In conclusione, il docente riflessivo deve:


▪ conoscere la propria disciplina,
▪ conoscere la pedagogia,
▪ applicare la razionalità riflessiva per apprendere l’artistry,
▪ valutare la pratica degli studenti attraverso i sistemi di apprezzamento.
Infine:

Davanti ad una nuova situazione (“sorpresa”), Schön distingue tra due forme di riflessione:
• Riflessione nel corso dell’azione (reflection in action): mosse che il professionista fa sul momento
senza sospendere l’azione, ricalibrando la sua azione rispetto alla sorpresa. Quanto più il
professionista è esperto, tanto più la ricalibratura è efficace. Atteggiamento riflessivo e
sperimentale allo stesso tempo.

• Riflessione sul corso dell’azione (reflection on action): il professionista sospende l’azione per
fermarsi a riflettere, oppure, dopo che l’azione è trascorsa, riprende a riflettere sul modo in cui in
quel momento ha risposto alla sorpresa.

È auspicabile usarle entrambe come docenti.


PEDAGOGIA COME SCIENZA

Prima la pedagogia era branca della filosofia, non delle scienze.

C’era la “filosofia dell’Educazione”, una riflessione filosofica su valori, ideologie, finalità, possibilità
e limiti dell’educazione, implicazioni etiche, morali, politiche, sociali, creando categorie e modelli.
L’elemento empirico c’è pure, ma se si parla di valori si considera disciplina umanistica.

(Oggi, Cambi distingue la Pedagogia dalla Filosofia dell’educazione: la prima indaga sui diversi
risultati delle scienze dell’educazione, mentre la seconda indaga i presupposti con cui noi
indaghiamo il reale (disciplina di metalivello).)

In particolare, si seguiva come teoria della formazione umana la “Bildung”: la formazione umana
era vista come conseguenza dei processi storico culturali, i soggetti si formano perché fanno parte
di una cultura, interiorizzano quella cultura. Esempio: l’apprendimento di una lingua.
Adesso non si segue più questa teoria, bensì si segue la teoria del Processo formativo bio-psico-
sociale, che tiene conto anche della componente biologica, interazioni con l’ambiente non solo
storico culturali.

Poi c’erano anche le altre discipline: Psicologia, Sociologia, ecc.

La Pedagogia era il momento applicativo di tutte quelle discipline: traduceva quei saperi teorici nella
pratica della didattica.

Tutto ciò non sembrava pertinente col metodo scientifico.

L’INNOVAZIONE DEGLI ANNI ’60: IL METODO SCIENTIFICO


Con i contributi di Dewey e Montessori, si è iniziato a pensare a quelle discipline come Scienze
Pedagogiche, e alla Pedagogia come Scienza.
Vediamo in che senso e perché.

Dewey afferma che si possono dare due accezioni alla nozione di “scienza”:
1. Insieme di conoscenze scientifiche
2. Atteggiamento e metodo scientifico, sperimentale.

È chiaro che la Pedagogia si intenderà come Scienza solo secondo l’accezione 2.


PERCHÉ ADOTTARE UN ATTEGGIAMENTO SCIENTIFICO IN PEDAGOGIA:
• Evitare approccio routinario e approccio e impulsivo;
• Tenere conto delle specificità e delle capacità degli studenti, coinvolgendoli;
• Garantire a tutti gli studenti dei livelli adeguati di formazione.
Si potrebbe temere che il metodo scientifico possa standardizzare tutto, cancellare le capacità
individuali dei docenti. Dewey risponde: il problema è un altro. I professori talentuosi e carismatici
fanno un ottimo lavoro (“efficacia pubblica delle esperienze geniali”), ma come facciamo con
i professori inadeguati? Non si può contare solo sui docenti capaci e sulle esperienze geniali. La
classe di un docente carismatico sarà avvantaggiata rispetto alla classe di un docente
inadeguato, e non sarebbe democratico. Ora: il metodo scientifico non è certo in grado di rendere
tutti i docenti carismatici, ma può garantire, nella misura del possibile, dei livelli adeguati di
formazione per tutti! Possiamo provare a codificare e formalizzare le esperienze geniali,
prendere spunto da alcune mosse e tattiche, tradurle e trasferirle in altri contesti, cercare una
trasferibilità e una replicabilità, tradurre in una metodica (da utilizzare sempre in maniera
riflessiva). E questo non vuol dire standardizzare e annullare le esperienze geniali, bensì
emularle. Solo così si può raggiungere un risultato comune.

Adottare un atteggiamento scientifico non vuol dire applicare risultati scientifici. Se anche le neuro-
scienze arrivassero a scoprire precisamente come è fatto il cervello umano, rimarrebbe il problema
che le leggi scientifiche non si traducono immediatamente in regole pratiche.
La pedagogia non è una scienza pura: semplicemente utilizza le leggi scientifiche come strumenti
per aiutare le osservazioni della pratica, creare delle regole pratiche da usare.

In particolare, Dewey parla della “logica delle fonti”:


1. Fonti primarie: le pratiche educative.
Sono loro che definiscono i problemi e offrono il campo di verifica delle ipotesi. Non è
un’osservazione banale: uno psicologo potrebbe pensare che il punto di partenza della
riflessione pedagogica vada cercato nelle motivazioni / emozioni / relazioni sociali, ovvero nei
problemi interni alla disciplina stessa. Questo sarebbe il punto di vista di un professionista della
razionalità tecnica! Invece il professionista riflessivo prende come punto di partenza la pratica.

2. Fonti speciali: filosofia, psicologia e sociologia dell’educazione.


Tutte queste discipline aiutano in un secondo momento a comprendere i problemi pedagogici e
le situazioni della pratica, e forniscono strumenti per risolverli e per creare pratiche educative
riflessive.
IL DIBATTITO DEGLI ANNI ’70: A COSA SERVE LA PEDAGOGIA?
Nuova riflessione: siccome abbiamo tutte quelle discipline, Psicologia, Filosofia, Sociologia, che
sono strumenti d’indagine precisi e si occupano di educazione su diversi livelli, allora la Pedagogia
a cosa serve?
Da che erano fonti speciali della Pedagogia, quelle discipline divennero Scienze dell’Educazione,
e la Pedagogia venne accantonata.

Le Scienze dell’educazione seguirono l’impostazione di tutte le Scienze.

La Scienza di allora si basava su un atteggiamento analitico e riduzionista.


1. Atteggiamento analitico: una disciplina, per configurarsi come scienza, doveva scomporre i
fenomeni complessi in parti semplici;
2. Atteggiamento riduzionista: le parti semplici erano, in ultima istanza, una sorgente per
spiegare il fenomeno (come se, per capire l’uomo, bastasse capire solo la sua struttura chimico
fisica).

In particolare, seguiva il PARADIGMA POSITIVISTICO:


La realtà è:
• Identità: la realtà è governata da leggi eterne e trascendenti,
• Atomismo: la realtà è separabile in parti sempre più piccole,
• Disgiuntiva: la realtà è conoscibile come aggregato di parti distinte.
La conoscenza è:
• Rappresentazione: la conoscenza è rappresentazione isomorfa della realtà (come una foto),
• Realismo: conoscere la forma degli enti,
• Dualismo: il soggetto è nettamente distinto dall’oggetto di studio.

Responsabilità del ricercatore: nessuna, deve solo scoprire la realtà preesistente, per il semplice
accrescimento di conoscenza, la quale ha un utilizzo meramente tecnico.

Metafora della macchina: “il tutto è esattamente la somma delle sue parti”, ognuna delle quali svolge
un ruolo indipendente dalle altre.

Anche le Scienze dell’Educazione seguirono questo paradigma: si pensò che fosse sufficiente che
ogni disciplina educativa (Psicologia, Sociologia, Filosofia) procedesse, per conto proprio e nel
proprio ambito, a scomporre i temi in parti sempre più semplici, fino a capirne i funzionamenti. In
quest’ottica, la Pedagogia non serviva.
CRITICA DI MORIN:
Contestò:
• la natura analitica e riduzionista della Scienza di allora;
• il paradigma positivistico delle Scienze dell’Educazione:
• l’idea che la Pedagogia fosse inutile.

Questo in un periodo di avvento di una nuova disciplina tecnica: la cibernetica!


Essa introdusse il Principio Ologrammatico (relazionalità): il tutto è maggiore della somma delle sue
parti, e le parti interagiscono tra loro! Non basta scomporre un fenomeno nelle sue parti semplici per
capirne appieno il funzionamento. Così come non basta scomporre l’essere umano per capirlo, allo
stesso modo non basta scomporre l’educazione, limitandosi ad indagare i singoli aspetti
empiricamente tangibili.
In passato c’è stato:
 un momento in cui le spiegazioni dovevano essere unidirezionali (modello causa - effetto),
 un momento in cui scomporre i fenomeni complessi in fatti semplici,
 un momento in cui il riduzionismo ha fatto estendere le spiegazioni scientifiche a vari ambiti…
… Ora non possiamo fermarci qua! Bisogna studiare anche le interazioni tra le singole parti.

È in questo contesto che si passò dalla Bildung al Modello bio-psico-sociale.

NUOVA VISONE DELLA PEDAGOGIA:


➢ Ciò che configura la Pedagogia come Scienza è il Principio di complessità: la Pedagogia
guarda i saperi in maniera integrata e interdipendente (a differenza delle altre discipline).

➢ La Pedagogia deve essere intesa come “Scienza della Formazione”: deve raccogliere i risultati
delle scienze dell’educazione, coordinarle e “intenzionarle” (indirizzarle) verso la formazione.

➢ La Pedagogia deve essere intesa anche come “Scienza empirica”: legata alla indagabilità
empirica, deve cercare un modo scientifico per studiare il processo bio-psico-sociale (“Scienza
del processo formativo”).

➢ La Pedagogia deve seguire il PARADIGMA ECOLOGICO:


La realtà è:
• Evoluzione: la realtà è governata da leggi che evolvono;
• Relazionalità: la realtà è composta da enti la cui identità dipende dalle relazioni tra loro
Principio ologrammatico: il tutto è maggiore della somma delle sue parti,
Principio di ricorsività: studiare i circuiti di feedback, oltre ai rapporti di causa effetto;
• Sistemica: la realtà è conoscibile in base alle relazioni tra gli enti.
La conoscenza è:
• Partecipazione: la conoscenza è costruita da una mente che si struttura in corso d’opera;
• Costruttivismo: la conoscenza è condizionata dall’indagine conoscitiva stessa;
• Connessionismo: il soggetto condiziona e contamina l’oggetto di studio.
Responsabilità del ricercatore: è responsabile di tutto il processo della ricerca, siccome lo
influenza, e deve porsi lo scopo etico di migliorare la vita quotidiana e sociale, e porsi il problema
delle conseguenze etiche delle proprie scoperte.
Metafora dell’organismo: Così come l’organismo umano è in continua evoluzione, e va studiato
studiandone l’evoluzione, altrettanto posso fare in Pedagogia.
Nel paradigma positivistico, per conoscere la realtà bisogna rispecchiarla (conoscenza “oggettiva”).
Nel paradigma ecologico, invece, conoscere implica anche raggiungere un equilibrio con la realtà,
relazionarsi con la realtà, contaminarla nell’atto stesso del conoscerla.
Anche in questo caso, non cerchiamo l’oggettività della scienza pura!
ESEMPIO: Nell’ambito del bullismo, l’atteggiamento positivista si limita a studiare l’argomento
somministrando questionari agli strumenti, senza fare nulla di attivo. L’atteggiamento ecologico,
invece, organizza progetti di formazione e lotta al bullismo, organizzando interviste ecc., agendo sul
contesto mentre lo sto conoscendo! Si può modificare la realtà nell’atto stesso del conoscerla, per
esempio può capitare di indurre una reazione in un bullo! Partecipiamo al divenire della situazione.

