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POST- HUMAN riassunto sostitutivo

Filosofia (Università degli Studi di Napoli Federico II)

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POST-HUMAN

1.0 IL PARADIGMA DELL'INCOMPLETEZZA.


Marchesina afferma che tutti i nostri pensieri sulla natura e sulla cultura dell'uomo sono in gran parte costretta
all'interno di una cornice, che ci permette di mettere a fuoco alcune delle più importanti peculiarità della
nostra specie, ma ha dato vita ad una dicotomia infondata da un punto di vista ontologico, ossia la coppia
natura-cultura. Possiamo affermare che questa coppia ha un significato epistemologico che ci è utile per indagare
a fondo l'umano, ma non ha alcuna giustificazione sul piano reale, pertanto in altre ricerche può risultare anche
fuorviante.
Il paradigma che ha reso possibile questa frattura tra tutto ciò che chiamiamo natura e tutto ciò che chiamiamo cultura
si basa sull'assunto secondo cui l'uomo, come specie, dal punto di vista biologico è un essere incompleto. Questa
incompetenza biologica porta a sua volta ha delle conseguenze molto rilevanti:
● L'uomo, manchevole dei caratteri animaleschi che gli permettono di sopravvivere, si avvale dell'ars tecnica,
costituente della propria cultura, per andare contro la legge naturale che in condizioni normali lo
avrebbero condannato all'estinzione.
● Cultura e Natura Si dividono dicotomicamente, sono poste come opposte. Anche soltanto quando l'uomo si
sottrae vincoli e alle leggi della natura, la cultura già si pone al di sopra della natura.
● Non si può comprendere e spiegare la complessità dell'antroposfera, ossia l'articolato flusso di espressioni
umane, da un'indagine biologica dell'uomo.
● L'essere umano, non essendo completamente determinato dalla sua natura biologica, è in realtà libero nella
ricerca della giusta condotta. Quindi la biologia descrittiva dell'uomo non è prescrittiva sul suo
comportamento.
Il compito del saggio è di scardinare la pretesa dell'uomo di definirsi un universo isolato, autoriferito e
totalmente impermeabile alla contaminazione esterna con l'altro, con la natura. Il post-umanesimo definisce
l'uomo entro i suoi rapporti di dialogo e ibridazione con l'alterità: nell'antroposfera compare l'uomo con la sua
razionalità, ma anche gli animali, gli strumenti che hanno avuto un ruolo attivo nel determinare la sua identità.
Bisogna sottolineare che Umanesimo e antropocentrismo un sono sinonimi, che la proposta umanistica va
sicuramente oltre l'isolazionismo ontologico. Questo fa sì che la critica all'antropocentrismo propria del post-
umanesimo non debba essere letta in senso anti-umanista. Essa rappresenta piuttosto il superamento di alcune
concezioni dell'Umanesimo che risultavano prive di fondatezza e incapaci di leggere l'accelerazione dei processi
di contaminazione operata dallo sviluppo tecnologico della seconda metà del Novecento.
Mentre la cornice umanistica ritiene che l'uomo sia un essere incompleto ma compiuto, per il post-umanesimo
l'uomo è semplicemente un essere transizionale eteroriferito, per cui ogni considerazione che riguardi
compiutezza, purezza, completezza o perfezione manca di pertinenza. L'uomo per il post-umanesimo è plurale:
non può comprendere se stesso se non concepisce il dialogo e l'ibridazione operata con la realtà esterna.
Il fine del saggio è proprio quello di dimostrare che l'uomo è un vero e proprio miracolo biologico, e quindi non
ha nulla da invidiare agli altri esseri viventi, possedendo un potenziale cognitivo di partenza che non ha pari nel
mondo animale, che si apre ad una infinita serie di possibilità culturali che possono concretizzarsi in atto in un
modo piuttosto che in un altro, in base rapporti di influenza che gli ha con l'esterno, con gli altri. L'uomo è
dunque da talmente competitivo rispetto agli altri animali, e mantiene così la sua posizione privilegiata rispetto
ad essi.

1.1 IL MITO DELL'INCOMPLETEZZA.


Se si pone come fondamento il paradigma dell'incompletezza, sembra che la tecnica, come afferma Galimberti, non
nasca come espressione dello spirito umano,ma come rimedio alla sua insufficienza biologica, e l'uomo, per la
carenza della sua dotazione istintuale, può vivere solo grazie alla sua azione, che approda quelle procedure
tecniche che ritagliano un mondo per l'uomo. Infatti l'idea che l'uomo sia povero di corredo innato presuppone
che vi sia stato un momento in cui l'uomo si è trovato nudo alla mercé del mondo esterno, infatti proprio secondo
Galimberti, l'uomo senza la tecnica non sarebbe sopravvissuto. L'uomo per essere tale quindi è destinato a
distanziarsi dalla animalità in quanto non-umana, perché essa gode di ciò che l'uomo non possiede, ossia l'istinto,
ma è priva di cultura con la quale l'uomo ne prenderà il controllo.

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L'idea che l'uomo sia povero di corredo innato è una vera e propria ingenuità, in quanto la grandezza e la pluralità
della cultura umana devono e loro natali alla dotazione biologica e innata dell'uomo, che non è di poco conto: lo
sviluppo del cervello umano, e le sue potenzialità culturali, si realizza proprio perché è il suo stato genetico a renderlo
possibile.
Infatti possiamo dire che è errato definire il metodo di apprendimento dell'essere umano come l'atto di riempire
un contenitore vuoto con informazioni rinvenute dall'esterno ( che riempirebbero la carenza biologica), bisogna
infatti definirlo come la riorganizzazione della propria abbondante materia (quella biologica mente umana)
tramite l'influenza esterna.
Un aspetto che rende problematica la confutazione della teoria dell'incompletezza è il fatto che solo alla luce di una
carenza biologica si possa realizzare un quadro esplicativo verosimile all'interpretazione antropopoietica
dell'ontologia umana, concezione che considera la natura umana non come data ma nel suo costituirsi, quindi
una natura che può variare, cambiare.
Vi sono però delle caratteristiche che questa concezione assume se viene presupposto la deficienza biologica umana, e
che non possono essere condivise:
● L'incompletezza, che determinerebbe quella libertà di autodeterminazione dell'uomo, non può essere
presupposto e prerequisitiva; essa è una percezione, una sensazione oltre tutto arbitraria è variabile, che
nasce solo dopo il confronto tra le capacità umane e le prestazioni tecnologiche.
● Essendo l'uomo e la cultura inscindibili se posti in opposizione con la natura, la cultura diviene il privilegio
esclusivo dell'uomo, e addirittura la peculiarità che definisce la sua identità. In realtà, e dimostrato che vi
siano altre forme di cultura nel mondo animale, sebbene siano più rudimentali.
● Poiché la cultura nascerebbe per sopperire alla mancanza innata, essa dovrebbe essere unica ed omologata,
identica per tutti gli esseri appartenenti alla specie umana che, essendo tali, condividono la stessa
carenza. È indiscutibile però il carattere plurale della cultura che, determinandosi nella storia come
concrete tradizioni, appare come un insieme infinito di processi creativi, spiegabili soltanto entro un
orizzonte di continua congiunzione di influenza fra l'uomo e l'alterità.

1.2 LA PERCEZIONE DI INCOMPETENZA.


Secondo la tradizione del mito dell'incompletezza, siamo portati a pensare che l'uomo sia manchevole, un errore di
natura. Ma è proprio questa carenza originale che sottintende una sorta di percorso epico dell'uomo secondo il
quale quanto più è minore la dotazione biologica di partenza, tanto più sarà maestosa, sia quantitativamente
che qualitativamente, la cultura che dovrà sopperire ad essa, e più l'umanità godrà di un ruolo privilegiato e di
controllo rispetto a ciò che lo circonda. Pertanto potremmo affermare che meno doti iniziali possiede, più uomo
raggiunge la perfezione.
Ci sono però ragioni più profonde che possono innescare delle perplessità per quanto riguarda la visione classica
dell'uomo incompleto che si perfeziona o addirittura si realizza attraverso la cultura. Infatti il senso di incompletezza
può nascere solo dopo un confronto con la perfezione ideale, quindi la sensazione di incompletezza non è il dato
di origine e non è la causa della cultura ma è la conseguenza del processo culturale.
Parole come manchevolezza o insufficienza esprimono solo una generica incapacità di produrre una particolare e
prestazione detto questo, non è vero che l'uomo si rende completo attraverso la cultura ma è molto più plausibile
ritenere che l'uomo si percepisca incompleto a seguito della cultura, a seguito della prestazione che ha
compiuto. Pertanto possiamo affermare che è la prestazione compiuta, ossia quella che viene realizzata attraverso
il repertorio delle possibili stampelle culturali, a definire il livello di incompletezza dell'uomo, non il contrario.
Non esiste quindi un intrinseca nudità che crea il bisogno della prestazione esterna, ogni acquisizione culturale
determina un equivalente di incompletezza. Parlare di perfezione o di imperfezione di una struttura significa
quindi assegnarle arbitrariamente un fine, nei confronti del quale essa viene valutata più o meno competente.
Il processo culturale può essere visto come un evento ibridativo, nel quale una delle infinite possibilità dettate
dalla dote biologica umana si realizza tramite la collaborazione con uno strumento o con un'altra specie. Questo
processo ha inizio grazie a una successione storica di istanze casuali e accidentali, di scelte occasionali, che hanno
favorito l'apertura dell'uomo con l'esterno, permettendo l'ibridazione e quindi la nascita della cultura. Dato che
questi rapporti fra uomo e alterità sono casuali, gli effetti di questa specie di collaborazione sono indeterminabili, e
quasi sempre le ibridazioni danno origine a una funzione completamente nuova e inattesa, ossia ha bisogno che
mai ci saremmo potuti immaginare, pertanto questi effetti giunti ad una certa soglia smettono di apportare
cambiamenti autoreferenziali e divengono non-omeostatici: ad esempio, alcuni sistemi viventi tramite ibridazione

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acquisiscono le penne che sono necessarie alla termoregolazione del proprio corpo, a lungo andare altri cambiamenti
biologici indotti che coinvolgono le penne e gli arti porteranno ad una qualità nuova, non più relativa al mantenimento
dell'equilibrio del calore del corpo, ossia l'abilità di volo.
Il repertorio di carenze umane può essere visto come una collezione di eventi casuali, che hanno preso una
direzione determinando particolari prestazioni o incompletezze, ma che avrebbero potuto prenderne un'altra. Detto ciò
possiamo affermare che non è possibile estrarre una natura originale dal repertorio performativo dell'uomo, ma
possiamo solo presupporre un insieme di circostanze e situazioni che hanno favorito l'apertura del sistema
dell'uomo all'esterno permettendo i processi di ibridazione.
La cultura quindi deve essere vista non più come completamento della natura ma come motore della natura,
attraverso la capacità della cultura stessa di retroagire sul sistema uomo. Da questo punto di vista possiamo notare
quanto sia inesatto e semplicistico parlare di imperfezione in senso assoluto invece di parlarne nei termini di
percezione dell'imperfezione, una percezione che è condannata a una continua metamorfosi. Infatti la cultura è
sinonimo di instabilità, in quanto pone costantemente, nel suo evolversi, regole e possibilità che rimettono in
discussione l'equilibrio precedente e lo mostrano come imperfetto, è giusto infatti affermare che l'ibridazione
culturale crea nuove ibridazioni culturali producendo così nuove percezioni di imperfezione e incompetenza, è
proprio questo carattere espansivo del processo di ibridazione culturale a mostrarci l'assoluta arbitrarietà di ogni
definizione di imperfezione come caratteristica primigenia della specie umana, dato che essa ha una definizione
che non è stabile e solida sulla quale poter fondare lista umana, ma è sempre riferita a un metro di giudizio, ossia
quello delle prestazioni culturali ora in atto.

