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Il postumanesimo di Roberto Marchesini

Claudio Tugnoli

L'ultimo libro di Roberto Marchesini - Post-human. Verso nuovi


modelli di esistenza, Boringhieri, Torino 2002, pp. 577 - un volume che,
per l'ampia articolazione, la molteplicità dei riferimenti e la densità
concettuale non mancherà di suscitare l'attenzione del mondo
accademico e scientifico, ricostruisce il dibattito sui rapporti tra uomo,
tecnica e mondo del vivente dal punto di vista del Postumanesimo. La
lettura di questo libro è salutare e benefica perché di fatto smantella tutti
i pregiudizi tecnofobici di cui si è nutrito gran parte dell'umanesimo
antiscientifico. Del resto le contraddizioni dell'umanesimo erano
evidenti molto prima che il postumanesimo le denunciasse con
impietoso acume. La demolizione del mito della purezza - il corollario
immediato della tesi separatista, per cui uomo e natura, così come uomo
e tecnica sono separati da un abisso incolmabile - è quanto di più
convincente si trovi nel libro. I rapporti di mutua ibridazione che sono
sempre intercorsi tra le tre sfere considerate sono sempre stati ignorati,
in difesa dello statuto ontologico particolare dell'uomo. Marchesini
invita a considerare il fatto che tutte le teorie antropologiche elaborate
all'interno della tradizione occidentale sono riconducibili al paradigma
dell'incompletezza, all'idea che l'uomo sia un essere imperfetto il quale
si perfeziona e si completa attraverso la cultura.

Questa concezione del rapporto tra natura e cultura è già presente


nel mito di Prometeo illustrato da Esiodo nelle Opere e i giorni, così
come nel Protagora di Platone. Marchesini intende dimostrare invece
che il paradigma dell'incompletezza è un mito che ostacola la
comprensione della natura umana e dei suoi rapporti con la cultura. Il
noto studioso di zooantropologia avanza alcune obiezioni decisive alla
concezione dell'incompletezza. Innanzitutto si può facilmente mettere
in chiaro che una qualsiasi manchevolezza, carenza o improprietà si può
avvertire solo dopo aver realizzato la prestazione corrispondente. Allora
non è vero che l'uomo si rende completo attraverso la cultura, ma al
contrario egli si percepisce carente solo in seguito all'apprendimento
della cultura. La cultura e la tecnica contengono un repertorio di
possibili protesi, stampelle e surrogati a partire dai quali si può
percepire e definire il livello di incompletezza o imperfezione. Questo
consente di affermare che non esiste alcuna incompletezza naturale,
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anteriore alla cultura, bensì è la cultura stessa che introduce le carenze,


assieme all'eventuale rimedio. La cultura quindi non è in equilibrio con
una natura già data, ma sposta continuamente la soglia che facilita i
processi di ibridazione tra bios e techne; infatti il bisogno nasce dal
confronto con la prestazione iscritta nel repertorio della cultura. Ma una
volta realizzata un'ibridazione, la soglia si sposta di nuovo: è in questo
modo che appare un nuovo bisogno, ad opera di una cultura che agisce
perciò direttamente nella stessa costituzione della natura umana,
suscitando quelle carenze che la cultura corregge solo per spostare in
avanti lo squilibrio rispetto alla natura.

Marchesini interpreta il processo culturale come "evento


ibridativo", in cui l'organismo umano si esternalizza passando a un
livello di maggiore dipendenza da un partner esterno (un martello, una
teoria, l'olfatto del cane). L'aspetto interessante è dato dal fatto che
spesso le ibridazioni danno origine a una funzione del tutto nuova e
inattesa, a bisogni insospettati. La tecnologia retroagisce sul sostrato
biologico in modo che, si può dire, ogni acquisizione culturale si può
considerare una biotecnologia perché: «a) modifica la percezione
dell'ottimalità performativa e quindi della carenza del sostrato organico;
b) modifica l'ambiente ontogenetico dell'individuo e quindi tutti quei
fattori funzionali ed esperienziali che entrano nel processo di sviluppo
epigenetico; c) anche se più modestamente opera uno slittamento della
pressione selettiva modificando il pool genetico a livello popolazionale
della nostra specie» (p. 30). Un esempio di questo processo di
spostamento della pressione selettiva è rappresentato dall'antibiotico,
che viene selezionato perché conferisce all'uomo proprietà antibiotiche.
Con l'antibiotico inizia dunque un nuovo percorso evolutivo, giacché
l'uomo deve tollerarlo e il batterio deve resistere alla nuova molecola.
Per questo, in sintesi, siamo autorizzati a rovesciare il principio di
Herder da "l'uomo è un essere incompleto che si completa attraverso la
cultura" in "l'uomo si rende incompleto attraverso la cultura" (p. 32).

In questa nuova concezione perde qualsiasi significato la vecchia


antitesi innato-appreso. Le vecchie opposizioni vanno sostituite con
un'idea più appropriata di complessità ontogenetica, cioè di
«attualizzazione della virtualità biologica nelle diverse vocazioni di
sviluppo» (p. 37). Non esiste alcuna purezza della natura in se stessa,
perché senza contaminazione con l'alterità non ci sarebbe alcuna
evoluzione. L'ibridazione governa lo sviluppo in ogni sua accezione e in
ogni settore. L'imperfezione è un flusso di interscambio e di ibridazione
con l'alterità che comporta lo spostamento incessante della pressione
selettiva e l'esternalizzazione delle funzioni dell'organismo.
Nell'evoluzione dell'uomo la realtà esterna non è stata solo lo strumento
di un processo del tutto autosufficiente: questa visione sostanzialista
della specie umana dimentica tutti i debiti che l'uomo nel suo sviluppo
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ha contratto con l'alterità animale (teriosfera) e tecnologica (tecnosfera).