METODI DI INDAGINE PEDAGOGICA:


• Prospettiva analitica: indagare solo gli aspetti quantitativi di un fenomeno, attraverso metodi
descrittivi (questionari) (paradigma positivistico);
• Prospettiva ermeneutico-fenomenologica: indagare le interpretazioni del fenomeno,
attraverso indagini “narrative” (un metodo si dice narrativo quando vogliono interpretare i
fenomeni, indagare i significati, piuttosto che concentrarsi sugli aspetti quantitativi.
ESEMPIO: chiedersi quali sono le idee di bullismo che hanno i soggetti dei questionari). È una
ricerca empirica, a differenza della ricerca sperimentale che si concentra sugli aspetti quantitativi;
• Prospettiva critico-dialettica: intervenire e trasformare il contesto sotto esame, attraverso
indagini “partecipative” e “narrative” (paradigma ecologico).

Infine, la Pedagogia si costituisce all’incrocio di 3 vettori:


1. L’ideologia. (Ideologia = concezione generale del mondo). La Pedagogia ha sempre una
costituzione ideologica!
ESEMPIO: Sul sistema formativo integrato ci sono pedagogisti con ideologie diverse:
a. esigenza di una più stretta coordinazione tra scuola-territorio e le imprese
b. esigenza di una più stretta coordinazione tra famiglia-associazioni-scuola e territorio, per
contrastare la deriva mercatista della formazione (imparare ad imparare visto come una
giustificazione per cambiare continuamente lavoro e aggiornarsi sempre).
Allora la Pedagogia deve fornire delle chiavi di lettura per le ideologie presenti nelle pratiche
educative.
2. La scienza. Già visto.
3. L’utopia. Gli educatori non devono educare gli studenti a conformarsi all’ordine esistente, ma
devono immaginare le possibilità di un ordine ulteriore, diverso. E se pure l’utopia non fosse
realizzabile, deve essere l’immagine di un futuro possibile che serve per criticare quello
esistente, per evitare il rischio dell’inerzialità.
DIDATTICA DELL’INCLUSIONE

Per risolvere problemi di integrazione sociale di qualsiasi categoria “esclusa” da un contesto,


esistono 3 forme di intervento.

INSERIMENTO
Intervento formale che prevede l’introduzione in un contesto di un soggetto che ne era escluso (o
potenzialmente escluso), senza operare alcuna modifica di quel contesto.

ESEMPIO:
Promulgazione di una legge per far accedere una categoria di persona ad un contesto, ma senza
preoccuparsi della loro effettiva accessibilità. Esempio: leggi razziali negli Stati Uniti, in alcuni paesi
del sud non ebbero alcun effetto.

DIFETTO: È un intervento carente e inadeguato.

INTEGRAZIONE
Si opera l’inserimento ma operando una modifica del contesto che abbatta le barriere che causavano
l’esclusione.

ESEMPIO:
Nel caso di un contesto inaccessibile ad una persona in condizione di disabilità, scegliere un
delegato che aiuti il disabile ad accedere a quel contesto o che si sostituisca a lui per portare a
termine il compito.

VANTAGGI (DIFFERENZE CON L’INSERIMENTO):


Dà al soggetto la possibilità di partecipare (almeno indirettamente) al contesto.
Prende consapevolezza del fatto che non basta inserire un soggetto escluso in un contesto.

LIMITI:
• Non elimina le dinamiche di fondo che causano le barriere del contesto (“intervento statico”). Si
eliminano i sintomi ma non le cause.
• Si rifà alla razionalità tecnica. Segue un’epistemologia professionale secondo cui i problemi che
si incontrano nella pratica professionale sono già definiti.
INCLUSIONE
I soggetti esclusi segnalano la loro esclusione e negoziano con gli inclusi per una riconfigurazione
totale del contesto (anzitutto concettuale e poi operativa), che sarà attuata sia dagli inclusi che dagli
esclusi, collaborando. “Intervento processuale”.
Una riconfigurazione del contesto è diversa da una semplice modifica!

L’inclusione è la “non esclusione”. Quel “non” non indica semplicemente l’eliminazione di una
barriera, bensì è un “non” transitivo, attivo: indica che in quel contesto c’è qualcosa che non funziona,
cioè l’esclusione, quindi indica un’azione sull’esclusione (l’azione degli esclusi di richiamare
l’attenzione degli inclusi sui limiti del contesto, esigendo una ricostruzione da negoziare).

ESEMPI:
▪ dato un contesto inaccessibile ad una persona in condizione di disabilità, denunciare
l’inaccessibilità al responsabile, che dovrà modificare quell’ambiente per renderlo
autonomamente accessibile al disabile.
▪ In una lezione frontale, usare non soltanto la spiegazione verbale, ma anche slides a
beneficio dei non udenti o particolari DSA.

VANTAGGI (DIFFERENZE CON L’INTEGRAZIONE):


• Tutti beneficiano di questo tipo di intervento sul contesto, non solo gli esclusi.
ESEMPIO: in una lezione con slides, il beneficio va anche a chi non è sordo o DSA.
• Gli esclusi sono chiamati ad agire, diventare autonomi nel contesto (“agentività”). I problemi non
vanno semplicemente scavalcati.
ESEMPIO: nell’esempio del disabile che non può accedere ad un contesto, modificare l’ambiente
per renderlo autonomamente accessibile significa favorire l’agentività del disabile.
• Richiede razionalità riflessiva. L’inclusione prende consapevolezza del fatto che i problemi che
si incontrano nella pratica professionale sono indeterminati! Sappiamo solo che c’è qualcuno
che ci dice che un certo contesto non è inclusivo, ma non sappiamo ancora in che senso non sia
inclusivo. Occorre quindi artistry e fantasia.
ESEMPIO: un DSA potrebbe non trovarsi con nessuno strumento informatico deputato per il suo
disturbo, potrebbe invece trovarsi con uno strumento completamente diverso.

Non si può mai affermare di aver raggiunto l’inclusione definitiva: bisogna continuare a chiedersi se
non ci sia qualche altra minoranza esclusa di cui ancora non ci si è accorti. Ci saranno sempre nuovi
problemi che solleciteranno nuove soluzioni.

L’inclusione è il concetto più avanzato dei 3, l’orizzonte in cui ci muoviamo è quello dell’inclusione.
Tuttavia, c’è una forte confusione tra inclusione e integrazione. I documenti legislativi sono caotici,
anche a causa della cronologia: la legge di riferimento è la 104/92, in cui si parlava ancora di
integrazione. Nel caso dell’intercultura anche si parla di integrazione, perché si riferisce all’accezione
sociologica del termine (in sociologia si parla di “integrazione dei migranti” nella società).
BES (BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI)
Tutti i soggetti che, per diverse ragioni, incontrano difficoltà nei processi di apprendimento.

“Categoria ombrello” che include disabilità, DSA, ma anche altre situazioni.

Nonostante questo, la normativa all’inizio creò un po' di confusione, e nel linguaggio quotidiano delle
scuole la confusione è rimasta. Molti docenti fanno la domanda: “Quanti disabili hai in aula? Quanti
DSA hai? Quanti BES hai?”, come se i BES sono una terza categoria! Ciò è dovuto soprattutto a causa
delle altre categorie particolari di BES che non sono né disabili né DSA.

Nel caso di disabili o DSA non certificati per volere delle famiglie, che rifiutano la diagnosi, il docente
non può richiedere la certificazione. Ciò denota arretratezza culturale. Quello che può fare è agire
per vie traverse, applicando strategie inclusive implicite.

C’è un movimento anti-BES che dice che la normativa BES è stata, per quanto fossero buone le
intenzioni, un arretramento rispetto alla logica dell’inclusione, perché spezzettando gli interventi ed
etichettando le persone, non c’è più riconfigurazione complessiva dei contesti.

Stabilire misure inclusive per i BES è molto difficile!


ESEMPIO: per non far sentire escluso un DSA in classe, il docente può scegliere di far usare a tutti il
cellulare o il tablet; il problema però si riproporrà nel momento della verifica / esame, dove lo studente
non è autorizzato ad usare lo strumento! Quindi il docente risolve il problema in itinere, ma ne crea
uno più grande dopo.
DISABILITA’
DIZIONE SBAGLIATA: “disabile”, “diversamente abile”, “portatore di handicap”.
DIZIONE CORRETTA: “persona in condizioni di disabilità”, “persona con disabilità”.
Questo perché è importante sottolineare che è anzitutto una persona (“people first”), che fra le altre
cose ha anche questa caratteristica. Questo tipo di attenzione favorisce l’ottica dell’inclusione!

MODELLI DI DISABILITÀ:

• MODELLO MEDICO: (Anni ’70-’80)


Disabilità significa avere una menomazione (anomalia di una struttura o una funzione corporea
/ psicologica).
Nessun elemento contestuale sociale influenza la definizione di disabilità.
“Teoria della tragedia personale”: la disabilità è una disgrazia capitata al singolo.

• MODELLO SOCIALE: (Anni ’90)


Disabilità non significa avere una menomazione: sono le caratteristiche del contesto che creano
disabilità!
La persona con disabilità è anzitutto un soggetto di diritti, che gli vengono negati quando la
società non si fa carico di creare ambienti accessibili e inclusivi.
ESEMPIO: Se io sono su sedia a ruote, ma in una città in cui tutti i marciapiedi e le strutture hanno
le rampe, allora la mia menomazione non è una disabilità.
CRITICA: enfatizzando solamente il ruolo dei contesti, si rischia di dimenticare il ruolo della
menomazione (che pure esiste!), come se fosse possibile creare contesti totalmente privi di
barriere per qualunque menomazione. Purtroppo non è così: non esistono contesti abilitanti per
tutti. ESEMPIO: se togliamo tutti i marciapiedi in una città e al loro posto disegniamo linee, ho
creato inclusione per disabili con sedie a rotelle ma ho creato inaccessibilità per i non vedenti!

• MODELLO BIO-PSICO-SOCIALE: (Anni 2000)


Considera sia la variabile sociale sia quella biopsichica. Condizione di disabilità significa che c’è
contemporaneamente una menomazione e un contesto di inaccessibilità rispetto a quella
menomazione.
È quello che si segue attualmente.

N ORMATIVA DI RIFERIMENTO: Legge 17/99.


Prevede, in presenza di una certificazione (dell’ASL o una struttura riconosciuta), il diritto di avere
misure speciali  PEI (Piano Educativo Individualizzato).
Nonostante l’aggettivo “individualizzato”, è in linea più col concetto di Personalizzazione che non
con quello di Individualizzazione (lezione 5).
S TRUMENTO:
ICF: International Classification of Functioning (Classificazione Internazionale del Funzionamento
della salute della malattia).
Ottimo documento creato nel 2001 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, quindi transculturale
e riconosciuto in tutto il mondo.

Strumento sia teorico che operativo per la descrizione delle condizioni di salute e di disabilità (sia
permanenti che temporanee), attraverso un sistema di codici (“codifica ICF”), sempre rapportate ai
contesti di vita e alle fasi di vita del soggetto (approccio bio-psico-sociale).
Se c’è uno studente con una condizione di disabilità, si può fare una decodifica ICF, che descrive la
condizione di disabilità in termini di ICF.
Il concetto ICF di disabilità è esteso (anche il portare gli occhiali è una condizione di disabilità).