1.3 SLITTAMENTI DELLA PRESSIONE SELETTIVA.


Nella definizione di identità umana è molto importante il rapporto fra sostrato biologico e tecnologia. Importante è
il monismo biologico di Darwin, che non chiama in causa entità esterne o separazione antologiche tra l'uomo e
l'animale o dualismo tra corpo e mente e tra natura e cultura, monismo secondo cui la pluralità degli esseri
viventi, quindi anche l'uomo insieme agli animali, è riducibile ad uno stesso ed unico principio o sostanza a
priori. Con questo monismo biologico viene svelata una particolare dinamica fra la tecnica umana e la selezione
naturale: quest'ultima ha determinato nell'uomo delle doti biologiche neuronali che hanno permesso lo sviluppo
di sue nuove qualità e capacità, le quali lo hanno sottratto dalla selezione naturale stessa, una volta applicate
tramite la tecnica. È come se Darwin ipotizzasse una sorta di effetto reversivo, ossia un graduale rovesciamento
della logica selettiva innescato dal processo evolutivo stesso, ossia favorito dalla stessa selezione naturale.
Questa produzione di condotte antiselettive per opera della selezione naturale potrebbe apparire come un paradosso,
ma se si ammette che la selezione è al tempo stesso meccanismo di evoluzione e meccanismo in evoluzione non
apparirà più con un paradosso, la selezione naturale quindi ha selezionato il suo opposto sottoponendosi essa
stessa alla propria legge, usando come strumento la tecnica umana, che altro non è se non un suo prodotto,
sebbene non immediato: è madre della materia neuronale che l'ha progettata.
Da ciò possiamo risalire e individuare il rapporto che lega l'acquisizione è tecnologica all'evoluzione umana: ogni
tecnologia umana, e più in generale ogni acquisizione culturale, è in un certo senso una biotecnologia dato che,
in primo luogo modifica la percezione dell'ottimalità a performativa e quindi della carenza del sostrato
organico; modifica l'ambiente ontogenetico dell'individuo; e infine anche se più modestamente opera uno
slittamento della pressione selettiva. Possiamo affermare che la tecnologia non è solo frutto della dotazione
biologica, ma rientra di fatto nel patrimonio genetico della specie umana, e dunque nella definizione stessa
dell'identità dell'uomo infatti, possiamo sostenere che ogni slittamento della pressione evolutiva, realizzato
attraverso la mediazione tecnologica, iscrive quella tecnologia nel patrimonio genetico della specie.
● Esempio: quando non esistevano gli antibiotici, il processo di antibiosi o si era difesa messa in atto
dall'organismo nei confronti dei batteri, veniva attivato dal corpo umano che risultava sottoposto a una
pressione selettiva sulle sue capacità di produrre antibiosi. Se un organismo non aveva la capacità di
produrre antibiosi veniva selezionato, ossia moriva; pertanto la mancanza di una sua diretta discendenza
non avrebbe portato avanti nelle generazioni una formula organica in perfetta dal punto di vista
dell'antibiosi. Le cose però cambiano nel momento in cui vengono sintetizzati gli antibiotici, che conducono
lo spostamento della pressione selettiva dall'uomo all'antibiotico. L'uomo Infatti non viene più selezionato
per le sue capacità di produrre antibiosi, al contrario è l'antibiotico che viene selezionato per le sue capacità
di offrire all'uomo proprietà antibiotiche. Pertanto anche organismi inadatti a produrre antibiosi hanno
potuto sopravvivere e riprodursi, tramandando il proprio progetto genetico imperfetto da un punto di vista

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antibiotico. Quindi attraverso l'antibiotico l'uomo non si è semplicemente sottratto a una pressione selettiva
ma ha spostato la pressione selettiva dalla semplice capacità di produrre antibiotici alla capacità di
realizzare partnership sempre più perfezionate con l'antibiotico di sintesi.
Si potrebbe quindi dire che ogni slittamento della pressione selettiva non è un fattore di involuzione, ma
semplicemente un nuovo percorso evolutivo. La tecnologia quindi diventa una sorta di esternalizzazione
performativa che estende il dominio operativo dell'uomo sulla realtà esterna non impoverendo la specie ma
arricchendo la propria attraverso i bisogni; la tecnica quindi non ha supplito ha una mancanza biologica, al
contrario ampliato il dominio di intervento dell'uomo gli ha permesso nuove forme di vita.
Marchesini sostiene che la tecnologia sia incarni attraverso un bisogno indotto, bisogno che diventa il punto di
forza dell'uomo perché trasforma processi evolutivi in processi evolutivi, nei quali un vasto repertorio di partner
non umani entrano di fatto a far parte dell' antroposfera. Pertanto si può affermare che l'uomo si rende
incompleto attraverso la cultura e non che l'uomo è un essere incompleto e che si completa attraverso la
cultura. Tale teoria quindi cancella definitivamente l'idea di una carenza biologica dell'uomo, tra l'altro smentita
scientificamente: l'uomo possiede un corredo genetico tutt'altro che semplificato visto che siamo legati
filogeneticamente a specie, come lo scimpanzé e il gorilla, caratterizzate da un articolato profilo
comportamentale e da una complessa natura sociale, sostituendo la superiorità umana con un florido dialogo
con l'alterità, entro il quale l'uomo riesce a trarre diversi benefici proprio il nome delle sue competenze
biologiche e, sequenzialmente cognitive.
Possiamo quindi trarne che ai nostri occhi sembra imperfezione ciò che in realtà è il legame, virtuosismo nel
bisogno dell'alterità, apertura del sistema uomo al mondo esterno. Abbiamo costruito le nostre imperfezioni senza
consapevolezza, senza fini e soprattutto senza volontà e lo abbiamo fatto spostando la pressione selettiva sui nostri
compagni di ibridazione e i scrivendo nuove prestazioni ibride al grande catalogo dell'umanità.
L'ibridazione è un continuo riposizionamento della soglia dell'uomo ed è quindi un processo dinamico
incompiuto ma soprattutto non perfezionabile, non esiste una perfezione o imperfezione di partenza, ma nemmeno
una perfezione o imperfezione che attende di essere realizzata. La complessità virtuale emerge
contemporaneamente alla prestazione ed è frutto dell'ibridazione culturale. Dunque il percorso culturale
dell'uomo è volto a creare nuove virtualità, non a sopperire vecchie imperfezioni, esso infatti permette un gran
numero di esiti. Quindi infine l'evoluzione è un processo inarrestabile che viene indirizzato è modificato dalla
tecnologia ma che è impossibile da controllare o addirittura da azzerare.

1.4 IL DOMINIO BIOLOGICO DELL'UOMO.


Marchesini si chiede se l'uomo è davvero così imperfetto come si pensa, lasciando parte per un attimo l'encefalo, che
egli stesso considera capolavoro della biologia, bisogna chiedersi se è corretto dire che nella restante morfologia e
fisiologia siamo carenti rispetto alle altre specie. La risposta è no infatti si potrebbe dire che l'uomo possiede un
vastissimo repertorio di prestazioni umane, in cui ritroviamo prestazioni corporali come prestazioni cognitive e
dunque tecnologiche.
Per quanto riguarda le prestazioni corporali, ritroviamo ad esempio un'altissima precisione dei movimenti; per non
parlare del vasto repertorio di vocalizzazione che è pressoché infinito, infatti l'uomo è teoricamente in grado di
imitare il verso di quasi tutti gli animali; perfino l'apparato scheletrico dell'uomo è tutt'altro che imperfetto, dal
momento che consente l'andatura bipede punto e, potremmo aggiungere anche la dotazione sensoriale che comunque
di buon livello rispetto agli animali.
Sebbene non in maniera immediata il comportamento umano è spiegabile a partire da basi genetiche, in quanto
il potenziale di espressione neurale, e dunque cognitivo, di una qualsiasi specie possiede una base genetica (le
prestazioni cognitive di un topo non potranno essere mai realizzate da un gatto, e viceversa). Conseguenza di ciò e che
lo spettro umano di abilità comportamentali non può essere diviso entro un antinomia innato-appreso, ma si
apre a numerosissime sfumature, tra le quali le prestazioni unicamente genetiche e quelle epigenetiche sono solo i
distantissimi estremi dello spettro. È evidente che possiamo riscontrare prestazioni cognitivo-comportamentale
più o meno dipendenti dalla storia dell'individuo (dall'ambiente prenatale, dalle prime esperienze neonatali,
dall'apprendimento e così via). Esistono espressioni comportamentali totalmente istruite dal programma
genetico, che pertanto non dipendono da acquisizione, che nascono cioè dalla specifica organizzazione neurale
realizzata attraverso un processo epigenetico. Quindi l'uomo dovrebbe prestare molta più attenzione alla propria
dotazione biologica, avere cioè maggiore conoscenza di come la sua eccellenza performativa sia frutto di un vero
e proprio miracolo evolutivo.

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La misconoscenza della virtù biologica dell'uomo ci porta infatti ad atteggiamenti di arroganza e disprezzo
verso il nostro stesso corpo quasi fosse un rifiuto o comunque un intralcio. Il rifiuto del nostro corpo si fonda sulla
convinzione che la nostra individualità riposi al di fuori del substrato biologico oppure giri sul sostrato
biologico pur potendone letteralmente fare a meno, più l'uomo si è allontanato dal mondo, più ha cresciuto il
proprio pregiudizio nei confronti di quest'ultimo, cercando un'alleanza sensoriale esterna che potesse sopperire
alla fallibilità e parzialità dei propri organi.
Il corpo è prima di tutto un insieme di prestazioni che per comodità possiamo suddividere in: sensoriali, cognitive,
espressive (comportamentali e comunicativi).
Le prestazioni sensoriali ci raccordano al mondo ossia ci danno la possibilità di muoversi in esso e di
monitorare gli accadimenti esterni; il sistema sensoriale letteralmente ci immerge nel mondo, in questo modo il
nostro corpo è pervaso da un continuo feedback informativo sull'assetto interno-esterno in base a diversi
parametri fisico-chimici. Siamo però abituati a considerare i nostri sensi in modo estremamente localizzato (gli
occhi, le orecchie, il naso, le mani, la lingua) e riferito al contesto esterno, viceversa tutto il nostro corpo partecipa
alla performance percettiva e nello stesso tempo le nostre attenzioni sensoriali sono in buona parte rivolte allo
stato interno. Gli organi adibiti alla percezione dei sensi hanno avuto un percorso storico che li hanno sempre
più affinati, analogo a quello migliorativo e ibridativo della cultura; essendo frutto di un processo evolutivo,
come per le altre specie, anche per l'uomo essi non sono sistemi di monitoraggio validi in assoluto, ma
presentano dei precisi domini di validità riferite al contesto di vita e alle sfide sensoriali con cui l'uomo si è
dovuto confrontare nel corso della filogenesi. E con questo possiamo affermare che anche all'interno del loro
dominio di validità e se si presentano subottimali, cioè aperti all'errore percettivo. Può essere detta la stessa cosa
per le prestazioni cognitive.
Il processo di percezione si presenta come il frutto di una performance sensoriale affiancata da una
performance cognitiva.
Le attività cognitive si presentano nell'uomo molto diversificate, con precise e predisposizioni, e quanto più
l'uomo costruisce strutture ibride e quanto più si affida a esternalizzazioni performative, tanto più
l'armamentario cognitivo rivela le proprie pertinenze.
È proprio un'acquisizione culturale, lo slittamento di contesto, il superamento della soglia del innato ad aver
creato la sensazione della fallibilità e parzialità del corpo, il bisogno fittizio di una complementarietà
tecnologica per realizzare appieno le sue possibilità. Questa attribuzione di carenza è un processo a posteriori,
frutto del confronto con attività performative ampiamente ibridate con realtà non-umane. L'imperfezione non
è quindi un parametro oggettivo, reale e quindi valutabile su dati concreti, ne ha dei riferimenti di confronto,
non è un dato di fatto, ma un da farsi, ossia un flusso ibridati vivo con la realtà esterna, uno spostamento di
pressione selettiva, un esternalizzazione di funzioni o, ancora, un'iscrizione di funzioni ibride nel corredo della
nostra specie. Nel repertorio di prestazioni umane infatti si vanno sommando eccellenze specializzazioni sempre
meno accomunabili tra loro, rendendo impossibile lo sfilarsi della lista lineare delle caratteristiche morfologiche,
funzionali e comportamentali che definiscono precisamente l'uomo e il suo dominio, tutto quel che ha degli
compete. Pertanto è necessario pensare l'identità umana come un sistema aperto all'alterità che prende parte ad
un processo di meticciamento con il mondo, nel quale anche quest'ultimo ruolo attivo.