L'uomo, quell'essere che si rende incompleto attraverso la cultura, ha
dimostrato una straordinaria capacità di impadronirsi dei modelli più
diversi; con la forte tendenza all'immaturità che lo caratterizza e il
procrastinare il periodo giovanile, l'uomo viene educato da molteplici
fattori del mondo esterno: «Ogni acquisizione culturale è un debito che
l'uomo contrae con il mondo esterno, cosicché quanto più s'accresce il
nostro bacino acquisitivo tanto più dobbiamo sentirci debitori verso
l'alterità, ovvero tanto più dobbiamo sentirci coniugati a essa» (p. 67).
La cultura umana non condanna l'uomo all'eccezionalità e
all'isolamento ontologico, ma è il più straordinario progetto
partecipativo che la natura abbia saputo realizzare. Nell'uomo la
dimensione dell'innato è sempre superata nella direzione
dell'ibridazione, grazie alla mediazione dell'alterità, in particolare quella
animale. Di qui la necessità di superare i modelli dicotomici:
l'opposizione di mente e corpo, di innato e acquisito, di natura e cultura,
di naturale e artificiale. L'errore fatale dell'umanesimo è stato quello di
considerare l'alterità con disprezzo, come minaccia e fonte di degrado,
per il rischio di contaminazione con il diverso. Il postumanesimo invece
pratica una concezione opposta, in cui l'identità non è intesa in senso
separativo, ma coniugativo. Il postumanesimo fa risalire al platonismo
quell'ossessione per la purezza che nega la realtà dei processi ibridativi
con l'alterità e giustifica atteggiamenti e comportamenti mostruosi sul
piano morale. Riprendendo le tesi di Francesco Remotti sull'identità,
Marchesini precisa che «il concetto di alterità nel progetto post-human
assume un significato molto più vasto, abbracciando di fatto le entità
non-umane animali e macchiniche» (p. 81). Lo sviluppo delle funzioni
superiori dell'uomo e l'accumulo delle conoscenze nel corso della storia
sarebbero inconcepibili senza la transizione e l'interscambio con
l'alterità, senza il commercio con l'alterità non-umana. Eppure il
pregiudizio dell'autosufficienza dell'uomo ha sempre dominato, in nome
del rifiuto radicale di ogni riduzionismo naturalistico. Il postumanesimo
non intende negare la differenza tra i vari partner, ma solo mettere in
primo piano la loro collaborazione, coniugazione e reciproca
alterazione come condizioni imprescindibili di ogni percorso evolutivo
della specie e di sviluppo cognitivo ed emozionale dell'individuo.
Questo rende impossibile comprimere in un algoritmo il processo
evolutivo.

Per molto tempo gli animali sono stati la sola alterità con cui
l'uomo ha costruito il suo sviluppo. Marchesini invita a considerare con
attenzione i prestiti animali presenti nella cultura umana. L'alterità
animale o il confronto con essa media o promuove gran parte delle
espressioni culturali. La cultura dunque avrebbe un carattere
sostanzialmente ibrido, teriomorfico. Di solito l'animale totem è quello
che ha insegnato una tecnica fondamentale per il gruppo che lo venera:
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è questa una dimostrazione del fatto che i popoli primitivi possedevano


già questa coscienza precisa del debito contratto nei confronti
dell'alterità animale? L'interesse che l'uomo ha per le altre specie non è
determinato solo da intenti predatori, ma anche dal desiderio impellente
di prendersi cura dei cuccioli, a qualunque specie appartengano. Gli
animali domestici assumono spesso comportamenti che sono traslati dal
rapporto madre-figlio (ad esempio quando il cane si lascia ispezionare
l'addome). Si potrebbe osservare che se l'estensione del modello delle
cure parentali agli altri animali è il veicolo della cooperazione, nella
competizione con i nostri simili e con individui di diversa specie
adottiamo il modello parentale della rivalità fraterna. Il carattere aperto
della specie uomo, con la sua condizione di immaturità prolungata, ha
fatto dell'interazione con l'animale il fulcro più importante di
orientamento per l'uomo: «L'uomo è quell'animale che impara anche
dalle altre specie e che utilizza le altre specie come prolungamenti,
siano essi percettivi, cognitivi, tassonomici, estetici, operativi,
funzionali e via dicendo» (p. 113). Il medium animale è stato un vero e
proprio eroe fondatore, la fonte di conoscenza per un uomo ancora
privo del suo equipaggiamento tecnologico. L'esemplarità dell'animale,
il suo ruolo modellatore si è esercitato su diversi piani: morfologico,
cromatico, funzionale, comportamentale, comunicativo, ecologico. Non
si deve dimenticare che ancora oggi la bionica, nello studio
dell'architettura del vivente e delle soluzioni applicative da trasferire nel
prodotto tecnologico, parte dal modello morfologico delle diverse
specie animali. La morfologia e l'anatomia degli animali mette a
disposizione di arte e tecnica umane un repertorio vastissimo: le
caratteristiche isolanti del mantello dei mammiferi, il carattere
idrodinamico di un pesce, le esche, le pinze, i bilancieri, le tasche, le
pinne, le ali, le antenne filiformi, ecc. Il cromatismo animale è sempre
stato osservato e imitato dalle popolazioni umane in vari modi, dalla
semplice colorazione della pelle al tatuaggio. Il piano comportamentale
è l'aspetto più rilevante della zoomimesi: il comportamento animale è
perfettamente adattato allo scopo e offre all'osservatore attento la
soluzione di problemi specifici. In molti casi l'uomo non ha fatto altro
che copiare una tecnica utilizzata dall'animale. L'animale è un modello
anche per quanto riguarda la comunicazione, in particolare il linguaggio
del corpo: si pensi alla danza, allo yoga, al tai chi. Anche l'imitazione
delle voci animali ha esercitato un ruolo importante: il canto degli
uccelli è diventato l'archetipo della musica (p. 118). Per quanto riguarda
il rapporto individuo-ambiente l'animale ha svolto poi una funzione
sistemica nella costituzione di ordinamenti di base o insiemi oppositivi:
cielo/terra, aria/acqua, bene/male. All'animale quindi si deve
riconoscere un ruolo preciso di "operatore epistemologico" (p. 119). Il
medium animale nella multiforme varietà delle specie ha incarnato
perfettamente la figura del diverso e permesso un'alleanza che ha avuto
conseguenze decisive nella costruzione della civiltà in relazione alla
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performatività, ai comportamenti, alle prestazioni sensoriali, alle abilità