ESEMPI:
▪ se ci si rompe una gamba E si deve accedere ad un luogo con rampe di scale, si ha da ICF
una condizione (temporanea) di disabilità, sia perché la gamba è rotta sia perché il posto non
è accessibile!
▪ L’ICF è molto usato anche per l’invecchiamento della popolazione: permette di descrivere
come cambiano capacità e performance di una persona che va avanti con l’età.

FUNZIONAMENTO DELL’ICF:
L’ICF è diviso in vari ambiti, denominati per lettera: Funzioni corporee (B, Body), Strutture corporee
(S), Domini (D), Fattori ambientali (E, Environment).

Le lettere sono seguite da un codice che indica se il funzionamento è normale oppure se c’è un
problema.
Codice .0: problema trascurabile (tra 0 e 4%);
Codice .1: problema lieve (tra 5 e 24%);
Codice .2: problema medio (tra 25 e 49%);
Codice .3: problema grave (tra 50 e 95%);
Codice .4: problema totale (tra 96 e 100%).
Nell’ambito D si parla di:
• Attività: esecuzione di un compito in un ambiente “neutro” (privo sia di barriere sia di facilitatori).
Il grado di soddisfacibilità di un soggetto è quantificato dalla “capacità”: ciò che riesce a fare in
un ambiente neutro.
• Partecipazione: coinvolgimento in una situazione di vita.
Il grado di soddisfacibilità di un soggetto è quantificato dalla “performance”: ciò che riesce a fare
in quel contesto di vita.

La disabilità in termini di ICF è:


➢ una limitazione dell’attività: capacità descritta da un codice ≥ .1,
➢ una restrizione della partecipazione: performance descritta da un codice ≥ .1.

ESEMPIO: Se ho una gamba rotta:


▪ sono limitato nell’attività del camminare: la capacità di camminare in un ambiente neutro sarà
un codice .2.
▪ ho una restrizione della partecipazione agli ambienti accessibili tramite scale: la performance
è codice .4!

La differenza tra capacità e performance indica se l’ambiente sostiene o no il “funzionamento” della


persona, cioè le attività e la partecipazione ai contesti.

L’ICF mostra che la disabilità non è:


• né una caratteristica individuale (modello medico),
• né uno svantaggio imposto dalla società (modello sociale),
bensì è una condizione che deriva dalla interazione tra il soggetto e il suo contesto di vita.

FILOSOFIA DELL’ICF:
L’ICF segue la filosofia del modello bio-psico-sociale e dell’inclusione.

Nonostante parli solo di strutture corporee, funzioni corporee, domini e fattori ambientali, e non di
interculturalità o di disagio socioeconomico, la filosofia dell’ICF mostra che:
• non conta solo la disabilità: conta la limitazione dell’attività e la restrizione della partecipazione,
• l’inclusione è una questione di dettagli,
• il funzionamento di un soggetto viene influenzato da:
o strategie didattiche,
o strumenti che si fanno o non si fanno usare,
o compiti che si assegnano o non si assegnano.

Solo così si può capire come realizzare un intervento veramente inclusivo.


Infatti l’ICF viene citato nella normativa ministeriale.
DSA (DISTURBI S PECIFICI DELL ’APPRENDIMENTO )
Disturbi neurologici legati agli aspetti di codifica del linguaggio scritto.
Le modalità normali di acquisizione delle abilità scolastiche sono alterate già dalle fasi iniziali dello
sviluppo.
Non sono dovuti a una mancata opportunità di apprendere, né traumi né malattie celebrali.
Funzionamento cognitivo normale, a volte superiore alla media.

In una persona non affetta da DSA, le abilità linguistiche di lettura, scrittura e calcolo sono, una
volta acquisite, automatizzate. Una persona affetta da DSA invece ha problemi nell’esecuzione
di questo compito di codifica.

Disturbo molto specifico, misurabile mediante una serie di test molto accurati.
D IAGNOSI DI UN SOGGETTO CON DSA:
• ha un funzionamento cognitivo almeno normale, (ovvero QI di almeno 85, ma molte persone
affette da DSA hanno QI superiori);
• è, nello svolgimento di un compito di lettura / scrittura / calcolo, al di sotto di 2 variazioni
standard rispetto alla media di performance di quella classe di età e di formazione e per
quel determinato compito.

I DSA sono “invisibili”, non si notano clamorosamente. Per molti anni a scuola si diceva “il
ragazzo non si impegna”, deve leggere di più, si deve esercitare di più.

TIPI DI DSA:
• DISLESSIA:
Difficoltà di codifica nelle abilità di lettura.
ESEMPI:
o discriminare grafemi diversamene orientati nello spazio (p e d),
o discriminare grafemi relativi a fonemi simili (t e d),
o discriminare l’aspetto sequenziale, da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso.
Nei modelli cognitivisti si è parlato della questione della memoria a breve termine: non deve
essere ingolfata, perché altrimenti il compito di gestione diventa difficile. Anche qui, se una
persona impegna tutte le sue risorse a dover decodificare i caratteri, allora quella persona avrà
difficoltà a capire il testo!
L’incidenza statistica della dislessia è legata alla lingua: per l’italiano è il 3%, per l’inglese più
alta, perché il rapporto tra grafema e fonema non è lineare come nell’italiano. In Inghilterra infatti
le legislazioni sulle Learning disabilities ci sono da 25 anni!

• DISGRAFIA:
Difficoltà di codifica nelle abilità di scrittura.
ESEMPI:
o problemi a gestire lo spazio in cui scrivere (uscire fuori dai margini),
o disomogeneità nella forma della scrittura.
Tutte cose facilmente confondibili con l’essere disordinati.
• DISORTOGRAFIA:
Difficoltà nella scrittura corretta delle parole.
ESEMPI:
o confusione fra grafeni simili,
o omissioni di parti di parole (le doppie),
o discriminare l’aspetto sequenziale, da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso.
Tutte cose facilmente confondibili con il non aver studiato bene la grammatica.

• DISCALCULIA:
Difficoltà nel riconoscimento e nella discriminazione dei numeri.
ESEMPI:
o si confondono 32 e 23, 536 e 563,
o i numeri doppi sono confusi, l’orientamento sequenziale manca,
o non si codifica la posizione dello zero: 5036 diventa 536.
Tutte cose facilmente confondibili con sbadatezza o poca propensione per il calcolo.

Non si può guarire. Nelle forme lievi, si può riuscire a perfezionarsi da soli con personali strategie di
compensazione. La diagnosi medica è preferibile intorno ai 7-8 anni di età.
N.B.: In realtà è improprio anche chiamarlo “disturbo”, c’è un filone della ricerca più radicale che
sostiene sarebbe più opportuno parlare di neuro-diversità, un diverso stile cognitivo che non si confà
alla comunicazione tipografica, in un mondo senza scrittura tipografica non ci sarebbero DSA.

STRUMENTI DI INTERVENTO:

• STRUMENTI COMPENSATIVI: strumenti di apprendimento, anche informatici, che compensano il


disturbo.
ESEMPI:
▪ Per i disortografici: correttore automatico (che segnala solo, nel caso di forma lieve di
disortografico, o che corregge in automatico in caso di forma grave);
▪ Per i dislessici: testi scritti con certe accortezze (evitare parole con le doppie, carattere
Arial, evitare corsivi…), oppure lettore automatico per dislessici gravi.

• MISURE DISPENSATIVE : esenzione da alcuni compiti.


ESEMPI:
▪ Evitare di fare i dettati;
▪ Concedere un tempo aggiuntivo durante un compito scritto (è previsto dalla legge, quel
tempo aggiuntivo serve per la codifica del testo scritto). Da notare come questa misura
possa essere mal vista dai compagni / colleghi che non hanno il disturbo.

N ORMATIVA DI RIFERIMENTO: Legge 170/2010.


Legge ottima, ma tardiva, perché per lungo tempo la questione DSA non è stata riconosciuta, e le
persone con DSA sono state vittime del sistema scolastico.
Prevede, in presenza di una certificazione (dell’ASL o una struttura riconosciuta), il diritto di avere
misure speciali  PDP (Piano Didattico Personalizzato).
Nonostante l’aggettivo “personalizzato”, è in linea più col concetto di Individualizzazione che non
con quello di Personalizzazione (lezione 5).
DIDATTICA INCLUSIVA PER DSA:
Il docente deve sempre cercare di usare una politica inclusiva e di sensibilizzazione. Attenzione a
non creare involontariamente delle barriere!
Se durante un test il docente dicesse apertamente: questa persona farà solo due esercizi invece
che tre perché è affetto da DSA, sta creando una barriera anziché facilitare l’inclusione, sta usando
un atteggiamento non adatto.

Non esiste una regola unica, la filosofia generale è sempre quella dell’inclusione e della
sensibilizzazione.
Il docente dovrebbe innanzitutto parlare privatamente con la persona affetta da DSA, per decidere
insieme a lui come gestire la situazione e quale strada il ragazzo ritenga più opportuna (far parlare
il docente alla classe, far parlare il ragazzo, far venire un esperto del centro sinapsi a spiegare il
problema).

ESEMPI DI DIDATTICA INCLUSIVA PER DSA:


▪ Se si vuole fare una lettura di gruppo, si può impostare in questo modo: “ciascuno degli
studenti decide quanto leggere, se fino al punto, se leggere una parola, o se non leggere
proprio e dire passo”.
ALTRI BES
Tra 2013 e 2014 il Ministero accoglie le teorie di Dario Ianes (grande pedagogista contemporaneo).
Non ci sono solo disabilità e DSA per le quali si possono incontrare difficoltà nel proprio processo di
apprendimento! Possono esserci altre tipologie di BES:
• Disagio psicologico: circostanziato o prolungato nel tempo, certificabile da uno psicologo o
meno, ma effettivamente invoca la necessità di un intervento specifico per non lasciarlo indietro.
MOTIVAZIONI: divorzio dei genitori, problemi familiari generali, lutti, sfratti di domicilio…
• Svantaggio socio-economico: forte situazione di deprivazione.
• Studenti immigrati: arrivati da poco e che non conoscono la lingua, vengono inseriti nelle classi
di persone coetanee.

Sono situazioni reali e identificabili, ma per le quali non c’è nessuna normativa con cui il docente è
legittimato ad agire. Tutto è rimesso alla sensibilità del docente.
Ianes propose di intervenire in una forma più codificata. Così il Ministero trasmise una circolare che:
• ha introdotto la categoria di tutti gli altri BES,
• ha stabilito come strumento di intervento il PDP (e in questo caso il termine “personalizzazione”
è appropriato).
Il consiglio di classe può stabilire se uno studente appartenga ad una di queste categorie BES ed
elaborare un PDP.
È un sistema di “buon senso”, e rimane informale: una circolare non ha il rigore di una normativa.

PROBLEMI INIZIALI:
• le scuole si riempirono di file di genitori per cui tutti i figli avevano bisogno di un PDP;
• le dirigenze si divisero fra due poli estremi:
o quelle che concedevano PDP a tutti, anche per evitare ricorsi;
o quelle che lo rifiutarono a tutti, perché era troppo complicato.

Adesso invece sta andando finalmente a regime.


EDUCAZIONE DEMOCRATICA
La questione dell’inclusione può essere guardata anche da un altro punto di vista: quello di Young.
L’inclusione è il modo in cui dobbiamo intendere il funzionamento della società.

In democrazia le decisioni non devono essere preso da un polo (politici, amministratori, esperti),
bensì devono essere prese da tutti quelli che sono coinvolti nelle conseguenze di quelle decisioni.
In ambito educativo l’inclusione prevede la stessa cosa. L’inclusione ha carattere democratico: gli
educandi devono intervenire nelle decisioni inclusive che li riguardano.
ESEMPIO: concordare con un DSA su come agire.

