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LO PSICOLOGISMO COME SCETTICISMO

Problemi come quello della corrispondenza fra la realtà e il nostro pensiero muovono
l’itinerario filosofico di Edmund Husserl, che si avvia dalla necessità di prendere posizione
rispetto a un clima culturale caratterizzato dall’affermarsi di quello che chiamerà
“psicologismo”: una tendenza che riconduceva ogni prodotto del pensiero e ogni sua pretesa
di validità alla struttura della psiche. Questo ovviamente comportava una dissoluzione dei
problemi filosofici gnoseologici, in quanto ogni teoria della conoscenza veniva ricondotta a
certe regole del pensiero; conseguentemente, se i nostri pensieri non sono altro che eventi
psichici della nostra mente, anche la logica viene ricondotta alla psicologia. Così, come del
resto sosteneva Stuart Mill, noi pensiamo conformemente a certi principi logici solo perché
siamo fatti in un certo modo. Quindi, la validità di un principio logico, come quello di non
contraddizione, non testimonia una validità assoluta, semplicemente l’impossibilità fattuale
di pensare diversamente per un soggetto strutturato in una certa maniera. Questa
impostazione, piuttosto riduzionistica, che riconduce le leggi logiche e dell’oggettività in
generale alle regole che governano biologicamente la struttura del cervello, opera una
dissoluzione del concetto stesso di realtà e la negazione dell’idea di vero e di falso; nulla è
più vero o falso, ma tutto relativo a una determinata struttura cerebrale. La conseguenza
naturale dello psicologismo è dunque lo scetticismo, che deve sempre, in qualsiasi sua
variante, dissolvere l’autonomia e l’assolutezza della nozione di verità.
LO STORICISMO COME RELATIVISMO E L’ASSURDITÀ DI OGNI
SCETTICISMO
Conseguenze simili a quello dello psicologismo derivano da un’altra variante dello
scetticismo che è, secondo Husserl, lo storicismo. In Filosofia come scienza rigorosa egli
cerca di mostrare come anche un’impostazione che intendesse radicare troppo strettamente
il pensiero nel contesto storico in cui esso sorge avrebbe come conseguenza la negazione
dell’idea di universalità, dunque la liquidazione dell’idea stessa di filosofia, disciplina che,
invece, tende al raggiungimento di una verità universale, valida per tutti gli uomini,
indipendentemente dal variare delle epoche storiche. Husserl così comincia col rammentare
che anche le concezioni scientifiche sono delle formazioni culturali che vengono alla luce
nel corso dello sviluppo umano. Dunque, se si nega la pretesa della filosofia di giungere a
una verità a causa della sua storicità, lo stesso si dovrebbe dire delle teorie scientifiche. Al
contrario, per Husserl bisogna distinguere, invece, l’atto del valutare, che fluisce e passa, e
la validità oggettiva, quindi la scienza come fenomeno culturale e la scienza come sistema
di teorie valide. Quando qualcuno enuncia qualcosa lo fa certo a partire dalla sua epoca;
tuttavia, nella misura in cui il suo enunciato avanza una pretesa di verità, esso si libera dai
suoi stessi limiti storici e si espone a una critica di validità puramente razionale.
Husserl prende così le mosse per contestare l’idea, caratteristica del relativismo, secondo
cui non è possibile alcuna concezione filosofica, cioè razionale, del reale, ma solo concezioni
del mondo relative. Ora, secondo Husserl, per quanto ciò possa persino essere un’ovvietà
del senso comune, essa non ha alcun rigore, poiché, dalla constatazione che sinora non è
esistita alcuna filosofia scientifica non di può dedurre che non possa esistere. Finché ci
furono norme che si presumeva avessero un significato assoluto, il solo ed unico problema
vitale era quello di soddisfare le norme stesse. Ma nel mondo contemporaneo, nella misura
in cui queste norme sono state investite dalla scepsi, sorge il bisogno di orientarsi e di
armonizzare le contraddizioni della vita costruendosi una concezione del mondo, una propria

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Weltanschauung. Proprio una tale concezione scettica storicista lascia insoddisfatto Husserl,
che invece concepiva la storia come il luogo in cui si rivela la verità. In ogni caso, sia lo
psicologismo sia lo storicismo sono ritenuti degli scetticismi, e ogni scetticismo non solo è
falso, ma assurdo. Sia per lo storicismo sia per lo psicologismo infatti «è implicito che lo
stesso contenuto giudicativo può essere vero per qualcuno, falso per qualche altro. Ma il
medesimo contenuto giudicativo non può essere al tempo stesso vero o falso». Dunque,
secondo Husserl, a differenza di quanto pensa lo psicologista, logica e psicologia occupano
due luoghi diversi all’interno del sistema delle scienze: la logica si occupa del contenuto di
senso, e si pone il problema della sua verità o falsità, mentre la psicologia ha a che fare con
i vissuti psichici concreti di un individuo determinato e cerca di delimitare le regole che
presiedono al funzionamento di una concreta psiche umana.

LA FILOSOFIA COME SCIENZA RIGOROSA


PREFAZIONE
Le scienze dell’età moderna hanno gradualmente usucapito per sé questioni appartenute
un tempo al dominio della filosofia al punto che diventa inevitabile la domanda circa ciò che
rimane, in tale situazione, alla filosofia. Nelle Ricerche logiche Husserl, parallelamente a
quanto ritiene Heidegger, constata proprio come lo straordinario sviluppo della scienza
matematica l’ha resa «l’unica forma scientifica». Ma il matematico e lo scienziato in genere
difettano, nonostante la potenza tecnica che sono in grado di esprimere, della «comprensione
ultima dell’essenza della teoria come tale e delle leggi e concetti che la determinano». La
funzione della filosofia viene da Husserl recuperata col riconoscimento del fatto che, ferme
restando le prerogative dello scienziato specialista, spetta alla filosofia realizzare la
comprensione del senso e dell’essenza delle operazioni compiute dallo scienziato stesso.
Così «se la scienza costruisce teorie per la soluzione sistematica dei suoi problemi, il filosofo
chiede che cosa sia la scienza della teoria, che cosa renda possibile la teoria in generale,
ecc.». La prospettiva dei Prolegomeni concilia le funzioni rispettive della scienza e della
filosofia. Nelle cinque lezioni intitolate Idea della fenomenologia Husserl affronterà proprio
il tema del posto della filosofia nel mondo del sapere distinguendo fra un atteggiamento
naturale e un atteggiamento filosofico. Il primo è comune allo scienziato e al non scienziato:
c’è atteggiamento naturale tutte le volte che ci collochiamo innanzi alle cose e le assumiamo,
sia a fini conoscitivi che a fini pratici, come ovvietà dalle quali prendere le mosse senza,
però, metterne in discussione l’essenza e il senso. La diversità dell’atteggiamento filosofico
consiste nel rendere problematico ciò che, nell’atteggiamento naturale, resta congelato nella
ovvietà. Il compito è dunque quello di trasformare la conoscenza da mera operazione, i cui
termini di riferimento non sono indagati al di là della procedura operativa stessa, in oggetto
di una ricerca che si interroghi su ciò che nell’atteggiamento naturale è dato semplicemente
per scontato e che si interroghi perciò sulla natura del conoscere e sui rapporti intercorrenti
tra la conoscenza, il suo senso e il suo oggetto e, infine, sulla validità degli atti conoscitivi.
La filosofia intesa come critica della conoscenza, in relazione alle scienze della natura e alle
scienze dello spirito, riporta le tesi husserliane, pur con le dovute differenze, alla teoria della
trascendentalistica kantiana e neokantiana.
La filosofia come scienza rigorosa ha un taglio fortemente polemico: la fenomenologia
vi è chiamata a confrontarsi con le tendenze dominanti della filosofia coeva, il naturalismo
e lo storicismo, se ne propone come avversaria intransigente. Rispetto alle soluzioni date nei
Prolegomeni e ne L’idea della fenomenologia, il rapporto tra scienza e filosofia è ora più

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problematico. Non si tratta solo di comporre scienza e filosofia in una pacifica divisione del
lavoro. Ciò che a Husserl preme di mettere in evidenza è la pretesa della filosofia di essere
scienza rigorosa e, precisamente, la scienza in grado di soddisfare le più elevate esigenza
teoretiche e di rendere possibile una vita regolata da pure norme razionali. Husserl vuole ora
denunciare la posizione di scacco in cui la filosofia è incorsa per non essere riuscita a
realizzarsi come scienza rigorosa, ma, altresì, vuole ora denunciare il pericolo rappresentato
per la civiltà dal venir meno, nella pratica della scienza, oltre che della stessa filosofia, della
esigenza della scienza rigorosa. La contestazione delle filosofie contemporanee del
naturalismo e dello storicismo origina dalla constatazione del loro illusorio credere di
attingere il massimo livello di concretezza nell’appoggiarsi alle scienze positive, ove domina
quello che Husserl chiama il «pregiudizio del fatto».
In questo saggio Husserl si riferisce chiaramente a Dilthey, quale rappresentante dello
storicismo, che insieme al naturalismo, fa cadere la filosofia al rango di una Weltanschauung,
ossia di una mera visione del mondo: così a essa resta affatto estranea l’istanza della scienza
rigorosa. L’itinerario filosofico husserliano risulta essere fortemente caratterizzato dalla
necessità di esorcizzare lo scetticismo. Husserl ha il bisogno teoretico, ma anche pratico e
morale, di sentirsi sostenuto da certezze e validità capaci di durare e tali da assicurare
chiarezza e stabilità.
Pensare la filosofia come fenomenologia, la fenomenologia come analisi della coscienza,
la coscienza come l’ultimo oltre il quale non è possibile regredire, è il modo tecnico con cui
Husserl tenta di arginare lo scetticismo. Ci si può chiedere se alla critica della scienza e delle
filosofie che si vincolano al pregiudizio del fatto non faccia riscontro una analoga ingenuità
in Husserl, che fa della coscienza un ultimo, cioè un assoluto non indagabile ulteriormente.
Sarà Husserl stesso a mettere in questione questo tema, ritenuto il vero e proprio dogma della
prima fenomenologia, risolvendolo in quella che sarà chiamato, a partire dagli anni Venti, il
mondo-della-vita, fonte di senso di ogni sapere e scienza.
Il significato dell’incontro fra filosofia e scienza e la realizzazione della filosofia in
scienza rigorosa sono chiarite proprio in questo saggio quando viene citata la frase di Rudolf
Lotze: «calcolare il corso del mondo non significa comprenderlo». Per questo il significato
e il compito della filosofia come scienza rigorosa è di impedire che la scienza resti
prigioniera del pregiudizio del fatto. Se al comprendere filosofico è riservato lo svelamento
degli enigmi del mondo della vita, ciò non implica una fuoriuscita dal campo della
razionalità. Riconoscere che, nel mondo e nella vita, c’è qualcosa di enigmatico non vuol
dire abdicare al dovere di comprenderlo e sopra tutto rinunciare alla ragione quale strumento
di comprensione.
In proposito va notata l’analogia sussistente fra i modi in cui Husserl e Heidegger
configurano rispettivamente il rapporto tra scienza e filosofia. Da La filosofia come scienza
rigorosa a La crisi delle scienze europee Husserl lo basa sul presupposto della diversità fra
il calcolare il corso del mondo e il comprenderlo. Heidegger istituisce il rapporto sul
presupposto del compimento della metafisica che si manifesta, da un lato, come
impossessamento della terra da parte della scienza ridotta a calcolo e della tecnica che
violenta la terra oltre le sue possibilità naturali, e dall’altro, con il rifiuto di andare col
pensiero all’essenza stessa della tecnica. Tuttavia, se Heidegger esclude che
l’organizzazione scientifica e tecnologica del mondo possa mai esser controllata interamente
dall’uomo, perché il suo senso non lo ha inventato l’uomo e la salvezza può darla solo un
dio in vista del cui avvento all’uomo non tocca altro che «restare in attesa». Secondo Husserl
la crisi odierna non è un oscuro destino, è piuttosto, decadere a naturalismo e obiettivismo
dell’essenza del razionalismo. Se non si vuole far giungere l’Europa al tramonto, con la

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caduta nella barbarie, è necessario farla rinascere attraverso un eroismo della ragione capace
di superare definitivamente il naturalismo, diretto verso «un’autocomprensione ultima
dell’uomo in quanto responsabile del suo essere umano».
LA FILOSOFIA COME SCIENZA RIGOROSA
Sin dai suoi primi inizi la filosofia ha avanzato la pretesa di essere scienza rigorosa e,
precisamente, la scienza in grado di soddisfare le più elevate esigenza teoretiche e di rendere
possibile, in prospettiva etico-religiosa, una vita regolata da pure norme razionali. Tuttavia,
in nessuna epoca del suo sviluppo la filosofia è stata in grado di soddisfare la pretesa di
essere scienza rigorosa. L’ethos proprio della filosofia moderna sta proprio nel desiderio di
costituirsi come scienza rigorosa, mediante una approfondita ricerca sul metodo. Ancora
oggi tuttavia è controverso in quale relazione stia la filosofia con le scienze, se il suo campo
di indagine sia uguale o diverso rispetto a quello delle scienze empiriche. La filosofia non
ha dunque ancora raggiunto il rango di scienza, neppure di una scienza imperfetta. Tutte le
scienze infatti sono imperfette, da un lato perché incomplete, da un altro lato perché
presentano residui di oscurità nell’ordine sistematico delle loro dimostrazioni, ma tutte
presentano comunque un contenuto dottrinale oggettivo e certo. Mentre la filosofia non
dispone affatto di un sistema dottrinale: «ogni cosa è qui messa in discussione, ogni presa di
posizione è materia di convinzioni individuali, di interpretazioni di scuola, di “punti di
vista”».
Da sempre il procedere filosofico è guidato dall’idea di formare una scienza rigorosa.
Nella storia il pensiero si concentra dapprima nel chiarire in maniera decisiva le condizioni
della scienza rigorosa che la filosofia fino a quel momento non aveva scorto. Una simile
volontà di scienza rigorosa domina la svolta socratico-platonica della filosofia e, all’inizio
dell’età moderna, le reazioni scientifiche contro la scolastica, in particolare la svolta
cartesiana. Il suo impulso si estende alle grandi filosofia del XVII e XVIII, si rinnova con la
filosofia di Kant e Fichte. Nella filosofia romantica si assiste a un mutamento, Hegel infatti
manca di una critica della ragione che prima fra tutte renda possibile la scientificità
filosofica, questo ne ha causato sia un indebolimento sia una falsificazione. Col
rafforzamento delle scienze esatte l’hegelismo provocò delle reazioni in seguito alle quali il
naturalismo del XVIII ottenne un grande impulso, col suo scetticismo abbandonante ogni
verità assoluta. Dall’altro lato, nella direzione di un indebolimento nella filosofia
dell’impulso scientifico, la filosofia hegeliana ebbe ripercussioni a causa della sua dottrina
secondo cui ogni filosofia ha una legittimità relativa alla sua epoca. Questa concezione
storicista aveva in Hegel ovviamente tutt’altro senso, in quanto strettamente connessa alla
fede per una filosofia assoluta.
LA FILOSOFIA NATURALISTA
Il naturalismo è un fenomeno conseguente alla scoperta della natura intesa come unità
dell’essere spazio-temporale regolato da leggi. In modo del tutto simile si è sviluppato lo
storicismo. Lo specialista delle scienze della natura tende a cogliere tutto come natura,
mentre lo specialista delle scienze dello spirito tutto come spirito, come formazione storica,
fraintendendo ciò che non può essere inteso in questo modo. Pertanto il naturalista non vede
null’altro che natura e anzi tutto natura fisica. Ciò che è, o è di per se stesso fisico,
appartenendo alla connessione unitaria delle leggi fisiche, oppure è psichico, ma così è solo
una variante dipendente dal fisico: tutto è così dipendente e determinato da una rigida
legalità. «Ciò che caratterizza ogni forma di estremo e conseguente naturalismo è da un lato