comunicative. Marchesini insiste sul ruolo della zoomimesi, che
considera una vera e propria rivoluzione in grado di modificare,
attraverso il confronto e l'ibridazione, i nostri apparati percettivi,
operativi e cognitivi. Egli avverte però che «la zoomimesi non consiste
soltanto nell'acquisire l'alterità teriomorfica, attraverso la semplice
imitazione/incorporazione o il più articolato processo del
rimaneggiamento proprio dell'ispirazione. Sono componenti della
zoomimesi a) il confronto: mettere in rapporto le proprie prestazioni
con quelle dell'alterità animale; b) il dialogo: cercare forme di
complementarità fra le proprie performance e quelle dell'alterità
animale; c) la partnership: costruire sinergie tra il proprio repertorio
performativo e quello dell'alterità animale; l'ibridazione: realizzare una
nuova prestazione attraverso la fusione di una performatività umana con
una non-umana» (p. 121).

In generale esiste una tendenza a zoomorfizzare il mondo,


un'attitudine cognitiva a interpretare la realtà (ad esempio nuvole o
sassi) in senso teriomorfico. La zoopoiesi entra in gioco quando si tratta
di dare forma a nuove identità, non necessariamente animali. Di qui il
mostro, l'alieno (si pensi a E.T.), il demonio, l'angelo, il folletto.
L'alterità animale diventa archetipica nel momento in cui si tratta di
pensare, rappresentare e oggettivare l'alterità in generale. Le morfologie
animali sono poi un comodo approdo quando si tratta di dare
espressione esplicita a precise attitudini o disposizioni: aggressività,
furbizia, mitezza, ecc. Le espressioni linguistiche con cui
comunichiamo ai nostri simili la percezione che abbiamo di loro, in
senso cognitivo e valoriale, appartengono a una semantica zoopoietica
di largo consumo (si pensi a epiteti come "cane", "orso", "oca",
"elefante", "tigre", ecc.). C'è per l'animale una vera e propria appetenza
da parte dell’uomo: la zootropia è questo desiderio di creare un ponte
con l'alterità animale. Marchesini riporta la tesi di James Serpell,
secondo il quale la zootropia si spiega in virtù del fatto che «l'uomo
risponde ai segnali giovanili della propria specie attraverso un
comportamento di cure parentali; se altre specie presentano gli stessi o
analoghi stimoli chiave, ecco che nasce un comportamento leggibile
come zootropia» (p. 132). Di qui l'adozione transpecifica che, pur
presente anche presso altre specie, raggiunge nella specie umana la sua
massima espressione. La visione zooantropologica respinge la
concezione fissista del rapporto uomo-animale, in ragione del fatto che
la cultura e la civiltà, la scienza e la filosofia, l'arte e ogni
manifestazione dello spirito umano sarebbero inconcepibili senza i
fenomeni di interazione uomo-animale, dove l'alterità animale è
antropomorfizzata e l'uomo sviluppa attitudini e abilità derivate
immediatamente dalla teriosfera. L'animale non è più il polo privativo e
negativo dell'opposizione con l'umano, ma «operatore sistemico e
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volano di cultura» (p. 129). La ricerca di Claude Lévi-Strauss è il primo


gradino di questa rivoluzione zooantropologica; l'antropologo francese
però riproporrebbe il modello dell'utilizzo reificato dell'animale, pur
riconoscendo all'animale un ruolo referenziale in quanto "buono da
pensare" (p. 130). La zooantropologia si fonda sul riconoscimento
dell'intermediazione teriomorfica nei processi culturali e costringe ad
abbandonare la posizione dell'idealismo umanistico che considera la
cultura umana come allontanamento dall'alterità animale e sua
negazione; al contrario, attraverso la cultura l'uomo si è avvicinato alle
altre specie, abbandonando sempre più lo schema autarchico del suo
sviluppo. Il processo di contaminazione e di ibridazione con il
teriomorfo continua, nella stessa misura in cui la civiltà continua a
progredire o a sussistere; infatti senza l'animale non sarebbe possibile
alcuna civiltà, giacché la concezione autarchica dell'uomo, con la sola
autoreferenza e la pura introspezione, non può spiegare lo sviluppo
culturale. L'animale è l'ossigeno culturale dell'uomo; è facile
immaginare le conseguenze della sparizione degli animali dal pianeta.
L'ospitalità (ospitare e farsi ospitare) è l'idea guida del postumanesimo,
è il concetto che governa la comprensione della cultura come risultato
dell'intermediazione teriomorfica: «L'animale non è più lo straniero, lo
specchio oscuro da allontanare o, eventualmente, da epurare, ma
diventa il partner promotore di identità» (p. 139).

Lo sviluppo della cultura deve molto anche all'interscambio e


all'imitazione reciproca dei gruppi umani che hanno adottato le diverse
innovazioni nel corso del tempo. Il motore dello sviluppo e la matrice di
identità è dunque l'ibridazione e la contaminazione con l'alterità, sia
questa umana o animale. In accordo con la tesi di fondo della teoria
mimetica, l'approccio zooantropologico di Marchesini riconosce
implicitamente all'imitazione un ruolo di capitale importanza nella
costruzione della progettualità culturale. Infatti l'animale diventa un
modello solo se l'individuo umano che lo ha assunto come tale viene
imitato dai componenti del suo gruppo. L'apprendimento dall'animale e
l'interscambio tra gruppi umani diversi non sarebbero possibili se non ci
fosse già nell'uomo una tendenza specifica all'imitazione che non si
trova presso alcuna altra specie animale. L'iniziativa dunque è pur
sempre umana, anche se nella forma dell'imitazione. L'animale ha un
ruolo decisivo come referente, non come soggetto vero e proprio; egli è
coinvolto nel processo, ma non decide la direzione della
modellizzazione del comportamento e della cultura dell'uomo di cui è
protagonista come modello. In questo senso si può osservare che non
c'è vera e propria reciprocità nel rapporto uomo-animale, giacché il
fattore propulsivo, l'imitazione, è un tratto specifico umano.

