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Il XVI secolo è definito come il secolo della crisi della coscienza europea: al crollo delle certezze si
contrappone la volontà di nuove soluzioni che verranno adottate e cristallizzate nel corso del XVII
secolo.
- Il XVI secolo e anche il secolo delle polemiche e delle dispute tra chi sostiene il valore degli antichi e
chi invece si pone contro di essi. Pascal: noi vediamo più degli antichi e quindi non ci dobbiamo
piegare ma rimanere ritti.
“Io vedo gli antichi senza piegare le ginocchia. Essi sono grandi, è vero, ma sono uomini come noi, e
si può paragonare, senza timore di essere ingiusti, il secolo di Luigi [XIV] al secolo di Augusto»
(Charles Perrault)
- Modernus viene da Odiernus: significato negativo nel senso di qualcosa di effimero e transitorio in
rapporto alla solidità e continuità della tradizione che afferma il vero essere solo l’antico. Ma i
moderni rispondono che essi, venendo dopo, sono più saggi e superiori agli antichi che
rappresentano l’infanzia della storia, venendo prima, che quindi è più ingenua. Un affermazione
non è più vera perché è più antica ma al contrario “la verità è figlia del suo tempo”, proprio perché
sono storiche possono essere messe in discussione dato che le condizioni sono contingenti.
Il sapere è qualcosa in continuo cambiamento: da un ideale statico di perfezione si passa ad un
ideale dinamico di perfezionamento. Termina la reverenza nei confronti dell’antichità.
“Uno spirito colto è, per così dire, composto di tutti gli spiriti dei secoli precedenti, non è che uno
stesso spirito che ha acquisito conoscenze durante tutto questo tempo. Dunque, quest’uomo ha
vissuto dall’inizio del mondo fino ad oggi, ha conosciuto un’infanzia nella quale si è occupato
soltanto dei bisogni pressanti della vita, una giovinezza nella quale hanno predominato in lui le doti
dell’immaginazione, determinando il suo successo nella poesia e nell’eloquenza, e nella quale ha
cominciato anche a ragionare ma con più passione che solidità. Ora egli si trova nell’età della
virilità, e ragiona con più forza e illuminazione di prima” (plus de lumières que jamais)» (Fontenelle,
Digression sur les anciens et les modernes
Inoltre si viene a contatto con nuove forme di civiltà, anche concorrenziali (Cina e Giappone),
che pongono agli europei dei problemi. Queste scoperte fanno cadere le convinzioni riguardo
l’uniformità della specie umana individuata nel paradigma dell’uomo cristiano.
- Affermazione della ragione di stato: Religione cessa di essere il fondamento del potere per
diventare uno “strumento di potere” (in questo periodo si sviluppano le teorie delle impostura,
secondo cui i tre impostori sono i tre fondatori delle religioni monoteistiche, che hanno inventato il
culto religioso con lo scopo di mantenere il popolo nell’obbedienza. È necessario il timore di Dio
come strumento di cui si serve il sovrano per gestire il popolo).
Nasce l’idea di una doppia politica, per il sovrano e per il popolo, e di una doppia morale, sempre
per popolo e per il politico.
È l’esempio dell’affermarsi delle monarchie del XV secolo: assolutismo di Luigi XIV
XVIII secolo: Crisi dell’ancien regime -> I lumi conducono una battaglia feroce contro la religione, che è
diventata strumento di potere, e contro le strutture di una società che mostra in maniera sempre più
evidente le sue disuguaglianze. Spingono per la modernizzazione del regime attraverso delle riforme, tanto
dal punto di vista burocratico quanto da quello tributario, andando a trasformare stati che si portano dietro
le proprie eredità feudali.
I filosofi mirano al riformismo, nonostante ciò si arriva alla Rivoluzione: si inizia a parlare di diritti
inalienabili come la libertà. (Contratto sociale, Rousseau)
3) Età della tecnica: Questi fattori sono interconnessi e non potevano non effettuarsi: la
tecnica rende possibili i viaggi e al tempo stesso viene favorita dalla nascita degli stati
nazionali e dalla loro bellicosità (si sviluppano li studi per la creazione di strumenti bellici).
- Sviluppo dell’anatomia: Mentre prima il medico non praticava, nel XVI lo scienziato e il medico
diventano esattamente la stessa persone. Si instaura il modello uomo-macchina: il meccanicismo
che si instaura in maniera vincente. La dottrina fisica viene applicata anche alla realtà del vivente
attraverso un’equivalenza tra il naturale e l’artificiale, il mondo passa da essere un animale ad
essere una macchina (p.es parallelo di Cartesio tra l’uomo e l’orologio). Le funzioni dell’uomo
possono essere spiegate meccanicamente, quindi si può porre fine alle verità occulte medievali che
cercavano di spiegare le funzioni dell’uomo in maniera incomprensibile e superflue.
“Suppongo che il corpo non sia se non una statua o macchina di terra che Dio espressamente forma per renderla a noi più
somigliante”
Il naturale e l’artificiale si possono spiegare con lo stesso criterio. L’analogia con la macchina
rendeva interpretabili dei fenomeni che prima non sarebbero stati spiegati. Già al tempo c’è il
tentativo di costruire degli automi, nasce il sogno di creare la vita, grazie alle innovazioni
scientifiche ed a questa visione positiva dell’analogia uomo-macchina.
