Sei sulla pagina 1di 56

Storia della filosofia moderna

INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA MODERNA

 La rottura con gli antichi: “secol novo”


La novità cambia senso: nella tradizione classica, quella di Cicerone per esempio, nuovo significa
“sovversivo” quindi con un valore negativo perché visto come pericoloso, qualcosa da tenersi alla
larga per preservare la tradizione. Con la modernità “nuovo” acquista finalmente un valore
positivo: i moderni sottolineano quanto siano “nuove” le loro scoperte in rapporto alla tradizione.

Il XVI secolo è definito come il secolo della crisi della coscienza europea: al crollo delle certezze si
contrappone la volontà di nuove soluzioni che verranno adottate e cristallizzate nel corso del XVII
secolo.

- Il XVI secolo e anche il secolo delle polemiche e delle dispute tra chi sostiene il valore degli antichi e
chi invece si pone contro di essi. Pascal: noi vediamo più degli antichi e quindi non ci dobbiamo
piegare ma rimanere ritti.
“Io vedo gli antichi senza piegare le ginocchia. Essi sono grandi, è vero, ma sono uomini come noi, e
si può paragonare, senza timore di essere ingiusti, il secolo di Luigi [XIV] al secolo di Augusto»
(Charles Perrault)

- Modernus viene da Odiernus: significato negativo nel senso di qualcosa di effimero e transitorio in
rapporto alla solidità e continuità della tradizione che afferma il vero essere solo l’antico. Ma i
moderni rispondono che essi, venendo dopo, sono più saggi e superiori agli antichi che
rappresentano l’infanzia della storia, venendo prima, che quindi è più ingenua. Un affermazione
non è più vera perché è più antica ma al contrario “la verità è figlia del suo tempo”, proprio perché
sono storiche possono essere messe in discussione dato che le condizioni sono contingenti.
Il sapere è qualcosa in continuo cambiamento: da un ideale statico di perfezione si passa ad un
ideale dinamico di perfezionamento. Termina la reverenza nei confronti dell’antichità.

- Mito del progresso:


«La fisica, la medicina, le matematiche sono composte da un numero infinito di idee e dipendono
dalla precisione del ragionamento che si perfeziona con estrema lentezza ma si perfeziona sempre
[...] è evidente che questo progresso non ha fine e che gli ultimi fisici e gli ultimi matematici
debbano essere naturalmente i più abili»
(Fontenelle, Digressione sugli antichi e i moderni
“Questo è lo scopo dell’opera nella quale mi sono cimentato, il cui risultato sarà di dimostrare, con
il ragionamento e con i fatti, che non è stato posto alcun limite al perfezionamento* delle facoltà
umane; che la perfettibilità dell’uomo è davvero infinita; che i progressi di questa perfettibilità,
ormai indipendente da ogni potere che volesse fermarli, non hanno altro termine che la durata del
pianeta stesso su cui la natura ci ha posti»
(Condorcet, Quadro storico dei progressi dello spirito umano

- Illuminismo: movimento/rischiaramento progressivo, un continuo perfezionamento dell’umanità


contro l’ignoranza e superstizione. Non si attende più dall’alto la luce che rischiara la verità ma è un
processo orizzontale, trasferire la luce da luce.

“Uno spirito colto è, per così dire, composto di tutti gli spiriti dei secoli precedenti, non è che uno
stesso spirito che ha acquisito conoscenze durante tutto questo tempo. Dunque, quest’uomo ha
vissuto dall’inizio del mondo fino ad oggi, ha conosciuto un’infanzia nella quale si è occupato
soltanto dei bisogni pressanti della vita, una giovinezza nella quale hanno predominato in lui le doti
dell’immaginazione, determinando il suo successo nella poesia e nell’eloquenza, e nella quale ha
cominciato anche a ragionare ma con più passione che solidità. Ora egli si trova nell’età della
virilità, e ragiona con più forza e illuminazione di prima” (plus de lumières que jamais)» (Fontenelle,
Digression sur les anciens et les modernes

 Fattori della modernità


1) Viaggi ed esplorazioni: vengono scoperti nuovi mondi che sono in relazione con le nuove
scoperte in ambito scientifico (“Novum organum” Bacone, 1620). I moderni propongono il
“plus ultra” l’andare oltre, le colonne d’Ercole per esempio, nelle esplorazioni e nei
progressi scientifici. Venire a contatto con nuovi territori conduce alla scoperta di piante,
animali e altro che è ignoto agli esploratori. La natura non è solo quella descritta
dall’antichità ma ha bisogno di nuove categorie per essere interpretata, molte convinzioni
degli antichi cadono.

Inoltre si viene a contatto con nuove forme di civiltà, anche concorrenziali (Cina e Giappone),
che pongono agli europei dei problemi. Queste scoperte fanno cadere le convinzioni riguardo
l’uniformità della specie umana individuata nel paradigma dell’uomo cristiano.

“Le avventure di Robinson Crusuoe”: atteggiamento ambiguo dell’occidentale che raggiunge le


terre sconosciute e ne rimane in un primo momento sconvolto, ma con il tempo accetta e
condivide le diversità riscontrate (mito del buon selvaggio: nuove civiltà più felici di quelle
occidentali).

Sviluppo dei mercati: colonialismo, ampliamento dei commerci e tentativo di


occidentalizzazione delle popolazioni autoctone.

“Ognuno chiama barbarie ciò che non è nei propri usi”


Il contatto con le popolazioni scoperte, che hanno dei valori completamente differenti, contribuisce
a mettere in crisi l’idea che esistano dei valori morali e religiosi condivisi da tutti. Si scoprono
popolazioni che vivono pacificamente in assenza di valori religiosi, il che conduce alla separazione
tra la morale e la religione: diventa possibile parlare di atei virtuosi, fino ad allora espressione
contradittoria.

2) Fine unità religiosa e politica europea:


- Riforma protestante: fine dell’unità religiosa europea.
- Nascita degli stati nazionali: fine dell’unità politica europea.
- Perenne stato di guerra: Le popolazioni del XVI e del XVII vivono perennemente in stato di guerra.

- Affermazione della ragione di stato: Religione cessa di essere il fondamento del potere per
diventare uno “strumento di potere” (in questo periodo si sviluppano le teorie delle impostura,
secondo cui i tre impostori sono i tre fondatori delle religioni monoteistiche, che hanno inventato il
culto religioso con lo scopo di mantenere il popolo nell’obbedienza. È necessario il timore di Dio
come strumento di cui si serve il sovrano per gestire il popolo).
Nasce l’idea di una doppia politica, per il sovrano e per il popolo, e di una doppia morale, sempre
per popolo e per il politico.
È l’esempio dell’affermarsi delle monarchie del XV secolo: assolutismo di Luigi XIV

XVIII secolo: Crisi dell’ancien regime -> I lumi conducono una battaglia feroce contro la religione, che è
diventata strumento di potere, e contro le strutture di una società che mostra in maniera sempre più
evidente le sue disuguaglianze. Spingono per la modernizzazione del regime attraverso delle riforme, tanto
dal punto di vista burocratico quanto da quello tributario, andando a trasformare stati che si portano dietro
le proprie eredità feudali.
I filosofi mirano al riformismo, nonostante ciò si arriva alla Rivoluzione: si inizia a parlare di diritti
inalienabili come la libertà. (Contratto sociale, Rousseau)

3) Età della tecnica: Questi fattori sono interconnessi e non potevano non effettuarsi: la
tecnica rende possibili i viaggi e al tempo stesso viene favorita dalla nascita degli stati
nazionali e dalla loro bellicosità (si sviluppano li studi per la creazione di strumenti bellici).

- Sviluppo dell’anatomia: Mentre prima il medico non praticava, nel XVI lo scienziato e il medico
diventano esattamente la stessa persone. Si instaura il modello uomo-macchina: il meccanicismo
che si instaura in maniera vincente. La dottrina fisica viene applicata anche alla realtà del vivente
attraverso un’equivalenza tra il naturale e l’artificiale, il mondo passa da essere un animale ad
essere una macchina (p.es parallelo di Cartesio tra l’uomo e l’orologio). Le funzioni dell’uomo
possono essere spiegate meccanicamente, quindi si può porre fine alle verità occulte medievali che
cercavano di spiegare le funzioni dell’uomo in maniera incomprensibile e superflue.
“Suppongo che il corpo non sia se non una statua o macchina di terra che Dio espressamente forma per renderla a noi più
somigliante”
Il naturale e l’artificiale si possono spiegare con lo stesso criterio. L’analogia con la macchina
rendeva interpretabili dei fenomeni che prima non sarebbero stati spiegati. Già al tempo c’è il
tentativo di costruire degli automi, nasce il sogno di creare la vita, grazie alle innovazioni
scientifiche ed a questa visione positiva dell’analogia uomo-macchina.

- Alleanza artigiani e scienziati:


Così come non era in mio potere, anche con tutta la teoria immaginabile, eseguire da solo il mio stesso disegno senza
l'aiuto di un operaio allo stesso modo è assolutamente impossibile per tutti i semplici artigiani, per quanto abili siano
nella loro arte, mettere a punto un oggetto nuovo che consti di movimenti complicati, senza l'aiuto di una persona che,
grazie alle regole teoriche, gli fornisca le misure e le proporzioni di tutti i pezzi dei quali esso deve comporsi» (Pascal)
Il prodotto materiale non è uno scarto della ricerca scientifica, che fino ad allora fungeva solo ad un
fine contemplativo, adesso il suo fine è quello di tradursi in macchinari che possano aiutare
l’evoluzione dell’umanità.
Ci sono tre tipi di scienziati: gli scienziati formica che si limitano a raccogliere dati dell’esperienza
senza trarne nulla di nuovo, per esempio l’alchimista; dall’altro lato ci sono gli scienziati ragno che
rimangono ancorati alle loro dottrine senza sperimentarle; dalla fusione dei due ci sono gli
scienziati ape che prendono i materiali dell’esperienza riuscendo ad elaborarli.

- La nuova astronomia: Lo scienziato ape per eccellenza è Galileo Galilei che inventa il cannocchiale,
uno strumento artigiano nato per fini bellici, perfezionandolo lo rivolge al cielo scoprendo un nuovo
mondo e soprattutto conduce alla rivoluzione copernicana, l’affermarsi dell’eliocentrismo e la
scoperta dell’infinità dei mondi.
L’idea di un cosmo infinito, e di conseguenza la fine della teoria antropocentrica, getta nell’estremo
sconforto i moderni.
“L’uomo contempli, dunque, la natura tutt’intera nella sua alta e piena maestà̀ [...] Tutto questo mondo visibile è solo un
punto impercettibile nell’ampio seno della natura. [...] L’uomo, ritornato a sé, consideri quel che è in confronto a quel che
esiste. Si veda come sperduto in questo remoto angolo della natura; e da quest’angusta prigione dove si trova, intendo
dire l’universo, impari a stimare al giusto valore la terra, i reami, le città e se stesso.”
Che cos’è un uomo nell’infinito? (Pascal, Pensieri)
L’uomo non può non fare i conti con il fatto che c’è la possibilità dell’esistenza di altri esseri e quindi
deve abbandonare le sue speranze nella credenza di essere prediletti.

- Il microscopio: un altro impatto molto forte e speculare a quello del telescopio: consente di
scoprire un ulteriore nuovo mondo microscopico che mostra analogie con il mondo esperibile ad
occhio nudo ma porta anche a scoperte che non ci si attendeva. Quegli oggetti che ci sono sempre
apparsi in un determinato modo ad occhio nudo, ora con la scoperta del microscopio ci appaiono in
maniera completamente differente.
Questo conduce ad un relativismo che si esprime in primo modo come una relatività delle
proporzioni ed in secondo luogo a dire che tutto ciò che è percepibile non esaurisce più l’orizzonte
di ciò che c’è davvero.
- Analogie scoperte e Sviluppo del romanzo: Ci sono testimonianze letterarie dell’effetto di queste
scoperte (i lumi si servono del romanzo come strumento per la loro battaglia).
Per esempio, “I viaggi di Gulliver” di Jonatan Swift o “Micromega” di Voltaire non si potrebbero
spiegare senza l’intervento di queste scoperte. Gulliver si trova ad essere un gigante davanti ai
lillipuziani e un microbo di fronte ai giganti. Il problema è che la perdita della proporzione, ovvero
non sapere più la posizione dell’uomo nell’universo consegue una crisi esistenziale.
In “Micromega” un gigante compie un viaggio interspaziale fino alla Terra che ritengono disabitata
perché gli esseri umani sono troppo piccoli per essere visti, fino a quando con una lente di
ingrandimento riescono ad osservarli.

- Utopia e viaggi interplanetari: i cristiani si chiedono se cristo si è incarnato anche in altri pianeti.
L’incontro con l’abitante della luna è l’occasione di una critica alla società dell’ancien regime.

- Fine del realismo ingenuo: tutto l’apparato aristotelico-scolastico che diceva che la conoscenza
muove i sensi crolla, è la fine del senso comune, la fine di una conoscenza apparente. Si scopre che i
propri sensi non sono fatti per l’universo. È necessario un ragionamento condotto tramite uno
strumento artigianale, né solo l’occhio e né solo l’intelletto sono in grado di indagare la realtà
autonomamente.

- Sviluppo della matematica che restituisce la verità: calcolo infinitesimale per governare l’infinito.

- Ricostituire un ordine: ripartire dal soggetto che sa ricostruire ciò che è altro da se.

LA GRANDE STAGIONE DELLA METAFISICA


Cartesio elabora e detta il ritmo che sarà successivamente criticato e rielaborato dai tre post-cartesiani:
Malebranche, Leibnitz, Spinoza.
Si tratta di questioni metafisiche: Dio; il mondo; il rapporto tra i Dio e le creature; libertà divinità e umana. I
Inoltre metafisica significa ontologia quindi inerente ad un discorso sulla sostanza. Cartesio elabora il
dualismo delle sostanze: riconosce che al mondo ci sono due generi di sostanze: le sostanze pensanti o
menti, e le sostanze estese o corpi. Con il fine di spiegare, all’interno dell’uomo, l’interazione tra i due tipi
di sostanze.
- Malebranche radicalizzerà il dualismo cartesiano
- Spinoza elimina il dualismo per riconoscere un’unica sostanza, Dio, di cui tutte le cose sono di
manifestazioni
- Leibnitz ammette una pluralità di sostanze tutte differenti l’una dall’altra, Il cui accordo è ordinato
armonicamente da Dio.

Metafisica viene anche intesa come la scienza di tutte le cose che possiamo conoscere filosofando con
ordine: a dire di che natura è la sostanza è il soggetto e le sue rappresentazioni. La questione ontologica
diventa epistemologica: come si conosce la sostanza?
L’accordo tra le nostre rappresentazioni, le idee, e la realtà esterna è sempre assicurata da Dio.

CARTESIO (1596-1650)
Hegel definisce Cartesio come l’iniziatore della filosofia moderna: egli contribuisce alla modernità nelle
scienze matematiche (assi cartesiani e geometria analitica); costruisce la visione meccanica del mondo (idea
del corpo-macchina); scopre il soggetto che si delinea come mente e solo dopo come corpo (mente non è
anima -> rottura con la tradizione che credeva nella tripartizione dell’anima, si pone il fine di riuscire a fare
interagire la mente con il corpo).
L’ultimo degli scolastici, il primo dei moderni.
Cartesio costruisce una nuova scienza in polemica con la tradizione scolastica, in maniera diversa
da Galileo Galilei che vuole essere scienziato, limitandosi ad analizzare solo ad alcuni fenomeni senza mai
risalire alle cause ultime, l’accusa è quella di essere semplicemente un fisico e non un metafisico.
L’ambizione di Cartesio è quella di fondare una fisica su una metafisica: per fare si che la fisica sia certa ed
incontrovertibile occorre che abbia un fondamento metafisico, per questo motivo viene considerato
l’ultimo degli aristotelici. Anche Vanni Rovighi è concorde con questa visione: da un lato, Cartesio, resta
scolastico per la sua ambizione di dare un fondamento metafisico alla fisica; dall’altro lato è un moderno
perché intende modificare una nuova scienza su fondamenta diverse rispetto a quelle aristoteliche.

La filosofia e l’albero delle scienze.


Ne il “Discorso sul metodo”, Cartesio si lamenta del collegio di “La flèche” del quale egli rimano
insoddisfatto per gli insegnamenti di filosofia che è più simile ad esercizio retorico più che ad una ricerca
della verità. Questa restrizione della filosofia alla sola retorica porta Cartesio a considerare lo strumento
sillogistico non valido: non consente nuove scoperte perché non si ha la certezza delle premesse.
Serve un nuovo metodo che sia in grado di arrivare alla saggezza. Questa saggezza (“Principi di filosofia”) è
una perfetta conoscenza con una vocazione pratica (idea del sapere per il potere propria di Bacone).
Cartesio vuole fondare una filosofia pratica che ci renda padroni della natura.
I tre scopi fondamentali della filosofia diventano ancora più chiari con l’immagine dell’albero della
scienza: tutta la scienza è come un albero, le radici sono la metafisica; il tronco è la fisica ed i tre rami sono
le tre scienze particolari (3M) morale (ciò che è utile per la vita), meccanica (per l’invenzione di tutte le arti)
e medicina (ciò che è utile per la salute). Affinché i rami possano dare i propri frutti occorre che le radici
siano salde e sane e affinché le radici siano salde è necessario che la fisica sia deduttiva. Da principi
metafisici si dedurranno i principi della fisica.

Il metodo.
 Già negli anni ‘18/’20, Cartesio intuisce i fondamenti di una scienza mirabile che chiama Mathesis
Universalis, una scienza universale applicabile a tutti gli ambiti del sapere. Cartesio intuisce che al di
là delle singole scienze sta un fondamento comune, una matematica universale che analizza i
rapporti formali secondo relazioni e proporzioni.
Sviluppa il metodo all’interno di due opere:
- “Le regole per la direzione dell’ingegno”: ci sono due definizioni di metodo che sono tra loro
complementari:
1. Metodo come regola: La prima caratteristica del metodo cartesiano è la certezza (è un
metodo che deve fare in modo di eliminare il rischio di errore); è un metodo facile (cerca
di limitare gli sforzi); vuole essere fecondo (conduce ad un aumento del sapere); conduce
alla saggezza (vera conoscenza di tutte le cose di cui l’uomo è capace)
2. Metodo come ordine o disposizione: Cartesio si riferisce all’ordine geometrico, in virtù del
quale non si deve lasciare nulla di presupposto, ma procedere gradualmente di verità in
verità.
- “Il discorso sul metodo”: Prima del metodo, ogni uomo è dotato di buon senso. “Il buon senso è la
cosa del mondo meglio ripartita”, tutti gli uomini hanno uguali capacità intellettiva, hanno la
capacità di “ben giudicare”, di distinguere il vero dal falso.
Ma allora, se tutti sono dotati di stesse capacità, perché le opinioni sono così diverse: Gli uomini
giungono a risultati diversi perché seguono tragitti differenti, hanno metodi (via, percorso)
differenti. “Il discorso sul metodo” vuole esporre la via che Cartesio ha seguito nella ricerca della
verità e che si è rivelata efficace visti i risultati ottenuti.

 Le due operazioni fondamentali sono:


- L’intuizione: atto immediato di visione dell’evidenza. Per Cartesio pensare significa vedere:
l’intuizione è la visione di un oggetto appreso dalla mente attraverso un atto semplice e indivisibile.
Es) COGITO: Je pens donc je suis.
- La deduzione: conduce all’evidenza in maniera mediata. È l’atto con cui si conosce qualcosa con
certezza ma di qualcosa che non è in sé immediatamente evidente.
Es) ESISTENZA DI DIO: se io penso, Dio esiste.
Dal punto di vista della certezza, intuizione e deduzione sono sullo stesso piano: entrambi ci portano ad una
conoscenza certa. La differenza sta nel fatto che l’intuizione consiste nella conoscenza immediata mentre la
deduzione sta alla conoscenza attraverso passaggi.

La differenza tra la deduzione cartesiana ed il sillogismo aristotelico è che la prima vuole essere una catena
di intuizione, una catena di evidenze, tanto che Cartesio la definisce come una “intuizione in movimento”.
Più la catena deduttiva è breve più tenderà a risolversi nell’intuizione, più è lunga più vorrà l’intervento
della memoria che può essere fallace. Il metodo cartesiano mira a rendere performanti le due operazioni
che l’uomo fa spontaneamente: rendere infallibile l’intuizione e dando una serie di norme per rendere
meno fallace la catena deduttiva.

 Le quattro regole del “Discorso sul metodo”


1) Regola dell’evidenza: Il vero è l’evidente e l’evidente è l’indubitabile. Non bastano la chiarezza e la
distinzione, la vera contro-prova dell’evidenza è l’indubitabilità: se non posso dubitarne allora è
chiaro e distinto e devo darne l’assenso. Implicitamente, Cartesio ha assimilato tutto il probabile al
falso: o le cose sono evidenti e quindi vere, o sono false. Non c’è una via di mezzo tra il vero e il
falso come potrebbe essere il probabile, il suo è un sistema binario: una cosa o è vera o è falsa.
2) Regola dell’analisi o scomposizione: Un problema complesso non può essere affrontato nella sua
difficoltà ma va diviso nelle sue parti più semplici che sono quelle intuitive. Dobbiamo scomporre
un problema complesso nelle parti che sono oggetto dell’intuizione.
3) Regola della sintesi o risoluzione: Rimettiamo in ordine gli elementi semplici scomposti in modo da
ricomporre il problema complesso una volta che è stato compreso nella sua struttura. Le verità che
scomponiamo con l’analisi vanno riordinate con la sintesi.
4) Enumerazione Check: Serve ad assicurarsi di aver fatto tutto per bene. Deve essere continua,
ininterrotta, sufficiente e ordinata.

Gli elementi semplici che vanno scomposti o ricomposti (a seconda dell’operazione necessaria) sono
chiamati da Cartesio come nature semplici, le quali sono atomi di evidenza, di per sé note, oggetto di una
intuizione immediata, i mattoni della nostra conoscenza, sono le idee innate che appartengono alla mente,
poste da Dio.
Questi elementi sono classificati da Cartesio in tre gruppi:
- Puramente intellettuali: conosciute tramite la mente che fa a meno dell’immaginazione e dei sensi,
facoltà che prevedono il corpo. Tra queste nature semplici fanno parte: conoscenza, dubbio e
volizione.
- Puramente materiali: conosciute attraverso i sensi e l’immaginazione, troviamo elementi semplici
che competono al corpo: figura, estensione e movimento.
- Elementi comuni: si applicano tanto alle sostanze materiali quanto a quelle immateriali. Queste
sono per esempio: esistenza, durata e unità
L’andamento delle “Meditazioni metafisiche”.
Il metodo è uno strumento ed in quanto tale non entra a far parte dell’albero delle scienza, ma è piuttosto
uno strumento che si applica a tutti i rami dell’albero, tutte le scienze, in particolare alla metafisica, in
modo da fondare una metafisica certa che fondi tutto il sapere.
Cartesio scrive le “Meditazioni metafisiche”: “meditazione” è un termine curioso perché è un termine
fondamentalmente religioso collegato però ad una tematica metafisica, il che significa concepire la propria
metafisica come un esercizio spirituale. In ogni esercizio spirituale si inizia dalla propria condizione di
peccatori con l’intenzione di essere migliorati durante l’esercizio. Allo stesso modo, nelle meditazioni
cartesiane si entra pieni di pregiudizi e si finisce rinnovati e pronti per fare una fisica diversa da quella
precedente. Nelle “Meditazioni metafisiche” si dimostra:
- l’esistenza di Dio, che serve perché è il garante della mia possibilità di fare scienza,
-
e la reale distinzione dell’anima dal corpo che ha un da un lato una funzione apologetica, provare
l’immortalità dell’anima; dall’altro lato libera il corpo dalle forme sostanziali per permettere un
discorso geometrico sulla fisica.
La metafisica è dunque un esercizio spirituale condotto in prima persona.

Le sei meditazioni di Cartesio


I. ITINERARIO ASCENSIVO: “Abducere mentem a sensibus” -> distogliere la mente dai sensi
Le prime tre meditazioni sono condotte sotto il segno del dubbio, in cui il meditante comincia, nella
prima meditazione, l’esercizio pieno di dubbi, fino a quando nella seconda meditazione trova il
punto su cui far leva che è la prima verità incontrovertibile, il cogito, e da questa giunge nella terza
meditazione a stabilire l’esistenza di Dio.
II. ITINERARIO DISCENSIVO: Ritorno alle cose -> Una volta che possiede l’esistenza di Dio può
discendere verso i corpi armati della regola dell’evidenza, che con la rettifica di Dio è ormai del
tutto valida. Le ultime tre meditazioni sono condotte alla luce della certezza e vanno a
riappropriarsi di tutto ciò che era stato messo in dubbio nella prima meditazione, fino a
riconquistarselo.

1) La prima meditazione: di tutte le cose che possono essere messe in dubbio .


Il punto di partenza è il dubbio perché innanzitutto bisogna mettere alla prova ogni cosa, il dubitare
corrisponde allo scavo nelle fondamenta.
Il procedimento dubitativo non deve concernere ogni cosa ma si deve concentrare su: i sensi;
l’immaginazione e l’intelletto. In modo da vedere che conoscenze mi restituiscono.

Il dubbio cartesiano possiede quattro caratteri:


- Radicale: va alle radici del conoscere
- Universale: non c’è niente al riparo dal dubbio
- Iperbolico: basta un errore per mettere in dubbio tutto
- Volontario: esercizio di volontà, dubitare è un atto di libertà. Diverso dal dubbio scettico che nasce
dall’oggetto, per Cartesio dubito anche di quello di cui non potrei dubitare.

 L’affidabilità dei sensi sugli oggetti distanti: c’è un errore dei sensi per quanto riguarda oggetti
lontani (esempio delle torri a distanza)
 L’affidabilità dei sensi sugli oggetti vicini:
- Argomento della vita come un sogno (“La vida es sueno” Calderon de la Barca) dell’indistinguibilità
del sonno e della veglia. Sono davvero davanti alla mia scrivania o è solo frutto della mia
immaginazione?!
- Argomento della follia: può essere che io sia impazzito e che abbia una visione distorta di tutto.
 L’affidabilità delle verità matematiche:
- Argomento del Dio ingannatore: un Dio onnipotente e creatore della mia intelligenza, un Dio
talmente potente che avrebbe potuto darmi delle regole logiche che non si applicano alla realtà,
che avrebbe potuto farmi credere che 2+3=5 quando invece, nella realtà, come risultato fa 6.
- Argomento del Genio maligno: astuto e potente che impiega la sua angustia per ingannarmi in
maniera consapevole e volontaria. Questo genio maligno è il Diavolo, che è in grado di
generalizzare il dubbio sui sensi, per cui io non posso più affermare nulla della realtà intorno a me.

2) La seconda meditazione: il cogito.

 Dal dubbio al cogito:


Proprio mentre sono inghiottito dal dubbio e sto sprofondando, trovo il punto di Archimede su cui fare leva
per uscire dal dubbio, questo è l’esperienza metafisica del cogito, quindi l’intuizione della propria esistenza,
il momento in cui il pensiero tocca l’essere.
“Non v'è dubbio che io esisto, s'egli m'inganna; e m'inganni fin che vorrà, egli non saprà mai fare che io non
sia nulla, fino a che penserò di essere qualcosa”
L’ipotesi di essere ingannato, anziché mettere in dubbio la mia esistenza, me la attesta:
- Sia perché l’esistenza dell’Io è la condizione del dubbio -> non ci può essere dubbio se non ci sono
io che dubito.
- Sia perché l’esistenza dell’Io è la condizione stessa dell’inganno -> il genio maligno non potrebbe
ingannarmi se io fossi nulla.