Marchesini sottolinea la fecondità dell'ibridazione epistemologica


che è consentita dalle diverse finestre sensoriali dell'animale, in grado
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di offrire nuovi domini di investigazione del mondo e di elaborare


nuovi quadri interpretativi a partire dall'estensione percettiva veicolata
dai sensi dell'animale. L'ibridazione epistemologica con partner non
umani comporta il ridimensionamento, ma non l'abbandono, del
modello antropocentrico; allo stesso modo il telescopio e il microscopio
non negano in assoluto la validità dell'occhio, bensì gli conferiscono un
nuovo e più esteso dominio di validità (p. 168).

La nuova concezione zooantropologica di Marchesini può destare


molta sorpresa e qualche disappunto nella cultura umanistica, dominata
dal modello e dal mito della purezza, della separazione/opposizione di
uomo e animale. L'ideale estetico della bellezza del corpo umano
prevede infatti, oggi come ieri, l'eliminazione di qualsiasi tratto che
ricordi il teriomorfo (prognatismo, irsutismo, ecc.). L'iperumanismo
addirittura estremizza l'ideale del corpo come qualcosa di
simmetricamente perfetto, neotenico, del tutto privo di zoomorfie. Il
presupposto di base è tanto chiaro quanto antitetico ai reali processi di
costruzione della cultura: la purezza si conquista negando ogni
prossimità al mondo animale, qualsiasi ibridazione, contaminazione o
transizione anche potenziale all'animalità (p. 175). La visione
dell'angelo ateriomorfo è alla base del razzismo; l'ideale della purezza
ha ispirato l'eugenetica razziale e la teoria dell'ancestralità. Noi
sappiamo che la purezza è assolutamente sterile e che la cultura è
necessariamente ibridazione, imitazione e contaminazione. Si afferma
dunque una concezione transitiva dell'essere dell'uomo, che iscrive il
cambiamento nella stessa sfera dell'ontologia umana. Marchesini fa
risalire a Platone l'isolamento epistemologico in cui l'uomo è costretto
dalla concezione umanistica: «l'utopia platonica si fonda sulla
denigrazione del reale, sul saccheggio selvaggio del mondo, sulla
separazione dell'immutabile da ciò che è transitorio» (p. 180). L'idea
della purezza è tuttavia un'aberrazione della mente che produce effetti
di distorsione sul piano cognitivo ed etico, dal momento che giustifica il
rifiuto di ogni possibilità dialettica, interattiva e di cambiamento; e
spinge a sostituire la realtà esterna con proiezioni e antropomorfismi.
L'ideale del postumanesimo non è l'adulto perfettamente compiuto, ma
l'individuo come work in progress che si mantiene aperto alla
sperimentazione, al gioco, nella flessibilità di una continua opera di
rimaneggiamento. È vero che per trasgredire il percorso
filogeneticamente determinato bisogna incorporare elementi tecnologici
o cognitivi in grado di separare l'organo dalla funzione, ma ciò che si
osserva nella seconda metà del XX secolo è solo «un'accelerazione dei
processi di ibridazione umano/non-umano che caratterizzano la storia
dell'uomo» (p. 190). L'ibridazione consente di percepire le imperfezioni
e la cultura dunque non appare più come completamento della natura,
ma come motore della natura. Lo sviluppo vertiginoso della tecnologia
determina l'imperfezione ontologica, non pone rimedio a
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un'incompletezza naturale e anteriore alla cultura. Il superamento del


concetto essenzialistico di purezza comporta il rigetto del concetto di
hybris. Infatti, se l'idea di purezza si rivela un concetto privo di oggetto
e di valore, muta completamente la valutazione dell'hybris da pericolo e
peccato a «motore di coniugazione dell'uomo con il mondo» (p. 203).
L'epistemologia dell'ibridazione rende del tutto obsolete le vecchie
opposizioni, compresa quella tra invenzione e scoperta, a favore di un
continuum ibridativo tra le diverse realtà. Ormai si profila all'orizzonte
la realtà dei cosiddetti "bioputer", sistemi informatici organici molto più
efficienti per quanto riguarda la capacità di memoria, che potrebbero
superare quella soglia critica che permette l'emergere di una coscienza.
Lo stesso dualismo mente/corpo rivela una concezione del corpo come
automa, da sottomettere a un padrone inesorabile, la mente.
Riprendendo le osservazioni di Arianna Dagnino sui fattori che
spingono sempre più verso una riconfigurazione neoandrogina del
corpo, determinata in prevalenza dal superamento della riproduzione
naturale, Marchesini osserva che si manifesta in questo modo la volontà
tipica dell'uomo di rivedere e modificare la morfologia del corpo allo
scopo di potenziare le sue capacità relazionali, sul piano percettivo,
sociale, estetico, ecc: «La tendenza a riprogettare il corpo è pertanto
riconducibile a quell'apertura del sistema che sembra caratterizzare la
nostra specie, associabile peraltro ad altre tendenze ibridative: per
esempio il desiderio di intraprendere avventure nelle dimensioni
incognite, la capacità di mettere in discussione il proprio registro
percettivo e interpretativo, l'adozione di strategie comportamentali di
altre specie» (p. 233).

Il superamento delle opposizioni dicotomiche tanto care


all'umanesimo consente di considerare come inconsistente l'idea della
tecnica come competitore minaccioso, come tiranno diabolico che mira
a sottomettere l'uomo asservendolo ai propri fini. La macchina a
vapore, come strumento-animale, salda insieme per la prima volta
teriosfera e tecnosfera. Il problema non è quello di trovare una via di
mezzo tra demonizzazione e celebrazione della tecnica, «al contrario è
necessario attuare il superamento del teorema umanistico, che
puntualmente si traduce sia nella personificazione sia nella reificazione
della tecnica a causa dell'antropocentrismo epistemologico». Il concetto
di utensile o manufatto non spiega assolutamente l'evoluzione delle
macchine, perché la macchina incorpora i due dettati della tecnosfera e
della teriosfera: «Se non comprendiamo l'importanza della
domesticazione del bovino o della partnership che coniuga l'uomo al
cavallo, rendendo possibili stili e modelli di vita del tutto nuovi, non
possiamo spiegare l'avvento della macchina, grande motore di
esternalizzazioni compiute al di fuori del guinzaglio operativo della
mano dell'uomo» (p. 267). L'orrore umanistico suscitato dal progetto di
un uomo completamente artificiale si giustifica solo come conseguenza
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della persuasione che esista una differenza oggettiva tra naturale e


