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Lettera sull'umanismo, Martin

Heidegger
Etica
Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano
34 pag.
HEIDEGGER – LETTERA SULL’UMANISMO

INTRODUZIONE

Gran parte del lavoro filosofico consiste nel tentativo di vedere le cose in
maniera diversa, quelle che noi vediamo normalmente in maniera opaca,
chiusa, e questa è una cosa che costa fatica. È sempre stato difficile, e lo è
diventato in modo particolare in quest'epoca perché, a partire grosso modo
dagli anni ’20-‘30 del secolo scorso (cioè dal ‘900 in poi) si va affermando un
modo di concepire l'esistenza umana (innanzitutto come esistenza sociale,
produttiva ecc.) in cui l'elemento dominante è l'ottimizzazione tecnica; vale
a dire la tendenza a far sì che la propria azione, la propria prassi sia
immediatamente finalizzata ad un obiettivo esibibile, socialmente
riconoscibile.
La società italiana, almeno negli anni ‘20-‘30, è uno dei tanti esempi (insieme
con altre società occidentali) in cui tutto è scandito dai ritmi
dell'ottimizzazione.

Il primo modello di questa cosa è stato la catena di montaggio nelle grandi


fabbriche dove gli operai si trovavano in una condizione che allora era definita
di "alienazione", nel senso che erano costretti, anziché a lasciare libero il
corso delle loro potenzialità, cioè lasciarle libere verso 10, 100 scopi e finalità,
erano obbligati a indirizzarlo verso un'unica finalità.
Questo modello è il più antifilosofico possibile: costringe le energie, le
capacità, le potenzialità umane in una direzione che è completamente
dominata dall'immediata finalità.
Questa cosa non è mai finita: anche le attività intellettuali sono sempre più
inserite in una griglia di necessità ottimizzata.
Di conseguenza c'è sempre stata una difficoltà a mettersi su un tragitto
diverso, a disporsi in un'attitudine filosofica in cui il pensiero è lasciato da un
lato libero di andare dove vuole, e dall'altro orientato non verso un problema
che richiede un'immediata risposta, ma, anzi, si potrebbe dire verso una
problematizzazione.
L'attività filosofica consiste, in genere, non tanto nel rispondere a dei problemi
quanto piuttosto nel trovare dei problemi dove a prima vista non ce ne sono.
Questa cosa serve a capire quanto l'universo delle cose con le quali abbiamo a
che fare è più complesso, più sofisticato di quanto appare a prima vista.
Dobbiamo imparare a domandare, imparare a cogliere i problemi.

Il testo di Heidegger è stato scritto nel 1946, dopo la seconda guerra


mondiale, quando la Germania era ridotta ad un cumulo di macerie. Il suo
testo funge ancora adesso come punto di riferimento per la discussione sul
destino sull'uomo e sull'umano nell'epoca contemporanea.
Nell'epoca contemporanea si è posto un interrogativo sul destino dell'uomo e
dell'umano: si è cominciato a riflettere sull'eventualità, sulla possibilità, che il
mondo contemporaneo stia andando in una direzione post-umana, anti-umana.
È come se questa nostra epoca non avesse tanto una sua identità, ma come se
vivesse del tramonto, dell'esaurimento delle identità che l'hanno preceduta. Di
recente questa idea si è ampliata e si è allargata addirittura alla questione
dell'umano. Si è cominciato a diffondere, cioè, l'idea che l'uomo è antiquato.
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"La lettera sull'umanismo" è una lettera nella quale risponde ad un
intellettuale francese, che gli aveva chiesto, tra l'altro, come restituire un
signiftcato alla parola umanismo.
Lui, in questa lettera, si chiede se l'epoca contemporanea consenta ancora
un’operazione del genere; se abbia ancora senso porsi il problema di restituire
significato all'umanismo e all'uomo. Quindi, in certo senso, Heidegger è stato
il primo ad aver innescato in maniera eclatante una meditazione seria sul fatto
che forse siamo arrivati in un’epoca in cui l'uomo è antiquato.

Cos'è che minaccia di rendere antiquato l'uomo? La tecnica.


Heidegger si è convinto del fatto che l'evoluzione tecnica nel mondo
contemporaneo non è solo un episodio marginale della storia: si pensava che il
progresso tecnologico risolvesse tutti i problemi, comprese le guerre, invece
con la tecnica le guerre sono diventate più dure. Non morivano più i soldati
sui campi di battaglia ma i civili. Il terrorismo è l'evoluzione tecnica della
guerra.

Paradossalmente si è cominciato a sentire che lo sviluppo sociale, al quale


nessuno più riusciva a mettere freno, rischiasse di rendere antiquato tutto ciò
che permette la libera estrinsecazione delle potenzialità umane (ragione,
intelligenza, moralità). Cioè ciò che rappresenta la caratteristica, il modo
d'essere, il livello più alto e più nobile dell'umanità dell'uomo risulta appunto
obsoleto, lo si toglie di mezzo.
Prima si diceva: può darsi che andiamo verso una società in cui sarà obsoleto
il lavoro e tutti potranno liberamente pensare e comunicare; si potrebbe dire
invece: e se andiamo verso una società in cui ci sarà consentito solo lavorare
come bestie, mentre il pensare liberamente, lo scambiarsi pensieri diventerà
una cosa che non interessa più a nessuno e che praticamente non si può fare
più?
È come se gli esseri umani esistessero in una condizione che propriamente
non è più paragonabile alla condizione umana vera e propria.

Abbiamo detto che la domanda che Beaufret fa ad Heidegger è: "Come ridare


signiftcato al termine umanismo?".
Umanismo significa l'idea che nell'umanità dell'uomo è implicito qualche
cosa che va al di là dello statuto naturale della condizione dell'uomo in quanto
vivente.
Noi non siamo nati per vivere come bestie, cioè avere di mira esclusivamente
la cura, la tutela della nostra sopravvivenza (benessere), ma invece siamo stati
fatti per fare una cosa diversa che va al di là, qualcosa in più; l'uomo non è
solo natura ma anche più che natura, sovranatura; che l'uomo non è solo la
sua propria dimensione fisica ma anche qualcosa di più della fisica, cioè
metafisica.

Perché Beaufret pone questa domanda ad Heidegger? Perché loro si trovano


nel ‘46, dopo una guerra mondiale, in una situazione in cui da un lato gran
parte della politica, della cultura, della società è orientata al miglioramento
dei livelli di benessere; dall'altro lato le due guerre avevano fatto venire il

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forte sospetto che tutto questo discorso sul fatto che nell'uomo ci sarebbe
questa spiritualità fossero tutte illusioni.

Mai come in quegli anni si cominciò a dire: ma se fosse che l'uomo non solo
non è vero che è più che una bestia ma addirittura meno di una bestia? Se
fosse che i requisiti che distinguono gli esseri umanidalle altre specie fossero
un difetto invece che un pregio? Tutto sommato gli altri animali le bombe
atomiche non le hanno.

Heidegger risponde alla domanda di Beaufret: lei mi chiede come restituire


significato a questa parola umanismo, ma siamo sicuri che vale la pena
restituirgli valore? Che non c'è già uno sbaglio in questa impostazione? Che
questa idea che nell'uomo ci debba essere, al di là del vivente anche una cosa
che va sopra il vivente, non abbia già in sè un vizio di fondo?
Tutto il testo di Heidegger sarà il tentativo di farci capire che anche se le
forme di questa impostazione metafisica circa il problema dell'uomo sono
state tante, questo modo di impostare l'uomo è viziato alla base e che,
anche se quelli che fanno questo discorso lo fanno perché vogliono arginare il
dominio della tecnica, perché vogliono contrapporre al dominio della tecnica
l'importanza dei valori, della cultura, in realtà lui si è convinto che questa
impostazione è destinata a far vincere la tecnica.

Inoltre, secondo lui, si può, sia pure con molto sforzo, reimpostare questo
problema dell'uomo in una maniera diversa, più autentica e più profonda.

Che differenza c'è tra uomo e umano?


Con il termine "umano" intendiamo le caratteristiche specie-specifiche
dell'uomo; quelle caratteristiche che definiscono la nostra specie. L'essenza
dell'umano deve essere qualche cosa che non solo è specifico dell'umano ma
che fa si che gli esseri umani siano quella cosa lì piuttosto che un'altra.
Uno dei requisiti degli esseri umani è che quello che li differenzia, quello che
gli è proprio, è qualcosa di potenziale: le scimmie nascono già con i requisiti
che le fanno scimmie, invece tutti noi abbiamo questa idea che in un certo
senso esseri umani si diventa, che he gli esseri umani hanno bisogno di essere
formati, nel senso che le potenzialità propriamente umane hanno bisogno
della formazione e a secondo di come questa formazione viene sviluppata,
germogliano, danno frutto o meno -> questa è un’impostazione metafisica ed è
un'impostazione sbagliata per Heidegger.
Lui è dell'idea che c'è una diversità, una speciftcità già nell'essere
stesso; non è che l'uomo è ne più e ne meno delle pietre, è vivente ne più ne
meno degli altri animali. Lui ci vuole trasmettere l'apertura all'essere.

C'è proprio un errore di fondo nell'idea che essere significhi essere


semplicemente presenti: siamo arrivati a pensare che tutte le cose sono
semplicemente presenti, sono enti, e tutti allo stesso modo, nello stesso grado,
nella stessa forma per cui il fatto che ci siano non ha nessun significato.
Questo è sbagliato: in ognuno di questi enti il modo d'essere, che cosa
significhi essere è una cosa diversa. L'animale non è che è come la pietra
perché il vivere fa si che già questa cosa di essere è una cosa diversa: non è
che l'uomo è come la pietra, come l'animale e poi però ha in più il fatto che
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pensa e ragiona. Il fatto che l'uomo pensi e ragioni fa sì che da principio il suo
ente sia qualcosa di diverso.

Quello che non va nell'impostazione metafisica secondo Heidegger è l'idea che


concepisce l'uomo un ente che poi in più ha un'altra cosa, perchè nell'idea di
Heidegger noi dobbiamo fin da principio riflettere sul senso dell'essere che è
proprio dell'uomo e concepirlo già con tutta quella ricchezza e diversità.

Distinzione tra essere ed ente: al livello elementare le cose che esistono nel
senso più lato possibile (io, l'orologio, il tavolo) hanno in comune che sono: in
questo senso sono enti. Per lui questa cosa è completamente sbagliata. A tale
proposito, in un libro, Heidegger commenta queste tre frasi:
• la pietra è priva di mondo -> all'essere della pietra, proprio perché è
una pietra, ogni riferimento al mondo è negato per definizione; sta là
• l'animale è povero di mondo -> quando diciamo che l'animale è povero
di mondo intendiamo dire che l'animale è aperto al mondo, interagisce
con il mondo ma in una forma tale che poi non può mai cogliere il mondo
come tale, perché è aperta al mondo in una forma istintuale
• l'uomo è formatore di mondo -> quando diciamo che l'uomo è formatore
di mondo, intendiamo dire che l'uomo non sta semplicemente in un
mondo e se lo guarda. Il mondo dell'uomo è quel mondo, prodotto dalla
storia, dalla cultura, che non ci sarebbe se non ci fossero stati gli
uomini.
Heidegger aveva l'esigenza di distinguere la sua impostazione filosofica da
quella di diversi autori che in quell'epoca venivano facilmente accomunati a
lui, come Jasper e Sartre.
Nel 900 nasce la cultura di massa; la massa era composte di persone che
lavoravano, non erano inurbate perché stavano in campagna e in genere non
sapevano nè leggere nè scrivere. In questo periodo la cultura filosofica era
rigidamente separata dalla cultura di massa. Sartre è stato uno dei primi ad
andare incontro alla cultura di massa. Prima di tutto ha scritto dei romanzi
che hanno avuto una vastissima circolazione e anche testi di alcune canzoni.
Sartre era considerato insieme ad Heidegger il protagonista di una corrente
filosofica che allora fu definita esistenzialismo.

Sartre aveva da pochissimo fatto una conferenza di cui si parlò molto e che si
chiamava "L'esistenzialismo e l'umanismo".
Teniamo conto che siamo in uno scenario in cui la cultura europea ha subito
uno shock violentissimo: quello delle due guerre mondiali. Heidegger scrive
questa lettera nel 1946, in una Germania ancora occupata dalle truppe
alleate, quindi ancora piena non solo delle macerie materiali ma anche
ideologiche, culturali nel senso che l'intera cultura europea oltre ad essere
sostanzialmente sconfitta dalla guerra, si trovava anche accusata, nel senso
che molti dei peggiori crimini della guerra, in particolare i campi di sterminio,
quando vennero alla luce l'intera cultura europea si ritrovò sbriciolata dagli
eventi accaduti.