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la naturalizzazione della coscienza, incluse tutte le datità di coscienza intenzionali-
immanenti, e dall’altro la naturalizzazione delle idee e con ciò di ogni ideale e norma
assoluta». In riferimento a questo il naturalismo, come ogni teoria scettica, nega se stesso.
Afferma Husserl che infatti si può sostenere che il naturalista è nella sua condotta idealista
e oggettivista: egli infatti è preso dallo sforzo di conoscere scientificamente cosa sia verità
autentica in ogni campo, estetico ed etico, pone oggettivamente dei valori, ai quali deve
attenersi ogni valutare, e pone delle regole pratiche, in base alle quali agire. Grazie alla
scienza della natura e alla filosofia scientifico-naturale egli crede di aver sostanzialmente
raggiunto lo scopo. Egli è però un idealista, che pretende di fondare teorie che negano
proprio ciò che egli presuppone nella sua condotta idealistica. Egli pone cioè oggettivamente
dei valori (scientifico-obiettivisti) ai quali deve attenersi ogni valutare, e pone regole pratiche
dell’agire; ma egli poi nega ciò che ogni predica, ogni istanza in quanto tale presuppone in
base al proprio senso.
«I pregiudizi accecano e chi vede soltanto fatti di esperienza e concede validità intrinseca
solo alla scienza che poggia sull’esperienza, non si sentirà molto turbato da conseguenze
assurde che nell’esperienza non possono che dimostrarsi contraddittorie rispetto ai fatti della
natura». Per Husserl è infatti un errore grave voler pensare la scienza rigorosa solo come
scienza positiva. Non vi è in tutto il corso del pensiero moderno un’idea di progresso più
potente e inarrestabile dell’idea di scienza, che tuttavia ingloba in sé anche gli ideali teoretici,
assiologici o pratici, falsificandoli e travisandoli in senso empiristico.
Se ci si chiede quale sia la filosofia esatta, quale sia l’analogon della meccanica esatta,
veniamo ricondotti alla psicologia psicofisica e più precisamente alla psicologia
sperimentale: la logica, la gnoseologia, la metafisica, l’estetica, l’etica e la pedagogia
avrebbero finalmente ottenuto il fondamento scientifico nella psicologia.
A tutto ciò Husserl obietta anzi tutto il fatto che «deve essere compreso in maniera
evidente che la psicologia in generale, in quanto scienza di fatti, preda del pregiudizio del
fatto, non è in grado di fornire i fondamenti per quelle discipline filosofiche che hanno a che
fare con i principi puri di ogni istanza normativa». «Ogni scienza naturale è nei suoi punti di
partenza ingenua. Per essa la natura che intende ricercare c’è semplicemente». Compito della
scienza è, secondo Husserl, percepire e descrivere le ovvietà date e descriverle attraverso
giudizi d’esperienza. Il compito della psicologia è indagare scientificamente lo psichico, da
intendersi non come un mondo a sé, ma come connesso nell’esperienza ai corpi, scoprendo
le legalità che regolano il suo formarsi e trasformarsi, il suo apparire e venire meno. Da
queste considerazioni, e dalla connessione dello psichico col fisico, Husserl fa conseguire
che: «se vi dovessero essere argomenti decisivi in grado di dimostrare che la scienza fisica
della natura non può mai essere filosofia in senso specifico e che solo in virtù di una filosofia
che la preceda essa può ottenere valore filosofico ai fini della metafisica, allora tutti questi
argomenti dovrebbero trovare senz’altro applicazione alla psicologia. Tali argomenti non
mancano». Un esempio su tutti è l’«ingenuità» con cui la scienza assume la natura.
Certamente la scienza della natura è, a modo suo, assai critica. Per essa valgono ancora
ben poco le semplici esperienza isolate, ed è solo nell’ordinazione metodica e nella
connessione delle esperienze che l’esperienza valida si distingue da quella non valida. Ma
finché restiamo nell’ambito della scienza naturale è ancora indispensabile una critica
dell’esperienza di tutt’altro genere: una critica che ponga al tempo stesso in questione l’intera
esperienza in generale e il modo di pensare proprio delle scienze empiriche.
Così il campo di indagine e il compito della filosofia, intesa appunto come scienza
rigorosa, dunque della fenomenologia vengono illustrati da Husserl in un paragrafo brillante:
«come possa la coscienza, dare o incontrare un oggetto; come possano delle esperienza

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giustificarsi o correggersi reciprocamente e non soltanto invalidarsi o rafforzarsi
soggettivamente; come può un gioco della coscienza logico-esperienziale significare un che
di oggettivamente valido; per cose essenti in sé e per sé; perché per così dire le regole del
gioco della coscienza non sono irrilevanti per le cose; in che modo la scienza della natura
deve divenire in tutto e per tutto comprensibile, nella misura in cui essa pretende di posse e
conoscere in ogni suo passo una natura in sé essente». È così ovvia, da tutta questa serie di
problemi, l’assurdità di una teoria della conoscenza basata sulle scienze naturali. Attendersi
da esse la soluzione di ognuno dei problemi che la riguardano in quanto tale significa
muoversi all’interno di un circolo vizioso.
La riceva deve allora mirare a una conoscenza scientifica dell’essenza della coscienza, a
ciò che la coscienza stessa è in base alla sua essenza in tutte le sue forme distinguibili, inoltre
a ai differenti modi in cui essa intende un che di oggettuale. Ogni tipo di oggetto, che deve
diventare oggetti di un discorso razionale, di una conoscenza prescientifica e poi scientifica,
deve manifestarsi nella coscienza e deve, in conformità al senso di ogni conoscenza, lasciarsi
portare a datità.
Nella misura in cui ogni coscienza è «coscienza di», lo studio dell’essenza della coscienza
include anche quello del significato e dell’oggettualità della coscienza in quanto tali.
Studiare un qualsiasi tipo di oggettualità nella sua essenza generale significa sempre
analizzarne i modi di datità e dispiegarne appieno il contenuto essenziale. Ma d’altro canto
la chiarificazione dei tipi fondamentali di oggettualità è in ogni caso indispensabile per
l’analisi dell’essenza della coscienza: ciò vale solo in un’analisi gnoseologica, col compito
nella ricerca della correlazione. Questa scienza è appunto fenomenologia della coscienza,
che pur va considerata in intima relazione con la scienza naturale della coscienza, seppure
nella diversità dei loro atteggiamenti. Se la psicologia ha a che fare con la “coscienza
empirica”, colta nell’atteggiamento empirico, intesa come qualcosa che esiste nella
connessione della natura; di contro, la fenomenologia tratta della “pura” coscienza, vale a
dire della coscienza colta nell’atteggiamento fenomenologico.
Una ulteriore critica nei confronti della psicologia e al suo metodo naturalista è la
seguente: «gli psicologi ritengono di dovere tutta la loro conoscenza psicologica
all’esperienza. Tuttavia la descrizione delle ingenue datità d’esperienza e l’analisi
immanente che procede di pari passo con essa, nonché la loro comprensione concettuale,
sono ottenute mediante un insieme di concetti il cui valore scientifico è decisivo per tutti i
successivi passi metodici». Questi concetti rimangono intatti nel prosieguo della ricerca ed
entrano di conseguenza nei risultati finali, dunque anche in quei giudizi d’esperienza. Il loro
valore non può però essere dato né fin dall’inizio né derivare dall’esperienza. «Ed è qui che
interviene l’analisi fenomenologica d’essenza che, per quanto possa suonare strano allo
psicologo naturalista, non può essere un’analisi empirica».
Viene da sempre confusa «la convinzione, desunta dalla genesi della coscienza empirica,
che ogni rappresentazione concettuale “derivi” da esperienze precedenti, con la convinzione
del tutto diversa, secondo la quale ogni concetto trarrebbe dall’esperienza il fondamento
della legittimità di un suo possibile uso. Ciò significa che solo considerando ciò che è dato
realmente nelle percezioni e nei ricordi possono essere trovati i fondamenti della legittimità
della validità di un concetto. Nella descrizione noi facciamo uso di parole come percezione,
ricordo, rappresentazione di fantasia, enunciato ecc. Una sola di queste parole rivela una
enorme ricchezza di componenti, che attribuiamo a quanto viene descritto». Ma può avere
pretesa di esattezza una psicologia che lascia senza definizione scientifica quei concetti che
determinano i suoi oggetti? Non più di quanta ne avrebbe una fisica che si accontentasse dei
concetti comuni di peso, calore e massa.

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La questione di come l’esperienza naturale e confusa possa divenire esperienza
scientifica e possa giungere alla determinazione di giudizi di esperienza oggettivamente
validi, rappresenta la questione metodologica cardine di ogni scienza empirica. Se la fisica
ha compiuto il passo decisivo, dai vaghi concetti comuni ai concetti scientifici, con Galilei;
riguardo alla conoscenza dello psichico della sfera della coscienza, noi abbiamo sì la
psicologia «sperimentale-esatta», che si ritiene il corrispondente legittimo della scienza della
natura, ma si trova ancora in epoca pregalileiana. Essa non si rende conto che attribuisce
necessariamente ai suoi concetti puramente psicologici, dei quali ora non può fare più a
meno, un contenuto che non è unicamente tratto dall’esperienza, ma che al contrario gli è
applicato. La psicologia ha trascutato di approfondire la questione di come e per mezzo di
quali metodi quei concetti, che appartengono ai giudizi psicologici, possano essere portati
dallo stadio della confusione a quello della chiarezza e della validità oggettiva. Essa ha
trascurato di considerare in che misura lo psichico, anziché essere rappresentazione di una
natura, possegga un’«essenza» propria. «Non ha considerato che cosa risieda nel senso
dell’esperienza psicologica e quali esigenze l’essere psichico ponga da sé al metodo».
Troppo presa dal suo atteggiamento naturalistico, la psicologia ha trascurato di approfondire
la questione di come e per mezzo di quali metodi quei concetti possano essere portati dallo
stadio della confusione a quello della chiarezza e della validità oggettiva. «Essa ha trascurato
di considerare in che misura lo psichico, anziché essere rappresentazione di una natura,
possegga piuttosto un’essenza propria, che deve essere indagata rigorosamente prima di ogni
analisi psicofisica. La psicologia non ha considerato che cosa risiede nel senso
dell’esperienza psicologica e quali esigenze l’essere psichico ponga da sé al metodo».
Ciò che ha costantemente confuso la psicologia empirica fin dai suoi inizi nel XVIII
secolo, è dunque l’illusione di un metodo scientifico-naturale sul modello del metodo della
fisica e della chimica. Vi è la convinzione che il metodo delle scienze empiriche sia unico
nella psicologia come nelle scienze naturali. La situazione della psicologia, che confonde il
metodo delle scienze naturali, era già accaduta alla metafisica. Tuttavia Husserl sostiene, in
contrasto con i neokantiani, che «il vero metodo segue dalla natura delle cose da studiare,
non dai nostri pregiudizi e modelli precostituiti». Il modo in cui le datità dell’esperienza
giungono ad una determinazione oggettiva, il senso che di volta in volta hanno «oggettività»
e «determinazione dell’oggettività» e la funzione che può poi assumere il metodo
sperimentale, tutto ciò dipende dal senso proprio delle datità e dal senso che conferisce loro,
in base alla propria essenza, la relativa coscienza d’esperienza.
Natura in senso pregnante è unicamente il mondo dei corpi spazio-temporali. Ogni altro
essere individuale, vale a dire lo psichico, è natura in un secondo senso, e ciò determina
differenze fondamentali tra il metodo delle scienze naturali e il metodo della psicologia.
L’essere corporeo, quello spazio-temporale, è esperibile soltanto in una molteplicità di
esperienze dirette, quindi di percezioni, come un che di individualmente identico. Le
cosalità, presentandosi nell’esperienza in «apparizioni soggettive» molteplicemente
mutevoli, sono qui come unità temporali di proprietà perduranti o mutevoli. Esse sono ciò
che sono solo in questa unità, solo nella relazione causale o nella connessione reciproca esse
ottengono la propria identità individuale. Ogni cosa ha la sua natura in virtù del fatto che è
il punto d’unità di nessi causali all’interno dell’unica natura totale. Le cosalità sono però
date come unità dell’esperienza immediata, come unità di molteplici apparizioni sensibili.
Le invarianze, le trasformazioni e le relazioni di dipendenza ad esse connesse, che sono
coglibili sensibilmente, costituiscono il filo conduttore della conoscenza e fungono quale
vago medio in cui si rappresenta la natura vera, oggettiva, fisicamente-esatta. «La scienza
della natura si limita a seguire coerentemente il senso di ciò che la cosa stessa in quanto

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esperita pretende per così dire di essere, ed è ciò che essa chiama, in modo alquanto oscuro,
“esclusione dell’aspetto meramente soggettivo dei fenomeni” nel “mantenimento delle
restanti qualità primarie”».
Per quanto riguarda il mondo dello psichico ci si chiede anzi tutto se sia racchiusa in ogni
percezione dello psichico, così come nel senso di ogni esperienza fisica, un’oggettività-
«natura». Tuttavia le relazioni nella sfera dello psichico sono totalmente diverse rispetto alla
sfera fisica. Lo psichico, secondo Husserl, si divide, in senso metaforico e non metafisico,
in monadi che non hanno finestre e che sono in contatto fra loro solo per empatia. Il
fenomeno psichico, non è per principio un’unità che sarebbe esperibile come
individualmente identica in più percezioni distinte: nella sfera psichica non vi è alcuna
distinzione tra apparire ed essere. L’esperienza non può dirci che cosa «è» l’essere psichico
in quello stesso senso che vale per l’essere fisico. Lo psichico non è certo esperito come
qualcosa che appare; è un Erlebnis, intuito nella riflessione, che si manifesta come sé
mediante se stesso, in un flusso assoluto, come ora e già «svanente». Inoltre lo psichico può
anche essere un che di ricordato, in ricordi che sono uniti in una coscienza. In questa
connessione ciò che è a priori psichico può essere esperito come essente. Tutto ciò che è
psichico si ordina poi in una connessione comprensiva, in un’unità monadica della
coscienza, che non ha nulla a che fare con lo spazio, il tempo, la causalità, ma che possiede
forme proprie. È un flusso di fenomeni illimitato, attraversato da una linea intenzionale.
La questione che ora si pone è «se lo psichico non è possibile definirlo in un’identità
“oggettiva” come unità sostanziale di proprietà reali che devono costantemente essere
apprese, determinate e confermate nel modo delle scienze empiriche, che cosa è possibile
cogliervi come unità oggettiva?». Così se i fenomeni in quanto tali non sono natura, essi
hanno un’essenza che può essere colta in maniera adeguata in un’intuizione immediata.
L’incanto del naturalismo consiste anche nel fatto che esso rende a noi tutti così difficili
vedere “essenze”, “idee”, riconoscerle nel loro carattere specifico invece che naturalizzarle
in maniera assurda. Infatti se portiamo intuitivamente a piena datità il “colore”, ciò che èdato
è un’essenza. Nella misura in cui l’intuizione è un’intuizione pura l’essenza intuita è un che
di adeguatamente intuito. Il dominio della pura intuizione abbraccia dunque anche l’intera
sfera che lo psicologo fa propria quale sfera dei «fenomeni psichici», nella misura in cui egli
li prende puramente per se stessi, nella pura immanenza. Le “essenze” colte nella visione
d’essenza possano essere fissate in concetti stabili, per lo meno in misura considerevole,
rendendo possibili enunciati stabili. Le più piccole differenze di colore, le sfumature ultime,
possono sfuggire alla fissazione, ma la differenza fra “colore” e “suono” è sicura. Queste
essenze, che possono essere distinte e fissate in maniera assoluta, non sono soltanto quelle
dei “contenuti” sensibili, ma anche quelle di tutto ciò che è psichico in senso pregnante, di
tutti gli “atti” e stati dell’io, che corrispondono a ciò che è noto, con il nome di percezioni,
fantasia, ricordo, giudizio, sentimento, volontà. Restano qui escluse le “sfumature” ultime,
che appartengono a quanto di indeterminabile vi è nel flusso.
La visione d’essenza non è affatto «esperienza» nel senso della percezione, del ricordo o
di atti simili, e nemmeno una generalizzazione empirica, che include nel proprio senso la
posizione esistenziale dell’esserci individuale delle singolarità dell’esperienza. L’intuizione
coglie l’essenza come essere d’essenza e non pone in alcun modo un’esistenza. Pertanto la
conoscenza d’essenza non è conoscenza matter-of-fact, in quanto non implica il minimo
contenuto affermativo in riferimento ad una esistenza individuale. L’apprensione d’essenza
è un puro intuire, di genere diverso rispetto all’esperienza. Ogni giudizio che porta ad
espressione adeguata in concetti ciò che risiede nell’essenza, il modo in cui essenze di un
certo generi si connettono con altre, il modo in cui si uniscono, è una conoscenza assoluta,

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valida in generale e di un genere tale che sarebbe un controsenso volerlo giustificare,
confermare o contraddire mediante l’esperienza. Esso fissa una relation of ideas, un a priori
in quel senso autentico che Hume aveva certo davanti agli occhi, ma che gli sfugge a causa
della sua confusione positivistica fra essenza e idea. Il suo sensismo lo ha reso cieco di fronte
all’intera sfera dell’intenzionalità della «coscienza di», se egli l’avesse resa oggetto di una
ricerca d’essenza avrebbe fondato una teoria della ragione autenticamente positiva. Tutti i
problemi sollevati nel Treatise appartengono al dominio della fenomenologia, e debbono
essere risolti indagando le connessioni essenziali delle formazioni di coscienza, così come
di ciò che in esse è inteso e appartiene loro essenzialmente. Così vengono risolti i problemi
posti dall’identità dell’oggetto di contro alla molteplicità delle impressioni o delle
percezioni. La questione del modo in cui molteplici percezioni giungono a porre uno e lo
stesso oggetto, così che esso possa essere «lo stesso» per le stesse apparizioni e per la
coscienza di unità che le connette, è tale da potere essere chiarita e risolta mediante la ricerca
fenomenologica d’essenza. Voler risolvere tale questione empiricamente, al modo della
scienza naturale, significa fraintenderla rendendola assurda. Che una percezione sia
percezione proprio di quest’oggetto, con questo determinato orientamento, colore, forma, è
una cosa che riguarda la sua essenza. Che questa percezione si inserisca in una continuità
percettiva, non però in una a caso, nella quale costantemente «lo stesso oggetto si presenta
secondo un’orientazione di volta in volta diversa», tutto ciò riguarda di nuovo l’essenza.
Si trovano qui i vasti campi dell’analisi di coscienza, laddove il termine coscienza, come
quello di psichico, dovrebbe essere inteso in senso così ampio da poter designare tutto ciò
che è immanente, tutto ciò che è inteso dalla coscienza in quanto tale e in ogni senso.
Husserl a questo punto precisa l’oggetto della ricerca fenomenologica, d’una
fenomenologia trascendentale, che è ricerca d’essenza, non facendo uso di posizioni
esistenziali della natura. Questa ricerca può conoscere in modo oggettivamente valido solo
essenze e relazioni di essenze, e così compiere in maniera definitiva tutto ciò che è necessario
alla comprensione della conoscenza empirica: la chiarificazione dell’origine di tutti i principi
logico-formali e logico-naturali e di ogni altro principio guida. Ciò che bisogna fare è portare
alla luce da un punto di vista filosofico quali tipi di atti soggettivi permettono il manifestarsi
di un certo ambito di oggetti. Non si tratta ovviamente di mettere in luce alcune nostre
caratteristiche particolari ma, attraverso la riduzione eidetica, ciò senza cui un certo mondo
non potrebbe apparire a un soggetto in generale. Fermo restando che questa accentuazione
degli atti quali condizioni di possibilità dell’apparire non significa ridurre gli oggetti che si
manifestano agli atti nei quali si manifestano.
STORICISMO E FILOSOFIA DELLA «WELTANSCHAUUNG»
«Lo storicismo prende posizione nella sfera dei fatti concernenti la vita empirica dello
spirito e, nella misura in cui pone quest’ultima in maniera assoluta, senza però naturalizzarla,
sorge un relativismo che rivela la sua stretta parentela con lo psicologismo naturalistico e
che ricade in analoghe difficoltà scettiche». Ogni formazione spirituale, intesa nel senso più
ampio possibile, possiede la sua struttura interna, le sue forme tipiche. Tutto ciò che appare
fisso è una corrente di sviluppo. Se grazie all’intuizione interna ci caliamo nell’unità della
vita dello spirito, possiamo allora risentire le motivazioni che in essa operano e così
comprendere l’essenza e lo sviluppo della rispettiva forma dello spirito, nella sua dipendenza
dai motivi spirituali di unità e sviluppo. In questo modo quanto è storico diviene per noi
comprensibile, spiegabile. Lo stesso vale per la Weltanschauung che è strettamente legata a
queste forme dello spirito, e che quando assume le forme della scienza è di solito chiamata

