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Heidegger
Etica
Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano
34 pag.
HEIDEGGER – LETTERA SULL’UMANISMO
INTRODUZIONE
Gran parte del lavoro filosofico consiste nel tentativo di vedere le cose in
maniera diversa, quelle che noi vediamo normalmente in maniera opaca,
chiusa, e questa è una cosa che costa fatica. È sempre stato difficile, e lo è
diventato in modo particolare in quest'epoca perché, a partire grosso modo
dagli anni ’20-‘30 del secolo scorso (cioè dal ‘900 in poi) si va affermando un
modo di concepire l'esistenza umana (innanzitutto come esistenza sociale,
produttiva ecc.) in cui l'elemento dominante è l'ottimizzazione tecnica; vale
a dire la tendenza a far sì che la propria azione, la propria prassi sia
immediatamente finalizzata ad un obiettivo esibibile, socialmente
riconoscibile.
La società italiana, almeno negli anni ‘20-‘30, è uno dei tanti esempi (insieme
con altre società occidentali) in cui tutto è scandito dai ritmi
dell'ottimizzazione.
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forte sospetto che tutto questo discorso sul fatto che nell'uomo ci sarebbe
questa spiritualità fossero tutte illusioni.
Mai come in quegli anni si cominciò a dire: ma se fosse che l'uomo non solo
non è vero che è più che una bestia ma addirittura meno di una bestia? Se
fosse che i requisiti che distinguono gli esseri umanidalle altre specie fossero
un difetto invece che un pregio? Tutto sommato gli altri animali le bombe
atomiche non le hanno.
Inoltre, secondo lui, si può, sia pure con molto sforzo, reimpostare questo
problema dell'uomo in una maniera diversa, più autentica e più profonda.
Distinzione tra essere ed ente: al livello elementare le cose che esistono nel
senso più lato possibile (io, l'orologio, il tavolo) hanno in comune che sono: in
questo senso sono enti. Per lui questa cosa è completamente sbagliata. A tale
proposito, in un libro, Heidegger commenta queste tre frasi:
• la pietra è priva di mondo -> all'essere della pietra, proprio perché è
una pietra, ogni riferimento al mondo è negato per definizione; sta là
• l'animale è povero di mondo -> quando diciamo che l'animale è povero
di mondo intendiamo dire che l'animale è aperto al mondo, interagisce
con il mondo ma in una forma tale che poi non può mai cogliere il mondo
come tale, perché è aperta al mondo in una forma istintuale
• l'uomo è formatore di mondo -> quando diciamo che l'uomo è formatore
di mondo, intendiamo dire che l'uomo non sta semplicemente in un
mondo e se lo guarda. Il mondo dell'uomo è quel mondo, prodotto dalla
storia, dalla cultura, che non ci sarebbe se non ci fossero stati gli
uomini.
Heidegger aveva l'esigenza di distinguere la sua impostazione filosofica da
quella di diversi autori che in quell'epoca venivano facilmente accomunati a
lui, come Jasper e Sartre.
Nel 900 nasce la cultura di massa; la massa era composte di persone che
lavoravano, non erano inurbate perché stavano in campagna e in genere non
sapevano nè leggere nè scrivere. In questo periodo la cultura filosofica era
rigidamente separata dalla cultura di massa. Sartre è stato uno dei primi ad
andare incontro alla cultura di massa. Prima di tutto ha scritto dei romanzi
che hanno avuto una vastissima circolazione e anche testi di alcune canzoni.
Sartre era considerato insieme ad Heidegger il protagonista di una corrente
filosofica che allora fu definita esistenzialismo.
Sartre aveva da pochissimo fatto una conferenza di cui si parlò molto e che si
chiamava "L'esistenzialismo e l'umanismo".
Teniamo conto che siamo in uno scenario in cui la cultura europea ha subito
uno shock violentissimo: quello delle due guerre mondiali. Heidegger scrive
questa lettera nel 1946, in una Germania ancora occupata dalle truppe
alleate, quindi ancora piena non solo delle macerie materiali ma anche
ideologiche, culturali nel senso che l'intera cultura europea oltre ad essere
sostanzialmente sconfitta dalla guerra, si trovava anche accusata, nel senso
che molti dei peggiori crimini della guerra, in particolare i campi di sterminio,
quando vennero alla luce l'intera cultura europea si ritrovò sbriciolata dagli
eventi accaduti.
Sartre era uno che non correva questo rischio. Essendo stato sempre un
uomo di sinistra, un uomo democratico, addirittura un simbolo
dell'intellettualità democratica, risolse a modo suo il problema con questa idea
di pensare un umanismo radicato in questo concetto esistenziale. Vale a dire:
l'umanità dell'uomo è qualcosa che va custodito, che va tutelato non perché
nell'uomo ci sia una ricchezza speciale ma proprio perché l'umanità dell'uomo
è esposta alla timidezza, al dolore, alla miseria, alla negatività. L'umanità
dell'uomo è qualcosa di fragile, è radicata proprio nel suo non avere radici, ha
come identità quella di non avere identità, ha come destino quello di non
avere alcun destino.
Tutto questo fu il tema della conferenza di Sartre e il motivo per cui ebbe
tanto successo perché era come se lui avesse offerto una prospettiva a una
cultura europea che altrimenti si vedeva con l'acqua alla gola.
La conferenza di Sartre accese per un attimo la scintilla, o l'illusione, che
invece la cultura europea avesse ancora una missione da compiere: quella di
restituire l'umanismo a questo terreno democratico e viceversa di convertire
la democrazia di massa a un’idea di umanismo a cui fino a quel momento non
si era arrivati.
Questa cosa accese tutta una serie di dibattiti, e a un certo punto fu chiamato,
in maniera indiretta e complessa, ad intervenire Heidegger il quale aveva una
posizione molto diversa da quella di Sartre perché, appunto, lui a suo tempo
era stato invece coinvolto con le ideologie totalitarie e fu accusato a torto o a
ragione di essere stato d'accordo con le tesi del nazismo, almeno in un primo
momento. Per questo era stato un po' messo al bando, additato. Questo gli
servi per tornare alla luce e professare quello in cui credeva.
AGIRE AUTENTICO/INAUTENTICO
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Heidegger inizia il libro parlando dell'agire, anche se la domanda posta da
Beaufret riguarda l'umanismo, perché l'agire fa riferimento all'essere
dell'uomo.
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pensiero è la forma più alta dell'agire in quanto pensa e in quanto pensiero,
non perché è messo al servizio di una prassi e di un agire.
La forma più alta del pensiero è quella in cui si trovano le parole per dire
l'unità tra l'essenza dell'uomo e l'essere: cioè non tanto inventare parole
nuove, ma riuscire a consegnare alle parole questa potenza e questa forza.
ESSERE E TEMPO
"Essere e tempo" era stato scritto una decina di anni prima ed era il libro a cui
era dovuta la fama di Heidegger; anche Beaufret comunica con lui sulla base
di quel libro.
"Essere e tempo" è considerato uno dei più importanti libri di filosofia del XX
secolo, ed ebbe all'epoca un'enorme risonanza.
L'idea di Heidegger era quella che, contrariamente a quello che la filosofia
aveva fatto nell'epoca tradizionale, per porre gli interrogativi filosofici basilari
bisogna partire dalle forme concrete di esistenza nella media quotidianità,
cioè la vita quotidiana così come si presenta nella sua forma media, quindi la
più comune.