Il termine "umanismo" è in qualche modo la parola chiave della cultura


europea, perché tutta la cultura europea è come imperniata intorno a questa
fondamentale idea che la natura stessa dell'uomo è tale che gli esseri umani
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non sono propriamente umani per natura ma lo devono diventare attraverso la
formazione.
Un cane se nasce con quel determinato dna è un cane, una scimmia se nasce
con quel determinato dna è una scimmia, un uomo può nascere con quel
determinato dna e questo lo mette solo in condizione di poter essere uomo, ma
non è detto che lo sia. Per questa cosa è richiesta l'incorporazione dei valori.
Uno dei problemi, quindi, che la cultura europea si trovava ad affrontare era:
"è possibile restituire significato e forza a questa idea che l'umanità dell'uomo
è un compito?". Questa è la tradizione, infondo, dell'umanismo europeo.
E' come se la cultura europea, che in quel periodo cercava di riprendersi dallo
shock, dovesse affrontare questo problema: "è ancora possibile impostare la
nostra idea dell'etica (quindi innanzitutto di che cosa fare a livello
individuale), e anche al nostra idea di politica (che cosa fare a livello
collettivo) intorno all'idea che il primo compito debba essere quello di tutelare
l'umanità dell'uomo? O invece questo genere di impostazione porta
inesorabilmente a tracciare un confine tra chi è veramente uomo e chi non lo
è, tra chi è pienamente uomo e chi non lo è, e ci mette quindi sulla strada del
crimine politico? (nazisti)"

Sartre era uno che non correva questo rischio. Essendo stato sempre un
uomo di sinistra, un uomo democratico, addirittura un simbolo
dell'intellettualità democratica, risolse a modo suo il problema con questa idea
di pensare un umanismo radicato in questo concetto esistenziale. Vale a dire:
l'umanità dell'uomo è qualcosa che va custodito, che va tutelato non perché
nell'uomo ci sia una ricchezza speciale ma proprio perché l'umanità dell'uomo
è esposta alla timidezza, al dolore, alla miseria, alla negatività. L'umanità
dell'uomo è qualcosa di fragile, è radicata proprio nel suo non avere radici, ha
come identità quella di non avere identità, ha come destino quello di non
avere alcun destino.

Tutto questo fu il tema della conferenza di Sartre e il motivo per cui ebbe
tanto successo perché era come se lui avesse offerto una prospettiva a una
cultura europea che altrimenti si vedeva con l'acqua alla gola.
La conferenza di Sartre accese per un attimo la scintilla, o l'illusione, che
invece la cultura europea avesse ancora una missione da compiere: quella di
restituire l'umanismo a questo terreno democratico e viceversa di convertire
la democrazia di massa a un’idea di umanismo a cui fino a quel momento non
si era arrivati.
Questa cosa accese tutta una serie di dibattiti, e a un certo punto fu chiamato,
in maniera indiretta e complessa, ad intervenire Heidegger il quale aveva una
posizione molto diversa da quella di Sartre perché, appunto, lui a suo tempo
era stato invece coinvolto con le ideologie totalitarie e fu accusato a torto o a
ragione di essere stato d'accordo con le tesi del nazismo, almeno in un primo
momento. Per questo era stato un po' messo al bando, additato. Questo gli
servi per tornare alla luce e professare quello in cui credeva.

AGIRE AUTENTICO/INAUTENTICO

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Heidegger inizia il libro parlando dell'agire, anche se la domanda posta da
Beaufret riguarda l'umanismo, perché l'agire fa riferimento all'essere
dell'uomo.

Noi intuitivamente tendiamo a legare il concetto di agire all'uomo: anche


linguisticamente quando si parla di animali non si parla di agire ma di
comportamento.
Per Heidegger la differenza tra quello che fa l'uomo nel momento in cui agisce
e quello che fa un leone nel momento in cui attua un comportamento, è molto
più radicale profonda: anche se a prima vista può sembrare che facciano la
stessa cosa solo che l'uomo ha qualcosa in più perché lo fa razionalmente, per
Heidegger stanno facendo due cose completamente diverse perché il modo
d'essere del leone e dell'uomo è totalmente differente. Se Heidegger fosse
interrogato e dovesse dire in pochissime parole qual è la differenza tra un
comportamento animale e un’azione umana, lui direbbe che l'azione umana,
che sia razionale o meno, presuppone comunque un apertura all'essere.
Heidegger dice che ci sono due modi di concepire e vivere l'agire: una
modalità autentica e una inautentica.

Tenete conto che in quell'epoca la domanda che è stata rivolta ad Heidegger è


una domanda che ha a che fare con l'agire. Che cosa devono fare oggi, in
un Europa distrutta dalle macerie della guerra, gli intellettuali europei?
C'è un’urgenza pratica in questo interrogativo. Tant'è vero che ricorre in
questo passaggio il concetto di impegno: gli intellettuali, i filosof i non devono
starsene asserragliati sulle loro torri d'avorio a dissertare sui massimi sistemi,
ma si devono impegnare sulla vita pratica.
È come se lui mettesse le mani avanti e iniziasse a dire: innanzitutto se
pensiamo che l'agire consista nel fare una cosa e nel fare una cosa utile, ci
siamo già messi sulla strada sbagliata.
Quindi la modalità inautentica dell'agire consiste nell'idea che l'agire
significa produrre effetti utili, pratici, nell'acquisire maggior dominio nell'ente
in generale. Il dominio dell'ente significa far sì che l'ente possa essere
manipolato, utilizzato, in maniera più ampia: che si allarga il campo delle
possibilità.
Nella modalità inautentica il pensiero è interpretato, quindi, dal punto di
vista tecnico, subalterno all'operare.
Per Heidegger invece la modalità autentica dell'agire è il portare a
compimento, estrarre dalle cose la propria essenza. L'idea di agire che
ha in mente Heidegger è un po' legata all'idea che tu non inventi niente.
L'agire è tanto più profondo quanto più è consapevole del fatto che quello che
fa non è creare ex novo una cosa ma aiutare qualcosa che c'è già, a crescere,
a manifestarsi. Se noi non capiamo che cosa propriamente è quella cosa che ci
sta di fronte, non capiamo nemmeno quali potenzialità sono quelle di cui ci
dobbiamo prendere cura.
L'agire più alto di tutti è quello in cui non mi occupo di questo o di
quell'ente, ma dell'essere stesso.

Il pensiero è il momento culminante e fondamentale dell'agire autentico,


perché porta a compimento (a maturazione) il rapporto tra l'uomo e l'essere. Il

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pensiero è la forma più alta dell'agire in quanto pensa e in quanto pensiero,
non perché è messo al servizio di una prassi e di un agire.
La forma più alta del pensiero è quella in cui si trovano le parole per dire
l'unità tra l'essenza dell'uomo e l'essere: cioè non tanto inventare parole
nuove, ma riuscire a consegnare alle parole questa potenza e questa forza.

Questo avviene portando l'essere al linguaggio. Questa cosa la fanno in


maniera eminente solo i pensatori e i poeti.
Pensiero e poesia sono le forme nelle quali noi riusciamo a portare l'essenza
dell'uomo a contatto con l'essere stesso in modo tale che l'incontro, il rapporto
arriva al linguaggio.
Il linguaggio è la casa dell'essere e in esso abita l'uomo.
Il linguaggio ha una natura ambivalente nel senso che contemporaneamente
dirada e vela; il linguaggio ha la caratteristica di ri-velare nel duplice senso
della parola: cioè di svelare ma anche di velare di nuovo.

Come si è passati dall'agire nella maniera autentica a quella inautentica ? Lui


dice che quando ad un certo punto il pensiero smarrisce il suo elemento,
perde il rapporto con quella che è la sua modalità più propria, supplisce a
questa perdita presentandosi nella figura della tecnica; come una tecnica
della spiegazione, una tecnica dell'argomentazione. Nella modalità
inautentica dell'agire, il linguaggio diventa lo strumento di mediazione per
favorire la massima comunicazione, da intendersi nel senso di andare verso la
più alta accessibilità di tutto a tutti: il vero soggetto dell'agire non è il sè dei
singoli ma il “si” (si deve fare, si deve comprare...). Per Heidegger questa tesi
è il prototipo del dominio della dimensione pubblica. Per cui anche quello che
diciamo non lo diciamo tanto perché lo pensiamo ma perché si dice così.
Qui il linguaggio viene strumentalizzato, viene dominato dalla logica e dalla
grammatica.

ESSERE E TEMPO

"Essere e tempo" era stato scritto una decina di anni prima ed era il libro a cui
era dovuta la fama di Heidegger; anche Beaufret comunica con lui sulla base
di quel libro.
"Essere e tempo" è considerato uno dei più importanti libri di filosofia del XX
secolo, ed ebbe all'epoca un'enorme risonanza.
L'idea di Heidegger era quella che, contrariamente a quello che la filosofia
aveva fatto nell'epoca tradizionale, per porre gli interrogativi filosofici basilari
bisogna partire dalle forme concrete di esistenza nella media quotidianità,
cioè la vita quotidiana così come si presenta nella sua forma media, quindi la
più comune.
Questa è una cosa di cui la filosofia non si era mai occupata; per definizione la
filosofia si occupa delle cose fondamentali, universali, sublimi, è quindi il
tessuto della vita quotidiana fatto di paure, di sentimenti e di piccoli progetti
non c'è.

In "Essere e tempo" Heidegger dice che prima di tutto dobbiamo scoprire in


che consiste l'esistenza nella sua forma media, generica per poi capire come e
perché quest'esistenza può far maturare degli interrogativi filosofici.
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La prima cosa che lui scopre all'interno di quest'analisi dell'esistenza
quotidiana, è che innanzitutto la nostra esistenza (quello che lui chiama il
Dasain), si dà in una forma inautentica che è caratterizzata dal fatto di
fuggire, di sottrarsi alla propria verità: viviamo in modo da nascondere quello
che propriamente siamo.
La modalità più radicale di questa cosa è il nostro atteggiamento nei
confronti della morte, perché se c'è una struttura basilare dell'esistenza è la
nostra mortalità. Anche se la morte arriva solo alla fine, la possibilità di
morire è una cosa che ci segna dall'inizio: tutto quello che noi facciamo,
progettiamo nei confronti della vita è in qualche modo intriso di questo fatto.

La vita media e quotidiana è costruita nel senso di rifiutarsi di vedere ciò che
costituisce il suo stesso senso, tant'è vero che una delle prime esigenze
dell'esistenza inautentica è sfuggire l'isolamento, la singolarità; anche
questo è un paradosso perché noi siamo qualcosa di singolare, ma cerchiamo
di creare contesti numerosi in modo che sia più facile distrarsi e non pensare
a quello che è la verità, come la nostra finitezza.

La struttura basilare dell'esistenza inautentica è il divertimento. Divertirsi


significa distrarsi, guardare da un'altra parte rispetto alle cose serie, alla
verità.
Heidegger afferma che questa tendenza all'inautenticità è radicata nel
profondo dell'esistenza, perché l'esperienza della verità genera angoscia,
intesa come la paura di un che di indistinto.
Ci sono dei momenti in cui uno si rende conto che il fatto stesso di stare al
mondo ha dei tratti inquietanti e in quei momenti, che sono quelli in cui uno
per un attimo coglie il senso dell'esistenza come tale, si genera l'angoscia. Il
fatto che poi uno cerca di distrarsi e divertirsi è comprensibile.
Questa strategia esistenziale è una cosa che non funziona e non va bene;
questo volersi distrarre e guardare altrove rispetto al senso e alla verità
dell'esistenza, produce una progressiva decadenza civile che si riflette anche
nelle istituzioni, nella corruzione all'interno dello stesso apparato sociale.

L'uomo, a differenza degli animali, è caratterizzato dal fatto che può alzare lo
sguardo all'intero orizzonte dell'esistenza e prendersi cura del fatto
dell'esistenza come tale. In un certo senso non può fare a meno di farlo perché
il paradosso è che, anche chi si diverte, chi si ostina a non alzare lo sguardo e
guardare sempre altrove, è come se avesse poi scelto di divertirsi; come se in
questo non voler vedere avesse già visto: c'è sempre un non voler vedere la
verità dell'esistenza perché si è visto abbastanza da sapere che non ne vuole
vedere più.

Il compito ftlosoftco consiste nel fatto di attraversare questa inautenticità,


non liquidarla ma interrogarsi sulle sue ragioni cercando di coglierne il senso,
e ricostruire le condizioni e le possibilità invece di questo sguardo esistenziale
più ampio e di prendersi cura dell'essere stesso.
Ritornare quindi all'autenticità dell'esistenza pensandola, cogliendone il
senso, e deve essere un’operazione che non è semplicemente un'acquisizione
di nozioni.

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Questo tipo di concezione ebbe un successo enorme perché in quell'epoca la
cosa di cui la gente più sentiva il bisogno era qualcosa di simile: non tanto un
nuovo sapere nel senso di una nuova dottrina, ma di un tipo di pensiero che
creasse le condizioni per una trasformazione del proprio vivere, del proprio
esistere. Era un'epoca in cui la gente iniziava ad avvertire che le grandi
macchine sociali la spingeva verso una vita in fondo priva di senso,
inautentica, e molte persone ritenevano di doversi opporre.
Com'è noto la battaglia poi fu persa nel senso che allo stato attuale delle cose,
la stragrande maggioranza delle persone (soprattutto giovani) non solo vivono
in una condizione di sostanziale divertimento, di inautenticità, ma rispetto
all'epoca passata dove le persone erano avvilite da questo fatto e volevano
cercare un modo per cambiare le cose, adesso tendenzialmente non ce ne
importa. Una delle ragioni per cui la filosofia europea non si è ancora ripresa
da questa sconfitta e si trova in una situazione di difficoltà è che non è
chiarissimo perché le cose siano andate così.

PRAXIS/POIESIS/TEORIA/TECNICA

Praxis e poiesis potrebbero essere tradotti in italiano con il termine di


pratica e di produzione. Secondo Aristotele l'agire, le azioni dell'uomo,
possono essere considerate da due prospettive diverse: una prospettiva
produttiva che va sotto il nome di poiesis, e una prospettiva pratica che va
sotto il nome di praxis.
L'agire tecnico, ovvero quello che è identificato con il termine di poiesis, è
quello dell'artigiano, di colui che produce delle cose.
Nella produzione si porta fuori qualche cosa, si porta all'essere una cosa che
prima non esisteva nella forma che l'artigiano gli dà. L'azione, in questo senso,
è semplicemente un mezzo per raggiungere un fine e il fine sta al di fuori
dell'azione stessa. Ben diverso è invece l'azione che è definita praxis. In
questo tipo di azione il fine è immanente all'azione stessa, cioè chi agisce nel
senso della prassi non produce un oggetto che è al di fuori dell'azione stessa
ma la sua azione è finalizzata a se stessa.
Per esempio, tutte le azioni di carattere morale sono identificate da Aristotele
con il termine di prassi.

