POST-HUMAN
L'idea che l'uomo sia povero di corredo innato è una vera e propria ingenuità, in quanto la grandezza e la pluralità
della cultura umana devono e loro natali alla dotazione biologica e innata dell'uomo, che non è di poco conto: lo
sviluppo del cervello umano, e le sue potenzialità culturali, si realizza proprio perché è il suo stato genetico a renderlo
possibile.
Infatti possiamo dire che è errato definire il metodo di apprendimento dell'essere umano come l'atto di riempire
un contenitore vuoto con informazioni rinvenute dall'esterno ( che riempirebbero la carenza biologica), bisogna
infatti definirlo come la riorganizzazione della propria abbondante materia (quella biologica mente umana)
tramite l'influenza esterna.
Un aspetto che rende problematica la confutazione della teoria dell'incompletezza è il fatto che solo alla luce di una
carenza biologica si possa realizzare un quadro esplicativo verosimile all'interpretazione antropopoietica
dell'ontologia umana, concezione che considera la natura umana non come data ma nel suo costituirsi, quindi
una natura che può variare, cambiare.
Vi sono però delle caratteristiche che questa concezione assume se viene presupposto la deficienza biologica umana, e
che non possono essere condivise:
● L'incompletezza, che determinerebbe quella libertà di autodeterminazione dell'uomo, non può essere
presupposto e prerequisitiva; essa è una percezione, una sensazione oltre tutto arbitraria è variabile, che
nasce solo dopo il confronto tra le capacità umane e le prestazioni tecnologiche.
● Essendo l'uomo e la cultura inscindibili se posti in opposizione con la natura, la cultura diviene il privilegio
esclusivo dell'uomo, e addirittura la peculiarità che definisce la sua identità. In realtà, e dimostrato che vi
siano altre forme di cultura nel mondo animale, sebbene siano più rudimentali.
● Poiché la cultura nascerebbe per sopperire alla mancanza innata, essa dovrebbe essere unica ed omologata,
identica per tutti gli esseri appartenenti alla specie umana che, essendo tali, condividono la stessa
carenza. È indiscutibile però il carattere plurale della cultura che, determinandosi nella storia come
concrete tradizioni, appare come un insieme infinito di processi creativi, spiegabili soltanto entro un
orizzonte di continua congiunzione di influenza fra l'uomo e l'alterità.
acquisiscono le penne che sono necessarie alla termoregolazione del proprio corpo, a lungo andare altri cambiamenti
biologici indotti che coinvolgono le penne e gli arti porteranno ad una qualità nuova, non più relativa al mantenimento
dell'equilibrio del calore del corpo, ossia l'abilità di volo.
Il repertorio di carenze umane può essere visto come una collezione di eventi casuali, che hanno preso una
direzione determinando particolari prestazioni o incompletezze, ma che avrebbero potuto prenderne un'altra. Detto ciò
possiamo affermare che non è possibile estrarre una natura originale dal repertorio performativo dell'uomo, ma
possiamo solo presupporre un insieme di circostanze e situazioni che hanno favorito l'apertura del sistema
dell'uomo all'esterno permettendo i processi di ibridazione.
La cultura quindi deve essere vista non più come completamento della natura ma come motore della natura,
attraverso la capacità della cultura stessa di retroagire sul sistema uomo. Da questo punto di vista possiamo notare
quanto sia inesatto e semplicistico parlare di imperfezione in senso assoluto invece di parlarne nei termini di
percezione dell'imperfezione, una percezione che è condannata a una continua metamorfosi. Infatti la cultura è
sinonimo di instabilità, in quanto pone costantemente, nel suo evolversi, regole e possibilità che rimettono in
discussione l'equilibrio precedente e lo mostrano come imperfetto, è giusto infatti affermare che l'ibridazione
culturale crea nuove ibridazioni culturali producendo così nuove percezioni di imperfezione e incompetenza, è
proprio questo carattere espansivo del processo di ibridazione culturale a mostrarci l'assoluta arbitrarietà di ogni
definizione di imperfezione come caratteristica primigenia della specie umana, dato che essa ha una definizione
che non è stabile e solida sulla quale poter fondare lista umana, ma è sempre riferita a un metro di giudizio, ossia
quello delle prestazioni culturali ora in atto.
antibiotico. Quindi attraverso l'antibiotico l'uomo non si è semplicemente sottratto a una pressione selettiva
ma ha spostato la pressione selettiva dalla semplice capacità di produrre antibiotici alla capacità di
realizzare partnership sempre più perfezionate con l'antibiotico di sintesi.