Questa è una cosa di cui la filosofia non si era mai occupata; per definizione la
filosofia si occupa delle cose fondamentali, universali, sublimi, è quindi il
tessuto della vita quotidiana fatto di paure, di sentimenti e di piccoli progetti
non c'è.
La vita media e quotidiana è costruita nel senso di rifiutarsi di vedere ciò che
costituisce il suo stesso senso, tant'è vero che una delle prime esigenze
dell'esistenza inautentica è sfuggire l'isolamento, la singolarità; anche
questo è un paradosso perché noi siamo qualcosa di singolare, ma cerchiamo
di creare contesti numerosi in modo che sia più facile distrarsi e non pensare
a quello che è la verità, come la nostra finitezza.
L'uomo, a differenza degli animali, è caratterizzato dal fatto che può alzare lo
sguardo all'intero orizzonte dell'esistenza e prendersi cura del fatto
dell'esistenza come tale. In un certo senso non può fare a meno di farlo perché
il paradosso è che, anche chi si diverte, chi si ostina a non alzare lo sguardo e
guardare sempre altrove, è come se avesse poi scelto di divertirsi; come se in
questo non voler vedere avesse già visto: c'è sempre un non voler vedere la
verità dell'esistenza perché si è visto abbastanza da sapere che non ne vuole
vedere più.
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Questo tipo di concezione ebbe un successo enorme perché in quell'epoca la
cosa di cui la gente più sentiva il bisogno era qualcosa di simile: non tanto un
nuovo sapere nel senso di una nuova dottrina, ma di un tipo di pensiero che
creasse le condizioni per una trasformazione del proprio vivere, del proprio
esistere. Era un'epoca in cui la gente iniziava ad avvertire che le grandi
macchine sociali la spingeva verso una vita in fondo priva di senso,
inautentica, e molte persone ritenevano di doversi opporre.
Com'è noto la battaglia poi fu persa nel senso che allo stato attuale delle cose,
la stragrande maggioranza delle persone (soprattutto giovani) non solo vivono
in una condizione di sostanziale divertimento, di inautenticità, ma rispetto
all'epoca passata dove le persone erano avvilite da questo fatto e volevano
cercare un modo per cambiare le cose, adesso tendenzialmente non ce ne
importa. Una delle ragioni per cui la filosofia europea non si è ancora ripresa
da questa sconfitta e si trova in una situazione di difficoltà è che non è
chiarissimo perché le cose siano andate così.
PRAXIS/POIESIS/TEORIA/TECNICA
Mentre un filosofo come Aristotele opera una differenza tra praxis e poiesis,
per Heidegger non c'è sostanzialmente una grossa differenza perché
ambedue questi tipi di azione rientrano in una determinazione del conoscere
che è già connotata dalla tecnica.
Dal momento in cui la filosofia diventa, nella sua tripartizione di praxis,
poiesis e teoria, connotata dalla tecnica diventa diversa da quello che per
Heidegger dovrebbe essere il vero pensare. Il termine di paragone immediato
è rappresentato dalla scienza; ovvero la filosofia cerca tendenzialmente ad
imitare la scienza. L'aspetto fondamentale del pensare scientifico è quello del
metodo. Dunque la ftlosofta si confronta con la scienza e cerca di
diventare un semplice metodo.
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semplice metodo che deve permettere di porre delle ipotesi che sono
logicamente corrette.
POSSIBILITÀ/POSSIBILE
Questa relazione fra l'uomo e l'essere ha a che fare con la possibilità, con il
possibile; ciascuno dei due poli di questa unità è la condizione di possibilità
dell'altro cioè, l'essenza dell'uomo rende possibile l'apertura dell'essere
ed è l'essere che rende possibile l'essenza dell'uomo.
Heidegger insiste proprio su una sorta di gioco di parole, non traducibile in
italiano, perché il termine potere, possibilità, facoltà, potenzialità, in tedesco è
un termine che è collegato etimologicamente ad un verbo che significa anche
voler bene. In italiano forse il termine che si avvicina di più è disponibilità:
quando uno si rende disponibile per qualcuno ed in un certo senso rende
possibile le cose, questa disponibilità è anche un esser ben disposti. Quando
una persona è ben disposta nei tuoi confronti vuol dire implicitamente che
questa persona si dispone in modo positivo e in modo da allargare il campo
delle tue possibilità. La sua idea è che questo rendere reciprocamente
possibile dell'essere e dell'uomo, va proprio pensato come un voler bene, un
essere ben disposti: l'essere deve essere ben disposto nei confronti dell'uomo.
Non ci potrebbe essere alcunché di possibile se non ci fosse prima di tutto
questo reciproco aprirsi l'uno all'altro dell'essenza dell'uomo e dell'essere.
L'apertura dell'uomo all'essere è innanzitutto l'apertura al possibile.
UMANISMO
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Il significato lato del termine ritiene che sia umanistica qualsiasi concezione
filosofica, teorica, politica, nella quale si da una determinata interpretazione
dell'essenza dell'umano, che ci sia la preoccupazione che l'uomo diventi libero
per la sua umanità.
Sulla base di questa concezione dell'uomo e dell'essenza dell'uomo, si
costruisce un progetto di evoluzione culturale, civile e di impegno storico-
politico.
Anche pensatori che individualmente non si sono mai dichiarati umanisti, per
esempio Marx, alla fine si rifanno a questo principio di umanismo.
Per Marx l'essenza dell'uomo era legata alla sua socialità, alla sua capacità di
partecipare alla dinamica sociale e alla produzione sociale, offendo un
contributo produttivo.
Tutto ciò era messo in pericolo dal capitalismo, che è un sistema di produzione
basato sul possesso, privato, dei mezzi di produzione da parte di alcuni, e
quindi sull'organizzazione del sistema economico in base alla legge del
profitto. Non è importante il prodotto finale, ma guadagnare più soldi possibili
senza curarsi anche delle condizioni di vita degli operai. Questo comporta una
forma di alienazione, cioè di disumanizzazione.
L'idea di Marx è che si dovrebbe fare in modo che le forme di vita, di
produttività e di lavoro, non siano sottomesse al meccanismo capitalistico, ma
che siano governate dall'imperativo interno a queste forme di vita e, quindi,
valorizzarle.
Si dovrebbe fare un lavoro con l'obiettivo di valorizzare la propria attività
lavorativa, la propria capacità creativa e, in generale, l'utilità sociale di questo
lavoro. Anche il cristianesimo può essere considerato un umanismo.
Es: se noi prendiamo un falchetto lacustre (dei falchi che vivono in prossimità
dei laghi) che è stato allevato in cattività (che non è mai stato sulla riva di un
lago), se lo mettiamo sulla riva di un lago, immediatamente incomincia a
lavarsi le piume con dei movimenti molto esperiti equiparabili ad altri uccelli.
Ma se noi prendiamo quello stesso falchetto e, invece di metterlo su uno
specchio d'acqua, lo mettiamo su una lastra di vetro trasparente, la cosa
curiosa è che lui farà esattamente le stesse cose, gli stessi movimenti, solo che
la cosa non ha alcun senso perché acqua non ce n'è. Secondo Heidegger
questo avviene perché loro non sono aperti a quell'ente in quanto ente ma
dispongono di un programma genetico. Noi abbiamo l'impressione che il falco
interagisce con l'acqua, ma la verità è che il falchetto non sa che cosa è
l'acqua e non sa in un senso molto profondo.
