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Umano, non umano, transumano, post-umano.

Riflessioni antropologiche

La specie umana non si è probabilmente “evoluta” fisicamente in misura apprezzabile negli ultimi 200.000 anni, da quando l’homo sapiens uscì dall’Africa per riempire i cinque Continenti. Ciò che si è “evoluto” invece è la
cultura umana. Dall’età della pietra fino alla società globale di internet e nonostante gli arresti accaduti in alcune epoche storiche, la cultura è andata sviluppandosi fino al momento attuale in cui le scoperte e le ultime novità tecnologiche
vengono diffuse contemporaneamente per tutto il pianeta.
Tuttavia, l’evoluzione culturale attuale non si riduce alla diffusione tecnologica o ad una mentalità globale, ma soprattutto alla creazione di processi tecnoscientifici che potrebbero influire sulla stessa evoluzione della specie
umana, dando luogo a trasformazioni non solo culturali, ma anche fisiche (genetiche, organiche e cerebrali) che, a loro volta, possono modificare la stessa immagine dell’umano.
Quali sono questi processi? Possono essere ritenuti veramente umani? Per quale motivo la cultura ha preso le retine dell’ominazione? Come essa può influire sull’immagine dell’umano? Queste sono alcune delle domande cui
tenterò di rispondere in questo breve scritto. Prima, però, bisogna parlare della trasformazione culturale per antonomasia, che segna il passaggio dalla tecnica classica a quella moderna, l’avvento cioè della tecnologia.

1. Tecnica e tecnologia

Uno dei primi a capire la portata del passaggio dalla tecnica classica alla tecnica moderna o tecnologia è stato Heidegger, il quale per prima cosa corregge il significato neutro dal punto di vista teoretico e pratico che fino allora
si era dato alla tecnica, per mostrare invece il suo carattere eminentemente metafisico. Come egli scrive nel saggio Die Frage nach der Technik, la tecnica non è indifferente all’Essere. Infatti, oltre a non dipendere dall’uso che se ne fa 1, essa
disvela l’essere nel modo della pro-duzione, ossia del far avvenire oggetti e strumenti e, in generale, tutto ciò che è artificiale 2.
Ciò nonostante, la tecnica moderna non si dispiega in un pro-durre nel senso della poiêsis aristotelica, ma piuttosto in una pro-vocazione (Herausfordern) o in-posizione degli scopi della ragione strumentale, che trasforma la
totalità dei mezzi in una catena senza fine. Infatti, come nota Heidegger, attraverso l’in-posizione tecnologica, l’energia nascosta nella natura viene messa allo scoperto, verificandosi un processo di retro-alimentazione senza un fine ultimo:
ciò che è scoperto viene trasformato, ciò che è trasformato viene immagazzinato, ciò che è immagazzinato viene distribuito, e ciò che è distribuito diviene oggetto di nuove trasformazioni.
Secondo il pensatore tedesco, il massimo pericolo della tecnica moderna deriva proprio dal carattere direttivo dell’in-posizione, giacché questa può imporsi all’essere come il suo destino. Tale pericolo ci si mostra sotto due
punti di vista. In primo luogo, riguarda i rapporti dell’uomo con se stesso e con tutto quanto esiste. Infatti, ciò che è stato disvelato non si presenta più all’uomo neppure come oggetto, ma soltanto come fondo, e, in assenza di oggetti, l’uomo
diventa solo colui che impiega il fondo. Allora, secondo Heidegger, «l’uomo cammina sull’orlo estremo del precipizio, cioè là dove egli stesso può essere preso solo come “fondo”. E tuttavia proprio quando è sotto questa minaccia l’uomo si
veste orgogliosamente della figura di signore della terra. Così si viene diffondendo l’apparenza che tutto ciò che si incontra sussista solo in quanto è un prodotto dell’uomo. Questa apparenza fa maturare un’ulteriore ingannevole illusione. È
l’illusione per la quale sembra che l’uomo, dovunque, non incontri più altro che se stesso» 3.
In secondo luogo, l’in-posizione mette in pericolo la stessa possibilità dell’apparire dell’essere, perché essa riduce il disvelamento all’impiegare; infatti, dove regna l’in-posizione si esclude ogni altra possibilità del disvelare 4
sia nei confronti della natura sia nei confronti dell’uomo. Heidegger sembra avvertire il pericolo che l’uomo diventi alla fine qualcosa di molto vicino a un fondo disponibile: «poiché l’uomo è la materia prima più importante, ci si può
aspettare che, sulla base delle attuali ricerche della chimica, un giorno si possano creare fabbriche per la produzione artificiale di materiale umano» 5.
Purtroppo le paure del pensatore tedesco si sono avverate: l’uso degli embrioni umani per la cura di diverse malattie o per la produzione di cosmetici, parla chiaramente della trasformazione dell’uomo in fondo disponibile.
Oggi abbiamo la prova che il pericolo era maggiore di quanto egli temesse, poiché l’uso dell’uomo implica non solo la modificazione tecnica della vita umana, ma anche lo stesso modo di considerarla in una specie di circolo ermeneutico
perverso: la vita umana diventa fondo, per cui non può essere già compresa se non attraverso la tecnica, cioè nell’orizzonte di ciò che è disponibile.
Da dove proviene questa visione della tecnica come im-posizione? Secondo Severino, dal cristianesimo. Nella tesi di Severino, oltre al pensiero di Heidegger, si trovano le idee di Nietzsche sul nichilismo e la volontà di potere.
A parere di Severino, il dio cristiano è il primo tecno-nichilista perché crea dal nulla. Perciò, il cristianesimo introdurrebbe nella filosofia e nella tecnica il nulla e, con esso, la volontà di potenza.
Gallimberti sviluppa la tesi di Severino. Nel suo saggio La casa di psiche, soprattutto nella sezione dal titolo “la concezione giudaico-cristiana della natura come terra da dominare”, spiega che, con la creazione, Dio ha
completamente rimesso la natura nelle mani dell’uomo, il quale ne dispone a piacimento: «così concepita la natura non è più, come pensavano i Greci, espressione dell’ordine immutabile della necessità, ma dominio di una volontà…» 6.
È vero che la tecnica nell’epoca classica non ha questa inclinazione propria della tecnica moderna e contemporanea alla hybris, ossia allo sfrenato desiderio di potere che porta a sfidare la natura. Ciò, però, non solo perché, per
volere divino, la natura è l’ambito del dominio umano, ma soprattutto perché la natura non è più divina e, quindi, la sua trasformazione non porta con sé una punizione sicura.
Dunque, anche se — come ho spiegato in un’altra sede — il cristianesimo influisce sul cambio di paradigma dell’azione e di conseguenza della tecnica, la storia della deriva nichilista della tecnica moderna è, però, più
complessa. Essa si trova soprattutto nel modo di concepire la volontà divina. Infatti, soprattutto con il nominalismo di Ockan, la volontà divina, proprio in ragione della sua Onnipotenza, diventa completamente arbitraria. Anche se nel creare
il mondo Dio ha sicuramente avuto uno scopo, non potremo mai conoscerlo perché esso dipende dal suo libero arbitrio. Per cui, non potremo mai sapere qual è il fine delle cose che esistono. Con la scomparsa della causa finale, la natura
appare come fondo assolutamente disponibile, soprattutto se, come accade ad esempio in Cartesio, la volontà libera è la sola immagine di Dio nell’uomo. Per tanto, a somiglianza dell’agire divino, l’agire umano non dovrà più tener conto di
possibili fini, ma li creerà ex novo; i fini non saranno più naturali, bensì razionali, propri cioè di una ragione strumentale. Così l’aspetto simbolico e umano della natura viene sostituito da quello utilitaristico.