~9~
filosofia. Obiettivo che si propone dunque Husserl è quello di studiare la struttura di queste
filosofie, rivivendole intimamente e comprendendone le motivazioni spirituali.
Husserl, citando un passo di Dilthey, rinviene i motivi che spingono lo storicismo nella
costatazione che dell’«anarchia dei sistemi filosofici. Ma ancor più in profondità delle
conclusioni scettiche, derivate dall’opposizione delle opinioni umane, giungono i dubbi che
sono sorti dallo sviluppo progressivo della coscienza storica. Di fronte allo sguardo che
abbraccia la terra ed ogni evento passato, svanisce la validità assoluta di ogni forma
particolare di concezione della vita, di ogni forma di religione e di filosofia. Così il formarsi
della coscienza storica distrugge, la credenza nella validità universale di ognuna di quelle
filosofie che hanno cercato di esprimere in maniera costringente, mediante una connessione
di concetti, la connessione del mondo».
Certamente, afferma Husserl, le Weltanschauung sono formazioni culturali e storiche, ma
se lo storicista afferma questo anche delle scienze rigorose, rifacendosi al mutamento delle
conoscenze scientifiche, è facile vedere come lo storicismo conduca all’estremo
soggettivismo scettico. Non vi sarebbe validità pure e semplici o «in sé», la quale è ciò che
è anche se nessuno può realizzarla e anche se nessuna umanità potesse mai nella storia
realizzarla. Neanche l’intera logica avrebbe più significato, perché tutti i suoi principi
potrebbero un giorno trasformarsi nel loro contrario. È necessario piuttosto distinguere fra
la scienza come fenomeno culturale e la scienza come sistema di teorie valide, per quanto
difficile sia comprendere la relazione fra valere fluente e validità oggettiva non si può ridurre
la seconda alla prima, sopra tutto la storia non può affatto decidere da sé, né in senso negativo
né in senso positivo se vi sia e quale sia la relazione fra idea e la sua confusa manifestazione.
L’affermazione incondizionata che ogni filosofia scientifica sarebbe una chimera,
giustificata col fatto che i tentativi condotti rendono verosimile l’impossibilità intrinseca di
una tale filosofia è erronea, non solo perché non sarebbe una corretta induzione inferire un
futuro illimitato da un paio di millenni di cultura superiore. Inoltre se la critica filosofica
trova qualcosa da confutare in modo valido, allora vi è anche un campo che permette di
giustificare qualcosa in modo oggettivamente valido: quando lo storicismo critica le filosofie
per la loro storicità diviene esso stesso filosofia. Ciò che inoltre afferma Husserl è che se ci
si cala in una formazione storicamente ricostruita si può ammirare meglio la «relativa
coerenza d’una filosofia e perdonargli le incoerenze derivanti da modificazioni e
trasformazioni di problemi, che sarebbero stati inevitabili a quello stadio della
problematica».
Husserl termina queste critiche contro lo storicismo – interpretato come un
fraintendimento gnoseologico – sottolineando il valore che ha la storia per il filosofo: la
scoperta dello spirito collettivo ha per lui la stessa importanza della scoperta della natura.
Si passa poi all’analisi della filosofia della Weltanschauung, figlia dello scetticismo
storicistico. Quest’ultimo si arresta di fronte alle scienze positive, cui accorda, con
l’incoerenza tipica di ogni scetticismo, una validità reale; la filosofia della Welstanschauung
presuppone l’insieme delle scienze particolari quale fonte di verità oggettiva, essa le
considera come proprie fondamenta.
Secondo la filosofia della Weltanschauung ogni grande filosofia non è soltanto un fatto
storico, ma riveste anche nello sviluppo della vita spirituale dell’umanità una fondamentale
funzione teleologica, in quanto cioè essa rappresenta la forma più elevata dell’esperienza
della vita, della formazione e della sapienza del proprio tempo. Nella misura in cui i motivi
culturali viventi dell’epoca sono oggetto non solo di una comprensione concettuale, ma
anche di uno sviluppo logico e di un’ulteriore elaborazione intellettuale, e nella misura in
cui i risultati così ottenuti sono portati a un’unificazione scientifica e ad una completezza

~ 10 ~
sistematica, si determina uno straordinario ampliamento e accrescimento di quella sapienza
originariamente incompresa. Sorge così una filosofia della “Weltanschauung”, che offre nel
migliore modo possibile una soluzione ed una soddisfacente chiarificazione alle discordanze
teoretiche, pratica e assiologiche della vita, ma essa muta col mutare della vita spirituale
dell’umanità. La filosofia della Weltanschauung offre anche un’arte del vivere, in quanto
aspirazione alla perfezione.
Si può però mostrare che riguardo all’idea di filosofia si debbono soddisfare altri valori
che da certi punti di vista sono superiori, vale a dire quelli di una scienza filosofica. Per la
coscienza moderna le idee di cultura o Weltanschauung e di scienza si sono separate
nettamente. Le filosofie del passato erano certamente filosofia della Weltanschauung nella
misura in cui erano dominate all’aspirazione alla sapienza, ma erano ugualmente filosofie
scientifiche. I due scopi, prima della costituzione di una universitas sovratemporale di
scienze rigorose, non erano affatto distinti. Ora gli scienziati lavorano all’imponente edificio
della scienza, consapevoli della sua infinità. Anche la Weltanschauung è un’«idea», ma è
l’idea di un compito finito, realizzabile, così com’è per la moralità.
Prima dell’avvento della scienza rigorosa l’aspirazione alla sapienza scientifico-naturale
non era del tutto ingiustificata, né viene successivamente discreditata in relazione alla sua
epoca. Nell’urgenza della vita, nella necessità pratica, l’uomo non poteva aspettare fino a
che esistesse la scienza. D’altro canto ogni scienza per quanto esatta offre un sistema solo in
parte sviluppato, circondato da un orizzonte infinito di scienza non ancora realizzata. Per
quanto riguarda la filosofia scientifica non si è ancora delineato nemmeno un inizio di
dottrina scientificamente rigorosa. La ricchezza dei fatti scientificamente “spiegati”
comporta di principio una dimensione di enigmi. Le scienze della natura non ci hanno svelato
in nessun singolo punto quegli enigmi che riguardano la realtà attuale, in cui viviamo, ci
muoviamo e siamo. La credenza che questa sia la loro funzione si è rivelata una
superstizione. La necessaria separazione tra la scienza della natura e la filosofia si sta
affermando e chiarendo. Per dirla con Lotze: «calcolare il corso del mondo non significa
comprenderlo».
«L’indigenza spirituale del nostro tempo è divenuta insostenibile». Soffriamo della più
radicale necessità di vivere, una necessità che non si arresta in nessun punto della nostra vita.
L’intera vita è un prendere posizione sottostà a un dovere. Ma finché le norme non vennero
contestate la sola questione riguardava il modo migliore di praticarle. Ma ora ogni norma è
messa in discussione o è falsificata e privata del proprio valore ideale. Naturalisti e storicisti
contribuiscono a travisare le idee in meri fatti e a trasformare l’intera realtà e l’intera vita in
un miscuglio incomprensibile di fatti privi di idee. «L’indigenza sorge qui dalla scienza. Ma
soltanto la scienza può superare in modo definitivo l’indigenza che da lei proviene». Se la
critica scettica dei naturalisti e degli storicisti riduce in un’assurdità l’autentica validità
oggettiva in ogni ambito del dovere, se vi sono concetti della riflessione oscuri e discordanti,
non vi è che un solo rimedio: una critica scientifica e, ancor più, una scienza radicale, che
proceda dal basso poggiando su fondamenta sicure e seguendo il metodo più rigoroso, vale
a dire la scienza filosofica che qui noi sosteniamo». Ovviamente a questo tipo di scienza
filosofica non appartiene né può appartenere la filosofia della Weltanschauung, che si pone
sempre solo scopi finiti e che vuole avere il suo sistema in tempo per poter viver con esso.
La Weltanschauung deve così rinunciare a porsi come scienza: essa infatti è il prodotto di
una personalità individuale, mentre la scienza è il risultato di un lavoro collettivo di
generazioni.
Per realizzare questa filosofia rigorosa, di cui la nostra epoca ha bisogno, considerata
della décadence, definizione che Husserl non condivide, proprio perché raramente nella

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storia si troverà un’epoca che mise in modo un simile insieme di forze attive, è necessario
liberarsi da quanto tramandato dedicandosi liberamente ai problemi stesse e alle esigenze
che ne derivano. Certo, la storia non va abbandonata, anzi è necessaria: ma come stimolo,
che proviene dal contenuto delle grandi filosofie passate, e non come luogo ove perdersi
nell’analisi. Dalle filosofie del passato scaturisce una vita filosofica, con la ricchezza e la
forza delle loro motivazioni viventi, ma non bisogna ancorati alla sola dimensione storica.
Bisogna piuttosto cercare di occuparsene in un’attività storico-critica. «Non dalle filosofie,
ma dalle cose e dai problemi deve provenire l’influsso della ricerca».

LA CRISI DELLE SCIENZE EUROPEE


LA CRISI DELLE SCIENZE QUALE ESPRESSIONE DELLA CRISI RADICALE DI
VITA DELL’UMANITÀ EUROPEA
La domanda con la quale si apre il testo è il famoso interrogativo se sia possibile parlare
in generale e seriamente di una crisi delle scienze nonostante i loro continui successi,
nonostante noi non cesseremo mai di ammirarle quali esempi di una scientificità rigorosa.
Esse, soprattutto nell’ultimo secolo, si sono evolute, ma questo non significa che prima non
erano ancora scientifiche e non fossero giunte a nozioni evidenti. Il rigore scientifico di tutte
queste discipline, l’evidenza delle loro operazioni teoretiche e dei loro successi sono fuori
discussione.
Tuttavia, procedendo da un altro ordine di considerazioni, cioè dalle diffuse lamentele
sulla crisi della nostra cultura e sul ruolo che in questa viene attribuito alle scienze, ci
possono venire incontro motivi per sottoporre a una critica seria le scienze, senza però
rinunciare al primo senso della loro scientificità, quel senso che è inattaccabile, data la
legittimità delle operazioni metodiche. Alla fine del Ottocento avviene un rivolgimento nella
valutazione generale delle scienze: esso non investe la loro scientificità bensì ciò che esse
hanno significato e possono significare per l’esistenza umana. Nella seconda metà del XIX
secolo, la visione del mondo complessiva dell’uomo moderno accettò di venir determinata
dalle scienze positive e questo significò un allontanamento da quei problemi che sono
sempre stati decisivi per un’umanità autentica. «Le mere scienze di fatti creano meri uomini
di fatto. Nella miseria della nostra vita – si sente dire – questa scienza non ha niente da dirci.
Essa esclude i problemi del senso o del non-senso dell’esistenza umana nel suo complesso».
Nel secondo paragrafo viene posto il tema critico fondamentale dell’opera: nello scarto fra
lo sguardo filosofico rivolto alle scienze e la certezza di sé delle scienze che si aprono
contestualmente lo spazio in cui una nuova filosofia rivendica la legittimità del proprio
rilievo della crisi delle scienze, e lo spazio entro cui questa crisi acquisisce il senso che le
scienze non vedono. Così si apre la possibilità di una critica della scientificità che non
intacchi la legittimità delle operazioni metodiche delle scienze positive.
Non sempre è stato così, la scienza non sempre ha inteso la sua esigenza di una verità
fondata nel senso di quella obiettività, che ora domina metodicamente le scienze positive e
che, andando al di là di esse, ha creato le basi e ha provocato la diffusione di un positivismo,
in cui gli interrogativi umani vengono banditi dal regno della scienza. Durante il
Rinascimento l’umanità europea si ribella contro i modi di esistenza medioevali,
recuperando ciò che considera essenziale dell’uomo antico: la capacità di dare liberamente
a sé stessa, a tutta la propria vita, regole fondate sulla pura ragione, sia dal punto di vista
teoretico sia dal punto di vista pratico. In questo periodo si vuole mettere in atto una
considerazione razionale del mondo, libera dai vincoli del mito e della tradizione.

~ 12 ~
La forza di propulsione scaturita dalla fede di una filosofia universale smarrì il suo ideale
e non comprese la portata del suo metodo: innanzi tutto per il contrasto fra gli insuccessi
costanti della metafisica e l’entità sempre più poderosa dei successi teoretici e pratici delle
scienze positive.
La filosofia divenne un problema per sé stessa, il problema della possibilità di una
metafisica. L’ideale della filosofia universale costituisce la fondazione originaria dell’epoca
moderna in filosofia; ma, invece di realizzarsi quest’ideale conosce un’intima dissoluzione.
Ma ciò significa che tutte le scienze finiscono col trovarsi in una crisi; che non investe i
successi teoretici e pratici della specializzazione professionale, ma che tuttavia ne scuote il
senso della loro verità. La scepsi rispetto alla possibilità di una metafisica indica il crollo
della fede nella «ragione», ragione intesa nel senso in cui gli antichi contrapponevano
l’episteme alla doxa. Ragione intesa come ciò che conferisce un senso a tutto quanto si
suppone essente, a tutte le cose, valori, fini. Cade così la fede in una ragione che dia senso
al mondo. Dunque il problema della possibilità della metafisica implica eo ipso anche quello
della possibilità delle scienze di fatto, che nella unità della filosofia avevano senso di verità
valide per determinati settori dell’essere. «È possibile separare la ragione e l’essente se è
proprio la ragione che, nel processo conoscitivo, determina ciò che l’essere è?».
L’unico modo per portare la metafisica, la filosofia universale, sulla via laboriosa della
propria realizzazione è quello di portare la ragione latente all’auto-comprensione, alla
comprensione delle proprie possibilità, dunque alla possibilità di una metafisica. Questo
dovrà essere compiuto anche attraverso un’analisi anche storica. Solo così si capirà se quel
telos che è innato nell’umanità europea dalla nascita della filosofia greca, e che consiste nella
volontà di essere un’umanità fondata sulla ragione filosofica, nel perseguimento infinito
dell’auto-normatività attraverso questa sua verità umana, sia una mera follia storica, oppure
se nell’umanità greca non si sia rivelata quell’entelechia che è propria dell’umanità come
tale.
L’ORIGINE DEL CONTRASTO MODERNO TRA OBIETTIVISMO
FISICALISTICO E SOGGETTIVISMO TRASCENDENTALE
Occorre anzi tutto comprendere il mutamento dell’idea e dei compiti della filosofia, che
avvenne in epoca moderna al momento della riadozione dell’idea antica. «È vero che già gli
antichi, guidati dalla dottrina platonica delle idee avevano già idealizzato i numeri empirici,
le misure di grandezza, le figure spaziali». Ma la geometria euclidea conosce solo compiti
finiti, un a-priori finito e chiuso: l’antichità non riesce a riconoscere la possibilità di un
compito infinito. La grande novità è costituita dalla concezione dell’idea di una totalità
infinita dell’essere e di una scienza razionale che lo domina razionalmente. Questo mondo
infinito, questo mondo di idealità è concepito in modo tale che i suoi oggetti non possono
essere attinti singolarmente come casualmente dalla nostra conoscenza: esso può esser
raggiunto solo da un metodo razionale.
Per il platonismo, dunque per la geometria antica, il reale partecipava all’ideale. Ciò fornì
alla geometria antica la possibilità di una applicazione diretta alla realtà. Nella
matematizzazione galileiana della natura questa stessa realtà viene idealizzata sotto la guida
della nuova matematica. L’analisi fenomenologica si concentra dunque sull’analisi della
piena espansione e radicalizzazione matematizzante che fa del mondo una rete di idealità.
Nel mondo circostante intuitivo si esperiscono anzi tutto «corpi», non entità geometrico-
ideali. Le cose del mondo intuitivo sono di natura imperfette, ma la progressione tecnica
sposta sempre più in là il modello del perfezionamento delle figure geometriche. Accanto