- La nuova astronomia: Lo scienziato ape per eccellenza è Galileo Galilei che inventa il cannocchiale,
uno strumento artigiano nato per fini bellici, perfezionandolo lo rivolge al cielo scoprendo un nuovo
mondo e soprattutto conduce alla rivoluzione copernicana, l’affermarsi dell’eliocentrismo e la
scoperta dell’infinità dei mondi.
L’idea di un cosmo infinito, e di conseguenza la fine della teoria antropocentrica, getta nell’estremo
sconforto i moderni.
“L’uomo contempli, dunque, la natura tutt’intera nella sua alta e piena maestà̀ [...] Tutto questo mondo visibile è solo un
punto impercettibile nell’ampio seno della natura. [...] L’uomo, ritornato a sé, consideri quel che è in confronto a quel che
esiste. Si veda come sperduto in questo remoto angolo della natura; e da quest’angusta prigione dove si trova, intendo
dire l’universo, impari a stimare al giusto valore la terra, i reami, le città e se stesso.”
Che cos’è un uomo nell’infinito? (Pascal, Pensieri)
L’uomo non può non fare i conti con il fatto che c’è la possibilità dell’esistenza di altri esseri e quindi
deve abbandonare le sue speranze nella credenza di essere prediletti.
- Il microscopio: un altro impatto molto forte e speculare a quello del telescopio: consente di
scoprire un ulteriore nuovo mondo microscopico che mostra analogie con il mondo esperibile ad
occhio nudo ma porta anche a scoperte che non ci si attendeva. Quegli oggetti che ci sono sempre
apparsi in un determinato modo ad occhio nudo, ora con la scoperta del microscopio ci appaiono in
maniera completamente differente.
Questo conduce ad un relativismo che si esprime in primo modo come una relatività delle
proporzioni ed in secondo luogo a dire che tutto ciò che è percepibile non esaurisce più l’orizzonte
di ciò che c’è davvero.
- Analogie scoperte e Sviluppo del romanzo: Ci sono testimonianze letterarie dell’effetto di queste
scoperte (i lumi si servono del romanzo come strumento per la loro battaglia).
Per esempio, “I viaggi di Gulliver” di Jonatan Swift o “Micromega” di Voltaire non si potrebbero
spiegare senza l’intervento di queste scoperte. Gulliver si trova ad essere un gigante davanti ai
lillipuziani e un microbo di fronte ai giganti. Il problema è che la perdita della proporzione, ovvero
non sapere più la posizione dell’uomo nell’universo consegue una crisi esistenziale.
In “Micromega” un gigante compie un viaggio interspaziale fino alla Terra che ritengono disabitata
perché gli esseri umani sono troppo piccoli per essere visti, fino a quando con una lente di
ingrandimento riescono ad osservarli.
- Utopia e viaggi interplanetari: i cristiani si chiedono se cristo si è incarnato anche in altri pianeti.
L’incontro con l’abitante della luna è l’occasione di una critica alla società dell’ancien regime.
- Fine del realismo ingenuo: tutto l’apparato aristotelico-scolastico che diceva che la conoscenza
muove i sensi crolla, è la fine del senso comune, la fine di una conoscenza apparente. Si scopre che i
propri sensi non sono fatti per l’universo. È necessario un ragionamento condotto tramite uno
strumento artigianale, né solo l’occhio e né solo l’intelletto sono in grado di indagare la realtà
autonomamente.
- Sviluppo della matematica che restituisce la verità: calcolo infinitesimale per governare l’infinito.
- Ricostituire un ordine: ripartire dal soggetto che sa ricostruire ciò che è altro da se.
Metafisica viene anche intesa come la scienza di tutte le cose che possiamo conoscere filosofando con
ordine: a dire di che natura è la sostanza è il soggetto e le sue rappresentazioni. La questione ontologica
diventa epistemologica: come si conosce la sostanza?
L’accordo tra le nostre rappresentazioni, le idee, e la realtà esterna è sempre assicurata da Dio.
CARTESIO (1596-1650)
Hegel definisce Cartesio come l’iniziatore della filosofia moderna: egli contribuisce alla modernità nelle
scienze matematiche (assi cartesiani e geometria analitica); costruisce la visione meccanica del mondo (idea
del corpo-macchina); scopre il soggetto che si delinea come mente e solo dopo come corpo (mente non è
anima -> rottura con la tradizione che credeva nella tripartizione dell’anima, si pone il fine di riuscire a fare
interagire la mente con il corpo).
L’ultimo degli scolastici, il primo dei moderni.
Cartesio costruisce una nuova scienza in polemica con la tradizione scolastica, in maniera diversa
da Galileo Galilei che vuole essere scienziato, limitandosi ad analizzare solo ad alcuni fenomeni senza mai
risalire alle cause ultime, l’accusa è quella di essere semplicemente un fisico e non un metafisico.
L’ambizione di Cartesio è quella di fondare una fisica su una metafisica: per fare si che la fisica sia certa ed
incontrovertibile occorre che abbia un fondamento metafisico, per questo motivo viene considerato
l’ultimo degli aristotelici. Anche Vanni Rovighi è concorde con questa visione: da un lato, Cartesio, resta
scolastico per la sua ambizione di dare un fondamento metafisico alla fisica; dall’altro lato è un moderno
perché intende modificare una nuova scienza su fondamenta diverse rispetto a quelle aristoteliche.