Mentre un filosofo come Aristotele opera una differenza tra praxis e poiesis,
per Heidegger non c'è sostanzialmente una grossa differenza perché
ambedue questi tipi di azione rientrano in una determinazione del conoscere
che è già connotata dalla tecnica.
Dal momento in cui la filosofia diventa, nella sua tripartizione di praxis,
poiesis e teoria, connotata dalla tecnica diventa diversa da quello che per
Heidegger dovrebbe essere il vero pensare. Il termine di paragone immediato
è rappresentato dalla scienza; ovvero la filosofia cerca tendenzialmente ad
imitare la scienza. L'aspetto fondamentale del pensare scientifico è quello del
metodo. Dunque la ftlosofta si confronta con la scienza e cerca di
diventare un semplice metodo.

Il pensiero, che secondo Heidegger è un pensiero sostanzialmente


dell'essere, nel momento in cui viene connotato dalla tecnica diventa un

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semplice metodo che deve permettere di porre delle ipotesi che sono
logicamente corrette.

Che cos'è la tecnica? Un qualsiasi tipo di produzione (ad es. la produzione


dell'energia elettrica) che si basa su un sapere che è essenzialmente
scientifico.
La cosa importante in questa definizione della tecnica è che la produzione e il
sapere si applicano direttamente alla natura: la natura, per un pensiero della
tecnica, diventa essenzialmente una riserva di risorse da prelevare; ovvero si
conosce la natura e l'unica conoscenza che si cerca di avere della natura deve
essere finalizzata alla conoscenza dei procedimenti naturali che permettono di
considerare la natura come un insieme di enti da sfruttare.
Nel caso dell'energia elettrica, per esempio, la natura viene considerata
semplicemente come un insieme di risorse che possono essere utilizzate per il
nostro fabbisogno quotidiano.
L'essenza della natura viene completamente ignorata. Il pensiero diventa
metodo, una tecnica delle spiegazioni.

POSSIBILITÀ/POSSIBILE

Questa relazione fra l'uomo e l'essere ha a che fare con la possibilità, con il
possibile; ciascuno dei due poli di questa unità è la condizione di possibilità
dell'altro cioè, l'essenza dell'uomo rende possibile l'apertura dell'essere
ed è l'essere che rende possibile l'essenza dell'uomo.
Heidegger insiste proprio su una sorta di gioco di parole, non traducibile in
italiano, perché il termine potere, possibilità, facoltà, potenzialità, in tedesco è
un termine che è collegato etimologicamente ad un verbo che significa anche
voler bene. In italiano forse il termine che si avvicina di più è disponibilità:
quando uno si rende disponibile per qualcuno ed in un certo senso rende
possibile le cose, questa disponibilità è anche un esser ben disposti. Quando
una persona è ben disposta nei tuoi confronti vuol dire implicitamente che
questa persona si dispone in modo positivo e in modo da allargare il campo
delle tue possibilità. La sua idea è che questo rendere reciprocamente
possibile dell'essere e dell'uomo, va proprio pensato come un voler bene, un
essere ben disposti: l'essere deve essere ben disposto nei confronti dell'uomo.
Non ci potrebbe essere alcunché di possibile se non ci fosse prima di tutto
questo reciproco aprirsi l'uno all'altro dell'essenza dell'uomo e dell'essere.
L'apertura dell'uomo all'essere è innanzitutto l'apertura al possibile.

UMANISMO

L'umanismo nasce nell'antica Roma, a partire da un'opposizione abbastanza


generica tra l'homo humanus, che sarebbe quello che dispone della cultura e
della virtù propria del cittadino colto, è l'homo barbarus.
Consisteva, quindi, nella conservazione dell'eredità classica, che permetteva
di essere un uomo civilizzato anziché un barbaro, umano e non inumano.
Questo significato antico si è conservato anche nell'idea rinascimentale, e
tutt'ora parliamo delle facoltà umanistiche per indicare quella facoltà in cui è
in questione l'incivilimento umano.

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Il significato lato del termine ritiene che sia umanistica qualsiasi concezione
filosofica, teorica, politica, nella quale si da una determinata interpretazione
dell'essenza dell'umano, che ci sia la preoccupazione che l'uomo diventi libero
per la sua umanità.
Sulla base di questa concezione dell'uomo e dell'essenza dell'uomo, si
costruisce un progetto di evoluzione culturale, civile e di impegno storico-
politico.
Anche pensatori che individualmente non si sono mai dichiarati umanisti, per
esempio Marx, alla fine si rifanno a questo principio di umanismo.

Per Marx l'essenza dell'uomo era legata alla sua socialità, alla sua capacità di
partecipare alla dinamica sociale e alla produzione sociale, offendo un
contributo produttivo.
Tutto ciò era messo in pericolo dal capitalismo, che è un sistema di produzione
basato sul possesso, privato, dei mezzi di produzione da parte di alcuni, e
quindi sull'organizzazione del sistema economico in base alla legge del
profitto. Non è importante il prodotto finale, ma guadagnare più soldi possibili
senza curarsi anche delle condizioni di vita degli operai. Questo comporta una
forma di alienazione, cioè di disumanizzazione.
L'idea di Marx è che si dovrebbe fare in modo che le forme di vita, di
produttività e di lavoro, non siano sottomesse al meccanismo capitalistico, ma
che siano governate dall'imperativo interno a queste forme di vita e, quindi,
valorizzarle.
Si dovrebbe fare un lavoro con l'obiettivo di valorizzare la propria attività
lavorativa, la propria capacità creativa e, in generale, l'utilità sociale di questo
lavoro. Anche il cristianesimo può essere considerato un umanismo.

Per un pensatore cristiano, l'essenza dell'uomo consiste nel fatto di essere


dotato di un’anima immortale.
La salvaguardia dell'umanità dell'uomo sarà la salvaguardia di questa
destinazione immortale dell'anima.

Tutte queste concezioni condividono uno stesso presupposto e uno stesso


terreno di fondo, quello che lui chiama "impostazione metaftsica"; qualsiasi
passo fatto su questo terreno è un passo inutile. Si deve mettere in
discussione il terreno stesso.
Tutti questi umanismi stabiliscono in che consiste l'essenza dell'uomo nel
quadro di un’interpretazione generale dell'ente, cioè di che cos'è l'ente nel suo
insieme: di che cos'è la natura e tutti gli enti naturali, di che cos'è la cultura e
tutti gli enti culturali, quindi una visione generale del mondo -> l'essenza
dell'uomo viene poi qualificata come un caso esemplare, particolare e
particolarmente significativo, ma all'interno di un’interpretazione generale.
Ad esempio: ci sono tanti esseri viventi, tra tutti questi viventi l'uomo è
quell'essere particolare e speciale che dispone del linguaggio. In questo
presupposto c'è un problema: presupponiamo che l'essere in quanto tale è
qualcosa di generico e di comune a tutti gli enti, e poi ci preoccupiamo di
trovare il caso speciale dell'uomo. In un corso, Heidegger si sforza di far
vedere che, in realtà, "mondo" non è la stessa cosa per la pietra, per l'animale
e per l'uomo, perché "la pietra è priva di mondo, l'animale è povero di mondo,
l'uomo è formatore di mondo". Il suo tentativo era quello di far vedere che
11
"essere" significa qualcosa di strutturalmente diverso problematico per la
pietra, per l'animale e per l'uomo, tanto che per noi pensare l'essere
dell'animale, cogliere proprio nel pensiero l'essere al mondo dell'animale è
una cosa difficilissima proprio perché è qualche cosa di molto simile a quello
che essere è per noi e contemporaneamente di totalmente alieno.
Nel caso della pietra, nell'essere della pietra non c'è nessun riferimento al
mondo. Non c'è nessuna apertura la mondo. Nell'essere dell'uomo è invece
implicito strutturalmente l'apertura al mondo. Per quanto riguarda l'animale,
esso non coglie, né può cogliere, né potrà cogliere mai l'ente in quanto ente.
Per capire in che senso l'animale non è strutturalmente aperto all'ente in
quanto ente prendiamo come esempio una lucertola su un sasso: la lucertola
sta su quella pietra esposta al sole, si riscalda, con un’attitudine non molto
diversa da un bagnante che prende il sole. Lui dice che il problema è che la
lucertola né coglie né potrà cogliere mai la pietra in quanto pietra.

Es: se noi prendiamo un falchetto lacustre (dei falchi che vivono in prossimità
dei laghi) che è stato allevato in cattività (che non è mai stato sulla riva di un
lago), se lo mettiamo sulla riva di un lago, immediatamente incomincia a
lavarsi le piume con dei movimenti molto esperiti equiparabili ad altri uccelli.
Ma se noi prendiamo quello stesso falchetto e, invece di metterlo su uno
specchio d'acqua, lo mettiamo su una lastra di vetro trasparente, la cosa
curiosa è che lui farà esattamente le stesse cose, gli stessi movimenti, solo che
la cosa non ha alcun senso perché acqua non ce n'è. Secondo Heidegger
questo avviene perché loro non sono aperti a quell'ente in quanto ente ma
dispongono di un programma genetico. Noi abbiamo l'impressione che il falco
interagisce con l'acqua, ma la verità è che il falchetto non sa che cosa è
l'acqua e non sa in un senso molto profondo.
C'è qualcosa che si chiama "stimolo" e questo è legato a determinati segnali
biologicamente rilevanti che hanno il potere di innescare un comportamento
innato, e quel comportamento innato è stato selezionato dall'evoluzione
naturale perché in linea di principio è efficace e rafforza le probabilità di
sopravvivenza.
Un uomo può scambiare uno specchio di metallo con uno specchio d'acqua,
ma può capitare soltanto ad un uomo, perché soltanto un uomo può cogliere
l'essere di quell'ente e coglierlo in maniera sbagliata e dire che quella è acqua
ma invece non lo è.
Ma non è che perché l'uomo parla allora è aperto all'ente in quanto
ente; è perché l'uomo è aperto all'ente in quanto ente che può
organizzare un linguaggio. L'uomo interagisce con gli enti.

Adesso andiamo a vedere concretamente un filosofo che fonda la sua


interpretazione dell'uomo su un'interpretazione della natura; che fonda il suo
umanismo su una metafisica. Questo filosofo è Cartesio.
Cartesio spiega che in un testo che si intitola "Il mondo", ha cercato di offrire
un'interpretazione globale della natura.
A partire da questa interpretazione della natura, spiega qual è la natura
dell'uomo, cioè fa esattamente quello che secondo Heidegger non si deve fare.
Per Cartesio la natura si divide in 2 sostanze: la materia e il pensiero. La res
extensa è una materia quantitativamente identica in ogni suo punto ed è
regolata da leggi universali che valgono in qualsiasi momento e per qualsiasi
12
punto dello spazio. Questo significa che qualsiasi ente della natura è costituito
dalla stessa materia dal punto di vista quantitativo; l'unica cosa che cambia è
che la materia aggregandosi in maniera diversa dà vita a composti di tipo
diverso. Cartesio dopo aver spiegato com'è fatta la natura al di fuori
dell'essere umano scrive: " Dalla descrizione dei corpi inanimati e delle piante,
passavo a quella degli animali, in particolare a quella degli uomini.".
Tra gli uomini e le piante, dal punto di vista della materia, non esiste una
differenza sostanziale.
Cartesio sta ripetendo nella sua mente il processo secondo il quale Dio ci
avrebbe creato. Il primo passo è, appunto, la costituzione di un corpo
materiale che è simile a quello di Dio ma senza anima; quindi a partire da
un'interpretazione della natura secondo la quale tutti gli enti sono costituiti
dalla stessa materia, Cartesio passa a descriverci il modo in cui sono costituiti
gli uomini stessi. Dopo di che vi è la supposizione che Dio abbia messo nel
corpo dell'individuo un'anima razionale. Dunque la differenza tra l'uomo e
l'animale è l'anima -> in questo modo fa proprio ciò che Heidegger dice di non
fare.
Secondo Heidegger noi pensiamo sempre l'uomo a partire da quello che
Cartesio ci ha detto: come un corpo più un anima. Questo è il modo di porre
tipico della metafisica. La metafisica pensa l'uomo a partire dall'animalitas, e
non pensa in direzione della sua umanitas, ma l'essenza dell'uomo è
veramente percepibile soltanto quando si pensa all'uomo in relazione
all'essere.
Heidegger non parla della visione metafisica come un errore, ma come un
oblio dell'essere.