artificiale. Ma ora il sogno di costruire un robot con sembianze, abilità
motorie e attributi razionali umani sta diventando realtà. La creazione di
robot del tutto autonomi sul piano operativo prevede diversi impieghi:
dall'assistenza agli anziani alle azioni belliche, dalla chirurgia alla
difesa personale. La creazione dell'androide o umanoide in fondo non è
che la ripetizione dell'antropogonia: Adamo sarebbe quindi il primo
androide, fatto a immagine e somiglianza del creatore. Marchesini
osserva che il replicante, come costrutto di sintesi biopoietica, in grado
di riprodurre le caratteristiche anatomiche, funzionali, comportamentali
e cognitive dell'uomo, «rappresenta la negazione stessa di quel processo
di ontogenesi identitaria che caratterizza la tradizione occidentale fin
dalle sue origini: la perdita di riconoscibilità, il timore di essere
sostituiti, il terrore dell'ambiguità, come dell'informe e del disordine,
sono tratti centrali nel pensiero filosofico fin dalle sue prime espressioni
nella cultura greca» (p. 308).

Il motivo del doppio come devianza e minaccia inaudita è molto


presente nel mito. Girard sostiene che il doppio suscita terrore perché
rappresenta una fase particolare del processo mimetico, quella in cui
l'imitazione reciproca conduce al parossismo mimetico, quando i due
rivali, nello sforzo di contrapporsi e differenziarsi, finiscono con
l'assomigliarsi sempre di più. Essi sono allora dei doppi nel processo di
diffusione mimetica della violenza e della conseguente
indifferenziazione. Il doppio è mostruoso perché rinvia al parossismo
mimetico che prelude alla violenza incontenibile. La soluzione mitica al
problema della violenza consiste nella selezione di una vittima
responsabile la cui espulsione possa purificare l'intera comunità. Solo la
rinuncia alla rivalità mimetica, solo il rifiuto della ritorsione come
metodo di liberazione dalla violenza può impedire la formazione dei
doppi e demistificare quindi la terribilità del replicante. Si potrebbe
osservare che l'accettazione dell'ibridazione con la teriosfera e la
tecnosfera nel senso proposto da Marchesini, nonché il superamento
delle dicotomie che ostacolano l'apertura a un'epistemologia della
coniugazione sono possibili solo in seguito all'abbandono della logica
sacrificale del mito, in cui la persecuzione vittimaria conclude un
processo che ha inizio dall'imitazione reciproca ed ha il suo culmine
nella rivalità mimetica, nell'indifferenziazione dei gemelli.

Il cyberspazio nasce dai processi di ibridazione che hanno


caratterizzato la storia umana. Il cyberspazio traduce e sostituisce
l'immaginazione dell'uomo, elargisce un senso di ubiquità che rende
irrilevante lo spostamento dell'individuo nello spazio. L'individuo è
ovunque e in nessun luogo: «Il Web è esaltazione dell'atopia, del
galleggiamento amniotico, dell'isocronia che annulla qualsiasi
evoluzione e permette al presente di rendersi flusso, accadimento che
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non lascia traccia, e quindi di abbracciare in una sorta di


contemporaneità passato e futuro» (p. 394). Marchesini non nasconde
gli aspetti potenzialmente negativi del virtuale: le preoccupazioni di
Paul Virilio, il quale teme che individualismo e asocialità possano
essere la conseguenza inevitabile della dimensione edonistica in cui si
rifugia l'infonauta; l'avvertimento di Neil Postman che, parlando di
tecnopolio, suggerisce come il monopolio della razionalità tecnica
svuoti di per sé i valori morali nella misura in cui educa alla fruizione
immediata, all'utilitarismo, all'efficienza e all'autoriferimento
narcisistico. Nell'infospazio tutto è possibile, dalla reversibilità dei
processi alla replicazione e manipolazione degli enti. L'uomo può così
perdere rapporto con la realtà fisica e gli altri esseri umani, fino a non
sopportare più i limiti del mondo al quale appartiene: l'irreversibilità, la
gravità, la morte. Solipsia, derealizzazione e dematerializzazione delle
situazioni umane e senso delirante di onnipotenza potrebbero essere i
tratti psichici delle nuove generazioni educate a frequentare più
l'infosfera che gli altri esseri umani. La patologia dell'infonauta può
essere precisamente il disadattamento rispetto alla realtà umana,
l'incapacità di sopportare qualsiasi frustrazione, l'intolleranza per
qualsiasi limite e la formazione di pulsioni distruttive nei confronti di
una realtà che, pur emarginata e mal frequentata, potrebbe rivelarsi agli
occhi allucinati dell'infonauta come un inconveniente al quale si può
rimediare con un clic del…fucile mitragliatore. Marchesini avverte che,
nonostante l'incremento delle possibilità espressive e di relazione
offerte dal cyberspazio, l'esposizione troppo precoce e prolungata al
mondo virtuale può bloccare lo sviluppo sensocognitivo, annullando
quel riferimento all'alterità rappresentata dalla natura fisica che è
essenziale per lo sviluppo dell'immaginario (p. 403). Nel cyberspazio
l'unicità è abolita e la replica è ordinaria amministrazione. La
clonazione riproduttiva, crux della bioetica, potrebbe diventare
accettabile proprio in seguito alla svalorizzazione dell'unicità. La
persuasione di poter infrangere tutti i limiti imposti dalla natura -
persuasione che il Web crea nell'infonauta - toglie alla clonazione
l'ossessione tecnofobica che l'ha condannata all'ostracismo. Nel
contesto delle nuove forme di convivenza fondate sul riconoscimento
agli omosessuali del diritto di costruire una famiglia, si considera la
clonazione una risorsa che permette alle coppie lesbiche di avere un
figlio senza dover ricorrere allo sperma maschile; oppure, nel caso in
cui uno dei due partner di una coppia "normale" presenti gravi patologie
ereditarie che sarebbero trasmesse al figlio seguendo la via della
riproduzione sessuale, la clonazione può essere un modo per aggirare il
problema. La clonazione e il progetto di un utero artificiale (che ormai è
a uno stadio piuttosto avanzato) contribuiscono a mettere in discussione
tutte le pratiche riproduttive e terapeutiche del passato. La
comprensione dei meccanismi di riprogrammazione delle cellule
staminali potrebbe rivelarsi una rivoluzione superiore a quella della
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scoperta degli antibiotici: «dalla cura di particolari patologie