Il metodo.
Già negli anni ‘18/’20, Cartesio intuisce i fondamenti di una scienza mirabile che chiama Mathesis
Universalis, una scienza universale applicabile a tutti gli ambiti del sapere. Cartesio intuisce che al di
là delle singole scienze sta un fondamento comune, una matematica universale che analizza i
rapporti formali secondo relazioni e proporzioni.
Sviluppa il metodo all’interno di due opere:
- “Le regole per la direzione dell’ingegno”: ci sono due definizioni di metodo che sono tra loro
complementari:
1. Metodo come regola: La prima caratteristica del metodo cartesiano è la certezza (è un
metodo che deve fare in modo di eliminare il rischio di errore); è un metodo facile (cerca
di limitare gli sforzi); vuole essere fecondo (conduce ad un aumento del sapere); conduce
alla saggezza (vera conoscenza di tutte le cose di cui l’uomo è capace)
2. Metodo come ordine o disposizione: Cartesio si riferisce all’ordine geometrico, in virtù del
quale non si deve lasciare nulla di presupposto, ma procedere gradualmente di verità in
verità.
- “Il discorso sul metodo”: Prima del metodo, ogni uomo è dotato di buon senso. “Il buon senso è la
cosa del mondo meglio ripartita”, tutti gli uomini hanno uguali capacità intellettiva, hanno la
capacità di “ben giudicare”, di distinguere il vero dal falso.
Ma allora, se tutti sono dotati di stesse capacità, perché le opinioni sono così diverse: Gli uomini
giungono a risultati diversi perché seguono tragitti differenti, hanno metodi (via, percorso)
differenti. “Il discorso sul metodo” vuole esporre la via che Cartesio ha seguito nella ricerca della
verità e che si è rivelata efficace visti i risultati ottenuti.
La differenza tra la deduzione cartesiana ed il sillogismo aristotelico è che la prima vuole essere una catena
di intuizione, una catena di evidenze, tanto che Cartesio la definisce come una “intuizione in movimento”.
Più la catena deduttiva è breve più tenderà a risolversi nell’intuizione, più è lunga più vorrà l’intervento
della memoria che può essere fallace. Il metodo cartesiano mira a rendere performanti le due operazioni
che l’uomo fa spontaneamente: rendere infallibile l’intuizione e dando una serie di norme per rendere
meno fallace la catena deduttiva.
Gli elementi semplici che vanno scomposti o ricomposti (a seconda dell’operazione necessaria) sono
chiamati da Cartesio come nature semplici, le quali sono atomi di evidenza, di per sé note, oggetto di una
intuizione immediata, i mattoni della nostra conoscenza, sono le idee innate che appartengono alla mente,
poste da Dio.
Questi elementi sono classificati da Cartesio in tre gruppi:
- Puramente intellettuali: conosciute tramite la mente che fa a meno dell’immaginazione e dei sensi,
facoltà che prevedono il corpo. Tra queste nature semplici fanno parte: conoscenza, dubbio e
volizione.
- Puramente materiali: conosciute attraverso i sensi e l’immaginazione, troviamo elementi semplici
che competono al corpo: figura, estensione e movimento.
- Elementi comuni: si applicano tanto alle sostanze materiali quanto a quelle immateriali. Queste
sono per esempio: esistenza, durata e unità
L’andamento delle “Meditazioni metafisiche”.
Il metodo è uno strumento ed in quanto tale non entra a far parte dell’albero delle scienza, ma è piuttosto
uno strumento che si applica a tutti i rami dell’albero, tutte le scienze, in particolare alla metafisica, in
modo da fondare una metafisica certa che fondi tutto il sapere.
Cartesio scrive le “Meditazioni metafisiche”: “meditazione” è un termine curioso perché è un termine
fondamentalmente religioso collegato però ad una tematica metafisica, il che significa concepire la propria
metafisica come un esercizio spirituale. In ogni esercizio spirituale si inizia dalla propria condizione di
peccatori con l’intenzione di essere migliorati durante l’esercizio. Allo stesso modo, nelle meditazioni
cartesiane si entra pieni di pregiudizi e si finisce rinnovati e pronti per fare una fisica diversa da quella
precedente. Nelle “Meditazioni metafisiche” si dimostra:
- l’esistenza di Dio, che serve perché è il garante della mia possibilità di fare scienza,
-
e la reale distinzione dell’anima dal corpo che ha un da un lato una funzione apologetica, provare
l’immortalità dell’anima; dall’altro lato libera il corpo dalle forme sostanziali per permettere un
discorso geometrico sulla fisica.
La metafisica è dunque un esercizio spirituale condotto in prima persona.
L’affidabilità dei sensi sugli oggetti distanti: c’è un errore dei sensi per quanto riguarda oggetti
lontani (esempio delle torri a distanza)
L’affidabilità dei sensi sugli oggetti vicini:
- Argomento della vita come un sogno (“La vida es sueno” Calderon de la Barca) dell’indistinguibilità
del sonno e della veglia. Sono davvero davanti alla mia scrivania o è solo frutto della mia
immaginazione?!