Nei discorsi di Heidegger sulla metafisica c'è il confronto con Sartre circa una
frase scritta da Heidegger in "Essere e Tempo": "L'essenza dell'uomo riposa
nella sua esistenza". Questa frase chiama in causa il discorso circa il rapporto
tra l'essenza dell'uomo e l'apertura all'essere. Sartre intende questa frase in
un certo modo, e da questo trae la conseguenza che è possibile progettare una
posizione teorica definibile come Esistenzialismo che rivendica il diritto a
qualificarsi come Umanismo più autentico, più adeguato all'epoca storica
presente; poi c'è Heidegger, il quale per primo ha pronunciato quella frase, e
dice che va intesa in un senso diverso, non nella direzione di un nuovo
umanismo che si configura come Esistenzialismo, tanto che ad un certo punto
Heidegger dice che, se vogliamo essere rigorosi, si dovrebbe dire che questa
frase in "Essere e Tempo" è talmente lontana dall'impostazione umanistica
che Sartre gli attribuisce, che si dovrebbe dire che il pensiero che si cerca di
pensare in "Essere e Tempo" è contro l'Umanismo, cioè non coincide con
l'interpretazione umanistica. Per prima cosa chiariamo la posizione di Sartre.
Nella tradizione della filosofia occidentale o della metafisica occidentale che è
tutta un po' plasmata dal platonismo, c'è l'idea che l'essenza precede
l'esistenza. Le cose naturalmente esistono, gli animali esistono, gli esseri
umani esistono, però è un po' come nel discorso che già all'epoca di Platone si
faceva sul cavallo e la cavallinità: c'è questo cavallo esistente che ha una serie
di requisiti, che lo si riconosce come cavallo, ma nel momento in cui io lo
riconosco come cavallo lo faccio perché colgo in questo ente esistente un'idea
che ne costituisce l'essenza, in questo caso la cavallinità. Facciamo un
esempio: quando facciamo una dimostrazione matematica, come un cerchio
13
alla lavagna, nella dimostrazione il cerchio non sarà perfettamente circolare,
avrà imperfezioni, avrà spessore che a norma e regola non dovrebbe avere;
ma la dimostrazione funge da illustrazione: non ci riferiamo a quel cerchio lì,
ma al cerchio in quanto tale. Non importano queste imperfezioni che
competono alla materia, all'esistenza, conta riconoscere l'idea del cerchio. Per
la tradizione platonica questo è vero per qualsiasi cosa. Se voi leggete un libro
di anatomia o un libro di zoologia, non si parla di questo o di quell'altro
cavallo ma dell'idea, dell'essenza di cavallo. Questa cosa ha anche una sua
funzione etica, nel senso che un cavallo, vale a dire un ente esistente, che ha
in sé l'essenza del cavallo, che è plasmato intorno all'essenza del cavallo, avrà
come compito esistenziale, come destino, quello di avvicinarsi il più possibile
alla realizzazione di questa essenza. Quindi, questa precedenza dell'essenza
sull'esistenza sta ad indicare una precedenza, non solo di ordine logico), ma
anche una precedenza di ordine etico, di valore, di qualità: ciò che ogni ente è
portato a fare nella sua esistenza è avvicinarsi a questa Essenza che in
qualche modo gli consente di essere e ne declina tutte le possibilità.
L'impostazione di Sartre "l'Essenza dell'uomo sta nell'esistenza", capovolge
questa impostazione. Evidentemente Sartre intende dire che l'uomo è
quell'ente che, non essendo limitato nella sua libertà e nelle sue potenzialità
da un'essenza che in qualche modo gli tocca in sorte di realizzare, ha un
compito più radicale e una libertà più essenziale che è quella di dare forma
alla propria identità a partire da una sorta di non essenza e, quindi, di libertà
indeterminata. Si tratta di un capovolgimento che non è estraneo anche alla
tradizione dell'Umanismo nel senso storico del termine. Nella tradizione
dell'umanismo rinascimentale c'è un filosofo, Pico della Mirandola, che aveva
scritto proprio un discorso sull'uomo che è tutto basato su questo. Pico della
Mirandola diceva che "l'uomo è il divino camaleonte": l'uomo è l'unico ente
che non ha un'essenza da realizzare e può fare qualunque cosa di se stesso, e
che quindi ha il compito di fare di se stesso qualcosa. Nell'umanità dell'uomo
il caso particolare, quello che normalmente è stato considerato la casualità, è
invece la cosa decisiva, perché non esiste un'essenza predefinita e
precostituita dell'uomo.
Ciò che caratterizza l'uomo è la sua capacità di inventarsi sa sé. Una società
giusta è quella che riconosce questo diritto e amplia al massimo la creatività.
L'esistenza, in questo caso, precede l'essenza. Per Heidegger questa tesi di
Sartre, questa impostazione che dà a quella frase, è un capovolgimento della
metafisica tradizionale di impostazione platonica ma, in realtà, in quanto
capovolgimento, resta comunque una tesi metafisica. A prima vista la frase di
"Essere e Tempo" sembra non potersi leggere altrimenti che cosi.
Invece, quasi a sorpresa, Heidegger dice che non intendeva dire una cosa del
genere; quello che lui chiamava l'essenza non era essentia, in senso latino, e
quello che lui chiamava esistenza non era l'existentia, in senso latino. Per
essere più precisi ci mette il trattino, per dire che lui intende un'altra cosa. In
Sartre essenza ed esistenza significano quello che hanno sempre significato
nella tradizione, e cioè potenza e atto. L'unica cosa è che lui capovolge il
discorso. L'essenza è quella cosa (una potenza) che si deve realizzare
nell'esistenza. Per Heidegger invece di e-sistenza si può parlare solo in
relazione all'essenza dell'uomo. Già questo è abbastanza sorprendente, nel
senso che siamo abituati all'idea che l'esistenza è una cosa che spetta a tutti

14
gli enti; l'esistenza nel senso dell'actualitas, nel senso della realtà,
dell'effettività, spetta naturalmente a tutti gli enti reali.
Lui chiarisce questo punto dicendo che, di e-sistenza si può parlare solo in
relazione al modo umano di "essere". Questa è un'indicazione anche sull'uso
del termine "essenza", e cioè il modo di essere dell'uomo. Se ci volessimo
esprimere in una maniera che, forse, può aiutare di più si potrebbe dire che
più che l'"essenza" si dovrebbe dire la "sostanza" dell'uomo, purché si intenda
il temine nel suo significato originario, aristotelico: il modo d'essere. L'idea di
Heidegger è che il modo d'essere dell'uomo è qualcosa di unico e non
paragonabile al modo d'essere degli altri enti, perché definito e
contrassegnato da un esser collocato fuori, da uno star fuori. Non è che
l'uomo è né più né meno di come è un'animale, esiste, sta nel mondo, né più
né meno di come esiste e sta nel mondo un animale, però in più ha
un'aggiunta, ha un qualcosa. Il modo d'essere dell'uomo, che Heidegger
chiama e-sistenza, è fin da principio e per definizione qualcosa di radicalmente
diverso dal modo d'essere dell'animale, al punto tale che l'affinità, la
promiscuità che oggettivamente c'è tra il nostro modo d'essere e quello
dell'animale, rischia di essere fuorviante talmente che per noi pensare il modo
d'essere dell'animale è la cosa più difficile che c'è. Quando poi pensiamo al
modo d'essere dell'animale finiamo per attribuirgli il nostro modo d'essere.
L'animale non è mai, strutturalmente e per definizione, in grado di cogliere
l'ente in quanto ente. Quindi l'esistenza, quella che compete all'uomo, è quella
maniera d'essere in cui si coglie l'ente in quanto ente: noi cogliamo il libro in
quanto libro, il microfono in quanto microfono, ma l'animale no. In questa
capacità di cogliere il libro in quanto libro, la bottiglia in quanto bottiglia, c'è
un problema di proporzioni enormi, e tutta la catastrofe, la decadenza, la crisi
della cultura tradizionale, della cultura europea, consiste nel fatto che
l'abissale profondità di questo problema è stato via via dimenticato,
cancellato, messo tra parentesi, al punto tale che a noi oggi pare di parlare
della cosa più semplice della terra. Dimenticare questa complessità, metterla
tra parentesi è quell'errore, quella opacità, quell'oblio dell'essere, che
caratterizza la metafisica. Abbiamo visto come, nella in Sartre l'uomo diventa
il centro dell'esistenza perché diventa arbitro e giudice della sua stessa
esistenza. C'è una frase famosa di Sartre che Heidegger riprende nella
"Lettera sull'umanismo", la cita e la discute, e che dice: "Noi siamo su un
piano in cui c'è esclusivamente l'uomo". Questa è una cosa liberatoria ma
anche una responsabilità perché ciascuno di noi è anche chiamato da solo a
decidere, non può dire che la famiglia o il paese ha deciso così; ciascuno è
chiamato a decidere della sua vita e lo deve fare assumendosi tutta la
radicalità di una solitudine, che è sinonimo della sua stessa libertà, e che è
inerente al dato di fatto oggettivo che lui non ha altra essenza che la sua
esistenza. Heidegger risponde alla posizione di Sartre dicendo: "Se ci
potessimo esprimere in termini analoghi a quelli di Sartre, io dovrei dire dal
mio punto di vista che noi siamo su un piano in cui c'è principalmente
l'essere." E subito dopo aggiunge: "Sarebbe un modo di dire improprio, perché
propriamente parlando, questo piano è l'essere stesso." Quindi non è che noi
siamo su un piano in cui c'è l'essere, ma l'essere è appunto il piano sul quale
noi siamo. L'Umanismo, com'è pensato da Sartre pone l'uomo come metro e
misura di tutte le cose. In quanto è privo di qualunque essenza che non sia
consegnata come compito alla sua esistenza reale, in quanto è il formatore del
15
suo proprio modo d'essere, l'uomo è quello che in un certo senso ha la
possibilità di decidere, di stabilire non solo in che modo lui deve essere e deve
vivere, ma in che modo in un certo senso il mondo intero deve configurarsi;
quindi che cosa farne degli oggetti, degli animali, dell'ambiente, dell'universo
tutto. Si potrebbe dire che la decisione teorica di Sartre demanda all'uomo la
decisione circa il modo d'essere di tutti gli enti in generale. Questa concezione
è riflessa, anche nella pratica, da quello che è il dominio della tecnica. In un
certo senso scienza e tecnica sono l'articolazione, la messa in pratica del fatto
che, propriamente parlando, spetta all'uomo decidere che cosa deve essere e
come e in che modo deve essere. L'uomo e solo a decidere, nella posizione
sartriana, del suo destino; solo il singolo essere umano decide veramente di
sé. È una posizione che implica l'asservimento, di tutto l'ente nel suo insieme,
all'uomo.
In larga misura è quello che succede anche in tutte le forme di politica
moderna: si da per assodato che le decisioni che si prendono, ad esempio nei
confronti dell'ambiente, nei confronti dell'industrializzazione, nei confronti
della tecnica, devono rispecchiare i bisogni e le esigenze degli esseri umani.
Quindi anche la decisione dell'uomo diventa quasi paradossale: come decidere
circa la propria esistenza se non ho altro metro di misura che la mia
esistenza? La posizione di Heidegger, in questo senso, è contro l'Umanismo:
lui ci vuole convincere del fatto che ciò che l'uomo propriamente deve fare se
vuole ritrovare la sua propria essenza e se vuole riconsegnarsi alla propria
essenza, non è quella di decidere, a proprio arbitrio, il suo modo d'essere, ma
l'uomo deve porsi in ascolto dell'essere. L'uomo è il pastore dell'essere: l'uomo
perviene alla sua essenza solo nel momento in cui è in grado si sentirsi
chiamato dall'essere stesso e, in ultima analisi, l'unica cosa che l'uomo può
fare, essendo gettato in questo rapporto con l'essere, è sforzarsi di essere e di
esistere nel modo che più e meglio corrisponde all'appello dell'essere.

L'ente è lasciato essere, a partire dalla capacità che l'uomo ha, o almeno può
avere, di porsi in ascolto dell'essere.
La posizione di Heidegger è una posizione ambivalente, che è
presentabile come umanismo e antiumanismo.
È una forma di umanismo, l'unica vera forma di umanismo, che tenta nella
maniera più radicale di concepire l'essenza dell'uomo e di pensare il destino
storico, nel senso di un tentativo di riconciliarsi con la sua essenza; ma è una
forma di anti-umanismo, se per umanismo si intende il fatto che l'uomo viene
messo al centro di ogni cosa e viene qualificato come colui che governa l'ente
nel suo insieme.
Non è più centrale, decisivo, l'uomo come tale, ma è centrale e decisiva la sua
prossimità all'essere.
In questo caso si potrebbe dire che il suo umanismo è un umanismo
paradossale: è come se nell'essenza dell'uomo venisse individuato una sorta
di tratto paradossale in cui l'uomo si consegna compiutamente alla sua
essenza quando si dimentica di sé, quando cessa di essere a capo e al centro
dell'universo.
Per questo Heidegger dice che l'essere è il trascendens puro e semplice, che
la condizione dell'esistenza comporta questo uscire fuori: noi cogliamo
veramente l'essenza dell'uomo laddove siamo su un piano in cui non c'è più
l'uomo ma l'essere.
16
Quindi l'essenza dell'uomo consiste in questo essere aperto a qualcosa d'altro
da sé.

La parola umanismo finisce per essere un "lucus a non lucendo": una luce che
non illumina; quindi un termine che non spiega il contenuto del concetto.
Quando utilizziamo il termine umanismo pensiamo all'uomo, mentre
Heidegger pensa che la natura dell'uomo debba essere pensata a
partire dall'essere: riuscire a pensare l'essere a partire dal quale poi si
riuscirà a pensare l'uomo. Per questo bisogna abbandonare il termine
umanismo.

Quindi, dice Heidegger, se io quando penso al termine umanismo non penso


l'umanità dell'uomo, vuol dire che penso l'inumano? No.
Secondo Heidegger bisogna uscire dall'alternativa fra umanismo/inumanismo,
perché il fatto che lui rifiuti di pensare l'uomo nel modo in cui l'umanismo
classico l'ha pensato finora, non significa negare il valore dell'umano, così
come chi critica il razionalismo non è il sostenitore dell'irrazionalità.
Noi siamo abituati a pensare in questi termini perché abbiamo una certa idea
della logica: o sono a favore dell'umano o sono contro l'umano; o sono a favore
di Dio o sono contro Dio.