C'è qualcosa che si chiama "stimolo" e questo è legato a determinati segnali
biologicamente rilevanti che hanno il potere di innescare un comportamento
innato, e quel comportamento innato è stato selezionato dall'evoluzione
naturale perché in linea di principio è efficace e rafforza le probabilità di
sopravvivenza.
Un uomo può scambiare uno specchio di metallo con uno specchio d'acqua,
ma può capitare soltanto ad un uomo, perché soltanto un uomo può cogliere
l'essere di quell'ente e coglierlo in maniera sbagliata e dire che quella è acqua
ma invece non lo è.
Ma non è che perché l'uomo parla allora è aperto all'ente in quanto
ente; è perché l'uomo è aperto all'ente in quanto ente che può
organizzare un linguaggio. L'uomo interagisce con gli enti.
Nei discorsi di Heidegger sulla metafisica c'è il confronto con Sartre circa una
frase scritta da Heidegger in "Essere e Tempo": "L'essenza dell'uomo riposa
nella sua esistenza". Questa frase chiama in causa il discorso circa il rapporto
tra l'essenza dell'uomo e l'apertura all'essere. Sartre intende questa frase in
un certo modo, e da questo trae la conseguenza che è possibile progettare una
posizione teorica definibile come Esistenzialismo che rivendica il diritto a
qualificarsi come Umanismo più autentico, più adeguato all'epoca storica
presente; poi c'è Heidegger, il quale per primo ha pronunciato quella frase, e
dice che va intesa in un senso diverso, non nella direzione di un nuovo
umanismo che si configura come Esistenzialismo, tanto che ad un certo punto
Heidegger dice che, se vogliamo essere rigorosi, si dovrebbe dire che questa
frase in "Essere e Tempo" è talmente lontana dall'impostazione umanistica
che Sartre gli attribuisce, che si dovrebbe dire che il pensiero che si cerca di
pensare in "Essere e Tempo" è contro l'Umanismo, cioè non coincide con
l'interpretazione umanistica. Per prima cosa chiariamo la posizione di Sartre.
Nella tradizione della filosofia occidentale o della metafisica occidentale che è
tutta un po' plasmata dal platonismo, c'è l'idea che l'essenza precede
l'esistenza. Le cose naturalmente esistono, gli animali esistono, gli esseri
umani esistono, però è un po' come nel discorso che già all'epoca di Platone si
faceva sul cavallo e la cavallinità: c'è questo cavallo esistente che ha una serie
di requisiti, che lo si riconosce come cavallo, ma nel momento in cui io lo
riconosco come cavallo lo faccio perché colgo in questo ente esistente un'idea
che ne costituisce l'essenza, in questo caso la cavallinità. Facciamo un
esempio: quando facciamo una dimostrazione matematica, come un cerchio
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alla lavagna, nella dimostrazione il cerchio non sarà perfettamente circolare,
avrà imperfezioni, avrà spessore che a norma e regola non dovrebbe avere;
ma la dimostrazione funge da illustrazione: non ci riferiamo a quel cerchio lì,
ma al cerchio in quanto tale. Non importano queste imperfezioni che
competono alla materia, all'esistenza, conta riconoscere l'idea del cerchio. Per
la tradizione platonica questo è vero per qualsiasi cosa. Se voi leggete un libro
di anatomia o un libro di zoologia, non si parla di questo o di quell'altro
cavallo ma dell'idea, dell'essenza di cavallo. Questa cosa ha anche una sua
funzione etica, nel senso che un cavallo, vale a dire un ente esistente, che ha
in sé l'essenza del cavallo, che è plasmato intorno all'essenza del cavallo, avrà
come compito esistenziale, come destino, quello di avvicinarsi il più possibile
alla realizzazione di questa essenza. Quindi, questa precedenza dell'essenza
sull'esistenza sta ad indicare una precedenza, non solo di ordine logico), ma
anche una precedenza di ordine etico, di valore, di qualità: ciò che ogni ente è
portato a fare nella sua esistenza è avvicinarsi a questa Essenza che in
qualche modo gli consente di essere e ne declina tutte le possibilità.
L'impostazione di Sartre "l'Essenza dell'uomo sta nell'esistenza", capovolge
questa impostazione. Evidentemente Sartre intende dire che l'uomo è
quell'ente che, non essendo limitato nella sua libertà e nelle sue potenzialità
da un'essenza che in qualche modo gli tocca in sorte di realizzare, ha un
compito più radicale e una libertà più essenziale che è quella di dare forma
alla propria identità a partire da una sorta di non essenza e, quindi, di libertà
indeterminata. Si tratta di un capovolgimento che non è estraneo anche alla
tradizione dell'Umanismo nel senso storico del termine. Nella tradizione
dell'umanismo rinascimentale c'è un filosofo, Pico della Mirandola, che aveva
scritto proprio un discorso sull'uomo che è tutto basato su questo. Pico della
Mirandola diceva che "l'uomo è il divino camaleonte": l'uomo è l'unico ente
che non ha un'essenza da realizzare e può fare qualunque cosa di se stesso, e
che quindi ha il compito di fare di se stesso qualcosa. Nell'umanità dell'uomo
il caso particolare, quello che normalmente è stato considerato la casualità, è
invece la cosa decisiva, perché non esiste un'essenza predefinita e
precostituita dell'uomo.
Ciò che caratterizza l'uomo è la sua capacità di inventarsi sa sé. Una società
giusta è quella che riconosce questo diritto e amplia al massimo la creatività.
L'esistenza, in questo caso, precede l'essenza. Per Heidegger questa tesi di
Sartre, questa impostazione che dà a quella frase, è un capovolgimento della
metafisica tradizionale di impostazione platonica ma, in realtà, in quanto
capovolgimento, resta comunque una tesi metafisica. A prima vista la frase di
"Essere e Tempo" sembra non potersi leggere altrimenti che cosi.
Invece, quasi a sorpresa, Heidegger dice che non intendeva dire una cosa del
genere; quello che lui chiamava l'essenza non era essentia, in senso latino, e
quello che lui chiamava esistenza non era l'existentia, in senso latino. Per
essere più precisi ci mette il trattino, per dire che lui intende un'altra cosa. In
Sartre essenza ed esistenza significano quello che hanno sempre significato
nella tradizione, e cioè potenza e atto. L'unica cosa è che lui capovolge il
discorso. L'essenza è quella cosa (una potenza) che si deve realizzare
nell'esistenza. Per Heidegger invece di e-sistenza si può parlare solo in
relazione all'essenza dell'uomo. Già questo è abbastanza sorprendente, nel
senso che siamo abituati all'idea che l'esistenza è una cosa che spetta a tutti
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gli enti; l'esistenza nel senso dell'actualitas, nel senso della realtà,
dell'effettività, spetta naturalmente a tutti gli enti reali.
Lui chiarisce questo punto dicendo che, di e-sistenza si può parlare solo in
relazione al modo umano di "essere". Questa è un'indicazione anche sull'uso
del termine "essenza", e cioè il modo di essere dell'uomo. Se ci volessimo
esprimere in una maniera che, forse, può aiutare di più si potrebbe dire che
più che l'"essenza" si dovrebbe dire la "sostanza" dell'uomo, purché si intenda
il temine nel suo significato originario, aristotelico: il modo d'essere. L'idea di
Heidegger è che il modo d'essere dell'uomo è qualcosa di unico e non
paragonabile al modo d'essere degli altri enti, perché definito e
contrassegnato da un esser collocato fuori, da uno star fuori. Non è che
l'uomo è né più né meno di come è un'animale, esiste, sta nel mondo, né più
né meno di come esiste e sta nel mondo un animale, però in più ha
un'aggiunta, ha un qualcosa. Il modo d'essere dell'uomo, che Heidegger
chiama e-sistenza, è fin da principio e per definizione qualcosa di radicalmente
diverso dal modo d'essere dell'animale, al punto tale che l'affinità, la
promiscuità che oggettivamente c'è tra il nostro modo d'essere e quello
dell'animale, rischia di essere fuorviante talmente che per noi pensare il modo
d'essere dell'animale è la cosa più difficile che c'è. Quando poi pensiamo al
modo d'essere dell'animale finiamo per attribuirgli il nostro modo d'essere.