2. Dall’Umanesimo al post-umanesimo passando dal trans-umanesimo

Se nell’Umanesimo rinascimentale c’è ancora una natura riconoscibile, soprattutto attraverso il suo aspetto simbolico, espresso nei miti classici e nei significati che artisti e pensatori scoprono nella realtà, essa scompare
totalmente nell’umanesimo illustrato, il quale considera la natura priva di qualsiasi significato proprio. Ad ogni modo, sia in un umanesimo sia nell’altro si dà un antropocentrismo, da cui provengono una serie di caratteristiche che
accompagnano la cultura moderna e postmoderna: «l’idea metrico-sussuntiva dell’umanesimo e la concezione autarchica, autopoietica, autoreferenziale e prima di tutto emancipativa e disgiuntiva del destino dell’essere umano» 7. 
Il primo a svuotare la natura da qualsiasi significato oltre a quello della pura estensione, è stato Cartesio quando separa il pensiero, io o autocoscienza (ossia la libertà) dal corpo, materia o estensione (ossia la natura); la natura
appare così come qualcosa di morto, interamente a disposizione del soggetto pensante che impone ad essa i suoi propri scopi. Perciò, Cartesio è il ponte fra l’umanesimo rinascimentale e quello illustrato, ovverosia fra la natura come
manifestazione dell’uomo, della sua perfezione e grandezza, e «la descrizione umanistica della natura, come entità passiva da misurare, […] funzionale alla presenza del trascendente che misura stando al di fuori» 8. Ciò permette a Cartesio di
progettare una scienza universale o mathesis, capace di dare significato razionale alla totalità del reale in vista alla sua trasformazione e al suo utilizzo. Con la sua dottrina della separazione delle sostanze, la Metafisica passa ad essere il
fondamento di questo progetto mentre la Fisica lo è dei cambiamenti che si possono realizzare nel corpo e nella natura. D’altro canto, ci sono le scienze pratiche, come la Medicina, che si occupa di vincere la malattia fino a debellare la
morte, la Tecnica di migliorare le condizioni della vita umana su questa terra, e la Morale di dominare le proprie passioni che si oppongono alla pace e alla felicità. Nonostante la matematizzazione della natura, essa conta ancora in Cartesio
su un certo simbolismo, sebbene inteso meccanicisticamente: gli animali sono automi, il corpo è un orologio... Tuttavia, questo simbolismo, per quanto ridotto possa essere, permette una relazione d’identificazione fra le due sostanze, anche
se unicamente a livello metaforico.
L’umanesimo illustrato cancella questo resto minimo di simbolismo irrigidendo le opposizioni all’interno del reale, come quella fra naturale/artificiale, razionale/irrazionale, fine/mezzo, che danno luogo a delle identità fisse,
identificabili e re-identificabili in ogni contesto possibile. In questo senso, Kant può essere considerato il finale della parabola antropocentrica iniziata da Cartesio. Infatti, non solo il regno della natura ha delle leggi e proprietà differenti a
quello della libertà, ma solo quest’ultima è capace di essere fine in se stessa, ovverosia ha un significato originario. Tutti gli altri esseri, compresi gli animali e quindi anche il corpo umano, possono perciò essere usati come mezzi.
Mediante la dialettica, Hegel tenta di superare le opposizioni negandole: non dall’interno, cioè riconoscendo che sono differenze armonizzate o da armonizzare, bensì dall’esterno per mezzo della possibilità logica di negare le
stesse negazioni dell’opposizione. Infatti, la sintesi hegeliana permette di conservare i termini dell’opposizione in un’unità di grado superiore. Ad esempio, nel tema della tecnica che ci occupa, la natura e l’uomo acquisiscono la sua sintesi
nello strumento, mediante il quale la natura si trasforma in espressione oggettiva dello spirito umano.
Con il crollo della filosofia hegeliana dell’identità inglobante e in generale delle ideologie umanistiche e utopiche di diverso conio, l’umanesimo ricevette un colpo mortale. Così si venne a creare una molteplicità di correnti
intellettuali: ecologismo, animalismo, ambientalismo, anti-specismo e transumanesimo.
Mentre le prime (ecologismo, animalismo, ambientalismo, anti-specismo) mantengono le opposizioni illustrate parteggiando adesso per la natura e contro la specie umana causante di tutti i mali del pianetta, il transumanesimo
tenta di evitare le opposizioni conflittuali distruggendo dall’interno i limiti fra le stesse categorie: vivente/non vivente, animale/uomo, intelligenza artificiale/intelligenza umana, etc. Le transizioni fra le categorie appaiono allora non più
come sintesi logiche, bensì come contaminazioni del reale.
Da dove proviene questa tendenza anticategoriale, propria del transumanismo? Per rispondere alla domanda, si deve partire dall’origine del termine.
È stato Julien Huxley chi ha coniato la parola “transumanismo” per parlare di un mondo futuro in cui, al posto delle opposizioni fra gli esseri, avremmo una continua ibridazione dell’umano. Così, dall’ambito della fantascienza
questo termine è passato alla tecnologia e alla scienza, per fare riferimento alle scoperte e progetti scientifici che permetteranno di superare i limiti dell’umano come li conosciamo oggi. 
In quanto movimento globale, il transumanesimo si è sviluppato a Silicon Valley, grazie al finanziamento di imprese come Google, il cui scopo è costruire un «uomo aumentato» nelle sue capacità. Ciò dovrebbe essere reso
possibile dall’ipotesi della cosiddetta «grande convergenza», nota come NBIC (acronimo di Nanotecnologie, Biotecnologie, Informatics e Cognitive science). Mediante la collaborazione di queste scienze si progettano dei cambiamenti nella
genetica e nella psiche umane, mentre si sviluppano e migliorano delle qualità già possedute, come la memoria, l’immaginazione e la capacità di calcolare. Forse il simbolo di questo progetto sia il cyborg, ossia un ibrido di cibernetica e
organismo, che appartiene tanto alla realtà sociale quanto alla finzione e da cui scompaiono le dualità finora conosciute: realità/finzione, animale/uomo, maschio/femmina, organismo/macchina, umano/non umano 9. Il transumanismo prepara
così l’avvento di un nuovo uomo, che perciò è chiamato da alcuni post-umano.
Agli occhi dei postumanisti, la tecnologia, più che la scienza, distrugge l’idea di una natura immutabile dell’uomo. Infatti, si è passato da una tecnica legata all’utensile e alla protesi esterna e meccanica (la ruota, la lancia, gli
occhiali, l’arto artificiale) a quella collegata al corpo a livello organico e nervoso ed elettronico (la mano bionica e i differenti tipi di biohacker, come la Northstar che è un impianto che permette di controllare tutti gli apparecchi di cui si
dispone con un semplice movimento della mano). Tutto ciò rende evidente come l’essere umano sia malleabile e, apparentemente, capace di essere modificato a piacimento.
Con la condizione umana si trasforma anche il significato della tecnica, facendo emergere una nuova immagine dell’uomo come realtà di cui non si possono conoscere i limiti in anticipo. La tecnologia dà luogo così a un nuovo
processo cibernetico. L’umano crea il plesso scienza-tecnica, il quale dà luogo al post-umano e, questo, a sua volta, lasciandosi contaminare dai prodotti della tecnica, produce continuamente nuove versioni dell’antica specie umane, come il
cyborg. Il post-umanos è una nuova realtà e anche un’agenzia di coppie uomo-macchina di vario genere, che di fatto costituiscono un nuovo plesso: scienza-tecnologia-cyborg.
Insomma, nel post-umano cambia l’immagine che l’uomo ha di se stesso: della sua base biologica e corporea e, soprattutto, della coscienza di sé. Cambia il modo di capire nozioni centrali dell’esperienza umana, come la
generazione, la produzione, la nascita, la malattia, l’invecchiamento e la morte. Il posto dell’uomo nel cosmo — per rifarsi al titolo del celebre libro di Scheler — non è più fra la natura e lo spirito. Un’ampia gamma di possibilità sono
apparse da allora con le quali l’uomo deve fare i conti: da una parte gli animali superiori sono più vicini agli esseri umani di quanto non si sia pensato in passato e il codice genetico umano sembra essere anche più compatibile con quello
delle altre specie permettendo di raggiungere in laboratorio un certo grado d’ibridazione, dall’altra le macchine non sono più stupide ma in molti casi hanno un’intelligenza artificiale che supera la capacità calcolatrice della mente umana,
soprattutto per quanto riguarda la complessità e la velocità delle operazioni.