Si potrebbe quindi dire che ogni slittamento della pressione selettiva non è un fattore di involuzione, ma
semplicemente un nuovo percorso evolutivo. La tecnologia quindi diventa una sorta di esternalizzazione
performativa che estende il dominio operativo dell'uomo sulla realtà esterna non impoverendo la specie ma
arricchendo la propria attraverso i bisogni; la tecnica quindi non ha supplito ha una mancanza biologica, al
contrario ampliato il dominio di intervento dell'uomo gli ha permesso nuove forme di vita.
Marchesini sostiene che la tecnologia sia incarni attraverso un bisogno indotto, bisogno che diventa il punto di
forza dell'uomo perché trasforma processi evolutivi in processi evolutivi, nei quali un vasto repertorio di partner
non umani entrano di fatto a far parte dell' antroposfera. Pertanto si può affermare che l'uomo si rende
incompleto attraverso la cultura e non che l'uomo è un essere incompleto e che si completa attraverso la
cultura. Tale teoria quindi cancella definitivamente l'idea di una carenza biologica dell'uomo, tra l'altro smentita
scientificamente: l'uomo possiede un corredo genetico tutt'altro che semplificato visto che siamo legati
filogeneticamente a specie, come lo scimpanzé e il gorilla, caratterizzate da un articolato profilo
comportamentale e da una complessa natura sociale, sostituendo la superiorità umana con un florido dialogo
con l'alterità, entro il quale l'uomo riesce a trarre diversi benefici proprio il nome delle sue competenze
biologiche e, sequenzialmente cognitive.
Possiamo quindi trarne che ai nostri occhi sembra imperfezione ciò che in realtà è il legame, virtuosismo nel
bisogno dell'alterità, apertura del sistema uomo al mondo esterno. Abbiamo costruito le nostre imperfezioni senza
consapevolezza, senza fini e soprattutto senza volontà e lo abbiamo fatto spostando la pressione selettiva sui nostri
compagni di ibridazione e i scrivendo nuove prestazioni ibride al grande catalogo dell'umanità.
L'ibridazione è un continuo riposizionamento della soglia dell'uomo ed è quindi un processo dinamico
incompiuto ma soprattutto non perfezionabile, non esiste una perfezione o imperfezione di partenza, ma nemmeno
una perfezione o imperfezione che attende di essere realizzata. La complessità virtuale emerge
contemporaneamente alla prestazione ed è frutto dell'ibridazione culturale. Dunque il percorso culturale
dell'uomo è volto a creare nuove virtualità, non a sopperire vecchie imperfezioni, esso infatti permette un gran
numero di esiti. Quindi infine l'evoluzione è un processo inarrestabile che viene indirizzato è modificato dalla
tecnologia ma che è impossibile da controllare o addirittura da azzerare.
La misconoscenza della virtù biologica dell'uomo ci porta infatti ad atteggiamenti di arroganza e disprezzo
verso il nostro stesso corpo quasi fosse un rifiuto o comunque un intralcio. Il rifiuto del nostro corpo si fonda sulla
convinzione che la nostra individualità riposi al di fuori del substrato biologico oppure giri sul sostrato
biologico pur potendone letteralmente fare a meno, più l'uomo si è allontanato dal mondo, più ha cresciuto il
proprio pregiudizio nei confronti di quest'ultimo, cercando un'alleanza sensoriale esterna che potesse sopperire
alla fallibilità e parzialità dei propri organi.
Il corpo è prima di tutto un insieme di prestazioni che per comodità possiamo suddividere in: sensoriali, cognitive,
espressive (comportamentali e comunicativi).
Le prestazioni sensoriali ci raccordano al mondo ossia ci danno la possibilità di muoversi in esso e di
monitorare gli accadimenti esterni; il sistema sensoriale letteralmente ci immerge nel mondo, in questo modo il
nostro corpo è pervaso da un continuo feedback informativo sull'assetto interno-esterno in base a diversi
parametri fisico-chimici. Siamo però abituati a considerare i nostri sensi in modo estremamente localizzato (gli
occhi, le orecchie, il naso, le mani, la lingua) e riferito al contesto esterno, viceversa tutto il nostro corpo partecipa
alla performance percettiva e nello stesso tempo le nostre attenzioni sensoriali sono in buona parte rivolte allo
stato interno. Gli organi adibiti alla percezione dei sensi hanno avuto un percorso storico che li hanno sempre
più affinati, analogo a quello migliorativo e ibridativo della cultura; essendo frutto di un processo evolutivo,
come per le altre specie, anche per l'uomo essi non sono sistemi di monitoraggio validi in assoluto, ma
presentano dei precisi domini di validità riferite al contesto di vita e alle sfide sensoriali con cui l'uomo si è
dovuto confrontare nel corso della filogenesi. E con questo possiamo affermare che anche all'interno del loro
dominio di validità e se si presentano subottimali, cioè aperti all'errore percettivo. Può essere detta la stessa cosa
per le prestazioni cognitive.