L'animale non è mai, strutturalmente e per definizione, in grado di cogliere
l'ente in quanto ente. Quindi l'esistenza, quella che compete all'uomo, è quella
maniera d'essere in cui si coglie l'ente in quanto ente: noi cogliamo il libro in
quanto libro, il microfono in quanto microfono, ma l'animale no. In questa
capacità di cogliere il libro in quanto libro, la bottiglia in quanto bottiglia, c'è
un problema di proporzioni enormi, e tutta la catastrofe, la decadenza, la crisi
della cultura tradizionale, della cultura europea, consiste nel fatto che
l'abissale profondità di questo problema è stato via via dimenticato,
cancellato, messo tra parentesi, al punto tale che a noi oggi pare di parlare
della cosa più semplice della terra. Dimenticare questa complessità, metterla
tra parentesi è quell'errore, quella opacità, quell'oblio dell'essere, che
caratterizza la metafisica. Abbiamo visto come, nella in Sartre l'uomo diventa
il centro dell'esistenza perché diventa arbitro e giudice della sua stessa
esistenza. C'è una frase famosa di Sartre che Heidegger riprende nella
"Lettera sull'umanismo", la cita e la discute, e che dice: "Noi siamo su un
piano in cui c'è esclusivamente l'uomo". Questa è una cosa liberatoria ma
anche una responsabilità perché ciascuno di noi è anche chiamato da solo a
decidere, non può dire che la famiglia o il paese ha deciso così; ciascuno è
chiamato a decidere della sua vita e lo deve fare assumendosi tutta la
radicalità di una solitudine, che è sinonimo della sua stessa libertà, e che è
inerente al dato di fatto oggettivo che lui non ha altra essenza che la sua
esistenza. Heidegger risponde alla posizione di Sartre dicendo: "Se ci
potessimo esprimere in termini analoghi a quelli di Sartre, io dovrei dire dal
mio punto di vista che noi siamo su un piano in cui c'è principalmente
l'essere." E subito dopo aggiunge: "Sarebbe un modo di dire improprio, perché
propriamente parlando, questo piano è l'essere stesso." Quindi non è che noi
siamo su un piano in cui c'è l'essere, ma l'essere è appunto il piano sul quale
noi siamo. L'Umanismo, com'è pensato da Sartre pone l'uomo come metro e
misura di tutte le cose. In quanto è privo di qualunque essenza che non sia
consegnata come compito alla sua esistenza reale, in quanto è il formatore del
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suo proprio modo d'essere, l'uomo è quello che in un certo senso ha la
possibilità di decidere, di stabilire non solo in che modo lui deve essere e deve
vivere, ma in che modo in un certo senso il mondo intero deve configurarsi;
quindi che cosa farne degli oggetti, degli animali, dell'ambiente, dell'universo
tutto. Si potrebbe dire che la decisione teorica di Sartre demanda all'uomo la
decisione circa il modo d'essere di tutti gli enti in generale. Questa concezione
è riflessa, anche nella pratica, da quello che è il dominio della tecnica. In un
certo senso scienza e tecnica sono l'articolazione, la messa in pratica del fatto
che, propriamente parlando, spetta all'uomo decidere che cosa deve essere e
come e in che modo deve essere. L'uomo e solo a decidere, nella posizione
sartriana, del suo destino; solo il singolo essere umano decide veramente di
sé. È una posizione che implica l'asservimento, di tutto l'ente nel suo insieme,
all'uomo.
In larga misura è quello che succede anche in tutte le forme di politica
moderna: si da per assodato che le decisioni che si prendono, ad esempio nei
confronti dell'ambiente, nei confronti dell'industrializzazione, nei confronti
della tecnica, devono rispecchiare i bisogni e le esigenze degli esseri umani.
Quindi anche la decisione dell'uomo diventa quasi paradossale: come decidere
circa la propria esistenza se non ho altro metro di misura che la mia
esistenza? La posizione di Heidegger, in questo senso, è contro l'Umanismo:
lui ci vuole convincere del fatto che ciò che l'uomo propriamente deve fare se
vuole ritrovare la sua propria essenza e se vuole riconsegnarsi alla propria
essenza, non è quella di decidere, a proprio arbitrio, il suo modo d'essere, ma
l'uomo deve porsi in ascolto dell'essere. L'uomo è il pastore dell'essere: l'uomo
perviene alla sua essenza solo nel momento in cui è in grado si sentirsi
chiamato dall'essere stesso e, in ultima analisi, l'unica cosa che l'uomo può
fare, essendo gettato in questo rapporto con l'essere, è sforzarsi di essere e di
esistere nel modo che più e meglio corrisponde all'appello dell'essere.
L'ente è lasciato essere, a partire dalla capacità che l'uomo ha, o almeno può
avere, di porsi in ascolto dell'essere.
La posizione di Heidegger è una posizione ambivalente, che è
presentabile come umanismo e antiumanismo.
È una forma di umanismo, l'unica vera forma di umanismo, che tenta nella
maniera più radicale di concepire l'essenza dell'uomo e di pensare il destino
storico, nel senso di un tentativo di riconciliarsi con la sua essenza; ma è una
forma di anti-umanismo, se per umanismo si intende il fatto che l'uomo viene
messo al centro di ogni cosa e viene qualificato come colui che governa l'ente
nel suo insieme.
Non è più centrale, decisivo, l'uomo come tale, ma è centrale e decisiva la sua
prossimità all'essere.
In questo caso si potrebbe dire che il suo umanismo è un umanismo
paradossale: è come se nell'essenza dell'uomo venisse individuato una sorta
di tratto paradossale in cui l'uomo si consegna compiutamente alla sua
essenza quando si dimentica di sé, quando cessa di essere a capo e al centro
dell'universo.
Per questo Heidegger dice che l'essere è il trascendens puro e semplice, che
la condizione dell'esistenza comporta questo uscire fuori: noi cogliamo
veramente l'essenza dell'uomo laddove siamo su un piano in cui non c'è più
l'uomo ma l'essere.
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Quindi l'essenza dell'uomo consiste in questo essere aperto a qualcosa d'altro
da sé.
La parola umanismo finisce per essere un "lucus a non lucendo": una luce che
non illumina; quindi un termine che non spiega il contenuto del concetto.
Quando utilizziamo il termine umanismo pensiamo all'uomo, mentre
Heidegger pensa che la natura dell'uomo debba essere pensata a
partire dall'essere: riuscire a pensare l'essere a partire dal quale poi si
riuscirà a pensare l'uomo. Per questo bisogna abbandonare il termine
umanismo.
Qui introduce il concetto di Sacro. Nel momento in cui io penso Dio come il
valore più alto, con questo modo di pensare io degrado l'essenza di Dio,
perché pensare Dio come un valore significa già privare Dio della sua dignità,
perché lo si ammette solo come oggetto della stima umana.