Il cogito vuole essere l’intuizione del legame in un singolo atto di pensiero tra Io che esisto ed il pensare, tra
l’esistenza ed il pensiero. Cartesio chiarisce che non si tratta di un sillogismo ma di un’inferenza così breve
da essere colta da un unico atto di pensiero: il cogito non è il frutto del ragionamento ma è una conoscenza
immediata.
Qual è il limite del cogito? Non è interpersonale, è un esperienza individuale, ciascuno ha la certezza della
propria esistenza, non posso avere la certezza del cogito delle altre persone.

 Qual è la natura dello spirito umano?


Cartesio parte dal chiedersi che cosa l’essere umano pensava di essere prima della scoperta del cogito,
affronta uno dopo l’altro le possibili opinioni degli uomini riguardo la propria essenza (p. es animale
razionale).
Cartesio compie il lavoro di scomposizione, sfoltendo tutti gli elementi che possono ancora essere sotto
l’ombra del dubbio, fino a trovare l’unico attributo che io non posso scindere da me senza far cadere il
cogito. Io posso pensare di esistere senza avere un corpo (perché la sua esistenza è ancora sottoposta al
dubbio), senza tutte le funzioni attribuibili al corpo (locomotiva, vegetativa, nutritiva). Tolto tutto solo il
pensiero rimane come attributo proprio dell’essere umano visto che è l’unico inscindibile dall’affermazione
dell’esistenza dell’Io. Allora, il cogito assume una condizione ontologica e diventa res cogitans: -Io sono una
mente, un animo, un intelletto, una ragione (Cartesio non usa anima per farla finita con le vecchie
interpretazioni che erano troppo ambigue). Cartesio usa animus e non anima: vuole riferirsi solo alla parte
razionale dell’anima, non alla parte materiale.
L’Io è una sostanza che ha come attributo fondamentale il pensiero che si declina in diverse modalità:
dubita, concepisce, afferma, nega, vuole e non vuole, immagina e sente (anche se queste ultime due
modalità si riferiscono al mondo sensibile, immaginare e sentire sono propri dell’Io).

 L’esempio della cera:


Cartesio arriva al cogito partendo dalle cose per combattere quella che potrebbe essere l’obiezione più
ovvia da parte di un empirista: com’è possibile che sia più semplice conoscere la mente che è qualcosa di
immateriale rispetto ai corpi che vedo, sento e tocco?
La sfida di Cartesio è di dimostrare che la mente è più facile da conoscere rispetto al corpo, in modo da
mostrare che è la mente che conosce la natura dei corpi e non i sensi, allora la mente riconoscerà prima se
stessa delle cose esterne.
Esempio di un pezzo di cera appena estratto dall’alveare:
- Se io osservo un pezzo di cera posso, con i sensi, vedere il colore, tastarne la consistenza o sentirne
il profumo però non posso capire che quel pezzo di candela proviene dalla cera uscita dall’alveare: i
sensi non possono restituirmi l’essenza della cera.
- Invece, se uso l’immaginazione posso dire che è qualcosa di fusibile e malleabile: io immagino che
la cera possa cambiare forma. Però l’immaginazione non è in grado di pensare alle infinite maniera
in cui può presentarsi la cera.
- Solo la mente mi dice qual è la vera natura della cera che è quella di essere un’estensione che può
essere figurata in infiniti modi diversi. A restituire l’essenza dei corpi è la mente che conosce i corpi
come estensione. Dunque, se anche per conoscere gli oggetti materiali devo usare la mente, la
mente saprà più facilmente conoscere se stessa.

I guadagni acquisiti fino ad adesso da Cartesio, nel suo percorso metafisico sono: la certezza della propria
esistenza e la consapevolezza che l’Io è una res cogitans, una sostanza pensante, una mente.

3) III MEDITAZIONE: L’ESISTENZA DI DIO


Dio va affrontato per un duplice motivo:
- Non ha ancora chiuso i conti con la vecchia opinione riguardo l’onnipotenza di Dio che può anche
ingannarmi, Cartesio deve risolvere il dubbio sollevato nella prima meditazione.
- Non si è ancora sviluppato il dubbio dell’esistenza di qualcosa al di fuori dell’Io. Ci si chiede se sia
possibile l’esistenza di un’altra sostanza, Dio, che esiste al di fuori della sostanza pensante.

I VIA: natura originale delle idee


Cartesio vuole procedere in maniera rigorosa e per farlo non deve dare alcunché di scontato, allora,
procede indagando i contenuti all’interno della mente umana: le idee.
La prima via tentata da Cartesio per approdare all’esistenza di qualcosa di diverso da sé è quella di
prendere in considerazione la varietà delle idee nella loro presunta origine.
Le idee possono essere catalogate in tre diversi gruppi:
- Idee innate: ci rappresentano le vere e immutabili nature, che Dio mi ha fornito.
- Idee fittizie: composte da me stesso sulla base di ciò che vedo e immagino (sirena e ippogrifo).
- Idee avventizie: idee che mi rappresentano qualcosa di diverso da me. Queste idee sono
involontarie e naturali, questi due caratteri tuttavia non sono sufficienti a dare ragione
dell’esistenza di altre cose al di fuori di me perché la mia mente avrebbe potuto produrle
indipendentemente dalla loro esistenza.

II VIA: natura generale delle idee


Quando noi riflettiamo sulle diverse idee presenti in noi possiamo considerarle secondo due aspetti:
- Per la loro realtà formale: il fatto che tutte le idee non sono altro che modificazioni del pensiero,
sono modi del pensiero. (l’idea di albero, quella di angelo e quella di Dio: dal punto di vista della
realtà formale sono tutte uguali)
- Per la loro realtà oggettiva: il contenuto rappresentativo delle idee, l’oggetto/immagine che mi
restituiscono. Sotto questo aspetto le idee differiscono tra loro: l’idea che mi rappresenta il blu è
diversa dall’idea che mi rappresenta Dio.
Sotto questo punto di vista, le idee possono essere divise gerarchicamente, secondo dei gradi di
perfezione in base alla quantità di essere di quello che mi rappresentano (la realtà oggettiva
dell’idea di un accidente pesa meno della realtà oggettiva dell’idea di una sostanza).

 Applicazione del principio di causalità alle idee:


L’idea, seppur non abbia la stessa consistenza ontologica di un oggetto, è un “qualcosa” e in quanto tale
necessita di una causa. Cartesio prende questo principio di causalità, secondo cui deve esserci tanta realtà
nella causa quanta ce n’è nell’effetto, e lo applica alla realtà oggettiva delle idee: io analizzo le idee della
mia mente e se ne trovo una di cui non posso essere causa perché l’effetto dell’idea supera il mio essere,
allora significa che dovrà esistere quella cosa esterna che ha causato in me la realtà oggettiva di tale idea.
A questo punto Cartesio inizia ad indagare le varie idee che possiede:
- Idee di cose corporee: la mente, essendo una sostanza finita, può causare le idee delle sostanze
finite. Può perfino causare le qualità dei corpi (accidenti) che non sono nemmeno sostanze.
- Idea di Dio: la sola idea che non può essere causata dalla mia mente dalla quale io stesso e tutte le
cose che sono vengono creati.
Dio esiste ed ha posto in me la sua idea “come la marca dell’operaio sulla sua opera”.

Dopo aver riconosciuto che esiste un Dio perfetto da cui tutte le cose dipendono, posso affermare che tutto
ciò che concepisco chiaramente come vero è vero, perché è frutto di una natura divina infinitamente buono
che ha creato la mia mente per il vero.

4) IV MEDITAZIONE: IL GIUDIZIO
Cartesio chiarisce che l’errore non dipende dalle idee in quanto tali: le idee in sé sono tutte vere e possono
essere tra loro più o meno nitide e presenti alla mia mente, ma fino a che non giudico tutte le idee restano
vere. L’errore sta proprio all’interno del giudizio, quindi, occorre vedere le due facoltà del giudizio:
- Intelletto: passivo/ricettivo/limitato -> L’intelletto riceve le idee in modo passivo e le presenta alla
volontà in modo che questa dia o meno l’assenso. Tuttavia, l’intelletto è limitato poiché comprende
solo un certo numero di idee, non siamo onniscienti.
- Volontà: attiva/autonoma/illimitata -> Noi siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio perché
siamo liberi, la nostra libera volontà è co-estesa a quella divina (Dio però ha anche un intelletto
onnisciente il che permette di distinguerlo da noi).
Proprio la sproporzione tra intelletto, limitato, e volontà, illimitata, permette l’errore: l’errore non
dipende dalle idee che danno solo l’occasione del cattivo giudizio ma dipende dalla volontà che da
l’assenso.
L’antidoto all’errore è fare in modo che la mia volontà si attenga all’interno dei confini di ciò che mi
appare come chiaro e distinto, invece, dove non ho le idee chiare e distinte devo sospendere il
giudizio o dubitare. La possibilità di errare è ritenuta da Cartesio come una perfezione dell’uomo
perché nasce dalla libertà che costituisce la nostra perfezione maggiore. È meglio essere liberi con
la possibilità di cadere nell’errore che essere “perfetti” come possono esserlo le macchine che però
mancano di libertà e sono necessitate.
Fino a Kant non ci sarà più nessuno che sottolineerà in maniera così marcata la libertà dell’uomo.

 Cartesio da due definizioni di libero arbitrio e le pone in gerarchia una dopo l’altra.
- la prima definizione di libero arbitrio fa leva sull’idea di libertà come potere di scelta o libertà di
indifferenza: se ho scelta è perché non conosco; se io devo scegliere vuol dire che io non so dove
stanno il vero e il bene, quindi mi trovo in una situazione di indifferenza, per me è la stessa cosa
una scelta o l’altra.
- Subito dopo corregge questa sua interpretazione e definisce la volontà come capacità di
autodeterminarsi senza essere costretti da nulla: Se io ho la certezza di che cosa sia vero e bene,
ho comunque la possibilità di scegliere l’opzione che so essere quella vera. La capacità più alta della
libertà è quella di dire di sì a ciò che mi si presenta come vero e buono.

 La libertà si mostra e non si dimostra:


Noi non abbiamo bisogno di dimostrare di essere liberi perché per noi è un dato di fatto la nostra libertà, è
un esperienza che sperimentiamo quotidianamente. L’uomo si configura come quella creatura che grazie
alla sua libera volontà, si sottrae da un mondo meccanico di corpi determinati secondo il principio della
legge di causa-effetto (Cartesio V.s. Hobbes).

5) V MEDITAZIONE: L’ESSENZA DELLE COSE MATERIALI


La dimostrazione dell’esistenza dei corpi si svolge in più passaggi:
- Si parte dalle idee degli enti materiali nella nostra mente: noi abbiamo idee oscure e confuse delle
qualità sensibili ma abbiamo anche idee chiare e distinte dei corpi che sono quelle delle proprietà
geometrico-materiali dei corpi (estensione, figura e movimento), queste idee ci designano le
essenze immutabili ed eterne che sono vere anche se i corpi non dovessero esistere.
Per esempio, l’idea di triangolo, che esista o meno in natura mi identifica l’idea di una natura chiara
e distinta.
Quindi, è possibile che esistano dei corpi esterni perché io trovo in me le idee chiare e distinte delle
loro essenze, delle loro proprietà geometrico-matematiche.
- Per Cartesio i corpi sono probabili in quanto oggetto dell’immaginazione che è una facoltà a metà
strada tra la pura mens e la sensazione. Per immaginare la mente emette una tensione verso il
corpo e traduce i concetti della pura mente in immagini rendendone delle figure.
- A restituirci veramente l’essenza dei corpi sarà la sensazione che presuppone il corpo (organi di
senso) e presuppone i corpi (sentiti). Dopo avere imputato la sensazione nella prima meditazione
adesso viene ripresa per i suoi aspetti positivi come appunto la conoscenza degli enti materiali.

 Prova dell’esistenza dei corpi:


Usa lo stesso meccanismo che ha usato per la dimostrazione dell’esistenza di Dio: applica il principio di
causalità alla realtà oggettiva delle idee dei corpi (il cielo esiste perché ne ho in me l’idea che deve essere
causata da un cielo che esiste veramente e che produce in me l’idea di cielo).
- Tesi del non inganno divino:
La facoltà passiva della sensazione suppone una facoltà attiva che produce le idee che saranno ricevute
dalla sensazione. Questa facoltà non è in me, ma sarà in un corpo che a sua volta è in contatto con altri
corpi, altrimenti dovremmo supporre che queste idee siano state prodotte nella mia mente
direttamente da Dio (Malebranche) ma se così fosse Dio sarebbe ingannatore, ma questo abbiamo visto
essere impossibile. La prova è raggiunta indirettamente, visto che Dio non è ingannatore e non può
produrre in noi idee di enti corporali che non esistono, e visto che la mia mente non è capace di
produrre autonomamente queste idee, è necessario che esistano dei corpi reali che siano causa delle
idee nella nostra mente.

6) VI MEDITAZIONE: L’ESISTENZA DELLE COSE MATERIALI


 Distinzione reale tra mente e corpo: non è una distinzione di ragione, come quella tra l’estensione e
la sua figura (figura del cerchio inclusa nella sua estensione). Cartesio vuole provare che la mente
non è un modo del corpo, e viceversa, il corpo non è un modo della mente ma che sono due
sostanze distinte: “Le cose che posso intendere chiaramente e distintamente l'una senza l'altra,
possono venir poste in essere da Dio separatamente l'una dall'altra"; "poiché da un lato ho una
chiara e distinta idea di me stesso, in quanto sono solamente una cosa pensante ed inestesa,
e da un altro ho un'idea distinta del corpo, in quanto è solamente una cosa estesa e non pensante,
o è certo che quest'io, cioè la mia anima per quale sono cioè che sono è interamente e veramente
distinta dal mio corpo, e può essere o esistere senza di lui" (VI Meditazione).
Per Cartesio questa è la base della tesi dell’immortalità dell’anima perché se la mente può
sussistere di per sé, può esistere senza il corpo una volta che questo viene meno.

Una variante di questa dimostrazione viene data nei “Principi” che da una parte tiene insieme la
realtà dell’unione e dall’altro lato la possibilità della loro distinzione facendo leva sull’onnipotenza
di Dio. “E quand’anche Dio stesso congiungesse così strettamente un corpo a un’anima, da essere
impossibile di unirli di più, e facesse un composto [unum quid] di queste due sostanze così unite, noi
concepiamo anche ch’esse resterebbero tutte e due realmente distinte, nonostante questa unione”;
“poiché, qualunque legame Dio abbia messo tra loro, egli non ha potuto
privarsi della potenza che aveva di separarle, o di conservarle l’una senza
l’altra, e le cose che Dio può separare, o conservare separatamente le une
dalle altre sono realmente distinte” (Principi, I, 60)
Qualora Dio volesse separare anima e corpo lo dovrebbe fare dopo la morte perché in quel caso il
corpo, che è deperibile, si guasta. Mentre la mente, che è immateriale, persiste e sopravvive al
corpo.
L’UOMO CARTESIANO
Al termine dell’itinerario metafisico, Cartesio configura l’uomo come l’unione di due sostanze differenti, in
virtù della distinzione dell’anima del corpo. In questo modo egli vuole proporre un modello che vuole
scostarsi sia dal tradizionale ilemorfismo scolastico (fa dell’uomo il sinolo di due sostanze incomplete, atte
ad essere unite. Non garantisce l’immortalità dell’anima: l’unione rischia di diventare mortale per l’anima)
sia dal vero e proprio dualismo platonico moderato (materia perde il carattere di potenzialità ed assume
una certa consistenza ontologica. Questo pensiero riconosce un terzo modo, di unione, tra queste due
realtà). Cartesio cerca una soluzione che stia a metà tra questi due estremi, l’influsso più forte viene
dall’agostinismo (Agostino: l’uomo è anima razionale che si serve di un corpo), in particolare quello del ‘600
(Malebranche) riprende il pensiero di Agostino vedendo l’uomo come l’unione, voluta da Dio, di angelo e
bestia, due estremi tenuti insieme dalla provvidenza divina.
Nella sesta meditazione, Cartesio, cerca di scansare subito gli equivoci e di evitare il dualismo platonico e la
visione del corpo come strumento di una mente angelica (corpo= prigione dell’anima). Lo fa attraverso
l’immagine del Pilota nel battello: l’anima non è semplicemente come l’intelligenza artificiale per un robot.
Mentre il pilota nel battello vede il guasto della macchina, la mente sente il dolore, la fame, la sete e le altre
sensazioni che l’anima prova in virtù dell’azione del corpo. L’anima non si limita a conoscere lo stato del
corpo, come farebbe se un angelo fosse unito ad un corpo umano, ma al contrario patisce l’azione del
corpo. Quindi, le sensazioni mi dicono dell’unione psico-fisica che c’è tra anima e corpo. Non è un unione
accidentale, come quella che lega il pilota al battello, ma è un unione sostanziale, come lo era nella
tradizione scolastica.
Cartesio afferma che in senso proprio non abbia senso parlare di sostanze incomplete, ma in senso ampio
sì: le sostanze sono incomplete se miriamo il tutto che devono comporre (esempio della mano: la mano per
il corpo è qualcosa di incompleto, nella sua individualità è qualcosa di completo). Cartesio arriva a dire che
l’anima è l’unica vera forma sostanziale del corpo che da all’uomo identità, perché la quantità di materia
varia ma continua ad essere propria di ognuno, e individualità.

Come si può riconoscere l’unione tra anima e corpo?


Cartesio scrive alla principessa Elisabetta: “Io non ritengo la mente umana capace di concepire,
distintamente, e nello stesso tempo, la distinzione tra anima e corpo, e la loro unione”. La mente umana è
incapace di concepire la distinzione tra anima e corpo e allo stesso tempo la loro unione. Infatti, ciò è
impossibile perché violerebbe il principio di non contraddizione. Nulla vieta però di pensarli in due momenti
e maniere diversi.
A concepire l’anima come sostanza immateriale è la mente attraverso l’esercizio. A concepire l’unione
dell’anima e del corpo, invece, bisogna fare il contrario: abbandonare il mondo della speculazione.
Cartesio, rispondendo ad Elisabetta, distingue tre nozioni primitive che chiedono tre facoltà diverse:
- Il corpo è concepito grazie all’intelletto e all’immaginazione.
- Il pensiero è concepito grazie all’esercizio meditativo ed alla pura mente.
- L’unione anima e corpo è l’ambito dei sentimenti che sono conosciuti tramite il senso: per
concepire l’unione bisogna uscire dalla speculazione ed entrare nel terreno della vita perché
l’unione è un fatto da sperimentare, da vivere. I pensieri metafisici ci allontanano dall’unione
psicofisica, mentre, vivendo in cose quotidiane impariamo a concepire l’unione anima-corpo.

Come si può spiegare l’azione dell’anima sul corpo?


L’azione del corpo sull’anima si può spiegare meccanicamente fino a quando bisogna tradurre uno stimolo
meccanico in qualcosa che è puramente mentale. Che il corpo causi effetti sull’anima e che l’anima lo faccia
sul corpo è scontato, il modo in cui ciò avviene rimane oscuro, perché Cartesio introduce la ghiandola
pienale: una ghiandola, singola e mobile, posta al centro del cervello che sarebbe il luogo in cui l’anima può
agire. L’anima è diffusa in tutto il corpo ma la sua sede è la ghiandola pineale ed è da lì che può
determinare i movimenti muscolari e ricevere a sua volta gli stimoli del corpo che vengono interpretati
dall’anima.
Il problema principale per i filosofi dopo Cartesio sarà proprio spiegare come qualcosa di corporeo possa
agire su qualcosa di incorporeo.
Il primo dei post-cartesiani: MALEBRANCHE (1638-1715)
Come tutti i post-cartesiani, Malebranche, da un lato seguirà il pensiero di Cartesio e dall’altro prenderà la
sua strada considerando in modo critico il pensiero cartesiano.
La sua filosofia comprende due macro-caratteristiche:
1) Unione di cartesianesimo e agostinismo: il primo gli viene da una vera e propria folgorazione quando
legge il “trattato sull’uomo”; l’agostinismo invece, viene dal fatto che è un prete dell’ordine oratoriano.
2) Proposta di una filosofia cristiana: “la vera filosofia è la vera religione”.
La sua vuole essere una filosofia cristiana che congiunge una metafisica agostiniana con la nuova scienza
meccanicista cartesiana.

Malebranche è convinto che la ragione dello scienziato e quella della religione siano la stessa Ragione, ossia
quel logos, quel Dio che secondo Agostino abita in ognuno di noi.
Certi temi cartesiani vengono declinati in ottica religiosa: Per esempio, il precetto cartesiano del distogliere
la mente dai sensi, diventa il domandare a Dio di Agostino, oppure, il tentativo di elevarsi dalla materialità
che è frutto del peccato. Il combattere i pregiudizi assume una tinta religiosa, assente in Cartesio.

TEOCENTRISMO: La filosofia di Malebranche ribadisce che la natura dipende dal creatore. Le due dottrine
principali del filosofo (visione delle idee in Dio, occasionalismo) ribadiscono il teocentrismo sia dal lato della
conoscenza che dal lato della causalità.
- La visione delle idee in Dio dice che in tutta la conoscenza noi siamo in rapporto a Dio.
- La dottrina dell’occasionalismo afferma che l’unica casa efficace ed efficiente al mondo è Dio. Tutte
le altre cause sono occasionali, nel senso di occasioni per l’agire di Dio.

Unione di cristianesimo e agostinismo


UNIONE DELL’ANIMA CON DIO E CON IL CORPO:
Già nella prefazione di “La ricerca della verità” ci si accorge di come Malebranche voglia radicalizzare il
discorso di Cartesio: egli afferma che l’anima umana si trova, per sua natura, collocata tra il suo creatore e
le nature corporee, quindi l’anima occupa una posizione di mezzo tra Dio e i corpi. Il punto è che l’unione
dell’anima con Dio è più essenziale dell’unione dell’anima col corpo che è contingente. Mentre l’unione
dell’anima con Dio è benefica per l’uomo, l’unione dell’anima con il corpo lo svaluta.
Il problema è che mentre nella condizione iniziale l’anima era più unita a Dio che al corpo, dopo il peccato
originale, l’anima si unisce al corpo molto di più, il che spiega tutte le forme di materialismo.
Malebranche, a differenza di Cartesio che si era impegnato nella dimostrazione della distinzione tra anima e
corpo, parte proprio da questa distinzione come dato di fatto.

LA CONOSCENZA: IDEE PRIMA DEI CORPI


L’anima non può conoscere direttamente il mondo materiale e corporeo perché non è legata direttamente
ai corpi ma è legata a qualcosa che le è consimile, spirituale, che sono le idee, che quindi saranno
conosciute prima degli oggetti esterni. L’oggetto immediato del nostro spirito quando vede il Sole, non è il
Sole corporeo ma qualcosa che è immediatamente unito all’anima, l’idea di Sole.
Malebranche fa un passo in avanti rispetto a Cartesio:
Cartesio Malebranche
-Idee = strumento per conoscere i corpi -Le idee sono l’oggetto della conoscenza e non lo
-Idee mi appartengono strumento
-Distinzione idee chiare e distinte (essenze dei -Idee non sono della mente umana ma sono
corpi) e idee oscure e confuse (sensazione) Archetipi dei corpi che stanno nell’Iperuranio.
-Spezza la sensazione e le idee.

Secondo Malebranche da un lato ci sono le idee, essenze platoniche che non sono mie modificazioni ma
sono archetipi che sussistono nella mente di Dio, dall’altro lato ci sono le sensazioni che sono mie
modificazioni, qualcosa di individuale e particolare che dipende dal mio incontro coi corpi esterni, sono
qualcosa di soggettivo ed individuale con una finalità pratica, non conoscitiva.
In questo modo, Malebranche, distingue un piano psicologico (sensazioni, mie modificazioni) e un piano
metafisico (idee archetipe nell’intelletto divino).
Vuole formulare una teoria della conoscenza che pone l’origine delle idee fuori dalla mente umana. L’anima
quindi, riflette quello che scopre nella ragione divina. La conoscenza è una partecipazione al divino.

ESEMPIO DEL SOLE: la conoscenza può essere distinta nella sensazione del calore del sole (uomo comune) o
nell’idea del Sole (conoscenza scientifica). Le sensazioni non hanno una funzione conoscitiva ma mi servono
dal punto di vista pratico.

5 TESI PER SPIEGARE LA CONOSCENZA DI OGGETTI ESTERNI


VIA REMOTIONIS: Malebranche elenca le quattro principali spiegazioni di come avviene la conoscenza, le
smonta tutte, per poi elaborare la sua riposta.

 TESI EMPIRISTE: la conoscenza muove dai sensi.


1. Le idee che abbiamo dei corpi vengono dai corpi . Tesi rifiutata perché interpreta le specie
intenzionali come qualcosa di materiale, è una tesi inapplicabile: se ci immaginiamo che tutti i corpi
esterni emanano dei corpuscoli, prima che questi arrivino ai sensi sparirebbero.
2. A partire dai sensi produco le idee per astrazione . Tesi rifiutata perché attribuisce alla creatura la
possibilità di forgiarsi qualcosa di spirituale. Se Dio ha creato un mondo materiale come si può
pensare che la natura sia in grado di produrne uno spirituale.

 TESI INNATISTE:
3. Dio ha prodotto le idee nella mente dell’uomo creandola. Tesi troppo complicata perché rende la
mente umana un magazzino ingombro di idee.
4. L’anima ha in sé tutte le perfezioni che vede nei corpi. Tesi rifiutata perché la mente non contiene
in sé tutte le perfezioni del mondo, altrimenti sarebbe una mente divina.

 TESI DI MALEBRANCHE: semplice e rispettosa della giusta dipendenza della creatura.


5. Visione delle idee in Dio: l’anima è unita ad un essere perfettissimo al quale si racchiudono tutte le
idee degli esseri creati.
Quando propone questa tesi ha in mente due riferimenti: l’illuminazione agostiniana (io vedo in Dio le
verità eterne); estensione intellegibile (noi in Dio vediamo l’archetipo dei corpi).
La mente divina non è un magazzino delle idee del mondo, quello che vedo in Dio è l’estensione
intellegibile di cui tutti i singoli corpi sono dei ritagli.

Come posso distinguere due corpi dalla stessa identica estensione?


L’estensione intellegibile si particolarizza in infiniti modi diversi grazie all’unione delle qualità secondarie, le
modificazioni e sensazioni che mi serviranno per evitare confusione tra gli enti corporali. È Dio ad aver
stabilito che ad una determinata idea vengano corrisposte tutte le qualità secondarie che rendano
quell’oggetto unico.
Malebranche sta rendendo la mente umana già in una condizione di beatitudine, perché come i beati di
Tommaso, la mente umana vede le cose attraverso la loro essenza, in Dio.

La problematica: esistenza dei corpi.