Young definì 3 strategie di inclusione:

1. Il saluto. L’inclusione ha come suo livello primo il riconoscere e accogliere l’altro in una dinamica
relazionale.
ESEMPIO: se c’è uno studente paralizzato, che non può comunicare normalmente con la classe,
i compagni eviteranno di interagire non (solo) per cattiveria ma soprattutto per timidezza e
incapacità di gestire la situazione. Deve essere il docente a favorire una dinamica relazionale,
coinvolgendo i compagni nei momenti in cui egli comunica con lo studente paralizzato. Deve
avvenire una forma di saluto, cioè di riconoscimento e accoglienza.

2. La retorica: il modo in cui parliamo delle cose e presentiamo i fenomeni, il quale induce una
certa interpretazione del fenomeno piuttosto che un’altra. Nelle pratiche educative: una
terminologia scorretta nel definire i BES induce ad interpretarli come un problema da risolvere,
mentre una terminologia adeguata induce ad interpretarli come persone con delle specificità che
hanno bisogno di attenzioni speciali.
Se il docente conta quanti “BES” o “DSA” ha in una classe, sta pensando alla loro condizione
come un problema, non sta pensando alla didattica nel suo complesso. Non è una questione di
correttezza politica, ma di mentalità.

3. La narrazione. Parlare di un fenomeno in forma narrativa è un potente strumento per entrare in


contatto con mondi diversi. È un modo alternativo di ricostruzione del modo e riorganizzazione
delle nostre dinamiche. Nelle pratiche educative: entrare in contatto con BES, immigrati, vittime
di bullismo… Le persone escluse hanno un tipo di esperienza che non viene capita: la narrazione
favorisce la volontà di partecipare, fa accedere al campo di esperienza di chi era escluso, fa
capire punti di vista differenti, favorendo quindi l’inclusione. ESEMPIO: laboratori di scrittura
autobiografica.
Young parla anche di solidarietà differenziata, che unisce i due poli dell’inclusione:
• Solidarietà: fare le cose insieme perché si fa parte dello stesso contesto di vita, evitare
l’esclusione, partecipazione di tutti alle attività.
• Differenziazione: riconoscimento e rispetto della diversità.
Mettendoli insieme  La partecipazione di tutti avviene non perché sono tutti uguali, ma perché
hanno tutti gli stessi diritti, e ognuno partecipa nel proprio personale modo.
Questo è un altro modo di dire che inclusione è la riorganizzazione di un contesto che si produce
attraverso la negoziazione fra inclusi e esclusi.

L’inclusione non ha solo aspetti didattici, ha soprattutto una valenza pedagogica: veicola una certa
ideologia di educazione, quella democratica. (In Pedagogia l’ideologia esiste sempre!)

Negli anni ’70 c’era, e sta riemergendo adesso, la “Pedagogia dell’esclusione”: differenziazione
senza solidarietà  classi differenziate per i bes e per gli alunni geniali.
È logico che abbia i suoi vantaggi didattici:
• per un bes è più facile lavorare in una classe di bes,
• per un alunno geniale è più proficuo lavorare in una classe per geni.
Ma ha il suo svantaggio pedagogico: mette da parte l’inclusione, con tutte le conseguenze sociali e
relazionali.

In generale, è l’idea di scuola che è diversa nei due casi:


• un ambiente dove concentrarsi sull’educare e potenziare le competenze specifiche;
• un ambiente dove formare cittadini riflessivi e sociali, nell’ottica della democrazia.
Nello specifico, non esiste una risposta netta. Dipende dai singoli contesti.
Parallelamente, anche Dewey parla di legame tra educazione e democrazia.

RIFLESSIONE DEWEYANA SULLA DEMOCRAZIA:


La democrazia non è solo un sistema politico: la democrazia è anche una forma di vita associata e
una forma di esperienza continuamente comunicata (“la ricostruzione dell’esperienza che
aggiunge il significato di esperienza e permette la direzione di un’ulteriore esperienza”).
La pura esistenza di procedure politiche di selezione dei rappresentanti e del governo non basta per
configurarsi in un’autentica società democratica, perché democrazia è anche il modo in cui viviamo
e in cui organizziamo tutte le attività e i contesti sociali.

CRITERI CHE IDENTIFICANO LA DEMOCRAZIA COME FORMA DI VITA:


1. Una varietà di interessi condivisi: tanta più democrazia quanto più i diversi gruppi sociali hanno
condivisione di “interessi” (intesi come ciò che unisce nell’azione: se abbiamo interessi comuni,
abbiamo gli stessi obiettivi). È il problema delle società moderne: sempre più gruppi sentono di
avere interessi configgenti, quindi diminuisce il tasso di condivisione.
2. Il numero, la quantità e libertà di interazione tra più gruppi: tanta più democrazia quanto più i
gruppi dialogano tra loro. Il contrario è la divisione in “cosche”: c’è tra gli appartenenti una forte
condivisione di interessi, ma l’interesse è iperspecializzato, non c’è libertà di interazione con altri
gruppi.
Misurano “il tasso di democraticità”.

EDUCARE ATTRAVERSO LA DEMOCRAZIA:


L’educazione è strettamente legata alla democrazia non solo perché alfabetizza e istruisce le
persone, ma perché sviluppa la capacità di entrare in relazione con gli altri condividendo esperienze.
Sono anzi due facce della stessa medaglia.

Allora non si tratta semplicemente di educare alla democrazia, ma di educare attraverso la


democrazia, dove “attraverso” vuol dire che le scuole diventino spazi di vita associata, esperienze
condivise e ricostruzione dell’esperienza.
MULTICULTURA E INTERCULTURA

Sono due concetti diversi, benché abbiano un importante punto in comune che vedremo.
Nel corso delle stagioni politiche si sono susseguiti come ideologie di governo.

Per descriverli, occorrono due livelli:


• Livello descrittivo: descrive lo stato di fatto,
• Livello normativo (o prescrittivo): descrive il fine da raggiungere.

MULTICULTURALISMO
LIVELLO DESCRITTIVO: su un territorio c’è la presenza di più culture.
LIVELLO NORMATIVO: Relativismo: ciascun soggetto fa esperienza del mondo attraverso le
categorie acquisite dalla propria cultura, che sono diverse tra loro, quindi danno interpretazioni
diverse del mondo.
Allora bisogna preservare l’integrità culturale e evitare dialogo fra culture, perché si rischia un
“annacquamento” delle culture, o la prevalenza delle culture dominanti su quelle oppresse (per
ragioni storiche).

Per “fare esperienza” si intende organizzare l’esperienza in un certo modo. Le differenze fra culture
non sono solo valoriali o etiche: cambia tutto il modo in cui si percepisce e si interpreta sé stessi, le
relazioni sociali, lo scorrere del tempo, e tutta la realtà, attraverso diversi codici simbolici e linguaggi.

Quindi: Ciascuno di noi è determinato dalla propria cultura. L’identità dell’individuo è innanzitutto
identità culturale.

L’idea del Relativismo nacque nell’800 col Romanticismo, per contrastare la Razionalismo del ‘700
che era diventata l’idea della “cultura per eccellenza, per antonomasia”, l’uomo bianco è portatore
del lume della ragione, e quindi della cultura. Stesso discorso per la democrazia: si pensava che vi
fosse un solo modello di democrazia, quello europeo, e invece anche nelle culture che secondo noi
avevano bisogno di apprendere la democrazia, c’erano delle tradizioni democratiche che, da punti
di vista diversi, arrivano a posizioni molto simili!
Per “dialogo” tra culture si intende scambi culturali, mescolamento.
Per il Relativismo, il dialogo porta, in ultima istanza, alla discriminazione delle culture oppresse.
ESEMPI STORICI:
▪ Colonialismo europeo a scapito dei paesi africani e sudamericani. Tutt’oggi non le
consideriamo vere culture al pari di quelle europee, le consideriamo “folklore”.
Quel che è peggio è l’oppressione interiorizzata: quando le popolazioni oppresse quasi
riconoscono il diritto dell’oppressore, poiché è portatore del sapere razionale.
▪ Crisi dell’ideologia Melting Pot degli Stati Uniti, negli anni ’60: la cultura è stata
segregazionista nei fatti, quindi i gruppi culturali hanno avvertito l’esigenza di proteggere la
propria cultura.
ESEMPI PEDAGOGICI:
▪ Non si studiano quasi per niente le culture diverse da quella europea e americana.
▪ Studiare Shakespeare perché “è oggettivamente il più grande drammaturgo di tutti i tempi”
presuppone una certa idea di letteratura e di eccellenza letteraria, che spazza via ogni altra
forma di manifestazione artistica.
▪ Nello studio della letteratura italiana del ‘900 c’è solo un autore meridionale: Pirandello.

Quindi:
OBIETTIVO PEDAGOGICO: I soggetti devono essere educati ciascuno rispetto alla propria cultura.

Il Multiculturalismo è stato un’importante stagione del pensiero politico e pedagogico soprattutto nel
mondo anglosassone e soprattutto negli anni ‘70 e ’80.

MERITO DEL MULTICULTURALISMO:


Averci resi cauti nel camuffare, sotto l’etichetta di “universalità” e “neutralità”, valori occidentali.

PROBLEMA DEL MULTICULTURALISMO:


Evitando scambi culturali, si creano “società atomizzate” (“polverizzazione sociale”): ciascuna
cultura rimane incapsulata in sé stessa, e non sono possibili spazi di condivisione inclusivi.

La questione di multicultura e intercultura è prioritaria nell’educazione perché:


• La scuola è l’unico ambiente veramente pubblico rimasto, in cui persone “si incontrano” (“come
together”) e avvengono processi di dialogo, soprattutto con persone di diversa provenienza.
• La scuola è l’unico ambiente in cui si insegna un certo tipo di cultura. Negli altri luoghi, come
quelli di lavoro, la questione della cultura non è prioritaria.
INTERCULTURALISMO
LIVELLO DESCRITTIVO: su un territorio c’è la presenza di più culture.
LIVELLO NORMATIVO: Soggetti di culture diverse devono entrare in contatto tra loro, per ottenere la
relativizzazione dei propri punti di vista culturali: apprendere altri punti di vista, i confini e i limiti
della propria cultura. Entrando in contatto con altre culture, si apprendono anche aspetti della propria
cultura che prima non si vedevano (l’intercultura è dialogica).

“Relativizzazione dei punti di vista” non significa Relativismo, infatti l’intercultura è dialogica, il
contrario di Relativismo.
È la stessa cosa del conoscere sé stessi: si può conoscere davvero se stessi solo confrontandosi
con altre persone, che a volte ci mostrano aspetti di noi che non vedevamo.
L’intercultura non arriva al Melting Pot, cioè a una mescolanza indifferenziata: arriva semplicemente
a una maggiore consapevolezza delle differenze culturali.

OBIETTIVO: Creare uno spazio del dialogo, dove individui con culture diverse si incontrano e
condividono esperienze, attraverso cui:
• conoscere meglio l’altro punto di vista,
• conoscere meglio il proprio punto di vista,
• costruire nuovi orizzonti comuni.

Si arriva alla solidarietà differenziata!


• solidarietà: spazi di incontro e di dialogo fra culture diverse;
• differenziata: l’incontro è culturale, permette di comprendere i limiti della propria cultura, proprio
grazie alle differenze tra culture.

A scuola si fa intercultura? C’è l’Educazione civica, ma incastrata in poche ore del programma non
serve!
OBIETTIVO PEDAGOGICO: Riconfigurare l’intero sistema, ricostruire i curricoli, i programmi, le pratiche
didattiche, rivisitandoli in chiave interculturale. Anche le discipline più tradizionali devono essere
rivisitate in ottica interculturale.