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alla prassi reale si va a costituire una prassi ideale del pensiero puro. Questa prassi
matematica permette di attingere a ciò che nella prassi empirica è negato: l’esattezza, perché
le forme ideali possono esser riconosciute come substrati di qualità assolutamente identiche
e univocamente determinabili. Al riguardo la pratica della misurazione è emblematica del
procedere scientifico: essa ha la propria origine nel mondo-della-vita. La misura nasce
dall’interno dell’universo empirico, trapassando poi nell’universo idealizzato del pensiero
geometrico. La questione centrale è come l’obiettività venga attinta tramite una prassi il cui
materiale è costituito dalle rappresentazioni imperfette delle cose. L’idealizzazione è
appunto questa anticipazione della serie vuota delle fasi del progressivo perfezionamento
della rappresentazione di una cosa e insieme del riempimento di tale serie anticipata.
Se i concetti empirici e molto limitati della prassi tecnica avevano motivato
originariamente quelli della geometria pura, ormai, da parecchio tempo, la geometria, in
quanto applicata, era divenuta un mezzo della tecnica e la guidava nella concezione e
nell’adempimento dei suoi compiti: in particolare del compito di elaborare sistematicamente
una metodica della misurazione per la determinazione obiettiva delle forme in un costante
avvicinamento agli ideali geometrici. Galileo così partì dal modo in cui la geometria, nella
sfera del mondo sensibile, contribuisce a un’univoca determinazione per superare la
relatività dell’apprensione soggettiva. Così, pur partendo da ciò che è dato empiricamente,
attraverso astrazioni conosciamo veramente un essente in sé. Galilei però non comprende il
fatto che prende le mosse entro l’universo pratico del «mondo sensibile pre-geometrico». A
sua volta viene a svilupparsi una concezione unitaria del mondo, nel suo costante mutare. Le
cose del mondo circostante intuitivo hanno le loro “abitudini”, modi analoghi di comportarsi
in circostante analoghe. Così il nostro mondo circostante empiricamente intuitivo ha un suo
stile empirico complessivo. Anche se noi possiamo pensare questo mondo fantasticamente
mutato necessariamente ce lo rappresentiamo nello stile in cui abbiamo il mondo e in cui
l’abbiamo avuto sinora. Ci si rende conto in questo modo che le cose e gli eventi non si
manifestano arbitrariamente, che bensì sono legate a priori dalla forma invariabile del
mondo intuitivo. Attraverso una regolamentazione universale causale, tutto ciò che è
insieme nel mondo ha un’inerenza reciproca generale, per cui il mondo non è una totalità,
ma un’unità totale, un tutto. La matematica ha creato una totalità infinita di oggettualità
ideali; attraverso la idealizzazione essa ha mostrato come un’infinità di oggetti empirico-
relativi siano pensabile mediante un metodo onnicomprensivo, come quest’infinità sia
un’infinità preliminarmente definita, per poi ridiscendere dal mondo delle idealità a quello
empirico-intuitivo.
Si rimane, tuttavia, sul terreno delle astrazioni geometrico-matematiche che, per quanto
applicabili al mondo, restano l’espressione di quel che l’astrazione significa in quanto sia
comunque un distanziamento dal mondo concreto. Galilei compie così il passaggio
all’«episteme del concreto», alla matematizzazione dei «plena», delle qualità sensibili. In
quanto mondo, esso ha dunque una forma totale che abbraccia tutte le forme, e questa forma
è idealizzabile e dominabile attraverso la costruzione. Ma le configurazioni che sono fondate
puramente in esse non sono analogie delle forme spazio-temporali, non sono articolate in
una forma del mondo che sia loro propria. Le qualità specificamente sensibili sono
apparentate e regolate in un modo del tutto particolare con le forme che ineriscono loro per
essenza. Da un lato attraverso la forma universale del mondo è predeterminata a priori la
forma spazio-temporale, in quanto include tutti i corpi; dall’altro lato nei corpi reali le forme
fattuali esigono sempre plena fattuali e viceversa; dunque esiste un genere di causalità
generale. Per quanto riguarda la matematizzazione indiretta del lato del mondo che in sé non
ha una forma matematizzabile, essa è pensabile soltanto nel senso per cui le qualità

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specificamente sensibili ed esperibili dei corpi intuitivi (i plena) sono apparentati e regolati
in un modo del tutto particolare, con le forme che ineriscono loro per essenza.
Ciò che a questo punto si chiede Husserl è come Galileo potesse giungere a pensare che
tutto quanto si manifesta come reale nelle qualità sensibili dovesse avere un suo indice
matematico negli eventi della sfera delle forme, fosse costituito da un punto di vista
fisicalistico, e che da ciò dovesse derivarne la possibilità di una matematizzazione indiretta.
Già gli antichi pitagorici avevano osservato la dipendenza funzionale dell’altezza di un
suono dalla lunghezza della corda posta in vibrazione. Ma mancava un motivo per una
considerazione analitica dell’intreccio delle dipendenze causali. Si trattava di cogliere
sistematicamente la causalità universale, oppure la peculiare induttività universale del
mondo dell’esperienza. Vi si giunge da un lato con la rinuncia della matematica applicabile
alla natura all’astrazione dai plena, mentre dall’altro lato mantenendo ferma l’idealizzazione
delle forme dello spazio, del tempo etc. Con questa ipotesi viene affermata anche l’ovvietà
di una causalità esatta universale, la quale naturalmente non è attingibile mediante
l’induzione, in base all’esibizione di singole causalità, ma che precede e guida tutte le
induzioni di causalità particolari. L’applicazione della matematica ai plena dati nella forma
pone presupposti causali, che devono esser portati alla determinatezza.
Giunti alle formule, dunque a una coordinazione delle idealità matematiche, divengono
possibili le previsioni praticamente desiderate attorno a ciò che ci si può aspettare nella
certezza empirica. Nasce così la tentazione di vedere nelle formule e nel loro senso il vero
essere della natura stessa. Le formule e i modi di pensiero algebrici consento dapprima un
enorme allargamento delle possibilità del pensiero aritmetico ereditato; esso diviene un
pensiero a priori libero, purificato da qualsiasi realtà intuitiva, e ben presto viene applicato
alla geometria. Le idealità reamente spazio-temporali, si trasformano in pure forme
numeriche, in formazioni algebriche: la formula tradisce e nasconde il senso della natura
perché in lei prende corpo la trasformazione delle idealità geometrico-matematiche in
formazioni algebriche. Viene ora (¶ 9f) chiarito il motivo fondante della Crisi: «Il pensiero
originario, che conferisce propriamente un senso a questo procedimento tecnico e una verità
ai risultati ottenuti conformemente alla regola, è qui escluso». Il percorso della
idealizzazione attivo nella scienza della natura a partire dal Rinascimento giunge al punto
culminante della subordinazione a sé della natura stessa e della perdita del senso della
costruzione che ne fa un oggetto di conoscenza. Leibniz intravide in anticipo sul suo tempo
l’idea universale e in sé conclusa di un pensiero algebrico estremo, ma solo ora si è giunti a
prospettarne l’elaborazione. Qui Husserl precisa giustamente che «in sé il passaggio da una
matematica legata alle cose alla sua logicizzazione formale è qualcosa di completamente
legittimo, anzi di necessario. Ma tutto ciò può e deve costituire un metodo inteso e praticato
coscientemente. Ciò avviene quando si fa in modo che il conferimento originario di senso al
metodo, con cui il metodo aveva attinto il senso di un’operazione per la conoscenza del
mondo, resti continuamente attuale e presente».
Già con Galileo era avvenuta una sovrapposizione del mondo matematicamente sustruito
delle idealità all’unico mondo reale, al mondo che si dà realmente nella percezione, al mondo
esperito ed esperibile, al mondo della vita. Galileo «non interrogò quell’operazione che
costituiva l’originario conferimento di senso, in quanto idealizzazione attuata sul terreno
della vita teorica o pratica». Galileo ha pensato che la geometria producesse una verità
assoluta e autonoma, che, come tale, appariva senz’altro applicabile; dimenticando il fatto
che l’intuizione geometrica, operata mediante idealità, affondava le sue radici di senso in
una «operazione pre-geometrica». Il mondo della vita si presenta dunque come il luogo a cui
sarebbe stato necessario retrocedere muovendo dalla natura idealizzata. Solo attraverso tale

~ 15 ~
passo indietro sarebbe divenuto chiaro che la nuova scienza procedevano dal mondo
prescientifico e che il loro fine rientrava in esso.
La matematizzazione della natura porta con sé gravi equivoci: primo fra tutti è la dottrina
della mera soggettività delle qualità specificamente sensibili, la soggettività di tutti i
fenomeni concreti della natura sensibilmente intuibile e del mondo in generale. Secondo
questa dottrina i fenomeni sono solo nei soggetti, di conseguenza tutte le verità del mondo
della vita perdono valore, conservando qualche importanza solo nella misura in cui
annunciano un in-sé che sta al di là di questo mondo dell’esperienza possibile. Questo
chiarisce anche che l’impostazione fenomenologica è antitetica alla soggettivizzazione dei
fenomeni e dunque a quella che è stata definita una «riduzione della manifestatività»,
antitetica alla «riduzione alla manifestatività» propria della husserliana «riconduzione alla
soggettività».
10. L’origine del dualismo nella dominante esemplarità della scienza naturale
Galileo considerando il mondo in base alla geometria, in base a ciò che appare
sensibilmente e che è matematizzabile, astrae dai soggetti, da tutto ciò che in un senso
qualsiasi è spirituale, preparando a quel dualismo che si presenterà con Cartesio. L’idea di
una natura, come un mondo di corpi realmente e teoreticamente concluso, come tema di una
scienza naturale universale, provoca uno spaccamento in due: natura e mondo psichico, ove
quest’ultimo, non porta però a una mondanità autonoma.
11. Il dualismo quale motivo dell’inafferrabilità dei problemi della ragione
La separazione dualistica derivante dalla concezione fisicalistica della natura determina
la forma di fisica e psicologia come discipline separate; tuttavia il riconoscimento
dell’esemplarità della concezione fisicalistica della natura e del metodo delle scienze naturali
fa sì che alla psiche venga attribuito un modo d’essere che di principio è analogo a quello
della natura, e alla psicologia un tipo di procedimento teorico che va dalla descrizione a una
«spiegazione» teorica ultima e che è analogo a quella della biofisica. Questo
indipendentemente dalla dottrina cartesiana delle due «sostanze», corporea e psichica, che
si distinguono in base a attribuiti fondamentali diversi. Così se per Hobbes questo prende la
forma di una psicologia come antropologia psico-fisica, la cui fisionomia ontologica
principale è comunque di essere analoga a quella della natura, per Locke la psiche è intesa
naturalisticamente come tabula rasa, sulla quale i dati psichici sono regolati come processi
corporei. Così tutte le nuove scienze, animate da uno stesso spirito, sembrano riuscire, con
al loro vertice la metafisica. La sfera in cui il razionalismo fisicalistico non sembrava
attuabile era appunto la metafisica; si ricorse così a oscuri palliativi, trasformando vecchi
concetti scolastici. Un esempio classico del modo in cui il razionalismo naturalistico credeva
di poter creare una filosofica sistematica ordine geometrico – una metafisica, una scienza
delle questioni ultime e supreme – è l’Ethica di Spinoza. Egli, dapprima cartesiano, e così
convinto che non soltanto la natura ma anche la totalità dell’essere dev’essere in generale un
sistema razionale unitario, costituisce l’esempio perfetto della traslazione del razionalismo
naturalistico nella filosofia sistematica more geometrico.
12. Le prime difficoltà del naturalismo fisicalistico nella psicologia
La nuova psicologia naturalistica mostrò già molto presto come la matematizzazione del
mondo fosse discutibile. Fra gli oggetti della psicologia rientravano anche le attività
conoscitive e le nozioni dei filosofi, dei matematici, degli studiosi della natura. Grandi
difficoltà nella psicologia sfociarono, già con Berkley e Hume in una scepsi che si rivolse
contro la matematica e la fisica, cercando di svalutarne i concetti fondamentali, riducendoli
a funzioni psicologiche. Con Hume la scepsi giunse fino in fondo, sradicando l’intero ideale

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della filosofia e quel genere di scientificità che era proprio delle nuove scienze.
Paradossalmente erano state compiute operazioni che erano state coronate da un ampio
successo; eppure, nel loro complesso, tutte queste realizzazioni, questa stessa evidenza,
diventano incomprensibili proprio nell’ambito della psicologia, nella sfera cioè in cui
avvenivano queste attuazioni. Vengono così in luce enigmi del mondo di uno stile ancora
sconosciuto, e condizionano un tipo completamente nuovo di ricerca filosofica, una «teoria
della conoscenza». Questa rivoluzione può essere designata come una trasformazione
dell’obiettivismo scientifico in un soggettivismo trascendentale.
14. La lotta fra obiettivismo e trascendentalismo quale senso della storia dello spirito
moderno
Se l’obiettivismo si muove sul terreno del mondo già dato come ovvio nell’esperienza e
si propone di perseguirne la ‘verità obiettiva’, ciò che in esso è incondizionatamente valido
per ogni essere razionale. Il trascendentalismo intende il senso d’essere del mondo-della-
vita già dato come una formazione soggettiva, ossia un’operazione della vita esperienza,
prescientifica. In essa si costruisce il senso e la validità d’essere del mondo, di quel mondo
che vale realmente per colui che realmente esperisce. Per quest’ultimo, solo una indagine
che risalga alla soggettività, che produce le validità del mondo e i loro contenuti, può rendere
comprensibile la verità obiettiva e raggiungere il senso d’essere ultimo del mondo. Qualora
si compia l’indagine radicale di risalire alla soggettività, il mondo della scienza
obiettivamente vero si presenta come formazione bensì di grado più alto, ma fondato sulle
operazioni di validità del pensiero prescientifico. Il risalire alla soggettività coincide dunque
col discendere al livello del mondo-della-vita che fornisce a quel mondo la sua validità
originaria.
Tutta la storia della filosofia, a partire dalla comparsa della «teoria della conoscenza» e
dei seri tentativi di una filosofia trascendentale, è la storia di tensioni tra la filosofia
obiettivistica e la filosofia trascendentale, è la storia dei tentativi di preservare l’obiettivismo
e di riplasmarlo in forma nuove e dei tentativi del trascendentalismo di venire a capo delle
difficoltà che l’idea della soggettività trascendentale e il metodo che essa esigeva portavano
con sé.
16. Cartesio quale fondatore dell’idea moderna di un razionalismo obiettivistico e insieme
del motivo trascendentale chiamato a diromperlo
Se Galileo era giunto alla fondazione originaria della nuova scienza, fu Cartesio a
concepire e ad avviare una realizzazione sistematica della nuova idea della filosofia
universale nel senso di un razionalismo matematico, fisicalistico, di una filosofia come
«matematica universale». Tuttavia, allo stesso tempo, nelle Meditazioni metafisiche, mentre
sono espressione del fondamentale razionalismo cartesiano, dunque anche del dualismo fra
pensiero e estensione, fondano allo stesso tempo pensieri chiamati a dirompere questo stesso
razionalismo.
17. Il ritorno cartesiano all’«ego cogito». Esplicitazione del senso dell’epoché cartesiana
Cartesio con uno sguardo d’insieme alle sue precedenti convinzioni, ereditate dalla
tradizione, si rende conto che ovunque si presentano dubbi, così che gli è inevitabile iniziare
con una specie di epoché scettica. Quest’«epoché cartesiana» è di un radicalismo inaudito,
investe non solo la validità di tutte le precedenti scienze, ma addirittura la validità del mondo-
della-vita pre ed extra-scientifico, cioè dell’esperienza sensibile, di tutta la vita concettuale
che di esso si nutre. Questo passaggio attraverso l’epoché è necessario a Cartesio per fondare
la filosofia su un principio tanto immediato quanto apodittico. Qui Husserl fa notare come
lo scetticismo antico, promosso anzi tutto da Protagora e Gorgia, contesta e nega l’episteme,