Il processo di percezione si presenta come il frutto di una performance sensoriale affiancata da una
performance cognitiva.
Le attività cognitive si presentano nell'uomo molto diversificate, con precise e predisposizioni, e quanto più
l'uomo costruisce strutture ibride e quanto più si affida a esternalizzazioni performative, tanto più
l'armamentario cognitivo rivela le proprie pertinenze.
È proprio un'acquisizione culturale, lo slittamento di contesto, il superamento della soglia del innato ad aver
creato la sensazione della fallibilità e parzialità del corpo, il bisogno fittizio di una complementarietà
tecnologica per realizzare appieno le sue possibilità. Questa attribuzione di carenza è un processo a posteriori,
frutto del confronto con attività performative ampiamente ibridate con realtà non-umane. L'imperfezione non
è quindi un parametro oggettivo, reale e quindi valutabile su dati concreti, ne ha dei riferimenti di confronto,
non è un dato di fatto, ma un da farsi, ossia un flusso ibridati vivo con la realtà esterna, uno spostamento di
pressione selettiva, un esternalizzazione di funzioni o, ancora, un'iscrizione di funzioni ibride nel corredo della
nostra specie. Nel repertorio di prestazioni umane infatti si vanno sommando eccellenze specializzazioni sempre
meno accomunabili tra loro, rendendo impossibile lo sfilarsi della lista lineare delle caratteristiche morfologiche,
funzionali e comportamentali che definiscono precisamente l'uomo e il suo dominio, tutto quel che ha degli
compete. Pertanto è necessario pensare l'identità umana come un sistema aperto all'alterità che prende parte ad
un processo di meticciamento con il mondo, nel quale anche quest'ultimo ruolo attivo.
Una volta che l'alterità selettiva ha influenzato il decorso storico del soggetto, quest'ultima si iscrive di fatto
all'interno del soggetto e influenza la prossima ridondanza di virtualità che dovrà essere soggetta a selezione
(un albero in grado di parlarci delle leggi dell'energia radiante, una specie dell'ambiente in cui si è voluta, un individuo
delle esperienze che ha vissuto). Conseguenza di tutto ciò è che non è nemmeno possibile spiegare i processi
biologici senza relazionarli all'insieme di storie che concorrono con la dote genetica alla costruzione di un
individuo. In questo modo si rigetta qualunque tentativo di sottomettere la natura umana ha una teoria
esplicativa esaustiva e coerente, tentativo destinato a fallire.
Questa prospettiva vuole anche sottolineare impropria antinomia modello psicologico-modello biologico, secondo
la quale il primo, slegando la dimensione cognitiva da quella organica che ne è alla base, spiega questa entro
causa universale e teoriche così che possa essere realizzata da un qualsiasi altro sostrato diverso natura, anche
inorganica, in grado di riprodurre lo stesso processo. In realtà l'uomo non può essere compreso al di fuori del
contesto biologico, non perché le leggi della biologia possono da sole spiegare la sua natura, ma perché è
proprio la natura biologica a rendere la sua ontogenesi ricorsiva, ovvero inspiegabile assumendo un solo punto
di vista, è il punto di partenza della sua ricorsiva evoluzione neurale e cognitiva, dunque culturale e tecnica, in
sintesi della sua ontogenesi (percorso progressivo di stadi embrionali e cambiamenti che formano l'individuo).