ESEMPIO: Il liceo classico. È una forte tradizione italiana (anche grazie alla vecchia riforma Gentile),
noi italiani siamo un po’ presuntuosi sulla nostra eredità greco-romana, ma anche la cultura greco-
romana era a sua volta fortemente influenzata da altre culture! Alla luce di questo, non ha senso
pensare nell’ottica multiculturale, sarebbe come dire che noi italiani ci teniamo i nostri licei classici e
gli studenti di altre culture studino in scuole differenziate.
L’intercultura è più inclusiva della multicultura!

ATTENZIONE: Questa enfasi sulla cultura (anche quella del Multiculturalismo, non solo
Interculturalismo) rischia di essere poco attenta alle caratteristiche personali degli individui, a
schiacciare i soggetti sulla loro cultura di appartenenza. Nella scuola non avviene l’incontro “tra
culture”, avviene l’incontro tra studenti, che tra le altre cose hanno anche la caratteristica della loro
cultura. L’enfasi sulla cultura rischia di offuscare le nostre capacità di azione nella pratica.
Vediamo ora alcuni aspetti legati all’Intercultura su cui il Ministero pone molta enfasi, perché
recepiscono alcune urgenze del momento.

MEDIAZIONE INTERCULTURALE
Nelle scuole troveremo ragazzi figli di immigrati, che vengono chiamati “seconda generazione”.
È uno di quei termini che sembra neutro, sensato, ragionevole e invece ha tante trappole, perché
implica una doppia esclusione:
a. dalla famiglia: è come se ci fosse stato un azzeramento della storia familiare, un ricominciare,
la situazione familiare ha avuto un nuovo inizio, magari drammatico;
b. dal contesto: anche se sono cresciuto in Italia, ho fatto le scuole italiane, non sono italiano, sono
seconda generazione.
Dizione corretta: “nuovi italiani”. Indica il modo di vedere il fenomeno: se lo vedo come “seconda
generazione”, nonostante la persona parli perfettamente italiano e sia cresciuto in Italia e si senta
italiano, lo rischiaccio solamente sulla sua cultura, invece dicendo “nuovo italiano” gli riconosco le
potenzialità e le risorse della sua posizione: non solo l’italianità nei fatti, parlare perfettamente la
lingua, esser cresciuto tra i suoi coetanei, ma anche il potenziale di mediatore culturale fra la
comunità italiana e quella della sua cultura, una risorsa per stabilire il dialogo!

COMBATTERE STEREOTIPI E PREGIUDIZI


➢ Stereotipo: cliché, una sorte di idea fissa;
➢ Pregiudizio: idea preconcetta su un determinato gruppo (etnico, sessuale…) non supportata da
evidenze scientifiche.
La questione delle razze è sempre molto scivolosa, ma non per un motivo moralistico. ESEMPIO: il
processo Rollins contro lo stato dell’Alabama, nel 1922: l’imputato era afroamericano ed era
imputato per aver fatto mescolanza delle razze, perché aveva consumato rapporti sessuali con una
donna bianca. L’unica difesa possibile all’epoca era dimostrare che in realtà la donna era di colore
anche lei, e questa fu la linea: la donna poteva essere considerata di colore perché era un’immigrata
siciliana! Che nell’America del ’22 era più vicina agli afroamericani che non al ceppo britannico.
A scuola anche queste storie si dovrebbero raccontare, per rendersi conto di come è complessa la
storia.
Per disarticolare i pregiudizi e gli stereotipi, il ministero indica due livelli:
1. Cognitivo: ampliamento del campo cognitivo, all’interno delle singole discipline. Bisogna
ampliare le proprie conoscenze, e anche in questo caso non con delle ore programmate, ma
all’interno di ogni disciplina.
ESEMPI:
▪ Nelle discipline delle scienze si può far capire che il concetto di “razze” è scientificamente
sorpassato (la differenza genetica tra le razze è inferiore alla differenza genetica che c’è
tra due individui di due gruppi dello stesso gruppo), è un’occasione per smontare una
nozione che ha grosso corso nel dibattito pubblico.
▪ Storie come quella di Rollins possono essere raccontate nelle ore di storia e geografia,
come anche il fatto che quando noi eravamo stranieri immigrati negli Stati Uniti, eravamo
considerati feccia, perché puzzavamo, vivevamo in condizioni proibitive…

2. Affettivo: il pregiudizio molto spesso non ha a che fare solo con la conoscenza dei fatti: a volte
siamo abbarbicati ad un pregiudizio perché tocca corde profonde di noi. Quindi vanno create
occasioni per smontare questi legami affettivi con certe nozioni.
ESEMPI:
▪ La storia di Rollins fu raccontata in TV dal drammaturgo Stefano Massini, che l’ha
raccontata con un forte impatto emotivo, con forte sapienza nel creare la suspense, con
un effetto di sorpresa che aiuta a smontare.
▪ “Pedagogia della perplessità e del disagio”: mettere le persone in una condizione in cui
scoprano i propri presupposti, però una condizione che sia emotivamente coinvolgente.
▪ Molti automatismi emotivi vengono imposti dai mass media! Per esempio, dei criminali
immigrati sappiamo tutto, di quelli italiani non se ne parla. L’insegnamento deve anche
essere attento agli aspetti educativi e diseducativi dei discorsi mediatici.

RISCHI DI PREGIUDIZIO:
❖ Antisemitismo: importanza di organizzare momenti di riflessione. ESEMPIO: la Giornata della
Memoria o la Shoà non devono essere solo ritualistici, devono essere occasione di riflessione
profonda sull’argomento, che è sempre attuale.
❖ Islam-fobia: paura della cultura islamica, è una forma di pregiudizio. ESEMPIO di intervento:
approfondire (nelle ore disciplinari) le differenze nel mondo islamico, Sunniti e Sciiti, e osservare
come l’attuale guerra dell’Islam al mondo occidentale sia anche guerra tra quelle fazioni. Così si
amplia il campo cognitivo e si stemperano gli automatismi emotivi imposti dai mass media!
❖ Anti-tziganismo: pregiudizi verso la cultura rom, dovute ad alcune caratteristiche della loro
cultura: il fatto che non accettano lavori stabili, che non considerano disdicevole il vivere nella
carità… Già il termine “zingaro” è diventata nel tempo fortemente connotata: ha assunto
accezione negativa, insulto. Un approccio anti-ziganista sta attento anche all’uso del linguaggio,
che vada anche a ricostruire il senso originario, e i motivi per cui è cambiato. (Stesso discorso
delle parole “mafioso” e “negro”).
APPRENDIMENTO DELLA LINGUA:
Abbiamo parlato dei figli di immigrati, che sono nuovi italiani. Ma nella scuola secondaria troveremo
anche ragazzi immigrati appena arrivati in Italia, che hanno diritto alla scuola ma ancora non
conoscono la lingua. Per loro, l’italiano è L2 (seconda lingua).
Ci sono due livelli di conoscenza della lingua:
➢ conoscenza della lingua per comunicazione,
➢ conoscenza della lingua per studio.
Il livello di comunicazione viene raggiunto facilmente dal ragazzo, perché l’apprendimento della
lingua comunicativa si ha in tutti i contesti di apprendimento: formali, non formali e informali! In
famiglia e in strada ha varie occasioni di familiarizzare con la lingua della comunicazione.
Il problema è che non ci si può minimamente accontentare del livello di conoscenza comunicativa
nel momento in cui si vuole mettere i soggetti nelle condizioni di avere un successo scolastico (non
avere ritardi e ripetenze o dispersioni), perché la lingua di studio è una lingua più specialistica,
astratta, e settoriale.
Dunque deve raggiungere il livello di studio. Questa è una fase smodale delicata, ed è una “fase
ponte”: il ragazzo deve raggiungere il livello della lingua di studio, e non può imparare l’italiano ad
un livello L1 (perché non è quella la sua prima lingua), ma non deve nemmeno lasciarla a livello
della comunicazione, deve imparalo in forme diverse da queste due, con un intervento che sia
iperspecifico e iperspecialistico ma non L1! Inoltre, l’intervento che deve essere “a tempo”, (ecco
perché di transizione!).

INDICAZIONI DEL MINISTERO:


➢ Sicuramente sarebbe opportuno fare dei laboratori linguistici, non fare semplicemente delle
lezioni frontali in cui insegnare la grammatica italiana. Ma se fosse solo questo, i ragazzi li
perdiamo… I docenti delle singole discipline dovrebbero essere dei facilitatori anche nelle loro
lezioni, facendo un surplus di attenzione all’aspetto linguistico nello spiegare i concetti! Questa
questione dell’italiano come L2 non va sottovalutata, nel momento in cui sempre più studenti
stranieri accedono alla secondaria. Finora non c’era stata questa urgenza, innanzitutto perché
non c’era questa grande popolazione studentesca, e poi perché non c’era così tanti stranieri
nella secondaria superiore.
➢ Plurilinguismo: questa cosa che ho detto riguarda l’elemento della solidarietà: io ti metto nelle
condizioni di parlare la lingua italiana e anche di studiare cose più complesse. Ma c’è anche
l’elemento della differenziata: cogliamo l’opportunità della loro presenza per conoscere il loro
linguaggio! Organizzare dei progetti in cui condividere certe storie e espressioni come vengono
dette nelle loro lingue! Così:
o gli studenti stranieri non si sentono solo ospiti, ma in quel momento sono protagonisti;
o gli studenti italiani hanno un’occasione di ampliamento cognitivo, l’italiano non è l’unica
lingua.
ORIENTAMENTO:
È importante in generale, ma soprattutto è importante nei confronti degli immigrati. Ha quindi delle
sue generalità, e poi in relazione all’Intercultura ha anche delle specificità. Vediamole.

CARATTERISTICHE GENERALI:

PRIMA:
Uno dei problemi italiani è la mortalità scolastica e universitaria (abbandono, dispersione) che, per
un paese che vuole essere competitivo a livello mondiale, è uno spreco enorme.
Spesso deriva da scelte sbagliate fatte al momento della scelta della scuola secondaria superiore e
dell’università.
Allora le scuole e le università dovrebbero farsi carico di supportare gli studenti nella scelta della
scuola secondaria superiore e dell’università. Come? Due modi:
1) progetti e servizi specifici: sportelli, staff, che si occupano di orientare le persone.
2) didattica orientante: all’interno delle discipline, i docenti devono aiutare gli studenti a diventare
consapevoli dei tipi di competenze e abilità legate allo studio di quei campi del sapere, cosa
viene richiesto in termini di modi di organizzare la conoscenza che devono essere mobilitati.
ESEMPI:
▪ se a uno studente piace la geografia, il docente non dice solamente che “può diventare
geografo, o geopolitico”, ma anche che può utilizzare la geografia per lavorare nel campo del
turismo, e spiegare qual è il livello di studio della geografia che riguarda il turismo!
▪ Oppure allo studente non piace la geografia per gli aspetti che potrebbero interessare a un
economista, ma potrebbero essere molto utili per il turismo.
▪ Viceversa, allo studente non piace ragioneria ma gli piace moltissimo la geografia, e questo
non esclude il fatto che possa studiare aspetti dell’economia applicati alla geografia.