2.0 LA GALASSIA UOMO.


Siamo abituati a considerare l'uomo come sostanzialmente separato, addirittura oppositivo al resto dell'universo,
pertanto è molto difficile uscire dalla antropocentrismo dato che siamo inevitabilmente portati enfatizzare tutto
ciò che divide l'umano dal non-umano e nello stesso tempo a non riconoscere i prestiti, se non proprio la
presenza, del non-umano all'interno della cosiddetta antroposfera.
Infatti buona parte dei fautori del transhuman in realtà esprime una vocazione iperumanistica più che postumanistica,
portatrice di una visione della transizione che si basa proprio sul accentuazione dell'antropocentrismo
separativo. Questi i per umanisti intendono la comunione fra uomo e alterità intesa esclusivamente come i suoi
propri prodotti culturali; sembrano trovare scomodi retaggi della parentela comune con il mondo animale e
aspirano a perdere al più presto tutto ciò che li accomuna le altre specie. Rimangono, dunque, all'interno di una
referenza esclusivamente umana che, al suo estremo, fonde umanità e tecnologia abbandonando, invece, i
residui sconvenienti e disdicevoli del non umano che la accomuna le altre specie viventi.
Marchesini afferma che il progetto postumanistico deve tenere ben presenti due referenze che hanno contribuito in
modo determinante alla realizzazione delle espressioni dell'umanità:

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● L'alterità animale, che nel suo insieme Marchesini nomina teriosfera.


● L'alterità tecnologica, ossia la tecnosfera, definita come un prolungamento ad estensione, una protesi, una
nuova carne dell'uomo in grado di modificare profondamente la performatività della nostra specie.
L'ibridazione culturale rende quindi conto del debito umano nei confronti dell'alterità, ovvero del ruolo attivo
che la referenza non-umana ha nello sviluppo culturale, rientrando di fatto nel corredo genetico dell'essere
umano.
Secondo Marchesini, il fare cultura per l'uomo non significa allontanarsi dal mondo animale bensì avvicinarsi
all'alterità animale, lasciare cioè che referenze non-umane si iscrivano all'interno della antroposfera
esattamente come per la referenza tecnologica. Ha utilizzato l'espressione "Galassia Uomo" proprio perché come
nel caso di una galassia il profilo dell'uomo manifesta un'identità complessiva, che è frutto di milioni di istanze
puntiformi e di un'organizzazione globale in continua trasformazione.

2.1 L'INESPLICABILE NATURA DELL'UOMO.


Non è facile parlare della natura umana, soprattutto se si cerca di fare una sorta di collezione delle caratteristiche
dell'uomo, se si cerca di trovare una chiave esplicativa delle diverse qualità denotative. Infatti la linea guida di
questo libro è proprio l'individuazione nell'uomo di un elemento che in qualche modo rende inutile, erronea ogni
pretesa di definire una legge universale di causazione antropologica. Questo elemento Marchesini lo individua nel
bacino della virtualità ontogenetica, frutto della ridondanza che caratterizza la natura umana, e dalla tendenza
a realizzare ponti coniugativi con l'alterità non umana.
Pertanto il superamento di un modello rigidamente causativo non viene proposto nel nome dell' assenza di una
natura umana, quanto piuttosto nelle esplicitazione di una ridondanza della stessa. Infatti è proprio attraverso la
ridondanza che la virtualità della antroposfera è resa possibile, o sia l'apertura a progetti ontologici che si
attualizzano attraverso la selezione delle potenzialità.
Virtualità significa possibilità, apertura totale del sistema uomo a qualsiasi percorso diacronico, cioè a qualsiasi
storia. Pertanto bisogna chiedersi "Che cos'è una storia?"
Questa domanda è stata posta in diversi modi, ad esempio ci si chiede anche che cosa differenzia una storia da
un'equazione o da un algoritmo? Bisogna dire che una storia non può essere identificata nella risoluzione di
un'equazione o di un algoritmo perché sia l'equazione e se l'algoritmo sono strutture autocontenute, che
pertanto si muovono in un mondo isocrono e autoreferenziale. Tanto in un'equazione quanto in un algoritmo non
possiamo parlare di processi di attualizzazione bensì di attuazione, perché non comportano alcuna potatura sulla
ridondanza di partenza. C'è una piena identificazione tra la formula di un algoritmo e il suo esito applicativo, ma
questa è una cosa che non può essere riscontrata tra il seme di partenza e l'albero compiuto: questo perché mentre un
algoritmo viene attuato, l'albero è il risultato di un'attualizzazione. Attualizzare significa porre un certo
processo sottoli Imperium della storia.
Storia non è sinonimo di evoluzione caotica, dato che la vastità delle potenzialità iniziali non vengono
selezionate casualmente, bensì vengono premiate alcune ed escluse altre dalla contingenza esterna, l'alterità che
adopera una pressione selettiva.
In più il soggetto virtuale sottoposto a selezione non ha un ruolo passivo, infatti la pressione selettiva dell'alterità
agisce sulle potenzialità dettate dallo stato del sistema selezionato stesso e, inoltre, la vera attività di
attualizzazione di quelle virtualità premiate è adoperata dallo stesso soggetto entro un processo di autopoiesi, di
riorganizzazione del proprio sé secondo le collezioni porta dall'esterno.
Esempio: l'albero può , in potenza, sviluppare i propri rami in tutte le direzioni (ridondanza di virtualità); in atto,
l'architettura di fronde si realizza (autopoiesi) in relazione alla posizione del sole (contingenza esterna, che
attualizza certi rami ne seleziona altri) e all'esigenza di energia luminosa dell'albero (appartenente allo stato del
sistema albero).
Alberi della stessa specie, persino cloni dello stesso seme, si possono presentare profondamente diversi, ma loro
divergenza non era alcun modo imputabile alle sole leggi del caos.
Attualizzare significa partire da un pool di potenzialità iniziali, un repertorio di configurazioni che vengono
selezionate dalla contingenza esterna, la quale premia alcune virtualità, attualizzandole, e nega un futuro ad
altre, selezionandole. Ogni attualizzazione è quindi eteroriferita, ciascuna attualizzazione è pertanto il risultato di
un processo coniugativo con lo specifico portatore.
Pertanto possiamo affermare che la storia è una sequenza di eventi coniugativi tra un soggetto in evoluzione e
un'alterità selettiva.

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Una volta che l'alterità selettiva ha influenzato il decorso storico del soggetto, quest'ultima si iscrive di fatto
all'interno del soggetto e influenza la prossima ridondanza di virtualità che dovrà essere soggetta a selezione
(un albero in grado di parlarci delle leggi dell'energia radiante, una specie dell'ambiente in cui si è voluta, un individuo
delle esperienze che ha vissuto). Conseguenza di tutto ciò è che non è nemmeno possibile spiegare i processi
biologici senza relazionarli all'insieme di storie che concorrono con la dote genetica alla costruzione di un
individuo. In questo modo si rigetta qualunque tentativo di sottomettere la natura umana ha una teoria
esplicativa esaustiva e coerente, tentativo destinato a fallire.
Questa prospettiva vuole anche sottolineare impropria antinomia modello psicologico-modello biologico, secondo
la quale il primo, slegando la dimensione cognitiva da quella organica che ne è alla base, spiega questa entro
causa universale e teoriche così che possa essere realizzata da un qualsiasi altro sostrato diverso natura, anche
inorganica, in grado di riprodurre lo stesso processo. In realtà l'uomo non può essere compreso al di fuori del
contesto biologico, non perché le leggi della biologia possono da sole spiegare la sua natura, ma perché è
proprio la natura biologica a rendere la sua ontogenesi ricorsiva, ovvero inspiegabile assumendo un solo punto
di vista, è il punto di partenza della sua ricorsiva evoluzione neurale e cognitiva, dunque culturale e tecnica, in
sintesi della sua ontogenesi (percorso progressivo di stadi embrionali e cambiamenti che formano l'individuo).
Possiamo pensare al rapporto tra mente e corpo, possiamo pensare che la mente sia prigioniera del corpo o
viceversa, ma bisogna valutare attentamente il frattale di relazioni che intercorrono tra mente e corpo, l'illusoria
impressione di vivere dentro un corpo deve essere sostituita la certezza di essere un corpo.

2.2 VIRTUOSISMI PARENTALI.


L'apertura del sistema uomo all'alterità e dunque al ibridazione culturale si deve, principalmente, al suo
virtuosismo parentale, ossia la capacità di riconoscere la neonatalità, umana e non, e di offrire le proprie cure: il
rapporto madre-figlio, infatti, e l'archetipo di ogni rapporto sociale e di ogni ibridazione culturale.
Anche il virtuosismo parentale è determinato dalle dotazioni naturali, e di conseguenza si propone come il ponte
coniugativo fra sostrato biologico e cognizione, comportamento, cultura umana.
L'uomo sembra caratterizzarsi per un prolungamento delle fasi giovanili:
● Il punto di partenza biologico è rappresentato dall'immaturità neurale-encefalica del neonato umano,
rispetto alle altre antropomorfe gli individui della nostra specie si presentano più immaturi alla nascita
e pertanto necessitano di un repertorio più articolato di cure parentali. Ognuno può effettivamente
riscontrare la forte dipendenza del cucciolo d'uomo dalle cure parentali. Subito dopo il parto il neonato è
completamente affidato alle cure materne, non solo per quanto concerne l'alimentazione ma per tutti gli
aspetti dell'accudimento. Per crescere un cucciolo della nostra specie occorre aver maturato un buon
catalogo di cure parentali e soprattutto bisogna essere particolarmente sensibili ai richiami di cure
messi dal piccolo, la femmina umana è virtuosa nelle cure parentali, ha cioè una spiccata attitudine a
rispondere i segnali giovanili offrendo comportamenti di accudimento. Questa caratteristica è così forte nella
nostra specie da essere una vocazione presente non solo nel sesso femminile ma anche in quello maschile,
seppur in modo più contenuto. Peraltro è intuibile che la stessa pressione selettiva che ha permesso la
sopravvivenza di una specie caratterizzata da neonati immaturi abbia selezionato un articolato
repertorio di cure parentali. Questa vocazione o virtuosismo presenta anche un'altra faccia della medaglia:
essere vocati a fornire cure parentali significa essere particolarmente vulnerabile nei confronti delle
forme giovanili, cioè molto più esposti ai segnali evocatori emessi dai cuccioli di altre specie. L'uomo
tende ad adottare con estrema facilità cuccioli di altre specie, il che non ci caratterizza in modo assoluto,
perché le adozioni interspecifiche accadono seppur non con sistematicità anche in altri mammiferi. Ma è per
l'appunto nell'uomo che questa tendenza ha un carattere quasi imperativo, alchè alcuni studiosi hanno
ipotizzato una sorta di zootropia innata nella specie umana. Il virtuosismo parentale dell'uomo può essere
una buona base di partenza per comprendere come la nostra specie fin dagli albori della propria comparsa
biologica abbia manifestato la tendenza a ibridarsi culturalmente con altre specie attraverso la socializzazione
parentale.
● Lo sviluppo neuronale e corporale, sebbene si configuri scrupolosamente nel periodo embriofetale, non si
conclude però nell'età umana infantile. Osservando attentamente lo sviluppo di un essere umano ci
accorgiamo non solo dell'immaturità del neonato, ma anche del prolungato periodo giovanile, ossia del
tempo compreso tra lo svezzamento e la maturità sessuale. Questo periodo è molto importante nei
mammiferi, perché coincide con il periodo di socializzazione ossia quel periodo della formazione dei

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caratteri comportamentali dell'individuo che ne derivano, è in questo stesso periodo quindi che si
affinano i modelli di socializzazione. Bisogna quindi mettere in chiaro cosa significa socializzare: non è
facile dare una definizione univoca di socializzazione, se non nel senso più generico di interazione
all'interno della specie, ovvero di insieme di rapporti (comunicativi, ludici, competitivi, sessuali) che
determinano a tutti gli effetti una soglia di distinzione fra gli individui: quelli verso i quali si è
specializzato e tutto il resto. Il comportamento non è predeterminato geneticamente, ma deve essere
guidato, acceso o completato dall'apprendimento. Quindi il periodo giovanile costituisce la base della
rete di acquisizione esperienziali fondamentali per la definizione dei repertori cognitivo-
comportamentale.
● Nella vita dell'essere umano non solo il periodo giovanile lungo, ma permane in alcuni suoi caratteri,
come il gioco, la curiosità esplorativa, il vigore dell'apprendimento, per tutto il restante arco della sua
vita. Il mantenimento di una sorta di incompletezza giovanile favorisce la non-chiusura del sistema
comportamentale, favorendo i rapporti con l'alterità, cosa che avviene negli altri animali. Bisogna però
dire che non è corretto affermare che tutti gli animali non-umani chiudono il loro sistema comportamentale
(ovvero che una volta acquisite le determinazioni comportamentali genetiche ed esperienziali non
modificherebbero il repertorio dei comportamenti) perché è evidente che esistono diversi livelli di
chiusura a seconda della specie. Tuttavia il livello di apertura di un repertorio comportamentale in un
soggetto non-umano adulto è considerevolmente ridotto, al punto che, una volta raggiunta la maturità, esso ci
appare per semplificazione come un sistema deterministico. Il sistema uomo è tutt'altro che un sistema
pienamente determinato, ma utilizza la propria virtualità di partenza per dar vita esiti indeterminabili
e variamente configurati.