degenerative al ripristino di interi tessuti, dalla possibilità di controllare
e indirizzare la terapia genica nei soggetti che presentano patologie
ereditarie alla libertà di utilizzare terapie risolutive nella cura dei tumori
(chemio e radioterapiche) emendando la perdita di alcuni tessuti con la
rigenerazione promossa proprio dalle cellule staminali» (p. 434). Gli
studi sulle nanotecnologie promettono scenari impressionanti sulla
strada della creazione di sistemi ibridi. Il nostro corpo sembra destinato
a diventare un ecosistema abitato dall'alterità tecnologica (p. 443).
L'uomo potrà evitare di essere superato e imprigionato dall'intelligenza
artificiale (di cui si prevede nel futuro prossimo un balzo evolutivo
assolutamente singolare) solo se saprà incorporare la tecnosfera e
integrarsi nella logica dell'ibridazione: «Non si tratta semplicemente di
dialogare con il computer, ma di incorporare il computer e nello stesso
tempo di operare una sorta di estroversione del Sé all'interno del mezzo
informativo» (p. 445). La difesa dell'integrità e della presunta purezza
dell'uomo e la possibilità stessa di una distinzione tra umano e non-
umano poggiano su di una specie di confine ontologico che divide
l'uomo dal suo ambiente. Ma ogni giorno il richiamo all'integrità nel
senso dell'umanesimo si rivela sempre più privo di senso, giacché gli
sviluppi inauditi della ricerca scientifica e tecnologica mostrano che
l'interazione dell'uomo con l'alterità non umana è stata possibile solo
mediante l'ibridazione. Nella nostra era è solo divenuto più evidente e
ineludibile la logica della cultura umana: «nella costruzione di
interfacce bioibride non è più possibile distinguere dove finisca l'uomo
e inizi il computer, poiché l'integrazione diventa così stretta che parlare
di una cyberprotesi è francamente riduttivo» (p. 445).

Non si può dire che lo statuto ontologico dell'uomo è stato messo in


crisi dalla scienza, poiché in nessuna epoca del passato l'uomo ha mai
potuto tracciare un confine ontologico tra il Sé e l'alterità. Interazione,
interscambio, incorporazione, assimilazione, ibridazione, sono termini
che rendono solo in parte i processi che intessono la storia del rapporto
tra l'uomo e la natura e tra uomo e uomo. Se l'essenza è un'identità
statica e semplice, allora l'uomo non ha identità, né biologica, né
funzionale, né culturale. Ora però si potrebbe ricordare a Marchesini
che l'idea che lo statuto ontologico dell'uomo si dovesse intendere come
assenza o privazione di uno statuto ben definito appartiene proprio alla
tradizione umanistica di un Pico della Mirandola. L'uomo non possiede
uno statuto o delle abilità definite in partenza, ma costruisce se stesso.
Egli può imparare attraverso l'imitazione di modelli e ricreare con
l'immaginazione in una libertà da ogni vincolo possibile pressoché
illimitata. Ma anche questa potenzialità illimitata riconosciuta all'essere
umano rimane una parola vuota se non esiste un corpo, nel quale
possono innestarsi l'amplificazione sensoriale e il desiderio di sapere.
Le condizioni fisiologiche e il sistema sensocognitivo che permettono
12

di esplorare il mondo esterno attraverso protesi di varia natura non sono


tuttavia sufficienti a spiegare il desiderio di superare i limiti, di
ottimizzare i risultati, di realizzare un dominio sempre più perfetto sul
mondo esterno. La domanda è chi sia quell'essere che, riconoscendosi
privo di uno statuto definito, guarda sempre oltre se stesso, vive la
propria esistenza come transitoria e imperfetta, concepisce ogni sua
prestazione come incompleta, desidera la felicità che non conosce e
s'inganna illudendosi sul futuro e sul prossimo, in un'agonia oppressa da
fantasmi e ossessioni, provando odio e amore per le stesse persone che,
pur ostacolandolo come concorrenti, sono la condizione della sua stessa
esistenza e del progresso di cui è capace. Del resto lo stesso concetto di
ibridazione presuppone l'esistenza anteriore di due o più entità
indipendenti e separate, senza le quali non sarebbe possibile alcuna
contaminazione. L'opposizione integrità/ibridazione non corrisponde ad
alcun fatto, giacché non ci sarebbe alcuna integrità ideale di un ente
separato senza qualche ibridazione o relazione con l'alterità, ma
neppure l'ibridazione sarebbe possibile se non ci fossero elementi con
una certa identità che mettono in gioco la propria essenza interagendo
con l'alterità. Identità e contaminazione, integrità e ibridazione sono
dunque contrari relativi, come sopra/sotto, destra/sinistra, non
contraddittori. Forse l'errore di un certo umanesimo tecnofobico è stato
proprio quello di considerare contraddittori termini che solo come
contrari riproducono la realtà delle cose stesse.