2. Critiche al transumanesimo e al postumanesimo

Anche se la denuncia del rischio di derive antiumane del transumanesimo e postumanesimo è relativamente recente 10, le critiche al modello tecnologico che è alla loro base sono più antiche e si rifanno alla fenomenologia:
all’opera di Heidegger e dei suoi discepoli, in particolare di Hans Jonas. Tuttavia, la scoperta di aspetti negativi nella tecnologia non solo proviene da questa tradizione filosofica, ma anche da altre tradizioni, come il neokantismo della
Scuola di Francoforte, il pensiero liberale americano o il neotomismo. Così fra i filosofi attuali che combattono il carattere disumano del sistema tecnoscientifico ci sono Habermas, Fukuyama e Possenti, i quali appartengono a culture,
credenze e orientamenti politici che si oppongono in tanti punti.

1
Infatti, secondo Heidegger, «l’apprestare e usare mezzi, apparecchi e macchine, e vi appartengono anche questi apparati e strumenti, come pure i bisogni e i fini a cui essi servono» (M. HEIDEGGER, La questione della tecnica, in Saggi e
discorsi, Mursia, Milano 1985, p. 5).
2
In parole di Heidegger: «il disvelamento che regge la tecnica moderna è una provocazione attraverso la quale la natura si vede costretta a cedere un’energia che possa essere estratta e accumulata» (M. HEIDEGGER, La questione della
tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1985, p. 5).
3
Ibid., p. 21.
4
Secondo Heidegger, «l’im-posizione nasconde quel disvelamento che, nel senso della poiêsis, fa-av-venire nell’apparire ciò che è presente. In confronto a questo, l’impiego pro-vocante (das herausfordernde Stellen) spinge nel rapporto
inverso e opposto verso ciò che è. Là dove si dispiega e domina l’im-posizione, ogni disvelamento è improntato nel segno della direzione e della assicurazione di “fondo”. Queste, anzi, non lasciano nemmeno più apparire quello che è il loro
tratto fondamentale specifico, cioè appunto questo atto del disvelare» (ibid.).
5
M. HEIDEGGER, Oltrepassamento della metafisica, o.c., p. 62.
6
Cfr. U. Galimberti, Feltrinelli, Milano 2005, p. 376 e ss.
7
Intervista Caffo e Roberto Marchesini, Così parlò il postumano, p. 26.
8
Intervista Caffo e Roberto Marchesini, Così parlò il postumano, p. 43.
9
«The cyborg is a kind of disassembled and reassembled, postmodern collective and personal self. This is the self feminists must code. It means both building and destroying machines, identities, categories, relationships, space stories.
Though both are bound in the spiral dance, I would rather be a cyborg than a goddess» (Donna Haraway, A Cyborg Manifesto: Science, Technology, and Socialist-Feminism in the Late Twentieth Century, in Simians, Cyborgs and Women:
The Reinvention of Nature, Routledge, New York 1991, pp.149-181).
10
La vie vivante di Jean-Claude Guillebaud (2011)
La base della critica di Habermas alla biotecnologia post-umana è il progetto illuministico che egli considera ancora da completarsi, specie per quanto riguarda l’uguaglianza giuridica e politica di tutti i cittadini. Secondo il
pensatore della Scuola di Francoforte, quest’uguaglianza, che si fonda sulla condivisione di una stessa identità umana, sul rispetto della dignità della persona e sulla responsabilità verso se stessi e gli altri, costituisce la struttura stessa della
civiltà occidentale. Di contro, la disuguaglianza dal punto di vista dell’identità o del rispetto della persona rappresentano un grave pericolo nei confronti dell’umano, prima ancora che della società civile. Habermas vede comparire lo spettro
della disuguaglianza, assieme a quello della distruzione dell’umano, nella manipolazione eugenetica degli embrioni, per migliorarne cioè determinate qualità fisiche e psichiche. Poiché, da una parte, l’insieme dei processi tecnobiologici con
cui si vuole agire sul genoma umano, oltre a produrre cambiamenti strutturali negli individui, modifica anche la stessa compressione dell’umano; dall’altra, la possibilità che i genitori hanno di scegliere per i loro figli determinate qualità
fisiche e mentali implica una disuguaglianza in ambito relazionale: i genitori possono far valere le loro preferenze nei confronti dei futuri figli, riducendo in questo modo lo spazio della loro autonomia.
Insomma, Habermas vede il rischio di compromettere le relazioni idealmente simmetriche fra persone libere e uguali, che caratterizzano i regimi delle democrazie occidentali 11. Certamente, anche se la programmazione
genetica dei figli non impedisce a questi di partecipare in una comunità di soggetti razionali, modifica l’uguaglianza nell’accesso ad essa, poiché le proprietà di cui i soggetti manipolati geneticamente dispongono, dipendono dalla scelta di un
altro. Perciò, sebbene egli non sia contrario all’uso della tecnologia genetica, egli condanna ciò che chiama una eugenetica liberale 12.
Penso, però, che la critica all’eugenetica non dovrebbe rivolgersi solo al liberalismo, bensì ad ogni sistema che si rifiuta di accettare l’esistenza di una natura umana. È quanto sostiene, ad esempio, Fukuyama nel suo libro Our
Posthuman Future. Consequences of the Biotechnology Revolution13. Infatti, nella sua analisi del postumano, egli va più in profondità del filosofo tedesco poiché considera che per poter usare bene la biotecnologia bisogna riconoscere la
dignità della natura umana.
Quale è il concetto di natura umana che Fukuyama ha? È in grado di spiegare gli aspetti negativi dell’uso di alcune biotecnologie? Secondo Possenti, no, perché l’idea di natura umana in Fukuyama si riconduce ad una
sommatoria di fattori — certo notevoli — ma che nella loro molteplicità e dispersione non sembrano in grado di designare l’essenza/natura. Così, accanto a proprietà essenziale come il linguaggio, la razionalità, il senso morale, Fukuyama
includerebbe proprietà accidentali come la statura, il peso, il colore della pelle, la maggiore o minore loquacità. Ma se non si considera l’essenza immutabile —sostiene Possenti— non è possibile indicare quali cambiamenti sono leciti o
meno.
È vero che, come indica Possenti, alcuni testi di Fukuyama danno adito all’interpretazione della natura come somma di proprietà, come quando scrive: «la definizione di ‘natura umana’ cui farò riferimento in queste pagine è la
seguente: la natura è la somma delle caratteristiche e dei comportamenti tipici della specie umana, originatesi da fattori genetici piuttosto che ambientali» 14. Ciò nonostante, credo che la critica di Possenti manchi il bersaglio perché, nel