Qui introduce il concetto di Sacro. Nel momento in cui io penso Dio come il
valore più alto, con questo modo di pensare io degrado l'essenza di Dio,
perché pensare Dio come un valore significa già privare Dio della sua dignità,
perché lo si ammette solo come oggetto della stima umana.

Nel momento in cui io cerco di uscire da queste opposizioni categoriali e


logiche, quando dico che non voglio pensare il valore di Dio, della dignità
umana, della cultura, dell'arte, non penso che queste cose non abbiano valore,
ma le voglio pensare in un modo che sfugge all'alternativa posta dal dare
valore/non dare valore perché, pensare a queste cose come a cose che hanno
valore, significa già degradarle.

Abbandonato il pensiero della logica, abbandonate le categorie della


logica, abbandonata l'opposizione tra affermazione e negazione, si
apre secondo Heidegger la possibilità di pensare a partire dall'essere,
e questo è quel pensiero che permette di stabilire una vera relazione tra
soggetto e oggetto.
Lui vuole convincerci del fatto che, invece di affrettarsi a schierarsi e a far
schierare chiunque cerchi di riflettere, il punto cruciale è di mettere a fuoco
un livello preliminare, qualche cosa che costituisce la condizione di possibilità
di quella stessa alternativa e che, quando noi tematizziamo quell'alternativa,
abbiamo già perso di vista il discorso e quindi non arriviamo a niente.

IMPEGNO

Che cosa abbia in mente Heidegger circa il problema dell'umanismo è già


chiaro; la questione del destino dell'umano si gioca sul fatto che la storia
occidentale è la storia di come ci siamo allontanati da questo legame
essenziale che unisce l'essenza dell'uomo all'essere, al punto tale che non
17
sappiamo più nemmeno riconoscerlo come un problema. Dal suo punto di vista
l'impegno del pensiero, del filosofare non può avere altro senso che quello di
vedere se è possibile invece in qualche modo riavvicinarci a questo.
L'impegno dovrebbe essere il tentativo non tanto di risolvere questa faccenda
del legame tra l'essenza dell'uomo e l'essere, ma proprio riuscire a renderci
conto di nuovo del fatto che qui c'è un problema, cioè che questa cosa è
problematico.
Questa operazione, che è un'operazione di pensiero, è dal suo punto di vista
l'unico impegno in nome dell'umano che abbia senso accollarsi.
Ora, l'idea di Heidegger è che nessuno degli umanismi prodotti dal pensiero
moderno si è reso veramente conto del fatto che alla base c'è il problema e va
ritrovato il problema. Quello che più sembra ovvio è quanto di più
problematico c'è.

L'ESSERE

Noi siamo su un piano in cui c'è innanzitutto l'essere.

L'espressione il y a non traduce esattamente il "si dà" (es gibt) perché ciò che
qui dà è l'essere stesso.
Il "dà" indica l'essenza dell'essere che dà, concedendo la sua verità. Il darsi
all'aperto, unitamente all'aperto medesimo, è l'essere stesso.". Il y a
(pronuncia ilià) vuol dire "c'è", che non traduce esattamente il "si dà".
Naturalmente il termine valido è quello tedesco.

L'essere è ciò che dà, che propone qualche cosa, e questo qualche cosa che è
proposto nel momento in cui l'essere dà, è l'essere stesso.

Che cosa dà l'essere? L'essere dà se stesso. "Il "dà" indica l'essenza


dell'essere che dà, concedendo la sua verità.".
Il dà, quello che è dato, il movimento di aprire, indica l'essenza dell'essere che
dà, cioè è in questo movimento in cui l'essere si apre che consiste l'essenza
stessa dell'essere, cioè la caratteristica specifica che lo contraddistingue in
quanto tale. Qual è l'essenza dell'essere? Il fatto che l'essere dà, che si apre
concedendo la sua verità. Quindi l'essenza dell'essere è quella di essere
fondamentalmente un'apertura su se stesso. "Nel contempo il "si dà" è usato
per evitare provvisoriamente la locuzione "l'essere è", perché abitualmente l'
"è" viene detto di qualcosa che è. Questo qualcosa noi lo chiamiamo ente.

Ma l'"essere" appunto non è l' "ente"." Se non è l'ente, come facciamo a dire
che l'essere è? Per sfuggire a questa difficoltà Heidegger si inventa questa
espressione "si dà".
"Forse l' "è" può essere detto in modo appropriato solo dell'essere, sicchè
nessun ente "è" mai in senso autentico" Quindi nel momento in cui diciamo
che l'ente è, in realtà rimaniamo al di sotto della verità, perché l'unica
espressione completamente vera sarebbe quella di dire "l'essere è"; però, se
noi diciamo che "l'essere è"; però se diciamo che "l'essere è", in realtà
pensiamo l'essere come se fosse un ente. L'essere è il piano. L'uomo è uomo
nella misura in cui si colloca su questo piano, quello dell'apertura all'essere.
L'essere è l'apertura a partire dalla quale una qualunque entità può essere
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riconosciuta come entità, quindi offrirsi all'uomo in quanto tale. Se noi
immaginiamo l'esistenza dell'uomo come un continuo entrare in rapporto con
entità di ogni genere, quest'incontro con tutte queste entità (uomini, natura,
tecnica) avviene già in un orizzonte, in uno spazio, e l'essere non è uno di
queste entità che vengono alla luce in questo orizzonte, in questo spazio, ma è
appunto l'orizzonte e lo spazio. Da non confondere con Dio che è l'ente
supremo, eterno, assoluto, ma comunque un ente. Perché io possa entrare in
rapporto con qualcosa, con un ente, occorre che qualcosa come un orizzonte,
accessibile e possibile per questo incontro, ci sia già. È ciò a partire da cui e in
vista di cui, in generale, le cose sono. L'essere è la radura, cioè uno spazio
aperto, una dimensione della nostra sensibilità all'interno della quale si
depositano gli oggetti che noi percepiamo. È uno spazio che accoglie tutti gli
enti. Il termine radura è una traduzione impropria, perché non si può fare
niente di più di questo, perché il termine tedesco che lui adotta in realtà è il
termine che significa, si radura, ma viene dalla parola luce.
Quindi letteralmente se uno ne volesse dare una traduzione letterale, è un
allucinazione. La parola significa radura per un motivo semplice: nel senso
che quando uno va in un bosco, una radura è per definizione il momento in cui
il bosco si dirada e in questo suo diradarsi diventa di nuovo possibile cogliere
la luce che invece fino a quel momento ci era stata oscurata. L'essere è la luce
a partire dalla quale l'ente diventa visibile. Uno degli obiettivi di Heidegger è:
noi dobbiamo riuscire a pensare l'essere non a partire dai singoli enti che mi
vengono incontro volta per volta, ma come la condizione perché quei singoli
enti mi vengano incontro. Noi normalmente non ci accorgiamo della luce
perché la vista è completamente assorbita da quelle cose che solo grazie alla
luce acquistano la possibilità di essere viste; allora una radura è come qualche
cosa in cui, diradandosi ciò che la luce mi permette di vedere, per un attimo
colgo la luce come tale. Per aiutarci a capire e pensare questo rapporto fra
l'essere e l'ente nella maniera adeguata, Heidegger dice che "l'essere è il
trascendente puro nei confronti dell'ente", cioè l'essere è la trascendenza
rispetto all'ente in generale, ciò che è al di là dell'ente. Questo comunque è un
punto di vista metafisico. Lui riconosce che questa sua impostazione ha a che
fare con la metafisica, ma dice che quando si riflette sulla questione del
rapporto fra l'essere e l'ente, da principio è come in una prima battuta,
riconoscere questo carattere di trascendenza è un passaggio obbligato.
L'essere non è l'ente. L'essere non è un prodotto dell'uomo. Non ci deve
essere un dominio, ma l'uomo deve porsi in ascolto dell'essere. L'essere non
produce gli enti. È solamente ciò che lascia vedere gli enti, l'orizzonte entro il
quale gli enti sono illuminati e vengono percepiti. È condizione di possibilità di
questa manifestazione dell'ente.

Perché occorre un orizzonte? Il nostro rapporto con gli enti in generale non
succede nel nulla, ma cade in qualcosa, in un orizzonte, e incontriamo l'ente e
i suoi modi d'essere a partire da questo orizzonte. Che cos'è questo orizzonte?
È un orizzonte segnato dalla storia e dalla cultura. Non è qualcosa che
inventiamo noi, ma è iscritta nel nostro modo d'essere. Il medioevale non si
impegna a vedere le cose come enti creati da Dio, ma è normale per lui. Noi
non siamo situati in un ambiente (un ambiente precostituito come per gli
animali), ma in un mondo; questo mondo è una costruzione storica, strutturato
in modo tale da prescrivermi, indicarmi una certa aspettativa nei confronti di
19
che cosa ciascun singolo ente è. Un africano uscito dalla savana, vedendo il
registratore che registra, direbbe che lì dentro c'è uno spirito dei fiumi che
ripete le parole, mentre tutti noi sappiamo che è un artefatto tecnico. Per noi
è ovvio che sia così, tanto che l'impostazione dell'altro ci sorprende e ci fa
ridere.
Questa ovvietà è una sorta di predirezionamento, in direzione di una
determinata interpretazione della verità degli enti, e cioè di una determinata
interpretazione del loro essere. La sostanza dell'uomo è l'esistenza. Solo che
sostanza, pensata dal punto di vista della storia dell'essere, è già la traduzione
falsante di usia, una parola che nomina la presenza di ciò che è presente e,
per un’enigmatica ambiguità, il più delle volte vuol dire nello stesso tempo ciò
che è presente medesimo. Tramite questo termine si dice di una cosa il fatto
che è là, che è presente di fronte a me, ma allo stesso tempo indica l'oggetto
stesso che è presente; indica la caratteristica comune di tutti gli oggetti che vi
sono presenti, il fatto che sono sostanza.

La sostanza dell'uomo è l'esistenza, cioè l'essere uomo dell'uomo, la


caratteristica comune che tutti gli uomini in quanto tali devono avere, l'usia
dell'uomo, è l'esistenza cioè il modo in cui Heidegger intende l'esistenza. Il
modo in cui l'uomo è presente per l'essere, cioè la sostanza del uomo, sta nel
fatto che l'uomo sta sempre nella radura della verità, è sempre in un rapporto
specifico all'essere. "L'essere attende ancora di divenire esso stesso degno per
l'uomo di essere pensato" "Degno di essere pensato", è un'espressione che
significa "problematico". Il fatto che l'acqua quando la riscaldi diventa
bollente, non è una cosa degna di essere pensata perché non c'è nessun
problema: è ovvio che sia così; invece noi troveremmo "degno di esser
pensato" se uno dimostrasse che, in particolari condizioni, quando si riscalda
l'acqua diventa di ghiaccio. La tesi di Heidegger, allora, è che l'essere aspetta
ancora di essere riconosciuto come qualche cosa si cui si deve riflettere; viene
dato per assodato, per scontato.

ESSERE NEL MONDO

In "Essere e tempo", per dare la misura del fatto che questo essere nel mondo
non si risolve nel puro e semplice essere aperti, volta per volta, al singolo ente
che mi viene di fronte, Heidegger sottolinea il fatto che, il modo primario in
cui noi ci rapportiamo alle cose, in realtà non è quello di considerarle come
cose prese astrattamente e considerate quasi in maniera teoretico -
speculativa.

La forma primaria in cui noi siamo in contatto con le cose è quella,


fondamentalmente, di cose che rimandano ad altre cose: il modo più
spontaneo e più semplice in cui ci rapportiamo al martello è quello di
collocarlo a dei chiodi, che poi si collegano a un muro, che poi si collegano ad
un quadro. Non è che il mondo è semplicemente una sommatoria di cose, ma è
innanzitutto questo insieme strutturale nel quale io sono già sempre situato, e
poi, all'interno di quest'insieme, ogni singola cosa mi si presenta come
"essente" questo o quello.

20
Non è che semplicemente costruiamo un mondo a partire da una sommatoria
di enti, è che ogni incontro con l'ente è sempre un incontro con l'ente nel
mondo, in forma tale che nel mondo ci sono anch'io che sto incontrando l'ente.
Se noi dicessimo che, a differenza degli animali che incontrano singoli segnali,
noi incontriamo il mondo, sarebbe una ingenuità totale, nel senso che noi
incontriamo, quale che sia la cosa che incontriamo, in un mondo che non
incontriamo mai, ma che è sempre la condizione perché quella cosa si possa
incontrare e però, non incontrandolo mai, il mondo è già sempre là come quel
qualcosa in cui io sono collocato, gettato e di modo tale che a partire da
questo essere gettato nel mondo, non posso non riferirmi all'essere dell'ente
che incontro.
Io non posso riferirmi a questo libro come riferimento al libro in quanto libro;
non posso prenderlo semplicemente come un segnale, perché per noi è un
segnale inscindibile da qualcosa in cui quel segnale è depositato.

IL LINGUAGGIO È LA CASA DELL'ESSERE

Il pensiero porta a compimento la relazione tra l'essenza dell'uomo e l'essere


stesso, e tale relazione permette all'uomo di trovare le parole per dire
dell'essere; è così che il linguaggio è la casa dell'essere ed in esso abita
l'uomo e l'essere.