- Argomento della follia: può essere che io sia impazzito e che abbia una visione distorta di tutto.
L’affidabilità delle verità matematiche:
- Argomento del Dio ingannatore: un Dio onnipotente e creatore della mia intelligenza, un Dio
talmente potente che avrebbe potuto darmi delle regole logiche che non si applicano alla realtà,
che avrebbe potuto farmi credere che 2+3=5 quando invece, nella realtà, come risultato fa 6.
- Argomento del Genio maligno: astuto e potente che impiega la sua angustia per ingannarmi in
maniera consapevole e volontaria. Questo genio maligno è il Diavolo, che è in grado di
generalizzare il dubbio sui sensi, per cui io non posso più affermare nulla della realtà intorno a me.
Il cogito vuole essere l’intuizione del legame in un singolo atto di pensiero tra Io che esisto ed il pensare, tra
l’esistenza ed il pensiero. Cartesio chiarisce che non si tratta di un sillogismo ma di un’inferenza così breve
da essere colta da un unico atto di pensiero: il cogito non è il frutto del ragionamento ma è una conoscenza
immediata.
Qual è il limite del cogito? Non è interpersonale, è un esperienza individuale, ciascuno ha la certezza della
propria esistenza, non posso avere la certezza del cogito delle altre persone.
I guadagni acquisiti fino ad adesso da Cartesio, nel suo percorso metafisico sono: la certezza della propria
esistenza e la consapevolezza che l’Io è una res cogitans, una sostanza pensante, una mente.
Dopo aver riconosciuto che esiste un Dio perfetto da cui tutte le cose dipendono, posso affermare che tutto
ciò che concepisco chiaramente come vero è vero, perché è frutto di una natura divina infinitamente buono
che ha creato la mia mente per il vero.
4) IV MEDITAZIONE: IL GIUDIZIO
Cartesio chiarisce che l’errore non dipende dalle idee in quanto tali: le idee in sé sono tutte vere e possono
essere tra loro più o meno nitide e presenti alla mia mente, ma fino a che non giudico tutte le idee restano
vere. L’errore sta proprio all’interno del giudizio, quindi, occorre vedere le due facoltà del giudizio:
- Intelletto: passivo/ricettivo/limitato -> L’intelletto riceve le idee in modo passivo e le presenta alla
volontà in modo che questa dia o meno l’assenso. Tuttavia, l’intelletto è limitato poiché comprende
solo un certo numero di idee, non siamo onniscienti.
- Volontà: attiva/autonoma/illimitata -> Noi siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio perché
siamo liberi, la nostra libera volontà è co-estesa a quella divina (Dio però ha anche un intelletto
onnisciente il che permette di distinguerlo da noi).
Proprio la sproporzione tra intelletto, limitato, e volontà, illimitata, permette l’errore: l’errore non
dipende dalle idee che danno solo l’occasione del cattivo giudizio ma dipende dalla volontà che da
l’assenso.
L’antidoto all’errore è fare in modo che la mia volontà si attenga all’interno dei confini di ciò che mi
appare come chiaro e distinto, invece, dove non ho le idee chiare e distinte devo sospendere il
giudizio o dubitare. La possibilità di errare è ritenuta da Cartesio come una perfezione dell’uomo
perché nasce dalla libertà che costituisce la nostra perfezione maggiore. È meglio essere liberi con
la possibilità di cadere nell’errore che essere “perfetti” come possono esserlo le macchine che però
mancano di libertà e sono necessitate.
Fino a Kant non ci sarà più nessuno che sottolineerà in maniera così marcata la libertà dell’uomo.
Cartesio da due definizioni di libero arbitrio e le pone in gerarchia una dopo l’altra.
- la prima definizione di libero arbitrio fa leva sull’idea di libertà come potere di scelta o libertà di
indifferenza: se ho scelta è perché non conosco; se io devo scegliere vuol dire che io non so dove
stanno il vero e il bene, quindi mi trovo in una situazione di indifferenza, per me è la stessa cosa
una scelta o l’altra.
- Subito dopo corregge questa sua interpretazione e definisce la volontà come capacità di
autodeterminarsi senza essere costretti da nulla: Se io ho la certezza di che cosa sia vero e bene,
ho comunque la possibilità di scegliere l’opzione che so essere quella vera. La capacità più alta della
libertà è quella di dire di sì a ciò che mi si presenta come vero e buono.
Una variante di questa dimostrazione viene data nei “Principi” che da una parte tiene insieme la
realtà dell’unione e dall’altro lato la possibilità della loro distinzione facendo leva sull’onnipotenza
di Dio. “E quand’anche Dio stesso congiungesse così strettamente un corpo a un’anima, da essere
impossibile di unirli di più, e facesse un composto [unum quid] di queste due sostanze così unite, noi
concepiamo anche ch’esse resterebbero tutte e due realmente distinte, nonostante questa unione”;
“poiché, qualunque legame Dio abbia messo tra loro, egli non ha potuto
privarsi della potenza che aveva di separarle, o di conservarle l’una senza
l’altra, e le cose che Dio può separare, o conservare separatamente le une
dalle altre sono realmente distinte” (Principi, I, 60)
Qualora Dio volesse separare anima e corpo lo dovrebbe fare dopo la morte perché in quel caso il
corpo, che è deperibile, si guasta. Mentre la mente, che è immateriale, persiste e sopravvive al
corpo.