Se quello che vedo in Dio sono le essenze che mi dicono di una possibile creazione, come faccio ad essere
certo del mondo esterno?
Malebranche non è soddisfatto della prova cartesiana dell’esistenza dei corpi e della materia con cui noi, in
quanto anima, non siamo mai in contatto diretto. Non possiamo avere la certezza razionale dell’esistenza
dei corpi esterni. Nemmeno Dio può darci una risposta, noi in lui non vediamo la sua volontà ma
partecipiamo a quella parte del suo intelletto di cui lui ci ha voluto rendere partecipi (parte delle verità
eterne e dell’estensione intellegibile). Dio potrebbe anche decidere che non esista nulla di materiale
intorno a noi e potrebbe semplicemente imprimere nella nostra mente le stesse sensazioni che avremmo e
le stesse idee. Quindi, il mondo materiale potrebbe essere annientato e noi potremmo continuare a vedere
le stesse bellezze.
L’unica via per accertarci della reale esistenza dei corpi è la rivelazione: Dio ha voluto creare il mondo
perché nelle Sacre Scritture si legge che Dio ha fatto cielo e terra.

Perché Dio ha fatto il mondo materiale?


Malebranche risponde che per Dio è stato più conveniente creare i corpi che imprimere direttamente le
idee in ciascuno di noi perché è la via più semplice.

La conoscenza in Malebranche si declina in questo modo:


- Dio è conosciuto per se stesso: vedendo le verità in lui ci uniamo. Non è conoscibile per idea
(Cartesio diceva di sì) perché la mia idea finita non può rappresentare qualcosa di infinito.
- I corpi sono conosciuti tramite le idee: quando il corpo è conosciuto tramite l’idea si ha una
conoscenza perfetta.
- La nostra anima è conosciuta per sentimento interiore o coscienza: Noi non abbiamo un’idea di
anima perché conoscere l’essenza della propria anima significa conoscerne tutte le proprietà il che
significa conoscere tutto ciò che accadrà ma se così fosse noi ci disinteresseremmo del corpo e
potremmo sapere già il nostro destino. Dio infatti ci ha velato la conoscenza della nostra anima che
conosciamo solo per coscienza.
- Le anime altrui sono conosciute per congettura: in questo caso non le conosciamo né in se stesse
né tramite le loro idee. Noi possiamo ipotizzare che le altre anime sono simili alle nostre con i tratti
già stipulati da Cartesio, per esempio tramite il linguaggio posso dire che chi ho di fronte non è un
automa ma è un uomo dotato di anima.

L’OCCASIONALISMO
La prima dottrina di Malebranche in cui si esprime il suo teocentrismo si connette profondamente alla
teoria dell’occasionalismo. Se l’uomo non è causa della propria conoscenza, ma è Dio ad esserlo, quello che
l’uomo fa è limitarsi a volgere lo sguardo verso la luce divina: la mente è l’occasione per l’azione del solo
che agisce, Dio.

PREMESSE DELL’OCCASIONALISMO
Malebranche nega ciò che Cartesio aveva affermato, ossia che l’anima possiede una forza in grado di
muovere il corpo, e viceversa il corpo di muovere l’anima. Malebranche riporta tutta la forza a Dio.
L’occasionalismo vuole essere da un lato una prova del teocentrismo, affermato precedentemente,
dall’altro un apologia della religione cristiana dagli attacchi libertini (spiriti scettici e deisti, che valorizzano
la natura come dotata di forze e quindi in grado di fare a meno di Dio). Inoltre, vuole essere una
spiegazione alternativa, rispetto a quella cartesiana, alla relazione tra anima e corpo. Infine, vuole anche
essere una dottrina alternativa all’ilemorfismo scolastico, che Malebranche interpreta come residuo di
paganesimo. Il tono di Malebranche diventa molto più forte rispetto a quello di Cartesio che non si era
permesso di attribuire il termine “paganesimo” alla scolastica.

DISTINZIONE TRA ANIMA E CORPO


Malebranche parte dall’unica idea chiara e distinta che possiede, quella di estensione, che è una sostanza,
concepibile da sola. Quando guardo alle modificazioni del mio pensiero (pensare, provare un sentimento)
noto che queste non sono connesse, allora queste apparterranno ad una sostanza diversa dall’estensione.
Siccome non abbiamo l’idea di anima (mentre Cartesio aveva sia l’idea di anima che di corpo) non possiamo
supporla come una sostanza. Per questo motivo anche le principali proprietà dell’anima verranno tratte
dalle proprietà che possono essere distinte chiaramente nel corpo.
Le proprietà dell’estensione o materia hanno della analogie con le proprietà dell’anima.
Materia o estensione Spirito o anima
Ricevere diverse figure Ricevere le idee attraverso l’intelletto
Capacità di essere oggetto dei movimenti che le Ricevere le inclinazioni attraverso la volontà
vengono impressi

Così come la materia è ricettiva (non è dotata di forze come per Cartesio) così l’anima è passiva, può
ricevere idee e inclinazioni. Per Cartesio è vero che l’intelletto è recettivo ma la volontà era attiva, talmente
tanto da sembrare quella divina. Malebranche vuole ricondurre anche l’anima ad una condizione di totale
passività.

L’unione tra anima e corpo


Se né il corpo né l’anima agiscono non è più pensabile un influsso reciproco tra queste due sostanze
eterogenee. Malebranche dice che il termine “unione” è uno dei più equivoci che ci siano: non spiega nulla
ed anzi ha bisogno di essere spiegato.
-)Io non sono alloggiato come un pilota nel battello ma sono strettissimamente connesso al mio corpo tanto
da formare un tutt’uno con esso. (TESI DI ARISTO PRO CARTESIO)
V.S
-)L’anima non può essere unita al corpo perché può essere unita solo a ciò che può agire in essa e Dio è ciò
che ci unisce al corpo e a tutto il resto attorno.(TEODORO CONTRO CARTESIO)

Solo la volontà di Dio può stabilire l’unione tra anima e corpo. Ma perché si è resa necessaria questa
unione? Perché Dio non ha deciso di lasciare l’uomo nel puro spirito?
L’anima è nel corpo come se fosse in una prova, per ragioni legate al destino dell’anima dopo il corpo. Il
concetto è quello di espiare le proprie colpe attraverso le prove che il corpo ci permette in modo da
meritarci la salvezza.

Rapporti di causalità
Se la materia è passiva e l’anima è passiva non sono possibili rapporti di causalità né tra un corpo e uno
spirito né tra uno spirito e un altro spirito e nemmeno da un corpo a un corpo.
- Il corpo non può agire né su uno spirito né su un altro corpo perché il movimento non fa parte
dell’essenza dei corpi. La causa del movimento dei corpi sarà la volontà di Dio che imprime il
movimento nella materia e poi lo conserva.
Malebranche accetta questa teoria cartesiana ma aggiunge anche una altro passaggio ossia la
creazione continua: la creazione non ha termine perché la conservazione delle creature è vista da
Dio come una medesima volontà che sussiste ed opera incessantemente.
Se l’opera di Dio è sempre attiva, come possiamo pensare che l’uomo possa davvero spostare
qualcosa e fare di sua propria volontà qualcosa che Dio non vuole?! Come può un corpo essere
dotato di totale autonomia da scappare alla volontà divina sussistente?!
È contraddittorio che qualsiasi persona possa volontariamente muovere qualcosa.

Nessuno, uomini o angeli, può realmente agire all’interno della natura per il fatto che Dio adegua
l’efficacia della propria azione all’azione inefficace delle sue creature.
Tutta l’energia del mondo dipende da Dio e gli oggetti del mondo non sono se non un tramite dell’energia.

Le cause occasionali
Causa vera è una causa in cui insorge un legame necessario tra la stessa causa ed il suo effetto (esempio:
schiaccio l’interruttore e si accende la lampadina). La ragione ci dice che all’interno dell’effetto io non
ritrovo mai la causa ma non è nemmeno implicita nella causa il suo effetto (perché una causa può avere
due effetti diversi). L’esperienza, inoltre, non mi mostra mai la necessità del fatto che avviene.
Non è possibile fare ciò che non si sa come viene fatto: se la volontà non può volere ciò che non conosce.
Quindi a muovere tutto quanto non è altro che Dio.

Conclusione) Non si può più parlare di un’azione reale dell’anima sul corpo e viceversa. Non c’è un
influsso causale reale ma una corrispondenza metafisica voluta da Dio.
DIFFICOLTÀ DELL’OCCASIONALISMO: il problema del male.
Questo tipo di impostazione genera una serie infinita di difficoltà, tra cui prima di tutto la questione della
teodicea. Nelle “Meditazioni Cristiane” Malebranche afferma che è Dio a fare tutto, le cose buone e le cose
cattive, fa crollare una casa sia sul giusto che sul disonesto. Il rischio grosso a cui incorre Malebranche è
quello di riportare a Dio la causa del male ed il peccato.
Malebranche, per salvare la sua teoria, afferma che Dio fa il bene e permette il male, ovvero che vuole
positivamente il bene e non vuole per nulla il male. Con questo Malebranche vuole evitare due scogli:
- Spinoza ed il necessitarismo: Il Dio di Spinoza agisce liberamente in misura del fatto che non è
vincolato da nulla. È un Dio che non crea e non produce, è una sovrabbondanza di essere che
sussistendo fa esistere tutto. In questo modo tutto è buono per il semplice fatto di esistere.
Chiedersi se le cose sono buone o cattive nasce da un pregiudizio finalistico che ha come
fondamento una visione errata di Dio.
- Cartesio e l’arbitrarismo divino: Per Cartesio Dio è libero di una libertà di indifferenza totale, nulla
può competere con il creatore, quello che Dio fa è buono e vero. Ma un Dio che agisce in totale
libertà senza alcun motivo, appare a Malebranche qualcosa di irrazionale. (Il Dio di Malebranche, al
contrario del Dio di Cartesio, pone l’accento sulla saggezza).
A differenza delle teodicee tradizionali, che prendono come punto di partenza la non consistenza
ontologica del male definendolo privazione di bene, il male secondo Malebranche esiste.
“È antropocentrico credere che Dio abbia creato il mondo per l’uomo”
Dio crea, non per l’uomo, ma per sé stesso e per la propria gloria (Malebranche ha in mente il Dio
cristiano) quindi avendo in vista l’incarnazione del verbo. Allora, se il suo fine è incarnarsi in un essere
umano, il peccato è stato qualcosa di funzionale all’incarnazione del Figlio. Occorreva che il figlio si
incarnasse per deificare le creazione (non dell’uomo in particolare) che altrimenti non avrebbe avuto tutto
questo valore.

DIO = ARCHITETTO -> Dio è un buon architetto che mette in campo la creazione per costruire un edificio di
cui si compiace, ma poi vuole anche una seconda gloria, quella del riconoscimento della bellezza del suo
edificio di quanti ne possano osservare la magnificenza. Dunque, la creazione ha come fine questa duplice
gloria di Dio, che consiste anche nel riconoscimento della creatura.

Dio agisce attraverso volontà generali, non particolari: Dio può non creare ma se decide di creare può
regolarsi solo nella legge che trova in se stesso e questo è l’ordine. Dio stabilisce fin dal principio delle leggi
universali della creazione che sono leggi generali ma sono anche leggi feconde e semplicissime perché Dio è
saggio e quindi non sceglie la via più complicata rispetto ad una via più semplice (a parità di risultati).
Il male e il disordine sono un effetto delle leggi semplici che Dio mette in campo.

IL MIGLIORE DEI MONDI POSSIBILI


Prima ancora di Leibnitz, che riprende la teodicea di Malebranche intuendone gli scogli, M. crede che esista
una sorta di contemplazione dei possibili e la scelta del migliore da parte di Dio. La visione di Malebranche
però differisce dall’ottimismo leibniziano che è totale, egli mette dei vincoli: questo è il migliore dei mondi
possibili in rapporto alle vie. Dio avrebbe potuto scegliere altri mondi possibili “migliori” di quello attuale,
ma non avrebbe avuto la stessa semplicità di vie che ha questo , e siccome Dio è saggio ed agisce secondo
leggi semplici, non poteva che mettere in campo questo mondo.
SAPIENZA V.S POTENZA
Il risultato è che la sapienza di Dio diventa un ostacolo alla sua sapienza.

“Trattato della natura e della grazia” -> Malebranche spiega come le stesse leggi semplici che regolano la
natura sono le stesse della grazia, per questo motivo la grazia può cadere anche su qualcuno che non se lo
merita. Questa tesi appare così scandalosa che genera una condanna.

Dio ci ama alla sua maniera ma siamo soprattutto noi che dobbiamo amare Dio. Malebranche afferma che è
impossibile un amore disinteressato ma è possibile solo un amore puro nei confronti di Dio che ha istituito
questo meccanismo della sensazione in modo da dare un diletto per cui noi nell’amare Dio proviamo gioia.
LEIBNIZ: un mondo armonico (1646-1716)
Il pensiero di Leibniz, per quanto egli sia un razionalista, non arriva mai a costruire un vero e proprio
sistema organico, piuttosto la sua produzione si compone di una serie di progetti che rimangono alle volte
come semplici abbozzi, anche per questo motivo le immagini di Leibniz nella storiografia sono cambiate nel
corso del tempo perché Leibniz in vita ha pubblicato molto poco, fondamentalmente alcuni articoli usciti su
riviste filosofiche, il “Discorso di metafisica” (1686), “Saggi di teodicea” (1710), ma la maggior parte dei testi
leibniziani è stata pubblicata postuma, portando in questo modo a scoprire nuovi aspetti del filosofo.

Leibniz può essere definito come il “filosofo dell’armonia” perché tenta di armonizzare diversi punti di
vista. Molto spesso assume il punto di vista dell’altro con cui si pone in dialogo, il che gli ha valso l’accusa di
essere un grande politico (si mette dalla parte di entrambi i lati, tanto da essere definito da Nietzsche come
un “bonaccione”).
Questa caratteristica di Leibniz come politico e diplomatico si concretizza nella sua biografia quando venne
mandato a Parigi, in missione, per convincere Luigi XIV a non condurre guerre fino alla Germania.
Questo suo essere “conciliatore” interessa anche la filosofia in quanto Leibniz tenta di far convergere
meccanicismo e finalismo, fronteggiati come opposti, ma anche l’arbitrarismo e il determinismo, per
quanto riguarda il rapporto Dio-mondo, e infine tra innatismo cartesiano ed empirismo.
Questo suo mediare si concretizza in una tendenza eclettica: egli crede nella cosiddetta philosophiae
perennis -> egli è convinto che la verità non stia tutta da una parte ma che sia sparsa, si tratta di qualcosa
che sia da ricomporre all’interno di un tutto armonico. Per fare questo bisogna mettere il naso nelle
filosofie altrui, quindi scendere in dialogo coi maggiori filosofi del suo tempo.

CONFUTARE LO SPINOZISMO
Spinoza è considerato “l’empio” del secolo, colui che deve essere confutato, perché il suo monismo è una
forma di panteismo, in cui Dio coincide con la natura e non c’è assolutamente spazio per la libertà umana
ma per Spinoza tutto è necessario.

Leibniz prende posizione sia contro il monismo spinoziano sia contro il dualismo cartesiano:
- V.S Spinoza: DOTTRINA DELLE MONADI
Spinoza nel dimostrare l’unicità della sostanza aveva posto un dilemma: o c’è un’unica sostanza o ci deve
essere una pluralità di sostanze, tutte diverse l’una dall’altra, che non possono avere tra loro rapporti
causali.
Dal momento che Spinoza riteneva questa seconda opzione un’assurdità la scartò. Leibniz, invece, prende
proprio questa posizione per fondare la sua dottrina delle monadi: pluralità di sostanze tutte quanto
individue le quali non hanno rapporti causali l’una sull’altra.

- V.S Cartesio e Malebranche:


Con la dottrina dell’influsso causale, Cartesio attribuiva all’anima la forza di muovere il corpo e viceversa al
corpo la forza di muovere l’anima. Malebranche nega questa posizione riconoscendo che non può esserci
un influsso reale tra due sostanze eterogenee ma che la relazione tra queste sostanze può essere spiegata
da un punto di vista metafisico, non fisico.
Tuttavia, Leibniz non accetta nemmeno la teoria metafisica di Malebranche, nonostante avesse fatto un
passo avanti rispetto a Cartesio: Malebranche implica che Dio intervenga continuamente per coordinare
due sostanze che di per sé sono differenti.

IL RECUPERO DELLA FORMA SOSTANZIALE E DELLA CAUSA FINALE ATTRAVERSO UNA CRITICA
Leibniz compie una conciliazione tra antichi e moderni, il cui terreno di scontro durante la metà del XVII
secolo riguarda l’essere vivente. Leibniz afferma di voler conciliare le ragioni di verità che hanno i moderni
con le verità ineludibili degli antichi, perché tanto i primi quanto i secondi peccano di parzialità.
L’approccio dei moderni è parziale perché considera il come, indaga le cause efficienti, ma è mancante in
misura del fatto che dimentica la domanda sul perché, la ricerca della causa finale.
Occorre tenere insieme il sapere scientifico, quello alla ricerca della causa efficiente, con il sapere filosofico,
che indaga i principi ultimi. Leibniz è convinto, come Cartesio, che la fisica possa fondarsi solo sulla
metafisica che si occupa della causa finale, quindi una metafisica diversa da quella di Cartesio che aveva
bandito le cause finali.
La sfida di Leibniz è fondare il meccanicismo sui principi metafisici e spiegare fenomeni naturali senza
ricorrere alle qualità occulte della scolastica. È vero che gli scolastici hanno abusato del concetto di forma
sostanziale per parlare di fenomeni della natura che secondo Leibniz possono essere spiegati
meccanicamente. Ma le forme sostanziali servono a livello dei principi della fisica, nella metafisica,
altrimenti la fisica non si potrebbe fondare.

Critica all’estensione cartesiana:


L’estensione cartesiana non è sufficiente per fare fisica: L’estensione cartesiana non può essere essenza
dei corpi perché non ne possiede le qualità necessarie: essendo divisibile all’infinito non restituisce mai una
vera unità, inoltre, è qualcosa di inerte (privo di movimento) quindi non può spiegare la resistenza che i
corpi oppongono al movimento loro impresso. Infine, può essere figurata in mille modi diversi ma non si
vede da dove possa trarre la capacità di essere suscettibile di variazioni.

Critica all’Atomismo moderno:


L’alternativa all’estensione cartesiana è la teoria neo-epicurea dell’atomismo o corpuscolarismo (opzione di
Locke): l’idea che ci siano solo atomi e vuoto.
Leibniz afferma di essere stato attratto in giovane età dalle dottrine atomiste ma il problema secondo il
filosofo è che l’atomo non può essere quell’elemento ultimo che stiamo cercando perché, a dispetto del
nome, essendo materiale è divisibile. “È impossibile trovare i principi di una vera unità nella materia sola o
in ciò che è solo passivo… per trovare queste unità reali fui costretto a ricorrere ad un punto reale e per così
dire animato”. Quindi, se deve esistere un elemento semplice, questo non può essere un atomo materiale
ma un atomo spirituale che sia dotato di una tendenza all’azione.
Devono esserci nella realtà queste entelechie prime che a partire dagli anni ‘95/’96 Leibniz comincia a
chiamare monadi, rifacendosi alla tradizione neoplatonica e khabalista.

TRE VIE AL CONCETTO DI MONADE


- ORIGINE METAFISICA: La monade, dal punto di vista metafisico, è principio di unità e principio di
attività.
P.U = La monade va supposta perché alla base del molteplice deve stare qualcosa che abbia reale
unità.
P.A = Serve che ci sia un principio del moto che sia già all’interno della sostanza. Quando Dio
imprime il moto alla materia, questo moto rimane estrinseco (Malebranche) o l’azione divina lascia
un’impronta (Leibniz) -> Dio lascia un’impronta nella natura e fa si che all’interno della sostanza ci
sia un’principio di attività che è la monade.

- ORIGINE LOGICA: La monade è l’ipostatizzazione del soggetto logico. Russell muove dal “Discorso di
metafisica” in cui Leibniz definisce la sostanza individuale come il soggetto di vari predicati che non
è predicato di alcun soggetto. Quando più predicati si attribuiscono allo stesso soggetto e questo
soggetto non si attribuisce a nessun altro, questo soggetto è una sostanza individuale.
“La natura di una sostanza individuale è di avere un concetto così compiuto che sia sufficiente a
comprendere, e a far sì che si deducano, tutti i predicati del soggetto a cui tale concetto è attribuito”
-> La sostanza individuale come concetto è la nozione completa di sostanza comprende tutti i
predicati presenti, passati e futuri e che possono essere attribuiti a quella sostanza.
Il punto su cui fa leva Leibniz è il principio logico per cui il predicato inerisce al soggetto, da cui
deriva il principio leibniziano di ragione sufficiente per cui c’è sempre una ragione per cui le cose
stanno in questo modo.

- ORIGINE FISICA: CARTESIO (QUANTITÀ DI MOTO) V.S. LEIBNIZ (FORZA VIVA)


Secondo Cartesio, la materia è completamente inerte e riceve da Dio il movimento, e dal momento
che Dio è immutabile ci sono tre leggi del moto che regolano il moto.
In questo modo Cartesio stabilisce che Dio conserva sempre la stessa quantità di materia nella sua
immutabilità, tesi che viene accettata da Malebranche. In questo modo l’azione dell’uomo non ha
una forza tale da aggiungere una quantità di moto, perché quello che l’uomo può fare è
semplicemente dirigere la quantità di moto che si conserva dall’azione di Dio.
Secondo Leibniz, in questa maniera, non si riesce più a spiegare nulla. Allora, egli modifica la
formula cartesiana per cui ciò che si conserva in natura non è la quantità di moto ma la forza viva (Il
prodotto della massa per il quadrato della velocità). In questa variazione di formula c’è la scoperta
della nozione di forza che è una nozione metafisica perché noi ne vediamo gli effetti ma non la
forza in quanto tale. Al di là del piano meccanico dell’estensione sta un piano metafisico di forze
che sono le monadi in grado di rendere ragione ultima dei fenomeni materiali.
La tesi di Cartesio, secondo Leibniz, non è in grado di dare ragione né dell’impenetrabilità dei corpi
né l’azione delle creature sui corpi. Se le cose non hanno una reale azione significa che esiste solo
l’unica sostanza che esiste e tutto il resto non è altro che una determinazione di questa unica
sostanza che agisce. Il cartesianesimo rischiava di rovesciarsi nello spinozismo. Occorre che la realtà
porti con sé l’attività a disposizione di creature e creatore.

CARATTERI DELLA MONADE


Con il concetto di monade vuole battere il dualismo cartesiano al quale contrappone un universo unitario
in cui l’estensione rimanda allo spirito, perché questi atomi che sono le vere sostanze sono spirituali.
All’unica sostanza di Spinoza, Leibniz contrappone l’infinità di sostanze tutte diverse tra loro.
La monade:
- è ciò che ha unità
- entelechia, ciò che ha perfezione e attività
- individuale e autonoma
- semplice: non ha parti
- inestesa
- immateriale: l’estensione implica la divisibilità e materialità
- ESPRESSIVITÀ: “Ogni sostanza è come un mondo intero e come uno specchio di Dio, ossia
rispecchia tutto l’universo esprimendolo nel modo che le è peculiare” -> la metafora della monade
come specchio di Dio significa che la monade è un micro-cosmo che esprime il macro-cosmo.
Ciascuna monade esprime il mondo secondo gradi di perfezione diversi: Ogni monade esprime in
maniera individuale lo stesso universo, con angolature che ne fanno la sua specificità. Ci sono
monadi più perfette che esprimono in maniera più chiara l’universo.
Il punto di vista di Dio è collocato a distanza infinita, è quello icnografico ovvero il punto di vista
della rappresentazione totale, oggettiva e che somma tutte le singole scenografie individuali. Ci
sono tante scenografie quante sono le monadi e poi c’è il punto di vista di Dio, oggettivo, che
coordina tutte le singole sceneggiature delle monadi.
Il relativismo non è permesso dal fatto che pur essendo tutti punti di vista diversi tra loro, sono tutti
sulla medesima cosa.
Non si cade nemmeno nell’individualismo perché tutte le monadi esprimono il medesimo universo
e avendo questa capacità espressiva sono al tempo stesso espresse dalle altre monadi. Ogni
monade esprime ma è anche espressa da altrui.

I GRADI DI ATTIVITÀ DELLA MONADE


Tutte le monadi hanno la capacità di rappresentare l’universo tramite quello che Leibniz chiama
percezione. Per distinguere tra loro le monadi e porle in una gerarchia bisogna affermare che ogni monade
può passare attraverso diversi gradi di attività.
Ogni monade si specifica attraverso:
- Percezione: qualità per cui la monade si rappresenta tutto l’universo
- Appetizione: stimolo a passare da una percezione all’altra, tendenza a pervenire a nuove percezioni
e a mutare il proprio stato rappresentativo interno, passando da una rappresentazione all’altra.
- Appercezione: propria delle monadi in grado di essere non solo specchio dell’universo ma anche
specchio di se stesse, quindi delle monadi capaci di autocoscienza. Termine che si ritrova in Kant,
nella “Critica della ragion pura” quando Kant chiamerà l’Io penso “appercezione trascendentale”.
- Piccole percezioni: percezioni proprie dell’inconscio, inavvertite. Leibniz fa un esempio: quello del
rumore emesso da un getto d’acqua mosso da un mulino, che rimane un sottofondo di cui noi non
abbiamo coscienza. Piccole percezioni possono essere portate a coscienza.

L’ANIMA NON È UNA TABULA RASA (LEIBNIZ V.S LOCKE)


Dal punto di vista della teoria della conoscenza non è pensabile che la mente possa essere una tabula rasa,
così come volevano Aristotele e Locke, perché ogni monade ha già in sé tutta la rappresentazione, seppur
confusa, dell’intero universo. Tra Aristotele e Platone, Leibniz preferisce il secondo e la sua teoria della
reminescenza. Concepire l’anima come una tabula rasa significa concepirla come qualcosa di materiale, il
che non è corretto perché la sua natura è spirituale come quella di tutte le monadi.
La metafora di Cartesio della cera, il cervello, e il sigillo sulla cera, come le tracce lasciate sulla mente, non
va bene a Leibniz che afferma la necessarietà dell’esperienza ma anche l’esigenza di contestualizzare
l’esperienza: serve a risvegliare le virtualità già presenti.
Leibniz propone: “niente è nell’intelletto che prima non sia stato nel senso, se non l’intelletto stesso che è
innato”.
Quella che sviluppa Leibniz, collegando Cartesio (innatismo) e Locke (empirismo), è una posizione di
innatismo potenziale, portando esempi contrapposti all’immagine della tavoletta di cera di Locke sono:
- La tela variegata da pieghe che rappresentano le conoscenze innate, sulla quale vengono proiettate
delle ombre cinesi. Questo per spiegare che la nostra conoscenza non è solamente un calco di
oggetti conosciuti ma ciascuno li coglie secondo la sua prospettiva determinata, perché ogni
monade è un punto di vista individuale, proprio per il fatto di avere delle proprie venature
intrinseche. Questo aspetto della tela richiama alla memoria quello che diceva Bacone a proposito
dello specchio deformante.
- Il blocco di marmo venato: l’esperienza è come lo scalpello dello scultore che rende attuali quelle
predisposizioni che sono già presenti potenzialmente nell’intelletto.
Le idee stesse non sono concepite da Leibniz sul modello iconico che adottano sia Cartesio che Locke: Per
Leibniz le idee non sono immagini delle cose, ma hanno già un carattere disposizionale, sono disposizioni di
cui non sempre abbiamo consapevolezze seppure siano già presenti come virtualità che si possono
risvegliare a contatto con l’esperienza.
Rispetto a Malebranche, secondo cui noi vediamo tutte le idee in Dio, Leibniz crede che noi vediamo le idee
per mezzo di Dio, le idee quindi sono nella mente umana, non in quella divina. La mente attualizza le idee
quando fa esperienza delle cose.