Possiamo pensare al rapporto tra mente e corpo, possiamo pensare che la mente sia prigioniera del corpo o
viceversa, ma bisogna valutare attentamente il frattale di relazioni che intercorrono tra mente e corpo, l'illusoria
impressione di vivere dentro un corpo deve essere sostituita la certezza di essere un corpo.
caratteri comportamentali dell'individuo che ne derivano, è in questo stesso periodo quindi che si
affinano i modelli di socializzazione. Bisogna quindi mettere in chiaro cosa significa socializzare: non è
facile dare una definizione univoca di socializzazione, se non nel senso più generico di interazione
all'interno della specie, ovvero di insieme di rapporti (comunicativi, ludici, competitivi, sessuali) che
determinano a tutti gli effetti una soglia di distinzione fra gli individui: quelli verso i quali si è
specializzato e tutto il resto. Il comportamento non è predeterminato geneticamente, ma deve essere
guidato, acceso o completato dall'apprendimento. Quindi il periodo giovanile costituisce la base della
rete di acquisizione esperienziali fondamentali per la definizione dei repertori cognitivo-
comportamentale.
● Nella vita dell'essere umano non solo il periodo giovanile lungo, ma permane in alcuni suoi caratteri,
come il gioco, la curiosità esplorativa, il vigore dell'apprendimento, per tutto il restante arco della sua
vita. Il mantenimento di una sorta di incompletezza giovanile favorisce la non-chiusura del sistema
comportamentale, favorendo i rapporti con l'alterità, cosa che avviene negli altri animali. Bisogna però
dire che non è corretto affermare che tutti gli animali non-umani chiudono il loro sistema comportamentale
(ovvero che una volta acquisite le determinazioni comportamentali genetiche ed esperienziali non
modificherebbero il repertorio dei comportamenti) perché è evidente che esistono diversi livelli di
chiusura a seconda della specie. Tuttavia il livello di apertura di un repertorio comportamentale in un
soggetto non-umano adulto è considerevolmente ridotto, al punto che, una volta raggiunta la maturità, esso ci
appare per semplificazione come un sistema deterministico. Il sistema uomo è tutt'altro che un sistema
pienamente determinato, ma utilizza la propria virtualità di partenza per dar vita esiti indeterminabili
e variamente configurati.
● l'acquisizione di competenza = l'uso di uno strumento ci porta ad acquisire competenza non solo riferimento
alla prestazione agli obiettivi che la prestazione si pone, bensì anche nella capacità di usare, manipolare lo
strumento ed estrarre da esso sempre nuove potenzialità d'uso o addirittura nuovi strumenti.
● la percezione di competenza= abbiamo già visto come la carenza o l'improprietà del sostrato organico non
possono essere considerate un valore assoluto o, meglio, oggettivo perché nascono dalla comparazione delle
prestazioni e soprattutto dall'obiettivo della prestazione stessa. Ma c'è un altro aspetto che entra a far parte
della percezione: l'iscrizione di un nuovo bisogno nelle aspettative dell'uomo. È proprio l'apertura del
sistema uomo che crea instabilità dell'essere umano, ovvero la capacità di immaginare nuove mete che
inevitabilmente si trasformano in nuove aspettative le quali a loro volta, non sono mai esaudibili in senso
compiuto. Realizzare un sistema il non-equilibrio significa creare un continuo slittamento delle
aspettative, che predispone il sistema non raggiungere mai una piena gratificazione.
● l'utilizzo è il campo d'azione della competenza= lo strumento non solo modifica i processi acquisitivi di
competenza e la percezione della stessa, modifica anche il campo d'azione delle expertise, infatti l'alterità
con cui l'uomo si ibrida sposta il raggio d'azione dell'uomo allargandolo, talvolta modificandolo
profondamente.
● le caratteristiche della prestazione stessa= la biologia evoluzionista la ricerca tecnologica nell'immediato
almeno due trasformazioni nella configurazione performativa delle caratteristiche biologiche e
tecnologiche: il meccanismo della cooptazione, ossia quando l'accumulazione di innovazioni o di varianti
induce nel sistema una sorta di salto quantico che predispone il bioelemento o lo strumento essere utilizzati
anche per altre funzioni e quindi essere sottoposti a nuovi selettori; e l'emergenza, un fenomeno
complesso interpretabile come superamento di soglia, per esempio quando due o più prestazioni si trovano
a convergere e a saldarsi performativamente, realizzando anche in questo caso una soluzione di continuità
nelle rispettive funzioni e dando vita a strutture coordinate.
Tutto ciò sottolinea ancora di più la natura instabile costantemente autopoietica dell'uomo, impossibile da
spiegare da un punto di vista sincronico, e della cultura, che dunque non fronteggia alcuna mancanza.
un nuovo modo di concepire la soggettività, basato non più sul raggiungimento di una forma perfetta, assoluta e
desiderabile per tutti gli uomini, né su un processo separativo e autarchico (autoreferenziale) del ontogenesi. La
soggettività inizia a giocarsi nella promiscuità ontologica, dove l'ibridazione e la contaminazione con realtà
non-umane, che siano animali o macchine, non rappresentano più minaccia la definizione densità aria, bensì
divengono l'espressione più autentica della soggettività.