IMPEGNO
L'ESSERE
L'espressione il y a non traduce esattamente il "si dà" (es gibt) perché ciò che
qui dà è l'essere stesso.
Il "dà" indica l'essenza dell'essere che dà, concedendo la sua verità. Il darsi
all'aperto, unitamente all'aperto medesimo, è l'essere stesso.". Il y a
(pronuncia ilià) vuol dire "c'è", che non traduce esattamente il "si dà".
Naturalmente il termine valido è quello tedesco.
L'essere è ciò che dà, che propone qualche cosa, e questo qualche cosa che è
proposto nel momento in cui l'essere dà, è l'essere stesso.
Ma l'"essere" appunto non è l' "ente"." Se non è l'ente, come facciamo a dire
che l'essere è? Per sfuggire a questa difficoltà Heidegger si inventa questa
espressione "si dà".
"Forse l' "è" può essere detto in modo appropriato solo dell'essere, sicchè
nessun ente "è" mai in senso autentico" Quindi nel momento in cui diciamo
che l'ente è, in realtà rimaniamo al di sotto della verità, perché l'unica
espressione completamente vera sarebbe quella di dire "l'essere è"; però, se
noi diciamo che "l'essere è"; però se diciamo che "l'essere è", in realtà
pensiamo l'essere come se fosse un ente. L'essere è il piano. L'uomo è uomo
nella misura in cui si colloca su questo piano, quello dell'apertura all'essere.
L'essere è l'apertura a partire dalla quale una qualunque entità può essere
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riconosciuta come entità, quindi offrirsi all'uomo in quanto tale. Se noi
immaginiamo l'esistenza dell'uomo come un continuo entrare in rapporto con
entità di ogni genere, quest'incontro con tutte queste entità (uomini, natura,
tecnica) avviene già in un orizzonte, in uno spazio, e l'essere non è uno di
queste entità che vengono alla luce in questo orizzonte, in questo spazio, ma è
appunto l'orizzonte e lo spazio. Da non confondere con Dio che è l'ente
supremo, eterno, assoluto, ma comunque un ente. Perché io possa entrare in
rapporto con qualcosa, con un ente, occorre che qualcosa come un orizzonte,
accessibile e possibile per questo incontro, ci sia già. È ciò a partire da cui e in
vista di cui, in generale, le cose sono. L'essere è la radura, cioè uno spazio
aperto, una dimensione della nostra sensibilità all'interno della quale si
depositano gli oggetti che noi percepiamo. È uno spazio che accoglie tutti gli
enti. Il termine radura è una traduzione impropria, perché non si può fare
niente di più di questo, perché il termine tedesco che lui adotta in realtà è il
termine che significa, si radura, ma viene dalla parola luce.
Quindi letteralmente se uno ne volesse dare una traduzione letterale, è un
allucinazione. La parola significa radura per un motivo semplice: nel senso
che quando uno va in un bosco, una radura è per definizione il momento in cui
il bosco si dirada e in questo suo diradarsi diventa di nuovo possibile cogliere
la luce che invece fino a quel momento ci era stata oscurata. L'essere è la luce
a partire dalla quale l'ente diventa visibile. Uno degli obiettivi di Heidegger è:
noi dobbiamo riuscire a pensare l'essere non a partire dai singoli enti che mi
vengono incontro volta per volta, ma come la condizione perché quei singoli
enti mi vengano incontro. Noi normalmente non ci accorgiamo della luce
perché la vista è completamente assorbita da quelle cose che solo grazie alla
luce acquistano la possibilità di essere viste; allora una radura è come qualche
cosa in cui, diradandosi ciò che la luce mi permette di vedere, per un attimo
colgo la luce come tale. Per aiutarci a capire e pensare questo rapporto fra
l'essere e l'ente nella maniera adeguata, Heidegger dice che "l'essere è il
trascendente puro nei confronti dell'ente", cioè l'essere è la trascendenza
rispetto all'ente in generale, ciò che è al di là dell'ente. Questo comunque è un
punto di vista metafisico. Lui riconosce che questa sua impostazione ha a che
fare con la metafisica, ma dice che quando si riflette sulla questione del
rapporto fra l'essere e l'ente, da principio è come in una prima battuta,
riconoscere questo carattere di trascendenza è un passaggio obbligato.
L'essere non è l'ente. L'essere non è un prodotto dell'uomo. Non ci deve
essere un dominio, ma l'uomo deve porsi in ascolto dell'essere. L'essere non
produce gli enti. È solamente ciò che lascia vedere gli enti, l'orizzonte entro il
quale gli enti sono illuminati e vengono percepiti. È condizione di possibilità di
questa manifestazione dell'ente.
Perché occorre un orizzonte? Il nostro rapporto con gli enti in generale non
succede nel nulla, ma cade in qualcosa, in un orizzonte, e incontriamo l'ente e
i suoi modi d'essere a partire da questo orizzonte. Che cos'è questo orizzonte?
È un orizzonte segnato dalla storia e dalla cultura. Non è qualcosa che
inventiamo noi, ma è iscritta nel nostro modo d'essere. Il medioevale non si
impegna a vedere le cose come enti creati da Dio, ma è normale per lui. Noi
non siamo situati in un ambiente (un ambiente precostituito come per gli
animali), ma in un mondo; questo mondo è una costruzione storica, strutturato
in modo tale da prescrivermi, indicarmi una certa aspettativa nei confronti di
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che cosa ciascun singolo ente è. Un africano uscito dalla savana, vedendo il
registratore che registra, direbbe che lì dentro c'è uno spirito dei fiumi che
ripete le parole, mentre tutti noi sappiamo che è un artefatto tecnico. Per noi
è ovvio che sia così, tanto che l'impostazione dell'altro ci sorprende e ci fa
ridere.
Questa ovvietà è una sorta di predirezionamento, in direzione di una
determinata interpretazione della verità degli enti, e cioè di una determinata
interpretazione del loro essere. La sostanza dell'uomo è l'esistenza. Solo che
sostanza, pensata dal punto di vista della storia dell'essere, è già la traduzione
falsante di usia, una parola che nomina la presenza di ciò che è presente e,
per un’enigmatica ambiguità, il più delle volte vuol dire nello stesso tempo ciò
che è presente medesimo. Tramite questo termine si dice di una cosa il fatto
che è là, che è presente di fronte a me, ma allo stesso tempo indica l'oggetto
stesso che è presente; indica la caratteristica comune di tutti gli oggetti che vi
sono presenti, il fatto che sono sostanza.
In "Essere e tempo", per dare la misura del fatto che questo essere nel mondo
non si risolve nel puro e semplice essere aperti, volta per volta, al singolo ente
che mi viene di fronte, Heidegger sottolinea il fatto che, il modo primario in
cui noi ci rapportiamo alle cose, in realtà non è quello di considerarle come
cose prese astrattamente e considerate quasi in maniera teoretico -
speculativa.
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Non è che semplicemente costruiamo un mondo a partire da una sommatoria
di enti, è che ogni incontro con l'ente è sempre un incontro con l'ente nel
mondo, in forma tale che nel mondo ci sono anch'io che sto incontrando l'ente.
Se noi dicessimo che, a differenza degli animali che incontrano singoli segnali,
noi incontriamo il mondo, sarebbe una ingenuità totale, nel senso che noi
incontriamo, quale che sia la cosa che incontriamo, in un mondo che non
incontriamo mai, ma che è sempre la condizione perché quella cosa si possa
incontrare e però, non incontrandolo mai, il mondo è già sempre là come quel
qualcosa in cui io sono collocato, gettato e di modo tale che a partire da
questo essere gettato nel mondo, non posso non riferirmi all'essere dell'ente
che incontro.