ONTOLOGIA LEIBNIZIANA
Nella “Monadologia” Leibniz scrive che è necessario che esistano sostanze semplici perché esistono i
composti, i quali sono ammassi di semplici. L’universo leibniziano è un universo animato, dinamico, vitale,
continuo, che segue il principio metafisico per cui “la natura non fa salti”. C’è una grande catena degli
esseri, per cui queste monadi create da Dio, si dispongono secondo gradi di perfezione che corrispondono
al grado di loro complessità e di unità.
Volendo riassumere in un concetto l’ontologia di Leibniz bisogna dire che questa è un’ontologia a tre livelli:
- il primo livello della monade:
- il secondo livello è quello delle sostanze corporee: sono gli organismi che hanno una complessità
superiore rispetto ai non viventi. L’aggregato di monadi che costituisce il corpo è a sua volta
unificato da una monade dominante che sarà l’anima nel caso dell’animale; oppure sarà uno spirito
nel caso che l’organismo sia umano.
- il terzo livello dei meri aggregati: sono le cose inanimate (per esempio, nuvola, gregge, pietre,
tavolo) i quali sono privi di unità per sé, ma sono ammassi di monadi, la loro unità consiste nello
sguardo del percipiente, è un’unità attribuita dal soggetto che li percepisce.
L’UNIVERSO ANIMATO: la caratteristica degli organismi è di possedere una complessità infinita perché ogni
parte del corpo organico è a sua volta un organismo e quindi a sua volta composto da altre macchine della
natura. Leibniz fa proprie le scoperte del microscopio con il quale ripete che “in ogni goccio d’acqua c’è un
mondo in miniatura”; “ogni corpo vivente ha l’anima come entelechia dominante, ma le membra del corpo
vivente sono piene di altri viventi, ognuno dei quali a sua volta ha la propria entelechia”.
Questo schema di un aspetto materiale della monade, che coincide con la sua passività, ed un aspetto
formale, che coincide con la sua attività, è presente a tutti i livelli gerarchici dell’universo.
È un discorso che ricorda le scatole cinesi o le matrioske, i viventi sono “inscatolati” in organismi sempre più
piccoli. Leibniz però non può permettere il regresso all’infinito, allora deve trovare una risposta alla
generazione:
- Generazione spontanea: convinzione che gli animali potessero nascere dal nulla, come dal
putridume. Questa convinzione scema con l’invenzione del microscopio e la scoperta delle uova e
del funzionamento dell’apparato riproduttivo.
- Epigenesi: teoria sposata da Cartesio che consiste in una materia indifferenziata sottoposta a
movimento può essere sufficiente per sviluppare gli organismi. C’è una materia che è totipotente.
- Preformismo: Leibniz si serve di questa teoria secondo cui fin dal principio sono stati posti nel
mondo tutti i “germi seminali” creati da Dio con un singolo atto, destinati a produrre tutte le forme
di vita successive, perché all’interno di ogni seme è già contenuta la pianta o l’animale in miniatura.
La fecondazione mette in movimento lo sviluppo delle parti all’interno del seme. Secondo questa
teoria non c’è una generazione a partire da zero, ma c’è un accrescersi a partire da un germe
preesistente.
Questa tesi biologica si sposa benissimo con l’idea di un’infinità di monadi create da Dio
originariamente e tali da poter essere annientate solo da Lui. Dio crea tutte le monadi, compresi gli
individui presenti e futuri, per cui quello che c’è non è né generazione né morte ma solo sviluppo e
regresso: “quello che noi chiamiamo generazione è uno sviluppo, quello che chiamiamo morte è
involuzione.”

L’ARMONIA PRESTABILITA: “le sostanze simpatizzano con tutte le altre”


La teoria dell’Armonia prestabilita serve a Leibniz per uscire da un problema in cui si era cacciato: come
spiegare la comunicazione tra le sostanze, se si afferma che le sostanze sono tutte diverse l’una dall’altra?
Leibniz si trova a generalizzare il problema di Cartesio di fare interagire l’anima con il corpo, in favore di un
problema più importante: fare interagire tutte le sostanze.
L’armonia prestabilita ha una parte generale che riguarda la comunicazione tra tutte le sostanze e poi una
parte specifica che riguarda le comunicazioni tra l’anima e il corpo. Nella “Teodicea”, per spiegare la
relazione anima-corpo, Leibniz ci consegna la celeberrima metafora degli orologi: si immaginino due
orologi che si accordano perfettamente, ciò può avvenire in tre maniere. La prima maniera è la mutua
influenza di un orologio sull’altro (Cartesio: anima agisce sul corpo e viceversa); la seconda maniera è quella
dell’assistenza (Malebranche: l’anima prova il dolore in occasione del corpo / Deus ex machina: Dio ha
stabilito dal principio delle leggi generali delle relazioni anima-corpo).
Leibniz, procedendo per via negativa, scarta entrambe le ipotesi:
- Quella di Cartesio perché l’influenza reciproca non può avvenire: le monadi sono pura spontaneità,
quindi sviluppano ciò che hanno al loro interno.
- Quella di Malebranche delle cause occasionali perché prevede semplicemente una correlazione.
Considera la tesi malebranchana come quella di un cattivo orologiaio che è costretto ad intervenire
ogni volta per regolare due orologi che di per sé non sarebbero sincronizzati.
L’ipotesi di Leibniz è quella dell’armonia prestabilita, come artificio divino preventivo: non ci sono due
orologi che metto tutti due alla stessa ora (come sincronizzare il proprio orologio con quello della
campanella) ma Dio è quell’artigiano che ha costruito quei due orologi già sincronizzati.
Le sostanze simpatizzano tutte perché sono state fatte per accordarsi tra di loro.
Ad ogni eventi fisico corrisponde un evento mentale/psichico e viceversa ad ogni evento psichico
corrisponde un evento corporeo, seguendo ciascuno le proprie leggi: le monadi del corpo, meno perfette,
seguono le loro leggi meccaniche, mentre la monade dominante seguono quelle leggi che appartengono
alla finalità. Esprimendo tutto l’universo l’anima esprime anche lo stato del suo corpo.
DETERMINISMO?
La nozione di sostanza individuale come nozione completa comporta delle difficoltà: il soggetto
ipostatizzato che è sostanza è tale perché adesso si predicano tutti i suoi veri predicati come accadimenti.
Nel “Discorso di metafisica” Leibniz afferma che la natura di una sostanza individuale è di avere un concetto
così compiuto che sia sufficiente a far sì che si deducano tutti i predicati del soggetto a cui tale concetto è
attribuito. (Se prendiamo la nozione di sfera possiamo trarne tutte le proprietà che appartengono alla sfera.
La stessa cosa può essere fatta a proposito del concetto di una sostanza individuale che implica tutto ciò
che le può accadere. Basta considerare il concetto per scorgervi tutto ciò che è possibile enunciare allo
stesso modo in cui guardando la natura del cerchio si possono dedurre tutte le proprietà.

Se noi applichiamo il concetto di sostanza individuale ad un individuo, diventa un problema: se dalla


nozione completa dell’individuo io posso dedurre tutti i suoi predicati, quindi tutti i suoi accadimenti, come
posso affermare la libertà?!
Alle accuse di determinismo, Leibniz risponde:
- Solo Dio può vedere il concetto individuale (ecceità) di un essere umano. Esempio di Alessandro
Magno: solo Dio vede simultaneamente nel concetto di A.M la ragione di tutti i predicati che gli si
possono attribuire. Solo Dio sa se Alessandro è morto in modo naturale o con un veleno.
Risposta insoddisfacente perché diventa una forma di ignoranza simile a quella di Spinoza: noi siamo
convinti della nostra libertà perché ignoriamo le cause.
- La seconda risposta di Leibniz, quella definitiva, distingue due tipi di necessità:
o una assoluta/metafisica: per cui si danno le verità di ragione, ovvero le verità necessarie la
cui negazione implica contraddizione. Per esempio, tutti i triangoli hanno la somma di
angoli interni uguale a 180°, la connessione tra il concetto di triangolo e la sua proprietà
dipende solamente dalle definizioni di triangolo, somma e angolo e dalle relazioni logiche
che sussistono tra queste tre nozioni.
o una ipotetica/morale: Per esempio, che Cesare ha passato il Rubicone. Queste verità non
sono sottoposte a necessità assoluta ma ad una necessità ipotetica che è quella per cui una
proposizione è necessaria solo data una certa ipotesi. La connessione tra Cesare ed il
passaggio sul Rubicone non dipende solo da rapporti concettuali come non dipendono da
rapporti logici, ma anche dai liberi decreti di Dio, che avrebbe potuto non creare Cesare o
crearlo incapace di passare il Rubicone.
Il concetto individuale perfetto di Pietro e di Giuda, (considerati come possibili, quindi prima che Dio decida
di crearli) sono visti da Dio tutti gli eventi necessari che quelli liberi che accadranno loro. Leibniz vuole dire
che Dio ha in sé tutte le nozioni individuali di tutti i possibili, vede già tutto ciò che apparterrà a tale nozione
individuale. Dio, tra gli infiniti individui possibili, sceglie quelli che ritiene più convenienti ai fini della sua
saggezza, decide che uno tra Pietro e Giuda pecchi e l’altro no, debbano venire all’esistenza entrambi
perché questo è il migliore dei mondi possibili per cui tutti noi siamo stati voluti con tutta la serie delle
nostre azioni compiute sia necessariamente che in modo possibile.

IL MIGLIORE DEI MONDI POSSIBILI:


Il Dio leibniziano differisce da entrambe le posizioni, quella cartesiana e quella spinoziana:
- Il Dio cartesiano, in cui intelletto e volontà coincidono e quindi, istituisce le verità. Leibniz accusa
Cartesio di aver affermato l’esistenza di un Dio che crea senza motivo, solo perché vuole, un Dio
che si comporta in maniera arbitraria.
- Il Dio di Spinoza, che è necessità, che non sceglie di creare ma produce con lo stesso atto con cui
pone se stesso.
Il Dio di Leibniz decide di creare e può non creare (perché non è soggetto a necessità metafisica) ma in virtù
della necessità ipotetica/morale: se crea, non può che creare il migliore dei mondi possibili. Leibniz
restaurare in Dio la distinzione tra intelletto e volontà: Dio concepisce tutti i mondi possibili, visti da Leibniz
come una priamide infinita verso il basso ma che conosce un vertice che è il migliore, e crea la soluzione
migliore con un atto di volontà. Dio sceglie liberamente ma non in maniera arbitraria, sceglie per un motivo
che è la scelta migliore, è un Dio saggio che segue una serie di criteri per la creazione:
CRITERI PER LA SCELTA DIVINA: massimo dei risultati, minore degli sforzi
- SEMPLICITÀ DELLE VIE (MEZZI)
- VARIETÀ E RICCHEZZA DEGLI EFFETTI (FINI)
È un errore avere una posizione antropocentrica: Dio non ha fatto il mondo per gli uomini, che sono
certamente una parte importante della creazione, ma il tutto prevale sulle parti.

QUESTIONE DEL MALE


Dio sceglie tutta la combinazione dei possibili, i quali faranno ciò che è all’interno della loro natura che si
attualizzerà. Nonostante il male esista, questo mondo è quello che ne contiene di meno.

La teodicea di Leibniz nasce da alcuni articoli del “DIctionnaire Historique et Critique” di Pierre Bayle, in cui
l’autore, per bocca di un epicureo, riprendeva la domanda antica “se Dio esiste perché c’è il male?”
Riprendendo la teodicea razionale di Malebranche, Bayle mostra contro quali scogli si infrangono i tentativi
di affermare una teodicea che si servisse della ragione. Dal punto di vista di Bayle, il Dio di Malebranche
finiva per assomigliare ad un tiranno che permette i peccati per poi fare intervenire le forze dell’ordine a
punirli, in modo da glorificare la propria saggezza.
Secondo Bayle sarebbe stato più conforme l’ipotesi dei manichei che spiegano il male meglio del
cristianesimo: per i manichei il problema si risolve affermando l’esistenza di due principi di cui uno è il Bene
e l’altro il Male.
La conseguenza finale di Bayle è che bisogna optare tra filosofia e Vangelo: se si vuole credere solo a ciò che
è conforme a ragione bisogna lasciare il Cristianesimo, e viceversa, se si accettano i misteri di Dio bisogna
abbandonare la ragione filosofica. FIDEISMO DI FACCIATA

LEIBNIZ V.S BAYLE: “Saggi di Teodicea”


Leibniz riprende la teodicea di Agostino e Tommaso, secondo cui il male non è una realtà positiva ma è
semplicemente una privatio boni, quindi dal punto di vista di Dio è solo una negazione, perciò Dio non può
essere causa efficiente del male perché questo non ha consistenza ontologica.
Leibniz riprende anche la distinzione dei tre tipi di male
- Metafisico: già prima del peccato, esiste nella creatura una imperfezione originaria, perché la
creatura è per sua essenza limitata. Il male metafisico è connesso al fatto che il finito si distingue
dall’infinito perfetto e quindi per sua natura possiede delle imperfezioni.
- Fisico: dolore e sofferenze che sono conseguenze sia della cattiva volontà. che scaturisce dal male
morale, sia del male metafisico come imperfezione umana.
Il male fisico può avere un risvolto catartico: così come un suono dissonante può essere funzionale
nell’armonia generale, così lo stesso può accadere per il dolore che ci aiuta ad apprezzare la salute.
- Morale: Peccato, deviazione della propria volontà.

LA LIBERTÀ DELL’UOMO
La libertà umana è formulata da Leibniz sul modello della libertà divina, solo che mentre Dio sceglie sempre
il meglio, l’uomo tende a ciò che gli appare bene ma che bene non è in realtà. La differenza tra i due
riguarda la conoscenza: Dio, a differenza dell’uomo è onnisciente.
Il potere di scelta non è la possibilità di fare o di non fare, né per Dio né per l’uomo: l’anima pensa sempre,
ci sono sempre dei motivi o inclinazioni; inoltre, per il principio di ragione sufficiente, c’è sempre una
ragione del perché le cose stanno in quel modo anche per l’essere umano. L’uomo è un campo di forze in
contrasto tra loro fino a quando un motivo non prevale sugli altri e si attua la decisione.

TRE CONDIZIONI PER LA LIBERTÀ:


1. SPONTANEITÀ: Ad ogni monade appartiene il proprio principio di azione, quindi, anche all’anima
umana. Noi svolgiamo noi stessi spontaneamente in base a quello che siamo.
2. CONOSCENZA DISTINTIVA DELL’OGGETTO DI DELIBERAZIONE: Ogni azione umana e divina deve
essere motivata: occorre la conoscenza distinta dell’oggetto di deliberazione, perché la volontà può
portarsi solo su qualcosa che le viene proposto dall’intelletto
3. CONTINGENZA: l’uomo, come Dio, è soggetto solamente ad una necessità ipotetica/morale. Leibniz
cerca di sfuggire alla possibilità di un impulso prevalente invocando la possibilità dell’esercizio di
attenzione che ci distolga dall’impulso prevalente in modo che non sia così determinante. Invoca
anche l’educazione agli impulsi prevalenti in modo da sfuggirci.
L’empirismo oltremanica: LOCKE (1632-1704)
Locke costituisce uno spartiacque grande quanto quello di Cartesio: come i post-cartesiani si sono
confrontati con Cartesio, così i post-lockiani (Hobbes e Hume) si sono dovuti confrontare con Locke
Questo filosofo viene etichettato come l’iniziatore dell’empirismo moderno ed il teorico della democrazia
o il predicatore della tolleranza.
Locke rappresenta uno spartiacque anche nel caso dell’illuminismo perché sposta il baricentro di una delle
questioni fondamentali: il tema della sostanza, che perde il suo carattere metafisico per essere abbordata
da un punto di vista epistemologico, perché Locke si preoccuperà di stabilire in cosa consista l’idea della
sostanza più che determinarne la natura.
Con il “Saggio sull’intelletto umano”, Locke si afferma l’iniziatore della Way of ideas (criticata dal vescovo
Berkeley che metterà in campo una forma di empirismo che somiglia al razionalismo di Malebranche) che
culminerà con Hume, colui che porterà a compimento il lavoro di decostruzione delle categorie metafisiche.

LA RAGIONE: LIMITE E PROPORZIONI


La ragione di Locke è molto più vicina alla ragione pascaliana che quella cartesiana (Pascal non ammette un
unico modello valido per tutti i campi del sapere ma al contrario una pluralità di metodi a seconda degli
oggetti). Locke segue il modello pascaliano: non c’è solo una ragione di tipo geometrico. Accanto alle
conoscenze intuitive e dimostrative (Knowledge), Locke riconosce l’ambito della probabilità (Judgment).

La ragione lockiana è priva di elementi innati: l’anima per Locke è una tabula rasa e la ragione dell’uomo
non è la retta ragione stoica che affermava l’esistenza di principi pratici e speculativi nell’uomo. Non è
nemmeno la retta ragione dei platonici di Cambridge che avevano sposato l’innatismo.
La ragione umana è una facoltà discorsiva che procede per gradi da ciò che gli è noto a ciò che gli è ignoto.

La ragione è la “candela del signore”: il problema è capire l’ambito in cui si può esercitare con certezza la
ragione, in che limiti si può usare la ragione e dove invece bisogna lasciare spazio alla fede.
Locke anticipa Kant e la sua indagine trascendentale: cerca di evitare il fanatismo religioso. Vuole compiere
un’indagine sui limiti e confini della certezza della ragione in maniera che la ragione veda fino a dove può
arrivare con certezza e lasci spazio ad una fede di cui si possano chiedere i motivi.

Il metodo che intende seguire è da lui definito come metodo storico: egli pensa alla storia nel senso
baconiano. Locke aveva la formazione di un medico e per spiegare il suo metodo fa un parallelismo tra il
compito del medico, che deve prima osservare il paziente e poi prescrivere una cura, e l’obiettivo del suo
metodo che deve prima osservare la mente e poi prescrivere come condurla in maniera funzionale.
È un metodo descrittivo uguale a quello usato dagli scienziati della Royal Society: è un’anatomia della
mente umana che evita ogni indagine di natura fisiologica (come era in Cartesio nel suo “trattato
sull’uomo”) e non ha nemmeno l’intenzione di andare alla ricerca di essenze.

ESPERIENZA: sensazione e riflessione


Quello che intende mostrare Locke è che tutte le idee che sono nella mente possono essere ricondotte
all’esperienza: l’esperienza fornisce alla mente i materiali e fornisce il limite della ragione. Quindi, la
ragione lockiana non possiede assolutamente idee innate (“non c’è nulla nell’intelletto che prima non sia
stato nel senso”), inoltre è una ragione che avendo come limite l’esperienza avanza molto prudente sul
terreno della metafisica.

Tutto il primo libro del “Saggio sull’intelletto umano” viene dedicato alla confutazione di teorie innatiste:
Locke porta svariati argomenti che fanno leva sulla psicologia infantile; sui mentecatti (coloro che hanno
ridotte capacità mentali); sulle relazioni di viaggio (affermavano che teorie ritenute innate erano
sconosciute in tante popolazioni). Tutto ciò mostra che la mente acquisisce progressivamente, attraverso
un lavoro di educazione, delle capacità che inizialmente sono assenti.

Quello di Locke non è un sensualismo come quello di Hobbes (secondo cui non posso avere idea di cose che
prima non ho sentito o visto con i sensi): l’esperienza comprende i sensi esterni (la sensazione) ma anche il
senso interno (riflessione). Dalla riflessione ci vengono una serie di idee, prima semplici e poi complesse, di
qualcosa di spirituale.
Locke riprende la definizione di idea cartesiana, nell’introduzione del “Saggio sull’intelletto umano” afferma
che l’idea è qualunque cosa che è oggetto dell’intelletto quando qualcuno pensa.
Come Cartesio, anche Locke è un realista indiretto: noi conosciamo la realtà esterna tramite l’idea. A
differenza di Malebranche che aveva fatto delle idee degli archetipi, Locke ritiene che le idee siano uno
strumento per conoscere la realtà.

Locke distingue tra le qualità primarie e secondarie delle idee:


- Potere che ha il corpo di produrci una determinata idea
- L’idea vera e propria

Esempio della palla di neve che ha in sé il potere di produrre in noi l’idea di bianco, di freddo, tondo etc.
etc. le quali verranno chiamate qualità, mentre chiamerò idee le percezioni che sono state prodotte da quel
potere. Nel caso delle qualità primarie la nostra idea è simile all’estensione presente all’interno del corpo,
nel caso invece delle qualità secondarie la nostra idea di bianco è completamente dissimile rispetto al
potere presente all’interno della neve di produrre, nel soggetto, l’idea di bianco.

LE IDEE SEMPLICI: fase ricettiva


La materia di tutta la nostra conoscenza è fornita dalle idee semplici: mente come tabula rasa che inizia a
incamerare materiale da due fonti: sensazione e riflessione.
- Idee semplici di sensazioni: derivanti da un solo senso o da più sensi.
- Idee semplici di riflessioni: relative a qualcosa che noi cogliamo al nostro interno.
Le idee semplici non sono prodotte dalla nostra mente che quindi si trova ad essere in una fase
ricettiva/passiva, e riceve le idee semplici in maniera involontaria. Quindi, in assenza di un senso non
esisteranno tutte le idee corrispondenti a quel senso: se supponessimo qualcuno che manca di tutti i sensi,
questo non avrebbe nessuna idea.

L’ATTIVITÀ DELLO SPIRITO: distinguere, confrontare, comporre, astrarre


La mente ha anche una facoltà attiva: riordina i mattoni che ha ricevuto attraverso la sensazione e la
riflessione e li va a combinare in modo da comporre idee complesse.
La mente ha diverse capacità:
- Combina diverse idee semplici in modo da formarne una complessa
- Può mettere insieme due idee considerandolo contemporaneamente (idea di relazione)
- Può separare idee dalle altre in modo da produrre idee astratte.

In questo modo si formano le IDEE COMPLESSE che sono di tre generi:


1. Idee complesse dei modi: le idee dei modi rappresentano affezioni delle sostanze. All’interno di
questa categoria di idee ci sono anche tutte quelle che hanno a che fare con la morale.
2. Idee complesse delle relazioni: risultano da un confronto di idee come causa-effetto.
3. Idee complesse delle sostanze: riguardano cose particolari che esistono di per sé, non sono altro
che collezioni di idee semplici sommate tra di loro.

 IDEA DI SOSTANZA
A differenza di Cartesio che credeva che l’idea di sostanza fosse semplice e trasparente (essenza delle
sostanze nota perché ci è nota l’estensione), Locke fa della sostanza un oscuro sostegno di qualità che noi
dobbiamo supporre per rendere ragione delle qualità che noi cogliamo. Dal momento che non sappiamo
immaginare come possano sussistere da sole le idee semplici, ci abituiamo a supporre un qualche sostrato
nel quale esse sussistono.
Il problema è che proprio per la sua oscurità, l’idea di sostanza fa rimanere nell’oggetto un senso oscuro.

Locke accetta che ci siano sostanze spirituali oltre a quelle materiali, ma noi non ne abbiamo una
conoscenza adeguata ma abbiamo sempre una conoscenza che rimane in parte oscura. Perché l’idea di
corpo nasce in noi dalla composizione di idee di solidità, estensione e mobilità più l’idea di sostanza;
mentre le idee spirituali ci derivano dalle idee di riflessione più l’idea di sostanza.

ESSENZA REALE V.S ESSENZA NOMINALE


- L’essenza reale:
o “l’essere stesso di una cosa, per cui essa è quello che è”: ciò per cui una cosa è quello che è
o “la costituzione reale interna delle cose”: Locke si riferisce allo schematismo latente di
Bacone, sta pensando alla sostanza da fisico corpuscolarista. I corpi sono costituiti da
corpuscoli e quindi conoscere la loro essenza significa conoscere il loro reticolo atomico che
a noi non è dato.

Se noi fossimo in grado di conoscere il reticolo atomico del corpo significa che noi potremmo conoscere a
priori il corpo, potremmo trarne tutte le sue qualità. Ma dato che noi procediamo solo a posteriori, non
potremmo mai sapere qual è il numero preciso di proprietà che dipendono dall’essenza reale dell’ente.
Dovremmo sperimentare tutte le qualità che entrano nella composizione del nome dell’ente. Quello che
noi conosciamo non è l’essenza reale ma l’essenza nominale.

- L’essenza nominale:
o “l’idea astratta per il quale sta il nome generale o speciale”
o “l’insieme di caratteri necessari perché una cosa sia chiamata tale”

Esempio dell’oro (pensiero da scienziato): “l’essenza nominale dell’oro è l’idea complessa per cui sta la
parola oro (corpo giallo malleabile) ma l’essenza reale è la costituzione delle parti insensibili da cui
dipendono quelle qualità e proprietà”

Ne deriva che la nostra conoscenza delle sostanze è una conoscenza limitata ma progressiva: noi non
arriveremo mai ad esaurire le sostanze, scoprendone la loro essenza reale perché non è il nostro compito,
altrimenti Dio ci avrebbe donato la vista del microscopio. Egli ci da la conoscenza delle cose che ci servono
per la vita di tutti i giorni ma non è andato oltre. La conoscenza è perfettibile (la conoscenza dell’oro è
diversa tra quella di un bambino, quella di un orafo e quella di un chimico) tramite la sperimentazione.

LA CONOSCENZA: “la percezione della concordanza o discordanza di due idee”


La conoscenza come concordanza o discordanza tra due idee può avvenire in quattro modi:
1. Identità (il giallo non è blu)
2. Co-esistenza (il ferro è magnetico)
3. Esistenza reale (Dio esiste, Io esisto)
4. Relazione (due triangoli sulla stessa base fra due parallele sono uguali)

Questi modi possono essere verificati secondo tre gradi di conoscenza:


1. conoscenza intuitiva: posso intuire la concordanza/discordanza tra due idee.
2. conoscenza dimostrativa: posso dimostrare la concordanza/discordanza, avrò bisogno di un’idea
intermedia che mi faccia da “ponte”.
3. conoscenza sensoriale: posso verificare che le due idee concordano/discordano.
I primi due gradi ricalcano l’intuizione e la deduzione cartesiana, le due capacità che abbiamo prima di ogni
metodo: l’intuizione che mi dà l’evidenza immediata e la deduzione che mi da l’evidenza mediata.

Accanto alla conoscenza c’è la probabilità che può solo supporre l’accordo o il disaccordo tra due idee: non
possiamo né intuire né dimostrare né esperirlo ma solo supporlo.