~ 17 ~
la conoscenza scientifica dell’essente-in-sé, ma non riesce ad andare oltre il rifiuto delle
sustruzioni razionali operate da una filosofia la quale ammette e crede di raggiungere un in-
sé razionale. Grazie a questa epoché si scopre l’indubitabilità del ego cogito: ma in questa
evidenza è incluso qualcosa di più articolato. Ciò include tutte le cogitationes; il mondo in
quanto cogitatum, e tutto ciò che io volta per volta gli attribuisco, ha per me una validità
d’essere; senonché ora io non posso più porre direttamente e naturalmente queste validità né
posso utilizzarle conoscitivamente: il mondo si dischiude ora come un fenomeno. Con la
scoperta dell’ego cogito si dischiude una sfera d’essere assolutamente apodittica. «Con la
scoperta che qualsiasi conoscenza da parte di un soggetto conoscente è un evento intra-
psichico e con la scoperta dell’inerente problema di una validità trascendente, sorge una
nuova apoditticità: l’apoditticità dell’ego, l’apoditticità, per il soggetto conoscitivo, del
proprio essere in quanto soggetto di tutto il suo conoscere, l’apoditticità del fatto che tutto il
suo conoscere, tutta la sua vita di coscienza in generale è una connessione assolutamente
conclusa del suo essere psichico […] io colgo il mio essere come un puro io che realizza la
validità di tutte queste validità».
18 L’auto-fraintendimento di Cartesio
Secondo Husserl è evidente che Cartesio malgrado il suo radicalismo mira a un fine
predeterminato, e la localizzazione di quest’ego non è che il mezzo a questo fine; egli non si
avvede che già la convinzione della possibilità di un fine e di un mezzo equivale a un
abbandono del suo radicalismo, del suo scetticismo iniziale. Per Cartesio è ovvio che la
sensibilità rimanda a un essente in-sé ma può ingannare, dunque deve esistere una via
razionale per raggiungere questo essente. L’ego è la posizione assolutamente apodittica; ma
l’anima è il residuo di un’astrazione preliminare del puro corpo. Cartesio non si avvedere
che tra le considerazioni fondamentali delle Meditazioni e le conseguenze che ne derivano
si produce una frattura determinata appunto dall’identificazione di quest’ego con la pura
anima. La grande scoperta di quest’ego viene svalutata da una sovrapposizione controsensa:
nell’epochè la pura anima non ha senso. Cartesio occulta a se stesso quel che aveva scoperto
con l’ego dell’epochè, nell’atto in cui si chiede quale sia l’io di cui parla; egli non vede che
l’epochè mette tra parentesi, oltre alla conoscenza sensibile che può ingannare, anche la
possibilità stessa della conoscenza razionale di ciò che ha in sè; egli è guidato da un obiettivo
razionalistico del tutto analogo a quello di Galilei e la localizzazione dell’ego nell’anima è
un mezzo per questo scopo. A causa dell’identificazione dell’ego con l’anima, che il prodotto
di una astrazione, la scoperta dell’ego viene annullata: né l’anima né il corpo trovano la loro
legittimità nell’epoché. Cartesio si dimostra ingenuo quando ritiene come ovvia la possibilità
di passaggi dall’ego e dalla sua vita cogitativa a qualcosa di esterno, senza essersi chiesto se
questo esterno, rispetto a questa sfera d’essere egologica, possa avere senso.
Cartesio non si rende conto come si impossibile che l’ego, il suo io demondanizzato
attraverso l’epochè, nelle cui attive cogitationes il mondo ha tutti i sensi d’essere che può
avere, si presenti come tema nel mondo, poiché tutto ciò che è mondano attinge il proprio
senso appunto alle funzioni dell’ego.
Da Cartesio ha inizio così una vicenda filosofiche che, attraverso Malebranche, Spinoza,
Leibniz, mira razionalisticamente all’obiettivo della conoscenza fondata di un mondo
trascendente e dunque in sé. Sempre da Cartesio prende le mosse la linea di pensiero
dell’empirismo inglese, orientata in senso scettico: la linea di Locke-Berkeley-Hume.
22. La psicologia naturalistico-gnoseologica di Locke
Il problema specifico di Cartesio, il problema della trascendenza delle validità egologiche,
e che include quindi anche il problema delle modalità delle conclusioni riguardanti il mondo

~ 18 ~
esterno, il problema di come esse, pur essendo cogitationes nell’ambito chiuso della psiche,
possono fondare un essere extra-psichico, tutto ciò scopare in Locke. Il fatto che i dati
sensibili, sottratti all’arbitrio in cui si producono, sono affezioni provenienti dall’esterno, e
che annunciano i corpi del mondo esterno, non è per Locke un problema ma una ovvietà.
Ciò che ovviamente contesta Husserl a Locke è che egli non fa alcun uso della scoperta
cartesiana della cogitatio in quanto cogitatio di cogitata, dunque dell’intenzionalità. Col
presupposto del «sensualismo dei dati psichici», Locke ignora che l’intenzionalità, grazie a
cui l’oggetto della coscienza mi viene offerto per quel che è, mostra la vita intenzionale
dell’io cosciente. Va detto che Husserl rifiuta l’espediente della dimostrazione dell’esistenza
di dio per risolvere la questione di come l’ego possa trascendere se stesso nei suoi atti.
23. Berkeley e Hume
Il fondamento dell’empirismo per cui è indubitabile qualsiasi conoscenze sensibile, in
quanto fondata sul regno dei dati immanenti, viene sviluppata da Berkeley, il quale riduce le
cose corporee a compressi di quegli stessi dati sensibili in cui le cose appaiono. Non è
pensabile nessuna conclusione che permetta di passare da questi dati sensibili a qualcosa
d’altro e poi di nuovo a questi dati; una materia essente in sé è una invenzione filosofica.
Hume prosegue in fondo a questa direzione. Tutte le categorie dell’obiettività, quelle
scientifiche, attraverso cui la vita scientifica pensa un mondo obiettivo, extra-psichico,
quelle prescientifiche, in cui la vita prescientifica pensa del pari un mondo obiettivo ed extra-
psichico, sono finzioni. Lo sono anzi tutto i concetti matematici, che sono idealizzazioni
metodicamente necessarie di dati intuitivi. Noi diciamo l’albero e lo distinguiamo dai suoi
mutevoli modi di apparizione e dagli altri alberi. Ma nell’immanenza psichica nulla è
presente se non questi modi di apparizione; si tratta solo di complessi di dati collegati l’un
l’altro mediante l’associazione, che ci illude della possibilità di esperire una identità.
L’esperienza immanente rivela solo un post hoc, la necessità della conseguenza è solo una
sovrapposizione fittizia. Il problema a questo punto è però, come giustamente avverte
Husserl, la modalità mediante la quale si produce in generale il “collegamento” operato dalle
regole dell’ordinamento associativo. Tuttavia non va trascurato che lo scetticismo di Hume
opera nella direzione della «confutazione dell’obiettivismo». L’orientamento soggettivo
nascostamente trascendentale del pensiero cartesiano, che si volge verso il recupero di verità
metafisiche trascendenti, viene corretto dalla scepsi humeana. Una verità nascosta guida
dunque le obiezioni contro il razionalismo. Se Cartesio non aveva colto il rapporto fra
cogitationes e cogitatum per la costituzione del mondo sensibile e di quello scientifico, tale
scoperta torna possibile grazie a Berkeley e a Hume, nonostante il controsenso del loro
empirismo.
25. Il motivo trascendentale del razionalismo: la concezione kantiana di una filosofia
trascendentale
Husserl passa poi ad analizzare il pensiero kantiano. Questo, secondo lui, non è tanto in
connessione con Locke e Hume, piuttosto, egli è il continuatore della scuola wolffiana. Kant
coglie, attraverso Hume, l’impossibilità di capire come le verità di ragione potessero venir
impiegate per la conoscenza delle cose. L’esemplare razionalità delle scienze naturali si
trasformò in un enigma. Che esse dovessero l’effettiva certezza del loro metodo all’a-priori
normativo della ragione puramente logico-matematica, era chiaro. La scienza però non è
puramente razionale, in quanto ha bisogno dell’esperienza sensibile. L’avanzamento di Kant
consiste nel dimostrare come gli oggetti dell’esperienza non sono la mera sensibilità. Kant
dice: ciò che appare sono cose, ma lo sono solo in quanto i dati della sensibilità sono già
nascostamente raccolti entro certi modi da certe forme a priori. Così la ragione kantiana, da

~ 19 ~
un lato, si rivela nel farsi delle scienze matematiche, pur presupponendo sempre l’intuizione
pura della sensibilità; da un altro lato, la ragione funge segretamente, ossia ha da sempre già
razionalizzato i dati sensibili. Essa realizza così anche il mondo degli oggetti sensibili
intuitivi. Il ‘ritorno’ di Kant a Cartesio si configura dunque come il ritorno alla soggettività
della coscienza, ma nella forma del soggettivismo trascendentale.
Tuttavia, Husserl avverte che Kant nomina ma non comprende realmente il problema di
Hume, poiché affronta il soggettivismo radicale humeano e la tesi che l’enigmaticità del
mondo consista nel suo «essere in virtù di un’operazione soggettiva», condizionato da
presupposti che rientrano nell’«enigma» del mondo. Kant dunque, seppur con tutti i suoi
meriti, non ha mai penetrato le inaudite profondità della considerazione cartesiana, non è
mai stato indotto dalla sua problematica a perseguire una fondazione ultima e una soluzione
nella dimensione di queste profondità. Se Kant aveva cercato di risolvere la questione
relativa al rapporto tra intelletto e intuizione indicando con quale diritto le categorie possono
essere applicate all’esperienza, Husserl sviluppa dunque una direzione opposta, che cerca di
legittimare le categorie additando i processi che dal terreno dell’esperienza conducono a
quello degli enunciati logico-predicativi, mostrando come la forma del giudizio non è che
l’esplicitazione di strutture contenute nella stessa esperienza. Le categorie che stanno alla
base dei rispettivi giudizi, dunque, se in Kant sono modi di agire del pensiero, in Husserl
sono strutture interne all’articolarsi dell’esperienza, trae le forme del giudizio dalla struttura
stessa dell’esperienza. Nella percezione noi abbiamo un decorso ininterrotto delle intenzioni
nel quale l’oggetto si dà sul terreno comunque dell’esperienza ante-predicativa.
CHIARIMENTO DEL PROBLEMA TRASCENDENTALE E INERENTE FUNZIONE
DELLA PSICOLOGIA

A. LA VIA DI ACCESSO ALLA FILOSOFIA TRASCENDENTALE


FENOMENOLOGICA ATTRAVERSO LA RICONSIDERAZIONE DEL
MONDO-DELLA-VITA GIÀ DATO
28. Il «presupposto» inespresso di Kant: il mondo-della-vita come ovviamente valido
Kant, secondo Husserl, da un lato, rimprovera al razionalismo di aver trascurato alcuni
problemi che per lui dovevano diventare fondamentali, cioè di non esser mai penetrato nella
struttura della nostra coscienza del mondo e della conoscenza scientifica; tuttavia, a sua
volta, egli non si rende conto che, nella sua filosofia, molti presupposti risultano inindagati,
primo fra tutti il mondo-della-vita. Inoltre, le sue teorie esigono approfondimenti critici,
come quello che riguarda il ruolo dell’intelletto rispetto alla natura, che agisce nella forma
di leggi normative e ordinatrici esplicite, ma anche in forma nascosta, quale «forma di senso
che è già sempre divenuta» e continua a divenire, in una collocazione più originaria che Kant
non riesce a cogliere. Nei termini del mondo-della-vita siamo oggetti tra gli oggetti; siamo
prima di ogni costatazione scientifica; d’altra parte siamo soggetti per questo mondo,
soggetti egologici che lo esperiscono, che lo considerano, che lo valutano, che vi si
riferiscono attraverso un’attività conforme a scopi, soggetti per i quali il mondo ha il senso
d’essere che gli è stato attribuito dalle nostre esperienze, dai nostri pensieri ecc., che noi
realizziamo attualmente in quanto soggetti di validità.
È nell’orizzonte del mondo-della-vita, di cui Husserl mostra la struttura essenziale nella
forma del rapportarsi al mondo da parte di soggetti egologici, che emerge il ruolo
dell’intuizione sensibile. Si apre così anche la dimensione della corporeità, che non è un
mero corpo. Nel rapporto con la sensibilità, con l’aspetto fisico delle cose, gioca un ruolo

~ 20 ~
essenziale il «corpo proprio», mai assente nel campo percettivo: non c’è mai un «io faccio»
che non sia un «io muovo» parti del mio corpo come parti del mio ego. Husserl, descrivendo
l’attività dei soggetti del mondo-della-vita sottrae la sensibilità ad ogni connotazione
puramente oggettivistica. «La sensibilità è un fungere egologico-attivo» del corpo, che
coappartiene sempre all’ego attivo e fungente. Così la coscienza del mondo è in un
movimento costante; il mondo è sempre presente alla coscienza attraverso le strutture
oggettuali e nell’evoluzione dei modi di coscienza, ma anche nell’evoluzione dell’affezione
o dell’azione.
Inizia a dischiudersi il regno del mondo-della-vita, regno di validità d’essere sempre
pronte ma mai indagate, costanti presupposti del pensiero scientifico. Ogni pensiero
scientifico e problematica filosofica implicano certe ovvietà, la certezza del mondo, già
preliminarmente dato, e qualsiasi rettifica di un’opinione, di un’opinione sperimentale
presuppone il mondo in quanto orizzonte di ciò che senza dubbio vale. La scienza obiettiva
tutt’ora pone i suoi problemi sul terreno di questo mondo, che è sempre già prima. Si apre
così un campo di problematiche che concernono il mondo essente, ma che non rientrano nei
problemi della scienza, anzi concernono il rapporto di qualsiasi oggetto, prescientifico e
scientifico, col soggetto.
Se si riprende ciò che è stato presupposto dalla filosofia kantiana, e in genere da tutte le
altre, senza essere mai indagato a fondo, si porta alla luce un regno di fenomeni nuovi.
Fenomeni soggettivi ma non processi psicologici dei dati sensibili, bensì processi spirituali,
i quali, come tali, esercitano per una necessità essenziale la funzione di costituirne forme di
senso. La considerazione radicale del mondo che il fenomeno del mondo-della-vita consente
di realizzare si svolge su un piano che esclude la considerazione esterna del mondo stesso.
Il fenomeno mondo-della-vita apre lo spazio della soggettività da una prospettiva interna,
esibendo il processo dell’esteriorizzarsi della soggettività stessa. L’anonimia costituisce il
presupposto dell’attività del conferimento soggettivo di sensi, la quale non coincide con
alcuna operazione di costruzione teoretica, essendo piuttosto il luogo originario da cui ogni
scienza ricava il senso.
30. La ragione delle costruzioni mitiche di Kant sta nella mancanza di un metodo intuitivo
Ci si lamenta delle oscurità della filosofia kantiana, dell’inafferrabilità delle evidenze nel
suo metodo regressivo, delle sue «facoltà», «funzioni», «formazioni». Effettivamente Kant
cade in un nuovo tipo di discorso mitico, il cui senso letterale rimanda sì all’elemento
soggettivo, ma a un modo di soggettività che di principio non può essere reso intuitivo, né
attraverso esempi né mediante analogie. Se si tenta di farlo ci si ritrova nella sfera psichica,
psicologica; ma allora ci ricordiamo della dottrina kantiana del senso interno, secondo la
quale tutto ciò che è reperibile nell’evidenze dell’esperienza interna ha già subito l’azione
formatrice di una funzione trascendentale. Ma come possiamo pervenire a un senso chiaro
dei concetti che concernono una soggettività trascendentale a partire dalla quale il mondo
scientificamente vero si costituisce in «apparizione» obiettiva, se alla «percezione interna»
non può essere attribuito un senso diverso da quello psicologico; se la soggettività
trascendentale non è ancora una soggettività apodittica, se essa non fornisce il terreno di
un’esperienza che non scia quella scientifica ma che sia ugualmente certa realmente, un
terreno d’esperienza universale necessario e fonte di qualsiasi obiettività scientifica. Kant,
pur volgendosi contro l’empirismo gli rimase debitore nella sua concezione dell’anima;
come l’anima sia per lui un’anima naturalizzata, concepita come una componente dell’uomo
psico-fisico nel tempo della natura, della spazio-temporalità. In Kant l’autopercezione si
configura come l’operazione percettivamente riflessiva grazie a cui l’anima stessa,