Io non posso riferirmi a questo libro come riferimento al libro in quanto libro;
non posso prenderlo semplicemente come un segnale, perché per noi è un
segnale inscindibile da qualcosa in cui quel segnale è depositato.
Ma come fa uno a trovare le parole per l'essere? Heidegger dice che l'essere è
sempre in cammino verso il linguaggio. Il pensiero si limita a portare al
linguaggio la parola inespressa dell'essere. L'essere, aprendosi nella radura,
viene al linguaggio. A sua volta, il pensiero e-sistente, nel suo dire, porta al
linguaggio questo adveniente.
L'essere è sempre in cammino verso il linguaggio, e il pensiero porta, questo
essere che è in cammino, a compimento del suo proprio cammino, e in questo
modo è come se tutti e due, l'essere da una parte e il pensiero dall'altra, si
portassero a vicenda nella loro propria dimensione che è il linguaggio. In tutto
questo l'espressione "portare al linguaggio" va presa alla lettera.
Ad esempio: un trend-setter è uno che nella moda e in altri settori è capace di
intuire una tendenza; egli coglie il fatto, ad esempio, che c'è una sensibilità
diffusa in direzione della minigonna, e progetta la minigonna. Il trend-setter è,
per definizione una persona che cerca di dare una forma a qualche cosa che
esiste virtualmente, una tendenza che ancora non si è espressa, e gli da
un'espressione. In questo caso uno non da espressione all'essere, ma da
espressione ad una tendenza di tipo sociale.
Che cosa può significare dare voce, non ad un fenomeno sociale inespresso,
ma addirittura ad un avvento dell'essere che è ancora inespresso?
Perché l'idea di Heidegger è che l'avvento dell'essere è sempre parzialmente
inespresso, è sempre qualcosa che ha bisogno di un'operazione di pensiero
per prendere forma nel linguaggio.
Dobbiamo porci in ascolto dell'essere. Che vuol dire? Che uno sente qualcosa
come un messaggio, a cui poi magari da voce.
Ad esempio, il gioco del telefono è un gioco che consiste nel fatto che uno,
prestando ascolto a un messaggio per lo più indistinto, confuso e
indifferenziato, lo deve restituire in una forma chiara e pulita. In larga misura
l'aspetto divertente del gioco è che c'è una componente di creatività in questo.
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In realtà l'idea di Heidegger è che, la creatività consiste nel fatto che noi,
tutto quello che diciamo nel senso lato del termine, cioè tutto quello che siamo
in grado di esprimere, è sempre, che lo si voglia o no, la maniera in cui
rispondiamo a qualche cosa come una sorta di messaggio e di chiamata che,
attraverso le articolazioni della nostra esistenza, ci arriva dall'essere stesso
nella sua storicità.
La creatività è il fatto che uno prova a dare una risposta che, in realtà, riflette
tanto meglio e tanto di più il suo elemento di creatività e di innovazione,
quanto più attento e fedele è stato l'ascolto.
Un modello come quello cartesiano ci aiuta nella maniera più chiara. Il mondo
moderno è stato fortemente segnato dall'idea che la verità delle cose si coglie
nelle scienze, innanzitutto matematizzate.
Per Cartesio tutte le verità, o pseudoverità che io posso conoscere del mondo
esterno, sono relative, sono opache perché sono rappresentazioni; sono
relative al modo in cui noi tutti le rappresentiamo, tant'è vero che se io dico
che questa cosa è rossa, un altro dice che è verde e un altro bianca, siamo in
difficoltà perché non sappiamo più a chi dar ragione.
La verità è che, però, ci siamo accorti che indipendentemente dalla mia
soggettività empirica, per cui la cosa mi può apparire verde, rossa o bianca, ci
sono delle verità che rientrano si nel campo della rappresentazione, ma che in
qualche misura sono relative alla verità trascendentale: non al mio io empirico
ma al mio io in quanto soggetto razionale. Per esempio: a me può non apparire
evidente che questo libro è verde, ma è difficile che non mi appaia evidente
che il quadrato costruito sull'ipotenusa è uguale al quadrato costruito sui
cateti. Anche al più ignorante degli uomini, se uno gli spiega bene una verità
matematica, in qualche modo la vede e la riconosce.
Ma Cartesio dice che una cosa non deve essere automaticamente vera
soltanto perché appare evidente a tutti gli uomini.
Magari sbagliamo tutti. Alla fine per Cartesio la certezza assoluta è quella del
"ego cogito", cioè anche nel più assoluto dei dubbi del fatto che io penso non
posso dubitare. Essendo tutti gli enti oggetti della rappresentazione di me in
quanto soggetto rappresentante, l'unica cosa di cui veramente non posso
dubitare è il fatto che io sono un soggetto rappresentante, e il fatto che io mi
rappresento queste rappresentazioni.
Cartesio arriverà a convincersi, e a convincere anche gli altri, della certezza
delle rappresentazioni matematiche, proprio perché questa certezza è come
una certezza di secondo grado rispetto alla certezza dell'ego cogito, e così via
per tutto il resto del mondo. Da adesso in poi la verità dell'ente si qualifica
come certezza della rappresentazione; la ragione per cui noi ci affidiamo
volentieri ai calcoli dell'ingegnere che ci dice che questa cosa non cade, e non
ci affidiamo volentieri agli artifici dello stregone è perché, nel primo caso, la
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certezza che l'ingegnere ha non è una certezza soggettiva ed empirica ma si
fonda nella certezza, in quanto certezza della rappresentazione matematica
del calcolo ingegneristico, della soggettività pensante in quanto tale.
Questa è la nascita della scienza moderna.
Se noi procediamo per questa via, arriviamo facilmente ad una posizione come
quella, per esempio, di Nietzsche o in altri termini anche quella di Marx, in cui
addirittura si dice che la verità dell'ente in generale in ultima analisi va fatta
risalire a quello che l'uomo è in grado di mettere in campo, non tanto in
quanto rappresentazione, ma in quanto prassi, in quanto lavoro.
Per Nietzsche addirittura i massimi valori, quelli cristiani, quelli mussulmani,
sono in realtà il frutto di un'attività umana, di un certo processo culturale nel
quale si è attribuito particolare valore ad alcune cose. In qualche modo
Nietzsche è d'accordo con Sartre, e tutti e due sono d'accordo con Chomsky,
sul fatto che la chiave della verità dell'ente in generale sta nell'attività
creatrice dell'uomo. Questo umanismo è quello che ritiene che la massima
dignità dell'uomo sta nel fatto di riconoscere l'uomo signore dell'ente in
generale, padrone dell'ente in generale. Per Heidegger questa posizione è
inadeguata, è un tradimento dell'essenza dell'uomo.
Lui dice: voi credete che le opere di Nietzsche, Marx, di Sartre, siano il frutto
della loro creatività, ma non è vero. In realtà persino questi stessi autori
hanno realizzato queste cose perché hanno ascoltato una "vocazione"; e
"vocazione" va intesa nel senso letterale come il fatto che c'è qualcuno che ti
chiama.