Nel quarto libro del “Saggio sull’intelletto umano” Locke ci da tre esempi di conoscenza (intuitiva,
dimostrativa e sensoriale) a proposito della conoscenza dell’esistenza reale:
- Il modello della conoscenza intuitiva dell’esistenza reale è data dalla conoscenza della propria
esistenza, ovvero Locke accetta il “cogito ergo sum” cartesiano. All’interno di questo cogito c’è una
sfumatura tipicamente lockiana: “se qualcuno vuole darsi l’aria di essere così scettico da negare la
propria esistenza, si goda la felicità di essere nulla fino a quando la fame o qualche altro dolore non
lo convinca del contrario” -> l’Io che esiste è già incarnato, tanto da poter sentire fame e dolore che
per Cartesio erano propri del composto di anima e corpo e non solo della mente umana.
- Il modello della conoscenza dimostrativa è l’esistenza di Dio: Locke non accetta le prove cartesiane
che muovono a priori. L’esistenza reale può essere provata solo attraverso la reale esistenza.
La dimostrazione lockiana fa leva sulla conoscenza intuitiva della propria esistenza, sulla
conoscenza intuitiva dell’assioma secondo cui dal nulla non viene nulla, di conseguenza dovrà
esserci qualcosa di necessario che fa essere tutto ciò che è contingente, Dio.
Secondo Locke, l’uomo conosce Dio meglio di quanto conosca la realtà esterna (cosa straordinaria
per un empirista come lui). Razionalista deluso
- Il modello della conoscenza sensibile è dato dall’esistenza delle altre cose: a differenza delle due
precedenti conoscenze, questa mi fornisce una certezza inferiore chiamata da Locke “certezza
morale” o “sicura testimonianza”. Nei sensi c’è una certezza limitata perché non va oltre la
certezza di ciò che ci è presente. Quando Locke affronta la questione della certezza delle altre cose
ha in mente tutti gli argomenti portati contro l’esistenza del mondo esterno da Cartesio e
Malebranche (errore dei sensi/ indistinguibilità del sonno e della veglia/ della follia).
Locke porta una serie di argomenti per assicurare la conoscenza sensibile:
o Passività: la mente è ricettiva e quindi non sono gli organi a produrmi le sensazioni.
o Involontarietà: gli oggetti del mondo esterno mi si impongono per forza, non mi posso
sottrarre all’azione degli oggetti che determinano la mia sensazione.
o Piacere e dolore: Anche supponendo il nostro sonno perenne, il dolore e il piacere
percepiti ci confermano la presenza del mondo esterno.
o Concorso di più sensi: io posso anche pensare che l’oggetto davanti a me sia prodotto della
mia mente ma se entro in contatto diretto aumenta la certezza.

CONFORMITÀ TRA IDEE E COSE:


Locke, come Cartesio, è un realista indiretto: la mia conoscenza degli oggetti è una conoscenza per tramite
delle idee che mi rappresentano gli oggetti che a loro volta causano in me l’idea che possiedo.

Come possiamo accertarci della solidità della nostra conoscenza?


Locke misura il grado di conformità delle idee alle cose esterne:
- Il grado delle idee semplici è quello che va necessariamente assicurato: senza le idee semplici, che
sono i cardini della nostra conoscenza, non ci sarebbe più possibilità di conoscere.
Le idee semplici sono involontarie, non possono essere create dallo spirito ma devono essere
generate da cose che agiscono sullo spirito in modo naturale. Dio ha fatto in modo che le cose
esterne possiedono il potere di esercitare in maniera regolare e costante delle impressioni su di
noi. Le idee semplici non sono finzioni della nostra fantasia ma produzioni degli oggetti del mondo
esterno che agiscono su di noi.
- Le idee complesse dei modi e delle relazioni non presentano problemi di conformità con la realtà
perché sia le idee dei modi che quelle delle relazioni sono un nostro prodotto.
o Le idee dei modi (idee morali) sono secondo Locke un prodotto che dipende da fattori di
natura culturale. “Nessun governo consente una libertà assoluta” è una proposizione
conforme a realtà perché nessun governo può consentire una libertà assoluta.
L’importante per le idee dei modi è che le parti che la compongono non siano
contraddittori.
- Le idee complesse delle sostanze presentano invece dei problemi di conformità: per le sostanze
esterne non è sufficiente che non siano contradditorie ma occorre che si sia effettivamente
sperimentato che quella qualità che noi inseriamo nell’essenza nominale della sostanza sia
appartenente a quella sostanza.
LA LEGGE DI NATURA
Locke vive lo stesso periodo politico di Hobbes ma visto da un’altra prospettiva: mentre Hobbes saluta con
gioia la fine del protettorato e la restaurazione della monarchia, Locke non apprezza fino in fondo una
monarchia assoluta perché crede che non sia giusto lasciare tutte le decisioni al monarca, in modo
particolare le questioni ecclesiastiche, perché rischiano di tramutarlo in tiranno.
Locke si occupa di questioni morali fin da giovane, quando nel 1664 deve tenere delle lezioni da neo-
laureato ad Oxford, dove scrive i “Manoscritti della legge di natura”. La svolta è nel 1666 quando diventa il
segretario di Lord Chesbury con cui condivide tanto l’ascesa politica quanto la caduta (nel 1683 L.C viene
accusato di aver partecipato ad un complotto contro Carlo II venendo esiliato). Anche Locke viene esiliato,
fugge in Olanda sotto falso nome dove sta fino al 1689, quando torna in patria con la gloriosa rivoluzione di
Guglielmo d’Orange. Nel 1689 Locke fa uscire i trattati sul governo che prevedono dei limiti precisi per il
governo monarchico che deve attenersi nei limiti e deve dialogare con il parlamento.

Come Hobbes, Locke è un giusnaturalista, teoria che suppone l’esistenza di uno stato di natura in cui vige
una legge di natura e alcuni diritti naturali ed in seguito ad un accordo gli uomini formano uno stato,
creando un vero e proprio stato civile.
- Stato di natura hobbesiano: stato di natura in cui non si danno leggi (l’unica legge è quella
dell’autoconservazione una legge che è un semplice dettame della ragione)
- Stato di natura lockiano: stato di natura in cui vige una legge di natura divina (prescrive ciò che e
lecito e ciò che non lo è) è una disposizione della volontà divina, conoscibile attraverso la natura,
che indica ciò che è conforme o difforme alla natura razionale. Secondo Locke c’è una legge divina
dalla quale traggono la loro obbligatorietà tutte le leggi civili.
Dio ha dato a tutto il creato una legge che non violenta la natura del mondo ma al contrario la
esalta: se l’uomo la segue è esaltato nella sua natura razionale.
Non è una legge innata ma è conoscibile tramite la natura, con l’uso della propria ragione che gli è
stata data per conoscere Dio ed i proprio doveri.
Questa legge è già data nello stato di natura e chi la trasgredisce viene già escluso nella società
naturale in quanto è allo stesso livello di una bestia ed è legittimato ad essere punito.

L’UOMO ANIMALE SOCIALE:


L’uomo è una creatura di Dio fatta per essere sociale, soggetto a forti impulsi che lo spingono alla vita
associata, dotato di linguaggio con il quale può comunicare con gli altri uomini.
I tre precetti cardine della legge di natura:
- Ci si riconosce creature di un creatore: riconoscere Dio come legislatore.
- Conservare la società: ciascuno è tenuto a conservare se stesso e deve preservare gli altri uomini.
L’uomo non deve ledere il pacchetto di beni naturali di ogni uomo (“Property”) che sono i diritti
fondamentali di ogni uomo.
- Conserva te stesso: non sei libero di distruggere te stesso.

- L’autoconservazione hobbesiana è una fattore biologico: ogni cosa tende verso ciò che lo favorisce
e cerca di evitare ciò che gli nuoce
L’autoconservazione lockiana: il suicidio è illegittimo perché all’uomo non appartiene la propria vita
che gli è stata donata.

LA SOCIETÀ CIVILE:
Mentre per Hobbes è normale uscire da uno stato di natura che si presenta come contraddittorio perché io
posso fare di tutto per assicurare la mia persona, anche andare contro ciò che è morale.
In Locke lo stato di natura può diventare uno stato di guerra contro tutti se c’è un eccesso di legittima
difesa: in stato di natura io sono legittimato ad eliminare chi vuole ledermi, però può darsi che la mia
reazione sia esagerata e che scateni una faida. Quello che manca nello stato di natura è un giudice
imparziale che abbia l’autorità per garantire l’esercizio corretto della legge di natura. Proprio per questo
motivo gli uomini si riuniscono in una associazione: prima formulano un patto di unione e poi cedono in un
patto di sottomissione il loro diritto di amministrare la legge di natura, istituendo un giudice terreno, che
abbia l’autorità di definire le controversie.
Locke restaura il patto unico di Hobbes (il re faceva il popolo che non esiste prima di un patto di unione che
è contemporaneamente un patto di sottomissione) in un doppio patto: con il primo il popolo si riunisce con
il secondo cede la propria libertà ad un terzo.
Quello che è incedibile dai cittadini, secondo Locke, è tutto il pacchetto di beni garantito dalla legge di
natura: un sovrano che legifera contro le leggi di natura non è più degno del suo ruolo, diventa un tiranno
al quale io ho il diritto di ribellarmi. È la mia coscienza ad obbligarmi a respingere questa autorità.

La società che ci descrive Locke è una società pacifica e mercantilistica che deve avere condizioni politiche
tali per poter fiorire. È chiaro che il potere legislativo della società non può estendersi oltre il bene comune,
dunque, chi governa deve impiegare la forza il meno possibile (solo per prevenire i torti degli stranieri) con
un unico fine che è la pace ed il bene del popolo.
Si intravede la distinzione tra poteri teorizzata da Montesquieu.

Se il potere varca questi limiti si trasforma in tirannide: Locke ritiene che ci si possa opporre al tiranno
grazie al diritto di resistenza che non valeva per Hobbes dato che il popolo non può andare contro il re dato
che il popolo si identifica completamente nel proprio re, quindi non può prescinderne.
I limiti del sovrano sono strutturali: anche lui è sottomesso alla legge di natura divina, a differenza del
sovrano hobbesiano che era l’unico a non possedere limiti.
Occorre che il diritto di resistenza che prevede Locke scatti solo quando ce ne è effettivo bisogno, quando
c’è un’ingiustizia macroscopica condotta contro una parte del popolo, in modo da ledere i diritti
fondamentali dell’uomo (persecuzioni degli ebrei). In questo caso il popolo ha il diritto di istituire un nuovo
ordine legislativo, per farlo dovrà usare la forza -> appello al cielo: se non c’è più una giustizia sulla terra si
chiama Dio come testimone della propria guerra condotta contro l’autorità illegittima.

La politica lockiana si fonda su un ordine divino e sull’idea che l’uomo sia una creatura con tutto ciò che ne
scaturisce, con l’appello al cielo sembra che la politica di Locke si dissolva in una prospettiva escatologica
perché nel momento in cui ci si appella al cielo si pensa di essere nel giusto. Però solo nell’al di là si potrà
stabilire chi ha torto e chi ha ragione. Diventa una questione escatologica dato che il valore della guerra per
cui l’individuo si batte potrà essere valutato solo nell’aldilà.
HUME (1711-1776)

RIASSUNTO BERELEY:
Berkeley era un vescovo che si propone di correggere una stortura all’interno della modernità, in particolar
modo nella way of ideas, ovvero quella di aver scisso completamente il mondo descritto dalla nuova scienza
ed il mondo descritto dal senso comune.
- Da un lato abbiamo il mondo della nuova scienza per cui le cose non hanno qualità secondarie, che
sono solo soggettive, ma è un mondo fatto di estensioni ritagliate in differenti modi. Un mondo che
non è direttamente attingibile (realismo indiretto = noi conosciamo le idee che ci rappresentano le
cose).
Berkeley ritiene che il mondo della nuova scienza finisca nell’incappare in due grossi guai:
o Lo scetticismo: come accertarsi della corrispondenza tra le nostre idee e la realtà esterna.
o Il materialismo: ipostatizzazione dell’estensione che finisce per essere una materia
infinitamente estesa concorrenziale a Dio. Potrebbe essere co-eterna a Dio e quindi
condurre all’ateismo.
- Dall’altro lato c’è il mondo del senso comune per cui l’oggetto e la sua estensione vengono
direttamente conosciuti.

Berkeley decide di introdurre un principio cardine, quello dell’esse est percipit, cioè dire che l’essere delle
cose consiste nel loro essere percepite. Non c’è un mondo di idee e di percezioni e dall’altro lato un mondo
di cose che rimane inattingibile. L’unico mondo che esiste per Berkeley è quello delle percezioni: se la mia
percezione di un corpo comprende le qualità secondarie, significa che quella cosa possiederà di fatto tali
qualità. Le cose si fanno percezioni dipendenti dalla mente.
Secondo Berkeley, non ci sono qualità primarie oggettive e qualità secondarie soggettive perché tutte
quante sono soggettive nel senso di dipendenti dalla mente.
Berkeley elimina l’idea che ci sia un’estensione, come oscuro sostegno che Locke aveva supposto a
sorreggere tutte quelle qualità che percepiamo.
Quindi, tutta la realtà si riconduce o ai percepiti o ai percipienti (se c’è un percepito c’è chi percepisce).
Berkeley nega la sostanza materiale con il suo immaterialismo ma non nega le sostanze spirituali che sono
percipienti ed attive, in particolar modo queste sostanze fanno capo alla mente che pensa e percepisce il
mondo quando non c’è nessuno a percepirlo.

In sintesi la posizione berkeleiana è quella di una riconduzione di tutto alle percezioni; negazione della
sostanza materiale; mantenimento di una sostanza spirituale attiva.

Hume costruisce il proprio pensiero a partire dai risultati di Berkeley in maniera radicalizzata: toglie al
discorso berkeleiano tutte le preoccupazioni di natura apologetica che lo sorreggevano.
Se Berkeley aveva eroso la categoria metafisica di sostanza materiale, in Hume si trova una forte
impostazione antimetafisica che finisce il lavoro iniziato dal predecessore:
- facendo crollare la categoria di sostanza in toto, tanto la sostanza materiale quanto quella
spirituale.
- Crolla il principio di causalità

L’intento di Hume nel “Trattato sulla natura umana” (1629) è quello di costruire una scienza della natura
umana attraverso un metodo sperimentale: il modello di Hume è Newton perché come egli aveva spiegato
i fenomeni della natura ricorrendo a pochi principi semplicissimi, senza supporre ipotesi, così Hume intende
ricondurre i molti effetti particolari a poche cause generali, senza trascendere i limiti dell’esperienza.
Hume ritiene che la vera filosofia sia quella che riflette in maniera critica sull’esperienza comune, senza
cadere nell’ingenuità di ipostatizzare queste credenze.
La filosofia di Hume è una filosofia pop-scientifica: vuole fare una filosofia popolare a metà strada tra
l’uomo del volgo e il dogmatico.
«Quando [...] scorriamo i libri di una biblioteca, di cosa dobbiamo disfarci? Se prendiamo
in mano qualche volume – di teologia o di metafisica scolastica, ad esempio – chiediamoci:
“Contiene forse dei ragionamenti astratti intorno alla quantità o al numero”? No. “Contiene dei
ragionamenti basati sull’esperienza e relativi a dati di fatto o all’esistenza delle cose?” No.
Allora diamolo alle fiamme, giacché esso non può contenere nient’altro che sofisticheria e
inganno» (Ricerche sull’intelletto umano)

Questa frase ci dice che per Hume quello che può essere legittimo a livello di ragionamenti o sono i
ragionamenti scientifici/matematici (scienze dure) o sono dei ragionamenti basati sull’esperienza (fisica)
ma tutto quello che trascende questi due ambiti (metafisica) è sofisticheria e va dato alle fiamme.

LA STRUTTURA DELLA MENTE


Hume conduce un’indagine genetica sui contenuti mentali andando a vedere come essi appaiono nella
mente. Egli non si serve del termine “idea” ma preferisce il termine “percezione” per indicare l’oggetto
primario della mente di cui abbiamo consapevolezza.
All’interno dell’ambia categoria di percezioni, Hume distingue:
- Impressioni: percezioni più forti e vivide. Comprendono tutte le sensazioni ed emozioni come
appaiono per la prima volta nella nostra anima.
- Idee: percezioni più deboli e pallide “fainth images”. Sono delle versioni sbiadite delle impressioni.
La differenza non è di tipo qualitativo quanto di tipo quantitativo, di grado di intensità, di forza e di vivacità
con cui penetrano nel pensiero. La distinzione tra le due è la stessa che intercorre tra il sentire (“feeling”)
ed il pensare (“thinking”). Inoltre anche dal punto di vista temporale le impressioni precedono le idee.

All’interno di questo impianto Hume va a distinguere tra:


- Percezioni semplici che noi non possiamo ulteriormente scomporre, che costituiscono i mattoni
fondamentali di ogni nostra costruzione mentale. Non ammettono né distinzione né separazione.
- Percezioni complesse: sono componibili e divisibili. Posso scindere il complesso percettivo nelle sue
componenti. Per esempio, la mela ha un particolare colore sapore e odore che sono unite nella
mela ma possono anche rimanere distinte l’una dall’altra.

Secondo Hume la causa delle percezioni è ignota e inconoscibile dalla ragione umana che può al massimo
formulare delle ipotesi:
- Realismo mediato (Cartesio e Locke): la causa risiede negli oggetti.
- Idealismo: prodotte da un potere creativo della mente.
- Dio causa delle percezioni (Malebranche, Berkeley): derivano dall’autore del nostro essere.
Qualsiasi di queste opzioni rimarrebbe semplicemente arbitraria, quindi, non ha senso secondo Hume
sceglierne (contrario di Fichte) perché tanto non si riesce a sapere qual è la causa ultima. Lo scienziato
allora non deve porsi domande riguardo la realtà ultima ma deve preoccuparsi semplicemente del modo in
cui le cose accadono.

LO SCETTICISMO INSITO NELLA FILOSOFIA MODERNA


Hume propone un cauto scetticismo (modest scepticism), egli eredita l’idea berkeleiana che la modernità
porti allo scetticismo. Dall’altro lato Hume accetta non accetta l’idea di una materia non percepita.
Se già Locke era stato modesto nella misura in cui confessava la propria ignoranza, come nel caso
dell’essenza delle sostanze, Hume va decisamente oltre sfociando nello scetticismo.
Lo scetticismo deve limitarsi alle apparenze senza andare fino alla natura ultima delle cose.

IDEE E IMPRESSIONI
Ad ogni idea deve corrispondere una impressione, la quale ha una precedenza temporale sull’idea. Se tutte
le idee semplici derivano da impressioni significa che non si danno idee innate.
- Impressioni di sensazione: ci provengono da una causa sconosciuta esterna
- Impressioni di riflessione: ci derivano dalle idee. Queste riguardano la fame, la sete, il caldo, il
freddo che ci producono a loro volta l’avversione, il desiderio etc. etc.

LA DINAMICA DELLA MENTE


All’interno della geografia mentale umana, al fianco di una parte statica c’è anche una parte dinamica: la
mente compie delle azioni sul materiale che ha incamerato, che corrispondono ad una serie di tendenze
uniformi e costanti sulla base delle quali la mente organizza il materiale mentale attraverso tre criteri.

Facendo leva su due facoltà fondamentali:


- Memoria: le idee della memoria sono più forti e vivaci di quelle dell’immaginazione. Inoltre,
conserva l’ordine con cui le impressioni ci si sono presentate. È priva di autonomia.
- Immaginazione: colei che deve fare da principio di unione. Nell’immaginazione la percezione è
debole ed evanescente. L’immaginazione ha l’autonomia: ha la libertà di trasporre e cambiare le
sue idee che ricava dalla memoria, come se questa fosse un serbatoio, secondo tre criteri differenti:
1. Somiglianza.
2. Contiguità nel tempo e nello spazio.
3. Relazione di causa effetto.
Oltre questi tre principi associativi tutti i nostri ragionamenti si dividono in due categorie:
- Relazioni tra idee (Leibniz = verità di ragione/ Kant = giudizi analitici): a cui appartengono tutte le
affermazioni scientifiche tra cui algebra, geometria e aritmetica. Sono delle proposizioni tanto certe
che negarle implica contraddizione. Prescindono dall’esistenza di ciò di cui parlano.
- Materie di fatto (Leibniz = verità di fatto/ Kant = giudizi sintetici a posteriori): quelle che non sono
fondate su un’evidenza ma hanno un’origine empirica, per cui negarle non comporta una
contraddizione ma solo il falso. Il contrario di una materia di fatto è sempre possibile.
Ci rendono sicuri di una qualsiasi realtà esistente al di là della presente testimonianza dei sensi o
della memoria. Non sono rette dal principio di identità ma dal principio di ragion sufficiente.

LA RELAZIONE DI CAUSALITÀ
La relazione di causalità non può essere una relazione tra idee che sono dei giudizi analitici in cui il
predicato è già incluso all’interno del soggetto.
L’effetto e la causa sono separati per cui io non posso esaminando la causa ritrovare l’effetto a priori.

L’esempio di Adamo: per quanto si supponga che le facoltà mentali di Adamo siano fin dall’inizio
assolutamente perfette non avrebbe mai potuto inferire dalla brillantezza dell’acqua che questa l’avrebbe
soffocato. Non c’è nessun’oggetto visto a priori che possa dirci che effetto produrrà. Allora, la causalità non
è una relazione tra idee ma deve essere assegnata all’esperienza.
La nostra ragione senza l’assistenza dell’esperienza non può mai trarre un’inferenza che riguardi l’esistenza
effettiva ai dati di fatto.

La causalità ci viene dall’esperienza per via del fatto che noi vediamo reiteratamente che due eventi si
susseguono, sono sempre concomitanti (fuoco e fumo). Però questa generalizzazione dell’esperienza non si
può proiettare nel futuro, perché se fino ad ora ho visto sorgere il sole ogni mattina, non posso estendere al
futuro quello che è valso nel passato.
L’esempio del pane: non c’è solo una semplice concomitanza nella causalità ma c’è anche un legame
necessario che vale sempre.

Ma questa necessità non c’è nelle cose: la conseguenza non risulta affatto necessaria ma è un’operazione
della mente che non vede altro che la concomitanza di due eventi.
Questa operazione della mente può essere spiegata con l’abitudine (custom) che acquisita produce una
credenza (belief). L’abitudine genera in noi la convinzione della necessità del nesso causale. La credenza è
una rappresentazione più energica e vivace di un’idea.
Per esempio, io ho l’impressione del fumo e la credenza mi richiama alla mente il fuoco come se io lo
vedessi.
Proprio per il suo carattere scettico, secondo Hume, è un bene che non stia un ragionamento alla base della
casualità ma che ci stia solo una credenza come prodotto dell’abitudine. L’operazione della mente con cui
inferiamo effetti analoghi da cause analoghe è talmente essenziale che è stata affidata ad un istinto
(tendenza meccanica) infallibile nelle sue operazioni.
Quindi la causalità non è giustificata sulla base di argomenti razionali ma sulla base di un meccanismo
naturale che ci guida.

CONSEGUENZE DELLA CRITICA ALLA CAUSALITÀ:


Hume con la sua teoria dell’abitudine può eliminare buona parte della metafisica perché la maggior parte
delle prove dell’esistenza di Dio si fonda proprio sul principio di causalità.
Nei “Dialoghi sulla religione naturale” Hume afferma che l’inferenza causale vale solo per il mondo
fenomenico e non può essere applicato a ciò che noi non possiamo sperimentare.

La religione:
Secondo Hume la teologia va spiegata come fenomeno in termini psicologici, si tratta di spiegare come gli
uomini sono arrivati ad elaborare la credenza di un Dio invisibile. A partire dalla natura umana descrive
come sono nate le religioni: Il timore della morte unito all’ignoranza delle cause spinge gli uomini a creare
dei antropomorficamente intesi, con stesse passioni e collere dell’uomo, per riuscire a spiegarsi il loro
destino ed in seguito da adorare nel culto.
La nascita della religione coincide con la nascita del politeismo dopodiché Hume ritiene che il monoteismo
sia una forma più raffinata di politeismo, non vede una distanza siderale: ad un certo punto si è eletto un
capo, un Dio degli dei, che da materiale e antropomorfa si è fatta trascendente e immateriale.
Hume ritiene ci siano tendenze che si alternano tra idolatria e teismo, tra paganesimo e religione, a
seconda che prevalga la volontà di esaltare la divinità quando invece si teme la potenza di un Dio
onnipotente si torna all’idea di un Dio materiale.
Dal punto di vista della tolleranza è molto meglio il politeismo del monoteismo: il primo crea società
decisamente più tolleranti rispetto quelle del monoteismo.

La sostanza: “non abbiamo nessuna idea della sostanza di nessun genere”


Noi abbiamo sempre e solo diverse impressioni che andiamo a riunire all’interno di un unicum, ma la
sostanza non la percepiamo mai. Quelle che noi chiamiamo sostanze materiali sono fasci di impressioni di
sensazione, quelle che chiamiamo sostanze spirituali saranno fasci di impressioni di riflessione.

“Come la nostra idea di un corpo, per esempio di una pera, non è


che l'idea di un particolare sapore, colore, figura grandezza,
solidità, ecc., così la nostra idea di una mente non è che quella di
particolari percezioni, senza la nozione di tutto quello che
chiamiamo sostanza, semplice o composta che sia»

Tutte le questioni che avevano agitato la teologia razionale ora possono scontrarsi con la psicologia
razionale: non ha nemmeno più senso parlare di un’anima e della sua natura.

L’idea dell’IO
Se noi avessimo un’idea semplice dell’Io come quella di Cartesio dovremmo averne un’impressione che
rimane invariabilmente la stessa cosa che invece non accade. L’idea dell’io non può essere da nessuna
impressione quindi l’idea dell’io non esiste.
Perciò se vogliamo essere coerenti dobbiamo dire che la mente non è altro che una collezione di percezioni
che si susseguono con rapidità in un perpetuo flusso e movimento. La mente è un anfiteatro in cui le
percezioni si mescolano (senza immaginarci un magazzino fisico di percezioni perché di questo non si può
dire nulla).
Visto che siamo portati a dire “IO” anche questa volta bisogna spiegare come mai avviene questa tendenza.

Hume, con la stessa tattica, cerca di giustificare quale azione compiamo per arrivare all’idea di una
invariabile esistenza perdurante. Hume fa intervenire le solite due facoltà cooperanti:
- memoria, con la caratteristica di conservare le percezioni in maniera vivida e ordinata
- immaginazione che da percezioni somiglianti giunge alla convinzione che si tratti di percezioni
identiche, andando a colmare il vuoto tra una percezione e l’altra. Converte la somiglianza in
identità rendendo ininterrotta la sequenza di diverse percezioni.

I corpi esterni:
Anche lo scettico, pur non avendo argomenti filosofici dimostrativi, deve ammettere l’esistenza dei corpi
perché la natura ha la meglio sulla ragione: c’è un istinto naturale che conduce l’uomo a ritenere che i corpi
esterni esistano. Posto ciò, ci sono comunque due precondizioni che mettiamo sempre in atto nella nostra
convinzione che i corpi esterni esistano:
- Che i corpi abbiano un’esistenza distinta dalla mente che li percepisce.
- Che i corpi abbiano un’esistenza continuata, sussistenza anche se non sono percepiti.