Ma come fa uno a trovare le parole per l'essere? Heidegger dice che l'essere è
sempre in cammino verso il linguaggio. Il pensiero si limita a portare al
linguaggio la parola inespressa dell'essere. L'essere, aprendosi nella radura,
viene al linguaggio. A sua volta, il pensiero e-sistente, nel suo dire, porta al
linguaggio questo adveniente.
L'essere è sempre in cammino verso il linguaggio, e il pensiero porta, questo
essere che è in cammino, a compimento del suo proprio cammino, e in questo
modo è come se tutti e due, l'essere da una parte e il pensiero dall'altra, si
portassero a vicenda nella loro propria dimensione che è il linguaggio. In tutto
questo l'espressione "portare al linguaggio" va presa alla lettera.
Ad esempio: un trend-setter è uno che nella moda e in altri settori è capace di
intuire una tendenza; egli coglie il fatto, ad esempio, che c'è una sensibilità
diffusa in direzione della minigonna, e progetta la minigonna. Il trend-setter è,
per definizione una persona che cerca di dare una forma a qualche cosa che
esiste virtualmente, una tendenza che ancora non si è espressa, e gli da
un'espressione. In questo caso uno non da espressione all'essere, ma da
espressione ad una tendenza di tipo sociale.
Che cosa può significare dare voce, non ad un fenomeno sociale inespresso,
ma addirittura ad un avvento dell'essere che è ancora inespresso?
Perché l'idea di Heidegger è che l'avvento dell'essere è sempre parzialmente
inespresso, è sempre qualcosa che ha bisogno di un'operazione di pensiero
per prendere forma nel linguaggio.
Dobbiamo porci in ascolto dell'essere. Che vuol dire? Che uno sente qualcosa
come un messaggio, a cui poi magari da voce.
Ad esempio, il gioco del telefono è un gioco che consiste nel fatto che uno,
prestando ascolto a un messaggio per lo più indistinto, confuso e
indifferenziato, lo deve restituire in una forma chiara e pulita. In larga misura
l'aspetto divertente del gioco è che c'è una componente di creatività in questo.
21
In realtà l'idea di Heidegger è che, la creatività consiste nel fatto che noi,
tutto quello che diciamo nel senso lato del termine, cioè tutto quello che siamo
in grado di esprimere, è sempre, che lo si voglia o no, la maniera in cui
rispondiamo a qualche cosa come una sorta di messaggio e di chiamata che,
attraverso le articolazioni della nostra esistenza, ci arriva dall'essere stesso
nella sua storicità.
La creatività è il fatto che uno prova a dare una risposta che, in realtà, riflette
tanto meglio e tanto di più il suo elemento di creatività e di innovazione,
quanto più attento e fedele è stato l'ascolto.

L'UOMO NON E' PADRONE DELL'ENTE MA E' PASTORE DELL'ESSERE


L'UOMO PADRONE DELL'ENTE
L'umanismo di Sartre è fondato sull'idea che la dignità dell'uomo, l'umanità
dell'uomo sia espressa al massimo delle sue potenzialità nel momento in cui io
qualifico l'uomo come signore dell'ente, come padrone dell'ente.
Questa concezione inadeguata di umanismo sarebbe inscritta in tutta la
tradizione metafisica.

Un modello come quello cartesiano ci aiuta nella maniera più chiara. Il mondo
moderno è stato fortemente segnato dall'idea che la verità delle cose si coglie
nelle scienze, innanzitutto matematizzate.
Per Cartesio tutte le verità, o pseudoverità che io posso conoscere del mondo
esterno, sono relative, sono opache perché sono rappresentazioni; sono
relative al modo in cui noi tutti le rappresentiamo, tant'è vero che se io dico
che questa cosa è rossa, un altro dice che è verde e un altro bianca, siamo in
difficoltà perché non sappiamo più a chi dar ragione.
La verità è che, però, ci siamo accorti che indipendentemente dalla mia
soggettività empirica, per cui la cosa mi può apparire verde, rossa o bianca, ci
sono delle verità che rientrano si nel campo della rappresentazione, ma che in
qualche misura sono relative alla verità trascendentale: non al mio io empirico
ma al mio io in quanto soggetto razionale. Per esempio: a me può non apparire
evidente che questo libro è verde, ma è difficile che non mi appaia evidente
che il quadrato costruito sull'ipotenusa è uguale al quadrato costruito sui
cateti. Anche al più ignorante degli uomini, se uno gli spiega bene una verità
matematica, in qualche modo la vede e la riconosce.
Ma Cartesio dice che una cosa non deve essere automaticamente vera
soltanto perché appare evidente a tutti gli uomini.
Magari sbagliamo tutti. Alla fine per Cartesio la certezza assoluta è quella del
"ego cogito", cioè anche nel più assoluto dei dubbi del fatto che io penso non
posso dubitare. Essendo tutti gli enti oggetti della rappresentazione di me in
quanto soggetto rappresentante, l'unica cosa di cui veramente non posso
dubitare è il fatto che io sono un soggetto rappresentante, e il fatto che io mi
rappresento queste rappresentazioni.
Cartesio arriverà a convincersi, e a convincere anche gli altri, della certezza
delle rappresentazioni matematiche, proprio perché questa certezza è come
una certezza di secondo grado rispetto alla certezza dell'ego cogito, e così via
per tutto il resto del mondo. Da adesso in poi la verità dell'ente si qualifica
come certezza della rappresentazione; la ragione per cui noi ci affidiamo
volentieri ai calcoli dell'ingegnere che ci dice che questa cosa non cade, e non
ci affidiamo volentieri agli artifici dello stregone è perché, nel primo caso, la
22
certezza che l'ingegnere ha non è una certezza soggettiva ed empirica ma si
fonda nella certezza, in quanto certezza della rappresentazione matematica
del calcolo ingegneristico, della soggettività pensante in quanto tale.
Questa è la nascita della scienza moderna.

Se noi procediamo per questa via, arriviamo facilmente ad una posizione come
quella, per esempio, di Nietzsche o in altri termini anche quella di Marx, in cui
addirittura si dice che la verità dell'ente in generale in ultima analisi va fatta
risalire a quello che l'uomo è in grado di mettere in campo, non tanto in
quanto rappresentazione, ma in quanto prassi, in quanto lavoro.
Per Nietzsche addirittura i massimi valori, quelli cristiani, quelli mussulmani,
sono in realtà il frutto di un'attività umana, di un certo processo culturale nel
quale si è attribuito particolare valore ad alcune cose. In qualche modo
Nietzsche è d'accordo con Sartre, e tutti e due sono d'accordo con Chomsky,
sul fatto che la chiave della verità dell'ente in generale sta nell'attività
creatrice dell'uomo. Questo umanismo è quello che ritiene che la massima
dignità dell'uomo sta nel fatto di riconoscere l'uomo signore dell'ente in
generale, padrone dell'ente in generale. Per Heidegger questa posizione è
inadeguata, è un tradimento dell'essenza dell'uomo.

L'UOMO PASTORE DELL'ESSERE

L'uomo è colui che custodisce non tanto l'essere in sé ma il rapporto tra la


sua esistenza e l'essere stesso; colui che deve prendersi cura dell'essere per
poter vivere in maniera autentica, ponendosi in ascolto dell'essere.
L'essenza dell'uomo è completamente consegnata al suo essere al servizio
della verità dell'ente.
Le grandi prestazioni dell'umanità, che sono in ultima analisi il pensiero e la
poesia, dipendono dal fatto che l'uomo è in grado di adattarsi, fa uno sforzo
quasi di auto-annullamento per cogliere una sorta di messaggio, di voce, di
richiamo dell'essere stesso al quale ci si adatta, al quale si da una risposta e
che ci si sforza di portare alla parola.
È vero che questo tipo di posizione è come se avesse l'eco di una tradizione
teologica; in fondo nella tradizione teologica si è sempre detto: quello che
l'uomo deve fare, se vuole essere compiutamente uomo, è di annullare l'amor
proprio e consegnarsi completamente all'amore di Dio. Qui non è una
questione di ascoltare il messaggio di Dio; si tratta di uniformarsi ed
adeguarsi a ciò in cui noi, propriamente parlando, siamo già sempre gettati.
Non è vero che l'uomo crea a suo arbitrio: anche la scienza, la tecnica,
derivano dal fatto che uno innanzitutto si dispone all'ascolto di quello che
propriamente già c'è, del modo in cui l'essere stesso, come essere dell'ente in
generale, gli si manifesta e gli si presenta.

Lui dice: voi credete che le opere di Nietzsche, Marx, di Sartre, siano il frutto
della loro creatività, ma non è vero. In realtà persino questi stessi autori
hanno realizzato queste cose perché hanno ascoltato una "vocazione"; e
"vocazione" va intesa nel senso letterale come il fatto che c'è qualcuno che ti
chiama.
Se voi leggete la biografia di Nietzsche, in qualche misura voi vedete che la
sua esperienza di pensiero è stata tutta rivolta, tutta tesa al tentativo di
23
trovare le parole giuste per portare al linguaggio e per rendere, quindi,
conoscibile e pensabile quello che lui intuiva che era il tratto dominante della
sua epoca storica, il messaggio implicito, inscritto nel mondo nel quale lui era
collocato. Si potrebbe dire che se noi ricostruiamo l'esperienza di vita di
qualsiasi grande pensatore o grande scienziato, ci rendiamo conto del fatto
che questi poi, in realtà, non è vero che inventano, creano, manipolano ma
reagiscono al mondo nel quale sono collocati come se il mondo, in qualche
modo, fosse un rebus.
L'attitudine di chi risolve un rebus è quella di intuire che in quelli che
sembrano accostamenti casuali c'è una sorta di segreto nascosto; come se
attraverso quegli oggetti, attraverso quelle lettere, parlasse qualcuno che mi
sta mandando un messaggio.

L'uomo riesce a realizzare pienamente se stesso e la propria umanità quando


si dispone, nei confronti dell'ente, come se l'ente avesse qualcosa da dirgli,
come se portasse in sé un segreto, un messaggio che è un richiamo; è
ascoltando questo richiamo e decifrando questo messaggio che io pervengo
propriamente nella mia essenza; e ascoltare questo messaggio e decifrarlo
significa in qualche modo trovare le parole per dirlo.

GETTATEZZA

Noi siamo gettati, senza la possibilità di sottrarcene, a un rapporto con l'ente


nel quale tutte le potenzialità dell'ente ci sono potenzialmente aperte e
disvelate; e questa cosa non la decidiamo noi ma è inerente all'essere stesso
delle cose.

Se potessimo decidere noi come devono essere gli esseri umani,


probabilmente decideremmo che devono essere buoni; invece noi siamo
gettati in un rapporto con l'ente in cui, anche la possibilità del male, della
malvagità e della cattiveria sono possibilità alle quali siamo aperti e dischiusi.
Se noi vogliamo venire a capo dei problemi, delle sfide, dei pericoli che la
libera estrinsecazione di quest'aspetto dell'umanità dell'uomo ha prodotto
nella storia, dobbiamo riuscire a cogliere nella prassi umana non soltanto
questo suo tratto superficiale, ma in un certo senso il tratto apparentemente
capovolto che ne costituisce il fondamento; cioè noi siamo liberi da ogni
vincolo nei confronti dell'ente, ma la condizione di questa libertà nei confronti
dell'ente ci è data dal vincolo che noi abbiamo nei confronti dell'essere.

OBLIO DELL'ESSERE / SPAESATEZZA

L'oblio dell'essere, e cioè la progressiva storicamente crescente incapacità di


situarsi in maniera adeguata nel rapporto con l'essere, è la chiave della storia
occidentale, e il risultato di questo oblio è una cosa che lui definisce,
riprendendo una parola che era stata usata da Holderlin e Nietzsche, che qui
viene tradotta come "spaesatezza": la spaesatezza diviene un destino
mondiale.
Heidegger lo considera il problema storico-epocale decisivo, la vera chiave
delle guerre mondiali, dell'infelicità diffusa, di tutto il malessere tipico
dell'epoca moderna.
24
Paradossalmente, nel momento in cui il mondo è completamente segnato,
plasmato dall'attività dell'uomo, gli uomini cominciano a sentirsi
profondamente estranei al proprio mondo, ad avere la sensazione che questo
universo che li circonda è essenzialmente qualcosa di opprimente, di estraneo
e di inumano.
Il termine tedesco, letteralmente, non è spaesatezza ma "mancanza di
patria". Il termine patria, in questa locuzione, significa la casa, il luogo di
appartenenza; mancanza di patria quindi vuol dire mancanza di casa, il non
sentirsi a casa propria e non essere a casa propria. L'uomo moderno è spinto
sempre più verso questa mancanza di patria, secondo Heidegger, è diventata
un destino mondiale: tutti ormai siamo privi di patria.

Heidegger scrive questo subito dopo la conclusione della seconda guerra


mondiale. Tutte e due le guerre (principalmente la prima) si sono combattute
in nome della patria. Avere una patria significa avere un rapporto con
qualcosa, con uno spazio nel quale si vive non in modo letterale, ma con una
cultura, una dimensione, ed ha talmente valore per noi che, di fronte alla
minaccia che questa cosa possa essere messa a rischio, rischiare la vita
diventa logico.

La patria di questo abitare storico è la vicinanza all'essere. Noi rischiamo di


trovarci a vivere in un mondo in cui tutto ci è estraneo, senza valore.
Solo ritrovando la capacità di porci in ascolto dell'essere, possiamo sperare di
arrestare o di invertire questo processo, e quindi di ritrovare familiarità e
appartenenza nei confronti del mondo.
Nel momento in cui l'uomo non è più in grado di riconoscere il suo legame con
l'essere in quanto tale, nel momento in cui confonde l'essere con uno dei tanti
enti che gli stanno di fronte, l'uomo si isola, si autocolloca in una posizione di
isolamento nella quale lo spaesamento, la mancanza di patria diventano
inesorabili e inevitabili.