Se voi leggete la biografia di Nietzsche, in qualche misura voi vedete che la
sua esperienza di pensiero è stata tutta rivolta, tutta tesa al tentativo di
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trovare le parole giuste per portare al linguaggio e per rendere, quindi,
conoscibile e pensabile quello che lui intuiva che era il tratto dominante della
sua epoca storica, il messaggio implicito, inscritto nel mondo nel quale lui era
collocato. Si potrebbe dire che se noi ricostruiamo l'esperienza di vita di
qualsiasi grande pensatore o grande scienziato, ci rendiamo conto del fatto
che questi poi, in realtà, non è vero che inventano, creano, manipolano ma
reagiscono al mondo nel quale sono collocati come se il mondo, in qualche
modo, fosse un rebus.
L'attitudine di chi risolve un rebus è quella di intuire che in quelli che
sembrano accostamenti casuali c'è una sorta di segreto nascosto; come se
attraverso quegli oggetti, attraverso quelle lettere, parlasse qualcuno che mi
sta mandando un messaggio.
GETTATEZZA
La condizione perché una crisi di questo genere trovi risposta è che di ritrovi
il fatto che, propriamente parlando e fin dal primo momento, l'uomo è legato,
è consegnato non a questo o a quell'ente, non a questa o a quella patria, ma a
quell'orizzonte che è aperto dall'essere stesso.
Non è che sul piano in cui l'uomo è collocato ci sia qualcos'altro di più
importante, me è il piano come tale, il fatto stesso di essere che per noi deve
implicare una sorta di ascolto, di attenzione, di vocazione.
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Per Heidegger questa risposta è insufficiente, ed è insufficiente perché il
problema, pur essendo stato avvertito e percepito, viene poi pensato in una
maniera inadeguata.
E-STATICO
STORICITA'
Il modo in cui, nella storia della filosofia, è stato trattato o non trattato il
problema dell'essere.
A parte Parmenide, il primo pensatore per eccellenza, vengono chiamati in
causa Hegel, Nietzsche e Marx.
Inoltre la questione della storicità riguarda il rapporto tra Essere e Esserci in
funzione del rapporto tra spaesamento e essere a casa.
Iniziamo con Hegel. Il problema, per Heidegger, in Hegel è che lui pensa un
sistema e una storia, e che questo sistema realizzi progressivamente tutte le
sue potenzialità nella storia. La storicità per Heidegger non deve essere
pensata nei termini di un miglioramento progressivo, ma deve essere pensata
nei termini di un'intensificazione della domanda.
La cattiva storicità è quella di un pensiero che progressivamente raggiunge
la sua verità dal punto di vista quantitativo.
È come se Parmenide fosse nella verità al 10%, Cartesio al 50%, Rousseau al
70% e Hegel a 100%. Ad un certo punto arriveremmo ad impadronirci
completamente della verità della storia -> per Heidegger non è questo il modo
in cui bisogna pensare la storicità dell'esserci. La storicità è in diretta
relazione con la memoria, con la capacità di ricordarsi sempre più
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intensamente quale è stato, quale era il rapporto dell'esserci con l'essere, e in
modo tale da farlo avvenire nel seguito della storia.
Mentre la storia della filosofia, la metafisica, pensa la storia come se fosse un
avvicinamento progressivo alla verità (sotto il segno della quantità), per
Heidegger la storia è sotto il segno della qualità, nel senso che bisogna
rimanere sul posto della domanda per cercare di formularla in maniera
sempre migliore.
Da questo punto di vista Hegel si sbaglia, e con lui anche Nietzsche, perché
rimangono sempre all'interno dell'orizzonte della metafisica: Hegel ne
rappresenta il compimento in quanto sistema, Nietzsche ne rappresenta il
compimento nella misura in cui cerca di rovesciare la questione della
metafisica, ma non fa altro che riprendere in termini opposti la stessa
questione di Hegel.
Hegel, Nietzsche e Marx sono altrettanti esempi di quello che, secondo
Heidegger, non si deve fare. C'è però una sostanziale differenza fra questi 3
filosof i perché Marx, a differenza di quanto fanno gli altri due, fa qualcosa di
meglio.
L'aspetto positivo del marxismo sta nel fatto che Marx, a modo suo, al
concetto fondamentale della spaesatezza, mettendola sotto la categoria
dell'alienazione.
In negativo, però, l'ente appare per la prima volta come materiale da lavoro,
materiale destinato essenzialmente ad essere lavorato. In questo modo ci
aiuta a svelare l'essenza della tecnica. L'elemento storicamente opposto al
comunismo è l'americanismo. Nel comunismo, come nell'americanismo, la
vera questione cruciale è la metafisica, cioè l'interpretazione dell'ente in
generale che è implicito nell'uno e nell'altro. Nel comunismo l'ente in generale
è concepito come materia da lavoro, che è l'effettivo precipitato della storia
occidentale. Anche nell'americanismo l'ente in generale è pensato a partire
dalla produttività del lavoro. La spaesatezza è chiaramente una cosa che fa
parte di questo.
L'esistenza americana, di chi per esempio dalla costa est si trasferisce nella
costa ovest per un lavoro migliore, questa specie di nomadismo, è una forma
di spaesatezza nel senso che l'uomo è precipitato in un universo in cui tutto
quello che conta è produrre sempre di più.
SACRO /ETICA
In questo caso è come se Eraclito gli volesse dire che il pensiero non consiste
nel fuoriuscire dall'ordinario verso l'eccezionale, ma nell'abitare a tal punto
nelle proprie abitudini da esperire la propria abitualità come quello spazio nel
quale, e a partire dal quale, qualcosa di eccezionale, sovrannaturale,
eventualmente si può manifestare. Questo è il nodo della cosa. Si potrebbe
dire che alla fine si tratta di imparare ad abitare in quella dimensione abituale
nella quale siamo consegnati in quanto esseri umani; ed è in vista di questo
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che ad un certo punto cita Holderlin, che dice: "poeticamente abita l'uomo su
questa terra".
Mai come in quell'epoca molti di quelli che venivano da una posizione più
marcatamente vicina alla tradizione religiosa tendevano a dire che, la chiave
della crisi della cultura europea sta nel fatto che si è allontanata dalla
religione, ha accantonato il problema di Dio. Nell'epoca medioevale la
questione della salvezza dell'anima era considerata il primo degli obiettivi,
non solo dei singoli, ma anche un po' di tutta l'organizzazione. Questo nel
mondo moderno non esiste più; c'è stato un processo si secolarizzazione in cui
i valori religiosi si sono andati via via guadagnando una propria esistenza
autonoma. Il problema di Heidegger è dimostrare che, è vero che nella sua
posizione filosofica la questione di Dio si e di Dio no non viene nemmeno
posta, ne in generale può essere posta perché il livello di analisi primario nel
quale lui si muove è tale che questo non avrebbe nemmeno senso; però lui
vuole dimostrare che questa cosa non è un modo di sottrarsi al problema, ma
al contrario è un modo di cominciare a delucidare l'unico fondamento
speculativo sul quale, e a partire dal quale, la questione di Dio, del divino, e
del senso del divino può, in generale, essere posto in maniera plausibile.