La domanda non è quella relativa all’esistenza dei corpi esterni ma è chiederci quali sono le cause che ci
inducono a pensare che esistano dei corpi. Hume indaga sensi, ragione e immaginazione per capire a quale
di queste tre facoltà possiamo iscrivere la nostra credenza dell’esistenza dei corpi esterni.
- Sensi: Secondo Hume, siamo naturalmente portati a credere che siano i sensi a darci l’accesso
principale all’esistenza dei corpi. Tuttavia i sensi hanno un limite, non sono in grado di attestare
un’esistenza continua dell’oggetto. Inoltre, i sensi non ci attestano nemmeno un’esistenza dei corpi
distinta dalla mente, perché le sensazioni sono nostre percezioni. Le nostre percezioni non
somigliano alle cose cos’ come sono.
- Ragione: nemmeno la ragione può accertarci l’esistenza dei corpi perché anche il legame di
causalità riconosciuto da Locke e Cartesio (realismo indiretto) non è più invocabile con la critica alla
causalità. Hume aggiunge la serie di argomenti scettici che la modernità aveva portato (sonno,
follia, malattie).
- Ricorso a Dio: Nemmeno questa via è possibile: il ricorso alla veracità divina come ultima garanzia
alla quale si erano rivolti Cartesio e Locke. I sensi dovrebbero diventare infallibili e inoltre c’è
l'ostacolo della dimostrazione dell’esistenza di Dio che non ha reale fondamento dopo la critica
della causalità.
- L’immaginazione: Noi attribuiamo all’oggetto esterno una maggiore costanza rispetto a quella
attribuita ai nostri sentimenti. Inoltre, noi attribuiamo una certa coerenza alla realtà esterna.
L’immaginazione, che converte la somiglianza in identità e l’intermittenza in continuità, colma i vari
intervalli tra le differenti impressioni intermittenti, fingendo una percezione ininterrotta che ci
serve per dare coerenza alla nostra esperienza.
L’esistenza delle cose esterne non è dimostrata razionalmente ma è frutto di una credenza che ha una sua
valenza ed è sufficiente per la vita. Infatti, da buon scettico, Hume afferma che una cosa è il mondo della
vita e un’altra è il mondo della speculazione: la profonda indifferenza di Hume per tutte le speculazioni che
trascendono l’ambito del semplicemente sperimentabile.
Filosofia classica tedesca: IMMANUEL KANT (1724-1804)
L’ultimo dei moderni e il primo degli idealisti:
Kant rappresenta il terzo spartiacque della filosofia moderna in quanto può essere considerato l’ultimo dei
moderni dato che tira le fila del dibattito tra empiristi e razionalisti, tra i costruttori ed i demolitori dei
sistemi metafisici. Dall’altro lato, Kant può essere visto come il primo degli idealisti perché dona al soggetto
ed alla percezione trascendentale un ruolo cardine nella costituzione della conoscenza.

Il campo di battaglia della metafisica:


Un campo di battaglia tra i dogmatici e gli scettici che passa attraverso fasi:
- All’inizio, sotto i dogmatici, il potere della metafisica era tirannico.
- Dopo una serie di contese interne è sembrato che Locke potesse mettere fine a queste guerre: Kant
riconosce che Locke ha fatto un passo avanti indagando il funzionamento della mente. Il problema
che Kant rintraccia in Locke è che l’origine della metafisica viene ricondotta all’esperienza. Questa
falsa discendenza della metafisica permette il ritorno al dogmatismo dei leibniziani.
- Questo genere di metafisica viene distrutto dalla critica scettica humiana che conduce ad un
radicale indifferentismo, portatore del caos ma al tempo stesso preludio di un nuovo
rischiaramento. Lo scetticismo ha una funzione positiva che è quella di scardinare la decrepita
metafisica. Il problema è che dalla semplice censura della metafisica bisogna passare ad una critica.

Una critica che si interroghi sullo statuto della metafisica e sui limiti e capacità della ragione. La metafisica,
per Kant, è ineludibile: l’aspirazione dell’uomo alla metafisica è così naturale da apparire ogni volta come
una sorta di “fatica di Sisifo”.
Kant arriva a questa conclusione dall’analisi delle antinomie di cui la metafisica si serve sempre (mondo
eterno/ creato; materia indivisibile/divisibile; necessitarismo/ libertà): c’è sempre una tendenza della
ragione a superare i limiti dell’esperienza per volgersi verso l’incondizionato.
Quello che Kant si propone di fare all’interno della “Critica della Ragion Pura” è quello di “sbarazzare e
spianare” un terreno contorto. L’obiettivo della critica è quello di essere una controprova (linguaggio della
scienza sperimentale attinto da Newton) e una giustificazione (linguaggio giudiziario, richiamo allo stile
giuridico del tribunale perché la ragione è legislatrice. Dunque finché la ragione non giustifica se stessa,
rischia di legiferare oltre i suoi poteri).
Kant intende tracciare la via per una metafisica immanente che definisce “conoscenza razionale pura per
concetti”, cioè una scienza dei principi a priori della ragione, che andrà a distinguere in:
- USO TEORETICO: Una metafisica della natura, cioè la dottrina di principi a priori che costituiscono la
fisica.
- USO PRATICO: Una metafisica dei doveri relativa all’uso pratico della ragione.
In Kant la scissione tra pensiero ed essere è colmata andando a vedere le capacità stesse della ragione, le
procedure con cui la ragione si accerta delle sue conoscenze.

Giudizi analitici / Giudizi sintetici:


Secondo Kant, lo stato di incertezza in cui versa la metafisica dipende dal non aver considerato a sufficienza
la distinzione tra giudizi analitici e giudizi sintetici. Il risultato ottenuto da Hume, che distingue i
ragionamenti in relazioni tra idee e materie di fatto, sfocia in un dilemma: o ho una conoscenza certa
,perché deriva da relazione di idee, però sterile o ho una conoscenza che ampia il mio orizzonte ma mi fa
perdere la certezza.
Secondo Kant, Hume è arrivato molto vicino dal comprendere l’a priori, quando si è accorto della necessità
nella relazione causa-effetto, che non è nei fenomeni naturali. Il problema è che ha riportato questa
necessità causale a qualcosa di psicologico, cioè all’abitudine.
Per Kant bisogna considerare altro: il rapporto tra soggetto e predicato è pensabile in due modi:
- Il predicato è già incluso all’interno del soggetto -> giudizi analitici (esplicativi)
- Il predicato non è incluso all’interno del soggetto -> giudizi sintetici (ampliativi)
I giudizi di esperienza sono tutti sintetici però Hume non si è accorto che accanto ai giudizi sintetici a
posteriori ci sono anche dei giudizi sintetici a priori, cioè giudizi che ampliano la nostra conoscenza ma che
conservano la necessità e universalità propria dei giudizi analitici.
Se osserviamo il modello delle scienze dure (matematica, geometria) queste procedono attraverso giudizi
sintetici a priori: il geometra non procede né in maniera induttiva (empirismo) né in maniera deduttiva
(razionalisti) ma piuttosto costruiscono la figura. Per costruire un triangolo devo possedere una regola che
è l’a priori.
Se la metafisica vuole essere una scienza dovrà anch’essa essere passibile di conoscenze sintetiche a priori
come lo sono le scienze.

Il vero e proprio problema della ragion pura è contenuto nella domanda:


“come sono possibili i giudizi sintetici a priori?”

Per rispondere a questa domanda bisogna cambiare il punto di vista, operare una rivoluzione copernicana:
Nella prefazione della seconda edizione della CRPU Kant si paragona a Copernico perché questi ha avuto
l’intuizione geniale di cambiare il punto di vista (sistema eliocentrico).
Bisogna pensare in maniera rovesciata i rapporti tra soggetto e oggetto: fino ad ora si è pensato che la
conoscenza si modella sull’oggetto e che fosse un processo passivo che riproduce nel soggetto le qualità
dell’oggetto. Kant ribalta tutto e inizia ad ipotizzare che sia l’oggetto a doversi adattare alle capacità del
soggetto che ha un ruolo attivo.
La conoscenza non è un mero prodotto passivo ma è un processo attivo dove il risultato della nostra
conoscenza va legittimato sulla base di criteri interni al processo.
La conseguenza di questa impostazione è che quello che noi conosciamo, non sono le cose come sono in sé,
ma sono i fenomeni, le cose come si manifestano a noi. Questo ribaltamento conduce ad una indagine
trascendentale, definendo “trascendentale” ogni conoscenza che si occupi in generale non di oggetti
quanto del nostro modo di conoscere gli oggetti nella misura in cui questo deve essere possibile a priori. È
una riflessione su come certe rappresentazioni siano possibili e applicabili a priori agli oggetti.

L’architettura della CRPU:


1. Dottrina degli elementi:
a. Estetica trascendentale: riprende etimologicamente l’idea di sensazione (dal greco
aisthesis). Quindi andrà ad esaminare la sensibilità e ad isolare le forme a priori che sono
proprie della sensibilità.
b. Logica trascendentale:
i. Analitica trascendentale: Chiamata anche logica della verità, si preoccupa
dell’intelletto e delle sue forme a priori.
ii. Dialettica trascendentale: Chiamata anche logica dell’apparenza, che si occupa
della ragione e delle sue idee
2. Dottrina del metodo.

Kant si muove in questo modo per evitare due scogli contro cui si erano infranti i suoi predecessori:
- La fantasticheria (Leibniz): finisce per privilegiare l’intelletto sulla sensibilità arrivando ad
intellettualizzare i fenomeni, creando un sistema intellettuale del mondo. Leibniz ha mostrato che
tra la sensibilità e l’intelletto non c’è differenza qualitativa ma c’è continuità: i dati sensibili sono
un’apprensione oscura e confusa dell’oggetto che si fa chiara solo nell’intelletto.
- Lo scetticismo (Locke e Hume): Locke sensibilizza tutti i concetti: riconduce tutto quanto alla mera
sensibilità ed esperienza. Hume si è accorto dell’incapacità del sistema lockiano ed è arrivato alle
porte dell’a-priori ma non è stato in grado di fare l’ultimo passo, finendo per attribuire la necessità
ad una semplice credenza derivata dall’abitudine.
- Sintesi Kantiana: Per evitare questi due scogli bisogna dire che la conoscenza comincia con
l’esperienza (Locke) però bisogna ammettere che non tutto deriva dall’esperienza (Leibniz).
INTELLETTO E SENSIBILITÁ:
Nell’introduzione alla “logica trascendentale” Kant chiarisce la funzione della sensibilità e dell’intelletto,
all’interno del processo conoscitivo.
1. Sensibilità: Considerata in maniera tradizionale come la recettività attraverso cui riceviamo
rappresentazioni. Attraverso la sensibilità ci sono dati gli oggetti.
2. Intelletto: Considerato come la facoltà spontanea di produrre da sé rappresentazioni. Attraverso
l’intelletto l’oggetto è pensato dalla mente umana.
A differenza di ciò che credeva Leibniz sono due facoltà distinte, autonome che svolgono differenti funzioni.
Non c’è un’inferiorità della sensibilità rispetto all’intelletto: non ci si può rivolgere solo alla sensibilità o solo
all’intelletto ma le due facoltà devono collaborare perché senza sensibilità non ci è dato alcun oggetto e
senza l’intelletto nessun oggetto sarebbe pensato.
La conoscenza empirica scaturisce dall’unione di sensibilità e intelletto: “I pensieri senza contenuto sono
vuoti e le intuizioni senza concetti sono cieche”.

INTUIZIONI E CONCETTI:
Secondo Kant, l’importante è non scambiare le funzioni delle due facoltà: l’intelletto non intuisce e la
sensibilità non pensa.
1. L’intuizione è la rappresentazione che si riferisce all’oggetto in maniera immediata. È solo
sensibile, propria di una facoltà ricettiva perché io non posso scegliere se ricevere o no una
determinata intuizione di un oggetto che mi è dato. Occorre che io sia affetto (passivo), non
siamo in grado di darci l’oggetto da soli.
a. Materia/Empiriche: mentre il contenuto della nostra conoscenza è dato per quanto
riguarda l’intuizione
b. Forma/Pure: La forma è emessa dal soggetto a priori.
i. Ci sono delle forme pure a priori che riguardano l’intuizione.
ii. E delle forme pure a priori che riguardano l’intelletto: categorie.
2. Il concetto è un atto spontaneo dell’intelletto che produce una rappresentazione universale.

ESTETICA TRASCENDENTALE: La scienza di tutti i principi a priori della sensibilità.


Kant intende isolare la sensibilità:
-> separando tutti i concetti pensati dall’intelletto affinché rimanga solo l’intuizione empirica
-> poi dall’intuizione empirica bisognerà separare tutto ciò che appartiene alla sensazione (togliere la
materia) per isolare solo la forma = in modo che rimanga l’intuizione pura.
Esistono due forme pure dell’intuizione sensibile, due principi della conoscenza a priori:
- Lo spazio: la forma del senso esterno. Lo spazio non può essere considerato un concetto empirico,
come qualcosa di ottenuto facendo astrazione da tutti gli oggetti trovati al suo interno, perché noi
presupponiamo sempre uno spazio in cui stanno gli oggetti. È qualcosa di presupposto alle
differenti posizioni degli oggetti. È una nozione a priori, non una conseguenza a posteriori. È una
intuizione/unica/ a priori, non un concetto attribuibile a più oggetti.
- Il tempo: la forma del senso interno e del senso esterno. Gli stessi aspetti dello spazio valgono
anche per il tempo, con l’aggiunta del fatto che il tempo ha a che fare sia con le nostre
rappresentazioni del senso esterno (mondo empirico degli oggetti) sia con le rappresentazioni del
senso interno (confutazione dell’idealismo).

Ogni nostra rappresentazione sensibile viene spazializzata e temporalizzata. Tuttavia, l’effetto di un oggetto
sulla capacità rappresentativa è la sensazione, mentre, l’intuizione che si riferisce all’oggetto si dice
empirica. L’oggetto indeterminato di un’intuizione empirica prende il nome di fenomeno.
La nostra conoscenza è una conoscenza di fenomeni, materiale che noi circoscriviamo in uno spazio ed in
un tempo.
L’ANALITICA TRASCENDENTALE: La tavola dei giudizi e la tavola delle categorie.
L’intelletto, attraverso le sue funzioni, ordina e unisce le rappresentazioni della sensibilità sotto una
rappresentazione comune. Le funzioni dell’intelletto sono unificatrici e giudicatrici perché l’atto con cui i
concetti esprimono la loro forza unificante è il giudizio. Pensare = Giudicare.
I concetti puro sono le forme a priori attraverso cui l’intelletto giudica, cioè unifica le rappresentazioni.
Questi concetti sono chiamati da Kant categorie e vengono analizzate da Kant nella “Analitica
(scomposizione) trascendentale dei concetti”, richiamandosi alle categorie di Aristotele, con la differenza
che queste non saranno modi di essere come per lo Stagirita ma saranno modi del pensare.

TAVOLA DEI GIUDIZI TAVOLA DELLE CATEGORIE


QUANTITÀ QUANTITÀ
Universali Unità
particolari Pluralità
Singolari Particolarità
QUALITÀ QUALITÀ
Affermativi Realtà
Negativi Negazione
Infiniti Limitazione
RELAZIONE RELAZIONE
Categorici Sostanza e accidente
Ipotetici Causa ed effetto
Disgiuntivi Azione reciproca
MODALITÀ MODALITÀ
Problematici Possibilità-impossibilità
Assertori Esistenza-Inesistenza
Apodittici Necessità-Contingenza

L’ingegnosa costruzione che Kant ha effettuato sul contributo del soggetto nella costituzione dell’oggetto è
sì affascinante ma come facciamo a dimostrare che i concetti puri, isolati da Kant nell’analitica, ci diano
davvero una conoscenza affidabile del mondo e spieghino la nostra esperienza in maniera universale e
necessaria?
Kant tenta di risolvere questo problema con la deduzione trascendentale delle categorie: Kant ha in mente
la giustificazione delle categorie, ovvero dimostrare che questi concetti puri danno luogo a conoscenze
effettivamente dotate di una validità universale e oggettiva.
La chiave di volta di questa deduzione trascendentale è data dalla appercezione pura/ Io penso, ovvero nel
far dipendere la funzione unificatrice delle categorie da una sintesi originaria e ulteriore, che è quella
dell’Io.

La sensibilità ci da una molteplicità di intuizioni che non hanno un principio di coesione, serve l’unificazione
dell’intelletto perché queste intuizioni possano essere pensate. Alla base di questa unificazione deve esserci
un’unità superiore che rende possibile le funzioni di unificazione dell’intelletto (“il concetto dell’unificazione
implica, oltre il concetto del molteplice, anche quello dell’unità”). L’unificazione è la rappresentazione
dell’unità sintetica del molteplice e la rappresentazione di questa unità sintetica del molteplice non viene
dall’unificazione ma rende primariamente possibile il concetto dell’unificazione. Questa rappresentazione
dell’unità è chiamata da Kant Io penso, senza il quale avremmo una serie di rappresentazioni slegate l’una
dall’altra, che non potremmo riconoscere come nostre.

Ogni nostra esperienza presuppone sempre l’unità della coscienza. Posso parlare di esperienza solo se
presuppongo l’unità del soggetto. L’Io penso, che rende possibile tutte le funzioni sintetiche dell’intelletto,
ha un ruolo fondativo simile al cogito cartesiano perché legittima il processo conoscitivo dell’intelletto, con
una differenza cruciale: l’Io penso, prodotto dall’autocoscienza, non è una sostanza ma solo una funzione,
una condizione formale che precede a priori tutti i nostri concetti di unificazione successivi.
L’Io penso non è nemmeno l’autocoscienza empirica, il soggetto empiricamente determinato con tutte le
sue caratteristiche, ma è una struttura comune a tutti quanti.
“È quell’autocoscienza che è in ogni coscienza una e identica”

ANALITICA DEI PRINCIPI: Immaginazione riproduttiva ed immaginazione produttiva


Come fanno le categorie ad applicarsi alle intuizioni sensibili in modo da generare dei giudizi di esperienza?
Occorre che i concetti vengano resi sensibili e che le intuizioni sensibili vengano riportate sotto concetti.
Questo ruolo di mediatore tra intelletto e sensibilità è svolto dall’immaginazione che da un lato ha il
carattere sensibile delle intuizioni e dall’altro il carattere spontaneo dell’intelletto.
Questa duplice caratteristica dell’immaginazione permette di dividerla in:
- Apprensione nell’intuizione: unificazione che si fa nella sensibilità e nella temporalità, apprende
una serie di intuizioni come se fossero istantanee.
- Immaginazione riproduttiva: può riprodurre nell’animo delle intuizioni empiriche attraverso le
leggi dell’associazione. È in grado di riprodurre l’oggetto, anche senza la sua presenza
nell’intuizione, associando tra di loro le intuizioni. (esempio del Cinabro, un minerale di colore
rosso, che mi rimanda alla pesantezza).
Questa sintesi suppone l’uniformità della natura che è data dalla sintesi trascendentale operata
dall’intelletto.
- Immaginazione produttiva: capacità di determinare a priori la sensibilità in conformità alle
categorie.

L’immaginazione sistema uno schema per ogni categoria, una struttura con cui la categoria si applicherà
all’intuizione empirica. È un modello per gli oggetti possibili dell’esperienza. Gli schemi dell’immaginazione
sono modelli che noi applichiamo, secondo le varie categorie, all’intuizione empirica.

In base agli schemi che l’immaginazione mette in campo per far sì che le categorie possano applicarsi agli
oggetti ci sono delle regole (principi dell’intelletto). Questi principi dell’intelletto regolano gli schemi
dell’immaginazione che permettono di applicare la categoria all’intuizione empirica.
I quattro principi dell’intelletto:
1. Assiomi dell’intuizione: regolano le categorie della quantità. I loro principio è: “Tutte le intuizioni
sono qualità estensive”, ovvero noi intuiamo gli oggetti sempre secondo una forma quantitativa (Ci
sono due quaderni, ho una felpa). Applicabilità della matematica alla fisica.
2. Anticipazioni della percezione: regolano le categorie della qualità, secondo il principio: “In tutti i
fenomeni il reale ha una quantità intensiva, cioè un grado.” Noi conosciamo gli oggetti anche
secondo un certo grado che possiamo misurare.
3. Postulati del pensiero empirico: regolano le categorie della modalità che decidono se l’oggetto può
essere dato nello spazio e nel tempo; se l’oggetto è reale; se l’oggetto è necessario.
4. Analogie dell’esperienza: regolano le categoria di relazione. Sono rette da tre principi:
a. Principio di permanenza della sostanza: principio necessario per percepire il mutamento
perché senza un sostrato (sostanza) che permane non c’è né un prima né un poi. Lo schema
della sostanza è quello della permanenza della sostanza nel tempo nonostante il variare del
resto. (Primo principio della meccanica Newtoniana: conservazione della materia)
b. Legge di causalità: Il mutamento implica una successione che può essere irreversibile
oppure reversibile. La causalità è ciò che ci permette di passare da un’intuizione all’altra.
Quando la successione è reversibile è soggettiva (per esempio, quando guardo una casa
posso decidere di partire dal tetto, se invece guardo una barca che scende dal fiume non
dipende da me il punto di partenza). Alla base delle successioni sta la legge di causa-effetto
che corrisponde al secondo principio della meccanica Newtoniana.
c. Azione reciproca: Estende il secondo principio in maniera pluridirezionale: è una causalità
che si irraggia nella misura in cui ad ogni azione corrisponde una reazione. Principio della
simultaneità: una stessa cosa può essere effetto di una causa e causa di altri effetti.
(terzo principio di Newton: ad ogni azione una reazione)

Con questi tre principi Kant pensa di aver compiuto la propria missione: dimostrare come avere una
conoscenza che sia valida universalmente partendo dalle strutture trascendentali del pensiero.
Il problema è che questo vale fino a quando siamo in presenza di oggetti la cui esperienza è possibile,
qualcosa di cui possiamo avere intuizione empirica.
Kant distingue:
- Conoscere: serve sempre una intuizione. La conoscenza richiede il concetto per cui un oggetto è
pensato (la categoria) e l’intuizione per cui l’oggetto è dato. Io posso conoscere enti reali come il
cellulare di cui possiede sia il concetto che l’intuizione ma per quanto riguarda l’anima io potrò solo
pensarla ma non posso conoscerla perché non ne ho esperienza (non è un fenomeno).
Se facciamo rifermento all’anima come oggetto non sensibile possiamo attribuirle solo una serie di
cose negative (non è estesa, non è nello spazio e nemmeno nel tempo) ma non possiamo
esprimerne il contenuto. Se cercassimo di parlare del contenuto in modo improprio cadremmo in
quelli che Kant chiama paralogismi.
- Pensare: Il pensiero non porta alla conoscenza di nessun oggetto: io potrei avere il pensiero di un
oggetto che non è dato nella realtà. L’ambito del pensabile è più ampio rispetto all’ambito del
conoscere perché noi possiamo pensare a qualcosa senza averne un’intuizione empirica (senza
conoscerlo poiché l’intuizione è necessaria per la conoscenza). Ci sono delle cose che posso
pensare e conoscere ma ci saranno anche cose che io posso solo pensare ma non conoscere.
La condizione di pensabilità è il principio di non contraddizione.

Dunque le categorie non ci procurano alcuna conoscenza se non per mezzo della loro possibile applicazione
all’intuizione empirica. Questo stabilisce i limiti dell’uso dei concetti puri dell’intelletto rispetto agli oggetti.
Non possiamo fare delle categorie un uso trascendentale: non si può riferire le categorie alle cose in sé,
possiamo e dobbiamo farne solo un uso empirico, ovvero applicarle ai fenomeni (oggetti di esperienza
sensibile).
DISTINZIONE FENOMENO / NOUMENO
Due modi di guardare la cosa:
- Fenomeno: sono le cose che possiamo pensare e conoscere. Quando noi ci riferiamo agli enti
sensibili, nella loro nozione è già incluso il fatto che rimandino ad enti intellegibili che sono al di là
rispetto ai fenomeni.
- Noumeno: sono le cose che possiamo solo pensare. Concetto limite: se c’è un fenomeno deve
esserci un noumeno che ne è la vera identità.
Si configura con due sensi differenti:
o Senso positivo: l’oggetto di una intuizione intellettuale
o Senso negativo: ciò che non è oggetto della nostra intuizione sensibile. L’unico valido: ci
dice che il nostro oggetto è il fenomeno e non la cosa in sé.

LA RAGIONE E LE IDEE:
Oltre all’intelletto che lavora in maniera analitica c’è la ragione che invece ambisce a cogliere la totalità, è la
facoltà dei principi. La ragione è la facoltà dell’incondizionato, delle scienze che vanno oltre ogni esperienza
possibile.

Le forme a priori della ragione sono tre idee, intese come un concetto necessario della ragione al quale non
può essere dato nessun oggetto corrispondente nella realtà sensibile. Le idee non sono invenzioni
arbitrarie, al contrario sono imposte alla ragione stessa che tende ad arrivare a delle sintesi ultime.
Queste idee sono inoltre trascendenti, nel senso che trascendono i limiti dell’esperibile perché non c’è un
oggetto adeguato nel mondo sensibile.
1. Anima (Psicologia razionale): sintesi di tutte le conoscenze interne.
2. Mondo (Cosmologia razionale): sintesi di tutte le conoscenze esterne.
3. Dio (Teologia razionale): sintesi di tutte le conoscenze esterne ed interne.

Il problema della metafisica è che di queste idee si è voluto fare un uso costitutivo e non un uso regolativo.
- Uso costitutivo di una categoria: applicando la categoria all’intuizione empirica noi arriviamo ad
avere una conoscenza. Un uso di questo tipo è però impossibile se si considera che noi non
abbiamo l’oggetto da considerare. L’errore della metafisica è quello di procurare un oggetto
corrispondente a queste idee, di ipostatizzare queste tre tendenze, dando degli oggetti alle idee.
- Uso regolativo: possiamo servirci della finalità come strumento per cogliere all’interno della natura,
alcuni elementi che non possiamo ridurre a causa-effetto.
Il problema è quando la metafisica pretende un uso costitutivo delle idee che fa infrangere la metafisica
contro delle antinomie, dei paralogismi, e delle prove dell’esistenza di Dio.