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osservando quel che accade sulla propria superficie di cera, coglie i segni dei dati che vi si
depositano e da questi ultimi risale alle operazioni svolte dalle facoltà. Quel che le sfugge è
l’auto-certezza di un’evidenza che non incontra alcun tipo di oggetti o di mezzi conoscitivi
naturali. Il timore humeano verso esiti scettici impedisce a Kant di vedere l’apertura a una
psicologia non naturalizzata, ruotante non sul concetto oggettivo e naturale di anima ma sulla
nozione di ego puro. Egli impedisce qualsiasi tentativo di attuare una costruzione progressiva
che si rifaccia a intuizioni originarie e assolutamente evidenti.
31. Kant e l’insufficienza della psicologia del suo tempo. L’impossibilità di cogliere la
differenza tra soggettività trascendentale e anima
Nello schema teleologico che Husserl mette in atto ogni volta che si rivolge alla
interpretazione dei segmenti della storia della filosofia che gli interessano, anche la
psicologia empiristica sei-settecentesca mantiene una sua funzione. «Indubbiamente fu un
bene il fatto che Locke prendesse la scienza per un’operazione psichica e che ponesse
ovunque il problema dell’origine, visto che le operazioni possono venire intese soltanto in
base all’agire che le produce. Ma ciò avvenne superficialmente, nell’ambito di un
naturalismo». Visto che la scienza razionale, ai tempi di Kant, e la pretesa delle scienze
puramente aprioristiche a una validità obiettiva incondizionata erano diventate un problema,
sarebbe stato necessario riflettere al fatto che la scienza è un’operazione compiuta da uomini
che si trovano già nel mondo dell’esperienza in generale, e che essa si articola e si riferisce
a questo. Il fatto che Kant faccia uso del mondo già dato, e che insieme costruisca una
soggettività attraverso le cui nascoste funzioni viene formato il mondo dell’esperienza, lo
porta di fronte a una difficoltà: una proprietà particolare dell’anima umana (dell’anima
umana che rientra nel mondo e che perciò è presupposta insieme con esso) deve compiere,
e deve già sempre aver compiuto, l’operazione di plasmare e di formare questo mondo nella
sua totalità. Ma appena noi cerchiamo di distinguere questa soggettività trascendentale
dell’anima, ci imbattiamo in un’incomprensibile costruzione mitica.
33. Il problema del mondo-della-vita come problema parziale entro il problema della
scienza obiettiva
Dunque, come si è visto, la scienza è una realizzazione dello spirito umano la quale,
storicamente e per chiunque si disponga a conoscerla, presuppone un punto di partenza
costituito dal mondo intuitivo nella vita a tutti già data. La scienza pone e risolve problemi
che si pongono sul terreno di questo mondo, che investono la compagine del mondo già dato,
in cui rientra la prassi scientifica come qualsiasi altra prassi. Proprio i Greci, popolo dove
nasce l’umanità scientifica e filosofica, riplasmano l’idea-fine di «conoscenza» e
attribuiscono all’idea di «verità obiettiva» la dignità di norma per tutta la conoscenza. Nasce
al contempo l’idea di una scienza universale, capace di includere qualsiasi conoscenza
possibile; ora però ci si rende conto che per un chiarimento della validità obiettiva e del
compito complessivo della scienza è necessaria una riconsiderazione del mondo già dato.
Prima del problema generale della funzione del mondo-della-vita per la fondazione della
scienza obiettiva, va posto il problema del senso d’essere peculiare e costante di questo per
gli uomini che ci vivono.
34. Esposizione del problema di una scienza del mondo-della-vita
L’importante, lungo e articolato paragrafo 34 pone il tema del logos fenomenologico,
della scienza del mondo-della-vita. Va infatti indagato scientificamente il modo in cui il
mondo-della-vita funge da fondamento, il modo in cui sono fondate le sue molteplici validità
pre-logiche rispetto alle verità logiche-teoretiche. Occorra anzi tutto evitare di ricorrere ai
«dati della sensibilità», che si suppongono immediati, come se essi fossero effettivamente

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ciò che caratterizza immediatamente le datità puramente intuitive del mondo-della-vita.
Invece il primum reale è l’intuizione «soggettivo-relativa» della vita pre-scientifica del
mondo, passibile di una sicura verificazione.
Le scienze costruiscono sopra l’ovvietà del mondo-della-vita, se ne servono attingendo a
esso tutto ciò che di volta in volta è necessario ai loro scopi – ma usare in questo modo il
mondo-della-vita non significa conoscerlo scientificamente nel suo modo d’essere. La
situazione fenomenologica si presenta dunque così: l’elemento soggettivo-relativo del
mondo della vita, che non è «semplice tramite irrilevante», ma è l’«unico elemento fondante
della validità d’essere di qualsiasi verifica obiettiva» e dunque anche sorgente di evidenza,
rimane privo di riconoscimento che esso richiede come premessa della scienza obiettiva. È
questo spazio che una scienza del mondo-della-vita deve riempire.
Torna qui la domanda se l’elemento soggettivo-relativo possa essere oggetto della
psicologia. La risposta è ovviamente negativa: in quanto la psicologia è una «scienza
obiettiva della soggettività», che prende in esame nell’atto stesso di fare della psiche o
dell’anima un oggetto come gli altri, indagabile con le stesse procedure che vengono messe
in atto nell’esame scientifico di ogni forma di fattualità.
Si entra così nella determinazione positiva del mondo-della-vita, la cui caratteristica di
universale intuibile manca del tutto al mondo obiettivamente vero sustruito su base logica.
In primo luogo occorre notare che il contrasto fra la soggettività del mondo-della-vita e
l’obiettività del mondo “vero” sta nel fatto che solo quest’ultimo è una «sustruzione
teoretico-logica», di principio non percepibile. In secondo luogo, e qui sta il senso della
originaria, prescientifica datità del mondo-della-vita, l’esperibilità del mondo-della-vita è
tale perché è un «regno di evidenze originarie». Solo queste sono intuibili nella loro essenza
autentica, al di qua del confine che le deforma in un universo sustruito di verità scientifiche
obiettive. L’intuizione è sempre un render presente la cosa stessa, che si manifesta come
presente; da tale intuizione prende le mosse ogni processo induttivo e ogni verifica di verità
obiettive riconduce a modi dell’evidenza esperibili intersoggettivamente. L’intero edificio
dottrinale delle scienze obiettive è una formazione che si è costruita attraverso le attività
degli scienziati. Tutti questi risultati teoretici hanno un carattere di validità per il mondo-
della-vita, e si assommano sempre alla propria struttura. Il concreto mondo-della-vita è
dunque il terreno su cui si fonda il mondo scientificamente vero, e che lo include nella
propria concrezione universale.
Risulta chiaro che quel che costituisce l’anima più profonda del pensiero scientifico
obiettivo e logico è l’«apparenza» del darsi di un pensiero puro, estraneo all’intuizione e
fornito tuttavia di una verità evidente analoga e parallela alla verità del mondo. Se la purezza,
la determinazione non intuitiva è la caratteristica più intima del pensiero scientifico e logico,
diviene problematico salvaguardare «senso, possibilità e ‘portata’» della scienza obiettiva.
Si comprende bene il sommovimento che il recupero fenomenologico del ruolo
dell’intuizione, svalutato da una grande parte della storia del pensiero, a vantaggio della
logica, introduce nella teoria della conoscenza, che cessa di poter esser identificata solo con
la teoria della scienza, secondo le convinzioni neokantiane.
35. Analitica dell’epochè trascendentale. Primo: l’epochè della scienza obiettiva
La natura del compito fenomenologico fa sì che il metodo di accesso al campo di lavoro
di questa scienza di nuovo genere si articola in una molteplicità di passi, e ciascuno di essi,
in modo diverso, ha il carattere di un’epoché, di una astensione dalle validità naturali-
ingenue, già definite. La prima epoché necessaria è già entrat nel nostro campo attraverso le
precedenti considerazioni. È anzi tutto necessaria l’epochè da tutte le scienze obiettive.

~ 23 ~
Operare quest’epochè non equivale ad astrarre da esse, piuttosto occorre un’epochè da
qualsiasi assunzione delle nozioni delle scienze obiettive, un’epochè da qualsiasi presa di
posizione critica attorno alla verità o alla falsità della scienza e dalla sua idea direttiva.
L’epochè viene operata rispetto a tutti gli interessi teoretici obiettivi, rispetto a tutte le finalità
e alle azioni che assumiamo in quanto scienziati.
Io penso il mondo grazie all’insieme delle attività della mia coscienza teorizzante che si
riassumono nell’espressione cartesiana cogito. Ciò di cui si dubito è l’essere esistenziale di
una certa cosa. se si mette in dubbio la materia di essere di una certa cosa, la tesi della sua
esistenza viene in un certo senso fatta oggetto di «annullamento e superamento». Nel fare
questa operazione non si trasforma la tesi nell’antitesi, la tesi permane ma noi la mettiamo
fuori circuito, «tra parentesi».
36. Dopo l’epochè dalle scienze obiettive come può il mondo-della-vita diventare il tema
di una scienza? Distinzione tra a-priori logico-obiettivo e a-priori del mondo-della-vita
«Il mondo-della-vita è il mondo spazio-temporale delle cose così come noi le
sperimentiamo nella nostra vita pre- ed extra-scientifica e così come noi le sappiamo
esperibili al di là dell’esperienza attuale». Nell’ambiente esterno, fra le molteplici culture, ci
si rende conto che le verità non sono uguali per tuttI; così se ci si pone il fine di una verità
concernente gli oggetti che sia incondizionatamente valida per tutti i soggetti ci si viene a
trovare sulla via che porta alla scienza obiettiva. Ponendo come fine questa obiettività (una
«verità in sè») assumiamo una specie di ipotesi che travalica il puro mondo-della-vita. Ma
ora ci si trova nell’imbarazzo di mirare da un lato una verità concernente gli oggetti valida
per tutti i soggetti e dall’altra parte di avere evitato con l’epochè la possibilità di “travalicare”
il mondo-della-vita. «Quest’imbarazzo scopare però appena consideriamo il fatto che il
mondo-della-vita, malgrado la sua relatività, ha una propria struttura generale. Questa
struttura generale, a cui è legato tutto ciò che è relativo, non è a sua volta relativa. Il mondo
in quando mondo-della-vita ha già in via pre-scientifica le stesse struttura che le scienze
obiettive presuppongono parallelamente alla loro sustruzione di un mondo che è in sé». Nella
dimensione pre-scientifica, il mondo è già un mondo spazio-temporale e causale, con una
sua struttura categoriale, solo che non bada alle idealizzazioni teoretiche e alle sustruzioni
ipotetiche dello scienziato.
37. Le strutture formali-generali del mondo-della-vita: cosa e mondo da un lato, coscienza
della cosa dall’altro
Il compito della «teoria dell’essenza del mondo-della-vita inizia a essere realizzato
attraverso l’elaborazione della domanda circa la duplice struttura del mondo-della-vita»
inizia con l’elaborazione della domanda circa la duplice struttura di esso, cosa e mondo da
un lato, coscienza della cosa dall’altro. Più originaria di questa distinzione è però quella tra
le cose che stanno nel mondo e il mondo singolare che costituisce l’orizzonte che racchiude
le cose. Il mondo-della-vita è già sempre dato per noi, esso è l’orizzonte di qualsiasi prassi
reale o possibile, la vita infatti è sempre un vivere-la-certezza-del-mondo, un modo di
attuarla.
38. I due modi fondamentali possibili di tematizzare il mondo-della-vita
Due sono i modi della tematizzazione del mondo-della-vita. Da un lato abbiamo il modo
diretto, ossia ingenuo-naturale. Dall’altro abbiamo il modo riflessivo, che si interroga «sul
modo soggettivo di datità del mondo-della-vita». Il primo, quello «naturalmente normale» e
primo rispetto agli altri, è «orientato direttamente sugli oggetti»; in quanto tale, privo come
è di ogni distacco riflessivo, consiste in un «vivere dentro», hineinleben, l’orizzonte del

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mondo. La sua normalità consiste nel fatto che tutti i nostri interessi si rivolgono a oggetti
collocati nell’orizzonte fluente del mondo.
Il secondo modo consiste in un aver coscienza del mondo in una forma che modifica il
suo mettere a tema il mondo, che vi introduce una sostanziale modificazione. Basta riflettere
sulla circostanza che gli oggetti non ci sono solo dati, ma che noi ne siamo coscienti
«attraverso modi soggettivi di apparizione e di datità», diviene così centrale la domanda sul
«come dei modi di datità» e enti ci interessano ora non direttamente ma per il loro come.
La vita naturale, sia pre-scientifica che scientifica, è vita in un orizzonte universale non-
tematico. Ma invece di permanere nell’atteggiamento della semplice vita dentro il mondo si
tenta di attuare un mutamento universale degli interessi. Ora non ci interessa altro che
l’evoluzione soggettiva dei modi di datità, dei modi di apparizione, degli impliciti modi di
validità in cui si produce, costantemente fluendo, connettendosi costantemente e
sinteticamente nel flusso orientato direttamente sul mondo, la coscienza unitaria dell’essere
del mondo.
39. La peculiarità dell’epochè trascendentale in quanto mutamento totale
dell’atteggiamento naturale
Attraverso il rivolgimento totale dell’epochè universale è possibile non vivere più entro
l’esistenza naturale, partecipando al conferimento di validità al mondo già dato, anzi
l’astenersene secondo l’epochè consente di tematizzare il mondo già-dato come tale, in
quanto ha un senso e una validità di senso nella nostra vita di coscienza: diviene così visibile
quel che resta occultato nella posizione dell’atteggiamento naturale, ossia la produzione di
validità del mondo affidata alla pura soggettività. Per capire cosa sia la soggettività pura e
trascendentale è necessario scuotere la nostra convinzione più profonda: che il mondo esiste
in sé indipendentemente dai nostri atti, il realismo ingenuo. Bisogna così fare emergere come
il mondo reale si costituisca proprio negli atti del soggetto. L’esistenza del mondo «è
qualcosa di posto attraverso atti soggettivi, a partire da decorsi di esperienza concordanti che
suggeriscono di considerare, attraverso un’anticipazione di senso, l’oggetto come
esistente». La realtà si costituisce dunque attraverso decorsi fenomenici
40. La difficoltà di cogliere il senso dell’attuazione autentica dell’epochè totale.
Per comprendere come sia possibile il rivolgimento rappresentato dall’epochè occorre
riflettere nuovamente ai modi della vita naturale-normale: in questo ambito noi ci muoviamo
in un flusso di esperienze sempre nuove, di giudizi, di valutazioni, di conclusioni. In ciascuno
di questi atti l’io si dirige sugli oggetti del suo mondo circostante, si occupa di essi in un
certo modo. In questi atti gli oggetti sono ciò che è presente alla coscienza, ora semplici
realtà e ora modalità della realtà (possibilità, dubbi, ecc.). Nessuno di questi atti, e nessuna
validità in essi inclusa, è isolato. L’epochè universale consiste coì nella messa fuori gioco
nel suo complesso di quell’atteggiamento implicato dall’intreccio complessivo della validità.
Ora si assume un atteggiamento che si pone al di sopra della vita universale della coscienza
nella quale il mondo, è «qui», il campo di tutti gli interessi della vita. È posta fuori gioco
tutta la vita naturale orientata sulle realtà «del» mondo.
41. La scoperta e l’indagine della correlazione trascendentale di mondo e di coscienza del
mondo
Ora è chiara la relazione tra epochè e riduzione trascendentale. Attraverso l’epochè il
filosofo si rende libero dai vincoli più forti e più universali, e perciò più occulti, dai vincoli
dell’essere-già-dato del mondo. Questa liberazione equivale alla scoperta della correlazione
universale di mondo e coscienza del mondo. Quest’ultima non è altro che la vita di coscienza
della soggettività che produce la validità del mondo, la soggettività che nelle sue continue

~ 25 ~
attuazioni ha sempre un mondo ed è sempre formatrice. Correlazione che è da intendersi
sempre nel senso più vasto, come correlazione dell’essente di ogni genere e in ogni senso e
di un’assoluta soggettività. Nulla viene smarrito del mondo e delle scienze, è solo che non
ci si pone sul terreno dei problemi del mondo, attorno all’essere, alla validità, all’utilità, al
bello, al buono.
45. Inizi di una concreta esplicitazione delle datità dell’intuizione sensibile puramente
come tale
Operando l’epochè, noi diventiamo osservatori completamente «disinteressati» del
mondo, del mondo in quanto puramente soggettivo-relativo, e gettiamo su di esso uno
sguardo che non tende a indagarne l’essere e l’essere-così, bensì a considerare ciò che da
sempre vale e che continua a valere per noi in quanto essente e in quanto essente-così, a
considerarlo dal punto di vista del suo modo soggettivo di valere. Lo sguardo dello spettatore
disinteressato rivolto al mondo non è lo sguardo mirante a svelarne le strutture ontologiche
obiettive, poiché ciò che esso coglie è piuttosto il modo soggettivo di valere. Nel mondo-
della-vita si incontra l’«intuizione sensibile», che mi dà accesso ad una qualunque cosa
singola. La cosa resta la stessa, ma la percezione che se ne ha attraverso l’uso di uno o più
dei nostri sensi «è estremamente multiforme». Se con l’atto di percezione, che è sempre
singola, ho già piena coscienza della cosa, questo mostra che nel vedere sono intenzionati
anche i lati che non mi sono dati, ma sono nell’orizzonte della cosa che viene intenzionata.
Le prospettive della figura, come i suoi colori, sono diverse, ma ciascuna di esse è una
rappresentazione-di, di questa figura, di questo colore. Tutte sono presenti nel corso del
processo percettivo, svolgendo il ruolo di rappresentazioni-di. «Svolgendosi, esse fungono
in modo tale da formare ora una sintesi continua ora una sintesi discreta dell’unificazione.
Ciò non avviene attraverso una fusione esteriore; bensì, in quanto rappresentazioni che in
ogni fase recano in sé un “senso”, e intenzionano qualcosa, esse si connettono in un
progressivo arricchimento di senso e in una progressiva formazione di senso, in cui è
mantenuto [dalla coscienza] ciò che non appare più attualmente, e in cui l’intenzione
implicita, l’aspettativa di “ciò che verrà”, si attua e si determina più precisamente».
46. L’a-priori universale della correlazione
La nozione dell’«a-priori universale della correlazione» è a questo punto cruciale. È
necessario ricordare da un lato che nell’ambito del mondo della vita non ci riferiamo alle
cose ma indaghiamo i modi della loro datità soggettiva; dall’altro lato, dobbiamo anche non
trascurare il ruolo della riflessione, che interrompe la nostra disattenzione alla soggettività e
ci mostra la presenza di correlazioni essenziali tra la coscienza e la cosa, la cui rilevanza va
al di là del singolo caso di intuizione sensibile. Comunemente infatti noi non ci accorgiamo
affatto dell’elemento soggettivo dei modi di rappresentazione delle cose, ma nella riflessione
rileviamo con stupore l’esistenza di correlazioni essenziali che sono elementi costituitivi di
un a-priori molto più ampio e universale. Io sono immediatamente cosciente della cosa
esistente ma il mio Erlebnis, che muta in ogni istante, è l’Erlebnis della rappresentazione-
di; tuttavia esso viene in luce con questo “di” solo nella riflessione. In ogni percezione di
una cosa è implicito un «orizzonte» di modi di apparizione e di sintesi di validità che non
sono attuali, ma son passate o future, e che tuttavia sono co-fungenti. Ciò che l’apriori della
correlazione tra cose e soggettività esibisce nel caso della percezione è la necessaria
temporalità di quei fenomeno che chiamiamo «cose». Senza il riferimento all’operazione
costituente soggettiva, le cose non possiederebbero senso temporale, ma sono pur sempre le
cose, prese nel loro significato fenomenologico, che sono temporali.