La condizione perché una crisi di questo genere trovi risposta è che di ritrovi
il fatto che, propriamente parlando e fin dal primo momento, l'uomo è legato,
è consegnato non a questo o a quell'ente, non a questa o a quella patria, ma a
quell'orizzonte che è aperto dall'essere stesso.
Non è che sul piano in cui l'uomo è collocato ci sia qualcos'altro di più
importante, me è il piano come tale, il fatto stesso di essere che per noi deve
implicare una sorta di ascolto, di attenzione, di vocazione.

Per Heidegger questo fenomeno della spaesatezza è avvertito da tutti e tutti


propongono soluzioni insufficienti, perché avvertono il problema ma non lo
pensano con radicalità adeguata. L'esempio di Marx è probabilmente il più
facile. Secondo Heidegger, Marx prima di altri e meglio di altri, si è accorto
che l'indice storico delle forme di vita contemporanea è l'alienazione, soltanto
che poi, quando gli si chiede che cosa bisogna fare in risposta all'alienazione,
Marx risponde che l'alienazione è un portato del mondo di produzione
capitalistico e, quindi, bisogna eliminare il fenomeno di produzione
capitalistico.

25
Per Heidegger questa risposta è insufficiente, ed è insufficiente perché il
problema, pur essendo stato avvertito e percepito, viene poi pensato in una
maniera inadeguata.

L'idea di Heidegger è che la spaesatezza, la mancanza di patria chiama in


causa quello che indichiamo con il termine "la condizione umana". Se noi
capiamo questa che spaesatezza, in ultima analisi, è radicata nella condizione
umana come tale, e finché non cogliamo le forme di questo radicamento, non
facciamo un passo avanti, tutte le nostre risposte sono insufficienti.

E-STATICO

L'uomo deve abitare in modo e-statico nella vicinanza dell'essere.


Che significa e-statico? Stare fuori, cioè la vera essenza dell'uomo sta nel fatto
che la sua esistenza consiste nello stare fuori a guardia dell'essere,
nell'occuparsi dell'essere, che è qualcosa di cui avere cura senza passare dalla
mediazione degli enti. Quindi e-sistenza, in questo caso, ha effettivamente la
stessa struttura etimologica che ha "estasi". Noi normalmente, nell'uso del
termine estasi, anche se molti non ci fanno caso, sottolineiamo questo
momento di apertura all'esterno, nel senso che per estasi si intende il
consegnarsi estaticamente, in una maniera quasi confusa, stordita a qualcosa
d'altro. Per esempio: l'estasi mistica è il fatto che si cancella la propria
identità soggettiva, personale e ci si consegna all'unità del creato, all'unità
con il divino. L'insistenza di Heidegger è sempre sulla caratteristica specifica
del modo d'essere dell'uomo, che è quella di essere aperto ed esposto al
mondo e consegnato all'apertura all'essere. La caratteristica dell'esser uomo e
l'essere già sempre gettato nell'esistenza, nel mondo, e gettato nel mondo nel
senso dell'esser aperto all'ente in quanto ente.

STORICITA'

Il modo in cui, nella storia della filosofia, è stato trattato o non trattato il
problema dell'essere.
A parte Parmenide, il primo pensatore per eccellenza, vengono chiamati in
causa Hegel, Nietzsche e Marx.
Inoltre la questione della storicità riguarda il rapporto tra Essere e Esserci in
funzione del rapporto tra spaesamento e essere a casa.

Iniziamo con Hegel. Il problema, per Heidegger, in Hegel è che lui pensa un
sistema e una storia, e che questo sistema realizzi progressivamente tutte le
sue potenzialità nella storia. La storicità per Heidegger non deve essere
pensata nei termini di un miglioramento progressivo, ma deve essere pensata
nei termini di un'intensificazione della domanda.
La cattiva storicità è quella di un pensiero che progressivamente raggiunge
la sua verità dal punto di vista quantitativo.
È come se Parmenide fosse nella verità al 10%, Cartesio al 50%, Rousseau al
70% e Hegel a 100%. Ad un certo punto arriveremmo ad impadronirci
completamente della verità della storia -> per Heidegger non è questo il modo
in cui bisogna pensare la storicità dell'esserci. La storicità è in diretta
relazione con la memoria, con la capacità di ricordarsi sempre più
26
intensamente quale è stato, quale era il rapporto dell'esserci con l'essere, e in
modo tale da farlo avvenire nel seguito della storia.
Mentre la storia della filosofia, la metafisica, pensa la storia come se fosse un
avvicinamento progressivo alla verità (sotto il segno della quantità), per
Heidegger la storia è sotto il segno della qualità, nel senso che bisogna
rimanere sul posto della domanda per cercare di formularla in maniera
sempre migliore.

Da questo punto di vista Hegel si sbaglia, e con lui anche Nietzsche, perché
rimangono sempre all'interno dell'orizzonte della metafisica: Hegel ne
rappresenta il compimento in quanto sistema, Nietzsche ne rappresenta il
compimento nella misura in cui cerca di rovesciare la questione della
metafisica, ma non fa altro che riprendere in termini opposti la stessa
questione di Hegel.
Hegel, Nietzsche e Marx sono altrettanti esempi di quello che, secondo
Heidegger, non si deve fare. C'è però una sostanziale differenza fra questi 3
filosof i perché Marx, a differenza di quanto fanno gli altri due, fa qualcosa di
meglio.
L'aspetto positivo del marxismo sta nel fatto che Marx, a modo suo, al
concetto fondamentale della spaesatezza, mettendola sotto la categoria
dell'alienazione.
In negativo, però, l'ente appare per la prima volta come materiale da lavoro,
materiale destinato essenzialmente ad essere lavorato. In questo modo ci
aiuta a svelare l'essenza della tecnica. L'elemento storicamente opposto al
comunismo è l'americanismo. Nel comunismo, come nell'americanismo, la
vera questione cruciale è la metafisica, cioè l'interpretazione dell'ente in
generale che è implicito nell'uno e nell'altro. Nel comunismo l'ente in generale
è concepito come materia da lavoro, che è l'effettivo precipitato della storia
occidentale. Anche nell'americanismo l'ente in generale è pensato a partire
dalla produttività del lavoro. La spaesatezza è chiaramente una cosa che fa
parte di questo.

L'esistenza americana, di chi per esempio dalla costa est si trasferisce nella
costa ovest per un lavoro migliore, questa specie di nomadismo, è una forma
di spaesatezza nel senso che l'uomo è precipitato in un universo in cui tutto
quello che conta è produrre sempre di più.

Parlare di questo serve per introdurre la buona storicità che è quella di


Heidegger. C'è una frase di Heidegger che dice: l'essere è il destino della
radura. C'è un elemento temporale, cioè ciò che deve avvenire è l'essere in
quanto destinazione della radura. Quello che si deve realizzare è il contatto, la
relazione fra l'essere e l'uomo nella forma specifica dello stare insieme
dell'uomo nella radura dell'essere.
Questo non significa che l'uomo crea l'essere, non c'è un azione da par te
dell'uomo che consiste nel creare una radura che è la radura dell'essere.
L'essere si apre come radura all'uomo nel progetto estatico. Ma questo
progetto non crea l'essere. Il progetto, del resto, è essenzialmente un progetto
gettato.
Nel progettare, chi getta non è l'uomo, ma l'essere stesso, il quale destina
l'uomo nell'e-sistenza dell'esser-ci come sua essenza. Questo destino avviene
27
come radura dell'essere, e come tale radura esso è. Essa (la radura) concede
la vicinanza all'essere. In questa vicinanza, nella radura del "ci", l'uomo abita
come colui che e-siste, senza essere già oggi capace di esperire
espressamente questa dimora e di assumerla.
Il progetto, la "buona" storicità dell'uomo, consiste nell'essere nella radura in
prossimità dell'essere, star "ci", un ci che Heidegger mette tra virgolette.

Dasein è un termine che Heidegger utilizza per definire quell'ente che è


l'uomo. Scrive Dasein, per mettere in evidenza il fatto che la vera essenza
dell'uomo sta nell'essere, nel "ci" dell'essere, cioè sta nella radura in cui si
mostra, in cui appare l'essere. La parola tedesca Dasein in italiano è tradotta
con esser-ci.
Quindi, il destino dell'uomo sta nel realizzare pienamente la vicinanza con
l'essere, nell'essere capace di abitare nella radura dell'essere.

SACRO /ETICA

Quando si parla del sacro e non di Dio, si intende l'apertura strutturalmente


inscritta nel nostro modo di essere al mondo, e quindi quello che potremmo
definire il modo d'essere degli esseri umani, l'apertura strutturalmente
inscritta in qualche cosa come un oltre, un aldilà, un altrove, un infinito.
Perché si dia una risposta effettiva, anche individuale, soggettiva, al problema
di Dio, bisogna innanzitutto avere un'idea di che cosa l'esperienza del sacro è.

Cerchiamo di capire cosa Heidegger ci vuole dire su questo, che ha molto a


che fare con l'etica.

Heidegger riporta un episodio accaduto ad Eraclito: Eraclito sta vicino al


forno, si sta riscaldando, arrivano dei visitatori che vanno alla ricerca del
grande pensatore e si sorprendono nel trovarlo in una attività banale e
quotidiana. I visitatori, delusi, se ne stanno per andare e Eraclito li ferma
dicendo che: "anche qui sono presenti gli dei.".

Heidegger legge questa cosa come il tentativo di Eraclito di cercare di


trasmettere l'idea che, l'orizzonte abituale nel quale noi siamo insediati, in cui
noi esistiamo, è quello dell'esperienza ordinaria (il termine etica viene dalla
parola ethos che significa abitudine) e che il compito del pensiero non consiste
nell'allontanarsi dall'esperienza ordinaria per fare chissà che cosa di
straordinario, ma consiste nel riflettere sull'esperienza ordinaria,
nell'insediarsi, nell'abitare nelle proprie abitudini (la parola abitudini viene da
abitare e il tutto viene da abitus: rivestimento nel quale noi siamo insediati e
collocati).

In questo caso è come se Eraclito gli volesse dire che il pensiero non consiste
nel fuoriuscire dall'ordinario verso l'eccezionale, ma nell'abitare a tal punto
nelle proprie abitudini da esperire la propria abitualità come quello spazio nel
quale, e a partire dal quale, qualcosa di eccezionale, sovrannaturale,
eventualmente si può manifestare. Questo è il nodo della cosa. Si potrebbe
dire che alla fine si tratta di imparare ad abitare in quella dimensione abituale
nella quale siamo consegnati in quanto esseri umani; ed è in vista di questo
28
che ad un certo punto cita Holderlin, che dice: "poeticamente abita l'uomo su
questa terra".

L'idea di Heidegger è che la poesia, e a suo modo anche il pensiero, sono un


tentativo di abitare su questa terra, di riconsiderare la propria appartenenza e
apertura al mondo nel senso dell'orizzonte a partire dal quale soltanto tutte
queste possibilità (quella del divino, del razionale, ecc.) si aprono e si
dischiudono, ma che, però sia l'esperienza del divino, sia quella della
razionalità, se perdono il radicamento in questo terreno, in questa sorta di
mondo della vita, in questa condizione preliminare, diventano qualcosa di
inutile, vacuo, astratto e a quel punto che li chiami valori, che li chiami
disvalori, che lo chiami Dio, che lo chiami assenza di Dio, non fa più nessuna
differenza perché hanno perso completamento significato.
Mettere in chiaro dove siamo e che significa essere al mondo in quanto esseri
umani, è il vero passo decisivo.

IL PROBLEMA DI DIO E DELLA DIVINITA'

Mai come in quell'epoca molti di quelli che venivano da una posizione più
marcatamente vicina alla tradizione religiosa tendevano a dire che, la chiave
della crisi della cultura europea sta nel fatto che si è allontanata dalla
religione, ha accantonato il problema di Dio. Nell'epoca medioevale la
questione della salvezza dell'anima era considerata il primo degli obiettivi,
non solo dei singoli, ma anche un po' di tutta l'organizzazione. Questo nel
mondo moderno non esiste più; c'è stato un processo si secolarizzazione in cui
i valori religiosi si sono andati via via guadagnando una propria esistenza
autonoma. Il problema di Heidegger è dimostrare che, è vero che nella sua
posizione filosofica la questione di Dio si e di Dio no non viene nemmeno
posta, ne in generale può essere posta perché il livello di analisi primario nel
quale lui si muove è tale che questo non avrebbe nemmeno senso; però lui
vuole dimostrare che questa cosa non è un modo di sottrarsi al problema, ma
al contrario è un modo di cominciare a delucidare l'unico fondamento
speculativo sul quale, e a partire dal quale, la questione di Dio, del divino, e
del senso del divino può, in generale, essere posto in maniera plausibile.
Questa dimensione lui la definisce con questo concetto del "sacro" perché,
intanto, sotto il profilo squisitamente antropologico, oggi, qualsiasi teorico
della religione sa che il problema del sacro è preliminare a quello del divino,
nel senso che in tutte le culture esistenti sussiste qualcosa come una
distinzione tra il sacro e il profano, e sussiste qualcosa come un insieme di
pratiche rituali che hanno a che fare con questa distinzione. Questa
distinzione c'è anche in culture in cui non esiste Dio. Per religione si intende
una questione che ha a che fare, in linea di principio, con la distinzione tra
sacro e profano, non con gli dei. L'idea del Dio creatore è una cosa che nasce
nel medio oriente, 5000 anni fa. La questione del sacro è una cosa complessa
e particolare, perché è un fenomeno antropologicamente universale, cioè
esiste in tutte le culture umane, ed è contemporaneamente una cosa che
esiste solo nelle culture umane; è come il linguaggio. Sono quelle cose che fa
solo l'uomo e le fa sempre.