2.3 UN SISTEMA INSTABILE E APERTO.


L'apertura del sistema uomo deve i suoi natali in particolare al virtuosismo parentale dovuto a diversi fattori
biologici. Daltrocanto, il principale strumento di apertura nei confronti dell'alterità rimane la cultura, che non è
volta ad alcuno stato di equilibrio sopperendo una carenza umana, ma anzi, incentiva le instabilità e lo
squilibrio rendendo l'uomo incompleto. Infatti parlare di un sistema aperto significa ipotizzare un processo
ontogenetico che, invece di chiudere il sistema e porlo in una condizione di equilibrio, tende ad aumentare la
dipendenza del sistema stesso dal contesto esterno e a tenerlo in una condizione di non-equilibrio.
Quante più domande ci poniamo sul mondo tanti più sono gli ambiti conoscitivi che si aprono alla nostra opera di
investigazione. Non è vero, che ogni scoperta progressivamente diminuisce l'aria incognita; anche se è vero che
ogni scoperta si riducono i pregiudizi di onnicomprensività delle nostre teorie sul mondo. Possiamo cioè
affermare che tramite le avventure conoscitive si realizzano sempre nuove sussunzioni di fenomeni attraverso
interpretazioni meno antropocentrate, ma di fatto la nostra lettura teorica acquisisce pertinenza e domini di
validità più specifici.
Il sistema uomo quindi ha la caratteristica di non essere autoriferito proprio perché l'uomo viene educato dal mondo
esterno. A differenza degli degli altri mammiferi, nell'uomo ha un ruolo educativo anche l referenza eterospecifica.
Se ognuna delle altre specie realizza le proprie competenze comportamentali all'interno del bacino intraspecifico, ossia
non ha bisogno di referenze esterne, nel nostro caso non è possibile dar vita ciò che definiamo "contenuto umano"
senza referenze esterne; animali e strumenti definiscono il contenuto umano, che si sostiene con le competenze
ottenute dall'esterno e dunque non può sussistere senza la rete di relazioni con l'alterità.
Quindi parliamo di sistema ibrido perché tale prestazione si scrive nel catalogo umano a livello sia di percezione
di di competenza, sia di sviluppo e di selezione. L'esternalizzazione performativa dà vita un sistema che si
sostiene acquisendo competenza dall'esterno. Quindi l'alterità strumentale o animale si scrive nell'identità umana
non come estensione, ma come una protesi capace di: allargare il dominio sul mondo esterno, emendare le carenze
organiche, infatti esso diventa un vero e proprio elemento incarnato nel sistema uomo.
Il fenotipo viene plasmato dallo strumento, ossia dalla alterità, che, come un vero scultore, estrae dalla virtualità
ontogenetica un preciso profilo morfo-funzionale.
A lungo andare la presenza di uno strumento si scrive anche nel genotipo di una popolazione, ovvero diventa parte
integrante dell'istruzione genetica e in questo senso possiamo dire che lo strumento si incarna.
Quello che maggiormente si modifica nella realizzazione di una prestazione ibrida e il concetto di expertise, ossia:

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● l'acquisizione di competenza = l'uso di uno strumento ci porta ad acquisire competenza non solo riferimento
alla prestazione agli obiettivi che la prestazione si pone, bensì anche nella capacità di usare, manipolare lo
strumento ed estrarre da esso sempre nuove potenzialità d'uso o addirittura nuovi strumenti.
● la percezione di competenza= abbiamo già visto come la carenza o l'improprietà del sostrato organico non
possono essere considerate un valore assoluto o, meglio, oggettivo perché nascono dalla comparazione delle
prestazioni e soprattutto dall'obiettivo della prestazione stessa. Ma c'è un altro aspetto che entra a far parte
della percezione: l'iscrizione di un nuovo bisogno nelle aspettative dell'uomo. È proprio l'apertura del
sistema uomo che crea instabilità dell'essere umano, ovvero la capacità di immaginare nuove mete che
inevitabilmente si trasformano in nuove aspettative le quali a loro volta, non sono mai esaudibili in senso
compiuto. Realizzare un sistema il non-equilibrio significa creare un continuo slittamento delle
aspettative, che predispone il sistema non raggiungere mai una piena gratificazione.
● l'utilizzo è il campo d'azione della competenza= lo strumento non solo modifica i processi acquisitivi di
competenza e la percezione della stessa, modifica anche il campo d'azione delle expertise, infatti l'alterità
con cui l'uomo si ibrida sposta il raggio d'azione dell'uomo allargandolo, talvolta modificandolo
profondamente.
● le caratteristiche della prestazione stessa= la biologia evoluzionista la ricerca tecnologica nell'immediato
almeno due trasformazioni nella configurazione performativa delle caratteristiche biologiche e
tecnologiche: il meccanismo della cooptazione, ossia quando l'accumulazione di innovazioni o di varianti
induce nel sistema una sorta di salto quantico che predispone il bioelemento o lo strumento essere utilizzati
anche per altre funzioni e quindi essere sottoposti a nuovi selettori; e l'emergenza, un fenomeno
complesso interpretabile come superamento di soglia, per esempio quando due o più prestazioni si trovano
a convergere e a saldarsi performativamente, realizzando anche in questo caso una soluzione di continuità
nelle rispettive funzioni e dando vita a strutture coordinate.
Tutto ciò sottolinea ancora di più la natura instabile costantemente autopoietica dell'uomo, impossibile da
spiegare da un punto di vista sincronico, e della cultura, che dunque non fronteggia alcuna mancanza.

2.4 AUTARCHIA VS IBRIDAZIONE.


Scopo del saggio è di sradicare l'idea che la cultura sia un processo privato e autarchico che riguarda
individualmente la specie umana, che nei colmi delle lacune biologiche, che soprattutto sia capace di separare e
non di coniugare nel suo processo acquisitivo o di sviluppo il soggetto dall'alterità e infine che sia necessaria per
donare dignità ontologica al non-umano, tramite la personificazione antropomorfa.
Ogni acquisizione culturale è un debito che l'uomo contrae con il mondo esterno, così che quanto più accresce il
nostro bacino acquisitivo tanto più dobbiamo sentirci debitori verso l'alterità, ovvero tanto più dobbiamo sentirci
coniugati a essa. L'idea autarchica della cultura traccia una linea di forte separazione tra il soggetto che
acquisisce conoscenza e l'oggetto della conoscenza. In realtà la coniugazione avvicina il conoscitore al
conosciuto; durante il processo acquisitivo infatti l'alterità non si allontana da noi bensì si avvicina, spesso fino
al punto di entrare nel sistema conoscitivo, modificando le caratteristiche del sistema stesso. Possiamo perciò
affermare che ogni avventura conoscitiva diminuisce la nostra distanza dall'alterità, barattando la proiezione
antropomorfa con l'acquisizione di elementi non-umani. Quindi la cultura è prodotto di un processo acquisitivo
e di sviluppo nel quale soggetto alterità si coniugano, si avvicinano, spesso fino al punto che l'ultima iscrive le
proprie caratteristiche nell'antroposfera, modificandola addirittura.
Bisogna sottolineare che ciò non sminuisce l'uomo; infatti la grande ricchezza dell'uomo nasce proprio dalla sua
capacità di costruire ibridazioni epistemologiche con l'alterità, non restare chiuso all'interno del proprio
darkside dello specchio, ossia di quella apparato investigativo che gli è stato assegnato dalla filogenesi. Gran
parte delle espressioni culturali dell'uomo non sono frutto di un processo di isolamento, bensì di una collezione di
storie che trovano fondamento epistemologico l'una nell'altra.
Secondo Marchesini non è azzardato parlare di un accesso post umanistico, ossia di un percorso di superamento
non solo del paradigma antropocentrico, ma altresì di un'idea di umanità ben strutturata su un modello e
definitiva nei suoi caratteri, ma soprattutto pervasiva. Secondo il modello post umanistico, è l'alterità per
fondere la struttura dell'uomo, il suo stile di vita, le sue prestazioni. È attraverso l'ibridazione che si costruisce
quel non-equilibrio culturale, l'apertura del sistema, che consente di portare in superficie le più autentiche
prestazioni espressive dell'uomo. In altre parole, l'umanità trasuda di non-umano, si costruisce attraverso
l'abbandono della solitudine e il piacere della connessione con l'altro, il diverso. Inizia dunque a prendere forma

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un nuovo modo di concepire la soggettività, basato non più sul raggiungimento di una forma perfetta, assoluta e
desiderabile per tutti gli uomini, né su un processo separativo e autarchico (autoreferenziale) del ontogenesi. La
soggettività inizia a giocarsi nella promiscuità ontologica, dove l'ibridazione e la contaminazione con realtà
non-umane, che siano animali o macchine, non rappresentano più minaccia la definizione densità aria, bensì
divengono l'espressione più autentica della soggettività.