L’UOMO CARTESIANO
Al termine dell’itinerario metafisico, Cartesio configura l’uomo come l’unione di due sostanze differenti, in
virtù della distinzione dell’anima del corpo. In questo modo egli vuole proporre un modello che vuole
scostarsi sia dal tradizionale ilemorfismo scolastico (fa dell’uomo il sinolo di due sostanze incomplete, atte
ad essere unite. Non garantisce l’immortalità dell’anima: l’unione rischia di diventare mortale per l’anima)
sia dal vero e proprio dualismo platonico moderato (materia perde il carattere di potenzialità ed assume
una certa consistenza ontologica. Questo pensiero riconosce un terzo modo, di unione, tra queste due
realtà). Cartesio cerca una soluzione che stia a metà tra questi due estremi, l’influsso più forte viene
dall’agostinismo (Agostino: l’uomo è anima razionale che si serve di un corpo), in particolare quello del ‘600
(Malebranche) riprende il pensiero di Agostino vedendo l’uomo come l’unione, voluta da Dio, di angelo e
bestia, due estremi tenuti insieme dalla provvidenza divina.
Nella sesta meditazione, Cartesio, cerca di scansare subito gli equivoci e di evitare il dualismo platonico e la
visione del corpo come strumento di una mente angelica (corpo= prigione dell’anima). Lo fa attraverso
l’immagine del Pilota nel battello: l’anima non è semplicemente come l’intelligenza artificiale per un robot.
Mentre il pilota nel battello vede il guasto della macchina, la mente sente il dolore, la fame, la sete e le altre
sensazioni che l’anima prova in virtù dell’azione del corpo. L’anima non si limita a conoscere lo stato del
corpo, come farebbe se un angelo fosse unito ad un corpo umano, ma al contrario patisce l’azione del
corpo. Quindi, le sensazioni mi dicono dell’unione psico-fisica che c’è tra anima e corpo. Non è un unione
accidentale, come quella che lega il pilota al battello, ma è un unione sostanziale, come lo era nella
tradizione scolastica.
Cartesio afferma che in senso proprio non abbia senso parlare di sostanze incomplete, ma in senso ampio
sì: le sostanze sono incomplete se miriamo il tutto che devono comporre (esempio della mano: la mano per
il corpo è qualcosa di incompleto, nella sua individualità è qualcosa di completo). Cartesio arriva a dire che
l’anima è l’unica vera forma sostanziale del corpo che da all’uomo identità, perché la quantità di materia
varia ma continua ad essere propria di ognuno, e individualità.
Malebranche è convinto che la ragione dello scienziato e quella della religione siano la stessa Ragione, ossia
quel logos, quel Dio che secondo Agostino abita in ognuno di noi.
Certi temi cartesiani vengono declinati in ottica religiosa: Per esempio, il precetto cartesiano del distogliere
la mente dai sensi, diventa il domandare a Dio di Agostino, oppure, il tentativo di elevarsi dalla materialità
che è frutto del peccato. Il combattere i pregiudizi assume una tinta religiosa, assente in Cartesio.
TEOCENTRISMO: La filosofia di Malebranche ribadisce che la natura dipende dal creatore. Le due dottrine
principali del filosofo (visione delle idee in Dio, occasionalismo) ribadiscono il teocentrismo sia dal lato della
conoscenza che dal lato della causalità.
- La visione delle idee in Dio dice che in tutta la conoscenza noi siamo in rapporto a Dio.
- La dottrina dell’occasionalismo afferma che l’unica casa efficace ed efficiente al mondo è Dio. Tutte
le altre cause sono occasionali, nel senso di occasioni per l’agire di Dio.
Secondo Malebranche da un lato ci sono le idee, essenze platoniche che non sono mie modificazioni ma
sono archetipi che sussistono nella mente di Dio, dall’altro lato ci sono le sensazioni che sono mie
modificazioni, qualcosa di individuale e particolare che dipende dal mio incontro coi corpi esterni, sono
qualcosa di soggettivo ed individuale con una finalità pratica, non conoscitiva.
In questo modo, Malebranche, distingue un piano psicologico (sensazioni, mie modificazioni) e un piano
metafisico (idee archetipe nell’intelletto divino).
Vuole formulare una teoria della conoscenza che pone l’origine delle idee fuori dalla mente umana. L’anima
quindi, riflette quello che scopre nella ragione divina. La conoscenza è una partecipazione al divino.
ESEMPIO DEL SOLE: la conoscenza può essere distinta nella sensazione del calore del sole (uomo comune) o
nell’idea del Sole (conoscenza scientifica). Le sensazioni non hanno una funzione conoscitiva ma mi servono
dal punto di vista pratico.
TESI INNATISTE:
3. Dio ha prodotto le idee nella mente dell’uomo creandola. Tesi troppo complicata perché rende la
mente umana un magazzino ingombro di idee.
4. L’anima ha in sé tutte le perfezioni che vede nei corpi. Tesi rifiutata perché la mente non contiene
in sé tutte le perfezioni del mondo, altrimenti sarebbe una mente divina.