SECONDA:
Si pensa all’orientamento informativo: sbocchi occupazionali, materie di studio… Ma il vero
orientamento è formativo: comprendere quali sono i suoi modi di funzionare dal punto di vista
dell’apprendimento e della conoscenza.
ESEMPIO: somministrare raccolta di narrazioni, in cui riflettere su quali esperienze di apprendimento
abbiano avuto nella loro vita, non solo nel settore formale (cioè non interessa dove “vanno bene”),
ma anche nei contesti informali, chiedendo: “Quand’è che hai imparato qualcosa? Chi ti ha
veramente insegnato qualcosa e perché? Se tu dovessi descrivere il tuo modo di funzionare
conoscitivamente, come lo descriveresti? Qual è il modo in cui impari meglio?”.
SPECIFICITÀ LEGATE ALL’INTERCULTURA:

PRIMA:
Negli studenti immigrati o figli di immigrati c’è una preponderanza di scelta di percorsi professionali
e tecnici, rispetto ai licei. Vari motivi:
• non hanno acquisito il livello della lingua di studio,
• è più facile immettersi nel mondo del lavoro, soprattutto nelle zone del meridione,
• in particolare per il liceo classico, è visto come legato prettamente alla cultura italiana.
È uno spreco e un’ingiustizia se i soggetti la vivono come l’unica opzione loro offerta, come un senso
di destinazione. Magari tra questi ragazzi alcuni sarebbero degli eccellenti letterati, scienziati…
perché perderseli?
Una scuola interculturale deve aiutare i soggetti a prendere consapevolezza delle opzioni che sono
loro aperte, mettere ciascuna persona nelle condizioni di scegliere quello per cui si sente portato.
E non dicendo “c’è il liceo classico”, ma dicendo: “guarda, a te sembra che non sei portato perché
non parli italiano fluente ancora come i tuoi colleghi, ma in realtà io noto una creatività culturale,
un’operatività di lingua, un interesse per le altre culture, che ti potrebbe aiutare nell’affrontare il latino
e il greco, in cui parti dallo stesso livello dei tuoi colleghi.”

SECONDA:
Orientamento verso la scuola dell’infanzia.
Il Ministero non dice come farlo, ma (ed è importante) perché farlo. Mentre nella cultura italiana la
scuola dell’infanzia è vissuta come il primo segmento della formazione del soggetto (perché la
pedagogia non si occupa solo della fase educativa, ma riguarda la formazione del soggetto lungo
tutto l’arco della vita, quindi anche la pedagogia scolastica non parte dalla prima elementare ma
prima), per molte comunità di stranieri invece potrebbe non essere così.
Invece sarebbe fondamentale per i bambini stranieri accedere alla scuola dell’infanzia, perché è
l’epoca in cui hanno la prima fase di socializzazione e un primo apprendimento della lingua italiana!
Si ridimensionerebbe molto il problema dell’apprendimento della lingua.
INDIVIDUALIZZAZIONE E PERSONALIZZAZIONE

Sono due concetti diversi, benché abbiano un importante punto in comune che vedremo.
Nel corso delle stagioni politiche si sono susseguiti come ideologie di governo (Individualizzazione
= centro sinistra, Personalizzazione = centro destra).
Se ne sono occupati Baldacci (individualizzazione) e Chiosso (personalizzazione).

Il nostro tempo è definito nel Memorandum di Lisbona (2000) ed esplicitato nel Consiglio d’Europa
di Bruxelles (2004) come “società della conoscenza”: l’apprendimento è L.L.L., quindi bisogna
creare l’Europa dell’istruzione e della formazione, come spazio di conoscenza permanente, creando
iniziative L.L.L. nella realtà concreta, concentrare riforme ed investimenti in settori chiave.
Solo così si può essere al passo con l’innovazione tecnologica e creare una economia competitiva
rispetto ai Paesi leader mondiali.

Dunque, tutti i lavoratori hanno bisogno di competenze nella sfera intellettuale. Come? Tre
presupposti di Baldacci:
1. Qualità dell’istruzione. Formare l’individuo su 3 dimensioni:
o Dimensione del cittadino: formare cittadini consapevoli,
o Dimensione del lavoratore: consentire di trovare lavoro di alta professionalità,
o Dimensione del consumatore: permettere di accedere a consumi culturali più sofisticati (libri,
teatri, musei).

2. Uguaglianza di opportunità formative: tutti i soggetti che studiano devono acquisire


competenze fondamentali, che permettano loro di condurre una vita adeguata.
Quindi non più come con la Riforma Gentile in cui chi frequentava i licei diventava classe
dirigente, mentre chi frequentava gli istituti tecnici era destinato a lavori economicamente
subordinati.

3. Valorizzazione delle differenze. Dopo un periodo di omologazione, ora sta emergendo


l’“esplosione della soggettività”: ognuno vuole essere unico e protagonista. La scuola allora deve
appropriarsi pedagogicamente dell’invito della società moderna ad essere sé stessi.

In generale:
Individualizzazione: 1+2  qualità dell’istruzione in riferimento all’uguaglianza delle opportunità
formative.
Personalizzazione: 1+3  qualità dell’istruzione in riferimento alla valorizzazione delle differenze.

Cambiano le modalità con cui costruire la qualità dell’istruzione.


In realtà la classificazione è più complessa:

INDIVIDUALIZZAZIONE COME CRITERIO:


Individualizzazione intesa come criterio generale dell’educazione.
Dopo un secolo di Pedagogia che poneva come protagonista l’insegnante, in un’educazione
trasmissiva con destinatario l’educando, ora la Pedagogia ha assunto posizione scientifica, secondo
cui non si può prescindere dal riferimento all’educando. Questo comporta l’attenzione alla
individualità dell’educando, attenzione non solo a cosa insegnare, ma anche in che modo insegnare
in base alle caratteristiche degli educandi.
Questa attenzione è comune sia all’Individualizzazione sia alla Personalizzazione. Ciò che cambia
è nelle modalità.

Si ricollega al discorso che abbiamo visto nelle prime lezioni: si deve partire dall'esperienza dei
soggetti, e la conoscenza interviene e si innesta sull'esperienza dei soggetti.

Il criterio generale porta il nome di Individualizzazione perché fu formulato da Baldacci, che è (come
vedremo) un sostenitore dell’Individualizzazione anche come strategia didattica, quindi pone
l’accento su questo concetto, è la posizione ideologica di Baldacci (l’ideologia è sempre presente in
Pedagogia!).

Vediamo ora come cambiano le modalità nelle due strategie didattiche.

N.B.: All’esame, quando si parlerà di Individualizzazione e Personalizzazione, ci si riferirà alle


strategie!
INDIVIDUALIZZAZIONE COME STRATEGIA DIDATTICA:
Si concentra su conoscenze e competenze basilari che l’educando deve apprendere (“pacchetto
base”), parte dai campi del sapere: quali sono le conoscenze e le competenze basilari da acquisire?
Per acquisire il pacchetto base, vanno cercate strategie didattiche che sfruttino le individualità degli
educandi.

Il pacchetto base verrà appreso tenendo conto delle individualità dell’educando (anche attraverso
forme differenziate di apprendimento). Ignorare le individualità degli educandi non sarebbe saggio:
sono un potente strumento da usare per agevolare l’acquisizione del pacchetto base!

FATTORI DI APPRENDIMENTO:
• fattori interni: le proprie inclinazioni,
• fattori esterni: il trattamento didattico.

LEZIONE DI SUCCESSO: è stata capita da tutti gli studenti del gruppo classe, non solo da quelli che
hanno inclinazioni favorevoli per quella disciplina. Tutti devono aver acquisito un certo livello di
conoscenze e competenze.
Perciò bisogna rendere la disciplina accessibile anche a coloro che possiedono altre inclinazioni. È
compito del docente trovare le strategie didattiche adatte a rendere i contenuti accessibili a tutta la
classe.

Poi ci saranno gli studenti con le inclinazioni favorevoli alla materia che la approfondiranno e
proseguiranno gli studi in quella direzione. Ma l’obiettivo è che tutti acquisiscano il pacchetto base,
perché:
Il pacchetto base di conoscenze e competenze garantisce la formazione come cittadino, lavoratore,
consumatore.

VANTAGGI DELL’INDIVIDUALIZZAZIONE:
• favorisce l’inclusione
• favorisce la solidarietà differenziata.

I governi di centrosinistra hanno favorito questo approccio.


PERSONALIZZAZIONE COME STRATEGIA DIDATTICA:
Si concentra sulle inclinazioni personali dell’educando, parte dall’architettura della mente: far
raggiungere ad ogni educando l’“eccellenza cognitiva” nel proprio dominio di talenti.
Viene sacrificato il pacchetto base di conoscenze e competenze, a favore dell’eccellenza dei talenti.

FATTORI DI APPRENDIMENTO: Solo interni: le proprie inclinazioni.

LEZIONE DI SUCCESSO: Ogni educando ha potenziato conoscenze e competenze relative al suo


dominio di talenti. Il docente è un “facilitatore” dell’eccellenza cognitiva degli educandi.

Si lega alle intelligenze multiple di Gardner: ciascuno ha una propria intelligenza e una forte
inclinazione per alcune, e non per altre.

I governi di centrodestra hanno favorito questo approccio (ministro Moratti e riforma Gentile).
Un'idea molto forte riguardò la ricostruzione del sistema formativo italiano, siccome, dopo la riforma
Berlinguer, c’era stata la licealizzazione della scuola secondaria (non c'era più solo il liceo classico
e scientifico, ma diversi licei, rimaneva solo il comparto della scuola professionale/tecnica). Questo
non fu visto bene dalla destra: ha senso che tutti si incanalino in un percorso di scuola secondaria
di carattere para-liceale? Ci sono persone i cui talenti vanno più nella logica della formazione e
possibilità del rapporto con la scuola e noi li perdiamo perchè li ingabbiamo in questo sistema
scolastico.

Un’altra ragione per cui una certa parte del mondo pedagogico si è orientato verso la
Personalizzazione è stata la “pedagogia cattolica”: in Italia c'è divisione tra pedagogia laica e
cattolica, che non ha niente a che fare con le convinzioni personali. Sono 2 filoni che hanno degli
accenti diversi, in particolare la pedagogia cattolica ha un forte accento sulla centralità della persona
e sulla “sussidiarietà”: non tutto deve essere fatto dallo Stato (dalla Scuola): devono esserci diverse
agenzie a diversi livelli, privilegiando quelle di massima positività.

VANTAGGI DELLA PERSONALIZZAZIONE:


• Può contrastare meglio la dispersione scolastica: ragazzi particolarmente svogliati potrebbero
essere invogliati a concentrarsi di più sulle materie cui sono inclini.
• Può essere necessaria in casi di BES (PEI).
PENSIERO DI BALDACCI:

La posizione ideologica di Baldacci è in favore dell’Individualizzazione.


Perché:
• La Personalizzazione tende al “naturalismo”: un individuo è nato con certe inclinazioni e solo
quelle deve sfruttare): partire dall’architettura della mente e prescindere dal concetto che tutti
possono insegnare tutto, può creare percorsi di “destinazione”.
• Dal punto di vista teorico, tutti i talenti sono “nobili e da coltivare”, ma nella pratica la società
riveste più importanza in alcuni tipi di saperi, quindi gli educandi con inclinazioni verso i saperi
non richiesti dalla società (“distonici”) sono svantaggiati!
• L’apprendimento informale è già “personalizzante”, e non “individualizzante”: la scuola resta
l’unico mezzo per apprendere conoscenze e competenze basilari utili a tutti.

Tuttavia, Baldacci afferma che Individualizzazione e Personalizzazione non sono concetti del tutto
distinti. Sarebbe facile considerarli separatamente, anche in virtù degli schieramenti politici che in
passato li hanno redatti. Ma non è così.
Entrambe le strategie possono avere un ruolo importante in differenti contesti e casi. Questa è
una posizione scientifica, non ideologica!
Baldacci infatti riformula i concetti:
Individualizzazione = “Individualizzazione convergente”,
Personalizzazione = “Individualizzazione divergente”.