3.0 SUPERARE IL MODELLO DICOTOMICO.


Marchesini si occupa di esaminare il modello dicotomico, ossia la tendenza di investigare il mondo attraverso
un'operazione particolare: la costruzione di due poli dialettici, reciprocamente antinomici, che si confrontano
ma sostanzialmente evitano qualsiasi contiguità e ibridazione, dato che il processo di ibridazione entro il quale
l'uomo si realizza sottolinea necessariamente la parzialità del modello dicotomico.
In ogni caso è indiscutibile l'utilità metodologica che ha avuto nel cammino storico del pensiero e l'impossibilità
dell'uomo di superarlo completamente, come se egli tendesse per attitudine innata a risolvere la realtà che è intorno
entro coppie antinomiche.
L'estrinsecazione più evidente del modello dicotomico è il dualismo Res Cogitans-Res Extensa, presenze oppositive
nel mondo che, per Il fatto stesso di godere di entrambe, e soprattutto della prima, rende l'uomo una specie
privilegiata rispetto a tutte le altre, innescando in sé la netta separazione fra l'umano e il non-umano.
I tecnofili molto spesso sognano la liberazione dal corpo come una vera e propria ascesi per la mente e, così
facendo, non si accorgono di rispolverare il credo di Cartesio. In realtà non c'è mente senza corpo, né senza la
relazione con l'altro che la fa venir fuori dal progetto genetico. Già con Martin Heidegger, esistere significa
penetrare e lasciarsi penetrare dal mondo.
Ci si chiede perché, il dualismo continua a esercitare un fascino inconfessato, e perché torni a ripresentarsi nei modi
più differenti e sotto diverse spoglie. Secondo Parisi i motivi sono tre principalmente: il dualismo mente-corpo ci
permette di trovare una consolazione al deterioramento organico, possiamo cioè appellarsi a un'entità che può
essere salvaguardato dalla morte; possedere il libero arbitrio significa essere in grado di decidere di assumere la
responsabilità dei nostri comportamenti, ossia di essere liberi, autodeterminati, capaci di scegliere; la rilevanza
morale ci rende diversi da tutto il resto della realtà e, in quanto esseri speciali, moralmente giustificati a
dominare la realtà.
Secondo Marchesini è possibile rinvenire a un'altra ragione che hai un certo senso rinverdito il progetto dualistico: la
rivoluzione informatica, dal momento che il computer ha cambiato radicalmente il concetto di macchina,
richiamando invita il diavoletto cartesiano. Il software del computer non ha nulla a che fare con la materia fisica o
con le leggi della scienza naturale, quindi oggi è possibile pensare che la mente sia una macchina e che tuttavia
essa non vada studiata con i concetti e metodi delle scienze della natura. Si viene quindi a creare questa analogia
corpo come hardware e mente come software, che però non regge, perché sia il corpo che la mente sono
hardware e software, ovvero funzionano in modo sia meccanico che informativo. Il corpo e la mente vanno
entrambi studiati attraverso i loro contenuti meccanici, ossia di interazione e integrazione tra parti; e attraverso i
loro contenuti informativi, ossia riprogrammazione filogenetica e ontogenetica delle specifiche configurazioni.
I modelli proposti per superare l'opposizione delle pertinenze si possono ricondurre a due modelli fondamentali:
l'olismo, ossia il rifiuto di una molteplicità di domini fra loro separati e assestanti, il nome di una pan-
relazionalità orizzontale e continua; il riduzionismo, ovvero l'individuazione di leggi generali che le accomuni
tutti facendo sfumare i loro perimetri. Spesso però il riduzionismo è stato male interpretato, a causa degli eccessi di
alcuni teorici. Questa eredità fa sì che ancora oggi quando ci riferiamo alla antiriduzionismo regni incontrastata la
confusione. Vi è poca chiarezza intorno alle possibili branche in cui si declina il riduzionismo, infatti possiamo parlare
di:
● riduzionismo ontologico, secondo il quale le leggi che governano un livello complesso sono della stessa
natura generale di quelle che regolano il livello più semplice;
● riduzionismo metodologico, che afferma che tutte le spiegazioni devono essere riducibili alle proprietà
delle strutture elementari;
● riduzionismo epistemologico, che evidenzia come le leggi di un settore siano riconducibili a casi
particolari di un altro settore.
In questo senso nell' antiriduzionismo convergono spesso due anime, una dualistica che rifiuta riduzionismo
ontologico e una monistica che semplicemente pone un distinguo tra modelli esplicativi riferiti a eventi diversi
sotto il profilo dell'indagine.

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3.1 NATURA E CULTURA.


Una delle dicotomie più radicate nella tradizione occidentale e quella che vede protagonisti i due termini natura-
cultura. Ciò che bisogna sottolineare e come questa dicotomia abbia dato vita ad altre dicotomie, come naturale-
artificiale, istintivo-razionale e così via... queste altre dicotomie si pongono come delle barriere ontologiche tra
enti differenti, per esempio tra uomo e macchina oppure tra uomo e animale.
Il punto di partenza di questa dicotomia viene da una concezione di irriducibilità dell'espressione umana, che può
essere spiegata o attraverso l'eccellenza dell'uomo o attraverso la sua presunta incompletezza. Presupporre
questa incompletezza di fondo dell'essere umano è però inadeguato, dato che, ci immischia nella metafora dello
scrigno da riempire e considera la cultura qualcosa di sostanzialmente differente dalla realtà biologica.
In realtà possiamo affermare che la cultura è una delle espressioni della natura; è resa possibile dalla ridondanza
della natura umana, non da una sua eventuale carenza; e non riempie dei voti ma crea delle opportunità.
Possiamo dire che la cultura aumenta le potenzialità della mente, non plasma la mente, dà cioè al sistema uomo
più possibilità di attualizzare il proprio contenuto virtuale attraverso coniugazione con il mondo esterno. Le
idee di una carenza, malleabilità o di un'imperfezione della natura sono ancora oggi sostenute da motivi ideologici più
che da motivi scientifici.
L'idea di costruire una società perfetta è sempre stata presenza nella coscienza occidentale, a partire dalla
"Repubblica" di Platone; inoltre la nozione della malleabilità della natura, sotto questo punto di vista ha giocato
un ruolo fondamentale, dato che dà una ragione per sperare nella possibilità di creare una società umana molto
diversa. Spesso l'antropologia parla di una seconda nascita dell'uomo, vista come un vero e proprio passaggio dal
dominio della natura a quello della cultura. Così facendo però si inserisce nel contesto umano un elemento
estraneo che dovrebbe differenziare l'uomo dall'animale, infatti mentre l'animale si realizzerebbe
esclusivamente in seno al contesto naturale, ossia all'interno della cosiddetta prima natura, l'uomo avrebbe la
necessità di un ulteriore completamento, ossia l'intervento della cultura che è considerata una seconda natura.
Però, una tale semplificazione dei processi ontogenetici delle diverse specie può essere accettata solo in una
valutazione estremamente antropocentrica e ignara della complessità dell'etologia animale.
Due ragioni che hanno rafforzato la tendenza a tenere separati i due ambiti che definiamo con la coppia natura-cultura
sono:
● L'androcentrismo, ossia la tendenza a considerare il maschio la vera espressione dell'essere umano;
● Lo specismo, ossia la tendenza a considerare l'uomo totalmente differente rispetto alla alterità animali.
La androcentrismo è ampiamente documentato in quasi tutte le culture, in cui la donna viene considerata più vicina
alla natura rispetto all'uomo. Persino la maternità viene letta dalla tradizione occidentale come un
esemplificazione della forza della componente biologica nel ontologia femminile, anche il ciclo ovulativo, il
parto, l'allattamento sono una conferma del fatto che nella donna agiscono le grandi leggi della natura. Alla
donna viene opposto l'uomo, svincolato dai condizionamenti della natura. Perfino l'accoppiamento, nella tradizione
occidentale per molto tempo viene considerato attraverso la metafora del seminare, Non a caso si utilizza ancora il
termine di "inseminazione" , dove il contributo femminile si limita alla mera accoglienza e al nutrimento del
germoglio; quindi l'uomo dava la vita, il seme, all'interno del quale il bambino era autocontenuto, mentre la
donna rappresenta la terra. Questa visione androcentrica ha contribuito in modo rilevante al radicamento della
dicotomia natura-cultura, dato che era funzionale a giustificare il predominio maschile all'interno della società
umana.
Per quanto riguarda lo specismo, questo è radicato nella visione classica, in cui la cultura oppone l'uomo
all'animale: come l'educazione allontana il bambino dall'animale, così l'istruzione rende l'adulto diverso
dall'animale. Nella tradizione umanistica, tralasciando poche eccezioni, si rafforza l'idea di animale come specchio
oscuro. Per l'umanesimo, porre questa distanza profonda e invalicabile tra uomo e animale significa realizzare il
contenuto più autentico dell'umanità, ossia epurare l'essenza uomo dalla sporcizia animale.
Per il post-umanesimo l'androcentrismo e lo specismo perdono di significato dato che l'ontogenesi non viene più
vista con un atto di separazione ma come un atto di coniugazione. L'identità viene letta non più il senso
separativo è definitivo bensì attraverso continue e transizioni e coniugazioni con l'alterità. L'idea di alterità
viene letta nel suo essere interna all'identità, alla sua genesi, la sua formazione, anche se nel progetto post-
human il concetto di alterità assume un significato molto più vasto, abbracciando di fatto l'entità non-umane
animali e macchine.

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Gli umanisti sono fortemente influenzati dal platonismo in cui il rifiuto dell'alterità gioca un ruolo fondamentale
per quanto riguarda la concezione essenzialistica di purezza. La purezza diventa una vera e propria ossessione,
infatti si ricerca nel patrimonio innato dell'uomo una struttura primigenia, che possa spiegare la nobiltà
ontologica dell'uomo, ossia la capacità della nostra specie di trasformare in oro qualsiasi cosa si tocchi.
Questa idea separativa e depositaria, che ancora oggi domina il nostro modo di interpretare la conoscenza, è frutto di
una sorta di peccato d'origine preumanistico. L'alterità verrà dunque interpretata dallo manismo in qualità di
fonte di pericolo e di degrado proprio a causa del fattore-rischio di contaminazione con il diverso, che in
qualche modo mette a repentaglio l'idea di purezza.
Secondo Marchesini bisogna considerare l'antropopoiesi, non tanto ancorandosi a vecchi concetti di
incompletezza o di imperfezione della natura umana, quanto piuttosto cogliendo l'aspetto coniugativo di ogni
atto culturale. Questa prospettiva sottolinea l'importanza dell'alterità, dato che presuppone che la cultura sia un
processo eteroriferito, e dà vita a un nuovo modo di concepire la conoscenza; dal sapere come dominio sul
mondo esterno si passa al sapere come partecipazione, ovvero avvicinamento al mondo esterno.
L'intento di questo saggio è proprio quello di sfatare il pregiudizio della autosufficienza dell'uomo, dell'idea cioè
che lo sviluppo culturale abbia seguito un percorso divergente dei modelli naturali, discostandosi sempre più
dal commercio con l'alterità non-umana. La peculiarità dell'uomo sta proprio nella ricongiunzione indirizzata
verso l'alterità.
Quindi si è visto come la cultura non sia una semplice emanazione dell'uomo, come non sia una dimensione
dell'uomo, come lo sviluppo della cultura non allontani L'uomo dal consesso culturale e non amplifichi la forbice tra
uomo e altri animali, come l'artificiale non si sa qualcosa intrinsecamente diverso dal naturale e come la cultura non
sia complementare all'insufficienza biologica dell'uomo ovvero come non sia oppositiva la natura.
Perfino la dicotomia artificiale-naturale, che trae le sue origini dall'opposizione natura-cultura, è altamente
inadeguata, dato che l'uomo è totalmente immerso nella natura, quindi non vi è una sua manifestazione che non
debba essere considerata a naturale. Tutto ciò che è frutto della manipolazione dell'uomo viene quasi considerato
come qualcosa di sostanzialmente diverso da quel che è dato riscontrare nel vasto repertorio della natura; in realtà
gran parte delle applicazioni tecnologiche non sono altro che riproposte di quanto già è presente in natura.
L'uomo impara semplicemente a gestire e riprodurre questi processi attraverso la conoscenza descrittiva dei
loro meccanismi casuali.

3.2 ISTRUZIONISMO E SELEZIONIAMO.


La rivoluzione informatica ha introdotto una nuova dicotomia, che comprende le intelligenze artificiali e le
intelligenze biologiche, due pertinenze cognitive diverse che, secondo alcuni studiosi, si distinguono solo per il
fatto di girare su strati differenti, mentre per altri sono due entità completamente differenti e di certo non
sovrapponibili.
Mentre l'intelligenza biologica struttura su più livelli la propria competenza performativa, tale da risultare una
sorta di frattale in cui la dimensione inferiore sostiene emotiva quella superiore, le intelligenze artificiali che ci
è dato conoscere fino ad oggi non possiedono che pochi livelli. Vale a dire che l'intelligenza artificiale può essere
usata oggi per esemplificare alcune delle caratteristiche dell'intelligenza biologica, ma non per riprodurre in
toto le qualità.
Il sistema vivente non è paragonabile a un sistema caotico, dato che l'articolazione di questi livelli diversi non è
casuale, ma possiede dei vincoli ben definiti, ovvero l'istruzione (genetica o culturale) che determina la virtualità
di partenza, e la selezione di alcune delle virtualità, in beneficio di altre, dettata dalla conseguenza esterna.
Pertanto le istruzioni di un particolare livello sono sia l'esito di un processo di selezione avvenuto in un livello
precedente (che sostiene quello esame), sia le radici da cui si realizzano le virtualità da selezionare nello stesso
(che dopo la selezione di verrà sostenitore di un ulteriore livello, con le nuove istruzioni che derivano da quella).
Partendo da questi presupposti i 2 tipi di intelligenze possono essere messe a confronto. D'altro canto la struttura
frattale dell'essere vivente si fa manforte di entrambi i vincoli, e non può essere ridotta a un mero prodotto
della sola istruzione, secondo movimento algoritmico, equivalente al metodo di calcolo degli enti informatici.
Per quanto un sistema vivente possa essere dotato di istruzioni come un'intelligenza artificiale, non è un sistema
formale per diversi motivi:
● La prima caratteristica del sistema formale e la sua struttura digitalica, nella quale, presentandosi i valori
sempre direttamente sotto forma di numero intero, le piccole variazioni intorno ad un margine di errore
prestabilito vengono arrotondate e, di fatto, eliminate; in un processo diacronico come la storia ibrida ti

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va del sistema vivente, ogni variazione infinitesimale ha un grande significato non può essere
approssimata.
● Inoltre, la configurazione del sistema formale è determinata esclusivamente da un repertorio di istruzioni
prefissati a priori, che di fatto programmano e prevedono tutte le possibili situazioni verificabili. Il
sistema formale è autoreferenziale, chiuso in se stesso, differenza del sistema vivente che è parte di un
rapporto eteroriferito(la cui caratteristica prima è la selezione) il cui esito non è prevedibile e la cui fine
non è predeterminabile.
Possiamo affermare che l'eteroreferenzialità del sistema vivente determina anche delle differenze fra l'indagine
intorno la vita biologica e il programma informatico: infatti, se nel secondo, pura descrizione e spiegazione alla
luce di leggi causative coincidono, permettendo di fatto anche la previsione dell'andamento futuro di questo;
con la prima, una pura analisi sincronica (fuori dal tempo) intorno al funzionamento interno dell'organismo
non basta per rinvenire la totalità delle cause alla base del fenomeno, dunque, nemmeno per comprenderlo. È
infatti necessaria un'analisi diacronica (dentro al tempo) a posteriori che recuperi le tappe del commercio
eteroriferito con le quali la vita biologica, e umana, si è affermata.