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47. Indicazioni di ulteriori direzioni di indagine: i fenomeni della cinestesi, l’evoluzione
della validità, la coscienza dell’orizzonte, l’accomunamento dell’esperienza.
Ora viene illustrato il regno dei fenomeni soggettivi. Se in un primo momento era stata
indagata la molteplicità dei lati in cui si rappresenta una unica cosa, ora si rivela che essi
sono correlati alla «molteplicità dei processi cinestetici», la quale nella forma dell’«io
faccio», dell’«io muovo», non si limita al fatto dei movimenti del corpo proprio rappresentati
corporeamente, ma essi ineriscono al corpo proprio.
Va qui anche approfondito il fenomeno della evoluzione delle validità. La
rappresentazione di una cosa, nonostante l’evoluzione delle cinestesi implica una
connessione intenzionale definibile mediante l’espressione «se-dunque» (Wenn-so): le
rappresentazioni devono avvenire in una certa successione sistematica; perciò nel corso della
percezione esse sono preannunciate nell’attesa, in quanto la percezione tenda a raggiungere
una concordanza. Tuttavia spesso si produce una frattura in questo accordo, in questa
concordanza: l’essere si trasforma in apparenza, oppure anche solo in dubbio, in un mero
essere-possibile. L’apparenza viene allora dissolta attraverso una rettifica, mediante un
mutamento del senso in cui la cosa era stata percepita. Il mutamento del senso appercettivo
avviene attraverso un mutamento dell’orizzonte di aspettativa delle molteplicità che erano
state anticipate come normali (concordanti-fluenti), come quando si vede un uomo e poi ci
si accorge che è un pupazzo. È chiaro così come la singolarità in sé non è nulla; la percezione
di una cosa è percezione della cosa nel suo campo percettivo. La singola percezione ha un
senso entro un orizzonte aperto di “percezioni possibili”, in quanto ciò che è propriamente
percepito rimanda a rappresentazioni percettive che gli ineriscono concordemente; la cosa
poi ha a sua volta un orizzonte, essendo entro un campo di cose. Esso, in quanto campo
percepito momentaneo, ha sempre per noi il carattere di un ritaglio dell’universo delle cose
di percezioni possibili. Anch’esso fluisce continuamente, ma in modo tale che nei particolari
non sempre avviene quel decorso concorde delle molteplicità prefigurate che produce la
coscienza della cosa. La certezza d’essere che include la certezza preliminare di poter portare
le inerenti molteplicità a un decorso concorde, spesso scade, e tuttavia si mantiene sempre
una concordanza della percezione complessiva del mondo.
Va notato anche che noi non siamo isolati, e che dunque si produce sempre la concordanza
intersoggettiva della validità, e perciò un’unità intersoggettiva nella molteplicità delle
validità e di ciò che in esse è valido. Anche se poi si rivelano disaccordi soggettivi si perviene
comunque all’unità dell’accordo: infatti tutto ciò che accade nella coscienza di ognuno è
sempre un unico e medesimo mondo.
48. L’essente come indice di un sistema soggettivo di correlazione
L’ovvietà ingenua, che è portata a ritenere che ognuno veda le cose e il mondo in generale
così come gli appare, occulta un ampio orizzonte di singolari verità, che finora la filosofia
non ha mai considerato nella loro peculiarità e nella loro connessione sistematica. La
correlazione del mondo, per quanto si fosse già preannunciata nella filosofia presocratica e
sofistica non era mai divenuta tema di scientificità, cosicché tutti rimasero impigliati
nell’ovvietà della constatazione che qualsiasi cosa ha un aspetto diverso per i diversi
soggetti. Se si approfondisce però il come dell’aspetto di una cosa nella sua evoluzione reale
e possibile e se si rivela la correlazione fra l’apparire e ciò che appare come tale, ci viene
incontro una tipologia articolata che include qualsiasi ente. Ogni esperienza concretamente
reale è un decorso uniforme di modi di datità che continuamente riempie l’intenzione
esperiente e che si realizza a partire da questa molteplicità totale. Che la struttura essenziale
della correlazione si definisca come rapporto tra l’apparire e ciò che appare indica molto

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bene che non si darebbe una cosa che appare, se non nel suo soggettivo apparire, il quale
quindi è essenziale perché l’apparire della cosa come cosa abbia luogo. L’esperienza è il
decorso uniforma di modi di datità delle cose, il quale da un lato rinvia all’intenzionalità
soggettiva e dall’altro implica nella sua concordia e uniformità la presenza della molteplicità
totale dei modi di datità.
49. Concetto provvisorio della costituzione trascendentale come «formazione di senso
originaria».
A questo punto è necessario tener presente che tutto questo si tratta di un’operazione
intenzionale complessiva e graduata nella totalità dell’intersoggettività che si è accomunata
in questo stesso operare. Tutti i gradi e gli strati attraverso i quali si intrecciano le sintesi che
si strutturano intenzionalmente da soggetto a soggetto, formano un’unità universale della
sintesi: attraverso questa sintesi si consolida l’universo oggettuale, il mondo così come è
dato nella sua concretezza e nella sua vitalità; si può così parlare di una «costituzione
intersoggettiva del mondo». Parlare di una costituzione trascendentale del mondo realizzata
secondo la struttura della correlazione, significa esibire la «formazione di senso originaria».
È alla intenzionalità che si deve risalire, alla sua funzione di costituzione delle unità della
formazione di senso se si vuole comprendere il mondo.
50. Prima disposizione di tutti i problemi sotto il titolo: Ego-cogito-cogitatum.
Il nesso «ego-cogito-cogitatum» è il titolo sotto cui si raccolgono tutti i problemi fin qui
trattati. Dato che ci troviamo sempre nell’orizzonte ormai aperto della correlazione, il fuoco
dell’indagine si rivolge ora all’io. Ego come un ego sempre identico e che produce tutte le
validità, intenzionale che lungo l’evoluzione dei modi graduati di apparizione, si dirige verso
il polo dell’unità, cioè un fine, pre-intenzionato, che si attua fase per fase. Inoltre tutto ciò
implica che l’io funga continuamente nel mantenimento delle apparizioni passate, facendo
sì che nel procedere della percezione, ciò che è stato originalmente esplicato non sprofondi
nel nulla e che rimanga in pungo all’io anche se non più percepito.
52. Paradossi e oscurità
Si pone così una prima difficoltà. All’interno dell’epochè la vita naturale, l’interesse per
l’essere e la realtà del mondo, qualsiasi conoscenza teoretica o pratica è impedita. «Ma non
pratichiamo forse pure noi la scienza, non tendiamo forse a stabilire verità attorno al vero
essere, trovandoci così sul pericoloso sentiero della doppia verità?» Va sottolineato qui che
la vita obiettiva e naturale del mondo è soltanto un modo particolare della vita trascendentale,
della vita che costantemente costituisce il mondo: fintanto che la soggettività trascendentale
vive in questo modo particolare, naturale, non può diventare cosciente degli orizzonti
costitutivi; in quanto essa vive puntata sui poli di unità. Nel rivolgimento dell’epochè nulla
va perduto, semplicemente, di ciascuno di essi viene esibito il suo correlato soggettivo, ciò
che rende possibile il vero e pieno senso d’essere dell’essere obiettivo.
53. Il paradosso della soggettività umana, che è soggetto per il mondo e insieme oggetto
I paragrafi 53 e 54 sono dedicati al «paradosso della soggettività umana» e alla sua
soluzione. L’intersoggettività è parte del mondo, è cioè la «soggettività umana del mondo»
presa nella sua universalità onnicomprensiva, ma appunto come parte del mondo. A tale
soggettività del mondo si imputa ora che il mondo, di cui si è fin qui ripetutamente
rivendicato lo statuto soggettivo, sia la formazione intenzionale di tale soggettività, chiamata
in tal modo a costituirlo nella sua totalità. La difficoltà si mostra quando si nota che «ad una
parte del mondo e nel mondo è imputato il compito di costituirne la totalità».
Se la psicologia scientifica si muove sul terreno del mondo e contrappone il mondo alla
rappresentazione umana del mondo, indagando i processi psichici attraverso i quali essi

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pervengono a un’esperienza del mondo, a formulare opinioni comuni o scientifiche, a
delineare la loro «immagine del mondo»; la fenomenologia, attraverso l’epochè, pone fuori
gioco qualsiasi interesse alla realtà o all’irrealtà del mondo, producendo così un
atteggiamento mirante alle correlazioni, e il mondo, l’obiettività, diventano una soggettività
particolare. Entro questo atteggiamento si relativizza anche la «soggettività»: il mondo è
inteso fin dall’inizio come il correlato delle apparizioni e delle intenzioni soggettive, degli
atti soggettivi e delle facoltà soggettive in cui esso ha il senso della sua unità. Ora se
retrocediamo dal mondo, come unità di senso, e ci interroghiamo sulle forme essenziali di
queste «apparizioni», esse diventano «modi soggettivi di datità».
L’epoché, che ci ha dato la possibilità di mirare alla correlazione soggetto-oggetto che
inerisce al mondo, di mirare cioè alla correlazione trascendentale soggetto-oggetto, ci porta
a riconoscere che il mondo che è per noi, che nel suo senso e nel suo essere-così è il nostro
mondo, attinge il suo senso d’essere esclusivamente alla nostra vita intenzionale, attraverso
un complesso di operazioni tipiche che possono essere rilevate a priori – rilevate e non
costruite attraverso dubbie argomentazioni e escogitate attraverso processi mitici di pensiero.
54. Soluzione del paradosso
a) Chi siamo noi in quanto soggetti che compiono l’operazione di senso e di validità della
costituzione universale – noi che, nella comunità dei soggetti, costituiamo il mondo come
polisistema, cioè come formazione intenzionale della vita in comune? Può il noi significare
noi uomini, uomini nel senso naturale-obiettivo? Queste realtà, il noi, non sono a loro volta
fenomeni e, come tali, poli oggettuali? «Naturalmente a questa domanda occorre rispondere
affermativamente». L’epochè ha reso gli uomini dei soggetti trascendentali, che fungono per
la costituzione del mondo, dei fenomeni. Essi sono per un verso il polo egologico dei loro
atti, diretti verso il polo oggettuale, ma per altro verso essi non sono solo questo, perché resta
in loro la concretezza che fa di tali io dei soggetti delle loro operazioni.
b) Siamo continuamente preda di paradossi, sostiene Husserl, perché si è dimenticato noi
stessi che filosofiamo. L’assolutezza dell’io che attuo l’epochè, dell’io che sono io, è
affermata con grande nettezza; perciò con la mia epochè tutti gli altri uomini, e la vita di tutti
i loro atti, rientrano nel fenomeno del mondo che è esclusivamente mio. La via che si apre,
interrompendo l’oscillazione dello sguardo fenomenologico tra il polo dell’io singolo e
quello dell’intersoggettività trascendentale, consiste nel mostrare come l’intersoggettività si
apra il proprio spazio fenomenologico a partire dall’io trascendentale. L’unico io, con la sua
vita costitutiva, costruisce una sua propria sfera oggettuale primordiale, a partire dalla quale
una ulteriore operazione costitutiva realizza una modificazione intenzionale di se stesso,
pervenendo così alla percezione dell’estraneità, di un altro io. Innanzi tutto si fa astrazione
da tutti i prodotti costitutivi dell’intenzionalità riferita alla soggettività estranea. Ciò che mi
è proprio in quanto sono un ego comprende ogni intenzionalità, dunque anche quelle dirette
all’estraneo. Si costituisce così il nuovo senso d’essere che oltrepassa il mio ego monadico
nell’identità che gli è propria e si costituisce un ego non come io stesso, ma che si rispecchia
nel mio io, non come semplice presenza ma come “alter ego”. Il paragrafo 54 si conclude
con la ripetizione della tesi che «occorre riconoscere l’assoluta unicità dell’ego e la sua
posizione centrale per qualsiasi costituzione». L’intersoggettività trascendentale può esser
rilevata solo a partire dall’ego.
55. La rettifica di principio della prima epochè
Il mondo è sempre un mondo già dato e indubbio, è nella certezza d’essere, anche se io
non l’ho presupposto quale terreno, esso è valido per me. «Non esiste un realismo più
radicale del nostro purché questa parola non significhi che questo: “io sono certo di essere

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un uomo che vive in questo mondo ecc.”». Husserl ha proprio come obiettivo una
interrogazione sistematica a partire dal concreto fenomeno del mondo e che venga a
conoscere l’ego trascendentale nella sistematica dei suoi strati costitutivi e delle sue validità
inespresse. Se una prima epochè aveva offerto l’ego trascendentale nella sua “concrezione
muta”, ora si tratta invece di venire a conoscere l’ego trascendentale “nella sua concrezione”,
accompagnato dalle sue validità. Lo sguardo fenomenologico si allarga, una volta che sia
stato conquistato il piano della correlazione fra mondo e soggettività trascendentale, col
compito di analizzare l’ego trascendentale, riconosciuto nella assolutezza e nella unicità
fungente ottenute grazie alla riduzione, a partire dal mondo in cui si obiettiva.
La differenza con Cartesio si mostra ora nella sua evidenza. L’ego cogito della
fenomenologia non è una sfera di premesse dalla quale si possa dedurre tutte le altre nozioni,
ingenuamente intese come obiettive. Non importa garantire le nozioni obiettive, qui importa
comprenderle. Bisogna riuscire finalmente a capire che nessuna scienza esatta e obiettiva
spiega seriamente. Dedurre non significa spiegare. Prevedere o riconoscere la struttura di
corpi fisici o chimici non è una spiegazione, anzi la necessità. L’unica reale spiegazione è la
comprensione trascendentale.
B. LA VIA D’ACCESSO ALLA FILOSOFIA TRASCENDENTALE
FENOMENOLOGICA A PARTIRE DALLA PSICOLOGIA
57. La separazione della filosofia trascendentale dalla psicologia
Se nel paragrafo precedente ci si ricollega a tematiche già trattate, come la crisi delle
scienze e la sua soluzione attraverso la realizzazione di un razionalismo vero e autentico,
capace di guidare l’uomo verso la sua realizzazione, si affronta ora la separazione della
filosofia trascendentale dalla psicologia. La storia della filosofia moderna, da Cartesio, a
Berkeley, a Hume, fino a Kant, coincide con i tentativi sempre rinnovati di dare inizio alla
filosofia trascendentale. Tuttavia l’intelletto umano, e l’obiettivismo radicato in esso, sentirà
la filosofia trascendentale come uno smarrimento. L’uomo moderno, plasmato dalla scienza,
esige un’intuibilità intellettuale, Einsichtigkeit, la quale, come rivela con esattezza
l’immagine del vedere, esige a sua volta l’evidenza della «visione» dei fini e delle vie che
portano a essi, e, lungo queste vie, l’evidenza dei singoli passi. Le grandi filosofie
trascendentali non rispondevano all’esigenza scientifica di queste evidenze, così furono
abbandonate. Si apre così lo spazio della tensione fra filosofia trascendentale e psicologia.
La filosofia trascendentale aveva però buoni ragioni per prendere le distanze dalla
psicologia: in quanto a questa erano state imposte le idee moderne di una scienza
obiettivistica costruita more geometrico e dal dualismo psicofisico.
58. Apparentamento e differenza tra psicologia e filosofia trascendentale
Qui Husserl illustra il modo in cui l’incompiuto destino fenomenologico della psicologia
si configura come un campo di tensione. La moderna psicologia si muove sul terreno del
mondo dell’esperienza della vita naturale, ricavando uno spazio di attenzione particolare per
le anime e lasciando fuori l’interesse per i corpi. Ci si muove qui su un mondo d’esperienza
già dato, ove l’interesse teoretico è puntato soltanto su uno degli aspetti reali di esso, le
anime. Ma per la filosofia trascendentale, la realtà obiettiva nel suo complesso, ma anche
l’obiettività pre-scientifica è diventata un problema. L’enigma si risolve grazie al fatto che
anche la psicologia rientra nella problematica trascendentale. L’io psicologico, umano,
mondano da un lato, e l’io trascendentale che presiede all’«operare egologico» sono
differenti e identici, sono in un senso ma non per un altro lo stesso io. Per l’ego che
ingenuamente si rapporta ai problemi del mondo i problemi trascendentali restano occultati,