ESEMPIO: Per uno studente svogliato, si può pensare di applicare prima la Personalizzazione per
evitare di perderlo, e dopo convergere verso l’Individualizzazione.
PENSIERO DI CHIOSSO:
Anche Chiosso afferma che il concetto sovra-ordinato è quello di individualizzazione.
Tuttavia, la posizione ideologica di Chiosso è in favore della Personalizzazione.

La Personalizzazione contrasta meglio la dispersione scolastica.


Di conseguenza, favorisce la vera uguaglianza di opportunità.
Questo può creare confusione: non lo faceva l’Individualizzazione? La questione è sempre di
accenti. Se si ha dispersione scolastica, perdiamo la possibilità che tutti apprendano il pacchetto
base! “Opportunità di apprendimento” vuol dire evitare la dispersione, evitare l'abbandono
scolastico, trovare dei modi in cui i soggetti si sentano in qualche modo attratti dai percorsi formativi.
Ebbene, questo si ottiene solo con la Personalizzazione! Solo così avremo un’effettiva uguaglianza
di opportunità.

In generale:
• Presidia e contiene il rischio di insuccesso e abbandono scolastico,
• Sviluppa le capacità di auto-orientamento (grazie all’eccellenza cognitiva);
• Eleva gli standard di apprendimento (grazie all’eccellenza cognitiva);
• Consente un primo approccio con il mondo del lavoro e delle professioni (grazie all’auto-
orientamento).
• Favorisce il rapporto con le agenzie del territorio (“sussidiarietà”: non tutto deve essere fatto
dallo Stato - dalla Scuola, devono esserci diverse agenzie a diversi livelli, privilegiando quelle di
massima positività).

La personalizzazione è stata resa possibile da alcuni aspetti:


1. ASPETTO ISTITUZIONALE: Responsabilità e autonomia degli studi: il Ministero fissa alcuni saperi
fondamentali, dopodiché c'è una quota dell'offerta formativa dell'Istituto che è decisa dai singoli
istituti.
Paradossalmente questa proposta fu fatta da Berlinguer, ma non fu capita e quindi non fu attuata
sotto il suo mandato.
2. ASPETTO DIDATTICO: Differenziazione didattica delle strategie formative: strategie didattiche
oltre la lezione frontale (“scuola attiva”), incentrata sulle esigenze degli studenti, metodi che
permettono di differenziare la didattica e creare gruppi di lavoro cooperativo. Nella scuola
tradizionale c’è uniformità e omogeneità nella gestione dei tempi e dello spazio: tot ore per ogni
materia, a cui partecipano tutti. Chiosso invece dice: non necessariamente si deve fare tutto con
le stesse persone della classe, si possono creare gruppi di lavoro fra pari, nell'interclasse o tra
classi diverse, in cui ciascun membro contribuisce con il proprio talento individuale.
3. ASPETTO PEDAGOGICO: Ricerca psicopedagogica che sostiene il principio della
Personalizzazione, multi-intelligenze di Gardner.
STRUMENTI DELLA PERSONALIZZAZIONE:
• Tutorato: assistenza educativa che aiuta l'allievo ad assumersi la responsabilità della propria
formazione e a risolvere i problemi ad essa connessi.
È diverso dal facilitatore costruttivista: il tutor personalizzante aiuta non ad apprendere
conoscenza, bensì ad apprendere e scoprire i talenti, gli obiettivi formativi
• Portfolio di competenza: redatto insieme alla famiglia e al soggetto, documenta e monitora il
percorso personalizzante. Completamente diverso dalla pagella, che invece valuta, e
soprattutto è un documento “pubblico”, nel senso che si basa sia sui risultati educativi
dell’educando sia sugli standard del docente, mentre il portfolio riguarda solo l’educando, è la
sua descrizione.

RAGIONI DI FONDO DELLA DIFFERENZIAZIONE:


• Risponde alle nuove esigenze legate al mondo delle professioni
• Valorizza le opportunità formative che la società offre, anche quelle non istituzionalizzate;
• Evita di sovraccaricare la scuola di responsabilità educative;

Da notare che: le posizioni di Baldacci e Chiosso hanno gli stessi stimoli sensoriali (immagine
bistabile, profilo della vecchia e della giovane), ma a seconda che uno metta un accento sulla
personalizzazione e sull'individualizzazione, muta l’interpretazione di questi strumenti e cambia
l’organizzazione gestaltica e percettiva.
➢ Baldacci: siccome l'extra scuola si occupa molto dei talenti personali, la scuola dovrebbe
rimanere un campo della coltivazione di competenze e conoscenze base.
➢ Chiosso: proprio perchè fuori ci sta molta attenzione ai talenti, la scuola deve avere gli
strumenti per anticipare il primo contatto con questo!
DISPERSIONE SCOLASTICA

Abbiamo visto come la Personalizzazione favorisca ad evitarla.


Il soggetto che non si riconosce nei percorsi formativi che gli vengono offerti.
Come fare in modo che gli ambienti educativi e formativi tesaurizzino al massimo le potenzialità del
soggetto?
Una risposta è la didattica personalizzata. Ma ce ne sono altre.

Si pensava che la dispersione scolastica avesse a che fare soprattutto con l’aspetto socio-
economico: deprivazione sociale / economica  abbandono.
Invece si è visto che l’abbandono avviene anche nelle zone benestanti, in percentuale minore ma
non trascurabile.
Inoltre, non è vero che alla fine i soggetti arrivano a obiettivi formativi di qualità adeguati a quelle
che sono le potenzialità del territorio: un territorio ricco non può permettersi di avere persone che
hanno solo la III media, perchè il problema non è semplicemente di avere la manodopera! Il problema
è la dispersione scolastica.

In generale c’è multifattorialità:


FATTORI ESOGENI: (Fattori sociali)
• Disagio economico;
• Cultura familiare inadeguata;
• Mancato rapporto tra scuola ed extra scuola;
• Valori generali della cultura.

FATTORI ENDOGENI: Organizzazione interna dell’offerta formativa, non in linea con le esigenze degli
educandi e del territorio.
ESEMPIO: Educazione ancora di natura tipografica, le nuove generazioni hanno ormai altri linguaggi.

Prima si puntava semplicemente all’alfabetizzazione.


Ora si deve puntare ad una alfabetizzazione di qualità, e in linea con le esigenze degli educandi e
della comunicazione col territorio.

Al nord, molto industrializzato, c’è dispersione scolastica soprattutto verso i licei, soprattutto classico.
Il tessuto produttivo non ha interesse ad interagire con le scuole che non hanno nulla da offrirgli.
Allora quello che si può fare è adattare e rinnovare l’offerta formativa per andare incontro alle
esigenze del territorio.
SOLUZIONI:
➢ Personalizzazione;
➢ Sistema formativo integrato: non bisogna agire solo sulla scuola, ma anche sulla comunicazione
con le altre agenzie del territorio, non solo dal punto di vista economico (didattica funzionale alle
esigenze del territorio e agenzie di collocamento sul territorio), ma anche progetti di qualsiasi
natura che possono collegarsi alla scuola come formazione (progetti sociali e culturali promossi
da altre agenzie).

STRATEGIE:
1. Prevenzione: orientamento già verso la scuola dell’infanzia, la dispersione scolastica la si
combatte ben prima che gli studenti entrino in classe;
2. Intervento: nel momento in cui sta avvenendo la dispersione, si interviene con un cambiamento
della didattica o ampliamento dell’offerta formativa;
3. Compensazione: dopo che è avvenuta la dispersione, si prova a recuperare i ragazzi che hanno
abbandonato con altre occasioni formative (scuole serali, laboratori culturali o sociali, attività
promosse dal comune, volontariato.

Inoltre:
4. Sistema di monitoraggio: un’anagrafe nazionale dello studente basata sui dati delle rilevazioni
del Sistema nazionale di valutazione (INVALSI), per valutare un rischio basso, medio o alto di
abbandono precoce degli studi;
5. Interventi mirati verso studenti a rischio.
BULLISMO
Sottotipo di comportamento aggressivo.
Un comportamento aggressivo, che arreca danni fisici / psicologici / emotivi / relazionali, si definisce
bullismo se e solo se verifica le seguenti caratteristiche:
1. intenzionalità e deliberatezza: il bullo è perfettamente consapevole di esercitare violenza;
2. insistenza e sistematicità: il bullo “prende di mira” le sue vittime;
3. asimmetria relazionale: il bullo è una persona in una posizione di forza fisica o popolarità
sociale, è una figura di riferimento all’interno di un gruppo, mentre la vittima è in una posizione
di debolezza fisica o socialmente esclusa per qualche motivo (aspetto, sensibilità, sessualità).

Caratteristiche psicologiche frequenti:


• impulsività e irruenza: non riflette sulle conseguenze, e ha scarso “pensiero empatico” (è
consapevole di arrecare dolore razionalmente, ma non emotivamente);
• iperattivismo: scarsa intelligenza emotiva o in generale non verbale;
• basso livello di istruzione scolastica;
• bassa tolleranza alla frustrazione;
• comportamenti ad alto rischio: alcool, droghe, futura delinquenza ecc.;
• accettazione della violenza come strumento di risoluzione dei conflitti: spesso proviene da
un ambiente familiare autoritario / violento, a volte lui stesso vittima di abusi.

A seconda del profilo psicologico / familiare / situazionale, ci sono varie forme di bullismo (nate
anche con l’avvento della tecnologia e dei social media).
Non bastano più le forme di prevenzioni tradizionali, e non è possibile avere una strategia unica per
tutte le forme: occorrono strategie di intervento distintive per ogni forma.

BULLISMO TRADIZIONALE
È il bullismo scolastico, perpetrato “in presenza” (dal vivo) e consumato nell’ambiente scolastico
(non continua al di fuori della scuola, è limitato nello spazio e nel tempo).
Riguarda attacchi fisici (spintoni, calci, lotta), verbali (insulti, minacce) o relazionali (isolamento
sociale, diffusione di voci) da parte di uno studente dominante fisicamente / psicologicamente verso
uno studente più debole.
Il movente è una dimostrazione di predominanza per ottenere popolarità in un gruppo.

Avvengono soprattutto nei corridoi / cortili, dove la supervisione di adulti è minima.


Gli attacchi fisici diretti sono più comuni nei maschi, mentre l’aggressività indiretta (quella
relazionale) è più comune nelle femmine.
Possono esserci fino a 6 tipi di attori:
1. il bullo;
2. la vittima;
3. aiutante del bullo, che partecipa ma in posizione secondaria;
4. i sostenitori, che appoggiano l’atto di bullismo;
5. il pubblico, che è in disaccordo ma non interviene per fermalo;
6. un aiutante della vittima.

Sia la vittima sia il bullo stesso sono a rischio di:


• sintomatologia depressiva,
• idea di suicidio,
• disturbi alimentari (soprattutto nelle ragazze).

STRATEGIE EDUCATIVE:
➢ Prestare molta attenzione ai segnali e alle dinamiche di classe.

➢ Programmi scolastici anti-bullismo (tanto più efficaci quanto più lunghi e intensi):
• incontri con i genitori,
• politica di sensibilizzazione per gli studenti, far capire quali sono i comportamenti che
umiliano gli altri e la differenza fra scherzo e umiliazione;
• miglioramenti nella supervisione e disciplina scolastica,
• psicologi scolastici (nei casi più gravi).

➢ Supporto per le vittime con incontri, gruppi di ascolto, consulenze psicologiche.