L’OCCASIONALISMO
La prima dottrina di Malebranche in cui si esprime il suo teocentrismo si connette profondamente alla
teoria dell’occasionalismo. Se l’uomo non è causa della propria conoscenza, ma è Dio ad esserlo, quello che
l’uomo fa è limitarsi a volgere lo sguardo verso la luce divina: la mente è l’occasione per l’azione del solo
che agisce, Dio.
PREMESSE DELL’OCCASIONALISMO
Malebranche nega ciò che Cartesio aveva affermato, ossia che l’anima possiede una forza in grado di
muovere il corpo, e viceversa il corpo di muovere l’anima. Malebranche riporta tutta la forza a Dio.
L’occasionalismo vuole essere da un lato una prova del teocentrismo, affermato precedentemente,
dall’altro un apologia della religione cristiana dagli attacchi libertini (spiriti scettici e deisti, che valorizzano
la natura come dotata di forze e quindi in grado di fare a meno di Dio). Inoltre, vuole essere una
spiegazione alternativa, rispetto a quella cartesiana, alla relazione tra anima e corpo. Infine, vuole anche
essere una dottrina alternativa all’ilemorfismo scolastico, che Malebranche interpreta come residuo di
paganesimo. Il tono di Malebranche diventa molto più forte rispetto a quello di Cartesio che non si era
permesso di attribuire il termine “paganesimo” alla scolastica.
Così come la materia è ricettiva (non è dotata di forze come per Cartesio) così l’anima è passiva, può
ricevere idee e inclinazioni. Per Cartesio è vero che l’intelletto è recettivo ma la volontà era attiva, talmente
tanto da sembrare quella divina. Malebranche vuole ricondurre anche l’anima ad una condizione di totale
passività.
Solo la volontà di Dio può stabilire l’unione tra anima e corpo. Ma perché si è resa necessaria questa
unione? Perché Dio non ha deciso di lasciare l’uomo nel puro spirito?
L’anima è nel corpo come se fosse in una prova, per ragioni legate al destino dell’anima dopo il corpo. Il
concetto è quello di espiare le proprie colpe attraverso le prove che il corpo ci permette in modo da
meritarci la salvezza.
Rapporti di causalità
Se la materia è passiva e l’anima è passiva non sono possibili rapporti di causalità né tra un corpo e uno
spirito né tra uno spirito e un altro spirito e nemmeno da un corpo a un corpo.
- Il corpo non può agire né su uno spirito né su un altro corpo perché il movimento non fa parte
dell’essenza dei corpi. La causa del movimento dei corpi sarà la volontà di Dio che imprime il
movimento nella materia e poi lo conserva.
Malebranche accetta questa teoria cartesiana ma aggiunge anche una altro passaggio ossia la
creazione continua: la creazione non ha termine perché la conservazione delle creature è vista da
Dio come una medesima volontà che sussiste ed opera incessantemente.
Se l’opera di Dio è sempre attiva, come possiamo pensare che l’uomo possa davvero spostare
qualcosa e fare di sua propria volontà qualcosa che Dio non vuole?! Come può un corpo essere
dotato di totale autonomia da scappare alla volontà divina sussistente?!
È contraddittorio che qualsiasi persona possa volontariamente muovere qualcosa.
Nessuno, uomini o angeli, può realmente agire all’interno della natura per il fatto che Dio adegua
l’efficacia della propria azione all’azione inefficace delle sue creature.
Tutta l’energia del mondo dipende da Dio e gli oggetti del mondo non sono se non un tramite dell’energia.
Le cause occasionali
Causa vera è una causa in cui insorge un legame necessario tra la stessa causa ed il suo effetto (esempio:
schiaccio l’interruttore e si accende la lampadina). La ragione ci dice che all’interno dell’effetto io non
ritrovo mai la causa ma non è nemmeno implicita nella causa il suo effetto (perché una causa può avere
due effetti diversi). L’esperienza, inoltre, non mi mostra mai la necessità del fatto che avviene.
Non è possibile fare ciò che non si sa come viene fatto: se la volontà non può volere ciò che non conosce.
Quindi a muovere tutto quanto non è altro che Dio.
Conclusione) Non si può più parlare di un’azione reale dell’anima sul corpo e viceversa. Non c’è un
influsso causale reale ma una corrispondenza metafisica voluta da Dio.
DIFFICOLTÀ DELL’OCCASIONALISMO: il problema del male.
Questo tipo di impostazione genera una serie infinita di difficoltà, tra cui prima di tutto la questione della
teodicea. Nelle “Meditazioni Cristiane” Malebranche afferma che è Dio a fare tutto, le cose buone e le cose
cattive, fa crollare una casa sia sul giusto che sul disonesto. Il rischio grosso a cui incorre Malebranche è
quello di riportare a Dio la causa del male ed il peccato.
Malebranche, per salvare la sua teoria, afferma che Dio fa il bene e permette il male, ovvero che vuole
positivamente il bene e non vuole per nulla il male. Con questo Malebranche vuole evitare due scogli:
- Spinoza ed il necessitarismo: Il Dio di Spinoza agisce liberamente in misura del fatto che non è
vincolato da nulla. È un Dio che non crea e non produce, è una sovrabbondanza di essere che
sussistendo fa esistere tutto. In questo modo tutto è buono per il semplice fatto di esistere.
Chiedersi se le cose sono buone o cattive nasce da un pregiudizio finalistico che ha come
fondamento una visione errata di Dio.