Uno degli obiettivi di fondo della ricerca scientifica consiste


nell'estensione cronologica della vita degli individui. L'estensione
cronologica obbedisce alla logica del potenziamento dell'individuo in
ogni sua attitudine e capacità fisica e psichica. La scienza elabora
tecniche sempre più raffinate per estendere e potenziare la forza fisica,
la velocità, l'attenzione, la memoria, le prestazioni sensoriali, la capacità
di resistenza alla fatica. L'uso delle nanotecnologie nella diagnosi e
terapia delle patologie si profila come la soluzione efficace che evita le
imprecisioni delle tecniche precedenti. Ma il potenziamento delle
attitudini individuali presuppone l'esistenza di un soggetto che aspira a
superare indefinitamente i limiti che la natura sembra avergli assegnato.
La tecnica si svela allora come promessa di onnipotenza, delirio onirico
di oltrepassamento di ogni confine, come trasgressione di un nomos
pensato come norma inviolabile. Se la morte è un fenomeno naturale e
irreversibile, la civiltà si può interpretare come l'espressione di uno
sforzo delirante che ha lo scopo di smentire l'esistenza di un limite
cronologico naturale. Ma il desiderio di divenire immortali ha come
condizione la coscienza della mortalità. Marchesini riporta
l'osservazione di Stephen J. Gould secondo il quale la coscienza della
mortalità è la conseguenza negativa della maggiore complessità neurale
della specie umana, che ha impedito all'uomo di rimanere nello stato di
beata ignoranza che caratterizza la vita degli altri organismi (p. 481). La
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conoscenza che l'uomo ha della propria finitudine biologica è gravida di


conseguenze; la perdita della vita è interpretata come l'evento
conclusivo di un depotenziamento progressivo al quale ciascuno si
sforza di porre rimedio con l'ausilio della tecnoscienza.
L'intensificazione delle pratiche di rallentamento e, se possibile, di
arresto dei processi degenerativi dell'invecchiamento rallenta il decorso
temporale e conferisce in fondo un valore assoluto al presente del
soggetto. Questi entra in competizione con le generazioni future, la cui
apparizione diventerebbe inutile o impossibile se l'immortalità fosse
davvero conquistata. Se la morte è vissuta come una sconfitta (del
morente, dei medici, della scienza), allora il senso ultimo della ricerca
rimane l'annullamento della storia. Ma la morte è davvero un incidente
di percorso, una disfunzione alla quale si può porre rimedio? Jean-
Claude Ameisen sostiene invece che la morte non è un accidente
evolutivo, bensì il motore del processo filogenetico: è la morte cellulare
che interviene continuamente nell'ontogenesi, dallo sviluppo
embrionale fino al decesso. La morte è dunque programmata per
consentire lo stesso sviluppo embriogenetico e realizzare l'identità
genetico-ambientale dell'individuo. La morte agisce selettivamente, in
ogni tappa della nostra esistenza, come restrizione della ridondanza
virtuale; l'identità degli individui è il risultato di questo processo. Senza
la morte non sarebbe possibile alcuna identità, perché se ad esempio
mirassimo a salvaguardare tutte le virtualità di uno zigote prima della
sua segmentazione non potrebbe verificarsi alcun processo di
differenziazione; e, più in generale, se in ogni fase della nostra vita ci
sforzassimo di preservare e sviluppare tutte le possibilità che abbiamo a
disposizione, il risultato sarebbe l'immobilismo assoluto e l'assenza di
identità. Più selettivi siamo, maggiore è il numero di possibilità che
lasciamo estinguere e maggiore sarà la nostra identità peculiare.
L'immortalità è dunque un controsenso, perché vivere è morire: «La
morte entra nel proscenio della nostra vita fin dai primi istanti e
contribuisce come uno scultore a estrarre dall'informe, cioè dal mare
delle possibilità, quel profilo che ci è così caro» (p. 486). Desideriamo
ardentemente bloccare quel processo di morte selettiva al quale
dobbiamo proprio quello stato che vorremmo conservare per sempre:
quale follia più cupa, quale contraddizione più stridente? La morte
concepita come oltraggio è dunque al contrario quanto di più necessario
e coessenziale alla vita. Il giovanilismo e la ricerca dell'elisir di lunga
vita sono espressioni del desiderio di allontanare la morte, ma nel
frattempo il nostro organismo, come quello di tutti i viventi
pluricellulari, è coinvolto nel processo inesorabile di estinzione selettiva
parziale che culmina nell'estinzione totale. L'imperativo di rimanere
giovani ed efficienti può produrre effetti positivi nel campo della
prevenzione di alcune malattie, ma diventa insensato se costringe ad
adottare misure e pratiche con l'obiettivo esplicito di sfidare la
finitudine o di spostare indefinitamente il limite cronologico di durata
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della propria vita. Del resto, il rifiuto della morte spiega scelte
decisamente discutibili come quella della crioconservazione, in attesa di
sviluppi della scienza che permettano di restituire la vita al cadavere
congelato. Marchesini riporta in dettaglio le diverse e sofisticate
procedure di ibernazione, alcune delle quali prevedono la distruzione
del substrato biologico e la riproduzione elettronica dell'intera
configurazione ottenuta con lo scanning di ogni pellicola del cervello
ottenuta con tecnica microtomica. Le duplicazioni di soggetti umane
così ottenute sarebbero copie della stessa persona, ma quali di queste
sarebbero proprietarie di quella specifica identità? La vita degli
individui così duplicati avrebbe ancora la dignità di un'esistenza
umana? Marchesini osserva che la questione nasce dalla pretesa di
ridurre l'identità a informazione; l'informazione può essere modificata,
rinchiusa in un supporto inerte, può diventare uno strumento in mani a
individui privi di scrupoli, ecc. (p. 509).

Il Postumanesimo di Roberto Marchesini intende promuovere una


riflessione sul significato che l'intera storia della civiltà assume nella
fase della massima esplosione delle tecnoscienze. L'idea della
disgiunzione tra l'universo umano e la tecnosfera, la concezione
dell'essere umano come autarchico e la visione antropocentrica
dell'uomo come fine dell'universo si sono progressivamente rivelate
inconsistenti, pur avendo impedito la formazione di un pensiero
organico, che mettesse in luce il destino comune che unisce i diversi
attori sulla scena del mondo, gli umani e le alterità non umane, nessuno
dei quali può rivendicare un'ontologia definita in modo separato e
indipendente dalla storia delle interrelazioni con gli altri esseri.
L'integrazione con l'alterità è la condizione dell'ibridazione e ogni
risultato, grado o tappa evolutiva deriva dalla coniugazione di mondi
separati. Per questo appare priva di senso attribuire alla scienza la
responsabilità della devastazione del pianeta, sulla base di una
concezione ambientalista che ripropone il vecchio dualismo
dell'umanesimo. La fine dell'umanesimo, osserva Marchesini, ha dato
vita a due tradizioni diverse, che assegnano ruoli antitetici alla
tecnoscienza: l'iperumanesimo che vede nella tecnoscienza una
proiezione/estensione dell'uomo; il postumanesimo, che attribuisce alla
tecnoscienza il ruolo di porre rimedio all'antropocentrismo e di
rivalutare il ruolo decisivo dell'eteroreferenzialità e dell'ibridazione.
Iperumanesimo e postumanesimo sono la conseguenza del dilemma
costitutivo della modernità, la contraddizione tra il desiderio dell'uomo
di rimanere separato dalla realtà (in quanto si concepisce come essere
speciale) e il bisogno sempre più forte di immergersi nell'interazione
ibridativa con l'alterità tecnologica: «L'accelerazione dello sviluppo
tecnoscientifico incrementa in modo direttamente proporzionale i
processi di esternalizzazione performativa, permettendo una paritetica
internalizzazione di virtualità: l'uomo prova la disarmante esperienza di
15