IL PRIMO PARALOGISMO DELLA PSICOLOGIA RAZIONALE


Data la limitatezza delle nostre categorie che possono applicarsi solo agli oggetti di un’esperienza possibile,
la metafisica trasgredisce questa regola aurea e cerca di applicare queste categorie all’idea di ragione,
facendone un uso regolativo. Il risultato è la dialettica:
- Cosmologia razionale che si infrange contro le antinomie (situazione in cui sia tesi che antitesi
possono essere verificate)
- Teologia razionale: affronta le prove dell’esistenza di Dio.
o La critica di Kant alla prova ontologica di Dio è quello che l’esistenza non è un predicato ma
una posizione assoluta. Dunque, nell’argomento ontologico non abbiamo a che fare con
qualcosa di analitico (Il discorso per cui nell’essenza di Dio è già inclusa l’esistenza è fallace
perché è una proposizione sintetica. L’esistenza è una categoria che può essere applicata
solo ad oggetti possibili).
o Anche l’argomento cosmologico (ex contingentia) è ritenuto da Kant una prova ontologica
rovesciata. Nell’applicazione della causalità c’è un salto dal sensibile al piano del
sovrasensibile, in cui la categoria di causa non può essere applicata.
o La prova più apprezzata da Kant è quella fisico-teologica, quella che parte dalla
considerazione dell’ordine. Anche qui però sorge un problema: non ci è concesso di
superare l’ambito sensibile. Dunque, questa prova non potrà mai arrivare ad un creatore
ma al massimo ad un Demiurgo.
- Psicologia razionale: finisce nei paralogismi: dei sillogismi errati in cui si prende una nozione e la si
assume in due maniere differenti, premessa maggiore e premessa minore, cadendo in quello che
prende il nome di paralogismo.
Nella psicologia razionale, ci sono tre paralogismi, quando si attribuisce al soggetto:
 Una sostanzialità: Io sono una sostanza pensante. Fa dell’Io penso una sostanza,
ipostatizza il soggetto logico che è indispensabile come unità sintetica originaria.
Il problema è che il cogito della premessa maggiore è un soggetto logico e in quanto tale gli si
attribuiscono predicati che sono le nostre rappresentazioni, finendo però per sostanzializzarlo
applicandogli la categoria di sostanza. Si confonde quella che è una funzione, che si rivela nei miei
atti di pensiero, in una sostanza. Secondo Kant, l’io penso è una funzione e non può essere
sostanzializzato senza incorrere in un paralogismo.
 Una semplicità: Io sono una sostanza semplice, non composta
 Un’identità: Io sono una sostanza identitaria
 Quarto paralogismo (tolto dalla seconda edizione della CRPU): l’anima è in
relazione con oggetti possibili nello spazio. Kant, in questo paralogismo, precisa in
che senso egli può essere chiamato un “idealista”: un idealista è colui che ritiene
che noi non percepiamo immediatamente le cose ma percepiamo l’idea delle cose
(Realismo indiretto) con la conseguenza di dimostrare che la nostra idea delle cose
corrisponda o meno con la realtà delle cose.
Kant distingue tra diversi tipi di idealisti:
- Idealismo dogmatico (Berkeley): colui che nega l’esistenza della materia. L’idealista dogmatico è
facile da battere per Kant, il quale ritiene che la posizione di Berkeley sia una posizione
conseguente nel momento in cui si ritiene, erroneamente, che spazio e tempo siano qualcosa di
assoluto. Questa posizione di idealismo dogmatico è fatta fuori quando si precisa che spazio e
tempo sono delle intuizioni a priori.
- Idealismo scettico (Hume): pone in dubbio la materia perché indimostrabile. Questa posizione non
dispiace a Kant perché Hume, considerando ingiustificata la nostra certezza dell’esistenza della
materia, ci costringe a fare attenzione, ci dice che c’è qualcosa di più del realismo indiretto.
- Idealismo empirico -> realismo trascendentale (Cartesio): L’idea di prendere i fenomeni per cose in
sé. Cartesio è convinto che l’uomo abbia la possibilità di conoscere le cose in sé ma in questo modo
cade in un idealismo empirico.
In questo modo, Cartesio si rinchiude all’interno delle proprie idee: se gli oggetti esterni esistono
come cose in sé bisogna dimostrarne l’esistenza con il ragionamento, dicendo che sono cause delle
nostre percezioni. Questo ragionamento però non può dimostrare la causalità delle cose in sé su di
noi, allora, il realista trascendentale cade nel dubbio.
Per Cartesio: Io ho l’idea di computer e da questa devo dimostrarne l’esistenza
Per Kant: Io ho il computer che percepisco come un fenomeno e non come il computer in sé.

L’anno dopo l’uscita della CRPU, la rivista di Göttingen bolla Kant come un berkeleiano: tutto è percezione e
rappresentazione. A questo punto Kant decide di togliere il quarto paralogismo dalla seconda edizione ed
inserisce una confutazione dell’idealismo.
Kant si oppone frontalmente anche a Hume, che aveva detto fosse una credenza che ci portava all’esistenza
delle cose esterne.
“Per quanto si reputi l’idealismo innocente (ma in realtà non lo è) rispetto agli scopi fondamentali
della metafisica, resta pur sempre uno scandalo per la filosofia e per la ragione umana in generale il
dover ammettere soltanto per fede l’esistenza delle cose fuori di noi (dalle quali pur ricaviamo
l’intera materia della conoscenza, anche per il nostro senso interno) con l’impossibilità di opporre
una prova sufficiente a chi intendesse porla in dubbio”
Argomento per confutare l’idealismo : “Io sono cosciente della mia esistenza nel tempo attraverso
un’esperienza esterna, esperienza che è qualcosa di più del semplice essere cosciente di una mia
rappresentazione e fa tutt’uno con la coscienza empirica della mia esistenza che non è determinabile se non
in riferimento a qualcosa che, connesso con la mia esistenza, sta però fuori di me”.
In questo modo Kant afferma che io sono consapevole che fuori di me ci sono delle cose quanto sono
consapevole della mia esistenza determinata nel tempo. Alla base della mia esperienza interna sta
un’esperienza esterna. Esiste una realtà esterna senza la quale io non potrei avere una coscienza empirica
della mia esistenza, determinata nel tempo. La realtà esterna non è un’immaginazione ma ne abbiamo una
vera e propria esperienza.
Kant affronta due tipi di idealismo:
- Idealismo problematico (Cartesio): questa forma di idealismo non nega la materia al di fuori di noi
ma ne mette in dubbio l’esistenza, per essere certi solo della propria esistenza (cogito ergo sum).
Contro Cartesio, Kant dimostra che io posso affermare la mia esistenza solo se c’è qualcosa fuori di
me perché per cogliere la mia esistenza nel tempo devo percepire il movimento (un cambiamento
di rapporti esterni) ossia il rapporto tra me e un punto fermo. Un punto fermo è la materia fuori di
me che deve esserci necessariamente per ogni determinazione temporale.
La nostra esperienza interna dipende dalla nostra esperienza esterna determinata empiricamente.
- Idealismo dogmatico (Berkeley): Kant l’ha già discusso nell’estetica (CRPU) quando ha detto che
spazio e tempo non sono cose che stanno fuori di noi ma sono delle forme a priori.

DOPO KANT: LA SVOLTA TRASCENDENTALE


La svolta trascendentale non si impone con un consenso universale, al contrario, rimangono due grosse
questioni che danno alito al dibattito tra dogmatici e scettici. Gli scettici non sono convinti perché permane
la cosa in sé, intesa in sia senso realistico (come un oggetto che causa in me la sensazione) sia in senso
idealistico (facendone una sorta di recettività all’interno dell’Io che incontra un limite nella cosa in sé).
Malgrado Kant avesse voluto precisare il senso del suo idealismo, la questione rimane aperta:

“A dire il vero una certa ansietà̀, aveva indotto [Kant] a cambiare nelle edizioni posteriori certi
luoghi della prima edizione della Critica della ragion pura, nei quali egli si era persino dichiarato, in
linea di massima, idealista, in altri nei quali egli apparentemente confutava l’idealismo.
Ma la via verso l’idealismo era stata tuttavia aperta: la cosa in sé era troppo indeterminata, anzi troppo
vuota, per potersi mantenere (giacché tutto ciò che fa dell’oggetto una cosa reale deriva dal soggetto), e
quindi il passo immediato fu incontestabilmente che rimase soltanto il soggetto, l’io”.
(Schelling, Lezioni monachesi)
Il passaggio dal ritenere la cosa in sé come qualcosa di inconoscibile che causa le sensazioni in me a
muovere dal soggetto andando a vedere come il soggetto produca anche quello che il soggetto non è.

La scoperta kantiana della libertà è fondamentale per i tre successori di Kant che non si accontentano che ci
sia il piano della conoscenza e quello della libertà.
“All’idealismo ridotto a sistema non basta punto asserire “che l’attività, la vita e la libertà siano il vero
reale”, [...] si esige piuttosto anche la dimostrazione inversa, che tutto il reale (la natura, il mondo delle
cose) abbia per fondamento l’attività, la vita e la libertà” -> Le leggi finalistiche che muovono la libertà
devono essere le leggi della natura e quella libertà che appartiene alla parte noumenica dell’uomo deve
concretizzarsi nella storia.

IL PROBLEMA DELLA COSA IN SÉ:


La cosa in sé poteva essere letta in senso realista (come oggetto esterno inconoscibile che è causa della
nostra conoscenza), in questo caso l’esito del kantismo sarebbe lo scetticismo. Il primo critico di Kant è
Jacobi, il quale che Kant è l’iniziatore dell’idealismo (che Jacobi chiama “egoismo speculativo”). Il problema,
secondo Jacobi, è che l’idealista trascendentale si trasforma in un egoista speculativo che considera solo il
soggetto e riduce gli oggetti a semplici determinazioni del nostro Io, che non sussistono in alcun modo al di
fuori di noi. Jacobi, contro l’idealismo kantiano, crede che bisogni ribadire un realismo che fa appello alla
fede: solo l’apertura alla trascendenza rende possibile il guadagno della certezza riguardo le cose fuori di
noi.

LE DUE FIGLIE DELLA FILOSOFIA CRITICA:


Jacobi ritiene che l’idealismo trascendentale kantiano stia alla radice dell’idealismo di Fichte e che questo
stia a sua volta alla radice dell’idealismo di Schelling. Quindi, da Kant dipenderebbero entrambe le figlie
della filosofia critica, quella di Fichte e quella di Schelling.
Jacobi inaugura una lettura che ritiene Fichte come tesi, Schelling come antitesi ed Hegel come sintesi.

Contro questo genere di visione si sono mosso gli interpreti che fanno notare quanto la filosofia classica
tedesca sia variegata (“un arcobaleno di colori” H. Arendt). Questi ribadiscono che non si possono mettere i
tre filosofi (Fichte, Schelling ed Hegel) come se si trattasse di un superamento dialettico perché parte della
loro produzione avviene in contemporanea.

In maniera consequenziale, il criticismo kantiano da origine alla dottrina dfiella scienza fichtiana, che a sua
volta doveva avere per effetto la dottrina dell’uno tutto.
Per Jacobi, queste due dottrine, sono due forme di razionalismo (in senso negativo: da imputare a Spinoza,
quindi un razionalismo ateo).
- Il primo, quello di Fichte, uno spinozismo rovesciato: per Spinoza l’unica sostanza era la natura, per
Fichte l’unica realtà è il soggetto. Secondo Jacobi, solo con questa teoria è possibile una filosofia
pura e immanente, dove ogni cosa è data con la ragione o per mezzo di essa.
- La seconda, quella di Schelling, è uno spinozismo capovolto in un altro senso: Schelling unisce lo
spinozismo originale (della natura come unica sostanza) con la variazione di Fichte. Ne consegue la
dottrina dell’uno tutto, una forma di panteismo.
Entrambe queste forme sono due razionalismi nichilisti: tutta la realtà, gli individui e le cose vengono
ricondotte all’interno del soggetto e delle sue forme di pensiero tanto che la loro filosofia risulta essere un
pensiero del nulla.

REINHOLD E LA RAPPRESENTAZIONE:
Se Jacobi si pone in maniera critica agli sviluppi del pensiero kantiano, al contrario, Reinhold ritiene che
Kant sia riuscito nell’impresa di abbattere il dogmatismo e lo scetticismo. Il problema è che Kant non è
ancora stato portato a piena coerenza, per questo dogmatici e scettici continueranno a polemizzare.
Per mettere a tacere le discussioni tra queste due parti Reinhold ritiene che si debba sviluppare una
filosofia elementare. “Elementare” perché si fondi su un principio primo incondizionato, condivisibile da
tutti così da arrivare ad un accordo. Questo principio primo deve essere un fatto che tutti possano cogliere
in se stessi.
Quello che va sviluppato secondo Reinhold è una teoria della rappresentazione: alla base della
rappresentazione sta la coscienza che quindi è il primo principio che rende possibile ogni rappresentazione.

“La coscienza ci costringe ad ammettere concordemente che ogni rappresentazione implica un soggetto
rappresentativo e un oggetto rappresentato, i quali devono entrambi essere distinti dalla rappresentazione
a cui appartengono.”
(Saggio di una nuova teoria della facoltà rappresentativa dell'uomo)
In ogni rappresentazione abbiamo: un rappresentante ed un rappresentato che devono essere distinti ma
uniti nella coscienza che si qualifica come una struttura relazionale dato che nasce dalla sintesi tra un
soggetto che rappresenta ed un oggetto rappresentato.
Reinhold ha portato la supposta cosa in sé dentro la coscienza: l’oggetto è quel qualcosa che rappresenta la
passività all’interno della rappresentazione.
FICHTE (1762-1814)
Dal guadagno della rappresentazione di Reinhold parte il pensiero fichtiano, il quale ritiene che non basti
fermarsi alla coscienza ma bisogna andare prima di questo fatto per vedere l’atto con cui si istituisce la
coscienza.

L’INCONTRO CON KANT:


Anche Fichte ha una vera e propria illuminazione quando legge Kant, simile a quella di Malebranche per
Cartesio: il giovane Fichte è travagliato dal fatto che da un lato la ragione sembra dirgli che il mondo è
meccanico e che tutto è necessario, dall’altra parte il suo cuore gli fa provare l’esperienza della libertà.
In Kant trova la soluzione: la ragione è la condizione trascendentale perché l’uomo possa dirsi libero.
Quindi, l’intento di Fichte è quello di fondare sia l’aspetto teoretico sia quello pratico, privilegiando il
pratico sul teoretico perché è l’attività pratica che rende possibile l’attività teoretica.

Il problema è che Kant è minacciato dalle critiche che gli si sono rivolte da Jacobi e Schlze, il quale scrive
un’opera dal titolo “Enesidemo” (Enesidemo è un filosofo scettico greco antico. Lo scopo generale della sua
opera è quello di stabilire che nulla può essere compreso in modo stabile né mediante la sensazione, né
mediante il pensiero, e per questo motivo, né i pirroniani né gli altri filosofi conoscono la verità delle cose)
in cui fa un’analisi della filosofia elementare di Reinhold in maniera scettica. La prima critica che muove a
Reinhold è che il suo principio, la coscienza, non può essere un principio primo perché è un fatto e quindi
contingente e particolare. La seconda critica colpisce Kant attraverso Reinhold: Kant mutua le categorie
dalla logica formale perciò la logica trascendentale kantiana dipende dalla logica formale significa
condannare il kantismo perché allora l’ordine che Kant ha pensato per spiegare la conoscenza resta nel
mero piano sensibile senza mai arrivare al piano della realtà.

L’intento di Fichte è quello di mettere in sicurezza i fondamenti della filosofia di Kant e per farlo deve
elaborare una dottrina della scienza che assicuri la verità della coscienza nella sua esperienza del mondo.
Questa scienza della scienza deve essere alla base di tutte le altre scienze, un progetto enciclopedico troppo
complicato per essere portato a termine tutto, infatti, ne riesce a terminare solo la parte che più gli
interessa. Da un lato scrive la fondazione del diritto naturale ed i principi di etica secondo la dottrina della
scienza.

I FASE (1794-1798): PERIODO DI IENA


In questo periodo compaiono le prime esposizioni della dottrina della scienza, inoltre, Fichte tiene lezioni
“popolari” (conferenze che tiene al di fuori dell’università ad un pubblico più ampio).
Uno scritto interessante di questo periodo è “La missione del dotto” in cui Fichte si interroga sul ruolo
dell’intellettuale sulla società.

Prima esposizione della dottrina della scienza (1794): Fichte si rende conto che per fondare il criticismo su
basi solide bisogna individuare un principio primo/incondizionato che tenga insieme lato teoretico e lato
pratico. Allora, muove da un esercizio di introspezione scoprendo che nella coscienza possiamo distinguere
due tipi di rappresentazioni:
- Rappresentazioni accompagnate dal sentimento di libertà: quelle di immagini fantastiche la cui
causa siamo noi stessi
- Rappresentazioni accompagnate dal sentimento di necessità: quelle che sembrano dipendere da
cose che esistono indipendentemente da noi. Di queste si può affermare che la causa sia la cosa in
sé, gli oggetti esterni che causano la rappresentazione nella nostra mente.
Il problema è che l’idea di una connessione della nostra coscienza con la cosa in sé, completamente
indipendente da essa, permette allo scettico di avere ragione. Per battere lo scettico si deve negare
che la rappresentazione di oggetti esterni sia causa della cosa in sé di modo che rimanga solo il
soggetto conoscente. A questo punto bisogna però spiegare come il soggetto possa crearsi
indipendentemente la rappresentazione dell’oggetto esistente in sé.
Fichte si rende conto che nel conoscere è all’opera una circolarità ineludibile: lo spirito finito che deve
porre al di fuori di sé qualcosa di assoluto e dall’altra parte riconoscere che questa cosa esiste in sé solo per
esso. La coscienza opera come Re Mida: si nutre di oggetti reali e trasforma tutto ciò che percepisce in un
oggetto per lei. La cosa in sé non esiste fino a quando non la si possiede e appena la si possiede sfugge.

Il realismo cerca di uscire dal circolo invano perché cade sotto la trappola dello scetticismo. L’unica
soluzione, secondo Fichte, è spiegare come si produce questo circolo: L’Io è in grado di lasciarsi modificare
nella propria attività da istanze che si generano nella relazione con ciò che lui stesso non è.
Da un lato Fichte decostruisce l’oggetto come cosa in sé, dall’altro lato mette in luce la struttura dell’Io con
cui questo produce i suoi contenuti di coscienza.
Per vedere come funziona davvero questa ineludibile circolarità bisogna capire che alla base della sintesi
che Reinhold ha individuato tra rappresentante e rappresentato non c’è un fatto ma un’azione in atto con
cui la coscienza si autodetermina. Questa azione in atto è la Tat-Handlung (termine che unisce la
processualità e il termine dell’azione) ricavato da un verso del “Faust” di Goethe. Questo principio primo
incondizionato è l’atto con cui la coscienza pone se stessa, cogliibile attraverso un’intenzione intellettuale.
In Kant l’appercezione trascendentale coincideva con la spontaneità dell’intelletto, di cui Fichte ritiene che
possiamo avere un’intuizione intellettuale.

I tre principi della dottrina della scienza: sono in grado di spiegare la conoscenza e di dare un fondamento
alle conclusioni di Kant perché fondano i tre principi logici (identità/non contraddizione/ ragion sufficiente),
le tre categorie kantiane della qualità e corrispondono alle tre forme di giudizio (tetico/antitetico/sintetico).
Questi tre principi non vanno pensati come scissi o come consequenziali perché nella nostra concreta
esperienza sono sempre uniti e contemporanei.
1. Il primo principio assolutamente incondizionato: Fichte mostra che il principio logico è possibile
solo astraendo da quello che concretamente accade nella coscienza. Egli muove dal principio di
identità, che ha un valore solamente formale ed ipotetico (A=A non comporta la reale esistenza di
A), al primo principio incondizionato (IO=IO) ovvero l’IO che pone A come uguale a se stesso
necessariamente. In quanto pura attività l’Io pone se stesso come esistente e nell’autocoscienza si
sa come identico a sé. L’Io prima dell’autocoscienza non esiste, nasce solo quando è cosciente di se
stesso. Fichte opera un’inversione: è l’attività che pone un Io e gli da una consistenza.
2. Il secondo principio condizionato nel suo contenuto (-| A non è = A): il contenuto è dato dal primo
principio che ci informa che A=A ed IO=IO. (La negazione dell’Io si può dedurre dal primo principio)
Quello che risulta incondizionato ed indeducibile dal primo principio è la negazione. Questa
seconda attività è una negazione dell’attività: l’Io, nella propria spinta a porsi, si trova ad essere
negato. Se voglio rappresentare una cosa qualunque devo opporla alla rappresentante: nella sua
attività, l’Io, trova un ostacolo che è l’altro da sé. Il non-Io è frutto dell’autolimitazione dell’Io che
pone ciò che lo limita.
3. Il terzo principio condizionato della sua forma: Né il porre né l’opporre, presi da soli, restituiscono
l’esperienza concreta che ci viene dal terzo principio, la mediazione tra le prime due attività che si
contrappongono. Il terzo principio mantiene entrambe le attività come opposte ma unite nella
coscienza.

Come si genera il non-Io: Il non-Io è niente senza l’azione dell’Io che lo pone come opposto da sé attraverso
la facoltà dell’immaginazione produttiva con cui l’Io da una forma a quel qualcosa che limita la sua attività.
Quella dell’immaginazione produttiva è una produzione inconsapevole (pre-cosciente).
L’Io si scopre limitato nella sua attività, questo ostacolo (Anstoss) mette in moto l’immaginazione che senza
questo meccanismo non potrebbe scattare. Il fatto che ad un certo punto l’attività dell’Io incontri un
ostacolo fa si che quell’attività si possa configurare come uno sforzo (Streben).
Se noi restassimo sul piano dell’Io assoluto non si darebbe nessuna autocoscienza perché non si potrebbe
dire Io non avendo altro al di fuori di sé.

Questo urto è stato poi interpretato dai romantici come l’esperienza dolorosa della finitezza dell’uomo, è
anche quello che ha fatto parlare degli interpreti del titanismo di Fichte: incessante tensione al
superamento del limite ed al tempo stesso dell’imprescindibilità del limite, che è la condizione della nostra
possibilità di agire.

L’Io assoluto ricompare come quell’idea di una spontaneità dell’auto-posizione in cui noi possiamo
realizzarci. Senza questa idea primitiva del nostro essere assoluto non ci sarebbe la tensione a porre se
stessi, senza quest’ultima non ci sarebbe il sentimento del limite e quindi nemmeno il mondo
dell’esperienza sensibile potrebbe esistere: questo principio funge da pungolo per l’Io concreto.
Il primo principio incondizionato è necessario per l’esigenza pratica infinita dell’Io, la quale consiste nel
determinare sempre di più il non-Io.
Questo circolo non è perfetto come uno di quelli formulati da Hegel il quale dirà che quello di Fichte è un
“cattivo infinito” che è sempre una tensione al limite.

Secondo Fichte invece è giusto affermare questa tensione al limite fino a quando l’uomo non si sarà fatto
Dio. La sua posizione rimane fedele alla posizione trascendentale kantiana: il finito è sempre in tensione tra
assolutezza e finitezza senza mai diventare assoluto.
Ne “La destinazione del Dotto” dedicata alla destinazione dell’uomo, Fichte spiega la dinamica tra l’Io
assoluto e l’Io empirico. Se nella sfera teoretica l’Io pone se stesso come limitato dal non-io, nella sfera
pratica l’Io si pone come determinante il non-Io, che consiste nel suo essere libero.
L’uomo è da un lato razionale, per il quale egli è ciò che è, dall’altro lato è sensibile quindi recettivo. Per
giungere alla completa coerenza con noi stessi dobbiamo cercare di educare la sensibilità. Il controllo sulla
sensibilità è possibile tramite la cultura che è un antidoto utile per conseguire la piena armonia con se
stessi.
La meta suprema dell’uomo, sottomettere tutta la parte sensibile, è irraggiungibile anche nell’eternità:
allora, il vero scopo dell’uomo sarà tendere il più possibile alla perfezione (illuminismo). L’uomo esiste per
rendere migliore tutto ciò che lo circonda: deve permeare tutto ciò che lo circonda con la sua razionalità.
L’intellettuale dovrà favorire gli uomini nel loro compito, è al servizio della società, deve sorvegliare il
progresso dell’umanità mettendo le proprie conoscenze al servizio della società. Per fare ciò deve essere un
modello morale e dare il buon esempio a tutti gli altri.
Fichte se la prende con Rousseau il quale aveva messo come madre di tutti i mali la cultura sociale che
corrompe il buon selvaggio pacifico e autarchico. Al contrario, Fichte crede che Rousseau si sia sbagliato:
l’età dell’oro arriverà con il continuo perfezionamento.

II FASE (1798-1810)
Questa fase inizia con un evento terribile, nel 1798, in cui avviene la disputa sull’ateismo. Fichte scrive “Sul
fondamento della nostra fede in un governo divino nel mondo” che causa l’accusa di ateismo da parte di
Jacobi: di ridurre Dio al semplice ordine morale del mondo. Questa accusa costringe Fichte a dimettersi
dall’Università di Iena trasferendosi a Berlino, inoltre, l’anno seguente Kant giudica la dottrina della scienza
una “semplice logica” fatta di riflessioni astratte che non arrivano all’oggetto reale della conoscenza. Infine,
anche Schelling, seppure inizialmente entusiasta del sistema fichtiano, gli rimprovera di non aver
considerato sufficientemente il non-io e di ricondurre tutta la realtà al primo principio, l’io
Fichte, per rispondere alle critiche, formula l’esposizione della dottrina della scienza (1804) che rappresenta
uno spostamento rispetto alle prime edizioni.
In questa seconda fase reintegra le nozioni di assoluto, essere, Dio che sono la condizione trascendentale di
quel sapere che diventa la manifestazione dell’assoluto. Quindi, l’Io del primo principio passa in seconda
posizione in questa fase: non è più il fondamento originario della realtà ma è l’immagine di un’ulteriore
realtà. La dialettica in questa fase si fa ontologia: l’assoluto non può essere posto né nell’essere, inteso
come oggettività, ma nemmeno nell’Io perché se poi questo Io si oggettiva e aliena, allora questo diventa la
cosa in sé. Quello che risponde alle accuse di Schelling e di spinozismo è che lui non ha intenzione di ridurre
l’assoluto né all’essere né al pensiero perché entrambe le posizioni cadono nell’idea di una “ morta cosa”,
contraria all’idea di libertà alla base di tutto. La dottrina della scienza non vuole essere né una metafisica
dell’oggettività né una metafisica della soggettività perché tanto il realismo quanto l’idealismo non vanno
assolutizzati. La sua prospettiva può essere chiamata un reale-idealismo o un ideale-realismo che
rimangono sempre ancorati nella prospettiva trascendentale. Fichte crede di andare nella direzione di Kant
che aveva cercato l’assoluto come impenetrabile radice in cui si uniscono mondo sensibile e mondo
intellegibile. Il sapere assoluto, unione dell’io e del non-Io/ del sapere soggettivo e oggettivo, ha sopra di sé
un principio ulteriore rispetto a sé: l’assoluto a cui si può attingere astraendo dalla relazione soggetto-
oggetto.
Oltre il sapere c’è un principio più alto di cui la dottrina della scienza deve indicarne la genesi. Fichte chiama
questo principio puro essere che è da sé (auto-originato); in sé (auto-incluso) mediante sé (si auto-
comprende) quest’ultima è la via di accesso per l’Io finito all’assoluto.
Questo puro essere è pura attualità qualificata da Fichte come coincidenza di vita e di essere. Quello di
Fichte è un gioco di parole (il termine leiben può essere inteso sia come “vita” che come “vivere”) che non
permette di intendere la vita come una vita divina in prima persona ma nemmeno intesa come l’essere
necessario. Il nostro linguaggio ed il nostro pensiero stanno sempre nella mediazione e tentano sempre di
oggettificare l’assoluto. Nella prospettiva trascendentale, l’assoluto rimane inconcepibile: il sapere può
cogliere l’assoluto perché è ciò che lo fonda. Accanto all’essere dell’assoluto c’è anche il suo esserci, ossia
l’essere come manifestazione di questo assoluto.
Secondo Fichte, la coscienza deve cogliere in sé il dovere assoluto di conoscere l’essere per cui si realizza la
vita eterna. In questo punto Fichte trova il legame tra la dottrina della scienza ed il nucleo veritativo del
cristianesimo: nel dogma cristiano il fine ultimo è che l’uomo pervenga alla vita eterna. Il soggetto non
sparisce in questa seconda fase però diventa funzione di un movimento che lo eccede. L’Io concepito come
assoluto nella prima fase, diventa ora il tramite attraverso cui questa vita si coglie nelle sue manifestazioni.