3.3 L'EREDITÀ DI DARWIN.


La lettura diurna dei processi evolutivi è ancora influenzata dai figli degli antropocentrismi e delle dicotomie, proprio
in un punto di vista separativo fra soggetto e sfondo. Infatti alcuni pregiudizi culturali, quali l'essenzialismo, il
teologismo, il sostanzialismo, il determinismo e così via, faticano a essere epurati e spesso inquinano le spiegazioni
evolutive.
● Il più importante di questi pregiudizi e quello che Marchesini ha definito come istruzionismo assoluto, che
disegna l'iter evolutivo come un susseguirsi algoritmico di tappe predeterminate, non solo escludendo il
contributo altero (a posteriori rispetto l'istruzione genetica) che invece lo influenza significativamente, ma
ordinandole entro una logica top-down che va costruendo un circolo vizioso esplicativo, nel quale una
funzione trova spiegazione in un organo le cui funzioni trovano spiegazioni in organi da proporzioni minori e
così via, seguendo a ritroso All'infinito E non proiettandosi mai verso il futuro, verso l’emergere di nuove
funzioni(A differenza della logica bottom-up dei frattali). Pertanto nel istruzionismo assoluto ogni evento deve
originare da un sistema gerarchicamente superiore capace di comprendere l'evento stesso. Secondo questo
principio non è possibile ammettere una crescita dal basso e nemmeno l'emergenza di nuove funzioni. In
questo modo avviene una sorta di regressione all'infinito attraverso l'effetto matrioska, per via dell'idea che per
spiegare una funzione si deve posizionare all'interno dell'organo un nuovo ente, di proporzioni minori, che
realizza la funzione stessa.
● Poi vi è il teologismo, secondo cui il processo evolutivo sia priori finalizzato: le nostre azioni sono correlate-
giustificate da un obiettivo prefigurato, cosicché il fine-risultato spieghi il processo. Lo scopo spiegherebbe,
una volta realizzato, perché l'iter si sia costruito in un determinato modo piuttosto che in un altro.

6.0 IL MITO DELLA PUREZZA.


Nel ventesimo secolo abbiamo assistito al tramonto dell'ideale di purezza, dell'identità umana intesa come
autoreferenziale, separata è opposta alla bestialità della natura.
Questo abisso che si è venuto a creare tra uomo e alterità e il conseguente percorso purificativo che l'uomo deve
compiere per realizzare se stesso attraverso la tecnica pone le sue origini nell'età moderna. Infatti, possiamo
affermare che la scoperta dell'America e l'incontro con le civiltà precolombiane hanno avuto due conseguenze in
particolare:
● La scoperta di un mondo sconosciuto ha fatto venir meno la sicurezza, le certezze, l'idea di centralità
dell'Europa e specialmente l'idea universale di uomo.
● Pertanto nasce il bisogno di ribadire la propria identità per acquisire maggiore sicurezza. Si tenta di far
fronte a questo bisogno considerando le civiltà precolombiane, queste nuove strutture e organizzazioni
sociali, come primigenie e aculturali, dato che la natura umana allo stato selvaggio viene considerata
incompleta, ossia da condurre verso una società perfetta.
Come conseguenza di tutto ciò nasce l'idea di questo progetto platonico di autorealizzazione umana, che però
esclude il contributo dell'alterità, vi è anche una riscoperta del corpo umano, che viene esaltato perché coniugato
all'ideale di perfezione.

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Il mito della purezza però nasconde un’intrinseca pericolosità che si è già mostrata nel corso della storia
contemporanea con l'eugenetica e l'insorgere del razzismo durante e dopo il regime totalitario nazista. La cosiddetta
rivoluzione igienica ottocentesca, che promuove l'equazione tra diversità e rischio, si sposta pericolosamente
dall'ambito strettamente chimico-biologico.
Quindi il concetto di purezza continua a sopravvivere nell'età contemporanea, con la prospettiva secondo cui
l'eugenetica di inizio Novecento avesse il fine umanitario di miglioramento del genere umano. Possiamo però
affermare che ciò potrebbe anche essere funzionale per certe questioni inquadrabili sotto un profilo performative (ad
esempio debellare patologie ereditarie e mortali), ma l'aggettivo "migliore" non è attribuibile a priori, dato che ciò che
in una particolare situazione può essere un impedimento, in un'altra situazione potrebbe essere un vantaggio.
Il transumanesimo si appropria di un'opposizione uomo-animale, in cui la tecnologia è vista come strumento per
la scalata gerarchica del primo, che non solo gli permette di distinguersi dal secondo, ma gli permette anche di
sottrarsi alla selezione naturale e di dominare, prendere il controllo del mondo naturale.
Queste riflessioni però hanno origine dalla credenza, dalla pretesa, secondo cui tutto quel che c'è di umano sia frutto
del solo uomo.
Il postumanesimo, invece, propone una prospettiva antropopoietica secondo cui l'umanità non è data, non è stata
costruita una volta per tutte, ma di volta in volta va costruita e modellata (Remotti, 1999).

6.1 IL SUBLIME TERATOMORFICO.


Nel corso della storia l'idea di purezza si rivela a poco a poco sempre di più un'aberrazione della mente. Questa
non trova applicazione né dal punto di vista ontologico né dal punto di vista epistemologico, in quanto l'isolamento
epistemologico di Platone considera il sapere, pertanto l'insieme delle applicazioni tecnologiche, come uno
strumento per sottomettere la realtà esterna, pertanto l'alterità. L'utopia platonica si fonda quindi sulla
denigrazione del reale.
Il pregiudizio negativo nei confronti della natura sottolinea come la realizzazione dell'uomo debba venire al di
fuori di tale orizzonte, in maniera chiusa e autoreferenziale; in conseguenza di ciò, la realtà perde anche dignità di
sussistenza e viene filtrata, dall'uomo che tenta di conoscerla, tramite proiezioni e antropomorfismi, sottolineando
inoltre una sorta di predominio umano su quest'ultima.
L'uomo di fine Novecento si rende conto di come le tecnologie possono migliorare l'uomo, arrivando a migliorare
anche il pianeta, ma si rende anche conto della necessità di sconfiggere l’isolamento epistemologico
dell’essenzialismo platonico: l'accelerazione tecnologica della seconda metà del ventesimo secolo, se sviluppata
all'interno di una cornice essenzialista, potrebbe diventare una minaccia per il futuro; nel senso che sviluppare
percorsi della perfezione, dell'ordine antropocentrico, utilizzando le potenzialità delle nuove tecnologie può risultare
esiziale.
Negli anni 70 del secolo scorso, in una progressiva presa di coscienza della rilevanza della diversità, inizia a
diffondersi un senso di fatale rassegnazione a un processo di completa antropomorfizzazione del mondo, ordinato
secondo i dettami assoluti della razionalità e della tecnologia umana, che distrugge rettamente la sua complessità,
riducendolo ad un povero insieme di strutture standardizzate che, banali, si ripetono. Così tale sensazione, che si
fonda ancora su quella dicotomia che divide l'essere umano e i suoi strumenti dal non umano caotico ma ordinabile,
produce schiere di tecnofobi pro-natura, e tecnofili contro-natura.
L'intenzione di Marchesini con questo saggio, è dimostrare che andare verso l'innovazione tecnologica non
significa allontanarsi dalla natura, ma anzi, indirizzarsi verso una maggiore coniugazione ad essa. Pertanto la
concezione di un'antologia metamorfica aperta l'ibridazione supera l'antinomia della tecnofilia ottimistica e una
tecnofobia millenarista. In realtà, la tecnologia ha una natura non separativa, ma ibrida e ibridante: non è solo il
prodotto del rapporto con l'alterità, ma anzi, indirizza l’uomo verso nuove possibilità di coniugazione con la natura.
Il pensiero post-human non è perciò l'esito di una transizione antologica verso uno stato iperumanistico, bensì la
rinuncia all’essenzialismo e una visione omologata dell'uomo. Per comprendere meglio questa apertura alla
pluralità ontogenetica, il postumanesimo utilizza come immagine esemplificativa il cosiddetto "freaking out",
ovvero il farsi mostro. La mostruosità, è intesa sia nei termini di una minorità, sia nei termini di una capacità
straordinaria, è uno scostamento dalla normalità che da un lato provoca timore e senso di rifiuto dalla stessa,
dall'altro affascina, in una sorta di sublime teratomorfico.
Quindi, ci troviamo di fronte a una vera e propria frattura con il passato: il postumanesimo dichiara infatti la sua
esplicita rinuncia ad avere un modello, rifiutando il concetto stesso di modello per aprire nuovi spazi ontologici alla
diversità. Di colpo l'immagine angelica e seriale, con le sue perfette simmetrie e la distinta lontananza dalla bestialità

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rivela sinistre tendenze, perde connotati di affidabilità che ne avevano accreditato la morfologia fino al tramonto
della modernità. Invece ritroviamo una continuità nel mostro, in quanto esso esemplifica il cammino dell'uomo
verso l'imperfezione. La carenza non viene più letta come incompletezza, ma come bisogno dell'alterità,
cosicché avvertiamo nel bisogno il grande motore delle caratteristiche più autentiche dell'essere umano.
Possiamo affermare che il mostro è metafora del percorso ontogenetico di un qualsiasi essere vivente, in quanto
ricorda la transitorietà di ogni momento della storia ibridativa, l'arbitrarietà del concetto d'identità e il continuo stato di
imperfezione e instabilità a cui l'ibridazione lo sottopone. L'umanità nell'insufficienza e nella ridondanza, nell’eccesso
e nella carenza.