Gli umanisti sono fortemente influenzati dal platonismo in cui il rifiuto dell'alterità gioca un ruolo fondamentale
per quanto riguarda la concezione essenzialistica di purezza. La purezza diventa una vera e propria ossessione,
infatti si ricerca nel patrimonio innato dell'uomo una struttura primigenia, che possa spiegare la nobiltà
ontologica dell'uomo, ossia la capacità della nostra specie di trasformare in oro qualsiasi cosa si tocchi.
Questa idea separativa e depositaria, che ancora oggi domina il nostro modo di interpretare la conoscenza, è frutto di
una sorta di peccato d'origine preumanistico. L'alterità verrà dunque interpretata dallo manismo in qualità di
fonte di pericolo e di degrado proprio a causa del fattore-rischio di contaminazione con il diverso, che in
qualche modo mette a repentaglio l'idea di purezza.
Secondo Marchesini bisogna considerare l'antropopoiesi, non tanto ancorandosi a vecchi concetti di
incompletezza o di imperfezione della natura umana, quanto piuttosto cogliendo l'aspetto coniugativo di ogni
atto culturale. Questa prospettiva sottolinea l'importanza dell'alterità, dato che presuppone che la cultura sia un
processo eteroriferito, e dà vita a un nuovo modo di concepire la conoscenza; dal sapere come dominio sul
mondo esterno si passa al sapere come partecipazione, ovvero avvicinamento al mondo esterno.
L'intento di questo saggio è proprio quello di sfatare il pregiudizio della autosufficienza dell'uomo, dell'idea cioè
che lo sviluppo culturale abbia seguito un percorso divergente dei modelli naturali, discostandosi sempre più
dal commercio con l'alterità non-umana. La peculiarità dell'uomo sta proprio nella ricongiunzione indirizzata
verso l'alterità.
Quindi si è visto come la cultura non sia una semplice emanazione dell'uomo, come non sia una dimensione
dell'uomo, come lo sviluppo della cultura non allontani L'uomo dal consesso culturale e non amplifichi la forbice tra
uomo e altri animali, come l'artificiale non si sa qualcosa intrinsecamente diverso dal naturale e come la cultura non
sia complementare all'insufficienza biologica dell'uomo ovvero come non sia oppositiva la natura.
Perfino la dicotomia artificiale-naturale, che trae le sue origini dall'opposizione natura-cultura, è altamente
inadeguata, dato che l'uomo è totalmente immerso nella natura, quindi non vi è una sua manifestazione che non
debba essere considerata a naturale. Tutto ciò che è frutto della manipolazione dell'uomo viene quasi considerato
come qualcosa di sostanzialmente diverso da quel che è dato riscontrare nel vasto repertorio della natura; in realtà
gran parte delle applicazioni tecnologiche non sono altro che riproposte di quanto già è presente in natura.
L'uomo impara semplicemente a gestire e riprodurre questi processi attraverso la conoscenza descrittiva dei
loro meccanismi casuali.
va del sistema vivente, ogni variazione infinitesimale ha un grande significato non può essere
approssimata.
● Inoltre, la configurazione del sistema formale è determinata esclusivamente da un repertorio di istruzioni
prefissati a priori, che di fatto programmano e prevedono tutte le possibili situazioni verificabili. Il
sistema formale è autoreferenziale, chiuso in se stesso, differenza del sistema vivente che è parte di un
rapporto eteroriferito(la cui caratteristica prima è la selezione) il cui esito non è prevedibile e la cui fine
non è predeterminabile.
Possiamo affermare che l'eteroreferenzialità del sistema vivente determina anche delle differenze fra l'indagine
intorno la vita biologica e il programma informatico: infatti, se nel secondo, pura descrizione e spiegazione alla
luce di leggi causative coincidono, permettendo di fatto anche la previsione dell'andamento futuro di questo;
con la prima, una pura analisi sincronica (fuori dal tempo) intorno al funzionamento interno dell'organismo
non basta per rinvenire la totalità delle cause alla base del fenomeno, dunque, nemmeno per comprenderlo. È
infatti necessaria un'analisi diacronica (dentro al tempo) a posteriori che recuperi le tappe del commercio
eteroriferito con le quali la vita biologica, e umana, si è affermata.