Questa dottrina viene spiegata nell’introduzione alla “Vita beata” del 1806 (un ciclo di lezioni tenute da
Fichte ad un uditorio piuttosto vasto) in cui Fichte sottolinea la vicinanza tra il nucleo fondamentale della
dottrina della scienza e quello metafisico del cristianesimo che vede presente nel prologo del Vangelo di
Giovanni (Questa fase viene anche chiamata fase giovannea). La sua dottrina della scienza non ha
intenzione di dimostrare la verità della religione cristiana, né si può usare il cristianesimo per dimostrare la
verità della dottrina della scienza.
Nel contenuto della dottrina di Giovanni va distinto ciò che è in sé valido e vero da ciò che è stato vero per
Giovanni. Solo ciò che è metafisico, non ciò che è storico, rende beati: all’interno del cristianesimo c’è un
contenuto storico/dogmatico che non è importante. Ciò che è importante è il contenuto metafisico a cui il
filosofo può approdare anche senza Gesù Cristo, seguendo la via alla vita beata indicata dalla dottrina della
scienza. La beatitudine di Gesù è raggiungibile da chiunque purché si intraprenda la via filosofia della
dottrina della scienza che conduce alla vita beata.
Distingue tra un essere puro della vita, l’esserci di Dio, da un’esistenza esteriore, il mondo, che è l’immagine
dell’immagine di Dio.
Il compito della dottrina della scienza è di spiegare come dall’unità della vita originaria si generi la
molteplicità fenomenica. È uno schema neo-platonico (dall’uno ai molti) che scarta l’ipotesi creazionista,
considerata una non-risposta: pone il passaggio dall’essere assoluto alla molteplicità attraverso un atto di
arbitrio che è ingiustificato ed introduce un pericoloso divenire in Dio.
La maniera più corretta è interpretare il prologo del Vangelo di Giovanni dove si dice come sono andate le
cose: “In principio il Verbo era presso Dio, tutto è stato fatto per mezzo di lui” Dio è identico al suo Logos,
per mezzo del quale tutto è creato. Il Logos del Vangelo di Giovanni diventa il sapere come manifestazione
eterna di Dio. Questo sapere è costituito dalla riflessione che si sdoppia in un pensiero di sé e in una
proiezione che appare come un essere esterno, la molteplicità. In questo senso il mondo è creato tramite il
sapere e nel sapere.

Questa de-sostanizalizzazione dell’Io a profitto dell’assoluto, l’aver posto la soggettività in secondo piano ha
delle implicazioni dal punto di vista etico: nell’introduzione alla “Vita beata” Fichte descrive la teoria della
quintuplicità (che anticipa gli stadi dell’esistenza di Kierkegaard): cinque prospettive in base alle quali il
soggetto determina la propria esistenza. La scelta tra uno o l’altro di questi orizzonti dipende dalla libertà.
Fichte abbandona l’idea dell’imperativo categorico kantiano, per fare della dottrina della scienza una prassi
vivente.
1. Godimento sensibile: coloro che vivono per il mero godimento sensibile, che leggono tutto in
maniera edonistica.
2. Legge giuridica: in questo punto Fichte colloca la legge morale kantiana. La libertà si esprime sotto
la formula della legge. Questa visione sembra difettosa perché la ragione deve imporsi sulla ragione
in maniera contrastante, quindi l’uomo non è appacificato nella sua interezza ma deve dominare
una parte sull’altra.
3. Morale superiore: non si limita più ad ordinare ciò che è presente ma crea il nuovo, non mira più al
dovere per il dovere ma l’autorealizzazione. La libertà si fa potenza creatrice: mira a realizzare la
bellezza e la potenza ma ha il limite di rimanere ancorata all’Io, il che fa arrestarsi al successo ed
alla riuscita.
4. Religione: il sacro, il bene ed il bello non sono nostro prodotto ma sono la manifestazione
dell’intima essenza di Dio in noi. L’uomo moralmente religioso vuole diffondere moralità e religione
non lo fa per sé ma perché è il tramite di Dio, è dominato dall’amore.
5. Scienza: La dottrina della scienza che riconduce a concettualità quello che in religione rimaneva in
termini teologici. Questo punto di vista ci consente di giungere alla saggezza.
La beatitudine consiste nell’essersi elevati alla saggezza che consiste nel trascendere la propria
individualità per capire che la nostra vita è manifestazione necessaria della vita divina.
Questa beatitudine che coincide con l’amore per Dio somiglia all’amore intellettuale spinoziano
perché ha la stessa immanenza (beatitudine terrena) in cui quello che vale non è la riuscita ma ci
dona la tranquillità interiore che ci permette di superare la fatica.

III FASE (1810-


Fichte fonda l’università di Berlino e diventa prima insegnante e poi rettore. In quest’ultima fase continua
l’esposizione della dottrina della scienza e cerca di integrare armonicamente la prospettiva soggettivistica
delle prime esposizioni lenesi con una prospettiva più oggettivistica.

SCHELLING
Il più inquieto e romantico degli idealisti per l’importanza che da al tema della natura e all’arte che
addirittura diventa l’organo della filosofia inoltre per il suo collocarsi all’interno dell’assoluto con uno
sguardo verso l’aspirazione dell’uomo a ritrovare l’infinito nella finitezza.
Il motto della scuola di Tubinga, adottato anche da Schelling è riassumibile nell’”unirsi all’uno tutto”.

Dall’altro lato Schelling è il filosofi delle polarità: dogmatismo e criticismo; filosofia della natura e filosofia
trascendentale (dell’Io). Queste polarità si conciliano nel vertice della filosofia immanentistica
rappresentato dalla filosofia dell’identità che si esplicita in due opere fondamentali: “Esposizione----”;
“Sistema_--” queste polarità trovano un sistema nell’unità indifferenziata della ragione.

Schelling subisce una serie di critiche annunciate dal sistema di Hegel ma che diventano più esplicite nella
prefazione della Fenomenologia dello Spirito, quando Hegel rimprovera a Schelling che la sua idea di
assoluto non ha in sé un principio di differenziazione.
Inoltre, Jacobi muove delle critiche che fanno cadere il sistema di Schelling.

Nuova fase del sistema shelliniano chiamato filosofia della libertà: “filosofia e religione”; “ricerche
filosofiche sull’essenza della libertà umana” in cui Schelling per spiegare il finito a partire dall’assoluto
reintrouce una polarità in Dio

L’ultima fase del pensiero schelliniano vede ancora una polarità tra filosofia negativa e positiva, per cui
Schellling abbandona la prospettiva della via trascendentale, inaugurata da Kant, per elaborare una filosofia
che muove dall’esistente. Le due opere che rappresentano questa fase sono postume: “La filosofia della
mitologia”; “filosofia della ress---”
PRIMA FASE: ADESIONE A KANT e FICHTE
Per Schelling la grande rivelazione è Fichte: nel 1795/1795 Schelling si avvicina molto a Fichte e scrive tre
opere importanti (“L’Io come origine della filosofia”; “lettere criticismo e dogmatismo”).
Kant apre la via all’idealismo che viene condotto in maniera coerente da Fichte: anche per Schelling
significa sbarazzarsi della cosa in sé e ricomporre la frattura tra mondo fenomenico e mondo noumenico.

Fichte ha posto l’Io come principio fondamentale ma ha lasciato inspiegato come è posto l’Io e come è
posto il mondo. Fichte afferma che tutta la natura è svanita nell’astratto concetto del non-Io in cui non c’è
da percepire altro che la sua opposizione al soggetto; egli si occupava solo dell’Io e non a sufficienza del
non-Io riducendo la natura ad un semplice momento interno al soggetto.

Schelling si propone di conciliare l’idealismo fichtiano con la realtà, completando così l’opera di Fichte. Si
tratta di allargare i confini dell’idealismo per vedere come il non-Io si fa per me natura. Bisogna correggere
Fichte con Spinoza, un dogmatico capace di sintesi. Se per Fichte l’Io è il principio dell’infinità soggettiva,
per Spinoza la sostanza è il principio dell’infinità oggettiva: sono due posizioni speculari che vanno unite in
un assoluto che sia unità e indifferenza di entrambi. Si tratta di arrivare ad un monismo per ricostruire il
dualismo di natura e spirito, di reale ed ideale. Mondo ideale e reale devono essere armonizzati, il che si
può fare solo ammettendo un’attività oggettiva che si estrinseca in maniera conscia, mentre in natura
opera in maniera inconscia. Deve esserci omogeneità tra spirito e natura, possibile solo ammettendo che
alla base di entrambe c’è la stessa attività.

Schelling decide di sviluppare i due poli dell’idealismo sviluppando da un lato la filosofia della natura e
dall’altro la filosofia dello spirito.
“Spirito e materia sono una cosa sola, oppure il grande salto, che si è cercato così a lungo di evitare, diviene
inevitabile [...]Noi vogliamo non già che la natura concordi accidentalmente (e magari per la mediazione di
una terza cosa) con le leggi del nostro spirito, ma che in se stessa e originariamente non soltanto esprima
ma realizzi veramente le leggi del nostro spirito”

Occorre che anche la natura sia percorsa dalla medesima spontaneità e finalità del mio spirito, il che è
possibile se la natura si fa “spirito visibile” e se lo spirito si fa “natura invisibile”.
Nell’introduzione al sistema di idealismo trascendentale, Schelling afferma che inconscio e conscio sono
inseparabili. Purtroppo è la riflessione che li separa: ogni riflessione è uno spezzare delle identità che
stanno alla base originaria. Visto che la sua vuole essere una riflessione andrà a sviluppare le parti della
filosofia della natura e della filosofia trascendentale, due momenti della filosofia dell’identità.

- La filosofia della natura parte dal realismo e perviene all’idealismo; mostra come la natura faccia lo
spirito
- La filosofia trascendentale parte dal soggettivo e fa derivare l’oggettivo, muove dall’idealismo al
realismo; mostra come l’intelligenza si faccia natura
Schelling fa un’operazione diversa da Kant e Fichte: non cerca di trarre l’oggettività della conoscenza
spiegandola come un prodotto dell’Io ma spiegandola come un lato di una totalità che comprende sia
l’oggettività che la soggettività che non nascono dall’interno dell’Io ma sono viste come componenti di un
assoluto che li comprende e trascende entrambi.
Quello di Schelling diventa, rispetto al reale idealismo di Fichte, un idealismo oggettivo che include realismo
ed idealismo perché egli subisce il fascino delle visione dell’assoluto di Schiller o Goethe. L’intento di
Schelling è fare il prequel della Tat-Handlung fichtiana, vuole esplorare meglio l’attività inconscia dello
spirito.

La filosofia della natura di Schelling si sviluppa sulla base di tre influssi principali:
- Scoperte in ambito biologico che mettono in crisi il paradigma Newtoniano
- Nuova concezione della natura contrastante il meccanicismo: Goethe nella “metamorfosi delle
piante” in cui viene fatto notare che la natura è una Dea vivente, il che implica che sia produttiva ed
in costante evoluzione ; Kant nella “Critica del Giudizio” nella parte che si occupa dell’organismo
come fine della natura che non può essere spiegato meccanicamente come una macchina. In un
organismo c’è un legame tra parti e tutto: le parti sono funzionali al tutto che non è mai la mera
sommatoria delle parti ma la eccede sempre. Ogni vivente è al tempo stesso individuo e pluralità
(Leibniz: materia vivente come uno stagno pieno di pesci).
Le leggi meccaniche sono insufficienti per rendere conto di un organismo nella sua complessità e
richiedono l’idea che nella natura operi una forza orientata teologicamente. Il fondamento
dell’unità del molteplice può essere intuito da una intuizione intellettuale che quindi ci sfugge.
La finalità della “critica del giudizio” è uno strumento utile per giudizi riguardo la natura.
- Tradizione neo-platonica rinascimentale: l’intera natura viene vista come un gigantesco organismo.
Ne “L’anima del mondo” la natura è presentata come un tutto-vivente, quindi, nella natura si
esplica un’infinita attività produttrice di cui i singoli organismi non sono altro che limitazioni di
questa attività originaria.
Il meccanismo messo in campo da Schelling è quello usato da Fichte per spiegare l’attività infinita
dell’Io che incontra lo scarto del non-Io, in seguito alla quale deve limitarsi e porre l’io limitato e
l’oggetto. La stessa cosa accade nel meccanismo della natura in cui sono presenti una forza infinita
produttiva della natura che quando incontra il limite viene data la forma dell’organismo. Ma
essendo di per sé inarrestabile, questa forza, tutto è in continua metamorfosi.
La natura viene vista come spirito inconscio in moto verso la coscienza perché anche nella natura c’è
un’intelligenza. L’uomo rappresenta il vertice della natura e l’inizio dello spirito.

La seconda parte della filosofia dell’identità consiste nel cammino diverso: come lo spirito si faccia natura.
Come nella natura c’è un meccanismo di forze in contrato così anche nell’Io c’è una lotta tra l’attività reale
(inconscia con cui l’Io produce l’oggetto come dato) e l’attività ideale (sente l’oggetto come qualcosa di
estraneo ma lo oltrepassa e ricomprende a sé, intuendosi come senziente nella riflessione).
Questo movimento è descritto da Schelling attraverso le tre epoche:
- Prima epoca: sensazione: l’Io diventa oggetto
- Seconda epoca: riflessione: attività ideale: filosofia critica. Quando l’intelligenza riflette su di sé non
riconosce più la natura come semplice oggetto ma lo vede come impregnato di razionalità, come
organismo e riconosce se stessa nel prodotto che ha davanti, cogliendosi come organismo vivente.
- Terza epoca: astrazione da qualsiasi oggetto e da sé come oggetto, l’intelligenza si coglie nella sua
pura forma, cioè come volontà spontanea che si autodetermina, l’Io si coglie come io-producente.

La riprova concreta dell’intuizione intellettuale è data dall’intuizione estetica che rende concreta
l’intuizione intellettuale. Da qui nasce la superiorità dell’arte sulla filosofia: Schelling crede che l’arte sia il
vero e unico organo della filosofia che rende testimonianza a ciò che la filosofia non può rendere conto.
“L’arte è l’unico vero ed eterno organo della filosofia e insieme l’unico documento che rende testimonianza
sempre e incessantemente a ciò che la filosofia non può esporre esternamente, e cioè il privo di coscienza
nell’agire e nel produrre, e la sua identità originaria con il conscio. Appunto perciò l’arte è per il filosofo quel
che vi è di supremo, perché gli apre per dir così il sancta sanctorum ove in eterna e originaria unione, quasi
in un’unica fiamma, arde ciò che nella natura e nella storia è separato, e ciò che nella vita e nell’agire, come
nel pensiero, deve eternamente fuggirsi»
Se la filosofia porta alla verità solo un frammento dell’uomo, l’arte può portare alla verità l’uomo intero.
Il grosso vantaggio dell’arte sulla natura è che in quest’ultima conscio e inconscio sono ancora in uno stato
embrionale mentre nell’arte l’unione tra conscio e inconscio è dimostrata dopo la loro separazione dalla
riflessione.

Filosofia della natura e filosofia trascendentale costituiscono i due poli della filosofia dell’identità che
rappresenta il culmine dell’idealismo immanentista di Schelling, il quale chiama l’assoluto “ragione assoluta
intendendola come indifferenza totale dell’oggettivo e del soggettivo.
Totalità considerata come l’Uno neoplatonico: è l’assoluto indifferenziato al di fuori della quale non c’è
nulla.
L’identità assoluta non è solo indifferenziata ma è anche : Schelling non riesce a spiegare come da questa
totalità si generi il molteplice finito perché si è tagliato la strada con due soluzioni: quella creazionista e
quella emanazionista (che prevede un fuoriuscire da sé dell’assoluto ma tutto è l’assoluto, nulla è fuori da
questo). Inoltre, tra l’assoluto ed il finito c’è un abisso che riduce il secondo ad un’ombra, ad una negatività.

Piovono le critiche a Schelling che deve spiegare da dove salta fuori il finito, come dall’uno si passa ai molti.
Un primo tentativo viene fatto da Schelling, nel 1804, in “Filosofia e religione” dove è costretto ad implicare
un salto dall’assoluto. Bisogna reintrodurre l’idea cristiana della caduta come peccato originale e l’idea della
caduta in senso platonico, inteso come un atto di libertà connesso alla finitezza stessa.
L’egoità è l’espressione universale, il principio più alto di ogni finitezza che pone il mondo sensibile. L’egoità
ponendo sé si distacca dal tutto e produce negazioni dell’infinito. Schelling dice che l’atto libero che pone se
stesso cade dall’assoluto e poi nel mondo delle idee pone delle rappresentazioni finite ma immagini
dell’assoluto. La caduta è secondo Schelling una colpa felice perché diventa il mezzo di realizzazione
dell’assoluto che manifesta la sua idealità nella realtà.
La prospettiva diventa escatologica: il fine dell’universo è quello della perfetta fusione con l’assoluto.

Vengono lasciate aperte due questioni:


- Essenza della caduta
- Problema del male: la colpa della caduta è connaturato alla nullità dell’infinito.
Con le “Ricerche filosofiche” Schelling si preoccupa del problema della libertà nel proprio sistema
panteistico e cerca di spiegare il problema del male. Schelling, in quest’opera, non parla più dell’assoluto
come impersonale ma di un Dio che diviene persona e che si auto-rivela in individui liberi.
Secondo Schelling, Dio non è semplicemente l’ordine morale del mondo ma nemmeno la sostanza di
Spinoza: “Dio è qualcosa di più reale di un semplice ordine morale del mondo ed ha in sé forze motrici
(lebendigere Bewegungskräfte) completamente diverse e più vive di quelle che gli attribuisce la misera
sottigliezza degli idealisti astratti».
Dio può rivelarsi soltanto a ciò che somiglia a lui.
Reintroduce una polarità in Dio tra l’essenza di Dio in quanto la sua esistenza e l’essenza di Dio in quanto il
fondamento dell’esistenza, quest’ultimo è un fondo oscuro di esistere, “simile alla forza di gravità che
precede la luce come suo fondamento oscuro”. Allo stesso modo, il fondamento eternamente oscuro
precede la sua esistenza, e quando Dio si è completamente auto-rivelato, questo fondamento si rivela per
quello che era.
Ciò accade perché nel fondamento sta sia la possibilità del male che la possibilità delle cose

Se in Dio fondamento ed esistenza sono separabili, questi due principi sono separabili nell’uomo, ed è in
questa separabilità che sta la possibilità del bene e del male, propria dell’uomo che è un’essenza a sé
stante, separata da Dio, che è libero di svincolarsi dalla volontà universale divina, dal principio luminoso per
scegliere la propria volontà.
La volontà deve essere possibilità del bene e del male, quest’ultimo deve essere un’altra scelta rispetto al
bene (non una privatio boni). Quando l’ipseità pone la propria volontà al posto della volontà universale si
compie il male, introducendo uno squilibrio di forze all’interno del mondo.
Se ogni essere si rivela solo nel suo opposto, l’amore per diventare reale ha bisogno del suo opposto, per
questo Schelling scrive che se il male non fosse, non dovrebbe esserci nemmeno Dio. Il male serve per dare
consistenza al bene, senza il quale non potrebbe diventare reale.
Nelle “Ricerche” c’è un trionfo del bene ed un ritorno del male al fondamento dell’esistenza.

L’ultima fase della filosofia di Schelling, che si apre negli anni ‘20, in cui si contrappone alla filosofia
hegeliana, intendendola come una filosofia che passa sempre per il momento della negazione: considera
l’essenza senza pervenire all’esistenza, si occupa solo della possibilità diventando una scienza astratta della
ragione che dal suo punto di vista non è più sufficiente.
A questa scienza della pura ragione è opportuno contrapporre una filosofia positiva che cerca di spiegare
l’esistente come attualità. Questo passaggio può essere operato attraverso uno sforzo di attualità. Si può
compiere solo con un’estasi della ragione che è un’apertura dell’Io alla rivelazione concreta di Dio nella
storia.
HEGEL (1770-1831)
Alla morte di Hegel, egli era conosciuto essenzialmente per “La fenomenologia dello spirito”, “La scienza
della logica”, “L’enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio”, “i lineamenti di filosofia del diritto”,
un corpus di opere che rende l’immagine di un pensatore del sistema: da un lato appariva come colui che
aveva compiuto in maniera definitiva la storia della filosofia, dall’altra parte questo sistema appariva come
artificioso e soffocante.
Questa immagine muta in seguito alla scoperta degli scritti teologici giovanili che rimasero inediti, scritti
quando Hegel si trovava a Berna e Francoforte, prima del suo passaggio a Jena, che furono pubblicati da
Nohl nel 1907. Questi scritti giovanili, che vanno dal 1793 al 1800, restituiscono l’immagine di un Hegel che
arriva al sistema solo dopo numerose preoccupazioni concrete. Il tema di questi scritti è la questione
religiosa, la portata morale e culturale della religione, perché la sua preoccupazione è un rinnovamento
culturale e politico della Germania. Il problema della storia rimane centrale in tutti i suoi scritti tanto da
essere definito il filosofo della dialettica e della storia.
La Germania, ai tempi, era un paese molto arretrato per le sue strutture burocratiche e politiche. Anche
Hegel studia in un ambiente chiuso rispetto alle novità che circolano al tempo.

Le tre rivoluzioni che marcano il pensiero di Hegel:


- Rivoluzione kantiana: svolta trascendentale con la scoperta del soggetto, dell’a-priori e della libertà
con tutte le sue ripercussioni sull’ambito religioso.
- Rivoluzione francese: Hegel giovanissimo pianta un albero della libertà quando apprendono la
notizia della rivoluzione francese che fa irrompere nella storia il diritto che conduce al tentativo di
realizzare nella concretezza della vita gli ideali rivoluzionari. Il fallimento della rivoluzione, con
l’instaurarsi del terrore, viene preso sul serio perché il problema diventa: come pensare questi
universali (Libertà, fraternità, uguaglianza) come veramente concreti.
- Rivoluzione industriale: verso la fine del ‘700 esce “La ricchezza delle nazioni” in cui Adam Smith
risponde che la ricchezza delle nazioni corrisponde nella divisione del lavoro, un lavoro industriale.
Smith riprende un’idea di Mandeville, che i vizi privati divengano pubbliche virtù, che i singoli
individui perseguendo i propri scopi concorrano al benessere della comunità. Il ruolo degli stati
deve essere quello di un “lascia passare”, il mercato deve essere una mano invisibile che guida gli
sviluppi della comunità.
Accanto a questi tre fattori se ne aggiungono due:
- Il fascino per la grecità: che arriva dall’arte neoclassica, dalla poesia romantica.
- Spinozismo: condivide l’idea dell’Uno-tutto.

UN NUOVO METODO
Il metodo della nuova scienza che aveva funzionato fino a poco tempo prima non serve più. Il modello deve
essere capace di cogliere il movimento della storia, questo metodo è la dialettica.
“La costituzione della Germania” testo che Hegel compone dopo la disfatta del Sacro Romano Impero che si
disgrega facendo annettere agli stati più grandi i suoi piccoli territori. La conseguenza che ne trae Hegel è
che la Germania non è più uno stato perché non è riuscita a contenere l’attacco di Napoleone.
Per Hegel lo stato è un modo di vivere, è l’incarnazione dello spirito di un popolo che deve indicare uno
scopo. Quindi, la Germania non ha più una prospettiva condivisa capace di motivare gli individui di fronte
ad uno sforzo comune.
Quello che ci rende inquieti è che le cose siano come non devono essere, al contrario, ciò che è come deve
essere ci rende sereni. Se comprendiamo la ragione per cui le cose sono come devono essere, saremo
tranquilli.
Questo testo mostra cosa intende Hegel con il compito della filosofia che non consiste nell’essere uno
spettatore travolto dagli eventi ma di uno che partecipa agli eventi presenti e ne cerca una soluzione.

IL COMPITO DELLA FILOSOFIA


La filosofia della storia è la condizione pensante della storia, che è lo sviluppo dello spirito e la natura dello
spirito è la libertà. Lo spirito si libera attraverso la conoscenza: più conoscono meno sono in balia delle cose
esterne e dunque più sono libero. Pensando il reale l’uomo attua la sua libertà, altrimenti si trova ad essere
ed appetire sulla base delle sollecitazioni.
La filosofia deve ricomporre la scissione che affligge l’uomo moderno: contro tutte le filosofie che dicono
come deve andare il mondo, la filosofia di Hegel arriva quando le cose sono già compiute (Nottola di
Minerva).
“Ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale”
Quello che è razionale si effettua, si fa realtà in atto; quello che è effettivo mostra la sua razionalità una
volta che si comprende il movimento che ha prodotto quella realtà.

SCRITTI GIOVANILI:
Il tema religioso è dovuto al fatto che Hegel studia in un seminario teologico. Il giovane Hegel risente
dell’influsso kantiano e in questi scritti prende posizione pro o contro Kant.

“Religione popolare e cristianesimo”: Hegel sta cercando la risposta alla scissione dell’uomo moderno nella
religione. In questo scritto mette a confronto una religione popolare, intesa come una religione capace di
essere movente d’azione, ed il cristianesimo. Fa un paragone tra religione greca antica e cristianesimo.
Fa un altro parallelo tra religione naturale che preferisce alla religione rivelata (Kant): nella prima il dovere
viene perseguito perché frutto della ragione non perché viene comandato o rivelato nella seconda.
Quello che sta cercando Hegel non è una religione razionale ma una religione che sia da slancio alla
moralità.
La contrapposizione che mette in campo è tra una religione privata, che non impatta sulla società, ed una
religione popolare. Il cristianesimo è una religione privata che si è fatta pubblica snaturalizzandosi.
Gli insegnamenti di Gesù non sono estendibili a tutti gli uomini, inoltre, il religioso viene sempre
considerato come distaccato rispetto al resto della popolazione.
La religione greca, invece, forma gli abitanti per la loro partecipazione alla società per renderla più morale.

“La positività della religione cristiana” si interroga su come sia stato possibile che la religione cristiana si sia
istituzionalizzata in una serie di norme che l’hanno resa una religione positiva. Posizione antigiudaica di
Hegel che vede nell’ebraismo una religione vuota perché attenta solo all’esteriorità del rispetto al
comando. Il problema è che Gesù, per essere accolto dal popolo ebraico, ha dovuto riferire i comandi ad
un’autorità a lui superiore: il motivo della validità dei comandi di Gesù non è il valore degli stessi comandi
ma l’autorità, Dio, che li comanda.

“Lo spirito del cristianesimo” qui Hegel si stacca da Kant perché capisce che il pensiero kantiano è ancora un
legalismo: la legge non è un comando esteriore ma è qualcosa di interiore che rimane sempre una legalità,
al tempo stesso, la grecità non è più il mondo perfetto dove concordano abitanti e comunità ma viene vista
come una comunità immatura, embrionale. Allora, lo spirito dell’amore è l’unico a togliere alla legge la
forma della legalità, ricompone il dissidio tra legalità e natura perché quando agisco per amore il comando
è fatto perché è autenticamente sentito come buono.
Prima versione della dialettica: da un lato toglie, dall’altro supera: il contenuto resta la moralità ma viene
superata la forma della legge. L’amore supera la natura e la legalità, porta l’armonia greca ad un livello
superiore.

Potrebbero piacerti anche