➢ Intervenire sul contesto eliminando le esclusioni sociali, indagando sulle cause di esclusione e
su come abbatterle, favorendo un clima di inclusione: non devono più esserci potenziali vittime!
Questo varrà anche nel caso del SVO, in cui invece l’escluso è il bullo!
CYBERBULLISMO
È il bullismo perpetrato mediante strumenti informatici: social, chat, e-mail, siti, ecc.
Riguarda attacchi verbali (insulti, minacce) o relazionali (diffusione di voci) da parte di uno studente
o di un gruppo dominante verso uno studente più debole.

Tante modalità attraverso cui il cyberbullismo avviene nel cybermondo:


• creazione di siti web o utilizzo di social per calunniare, denigrare, molestare;
• invio di foto imbarazzanti per sms, chat, e-mail;
• furto di identità…
DIFFERENZE COL BULLISMO TRADIZIONALE:
1. Il cyberbullismo ha una natura permanente:
• non più “in presenza”, ora la vittima è perennemente a rischio;
• nessuna via di fuga dal cybermondo, impossibilità di cancellare messaggi e file
compromettenti.

2. Il cybermondo fornisce un livello di anonimato che non si riscontra nel contesto faccia a faccia.
Conseguenze:
• è quasi impossibile per la vittima identificare e affrontare il proprio aggressore;
• il cyberbullo può non essere un pari della vittima: può avere qualsiasi età;
• è difficile creare prevenzioni e interventi sia verso la vittima che verso il bullo;
• problemi legali in termini di monitoraggio del bullo nel caso di accusa di persecuzione;
• “bullismo di gruppo”: maggiore probabilità che più persone partecipino ad atti di bullismo
online sulla stessa vittima, anche persone che dal vivo non avrebbero mai partecipato.
MOTIVI:
o l’anonimato riduce la paura dei rischi;
o la mancanza di feedback tangibile ostacola maggiormente l’empatia;
o bassa autostima / problemi di rabbia + natura fisica debole  non riescono a esprimere
questa frustrazione nella vita reale  compensano nel cybermondo.

3. Notevole mancanza di controllo sui mezzi informatici. Il cybermondo è popolato dai giovani,
quindi la sorveglianza dei genitori o delle autorità è quasi zero.

4. Il movente è la pura umiliazione della vittima (non direttamente fisica, ma porta a conseguenze
fisiche nella vittima).
Le cybervittime hanno le stesse caratteristiche e corrono gli stessi rischi delle vittime di bullismo
tradizionale. Le vittime donne possono correre anche il rischio di sfruttamento sessuale.

STRATEGIE EDUCATIVE:
➢ Cercare di riconoscere le vittime, notando improvvisi cambiamenti, cali delle prestazioni
scolastiche, ecc. Una volta individuate, supportarle.

➢ Politica di sensibilizzazione per studenti.

➢ Educare ad un uso consapevole e responsabile della Rete, far capire quali sono i comportamenti
che umiliano gli altri e la differenza fra scherzo e umiliazione, far capire i rischi anche legali.

➢ Politica di informazione per i genitori.

➢ Promuovere benessere e diminuire malessere.

BULLISMO MISTO
È l’unione di bullismo tradizionale e cyberbullismo. In genere vengono filmati e condiviso online gli
attacchi perpetrati in presenza a scuola.
BULLO GRAVEMENTE VIOLENTO (SVO)
Bullo ferocemente aggressivo, che segue come movente il puro piacere per la violenza fisica.

Spesso assume il carattere criminale e incorre in violenza sessuale, aggressione aggravata e


omicidio.

In genere è una persona antisociale o socialmente esclusa. L’aggressività esibita è una


manifestazione della sua natura antisociale. In questo modo, diventa ancora più impopolare nel suo
contesto sociale, aggravando quindi la propria antisocialità.

Il rischio inizia nelle prime fasi di sviluppo, sotto forma di avversità prenatale e perinatale (fumo
materno o abuso di droghe).
Ambiente familiare:
• genitori criminali,
• episodi vissuti o assistiti di violenze / maltrattamenti,
• legami familiari poveri,
• eventi familiari stressanti.
Questi primi fattori di rischio si ripercuotono nell’adolescenza, prendendo parte a uno stile di vita
criminale, e manifestando bassi livelli di autocontrollo.

STRATEGIE DI INTERVENTO:
➢ Strategie sensibili e orientate verso i problemi degli aborigeni, che dovrebbero essere analizzati
nel loro contesto storico.
Esempio: i trattamenti per questo gruppo potrebbero essere più efficienti utilizzando gruppi di
terapia con aborigeni, in cui vengono coinvolti ad esempio gli anziani.

➢ Prevenzione e individuazione precoce tramite strumenti di valutazione del rischio (come il


Cracovia Instrument), per identificare i bambini che nei primi stadi dello sviluppo sono a rischio.

➢ Favorire un clima di inclusione.


RELAZIONE EDUCATIVA

Dopo averne parlato indirettamente, finalmente possiamo formalizzarla.


Paulo Freire, l’altro gigante della Pedagogia del ‘900 insieme a Dewey, si occupò della Relazione
Educativa, e il suo pensiero è legato all’impegno sociale per il riscatto delle classi povere in America
Latina e Africa.

Freire criticò i due principali modelli di Relazione Educativa vigenti all’epoca:


• “Educazione bancaria”: educazione trasmissiva unilineare e contenutistica, l’educazione
consiste in un trasferimento di conoscenze da parte del docente e acquisizione da parte dello
studente, come una transazione bancaria. Conta solo la teoria.
• “Spontaneismo”: filone della Pedagogia attivista, che parte dall’esperienza e dagli interessi degli
educandi, lasciandoli agire spontaneamente e apprendere spontaneamente la realtà. Conta solo
la pratica. (Non confondere col Costruttivismo, il quale implica un successivo carattere
epistemologico, che nello spontaneismo manca).
L’educazione è molto più complessa, è molto facile cadere in uno dei due poli.

Freire guarda la Relazione Educativa come PEDAGOGIA DEL DIALOGO:


L’insegnamento e l’apprendimento sono parte di una dialettica attiva tra insegnamento e
apprendimento: non un semplice “conversare”, bensì un’indagine di carattere epistemologico verso
la conoscenza, che si attua in un circuito di azione e trasformazione.
Lo scopo è giungere alla “coscientizzazione”: una presa di coscienza critica e attiva sugli oggetti
della conoscenza.
Precisamente:
• Un’educazione critica non lascia i soggetti nel loro stato di spontaneo apprendimento (cioè
accontentandosi di ciò che apprendono immediatamente): la realtà è un oggetto conoscibile
rispetto al quale va assunta una posizione epistemologica, un atteggiamento di esplorazione
(indagare cause, meccanismi…). Quindi l’educazione va oltre il mero spontaneismo.

• Un’educazione attiva non assume una posizione “falsamente intellettuale” (cioè meramente
conoscitiva): mira non solo a conoscere la realtà (acquisendo semplicemente dei contenuti
teorici), ma anche a trasformare la realtà. Il mondo è in continuo divenire, quindi il soggetto deve
agire per trasformarlo. Quindi l’educazione non è meramente trasmissiva, è un atto politico.

È una visione politica: i suoi primi destinatari erano i contadini analfabeti che dovevano prendere
coscienza della propria condizione di oppressione. La vera difficoltà non sta nell’oppressione
“esterna”, bensì l’oppressione “interiorizzata”: ritenere che la condizione di oppressione sia naturale,
derivante dalla nascita. Acquisendo coscienza critica della propria condizione, si supera lo status
quo. L’apprendimento spontaneo implicherebbe che i soggetti apprendano la realtà guardandola
attraverso le “categorie” dei loro oppressori, senza nemmeno accorgersene.

La relazione dialettica è una condivisione di esperienze, riflessioni e azioni.


DIFFERENZE TRA CONVERSAZIONE SEMPLICE E DIALETTICA DI FREIRE:
• Conversare significa dare per scontate le definizioni delle cose, non le indaghiamo, non
assumiamo una posizione epistemologica, perché lo scopo del conversare è un altro:
condividere esperienze per creare legami sociali. La semplice conversazione è un risolutore
sociale.
• La dialettica di Freire è un dialogo critico di carattere epistemologico, un percorso di esplorazione
della realtà, che prevede una posizione attiva da parte di tutti i partecipanti, al fine di trasformare
la realtà.

Il dialogo si radica nella dimensione ontologica dell’essere umano (il suo modo di essere), è la
massima espressione di alcune caratteristiche peculiari dell’uomo:
• l’uomo è costitutivamente immerso in relazioni sociali;
• l’uomo è un essere storico: ogni uomo può intervenire consapevolmente e riflessivamente per
il cambiamento della storia (“Pedagogia della speranza”).
La storicità non ha né accezione meccanica (la storia è una catena di cause ed effetto in cui
l’uomo non può intervenire) né accezione idealistica (la storia riguarda solo i grandi uomini):
queste due accezioni appartenevano alla “Pedagogia della rassegnazione”.

RUOLO DELL’INSEGNANTE:
Non mira a modellare i soggetti che apprendono, altrimenti cadrebbe nella sfera degli oppressori!
La relazione educativa vive nella dialettica fra insegnamento e apprendimento:
• l’insegnante è un attivatore di azione e riflessione,
• ma non è in posizione asimmetrica rispetto ai soggetti che apprendono: nella relazione dialettica
anche l’insegnante apprende alcuni aspetti e si lascia educare, prendendo coscienza della sua
condizione in divenire. Confronto critico intergenerazionale!

L’insegnante non è un semplice facilitatore.


Ancora prima del Costruttivismo, lo Spontaneismo iniziò a mettere da parte l’insegnante.
Freire era contrario: se l’insegnante fosse solo un facilitatore, e se i soggetti apprendessero
spontaneamente, non apprenderebbero la complessità delle cose!
➢ Ci sono momenti in cui l’insegnante ha una sua autorità, che non è quella dell’educazione
bancaria: semplicemente innesca un processo di riflessione nell’educando, per farlo uscire
dall’apprendimento spontaneo, fargli osservare che in quel modo acquisirebbe delle categorie
che non sono sue, perché le ha apprese da un ambiente opprimente. Questa forma di autorità
non è negazione di libertà, al contrario è condizione di libertà!
➢ Poi ci sono momenti in cui l’insegnante parla con l’educando, apprendendo a sua volta,
raggiungendo una condizione di parità con l’educando.
Nessuna delle 2 situazioni vede l’insegnante come un facilitatore: c’è una relazione educativa basata
sulla dialettica fra insegnamento e apprendimento! Non conta solo l’apprendimento, conta lo spazio
in cui si condividono esperienze, riflessioni e azioni, al fine di intervenire sulla storia.
RUOLO DELLA SCUOLA:
La scuola deve diventare uno spazio di dialogo critico e attivo.

Vanno abbandonate le lezioni frontali trasmissive unilaterali. Però non deve diventare nemmeno un
luogo di semplice conversazione, altrimenti si creerebbe un ambiente di semplice benessere in cui
però non c’è carattere epistemologico, sarebbe un presupposto all’educazione che ancora non è
pienamente educazione.
In Pedagogia bisogna sempre porsi la domanda: questa attività è educativa? Tutte le esperienze
sono formative, ma non tutte sono educative!

Gli attuali contesti scolastici non sono ancora dialogici!


ESEMPIO DI CONTESTO DIALOGICO: non dare per scontato il libro di testo, insegnare agli studenti ad
essere critici nei confronti del testo, ad immaginare altri punti di vista. E anche il docente stesso deve
continuamente porsi in maniera critica rispetto al testo che lui stesso ha scelto e preferito!

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