sentirsi al tempo stesso più potente, perché in grado di allargare il


proprio dominio di operatività, e più debole, perché spaventosamente
dipendente da partner esterni nell'espressione performativa» (p. 521).
Ma proprio questa contraddizione rivela l'inconsistenza della pretesa
umanistica di tracciare un confine preciso tra le discipline dell'uomo e
quelle della realtà non umana. Il preservazionismo, sia esso applicato
all'uomo o alla natura, non ha alcun fondamento. Così l'ambientalismo
preservazionista immagina di poter attribuire alla natura lo status di
realtà incontaminata finché essa non è stata degradata dall'opera
dell'uomo, ma si tratta di una concezione del tutto arbitraria, perché in
nessuna epoca l'uomo è vissuto in armonia con l'ambiente, come
dimostrano le alterazioni distruttive provocate su flora e fauna del
pianeta a partire dal Pleistocene (p. 542). Solo una concezione dinamica
in senso postumanista può dare una soluzione ai problemi ambientali
attraverso il miglioramento delle applicazioni tecnoscientifiche. Perciò
la direzione giusta non è la condanna della tecnologia, ma il
riconoscimento e lo sfruttamento della dipendenza della nostra specie
dall'alterità, la sua eteroreferenzialità.

A questo punto, come osserva Luisella Battaglia richiamata da


Marchesini, entra in gioco il concetto di responsabilità nei confronti
dello sviluppo della scienza e della tecnica. Hans Jonas e Tristram
Engelhardt rappresentano due modalità opposte di intendere il principio
di responsabilità. Se Jonas invoca il dovere di assumere una
responsabilità cautelativa, capace di fornire risposte concrete ed efficaci
alle minacce incombenti (anche a costo di limitare d'imperio la libertà
degli individui), Engelhardt invece difende la legittimità del pluralismo
di posizioni etiche e sancisce l'obbligo di riconoscere a ciascun
individuo il diritto di decidere in merito al proprio bene. Engelhardt
dichiara inaccettabile la tesi dell'integrità/inviolabilità della natura: «A
coloro che temono che la ricostruzione genetica possa comportare rischi
sconosciuti, si potrebbe controbattere che la mancata ricostruzione può
comportare rischi altrettanto sconosciuti» (p. 549). La responsabilità per
Engelhardt dunque si fonda sul riconoscimento dei diritti inalienabili
della persona. All'opposto di Jonas, Engelhardt sostiene il principio di
autonomia, che prescrive di rispettare la volontà dell'agente e di fare
agli altri il loro bene. Marchesini considera queste due posizioni
opposte come la conseguenza di un fraintendimento relativo alla
collocazione dell'uomo nei suoi rapporti con la cultura, l'attività
tecnoscientifica e la natura stessa. La riflessione di Jonas infatti esprime
un irrigidimento conservatore e fa uso di vecchi concetti come quello di
hybris per opporsi a ogni intervento nei confronti di una alterità
dichiarata intangibile. Dall'altra parte si assiste alla difesa dell'essere
umano, delle sue prerogative e dei suoi diritti prescindendo totalmente
dal nesso con la natura, secondo uno schema quindi autoreferenziale e
antropocentrato. Si può dire, conclude Marchesini, che sia i sostenitori
16

della responsabilità cautelativa, sia quelli di una responsabilità


emancipativa adottano lo stesso presupposto dei teorici
dell'incompletezza: «la cultura si pone in opposizione alla biosfera, non
come espressione della biosfera stessa […] tecnofilia e tecnofobia sono
così di fatto espressioni dello stesso empito antropocentrico incapace di
leggere il processo coniugativo dell'agire tecnologico» (p. 550).

Marchesini propone un'etica del futuro e una bioetica capaci di


riconoscere l'alterità e l'eteroreferenza come momenti essenziali del fare
tecnologico. Dato che il non umano è l'altro polo del processo culturale,
la salvaguardia dell'ambiente e della natura in generale non si può
contrapporre alla cultura e alla tecnologia. Quando due poli
interagiscono è impossibile attendersi che essi rimangano inalterati,
perché ogni relazione interviene nella determinazione dell'identità
mobile dei soggetti; identità che, d'altra parte, non sarebbe possibile
definire in modo indipendente dalla relazione stessa. La critica che
Marchesini rivolge alle correnti principali della bioetica è un corollario
della sua concezione postumanistica. Rimane tuttavia il dubbio, circa la
possibilità di assumere una posizione bioetica non antropocentrata,
giacché sono pur sempre gli esseri umani ad assumere decisioni in
campo tecnologico e a determinare la direzione dello sviluppo. A meno
che quella di Marchesini non sia una visione naturalistica in cui ai
processi di interazione con le alterità è attribuita la capacità di
autorganizzarsi in modo spontaneo. Infatti è impossibile sottovalutare la
circostanza che uno dei due poli, l’uomo, ha un potere d’intervento e
una libertà di decisione straordinariamente superiori a quelli dell’altro
polo. La responsabilità bioetica dell’uomo è allora tanto più drammatica
quanto maggiore è il numero delle opzioni che egli è in grado di
apprezzare e tra le quali è chiamato a istituire una gerarchia.

30.11.2002

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