parlare della natura, Fukuyama si riferisce spesso ad un X che permetterebbe di distinguere la persona da tutti gli altri esseri. Certamente questo X non viene definito, perché secondo Fukuyama non corrisponde a nessuna qualità in
particolare ma all’insieme, il quale non è la somma delle proprietà, bensì una nuova realtà emergente. Perciò pensa che la modifica di qualsiasi proprietà può trasformare la natura umana. Forse è questa la differenza più importante fra
Fukuyama e Possenti. Tutti e due parlano di natura umana, ma per il primo essa è mutabile in quanto dipende dalle proprietà, per il secondo è immutabile perché non dipende dalle proprietà, bensì è proprio il contrario: le proprietà dipendono
dalla natura15. Secondo Possenti, se l’uomo è un essere dotato di logos (ragione e linguaggio), se è un animal rationale, egli avrà queste qualità essenziali sempre; per cui è del tutto impossibile trasformare l’uomo. Insomma, per Possenti, che
le essenze siano eterne e immutabili significa esattamente l’impossibilità di modificarle; la domanda sulla natura umana verrebbe, quindi, ridimensionata: che cosa nel soggetto umano è aperto alla trasformazione biotecnologica?16
Penso che Fukuyama abbia un concetto di natura umana più realistico, poiché le proprietà di cui parla, oltre ad essere essenziali, sono sistemiche, cioè dipendono dalla relazione fra di loro. Ed è proprio questa relazione
sistemica a costituire la natura umana. Ad esempio, le proprietà che costituiscono la natura umana, come la coscienza, il linguaggio, l’amore e la cultura si trovano in una relazione così stretta, che non esistono indipendentemente. Perciò,
anche se alcuni animali possiedono alcune di queste proprietà, come la coscienza o il linguaggio, queste proprietà sono differenti poiché non sono legate sistemicamente alle altre proprietà umane. Quindi, «non è sufficiente argomentare che
altri animali sono consci, o hanno cultura, o linguaggio, poiché la loro coscienza non combina la ragione umana, il linguaggio umano, la scelta morale e le emozioni umane in modo da poter produrre la politica umana, l’arte umana e la
religione umana». Ne deriva che, nel modificare una di queste proprietà, si trasforma tutta la natura umana. Ciò spiega perché, secondo Fukuyama, con il postumanesimo, ciò che in gioco non è semplicemente una questione etica, ma
metafisica; infatti, le tecniche biologiche non solo sono lecite o meno, ma possono anche modificare la stessa natura umana (la sua origine, il suo sviluppo, la sua fine). Ad esempio, non sappiamo come la fecondazione in vitro, l’utero
artificiale e anche la soppressione completa di emozioni negative può modificare la natura umana, come anche l’immagine che abbiamo dell’uomo.
Di fronte a coloro che rifiutano qualsiasi tipo di limite fra naturale e non naturale o a quelli come Possenti che li pensano in modo rigido e immutabile, Fukuyama offre un concetto di natura, emergentista 17, in linea con
l’evoluzionismo, il quale rifiuta l’idea di natura come qualcosa di stabile. In questo modo fa capire due errori dei difensori del postumanesimo: che sia necessario essere credente in una qualche religione per accettare che non tutto ciò che è
tecnicamente possibile debba essere fatto; in secondo luogo, che l’agire umano sia arbitrario; infatti, poiché l’agire deve fare i conti con la natura umana, esso ha dei fini e dei limiti 18. Insomma, la natura umana ha una serie di proprietà, che
si devono mantenere se non vogliamo disumanizzarla. Per quale motivo? La risposta di Fukuyama è chiara: per proteggere l'intera gamma della nostra complessa ed evoluta natura contro i tentativi di automodifica. Modificare la natura
umana significa modificare l'unità e la continuità della natura umana e, dunque, i diritti che si basano su di essa.
Oltre alle critiche di Possenti contro Fukuyama, ce ne sono quelle degli autori postumanisti. Alcuni lo criticano perché egli accetterebbe il mito fissista della natura. Secondo questi autori, Fukuyama vorrebbe trasformare la
natura umana in un oggetto sacro da esibire in un museo, mentre loro vorrebbero permettere alla natura umana di proseguire il suo cammino evolutivo, favorendola mediante le tecniche biologiche a disposizione. Sempre secondo gli stessi
autori, la tecnologia, come qualsiasi altra realtà, si trova al servizio dell’evoluzione che va dall’animale al cyborg (l’individuo eterno, senza bisogno di riproduzione, perché ha sconfitto la malattia e la morte), passando per l’uomo mortale
che oggi conosciamo. Fukuyama risponde ad essi sostenendo che, sebbene talvolta potrebbe sembrare più umano agire in vista di una società perfetta, una specie di paradiso terrestre, le tragiche smentite della storia ci richiamano alla realtà:
l’utopia si trasforma facilmente in distopia, e il finale felice in un incubo senza fine. Se togliamo dall’esistenza la generazione, la sofferenza e la morte, il tipo di vita che risulta non è più umano.
Ci sono, però, altri postumanisti che accettano l’esistenza dell’umano, anche se non lo considerano una natura. Per loro, l’umano non è qualcosa di genetico e meno ancora di culturale, ma di trascendentale; non in senso
religioso, ma specifico. L’umano sarebbe ibrido dalle sue origini perché capace di dialogare con esseri eterospecifici, in modo particolare con altri animali. A partire da quest’ibridazione sarebbe possibile pensare un futuro in cui, al posto
dell’utopia, ci sarà l’eutopia (un luogo buono per l’umano), «che non è cura dell’esistente ma realizzazione del possibile partendo dall’esistente. L’eutopia non è preservazionismo ma il rendere possibile ovvero il liberare le energie che sono
presenti nell’isola-che-c’è ma vengono impedite nell’espressione »19. Perciò, sempre secondo questi postumanisti, la critica più azzeccata a Fukuyama non sarebbe accusarlo di difendere l’umano, ma un umano che continua ad essere
antropocentrico, in quanto esclude da sé il riferimento dialogico agli altri. Perciò, il vero postumanesimo sarebbe un «processo di decentramento dalla prospettiva antropocentrata, da quell’anthropos filogenetico che ne stabilisce il dettato
espressivo»20.
Ecco, allora, alcune delle domande antropologiche poste dal trans-umanesimo e dal post-umanesimo: come pensare un’antropologia che sia capace di spiegare questi cambiamenti? Come comprendere antropologicamente la
tecnologia? Che rapporto c’è tra l’umano e il tecnologico? Come vivere la propria condizione umana nell’epoca della tecnologia?