Il mito della purezza però nasconde un’intrinseca pericolosità che si è già mostrata nel corso della storia
contemporanea con l'eugenetica e l'insorgere del razzismo durante e dopo il regime totalitario nazista. La cosiddetta
rivoluzione igienica ottocentesca, che promuove l'equazione tra diversità e rischio, si sposta pericolosamente
dall'ambito strettamente chimico-biologico.
Quindi il concetto di purezza continua a sopravvivere nell'età contemporanea, con la prospettiva secondo cui
l'eugenetica di inizio Novecento avesse il fine umanitario di miglioramento del genere umano. Possiamo però
affermare che ciò potrebbe anche essere funzionale per certe questioni inquadrabili sotto un profilo performative (ad
esempio debellare patologie ereditarie e mortali), ma l'aggettivo "migliore" non è attribuibile a priori, dato che ciò che
in una particolare situazione può essere un impedimento, in un'altra situazione potrebbe essere un vantaggio.
Il transumanesimo si appropria di un'opposizione uomo-animale, in cui la tecnologia è vista come strumento per
la scalata gerarchica del primo, che non solo gli permette di distinguersi dal secondo, ma gli permette anche di
sottrarsi alla selezione naturale e di dominare, prendere il controllo del mondo naturale.
Queste riflessioni però hanno origine dalla credenza, dalla pretesa, secondo cui tutto quel che c'è di umano sia frutto
del solo uomo.
Il postumanesimo, invece, propone una prospettiva antropopoietica secondo cui l'umanità non è data, non è stata
costruita una volta per tutte, ma di volta in volta va costruita e modellata (Remotti, 1999).
rivela sinistre tendenze, perde connotati di affidabilità che ne avevano accreditato la morfologia fino al tramonto
della modernità. Invece ritroviamo una continuità nel mostro, in quanto esso esemplifica il cammino dell'uomo
verso l'imperfezione. La carenza non viene più letta come incompletezza, ma come bisogno dell'alterità,
cosicché avvertiamo nel bisogno il grande motore delle caratteristiche più autentiche dell'essere umano.
Possiamo affermare che il mostro è metafora del percorso ontogenetico di un qualsiasi essere vivente, in quanto
ricorda la transitorietà di ogni momento della storia ibridativa, l'arbitrarietà del concetto d'identità e il continuo stato di
imperfezione e instabilità a cui l'ibridazione lo sottopone. L'umanità nell'insufficienza e nella ridondanza, nell’eccesso
e nella carenza.
6.3 PLURIFENETICA
Con questo passaggio alla pluralità della cultura e dell’identità individuale umana, anche il corpo prende parte a
specifici processi di mutazione e cambiamento, che però a differenza dell’eugenetica, non sono volti ad uno stato
di perfezione omologata, bensì all’espressione del proprio essere mutanti: così si realizza una pluralità di
morfoscrittura sul corpo, che possiamo definire plurifenetica, ossia acquisita/scelta dal soggetto in nome di un
paradigma di pluralità.
L’uomo riprogetta il proprio corpo e lo fa adattandosi al teriomorfismo o al macchinicomorfismo: l’elogio
dell’impuro è una rivendicazione di diritto soggettivo sul corpo, laddove ciascuno sceglie di manifestare la propria
individualità. La plurifenetica è mossa da un forte bisogno di uscire dal vincolo cieco dell’omologazione mediatica:
l’uomo accede così ad un’ontologia metamorfica, che elude il paradigma della purezza aprendosi all’alterità e
conservandosi come sistema aperto e magmatico.
Bisogna sottolineare che il corpo che riacquisisce titolarità non è lo stesso corpo della visione umanistica: il corpo si
sgancia dall’ideale fittizio di perfezione, divenendo spuro e brulicante di alterità. Al posto della libertà che si acquista
nel corpo, il post-human sostiene la libertà attraverso il corpo, cioè i caratteri eterospecifici che ha acquisito. È
proprio l’idea di libertà che muta profondamente nel passaggio dalla cornice umanistica a quella postumanistica: da
7.0 SOMATO-LANDSCAPE.
Grazie alle nuove sofisticate tecnologie di indagine anatomica il nostro corpo si trasforma in un paesaggio,
diventando accessibile ai nostri occhi come un pianeta vivo, diventa uno spazio di esperienza, di ispirazione per
nuove epistemologie e un volano di nuove coniugazioni con l’alterità. La medicina ci invita a prendere pieno
possesso del nostro paesaggio corporeo attraverso pratiche di monitoraggio sempre più minuziose e meno invasive,
allo stesso modo i documentari scientifici mostrano le diverse parti e funzioni del corpo da prospettive diverse.