Questa dimensione lui la definisce con questo concetto del "sacro" perché,
intanto, sotto il profilo squisitamente antropologico, oggi, qualsiasi teorico
della religione sa che il problema del sacro è preliminare a quello del divino,
nel senso che in tutte le culture esistenti sussiste qualcosa come una
distinzione tra il sacro e il profano, e sussiste qualcosa come un insieme di
pratiche rituali che hanno a che fare con questa distinzione. Questa
distinzione c'è anche in culture in cui non esiste Dio. Per religione si intende
una questione che ha a che fare, in linea di principio, con la distinzione tra
sacro e profano, non con gli dei. L'idea del Dio creatore è una cosa che nasce
nel medio oriente, 5000 anni fa. La questione del sacro è una cosa complessa
e particolare, perché è un fenomeno antropologicamente universale, cioè
esiste in tutte le culture umane, ed è contemporaneamente una cosa che
esiste solo nelle culture umane; è come il linguaggio. Sono quelle cose che fa
solo l'uomo e le fa sempre.
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Che nesso abbia la dimensione del sacro, e cioè la percezione che il nostro
essere aperti al mondo è, contemporaneamente è sempre, anche il nostro
essere aperti a qualcosa che va al di là, è difficile da capire.
Quindi, prima di qualsiasi discussione sul fatto se Dio esiste o non esiste, ci si
deve chiedere perché gli esseri umani non possono non riferirsi al sacro.
NIENTE /NIENTIFICARE
Il modo in cui emerge questa tematica della negatività è legata alla questione
dell'etica, nel senso che il problema di fondo dell'etica è quello che, nel
rapporto con l'ente gli esseri umani sono portati a dire di si a qualcosa e di no
a qualcos'altro. Si dice sempre che l'etica e la morale hanno a che fare con il
bene e con il male; ora, bene e male significa si a questo, no a quest'altro.
Quando si parla di un impegno etico si intende dire: io non accetto tutto quello
che c'è semplicemente perché c'è, perché qualcosa di ciò che c'è è bene che ci
sia e quindi a qualcosa dico di si e a qualcos'altro dico di no. Questa necessità
di scegliere era considerato inerente a quella fatidica libertà dell'umanismo
sartriano.
Già all'epoca veniva criticato per il fatto che si diceva: "in fondo Heidegger
dice che l'uomo deve tenersi in ascolto dell'essere, deve corrispondere
all'essere, deve accettare tutto quello che l'essere gli impone, il che significa
che l'uomo non è in diritto di dire di no a niente." Lui si sforza di dimostrare
che, è vero che c'è il bene e che c'è il male, è vero, cioè, che ogni mondo nel
quale noi siamo gettati comporta, in questa nostra appartenenza al mondo,
l'inevitabilità del dire si e del dire no, ma non perché il nostro dire si e dire no
sia l'elemento fondamentale e fondante di questa complessità, ma perché una
complessità che è inerente alla costituzione del mondo come tale, e quindi, in
ultima analisi, all'essere come tale comporta questo tipo di articolazione.
CONCLUSIONE
Che si intende qui per etica possibile? Per etica possibile si intende la
possibilità di avere delle direzioni vincolanti per l'agire, per la prassi; quindi di
rispondere in qualche misura a quella che veniva considerata la domanda
etica per eccellenza, e cioè "Che cosa è giusto fare?". Quindi lo scopo di tutta
la lettera è, sulla base dell'interpretazione dell'essere dell'uomo, quindi sulla
base dell'ontologia, cercare di poter individuare delle linee orientative per
l'agire e per la prassi. Quindi un'etica possibile.
Quanto si dice "un'etica possibile", anche se non si parla esplicitamente di
politica, si intende delle direzioni vincolanti per l'agire adeguate a far fronte
alla crisi storica nella quale ci si trova.
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"quando faremo un’etica?", un’etica esistenzialista, perché sembra implicito
che l'ontologia debba costituire il fondamento per l'etica.
Se le cose stanno così, se questo è l'uomo, se questa è l'esistenza autentica e
quest'altra invece è un'esistenza inautentica, allora dovremmo fare così: ci si
aspetta delle indicazioni pratiche.
La posizione di Heidegger sarà, ovviamente, quella di prendere le distanze.
Sembra ovvio che questo debba essere il rapporto fra ontologia ed etica, che
quindi ontologia ed etica sono due cose distinte e separate e che tra queste
due cose, essendo l'etica la cosa decisiva, l'ontologia è il fondamento di quella
cosa lì.
Per Heidegger un pensiero come quello originario, come quello arcaico, nel
quale non veniva proprio concepita l'idea che ci fosse un'ontologia, un'etica,
ma c'era soltanto il pensiero come tale, i pensatori riuscivano a cogliere il
senso dell'eticità e dell'ethos in una maniera enormemente più incisiva e con
una facilità, una semplicità e una nettezza che poi dopo non è più stata
raggiunta. Se noi non riusciamo a fare questo passo, se non riusciamo a
ritornare in una prossimità al pensiero come quella degli arcaici antichi, non
concluderemo niente.
Per Heidegger, invece, noi dobbiamo leggere il testo in una maniera più
autentica e più profonda. Per dare un’idea di questo piano più radicale, evoca
l'aneddoto di Eraclito, che ai visitatori dice "Anche qui sono presenti gli dei".
Quello che Eraclito vuole sottolineare è l'importanza di questo tessuto di
esistenza abituale, cioè talmente naturale per noi, che diamo per scontato, per
assodato, che quasi non ci accorgiamo della sua presenza; ragion per cui le
condizioni abituali di esistenza, le forme abituali della nostra esistenza nel
mondo, sono in genere delle cose dalle quali tendiamo a prescindere, come se
fossero irrilevanti. L'idea di Heidegger è che, invece, Eraclito con questo
gesto abbia quasi voluto sottolineare il fatto che, al contrario, la dimensione
del soggiorno abituale nel quale noi siamo collocati, nel quale noi siamo
gettati nel mondo, è una cosa decisiva, fondamentale perché, proprio in
questa dimensione dell'abituale dalla quale si prende le distanze per
rivolgersi a qualche cosa di più eccezionale, di superiore alla media, è
l'unica nella quale qualcosa di straordinario, di divino, di unico, di
trascendente può eventualmente manifestarsi se noi ci collochiamo in
essa nella maniera adeguata.
Questo soggiorno abituale, secondo Heidegger, è quello che è espresso nel
termine ethos.
Il pensiero, in fondo, pensando la condizione nella quale noi siamo inscritti e
collocati, si sforza di rendere possibile l'abitare in questa dimensione.
Questo è qualcosa che avviene innanzitutto nel linguaggio, perché attraverso
e nelle articolazioni del linguaggio che si organizza il senso e il significato di
ciascuna cosa.
Tant'è vero che, a conferma di questo proprio Holderlin che prima di chiunque
altro aveva percepito la minaccia dello spaesamento e della non-abitabilità del
mondo moderno, scrive (pag. 96): "Pieno di merito, ma poeticamente abita
l'uomo su questa terra."
L'idea di Heidegger è che in questa frase Holderlin faccia quasi qualcosa di
simile a quello che fa Eraclito: riesce in un lampo a cogliere la chiave di quello
che è qui in questione. Cioè, "pieno di merito" perché l'uomo costruisce il
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proprio ambiente in mille forme, però è poeticamente che l'uomo abita su
questa terra.
L'idea di Heidegger e di Holderlin è che al pensiero e alla poesia competa,
prima e più che a chiunque altro, il compito di rovesciare questa inabitabilità,
sforzandosi di pensare l'abitualità del mondo, cioè di renderci capaci di
percepire tutte le articolazioni, tutta la complessità del mondo nel quale siamo
collocati e iscritti.
Se noi riusciamo a pensare e concepire tutte le articolazioni del mondo nel
quale siamo collocati, ne capiamo anche le sfaccettature nel senso del positivo
e del negativo.
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