6.2 IL PUER CONTAMINATO.


Il XXI secolo si candida come età della contaminazione, in seguito a tutte le scoperte passate. Da un’idea di
integrità, associata spesso al concetto eugenetico di razza pura, si passa ad una sorta di retorica del mutante e
dell’ibrido. L’utilizzo sempre più pervasivo delle tecnologie perfezionate dà vita a nuove performatività.
Sempre con maggiore frequenza, ci imbattiamo in corpi culturali che sono il frutto di contaminazioni profonde tra
aree diverse, e che ci mostrano le proprie infezioni. L’invasione tecnologica e biotecnologica dà corso non ad un
unico percorso morfoperformativo, ma ad un sottobosco di molteplici sperimentazioni culturali. Questo
panorama viene spesso connotato con il termine di culture giovanili o di underground culturale,
per comprendere la piena vitalità di queste culture bisogna partire da un’intrinseca refrattarietà del mutante dal suo
essere connesso ad un bioma specifico (andrebbe contro la sua apertura nei confronti di qualsiasi tipo di alterità) e
tenuto ad agire nel sottobosco, abitare in esso significa rifiutare la logica gerarchica e definitiva per mantenere il
proprio sistema acquisitivo fluido e continuamente mobile. Il corpo mutante è un corpo che ha superato la pretesa
di purezza originaria, e quindi tutti i miti ad essa connessi, nonché la visione dicotomica e separativa della realtà
(organico/ inorganico, maschio/femmina, uomo/animale, biologico/meccanico) che diventano archetipi di
emarginazione e del dominio antropocentrico. Un fattore che può essere riconosciuto come promotore della
mutazione è la tendenza a mantenere il sistema in una condizione di alta recettività dell’alterità. Fino a quando vi è
la disponibilità ad accogliere l’altro, il sistema si mantiene magmatico e pronto a germogliare nuovi esiti.
Contemporaneamente a queste proliferazioni culturali si è attuata una dilatazione della condizione di giovane, non
più legata ad una determinata fase della vita fisica, ma divenuta una vera e propria categoria sociologica, secondo la
quale è giovane chi, a qualunque età, prende atto di essere un working in progress e continua ad aprirsi all’altro e,
quindi, alla sperimentazione. L’essere un eterno puer contaminato è la peculiarità dell’individuo che si apre
all’alterità, alla mutagenesi continua, capace di iscrivere nel primo una carenza permanente che virtualizza serie
infinite di possibilità culturali, circa cui è indeterminabile quali verranno attualizzate, e quali altre carenze e virtualità
esse apporteranno.
Nell’ottica postumanistica, l’essere un puer contaminato diviene necessario dal momento in cui nutrire il proprio
bambino interiore significa portare avanti un percorso di realizzazione umana eteroriferita che, però, non ha come
fine ultimo il raggiungimento di un’identità perfetta e cristallizzata, quanto il reiterarsi del percorso ibridativo
stesso, per un’idea di uomo in continuo compimento.

6.3 PLURIFENETICA
Con questo passaggio alla pluralità della cultura e dell’identità individuale umana, anche il corpo prende parte a
specifici processi di mutazione e cambiamento, che però a differenza dell’eugenetica, non sono volti ad uno stato
di perfezione omologata, bensì all’espressione del proprio essere mutanti: così si realizza una pluralità di
morfoscrittura sul corpo, che possiamo definire plurifenetica, ossia acquisita/scelta dal soggetto in nome di un
paradigma di pluralità.
L’uomo riprogetta il proprio corpo e lo fa adattandosi al teriomorfismo o al macchinicomorfismo: l’elogio
dell’impuro è una rivendicazione di diritto soggettivo sul corpo, laddove ciascuno sceglie di manifestare la propria
individualità. La plurifenetica è mossa da un forte bisogno di uscire dal vincolo cieco dell’omologazione mediatica:
l’uomo accede così ad un’ontologia metamorfica, che elude il paradigma della purezza aprendosi all’alterità e
conservandosi come sistema aperto e magmatico.
Bisogna sottolineare che il corpo che riacquisisce titolarità non è lo stesso corpo della visione umanistica: il corpo si
sgancia dall’ideale fittizio di perfezione, divenendo spuro e brulicante di alterità. Al posto della libertà che si acquista
nel corpo, il post-human sostiene la libertà attraverso il corpo, cioè i caratteri eterospecifici che ha acquisito. È
proprio l’idea di libertà che muta profondamente nel passaggio dalla cornice umanistica a quella postumanistica: da

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preservazionista (tesa a difendere il corpo dall’invasione esterna) in modificazionista (legata al diritto di


metamorfosi).
Nel momento in cui l’uomo fa uso di alterità dalla tecnosfera e dalla teriosfera fa sfumare i confini tra i diversi
contesti, cioè quello umano, quello animale e quello macchinico: vi è una rinuncia a ogni pretesa di isolazionismo
ontologico, non si parla più di uomo senziente e cosciente, ma di senzienza e coscienza, ammettendo implicitamente
che sono caratteristiche che l’umanità condivide con la non-umanità. Pertanto, sbaglia chi vede nel postumanesimo
un’esaltazione dell’uomo, una sorta di affrancamento della realtà naturale, l’atto finale di un percorso evolutivo al cui
apice starebbe il cosiddetto Homo Ciberneticus: cyborg e teriomorfi non sono in realtà poli antitetici, in quanto
entrambi concorrenti al futuro di una generazione plurifenetica.

6.4 IL CONCETTO DI HYBRIS.


Questo capitolo è incentrato sulla relazione che lega il postumanesimo al pieno superamento del concetto
essenzialistico di purezza. Per comprendere ciò è necessario soffermarsi su un termine, che in qualche modo
esemplifica questo tema, ossia il concetto di hybris.
Nicola Abbagnano afferma che qualsiasi violazione della norma della misura, ossia dei limiti che l’uomo deve
incontrare nei suoi rapporti con gli altri uomini, con la divinità e con l’ordine della cosa, può essere intesa come
hybris. È quindi evidente il presupposto che ordine e armonia siano entità inseparabili: l’ordine si riferisce alla
posizione reciproca dei diversi enti, mentre l’armonia è conseguente alla giusta relazione tra le cose. Ordine e
armonia mostrano il profondo bisogno di individuare dei limiti ontologici capaci di mantenere il sistema in uno
stato di motilità apparente. Logica conseguenza di questa interpretazione è la tendenza a considerare il
cambiamento come qualcosa che si oppone alla natura delle cose e quindi a ritenere qualsiasi mutamento pericoloso e
blasfemo.
L’ordine che ci è stato lasciato dalla cultura greca è mortificante nella sua staticità e nella semplificazione dei processi
causali. L’ordine celebrato da Platone non è altro che una proiezione dell’uomo sul mondo, la pretesa di essere a
casa nell’universo, ovvero di addomesticare l’universo affinché diventi uno spazio antropico: in questo modo, l’uomo
ha la sicurezza che in qualunque punto remoto, egli potrà avvalersi dei propri apparati epistemologici per muoversi
in maniera adeguata.
Allo stesso modo l’armonia, come disposizione finalistica e organizzata delle relazioni, è una caratteristica che
chiude il sistema e in un certo senso è chiusa in se stessa. Una delle caratteristiche dell’armonia è la coordinazione
tra le parti, lo sviluppo di reciprocità che permettono al sistema di presentare una coerenza d’insieme. L’armonia è
quindi sinfonia.
Capiamo come ordine e armonia riposino sull’idea di misura. Platone afferma che si dà hybris ogniqualvolta si
supera la misura del giusto. Su questo punto si innesta una grande ambiguità che il termine hybris ha portato con se
da Platone in poi: da una parte sancisce il predominio dell’antropocentrismo epistemologico, dall’altra,
paradossalmente, prestandosi ad essere sviluppato sotto forma di critica all’antropocentrismo etico, attraverso il
concetto di arroganza come insubordinazione umana al vincolo.
In italiano la parola hybris viene tradotta, semplificando, con il termine di tracotanza, nell’inquadrare
quell’atteggiamento violento e presuntuoso tipico dell’uomo che non riconosce in sé e nella propria condotta alcun
vincolo.
Si comprende quindi l’ansia dell’uomo contemporaneo: accettando il multividuo e la crescita dell’elemento altero,
vi è la conseguenza della perdita dell’antropocentrismo, una perdita di controllo dell’uomo e della sicurezza sul
proprio destino.
Il postumanesimo cambia completamente l’orientamento nei confronti dell’hybris che da rischio, pericolo, peccato,
diventa motore di coniugazione dell’uomo con il mondo. Se la purezza non è più obbiettivo e valore, viene di
conseguenza a perdersi il dettato stesso che attribuiva all’hybris forti connotati di negatività. Assegnare positività
all’hybris significa accettare pienamente il divenire e l’incertezza del futuro, dimenticando la pretesa simmetria tra
previsione e spiegazione.

7.0 SOMATO-LANDSCAPE.
Grazie alle nuove sofisticate tecnologie di indagine anatomica il nostro corpo si trasforma in un paesaggio,
diventando accessibile ai nostri occhi come un pianeta vivo, diventa uno spazio di esperienza, di ispirazione per
nuove epistemologie e un volano di nuove coniugazioni con l’alterità. La medicina ci invita a prendere pieno

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possesso del nostro paesaggio corporeo attraverso pratiche di monitoraggio sempre più minuziose e meno invasive,
allo stesso modo i documentari scientifici mostrano le diverse parti e funzioni del corpo da prospettive diverse.
Questa trasformazione del corpo in paesaggio ha perlomeno 3 esiti:
1. L’esperienza virtuale di muoversi all’interno del proprio corpo
2. La trasformazione del nostro spazio esterno in analogia con lo spazio corporeo
3. L’idea di realizzare una tecnologia che non solo si appoggia (protesi), non solo si innesti (impianto), ma
letteralmente abiti il nostro somato-landscape.
1L’ottica del somato-landscape osserva il corpo come un’organizzazione complessa le cui parti sono esse stesse
piccole organizzazioni, che hanno aspetti funzionali simili all’organizzazione insiemistica. Di conseguenza,
tramite strumenti avanzati sarebbe teoricamente possibile riprodurre tale ambiente corporale in un gemello virtuale,
fedele ed isofunzionale al primo, affinché sia possibile immergersi e muoversi nel proprio corpo virtualmente.
2La seconda conseguenza di questa trasformazione è ovviamente esito della mutata sensibilità e dei diversi codici
culturali che si vengono a liberare spostando il proprio asse esperienziale dal mondo al di fuori dell’epidermide a
quello al di sotto ovvero all’interno dell’epidermide. Fino ad oggi i manufatti hanno fornito le metafore per spiegare,
descrivere e formulare teorie sul corpo, una maggiore familiarità col corpo paesaggio potrebbe rivelarsi un potente
motore per invertire questo processo.
3Diventa conseguente il terzo punto, ossia l’idea del nostro corpo come immensa metropoli abitata da realtà
tecnologiche, o meglio nanotecnologiche. Il corpo paesaggio è un corpo bioma che alimenta e sostiene le
nanotecnologie. Per esempio è possibile progettare nanotecnologie provviste di motori che utilizzano come
carburante il glucosio rinvenibile nel sangue. Il somato-landscape si trasforma pertanto in un insieme di
ecosistemi che permettono la vita e l’evoluzione delle nostre nanotecnologie. Ciò significa quindi modificare il
rapporto dimensionale tra corpo e tecnologia.