Questa trasformazione del corpo in paesaggio ha perlomeno 3 esiti:
1. L’esperienza virtuale di muoversi all’interno del proprio corpo
2. La trasformazione del nostro spazio esterno in analogia con lo spazio corporeo
3. L’idea di realizzare una tecnologia che non solo si appoggia (protesi), non solo si innesti (impianto), ma
letteralmente abiti il nostro somato-landscape.
1L’ottica del somato-landscape osserva il corpo come un’organizzazione complessa le cui parti sono esse stesse
piccole organizzazioni, che hanno aspetti funzionali simili all’organizzazione insiemistica. Di conseguenza,
tramite strumenti avanzati sarebbe teoricamente possibile riprodurre tale ambiente corporale in un gemello virtuale,
fedele ed isofunzionale al primo, affinché sia possibile immergersi e muoversi nel proprio corpo virtualmente.
2La seconda conseguenza di questa trasformazione è ovviamente esito della mutata sensibilità e dei diversi codici
culturali che si vengono a liberare spostando il proprio asse esperienziale dal mondo al di fuori dell’epidermide a
quello al di sotto ovvero all’interno dell’epidermide. Fino ad oggi i manufatti hanno fornito le metafore per spiegare,
descrivere e formulare teorie sul corpo, una maggiore familiarità col corpo paesaggio potrebbe rivelarsi un potente
motore per invertire questo processo.
3Diventa conseguente il terzo punto, ossia l’idea del nostro corpo come immensa metropoli abitata da realtà
tecnologiche, o meglio nanotecnologiche. Il corpo paesaggio è un corpo bioma che alimenta e sostiene le
nanotecnologie. Per esempio è possibile progettare nanotecnologie provviste di motori che utilizzano come
carburante il glucosio rinvenibile nel sangue. Il somato-landscape si trasforma pertanto in un insieme di
ecosistemi che permettono la vita e l’evoluzione delle nostre nanotecnologie. Ciò significa quindi modificare il
rapporto dimensionale tra corpo e tecnologia.
che si oppongono alla volontà razionale, o dev’essere modificato dalla tecnologia, in quanto di per sé manchevole e
insufficiente, vulnerabile alla mortalità e bisognoso di migliorie.
Pertanto, partendo da queste premesse, la cultura urbana si fa promotrice di un’idea di pulizia dall’organico, che si
traduce in biofobia (paura dei microbi presenti nelle feci o nei liquidi organici), zoointolleranza (fastidio verso ogni
forma animale, paura degli insetti che parassitano il corpo), organicofobia (disagio verso ogni parte del corpo che sta
sotto la pelle, verso ferite e sangue). Tutto ciò si trasforma in un’inevitabile repulsione nei confronti di qualsiasi
forma di funzione organica, vi è sempre meno consuetudine nei confronti dell’organico che esalta
contemporaneamente la paura e la curiosità verso il corpo smembrato, su ciò si fonderà la narrativa e la
cinematografia splatter-horror.
Poco importa che oggi si è consapevoli del fatto che le emozioni abbiano natura nervosa, appunto non sono
originate dal muscolo cardiaco, ma dal sistema nervoso centrale, dominare le passioni del corpo, liberarsi dalle
lusinghe dei desideri e dei piaceri, significa comunque di evitare di lasciarsi irretire dell’irrazionale e
dall’emozionale.
Spesso si costituisce una precisa analogia tra l’opposizione cartesiana mente/corpo e quella sessuale
maschile/femminile, per cui tutto ciò che è femminile viene visto come retaggio dell’animale, ostacolo alla
realizzazione dell’uomo, sintomo di debolezza, distrazione, perdizione e assegnato quindi al dominio della corporeità.
La mente invece è principio maschile e spirituale. Da questa tradizione si originano ancora strutture dicotomiche
oppositive.
Come possiamo notare, il corpo si ritrova di nuovo al centro di un processo di inquisizione, ma viene messo sotto
processo non più per le classiche colpe di congiunzione con il demoniaco, ma viene accusato di essere insufficiente,
transitorio e vulnerabile. Bisogna però sottolineare che il dolore è comunque parte culturale dell’uomo, poiché è
motore che sostanzia e fonda la sua ricerca cognitiva.