29
Che nesso abbia la dimensione del sacro, e cioè la percezione che il nostro
essere aperti al mondo è, contemporaneamente è sempre, anche il nostro
essere aperti a qualcosa che va al di là, è difficile da capire.

Quindi, prima di qualsiasi discussione sul fatto se Dio esiste o non esiste, ci si
deve chiedere perché gli esseri umani non possono non riferirsi al sacro.

Dobbiamo prima di tutto chiederci com'è fatto l'essere dell'uomo, perché


all'uomo strutturalmente, ontologicamente, insieme al linguaggio e alla
tecnica, competa necessariamente l'apertura al sacro.

NIENTE /NIENTIFICARE

Noi, di fronte all'esistenza del mondo in generale siamo portati a formulare


l'interrogativo: Perché in generale c'è qualcosa piuttosto che un'altra?

Il modo in cui emerge questa tematica della negatività è legata alla questione
dell'etica, nel senso che il problema di fondo dell'etica è quello che, nel
rapporto con l'ente gli esseri umani sono portati a dire di si a qualcosa e di no
a qualcos'altro. Si dice sempre che l'etica e la morale hanno a che fare con il
bene e con il male; ora, bene e male significa si a questo, no a quest'altro.

Quando si parla di un impegno etico si intende dire: io non accetto tutto quello
che c'è semplicemente perché c'è, perché qualcosa di ciò che c'è è bene che ci
sia e quindi a qualcosa dico di si e a qualcos'altro dico di no. Questa necessità
di scegliere era considerato inerente a quella fatidica libertà dell'umanismo
sartriano.

Il punto di vista di Heidegger su questo è molto complicato, nel senso che


quello che lui si sforza di dimostrare è che questa possibilità di dire si e no
all'ente, quindi questa capacità che l'uomo ha di negare, non è l'origine della
negatività e cioè di quella complessità in base alla quale il mio rapporto con il
mondo si organizza, ma è una specie di conseguenza di espressione di livello
secondario di una negatività più originaria, di una nientiftcazione più
originaria che è inerente al rapporto con l'essere.

Già all'epoca veniva criticato per il fatto che si diceva: "in fondo Heidegger
dice che l'uomo deve tenersi in ascolto dell'essere, deve corrispondere
all'essere, deve accettare tutto quello che l'essere gli impone, il che significa
che l'uomo non è in diritto di dire di no a niente." Lui si sforza di dimostrare
che, è vero che c'è il bene e che c'è il male, è vero, cioè, che ogni mondo nel
quale noi siamo gettati comporta, in questa nostra appartenenza al mondo,
l'inevitabilità del dire si e del dire no, ma non perché il nostro dire si e dire no
sia l'elemento fondamentale e fondante di questa complessità, ma perché una
complessità che è inerente alla costituzione del mondo come tale, e quindi, in
ultima analisi, all'essere come tale comporta questo tipo di articolazione.

Quindi, è proprio ascoltando l'essere e affidandoci all'essere compiutamente, e


quindi affidandoci compiutamente alla sua articolazione interna, che noi quasi
inevitabilmente e istintivamente diciamo si a qualcosa e no a qualcos'altro,
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non perché questo sia il frutto del nostro arbitrio. La libertà dell'uomo c'è
proprio perché riposa in questo esser consegnati all'essere, e che quindi
quando più noi ci consegniamo a questa consegna, tanto più sappiamo anche
scegliere perché ci rendiamo conto che questo scegliere è uno scegliere
apparente, perché propriamente parlando noi facciamo quello che dobbiamo
fare.

CONCLUSIONE

Il testo si conclude anche con un invito: "E' tempo di disabituarsi a


sopravvalutare la filosofia e quindi a chiederle troppo." -> l'impotenza del
sapere filosofico ormai tendeva ad emergere.
Quindi è un monito di non sopravvalutare la filosofia, e si sbaglia a pretendere
che la filosofia fornisca le regole di che cosa è giusto e che cosa è sbagliato.
Quello che invece il pensiero, non in quanto filosofia, veramente può fare è
qualcosa di molto poco appariscente, molto sottile, è che però a lungo andare
potrebbe risultare molto più decisivo.

Come si arriva a questo messaggio? Lui si rende conto che, al di là della


formulazione della domande di Beaufret, il vero significato, la vera urgenza
che c'è in queste domande è quella dire: "Che dobbiamo fare? Come dobbiamo
rispondere a questa crisi evidente della cultura europea, che si è tradotta
anche in una specie di guerra civile?" Heidegger era un'europeista, cioè era
uno che era convinto che la cultura era essenzialmente una cultura europea,
non una cultura francese, tedesca; per uno che ragionava in questi termini, in
fondo le due guerre mondiali erano state come due guerre civili.

La questione Heidegger la imposta fin da principio dicendo: "Noi non


pensiamo fino in fondo il problema dell'agire."

Quest'interrogativo si riflette in particolare in una delle domande che Beaufret


solleva, e che Heidegger discute soltanto con la conclusione del libro: "Quello
che io cerco di fare da molto tempo già è precisare il rapporto dell'ontologia
con un etica possibile."

Che si intende qui per etica possibile? Per etica possibile si intende la
possibilità di avere delle direzioni vincolanti per l'agire, per la prassi; quindi di
rispondere in qualche misura a quella che veniva considerata la domanda
etica per eccellenza, e cioè "Che cosa è giusto fare?". Quindi lo scopo di tutta
la lettera è, sulla base dell'interpretazione dell'essere dell'uomo, quindi sulla
base dell'ontologia, cercare di poter individuare delle linee orientative per
l'agire e per la prassi. Quindi un'etica possibile.
Quanto si dice "un'etica possibile", anche se non si parla esplicitamente di
politica, si intende delle direzioni vincolanti per l'agire adeguate a far fronte
alla crisi storica nella quale ci si trova.

È una cosa che Heidegger riprende esplicitamente immediatamente, tanto che


ci racconta che, quando ha scritto "Essere e tempo", che era appunto tutto
impostato sull'interpretazione dell'essere, un giovane collega gli chiese:

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"quando faremo un’etica?", un’etica esistenzialista, perché sembra implicito
che l'ontologia debba costituire il fondamento per l'etica.
Se le cose stanno così, se questo è l'uomo, se questa è l'esistenza autentica e
quest'altra invece è un'esistenza inautentica, allora dovremmo fare così: ci si
aspetta delle indicazioni pratiche.
La posizione di Heidegger sarà, ovviamente, quella di prendere le distanze.
Sembra ovvio che questo debba essere il rapporto fra ontologia ed etica, che
quindi ontologia ed etica sono due cose distinte e separate e che tra queste
due cose, essendo l'etica la cosa decisiva, l'ontologia è il fondamento di quella
cosa lì.

Quindi l'ontologia è importante perché, senza una concezione dell'essere


dell'uomo, non potremmo costruire un'etica, e l'etica è importante perché
vogliamo sapere cosa dobbiamo fare.

La prima osservazione di Heidegger è che questa è una cosa che, di fatto, è


iniziata molto tempo fa; ci si è cominciati a convincere del fatto che il pensiero
si dovesse strutturare così, quando la stagione più grande, più elevata della
cultura filosofica era largamente finita e decaduta. Questo tipo di
organizzazione in discipline separate, cioè qui finisce l'ontologia, qui inizia
l'etica ecc., è una cosa che viene dal pensiero tardo-antico, dopo gli stoici.
Nell'epoca d'oro della filosofia classica non esistevano distinzioni del genere:
la filosofia era una cosa sola che contemporaneamente toccava tutte queste
dimensioni. Addirittura, dice Heidegger, a quell'epoca ancora precedente non
esisteva neanche il termine "filosofia": c'era il pensiero e basta.

Per Heidegger un pensiero come quello originario, come quello arcaico, nel
quale non veniva proprio concepita l'idea che ci fosse un'ontologia, un'etica,
ma c'era soltanto il pensiero come tale, i pensatori riuscivano a cogliere il
senso dell'eticità e dell'ethos in una maniera enormemente più incisiva e con
una facilità, una semplicità e una nettezza che poi dopo non è più stata
raggiunta. Se noi non riusciamo a fare questo passo, se non riusciamo a
ritornare in una prossimità al pensiero come quella degli arcaici antichi, non
concluderemo niente.

Per dimostrare questo vuole innanzitutto far vedere che l'afferramento


concettuale più adeguato del senso dell'ethos sta in questa intuizione antica
che concepisce il pensiero come un'unica cosa, e cita un brevissimo
frammento di Eraclito, fatto di 3 parole, che dice: "Ethos antropho daimon".
Se noi, con la nostra mentalità moderna e senza fare uno sforzo di
modificazione del nostro punto di vista, ci limitiamo a prendere atto di questo
frammento di Eraclito, non riusciamo a prima vista a capire perché dovrebbe
essere così profondo, così incisivo perché, come dice lui stesso, secondo le
traduzioni attualmente accettate dalla filologia, questa frase significa
semplicemente che il carattere è per l'uomo il suo demone.
Ethos, all'epoca di Eraclito, si riteneva che significasse sostanzialmente
"carattere", tant'è vero che le virtù etiche di cui parla Aristotele sono le virtù
del carattere: la generosità, il coraggio. Il carattere è quella cosa di cui
parlano anche gli astrologi, i quali dicono che è una cosa che ci accompagna
dalla nascita. Il carattere, direbbe un astrologo, che definisce quello che è
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volta per volta il modo d'essere del singolo individuo, sia per ogni singolo
individuo la traccia del suo destino. È come se fosse un demone che ci
accompagna, una forza contro la quale siamo impotenti.

Per Heidegger, invece, noi dobbiamo leggere il testo in una maniera più
autentica e più profonda. Per dare un’idea di questo piano più radicale, evoca
l'aneddoto di Eraclito, che ai visitatori dice "Anche qui sono presenti gli dei".
Quello che Eraclito vuole sottolineare è l'importanza di questo tessuto di
esistenza abituale, cioè talmente naturale per noi, che diamo per scontato, per
assodato, che quasi non ci accorgiamo della sua presenza; ragion per cui le
condizioni abituali di esistenza, le forme abituali della nostra esistenza nel
mondo, sono in genere delle cose dalle quali tendiamo a prescindere, come se
fossero irrilevanti. L'idea di Heidegger è che, invece, Eraclito con questo
gesto abbia quasi voluto sottolineare il fatto che, al contrario, la dimensione
del soggiorno abituale nel quale noi siamo collocati, nel quale noi siamo
gettati nel mondo, è una cosa decisiva, fondamentale perché, proprio in
questa dimensione dell'abituale dalla quale si prende le distanze per
rivolgersi a qualche cosa di più eccezionale, di superiore alla media, è
l'unica nella quale qualcosa di straordinario, di divino, di unico, di
trascendente può eventualmente manifestarsi se noi ci collochiamo in
essa nella maniera adeguata.
Questo soggiorno abituale, secondo Heidegger, è quello che è espresso nel
termine ethos.
Il pensiero, in fondo, pensando la condizione nella quale noi siamo inscritti e
collocati, si sforza di rendere possibile l'abitare in questa dimensione.
Questo è qualcosa che avviene innanzitutto nel linguaggio, perché attraverso
e nelle articolazioni del linguaggio che si organizza il senso e il significato di
ciascuna cosa.

Voi ricordate che il problema fondamentale che Heidegger aveva tematizzato


a partire da Nietzsche e da Holderlin era questa questione dello spaesamento,
della mancanza di patria.
Lo spaesamento, la mancanza di patria significa essenzialmente una
fondamentale inabitabilità di un mondo. Uno potrebbe tradurre in una sola
parola tutto quello che abbiamo detto le altre volte sulla mancanza di patria,
dicendo che il dominio della tecnica minaccia di rendere il mondo
strutturalmente inabitabile.
Quanto più forte è la consapevolezza della minaccia che grava sul mondo
contemporaneo di essere diventato un non-mondo, un non-luogo, un luogo
cioè non abitabile, tanto più forte è la convinzione che soltanto attraverso
operazioni di pensiero o di linguaggio di questo genere, questo tipo di
minaccia può essere in qualche modo fronteggiata.

Tant'è vero che, a conferma di questo proprio Holderlin che prima di chiunque
altro aveva percepito la minaccia dello spaesamento e della non-abitabilità del
mondo moderno, scrive (pag. 96): "Pieno di merito, ma poeticamente abita
l'uomo su questa terra."
L'idea di Heidegger è che in questa frase Holderlin faccia quasi qualcosa di
simile a quello che fa Eraclito: riesce in un lampo a cogliere la chiave di quello
che è qui in questione. Cioè, "pieno di merito" perché l'uomo costruisce il
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proprio ambiente in mille forme, però è poeticamente che l'uomo abita su
questa terra.
L'idea di Heidegger e di Holderlin è che al pensiero e alla poesia competa,
prima e più che a chiunque altro, il compito di rovesciare questa inabitabilità,
sforzandosi di pensare l'abitualità del mondo, cioè di renderci capaci di
percepire tutte le articolazioni, tutta la complessità del mondo nel quale siamo
collocati e iscritti.
Se noi riusciamo a pensare e concepire tutte le articolazioni del mondo nel
quale siamo collocati, ne capiamo anche le sfaccettature nel senso del positivo
e del negativo.

L'essere si manifesta in una maniera tanto più autentica, o


inautentica, a seconda di quanto siamo in grado di portarne al
linguaggio le articolazioni e le venature autentiche; questa capacità di
portarne al linguaggio le venature autentiche e non velarne
l'autenticità con una rete opaca di classiftcazioni e di distinzioni, come
quella tra ontologia e etica, è il compito del pensiero.

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