7.1 IL CORPO INQUISITO.


La storia della cultura occidentale può essere interpretata come un lungo processo di inquisizione nei confronti
del corpo, accusato di essere una gabbia per le potenzialità intuitive, un ricettacolo di passioni capace di stornare la
visione del bene, uno strumento improprio e fallibile per la percezione del mondo. Il corpo è inquisito per aver
attentato alle virtù più nobili che albergano l’animo umano. Non c’è da meravigliarsi se il corpo diviene l’espressione
di ogni vizio e del male stesso.
Il corpo prigione diviene esemplare nella dialettica disgiuntiva di Cartesio. Questo rapporto conflittuale tra
razionalità e corpo trova radici nella paura della morte, prima fonte di irrequietezza conoscitiva che spinge l’uomo a
cercare un elemento abiologico che sopravviva al decadimento corporale, e che dunque si elevi al di sopra del
corpo. È questo il prezzo da pagare per la complessità cognitiva, la scomoda coscienza della propria mortalità, un
tributo non pagato dalle altre specie animali. La prigione temporale, che condanna il corpo ad una fugace parabola
esistenziale, rende il passaggio somatico il luogo della nostalgia, del dolore per l’impossibilità di tornare indietro nel
tempo e di ritrovare un passato ormai perduto. Questa lancinante sensazione di fugacità e transitorietà cerca un
rimedio, un sollievo, quello più immediato è la consegna dell’animo umano all’empireo dello spirito immortale. È
questo il motivo per cui gran parte delle religioni hanno cercato di guarire questa sofferenza attraverso il dualismo. Il
corpo è quindi visto come il luogo del dolore, dolore che può essere così forte da interrompere le facoltà razionali
dell’uomo, in questo modo, irrazionalità e follia diventano quasi esito logico e fatale dell’essere biologico. La
malattia, ad esempio, mostra la debolezza della carne attraverso la contaminazione e il dolore, infatti lungo la
tradizione occidentale riscontriamo l’associazione tra corpo e malattia, tra carne e corruttibilità, tra natura e
infezione. Queste congiunzioni trovano il loro culmine nel 900 ipertecnologico, urbanizzato e minacciato da gravi
pandemie. La paura che percorre la seconda metà del XX secolo si chiama AIDS, che trasmette l’immagine di corpi
che lentamente e prematuramente vengono sottratti alla vita. L’AIDS presenta un’altra caratteristica che aumenta
l’atteggiamento inquisitorio nei confronti del corpo: la trasmissione venerea e l’epidemiologia riconducibile alla
promiscuità sessuale. L’emergenza della malattia diventa una conseguenza del peccato di hybris, che ha come suo
teatro proprio la carne. Un’altra patologia che percorre l’immaginario occidentale a quei tempi è la BSE, infezione che
avviene dal consumo di carne. Anche se ciò che davvero domina l’immaginario dell’uomo del 900 è il cancro,
attraverso la metafora della destrutturazione interna, del corpo che ordisce contro la mente. Tutto questo stringe
sempre di più le dimensioni della corporalità e del peccato, fino al desiderio di un divorzio tra mente e corpo (Marl
Dery): l’organico dev’essere cancellato o dominato dal razionale, in quanto dimora di istinti, pulsioni e appetenze

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che si oppongono alla volontà razionale, o dev’essere modificato dalla tecnologia, in quanto di per sé manchevole e
insufficiente, vulnerabile alla mortalità e bisognoso di migliorie.
Pertanto, partendo da queste premesse, la cultura urbana si fa promotrice di un’idea di pulizia dall’organico, che si
traduce in biofobia (paura dei microbi presenti nelle feci o nei liquidi organici), zoointolleranza (fastidio verso ogni
forma animale, paura degli insetti che parassitano il corpo), organicofobia (disagio verso ogni parte del corpo che sta
sotto la pelle, verso ferite e sangue). Tutto ciò si trasforma in un’inevitabile repulsione nei confronti di qualsiasi
forma di funzione organica, vi è sempre meno consuetudine nei confronti dell’organico che esalta
contemporaneamente la paura e la curiosità verso il corpo smembrato, su ciò si fonderà la narrativa e la
cinematografia splatter-horror.
Poco importa che oggi si è consapevoli del fatto che le emozioni abbiano natura nervosa, appunto non sono
originate dal muscolo cardiaco, ma dal sistema nervoso centrale, dominare le passioni del corpo, liberarsi dalle
lusinghe dei desideri e dei piaceri, significa comunque di evitare di lasciarsi irretire dell’irrazionale e
dall’emozionale.
Spesso si costituisce una precisa analogia tra l’opposizione cartesiana mente/corpo e quella sessuale
maschile/femminile, per cui tutto ciò che è femminile viene visto come retaggio dell’animale, ostacolo alla
realizzazione dell’uomo, sintomo di debolezza, distrazione, perdizione e assegnato quindi al dominio della corporeità.
La mente invece è principio maschile e spirituale. Da questa tradizione si originano ancora strutture dicotomiche
oppositive.
Come possiamo notare, il corpo si ritrova di nuovo al centro di un processo di inquisizione, ma viene messo sotto
processo non più per le classiche colpe di congiunzione con il demoniaco, ma viene accusato di essere insufficiente,
transitorio e vulnerabile. Bisogna però sottolineare che il dolore è comunque parte culturale dell’uomo, poiché è
motore che sostanzia e fonda la sua ricerca cognitiva.

7.2 IL CORPO IN CARCERE.


Nella seconda metà del XX secolo si inizia a diffondere l’idea di un corpo performativo teso a raggiungere nel
miglior modo gli obbiettivi che l’uomo si pone, così facendo il corpo comincia ad assomigliare ad una macchina
rigidamente programmata nella sua realizzazione quanto nel suo funzionamento.
Anche se Tomàs Maldonado confuta l’idea, appartenente a gran parte del pensiero tecnofilo, di possesso del corpo,
gran parte della proposta contemporanea, soprattutto del cosiddetto iperumanesimo tecnofilo, punta proprio
sull’idea di possesso del corpo come base su cui costruire un processo di sostituzione dello stesso. In questo modo, in
un futuro, si renderà possibile una dimensione postbiologica nella quale la mente potrà governare in assenza di un
fardello organico. Questa prospettiva di governare la macchina uomo ha ossessionato l’uomo nel secondo
dopoguerra, prospettiva che ha orientato gran parte della ricerca tecnoscientifica verso il totale controllo sul soma.
Sarà poi lo sviluppo della genetica e dell’informatica a dare un forte impulso all’ideale del corpo soggetto, infatti
oggi è opinione diffusa che il corpo non sia altro che una protesi.
L’uomo inizia a chiedere al corpo la stessa versatilità di una macchina, che può essere accesa e spenta tramite un
interruttore, pertanto desidera avere un corpo a propria totale disposizione.
In realtà è impossibile individuare i domini interattivi nel corpo umano così come accade nel computer. Questo perché
non esiste una frattura tra coscienza e le altre funzioni neurali, ma un continuo gioco di ricorsività cognitive. Le
nostre prestazioni razionali sono sorrette da un sostrato motivazionale, neuromorale, appetitivo che riposa sui
fondali del nostro corpo. Non esiste una soglia tra mente e corpo, perché è proprio il corpo a fornire gli stimoli, le
aspettative, le motivazioni, insomma il registro delle nostre attività mentali. L’incapacità dell’uomo contemporaneo
sta nell’incapacità non tanto di vivere il corpo, ma di lasciar vivere il corpo, ossia di assegnare uno statuto ontologico
a tutto ciò che non fa parte della coscienza. La mente si illude di dominare la situazione, quando è invece parte di un
gioco di ricorsività tra funzioni e interazioni in altre sedi.
Ciò che iniziamo a comprendere è che il motore del nostro interesse per la conoscenza, motiva e sostiene il lavoro
razionale, non ha una natura razionale. Questo è sicuramente difficile da comprendere dato che, per via di un retaggio
sostanzialista, siamo portati a credere che il nocciolo cognitivo debba essere per forza la parte più nobile del nostro
essere. Se però iniziamo a pensare ad un corpo plurale, che emerge da un insieme di interazioni tra componenti
diversi del sistema nervoso, l’indivisibilità tra mente e corpo appare chiara. La nostra libertà mentale nasce proprio
dalla pluralità dei soggetti coinvolti nel processo cognitivo.

7.3 IL CORPO RIPROGETTATO.

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Se analizziamo le diverse proposizioni riferite al corpo, dell’ultimo decennio del XX secolo, ci rendiamo conto come
esse vadano nella direzione di una sostanziale riprogrammazione somatica.
Secondo Giuseppe Longo l’uomo contemporaneo vive una profonda lacerazione: da una parte vorrebbe migliorare il
mondo e l’uomo nel mondo tramite una progettazione razionale e finalistica; dall’altra vorrebbe conservare il
patrimonio di sentimenti, emozioni e capacità che l’uomo oggi custodisce in sé e che sente profondamente
connaturato.
Da questa lacerazione emergono le differenze tra chi vorrebbe semplicemente aumentare la titolarità dell’io e chi
invece ritiene superato il progetto umanistico fondato sul possesso e sull’integrità del corpo. Infatti, notiamo un
diverso approccio tra le varie scuole di pensiero che prendono le distanze dal preservazionismo umanistico
dell’integrità del corpo:
- TRANSUMANESIMO  il corpo va smontato e riprogrammato per facilitarne la sostituzione con altri
sostrati tecnologici.
- IPERUMANESIMO  aspira ad una riconfigurazione del corpo che lo rafforzi e che lo renda maggiormente
controllabile.
- POSTUMANESIMO  aspira all’apertura del sistema, il corpo va reso accessibile, si supera quindi ogni
pretesa di possesso sul corpo in nome della libera coniugazione del corpo al mondo.
Riprogettare il corpo (visione iperumanisti) significa operare una sorta di remapping, ossia una riconfigurazione
sensoriale, il corpo deve possedere una flessibilità per imparare, per adattarsi alle scoperte e alle innovazioni, per la
creazione e l’utilizzo delle nuove tecnologie. Questo remapping porta ad una revisione dell’anatomia e fa emergere
la tendenza a utilizzare nuovi percorsi non più per surrogare o riorientare le percezioni, bensì per scegliersi il proprio
processo ontogenetico; pertanto esso non è altro che un aumento della titolarità dell’io, del dominio della mente, che
tra l’altro può facilmente rivelarsi schiava dei pregiudizi esterni, che detterebbero la forma e la funzione del suo
corpo, giungendo così ad una piena mercificazione di esso. In questo modo, all’individuo resterà una flebile
possibilità di esercitare il proprio diritto di scelta e sarà il mondo a decidere per lui quale funzione e forma avrà il suo
corpo.
Inoltre, la riprogettazione è finalizzata a liberare il soma da alcuni vincoli fisiologici considerati superflui in quanto
ridondanti, ma che invece rappresentano la forza dei sistemi biologici, in quanto determinano la grande flessibilità
epigenetica e la grande mole di virtualità, di occasioni per inventare nuove funzioni: l’iperumanismo non è
proiettato verso un corpo meccanico, ma verso una macchina organica, che è però priva della ridondanza e di
conseguenza acquisisce tutti i limiti dei sistemi meccanici.
Secondo Arianna Dagnino il processo di riorganizzazione del corpo andrà verso una progressiva scomparsa delle
differenze sessuali, e questo per una serie di fattori: la riproduzione sessuale seguirà sempre meno il corso naturale; la
caratterizzazione morfologica dei sue sessi andrà progressivamente scomparendo; la fecondazione non avverrà
attraverso la congiunzione di un gamete femminile e un gamete maschile, ma attraverso pratiche di ricombinazione
genetica oppure attraverso un processo di clonazione.
Il pensiero post-human individua invece nell’organico non più un’incompletezza che dev’essere affiancata
dall’apparato culturale, ma la radice da declinare attraverso la protesi tecnologica. Il progetto postumanistico si pone
di superare l’unicità del progetto umano, l’omologazione della specie, immaginando un futuro in cui verrà meno il
significato onnicomprensivo della parola umanità, dato che l’uomo avrà sempre meno proprietà condivise, avendo
intrapreso percorsi di riprogettazione personalizzati o settorializzati. Ciò che esce da questo processo è un sistema
compatibile più che un uomo.

7.4 IL CORPO RAPPRESENTATO.


Nella seconda metà del 900 il corpo diviene centro dell’interesse esplorativo, creativo ed epistemico, diventa la
testimonianza più pregnante dell’artista. L’interesse per la corporeità si manifesta specialmente nell’arte, sfociando
negli anni 60 con il fenomeno della body art. Scoprire il corpo significa riappropriarsi della complessità dell’arte,
infatti l’arte corporea parla a tutti i sensi.
Il corpo viene riscoperto e non si pone una differenza cronologica tra l’atto di rappresentare il corpo e l’atto di
scoprire il corpo. C’è un profondo legame tra la conoscenza del corpo e la sua rappresentazione. Già con gli
anatomisti del 400 e del 500 vi era questa correlazione tra conoscenza del soma e la sua rappresentazione (conoscere
era osservare ad occhio nudo e raffigurare ciò che si osservava), ma l’obbiettivo dell’artista del 900 è di liberare il
corpo dalla gabbia della mente, dal presunto ordine armonico dell’umanesimo; in questo senso possiamo rinvenire

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nei movimenti artistici degli anni 60 una sorta di anticipazione dell’espressione postumanistica che si concretizzerà a
partire dagli anni 90.
Prende avvio una nuova visione del corpo, quella del corpo invaso, trasformato, devastato, modificato, alla ricerca
di un’autenticità non più figlia della purezza, ma frutto della contaminazione.
L’arte novecentesca rappresenta esattamente il somatolandscape, il corpo non come unità singola, ma come
paesaggio, come il teatro delle coniugazioni con le alterità animali e macchiniche.

15.0 VERSO IL POST-HUMAN.


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Scaricato da Anna Moretti (annamoretti97benevento@gmail.com)

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