Se analizziamo le diverse proposizioni riferite al corpo, dell’ultimo decennio del XX secolo, ci rendiamo conto come
esse vadano nella direzione di una sostanziale riprogrammazione somatica.
Secondo Giuseppe Longo l’uomo contemporaneo vive una profonda lacerazione: da una parte vorrebbe migliorare il
mondo e l’uomo nel mondo tramite una progettazione razionale e finalistica; dall’altra vorrebbe conservare il
patrimonio di sentimenti, emozioni e capacità che l’uomo oggi custodisce in sé e che sente profondamente
connaturato.
Da questa lacerazione emergono le differenze tra chi vorrebbe semplicemente aumentare la titolarità dell’io e chi
invece ritiene superato il progetto umanistico fondato sul possesso e sull’integrità del corpo. Infatti, notiamo un
diverso approccio tra le varie scuole di pensiero che prendono le distanze dal preservazionismo umanistico
dell’integrità del corpo:
- TRANSUMANESIMO il corpo va smontato e riprogrammato per facilitarne la sostituzione con altri
sostrati tecnologici.
- IPERUMANESIMO aspira ad una riconfigurazione del corpo che lo rafforzi e che lo renda maggiormente
controllabile.
- POSTUMANESIMO aspira all’apertura del sistema, il corpo va reso accessibile, si supera quindi ogni
pretesa di possesso sul corpo in nome della libera coniugazione del corpo al mondo.
Riprogettare il corpo (visione iperumanisti) significa operare una sorta di remapping, ossia una riconfigurazione
sensoriale, il corpo deve possedere una flessibilità per imparare, per adattarsi alle scoperte e alle innovazioni, per la
creazione e l’utilizzo delle nuove tecnologie. Questo remapping porta ad una revisione dell’anatomia e fa emergere
la tendenza a utilizzare nuovi percorsi non più per surrogare o riorientare le percezioni, bensì per scegliersi il proprio
processo ontogenetico; pertanto esso non è altro che un aumento della titolarità dell’io, del dominio della mente, che
tra l’altro può facilmente rivelarsi schiava dei pregiudizi esterni, che detterebbero la forma e la funzione del suo
corpo, giungendo così ad una piena mercificazione di esso. In questo modo, all’individuo resterà una flebile
possibilità di esercitare il proprio diritto di scelta e sarà il mondo a decidere per lui quale funzione e forma avrà il suo
corpo.
Inoltre, la riprogettazione è finalizzata a liberare il soma da alcuni vincoli fisiologici considerati superflui in quanto
ridondanti, ma che invece rappresentano la forza dei sistemi biologici, in quanto determinano la grande flessibilità
epigenetica e la grande mole di virtualità, di occasioni per inventare nuove funzioni: l’iperumanismo non è
proiettato verso un corpo meccanico, ma verso una macchina organica, che è però priva della ridondanza e di
conseguenza acquisisce tutti i limiti dei sistemi meccanici.
Secondo Arianna Dagnino il processo di riorganizzazione del corpo andrà verso una progressiva scomparsa delle
differenze sessuali, e questo per una serie di fattori: la riproduzione sessuale seguirà sempre meno il corso naturale; la
caratterizzazione morfologica dei sue sessi andrà progressivamente scomparendo; la fecondazione non avverrà
attraverso la congiunzione di un gamete femminile e un gamete maschile, ma attraverso pratiche di ricombinazione
genetica oppure attraverso un processo di clonazione.
Il pensiero post-human individua invece nell’organico non più un’incompletezza che dev’essere affiancata
dall’apparato culturale, ma la radice da declinare attraverso la protesi tecnologica. Il progetto postumanistico si pone
di superare l’unicità del progetto umano, l’omologazione della specie, immaginando un futuro in cui verrà meno il
significato onnicomprensivo della parola umanità, dato che l’uomo avrà sempre meno proprietà condivise, avendo
intrapreso percorsi di riprogettazione personalizzati o settorializzati. Ciò che esce da questo processo è un sistema
compatibile più che un uomo.
nei movimenti artistici degli anni 60 una sorta di anticipazione dell’espressione postumanistica che si concretizzerà a
partire dagli anni 90.
Prende avvio una nuova visione del corpo, quella del corpo invaso, trasformato, devastato, modificato, alla ricerca
di un’autenticità non più figlia della purezza, ma frutto della contaminazione.
L’arte novecentesca rappresenta esattamente il somatolandscape, il corpo non come unità singola, ma come
paesaggio, come il teatro delle coniugazioni con le alterità animali e macchiniche.