3. Origine e destino dell’umano

Forse, per dare una risposta, si dovrebbe partire dalla tesi secondo cui l’identità umana non è solo biologica ma anche culturale. Infatti, da una parte, la mancanza di specificazione del corpo umano (andatura bipede, liberazione
delle mani dalla locomozione, liberazione da istinti rigidi, possesso di organi fonatori, corteccia cerebrale molto sviluppata) fa sì che l’indagine biologica non sia sufficiente per determinare l’identità umana e il suo agire; dall’altra, le stesse
proprietà essenziali dell’homo sapiens (capacità di camminare, di usare strumenti, di parlare, di scegliere) hanno sempre bisogno della cultura per attualizzarsi.
L’identità dell’umano rinvia, dunque, a due processi: l’ominazione, o evoluzione biologica del corpo umano, che può essere concepito come un processo di unificazione tendente all’universalismo della specie; e
l’umanizzazione, o evoluzione culturale, che può essere concepito come un processo tendente alla creazione di differenti attualizzazioni dell’umano e alla personalizzazione. 
Adesso, però, nei transumanisti, i due processi si confondono, poiché lo scopo che loro perseguono non è l’universalismo della specie, bensì la sua differenziazione in una molteplicità di nuove specie. Infatti, i mutamenti dei
processi biologici, organici e funzionali causati dall’agire umano nel suo intersecarsi con la tecnoscienza sembrano portare oggi ad una diversificazione no delle culture o delle persone ma della stessa specie umana, fino a pretendere di creare
nuove varianti dell’umano.  Così facendo, i transumanisti sprigionano delle possibilità nascoste nel processo di ominazione, che per miglia di anni si è conservato essenzialmente inalterabile in quanto lasciato alla sola trasmissione genetica.
Nel desiderio dei transumanisti di modificare la specie umana si può trovare, nonostante le loro critiche contro la sociobiologia gehleniana, un’ecco di alcune tesi di questo autore, in particolare la sua concezione dell’uomo come essere
mancante (Mängelwesen). La sua limitata specializzazione sarebbe compensata dall’aumento del cervello soprattutto della corteccia cerebrale e dalla produzione di strumenti, tecnica, cultura e istituzioni. La differenza con Gehlen, consiste
nel fatto che i transumanisti rifiutano la distinzione fra biologia e tecnoscienza, per cui, invece di parlare di compensazione, parlano di enhacement o rinforzo genetico, organico e funzionale. Insomma, i transumanisti concepiscono la specie
umana come il tentativo continuo da parte dell’uomo di uscire dalla propria condizione di povertà filogenetica in una specie di utopia continua. La realtà umana è allora fondamentalmente plastica, un progetto dell’immaginazione sempre da
rivedere, sottomessa a un cambiamento senza limiti, in cui si intrecciano diversi poteri: il mercato, la tecnoscienza e la politica.
D’altro canto, di fronte ai transumanisti, i postumanisti non pensano di sostituire la specie umana con una serie di varianti più perfette, ma piuttosto di mettere in questione la stessa concezione d’identità umana, perché —
secondo alcuni di loro — essa non ha più alcun senso. Da questa prospettiva, il postumano non obbedisce più a un programma né ha un’immagine utopica di ciò che vorrebbe o del futuro. Il postumano non ha volto. E non lo ha per due
motivi: perché non si è più in grado di prevedere gli effetti che la tecnoscienza avrà sulla specie umana, e perché nelle trasformazioni dell’umano manca qualsiasi tipo di telos21.
La domanda allora è questa: si può ancora parlare d’identità dell’umano? In caso affermativo, come deve agirsi nei suoi confronti?
Anche se come ho indicato a più riprese esiste un’identità dell’umano che non solo è specifica ma anche culturale e personale, è evidente che essa può essere modificata anche essenzialmente. Quindi l’umano non ha un’identità
immutabile. Ed ecco, il paradosso che abbiamo trovato spesso in questo saggio: l’uomo agendo (umanamente) può diventare disumano. C’è bisogno, perciò, d’indicare nei possibili cambiamenti causati dall’uso delle tecnoscienze quelle
trasformazioni che sono disumane. Qualcuno potrebbe obiettare che custodire l’umano impedendo i cambiamenti essenziali, nascerebbe dal timore atavico al mostro o all’ibrido oppure da sottovalutare i benefici per gli individui, soprattutto
per quelli delle future generazioni. 