- Cartesio e l’arbitrarismo divino: Per Cartesio Dio è libero di una libertà di indifferenza totale, nulla
può competere con il creatore, quello che Dio fa è buono e vero. Ma un Dio che agisce in totale
libertà senza alcun motivo, appare a Malebranche qualcosa di irrazionale. (Il Dio di Malebranche, al
contrario del Dio di Cartesio, pone l’accento sulla saggezza).
A differenza delle teodicee tradizionali, che prendono come punto di partenza la non consistenza
ontologica del male definendolo privazione di bene, il male secondo Malebranche esiste.
“È antropocentrico credere che Dio abbia creato il mondo per l’uomo”
Dio crea, non per l’uomo, ma per sé stesso e per la propria gloria (Malebranche ha in mente il Dio
cristiano) quindi avendo in vista l’incarnazione del verbo. Allora, se il suo fine è incarnarsi in un essere
umano, il peccato è stato qualcosa di funzionale all’incarnazione del Figlio. Occorreva che il figlio si
incarnasse per deificare le creazione (non dell’uomo in particolare) che altrimenti non avrebbe avuto tutto
questo valore.
DIO = ARCHITETTO -> Dio è un buon architetto che mette in campo la creazione per costruire un edificio di
cui si compiace, ma poi vuole anche una seconda gloria, quella del riconoscimento della bellezza del suo
edificio di quanti ne possano osservare la magnificenza. Dunque, la creazione ha come fine questa duplice
gloria di Dio, che consiste anche nel riconoscimento della creatura.
Dio agisce attraverso volontà generali, non particolari: Dio può non creare ma se decide di creare può
regolarsi solo nella legge che trova in se stesso e questo è l’ordine. Dio stabilisce fin dal principio delle leggi
universali della creazione che sono leggi generali ma sono anche leggi feconde e semplicissime perché Dio è
saggio e quindi non sceglie la via più complicata rispetto ad una via più semplice (a parità di risultati).
Il male e il disordine sono un effetto delle leggi semplici che Dio mette in campo.
“Trattato della natura e della grazia” -> Malebranche spiega come le stesse leggi semplici che regolano la
natura sono le stesse della grazia, per questo motivo la grazia può cadere anche su qualcuno che non se lo
merita. Questa tesi appare così scandalosa che genera una condanna.
Dio ci ama alla sua maniera ma siamo soprattutto noi che dobbiamo amare Dio. Malebranche afferma che è
impossibile un amore disinteressato ma è possibile solo un amore puro nei confronti di Dio che ha istituito
questo meccanismo della sensazione in modo da dare un diletto per cui noi nell’amare Dio proviamo gioia.
LEIBNIZ: un mondo armonico (1646-1716)
Il pensiero di Leibniz, per quanto egli sia un razionalista, non arriva mai a costruire un vero e proprio
sistema organico, piuttosto la sua produzione si compone di una serie di progetti che rimangono alle volte
come semplici abbozzi, anche per questo motivo le immagini di Leibniz nella storiografia sono cambiate nel
corso del tempo perché Leibniz in vita ha pubblicato molto poco, fondamentalmente alcuni articoli usciti su
riviste filosofiche, il “Discorso di metafisica” (1686), “Saggi di teodicea” (1710), ma la maggior parte dei testi
leibniziani è stata pubblicata postuma, portando in questo modo a scoprire nuovi aspetti del filosofo.
Leibniz può essere definito come il “filosofo dell’armonia” perché tenta di armonizzare diversi punti di
vista. Molto spesso assume il punto di vista dell’altro con cui si pone in dialogo, il che gli ha valso l’accusa di
essere un grande politico (si mette dalla parte di entrambi i lati, tanto da essere definito da Nietzsche come
un “bonaccione”).
Questa caratteristica di Leibniz come politico e diplomatico si concretizza nella sua biografia quando venne
mandato a Parigi, in missione, per convincere Luigi XIV a non condurre guerre fino alla Germania.
Questo suo essere “conciliatore” interessa anche la filosofia in quanto Leibniz tenta di far convergere
meccanicismo e finalismo, fronteggiati come opposti, ma anche l’arbitrarismo e il determinismo, per
quanto riguarda il rapporto Dio-mondo, e infine tra innatismo cartesiano ed empirismo.
Questo suo mediare si concretizza in una tendenza eclettica: egli crede nella cosiddetta philosophiae
perennis -> egli è convinto che la verità non stia tutta da una parte ma che sia sparsa, si tratta di qualcosa
che sia da ricomporre all’interno di un tutto armonico. Per fare questo bisogna mettere il naso nelle
filosofie altrui, quindi scendere in dialogo coi maggiori filosofi del suo tempo.
CONFUTARE LO SPINOZISMO
Spinoza è considerato “l’empio” del secolo, colui che deve essere confutato, perché il suo monismo è una
forma di panteismo, in cui Dio coincide con la natura e non c’è assolutamente spazio per la libertà umana
ma per Spinoza tutto è necessario.
Leibniz prende posizione sia contro il monismo spinoziano sia contro il dualismo cartesiano:
- V.S Spinoza: DOTTRINA DELLE MONADI
Spinoza nel dimostrare l’unicità della sostanza aveva posto un dilemma: o c’è un’unica sostanza o ci deve
essere una pluralità di sostanze, tutte diverse l’una dall’altra, che non possono avere tra loro rapporti
causali.