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ma proprio per questo che è possibile compiere il rivolgimento trascendentale, che trasporta
nella regione dell’universalità trascendentale. Infatti è ormai chiaro che l’io psicologico,
umano, disposto nella dimensione del mondo spazio-temporale, e l’io trascendentale,
dell’operare egologico sono la stessa cosa. Infatti in quanto psicologo sono un io mondano,
riconoscendomi come tale, e conosco la mia anima come qualcosa di accessibile ad una
conoscenza obiettiva. Ma se non dimentico la circostanza che il mio stesso essere psicologo
si colloca entro l’orizzonte trascendentale, è evidente che non soltanto posso parlare di una
parentela tra psicologia e filosofia trascendentale, ma sono legittimato anche a ritenere che
si giunge alla filosofia trascendentale passando sul terreno della psicologia.
59. Analisi del rovesciamento dell’atteggiamento psicologico in quello fenomenologico
Il paragrafo affronta di nuovo il tema del rovesciamento dell’atteggiamento psicologico
in quello trascendentale, ciò che equivale a chiedersi come appaia la «psicologia ‘prima’ e
‘dopo’ la riduzione fenomenologica». La tesi fondamentale è ovviamente che
«nell’atteggiamento ingenuo della vita mondana, tutto è mondano, si tratta sempre di poli
oggettuali costituiti ma non concepiti come tali». Certo si può riflettere sulla propria vita
psichica e su quella degli altri, si può riflettere sulle proprie mutevoli appercezioni e su quelle
degli altri, si può ricordarle, ma restano nell’ambito dell’ingenuità trascendentale. «Le auto-
obiettivazioni umane dell’intersoggettività trascendentale, che ineriscono per una necessità
essenziale alla struttura del mondo costituito hanno inevitabilmente un orizzonte di
intenzionalità trascendentalmente fungenti, il quale non può essere dischiuso da nessuna
riflessione psicologico-scientifica», ma solo attraverso la riduzione trascendentale, che,
spezzando l’ingenuità naturale, riesce a mostrare la «storicità trascendentale».
60. La causa del fallimento della psicologia
La psicologia rimane sempre confinata al terreno dell’ingenuità mondana. Solo attraverso
l’assorbimento dell’elemento trascendentale nella vita psichica, consente di costruire una
psicologia scientifica, una scienza di un’anima del tutto priva di caratteristiche mistiche e
metafisiche, ma riferentesi all’essere in sé dell’io. Quando si indica la funzione agente nel
mondo, propria delle anime, non si deve intendere che questo essere dell’anima agente nel
mondo equivalga alla presenza nel mondo di qualcosa di analogo ai corpi. Il mio corpo non
è un qualsiasi corpo fisico, ma una realtà attraverso cui io agisco, da me «animata». Per
capire cosa vuol dire animare un corpo bisogna cogliere l’essenza di un’anima quale
“elemento psichico del mondo della vita”.
62. Rilievo preliminare del controsenso implicito nella parificazione delle anime e dei
corpi in quanto realtà
Anime e corpi non possono essere parificati in senso naturalistico. Il pareggiamento
formale dei corpi e delle anime, per cui essi sono separati tra loro e insieme congiunti in base
a regole, contraddice la loro essenza quale si presenta nel mondo-della-vita. È necessario
così rinviare l’esperienza di senso che parifica corpi e anime alla esperienza del mondo-
della-vita, precedente a qualsiasi sostruzione teoretica. «Risaliamo dai concetti fondamentali
della scienza ai contenuti intrinseci dell’esperienza pura, sospendiamo radicalmente tutte le
presunzioni della scienza esatta, tutta le sue versioni concettuali». Se viene messa in
discussione la distinzione tra mondo-della-vita e mondo pensato scientificamente, diviene
chiaro che solo l’universo dei corpi è spazio-temporale e che quello che non lo è vi partecipa
solo indirettamente. Tutti gli oggetti del mondo sono incorporati e proprio per questo essi
partecipano al tempo spaziale dei corpi; ciò che in essi non è corporeo vi partecipa invece
indirettamente. Solo su di sé è possibile esperire originariamente l’incorporarsi delle anime,
nel mio costane agire esclusivamente attraverso il mio corpo. Solo in base al mio agire

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originalmente esperiente, che è la mia unica esperienza originale della corporeità come tale,
posso intendere un altro corpo come un corpo proprio, in cui è incorporato un altro io attivo,
che posso comprendere solo mediatamente.
63. Problematicità dei concetti di «esperienza esterna» e di «esperienza interna»
L’errore di principio di voler considerare seriamente gli uomini come doppie realtà
conduce al falso e oscuro parallelismo di esperienza “interna” e “esterna”. Così l’”esperienza
psicologica” diventa una espressione equivalente a “esperienza interna”. Ciò che viene
esperito è il mondo percettivamente “qui”, oppure “stato qui”. Si rivela così la relatività,
nella singolarità dei suoi modi di datità, che si trasforma però in un’«apparizione meramente
soggettiva». Alla psicologia sfugge la circostanza che tutto ciò che «è del mondo-della-vita»
è soggettivo.
64. Il dualismo cartesiano come causa della posizione di questo parallelismo
È chiaro ormai che la natura delle scienze esatte non è la natura realmente esperita, la
natura del mondo-della-vita. Essa è il prodotto di un’idealizzazione, di un’idea sustruita alla
natura realmente intuitiva. Il dualismo cartesiano equivale a un parallelismo tra mens e
corpus, a un’implicita naturalizzazione dell’essere psichico, e perciò a un parallelismo delle
metodiche corrispondenti. L’elemento psichico, considerato nella sua essenza propria, non
ha infatti una natura, non ha un in-sé causale idealizzabile e matematizzabile nella
dimensione spazio-temporale, non ha leggi del genere di quelle naturali; per l’ambito
psichico non possono esistere teorie riferibili, come quelle delle scienze naturali, al mondo-
della-vita intuitivo, non possono esistere osservazioni ed esperimenti la cui funzione sia
uguale a quella che esercitano nelle teorizzazioni delle scienze naturali. In nessun modo una
scienza delle anime può lasciarsi guidare dalle scienze naturali. Essa può lasciarsi guidare
solo dal suo tema, dopo averlo chiarito nella sua essenza propria.
66. Il mondo dell’esperienza generale, la sua tipologia regionale e le astrazioni universali
in essa possibili
Husserl ribadisce che l’esperienza del mondo-della-vita è il fondamento ultimo di
qualsiasi conoscenza obiettiva. L’universo è fatto di cose, ma la cosa è un Habendes, un
essere che ha tutto ciò in cui il suo essere si esplicita. Se la cosa viene presa nel suo
significato di sostrato ultimo, rivelantesi nelle parole principali, essa è un essere avente, non
un essere avuto. Proprio in quanto avente proprietà, relazioni e modi di essere che ne
definiscono l’essenza, la cosa non è un sostrato metafisico, della realtà soggiacente
aristotelica; essa non è una sorta di deposito-base delle sue relazioni, perché queste ultime
sono ciò in cui si risolve e dissolve il suo avere avuto un essere. Le cose hanno dunque una
loro concreta tipologia, rivelata dalle parole principali di una lingua, ciò consente di
tracciare il quadro delle cose che Husserl traccia, che va dalle cose viventi a quelle inanimate,
agli uomini, agli animali alle cose culturali. Su tale partizione si modellano infatti i settori
scientifici in cui si articolano le scienze oggettive dell’epoca moderna, che vedono null’altro
che la corporeità. Ogni cosa ha la sua corporeità anche se, in quanto uomo o opera d’arte,
non è solo corporea, se è semplicemente, come tutte le cose reali, incorporata; anche se le
scienze moderne si fondano sull’evidenza dell’esperienza esterna, che in realtà è
un’evidenza astrattiva. Un’astrazione parallela e integrante alle anime, la psicologia
sottopone così l’aspetto psichico a un trattamento corrispondente a quello cui è sottoposto
l’aspetto fisico-corporeo. Tuttavia la fenomenologia non conosce l’astrazione delle anime e
dei corpi, e, al contrario del dualismo cartesiano, può essere considerata fedele all’empiria.
Secondo Husserl è dunque dubbio che procedendo tramite l’astrazione sia possibile una
scienza dualistica dell’uomo, dunque anche una psicologia. Le anime sono incarnate nei

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corpi e possono distinguersi solo per via astrattiva. Esse sono reciprocamente estranee e non
istituiscono, in quanto astrazioni dai corpi, un universo totale parallelo. La psicologia resta
una scienza delle anime singole e non delle generalità dell’anima, al contrario della fisica.
Infatti alle anime viene attribuita una certa sostanzialità, anche se non sono autonome, e,
come insegna l’esperienza, possono presentarsi nel mondo solo connesse ai corpi. Cade così
l’ultimo residuo di cartesianesimo delle due sostanze, perché esse sono solo astrazioni e non
sostanze.
68. Il compito di una pura esplicitazione della coscienza come tale
«Ciò che importa innanzitutto è di riuscire a superare l’ingenuità che rende la vita di
coscienza, attraverso la quale e nella quale il mondo è per noi ciò che è, una qualità reale
dell’uomo, reale nel senso in cui è reale la sua corporeità». Va anzi tutto considerata
l’immediata auto-esperienza riflessiva della coscienza, che non offre dati del sentimento o
della volontà, ma, come già Cartesio, a prescindere dagli altri suoi propositi, il cogito,
l’intenzionalità. Così non si ritrova altro che la «coscienza di…». Bretano fu il primo infatti
ad avere avviato un’analisi del carattere peculiare dello psichico e per averne rivelato
l’intenzionalità – anche se egli rimase intrappolato nel dualismo naturalista.
69. Il metodo psicologico della «riduzione fenomenologico-psicologica»
Si è considerato ovvio che il dualismo dei corpi e delle anime si collegasse alle «astrazioni
parallele» di cui si occupano scienza naturale e psicologia. Ma l’esperienza che facciamo di
un uomo tramite l’esperienza interna ed «astraendo da qualsiasi natura» non ci offre uno
strato dei vissuti intenzionali di tipo psichico, contrapposti a vissuti corporei, quanto
piuttosto a uomini in relazione intenzionale attiva e passiva con le cose. L’astrazione dalla
corporeità di un uomo non elimina il riferimento intenzionale alla realtà mondana; si dà
quindi un riferimento al mondo, anche solo prendendo le mosse dalla mera dimensione
psicologica. La riduzione «fenomenologico-psicologica» mostra dunque delle persone che
hanno un riferimento intenzionale alla realtà mondana.
La psicologia descrittiva ha il suo tema specifico nell’essenza propria della persona come
tale, che è soggetto di una vita in sé esclusivamente intenzionale, e che dev’essere
considerata un nesso puramente intenzionale. Ma esse anche nell’accomunamento con altre.
I soggetti possono diventare dunque tematici: da un lato riferendosi puramente all’interno
delle persone e a quelle cose di cui sono coscienti; dall’altro lato riferendosi al loro essere-
in-relazione. La psicologia descrittiva assume così un’ampiezza pari a quella dei concetti
delle altre scienze descrittive.
70. Le difficoltà dell’«astrazione psicologica»
Si presenta qui chiaramente la differenza tra il senso dell’epochè e il senso della riduzione
fenomenologica. La prima costituisce la premessa della seconda, in quanto tale consente di
tematizzare i soggetti nella loro purezza essenziale, sospendendone la percezione che se ne
ha nella vita naturale, ossia «nelle loro relazioni intenzionali-reali con gli oggetti reali
mondani». L’epochè dunque è il mezzo della neutralizzazione dell’atteggiamento naturale
dei soggetti e verso i soggetti. Il rivolgimento in cui essi divengono, grazie a tale
neutralizzazione, dei fenomeni, è invece la riduzione fenomenologico-psicologica.
71. Il pericolo di fraintendere l’«universalità» dell’epochè fenomenologico-psicologica
Soltanto l’epochè universale rivela, quale campo tematico, ciò che la vita egologica
propriamente è: una vita intenzionale che, nella sua intenzionalità, subisce le affezioni di
quegli oggetti intenzionali che valgono e appaiono in essa, che si dirige, in molteplici modi,
su di essi, che si occupa di essi. Tutti i «di-che-cosa» di queste occupazioni rientrano a loro
volta nella pura immanenza e devono essere colti per via descrittiva nei loro modi puramente

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soggettivi, nelle loro implicazioni, con tutte quelle mediatezze intenzionali che vi sono
incluse. Non basta tuttavia compiere la prima epochè, quella che ci trasporta nella
dimensione interna. Una volta attinto l’interno, un atteggiamento empirico conseguente e
seriamente impegnato consentirebbe di indugiare nella sfera psichica e di compiere sul suo
terreno la riduzione fenomenologica: non più accumulazione di dati, ma pieno possesso del
«mondo spirituale nella sua peculiarità». La psicologia non ha mai conquistato il proprio
terreno; non ha mai analizzato i suoi fenomeni, trattenendosi al di qua della riplasmazione
fenomenologica: percezione, ricordo, attesa, presentificazione, ma anche giudizi sono tutti
fenomeni della esperienza psicologica.
È importante rilevare come sia errato ritenere che la riduzione universale consista in un
atteggiamento volto a depurare universalmente e attraverso riduzioni le singole
intenzionalità che si presentano. Certo, se io rifletto di me, mi ritrovo vivente nel mondo, mi
accordo di subire le affezioni delle cose singole, di occuparmi delle singolarità. Ma io non
posso fare come la psicologia dei «dati sulle tavolette», trascurando il fatto che questa
tavoletta è cosciente di se stessa come tale, che è nel mondo e ne ha coscienza: «io sono
sempre cosciente di singole cose del mondo, ma ho anche sempre coscienza del mondo
stesso, in cui sono». Mondo sempre inteso come un polo, una unità di mondi supposti
soggettivi-relativi, i quali, nel corso delle rettifiche, si trasformano in mere apparizioni del
mondo, del mondo-della-vita per tutti, della persistente unità intenzionale. Nell’epochè
questo mondo diventa un fenomeno, e ciò che rimane non è una molteplicità di anime
separate: così come esiste un’unica natura universale, una compagine unitaria in sé conclusa,
esiste anche una compagine psichica, una connessione globale di tutte le anime.
Inoltre torna il tema dell’intersoggettività. Nessuno potrebbe essere uomo nel mondo
senza essere un uomo, e inversamente il suo essere un uomo coincide con l’essere uomo nel
mondo. Pur senza presenze reali intorno a me, io sono in un «presente co-umano», in
quell’«orizzonte aperto dell’umanità» che si dispiega in un legame generativo, connettente
il succedersi delle generazioni storiche e per questo motivo storico, proiettato nel futuro a
partire dal passato attraverso il presente.
71. Il rapporto tra psicologia trascendentale e fenomenologia trascendentale quale
specifico accesso all’auto-coscienza pura. Definitivo accantonamento dell’ideale
obiettivistico nella scienza dell’anima
Il penultimo capitolo esplicita fin dal titolo il senso del rapporto tra psicologia
trascendentale e fenomenologia trascendentale, precisando che è proprio tale rapporto che
dà accesso all’autocoscienza pura in cui consiste il compito che la fenomenologia è chiamata
a svolgere nelle sue indagini. Proprio da tale rapporto infatti, dunque non un semplice
abbandono della psicologia a vantaggio della fenomenologia, ma dalla connessione
reciproca delle due, che può essere ricavato l’accantonamento definitivo dell’«ideale
obiettivistico della scienza dell’anima». La filosofia trascendentale consiste nell’auto-
riflessione della soggettività trascendentale, che ora mi consente di vede che la storicità non
empirica ma assoluta ha le sue struttura nella «comunità trascendentale di soggetti», la quale
a sua volta «ha in sé il mondo come un correlato intenzionale di validità e continua a
produrlo, in forme sempre nuove, nei gradi di un mondo culturale».
La riduzione trascendentale è la porta d’ingresso alla conoscenza di sé e del mondo, che
né le teorie della conoscenza realistiche né quelle idealistiche hanno potuto affrontare e
risolvere. In entrambi i casi si cade nell’equivoco di concepire la correlazione
fenomenologica tra soggettività e mondo nella forma del rapporto soggetto-oggetto. In
questo modo, viene trascurato il paradosso su cui Husserl ha già richiamato l’attenzione,

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quello per cui l’uomo e l’umanità sono una soggettività per il mondo e insieme sono nel
mondo, sono obiettivamente mondane. Appare chiaro che il paradosso costitutivo della
soggettività fenomenologica modifica in maniera radicale sia l’opzione del realismo sia
quella dell’idealismo per quanto concerne il rapporto conoscitivo tra soggetto e mondo. Il
senso del mondo per noi è quello che ricava il suo senso e la sua validità, immer wieder, da
che noi lo costituiamo. Questo significa che il nostro essere soggetti conoscenti rivolti al
mondo «precede l’essere del mondo», ma non nel senso della realtà del mondo, come
accadrebbe se si incontrassero la realtà di un soggetto conoscete e la realtà del mondo da
conoscere.
Se invece parliamo correttamente della «correlazione trascendentale tra il mondo della
vita trascendentale della soggettività costituita e il mondo stesso», quest’ultimo si presenta
come il polo di una correlazione, di quella correlazione che connette il mondo stesso alla
«comunità di una vita dell’intersoggettività trascendentale» che costituisce il mondo. Alla
psicologia manca così l’autentica riduzione trascendentale, fermandosi al primo grado della
riduzione stessa. Perciò si interessa non all’«interiorità trascendentale», ma all’«interiorità
che è nel mondo», ossia ciò che si dovrebbe definire l’insieme delle «qualità di una persona»
che abita il mondo. Sarebbe necessario per lui liberarsi dalle vecchie tentazioni
naturalistiche, e così entrerebbe «in possesso della totalità del soggettivo in cui sono inclusi
intenzionalmente e oggettualmente l’uomo, le comunità umane connesse intenzionalmente
e interiormente e il mondo in cui vivono»: si tratta di un passaggio essenziale per appropriarsi
del come dei modi di datità, i modi in cui appaiono alla coscienza che li intenziona.

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