Penso, invece, che il principale motivo per opporsi al transumano e al postumano non sia la paura della hybris, bensì la consapevolezza che le possibili trasformazioni della specie debbano sempre tener conto dei principi
essenziali dell’umano, nei quali tutti siamo in grado di riconoscerci. Quali sono questi principi?

 
4. Principi per un’antropologia dell’umano nell’epoca del postumano

11
Cfr. Habermas, Die Zukunft der menschlichen Natur. Auf dem Weg zu einer liberalen Eugenik?, tr. it. Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino 2002, p. 5 e p. 7. 
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Come si può osservare dal titolo originale, nella traduzione italiana si è mutato indebitamente l’eugenetica in genetica, forse perché lo si sentiva troppo forte. Ciò che Habermas intende sottoporre a critica è l’eugenetica che dipende dalle
scelte e dai gusti dei soggetti adulti, non la genetica come metodo scientifico di conoscenza del genoma umano. Infatti, «trascurando ogni differenza fra interventi terapeutici e interventi migliorativi – rimette alle preferenze individuali degli
utenti del mercato il compito di definire gli obiettivi degli interventi correttivi» (Habermas, p. 22).
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Vid. F. Fukuyama, Our Posthuman future. Consequences of the Biotechnology Revolution, Farrar,Straus and Giroux, New York 2002.
14
F. Fukuyama, Our Posthuman future, p. 177.
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Possenti distingue fra due significati di natura umana. Il primo riguarda quanto esiste di universale e comune a tutti gli uomini, che perciò è metaculturale. Il secondo si riferisce, invece, ad una certa indeterminazione dovuta al codice
genetico umano: «in effetti la struttura genetica dell’uomo rappresenta non una forma che ci determina in un solo modo (determinatio ad unum), ma una forma che schiude un campo di possibilità, un ventaglio di linee aperte, e che verrà
orientato e ulteriormente determinato dalla libera attività del soggetto. Non dunque un soggetto ricondotto al determinismo genetico di chi sostiene che noi siamo i nostri geni, gradino estremo di un processo riduzionistico che dapprima
riduce l’uomo a corpo, e successivamente il corpo al genoma».
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p. 6.
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Nonostante abbia una visione di natura umana che si può condividere, Fukuyama non è totalmente coerente. Poiché secondo lui, anche se l’embrione è in potenza una persona, in se stesso non lo è, per cui in determinate
circostanze lo si può sopprimere. Così, pensa che si dovrebbe parlare anche di gradi di dignità in quanto la semplice cellula o anche l’embrione nelle prime fasi non avrebbe la natura umana, ma solo la potenzialità. Penso che dopo aver
parlato di proprietà potenziale che si trovano nel bambino piccolo e che manifestano la natura umana, come la relazione di filiazione con i genitori, non si dovrebbe negare queste stesse proprietà essenziali alla cellula iniziale. Quindi, per
poter difendere l’aborto, fa un salto dal livello metafisico a quello fisico.
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In questo senso, Fukuyama confuta i firmatari del Manifesto di bioetica laica pubblicato nel 1996: «Al contrario di coloro che divinizzano la natura, dichiarandola qualcosa di sacro e di intoccabile, i laici sanno che il confine fra quel che
è naturale e quel che non lo è dipende dai valori e dalle decisioni degli uomini. Nulla è più culturale dell’idea di natura… i criteri per determinare ciò che è lecito e ciò che non lo è non possono in alcun modo derivare da una pretesa
distinzione tra ciò che è naturale e ciò che naturale non sarebbe» (Il sole-24 ore, giugno 1996, p. 27).
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20
Intervista Caffo e Roberto Marchesini, Così parlò il postumano, p. 26.
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Allora, ecco ritornare la domanda: dobbiamo custodire e proteggere l’umano tradizionale? E perché mai? (F. Viola, Umano e post-umano: la questione dell’identità, ).
A mio parere, da tutto ciò che abbiamo visto, si possono ricavare i principi antropologici che mostrano come l’essenza dell’umano si trova nella relazione. Questi principi sono tre: la dipendenza generazionale e simbolica come
origine dell’umano, l’accettazione del limite in sé e nell’altro come crescita dell’umano, il desiderio d’infinito da parte di un essere finito come manifestazione di trascendenza.

1. La dipendenza generazionale e simbolica come origine dell’umano (eterogenerazione/autopoiesis)


L’esistenza umana incomincia con l’atto generativo, per cui essa è, nel contempo, un «essere-da» o essere dipendente e un «essere-con» o coesistenza, ossia l’esistenza umana è impossibile e, perciò, impensabile senza l’altro.
La figura del Robinson Crusoe, con cui si vuole far credere ad un’autopoiesis, è uno dei falsi miti dell’individualismo moderno, poiché la persona, anche se si trova persa in un’isola inabitata, è sempre legata a doppio filo all’altro, come
dipendente e coesistente. La dipendenza dagli altri non implica, però, solo mancanza, ma anche eccedenza, poiché la dipendenza umana è alla base di ogni possibile autonomia. Perciò, non c’è autonomia autentica, senza il riconoscimento
della propria origine, vera matrice della nostra libertà. Infatti, senza la relazione con l’altro e senza la sua accettazione, l’umano scompare per rimanere solo come anthropos, come si osserva nel caso dei bambini selvaggi.
Nonostante il loro carattere filantropico (amici del progresso della specie o della varietà dell’umano), le posizioni trans-umaniste e post-umaniste sono del tutto individualistiche. Infatti, in quanto che il loro unico scopo è il
prolungamento della vita biologica, l’uso della tecnoscienza è in questi movimenti puramente funzionale alla sua prosecuzione e al suo miglioramento. Ma, come spiega Donati, sono le relazioni — soprattutto la loro qualità — e non le
diverse funzioni vitali, a mostrare l’essenza dell’umano 22. Né il transumanismo né il postumanismo colgono il carattere essenziale della relazione, specie la dipendenza generazionale, che non sia strettamente biologica. Ma anche questa è
suscettibile di essere modificata o messa da parte come zavorra inutile. Nella misura in cui questi movimenti trascurano o cancellano l’origine e la crescita dell’umano, tralasciano anche le conseguenze dell’uso della tecnoscienza sia per le
relazioni personali sia per la comunità scientifica e umana.
In questo senso, anche la posizione di Fukuyama si presenta come riduttiva. Poiché l’umano non è solo — come egli sostiene — un insieme di elementi biologici, affettivi, cognitivi e simbolici inter-relazionati, ma soprattutto è
un insieme sistemico che si colloca in un contesto relazionale (familiare, comunitario, politico) 23. La difficoltà nel considerare le relazioni una proprietà essenziale dell’umano è determinata dalla difficoltà nel riconoscere se stessi come
«doni», cioè manifestazione di un dare gratuito, non necessario. L’umano cresce, invece, a partire dal riconoscersi generati, cioè figli, poiché la dipendenza simbolica da un altro è la caratteristica più propria della nostra umanità.
Tuttavia, la generazione e la coesistenza con gli altri ha a che vedere con una questione ancora più basilare: la temporalità dell’essere umano, come originato, capace di crescita e di compimento. Nel transumanesimo e nel
postumanesimo c’è un rapporto conflittuale con il tempo: dato che la vita umana non viene più giudicata soddisfacente, si vorrebbe accrescerla indefinitamente. Non basta però aumentare la longevità per dare senso al vivere, poiché la
temporalità è legata non solo alla morte e alla fragilità, ma anche alle virtù che dipendono da essa e, soprattutto, al dono di sé da dove essa nasce e verso cui tende.

2. l’accettazione del limite in sé e nell’altro come crescita dell’umano (accettazione del limite/hybris)
All'umanesimo rinascimentale dell'autoesaltazione e all’umanesimo illuminista del progresso indefinito bisogna contrapporre, non la distruzione dell’umano o la sua moltiplicazione in una serie di varianti, bensì l’accettazione
dei propri limiti come condizione stessa di possibilità dell’umano.
Evidentemente, l’esperienza del limite non è spesso assimilabile in modo immediato, poiché produce incertezza e angoscia. In questo senso, essa sfida a trovare il suo senso per veverlo in modo umano, cioè per non deprimersi
oppure per non cadere nella hybris. Perciò, il primo compito dell’antropologia nei confronti dell’uso della tecnoscienza è distinguere fra limiti valicabili e invalicabili dal punto di vista dell’umano.
Invalicabili sono quei limiti che proteggono e accrescono l’umano. Perciò, il primo e più importante limite invalicabile delle nostre possibilità e dei nostri progetti è la corporeità che riceviamo alla nascita come dono. Essa si
sviluppa secondo un suo programma del DNA, che non è modificabile se non in minima parte epigeneticamente. Ogni persona è il suo corpo, e non solo ha un corpo. Il corpo introduce ogni singolo uomo e ogni singola donna nel mondo
umano, dando a ciascuno una precisa e insostituibile identità, fatta di una determinata statura, di un colore della pelle, di tutti quei particolari che distinguono una razza da un'altra, e anche di determinate disposizioni fisiche e psichiche. Si
valica il limite del corpo quando lo si vede come materia interamente disponibili. Poiché la mancanza di fine implica anche l’assenza di limite, cade così ogni differenza tra corpo umano, animale e macchina. Infatti, senza fine, tutto è
possibile. E se tutto è possibile, l’umano perde qualsiasi identità riconoscibile. D’altro canto, nel considerare il proprio corpo come puro fondo disponibile, il soggetto non può più identificarsi con esso; ciò spiegherebbe la molteplicità di
disturbi psicologici che si manifestano nel rifiuto del proprio corpo. Il risultato finale è la cosificazione dell’umano e, conseguentemente, l’umanizzazione degli animali e delle cose. Ecco perché, nell’oltrepassare il limite del corpo, il sistema
tecnoscientifico orienta l’evoluzione verso una deriva disumana. Il potere dell’agire umano, allora, invece di essere al servizio delle persone e delle comunità, è usato per manipolare la persona e le sue relazioni, distruggendo così la stessa
essenza dell’umano, il cui sacrificio non potrà mai essere compensato dalla moltiplicazione artificiale di varianti dell’umano 24.
Ci sono poi i limiti valicabili: fisici, psichici e anche spirituali, come quelli che derivano da malattie o dall’attualizzazione di alcune delle nostre capacità mentali o relazionali. La tecnoscienza può aiutare a superarli, senza però
distruggerli, poiché essi non sono semplicemente un fatto da cancellare, ma anche una risorsa per continuar a crescere. Infatti, sempre avremo dei limiti, non solo perché le nostre capacità ammettono una crescita potenzialmente infinita, ma
soprattutto perché il nostro desiderio non si soddisferà mai dai livelli raggiunti. La ricerca del miglioramento di alcune caratteristiche non essenziali dell’umano non dovrebbe, perciò, indurci a pagare un prezzo così alto, la rinuncia cioè alla
nostra umanità.
Insomma, se vogliamo migliorare in quanto umani, abbiamo bisogno sia della tecnica sia dell’etica per riconoscere i limiti invalicabili, evitando la hybris, e per personalizzare quelli valicabili. Tutto ciò mostra l’impossibilità di
separare nettamente cosa siamo, cioè l’identità come individui della specie umana — specialmente il nostro corpo e le nostre capacità — da chi siamo, cioè l’identità personale che è sempre in relazione con le altre identità. Insomma, le
scelte e progetti personali sono legati e condizionati dall’equipaggiamento genetico, pur non essendo determinati da esso. Perciò, poiché la manipolazione dei geni ha effetti imprevedibili sulla vita delle persone, dobbiamo far sì che l’etica
sia tenuta in conto per evitare che la biotecnologia produca danni fisici e, soprattutto, situazione ingiuste e disumane, come sono le pratiche che vogliono appropriarsi d’ogni aspetto del vivere della persona. Quando la scienza o la tecnica
cercano d’imporsi alle persone, che sono il loro vero soggetto, esse perdono la loro umanità, trasformando le persone in uno strumento al servizio degli interessi di alcuni, il che porta con sé un nuovo tipo di schiavitù, più pericolosa perché
nascosta.

3. Il desiderio d’infinito da parte di un essere finito come manifestazione di trascendenza


(dono/enhacement)

Penso che la confusione del transumanesimo e del postumanesimo sia non saper distinguere fra il desiderio d'infinito e l'infinitezza reale. L'uomo è finito anche se ha là capacità di andare oltre ciò che egli è in ogni momento.
Le sue realizzazioni, però, sono sempre finite.
Tuttavia, questi movimenti antiumanisti sono anche una manifestazione che l'infinitezza dell'uomo non si trova solo nelle sue capacità specifiche e neppure nel suo intelletto, ma anche nella sua potenza orectica o desiderativa.
Poiché non solo conosce tutte le cose ma è capace di amarle, egli desidera anche di essere tutte le cose, ossia assoluto. In fondo, egli sospetta di essere destinato a qualcosa di più grande dell'essere un individuo della specie umana o una parte
dell’universo. 
Il problema non è che non possa diventare più di quanto egli è, ma se riesce ad esserlo realmente o se, invece, sacrifica la sua umanità alla ricerca di un falso infinito. In definitiva, ha bisogno di sapere in che cosa consista
l’umano e quali siano i mezzi per svilupparlo.
Certamente, la tecnoscienza appartiene all’umano, concretamente all’agire che nasce dall’esigenza di vivere umanamente. Perciò, non è possibile affidare ad esse tutte le nostre speranze di felicità. Se si affidassero, si dovrebbe
sacrificare una caratteristica essenziale dell’identità umana, la pluralità cioè delle forme del bene umano, che si basano sulla percezione e desiderio di un bene infinito, ovvero sia del bene in quanto tale. La critica di Fukuyama al postumano
coglie il primo punto: la pluralità di beni. Infatti, siccome la natura umana è un sistema complesso, non è possibile ridurre a priori la sua essenza a un fine concreto, come la salute, il piacere, il rendimento intellettuale; in realtà, ci sono molti
fini naturali e molti scopi personali. Ne deriva che il tentativo del postumano di ridurre tutto all’uso della tecnoscienza è disumanizzante 25.
Penso, però, che la complessità sistemica della natura umana non sia solo un dato di fatto, bensì espressione di una trascendenza continua verso il bene infinito. Perciò, la perfezione dell’uomo non si trova nella somma di questi
beni finiti, ma è al di sopra di essi, della specie e anche dell'universo, come si osserva nella sua inclinazione verso un bene che sfugge al calcolo tecnologico e alla precisione dei giudizi scientifici. Si tratta, perciò, di un fine non raggiungibile
da soli, ma sempre in relazione. C’è bisogno della relazione con gli altri e, soprattutto, della relazione con l’Altro: una relazione di amicizia. Poiché lo che non possiamo per noi stessi, possiamo raggiungerlo attraverso i nostri amici.

22
«Possiamo dire, perciò, che una forma sociale è umana in quanto le relazioni sociali di cui consiste sono prodotte da soggetti che si orientano reciprocamente in base a un senso sovrafunzionale. Una forma sociale non è umana se e
allorquando i soggetti non si orientano reciprocamente (perché allora non ci sono relazioni, ma pure reattività o affermazioni di individualità) e se e allorquando il senso delle “azioni” è solo funzionale (o di pura autopoiesi sistemica, perché
in tal caso le azioni sono in realtà solo operazioni, automatismi privi di intenzionalità, anche se agiti da individui umani) (P.P. Donati, LA SOCIOLOGIA RELAZIONALE: UNA PROSPETTIVA SULLA DISTINZIONE UMANO/NON-
UMANO NELLE SCIENZE SOCIALI,  Nuova Umanità, XXVII (2005/1) 157, pp. 97-122; p. 118).
23
(P.P. Donati, La Sociologia relazionale: una prospettiva sulla distinzione umano/non-umano nelle scienze sociali,  Nuova Umanità, XXVII (2005/1) 157, pp. 97-122; p. 118)
24
(P.P. Donati, LA SOCIOLOGIA RELAZIONALE: UNA PROSPETTIVA SULLA DISTINZIONE UMANO/NON-UMANO NELLE SCIENZE SOCIALI, Nuova Umanità, XXVII (2005/1) 157, p. 8).

25
The answer lies in the constant pressure that exists to reduce the ends of biomedicine to utilitarian ones-that is, the attempt to reduce a complex diversity of natural ends and purposes to just a few simple categories like pain and pleasure,
or autonomy (172).

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