Dal momento che Spinoza riteneva questa seconda opzione un’assurdità la scartò. Leibniz, invece, prende
proprio questa posizione per fondare la sua dottrina delle monadi: pluralità di sostanze tutte quanto
individue le quali non hanno rapporti causali l’una sull’altra.
IL RECUPERO DELLA FORMA SOSTANZIALE E DELLA CAUSA FINALE ATTRAVERSO UNA CRITICA
Leibniz compie una conciliazione tra antichi e moderni, il cui terreno di scontro durante la metà del XVII
secolo riguarda l’essere vivente. Leibniz afferma di voler conciliare le ragioni di verità che hanno i moderni
con le verità ineludibili degli antichi, perché tanto i primi quanto i secondi peccano di parzialità.
L’approccio dei moderni è parziale perché considera il come, indaga le cause efficienti, ma è mancante in
misura del fatto che dimentica la domanda sul perché, la ricerca della causa finale.
Occorre tenere insieme il sapere scientifico, quello alla ricerca della causa efficiente, con il sapere filosofico,
che indaga i principi ultimi. Leibniz è convinto, come Cartesio, che la fisica possa fondarsi solo sulla
metafisica che si occupa della causa finale, quindi una metafisica diversa da quella di Cartesio che aveva
bandito le cause finali.
La sfida di Leibniz è fondare il meccanicismo sui principi metafisici e spiegare fenomeni naturali senza
ricorrere alle qualità occulte della scolastica. È vero che gli scolastici hanno abusato del concetto di forma
sostanziale per parlare di fenomeni della natura che secondo Leibniz possono essere spiegati
meccanicamente. Ma le forme sostanziali servono a livello dei principi della fisica, nella metafisica,
altrimenti la fisica non si potrebbe fondare.
- ORIGINE LOGICA: La monade è l’ipostatizzazione del soggetto logico. Russell muove dal “Discorso di
metafisica” in cui Leibniz definisce la sostanza individuale come il soggetto di vari predicati che non
è predicato di alcun soggetto. Quando più predicati si attribuiscono allo stesso soggetto e questo
soggetto non si attribuisce a nessun altro, questo soggetto è una sostanza individuale.
“La natura di una sostanza individuale è di avere un concetto così compiuto che sia sufficiente a
comprendere, e a far sì che si deducano, tutti i predicati del soggetto a cui tale concetto è attribuito”
-> La sostanza individuale come concetto è la nozione completa di sostanza comprende tutti i
predicati presenti, passati e futuri e che possono essere attribuiti a quella sostanza.
Il punto su cui fa leva Leibniz è il principio logico per cui il predicato inerisce al soggetto, da cui
deriva il principio leibniziano di ragione sufficiente per cui c’è sempre una ragione per cui le cose
stanno in questo modo.
ONTOLOGIA LEIBNIZIANA
Nella “Monadologia” Leibniz scrive che è necessario che esistano sostanze semplici perché esistono i
composti, i quali sono ammassi di semplici. L’universo leibniziano è un universo animato, dinamico, vitale,
continuo, che segue il principio metafisico per cui “la natura non fa salti”. C’è una grande catena degli
esseri, per cui queste monadi create da Dio, si dispongono secondo gradi di perfezione che corrispondono
al grado di loro complessità e di unità.
Volendo riassumere in un concetto l’ontologia di Leibniz bisogna dire che questa è un’ontologia a tre livelli:
- il primo livello della monade:
- il secondo livello è quello delle sostanze corporee: sono gli organismi che hanno una complessità
superiore rispetto ai non viventi. L’aggregato di monadi che costituisce il corpo è a sua volta
unificato da una monade dominante che sarà l’anima nel caso dell’animale; oppure sarà uno spirito
nel caso che l’organismo sia umano.
- il terzo livello dei meri aggregati: sono le cose inanimate (per esempio, nuvola, gregge, pietre,
tavolo) i quali sono privi di unità per sé, ma sono ammassi di monadi, la loro unità consiste nello
sguardo del percipiente, è un’unità attribuita dal soggetto che li percepisce.
L’UNIVERSO ANIMATO: la caratteristica degli organismi è di possedere una complessità infinita perché ogni
parte del corpo organico è a sua volta un organismo e quindi a sua volta composto da altre macchine della
natura. Leibniz fa proprie le scoperte del microscopio con il quale ripete che “in ogni goccio d’acqua c’è un
mondo in miniatura”; “ogni corpo vivente ha l’anima come entelechia dominante, ma le membra del corpo
vivente sono piene di altri viventi, ognuno dei quali a sua volta ha la propria entelechia”.
Questo schema di un aspetto materiale della monade, che coincide con la sua passività, ed un aspetto
formale, che coincide con la sua attività, è presente a tutti i livelli gerarchici dell’universo.
È un discorso che ricorda le scatole cinesi o le matrioske, i viventi sono “inscatolati” in organismi sempre più
piccoli. Leibniz però non può permettere il regresso all’infinito, allora deve trovare una risposta alla
generazione:
- Generazione spontanea: convinzione che gli animali potessero nascere dal nulla, come dal
putridume. Questa convinzione scema con l’invenzione del microscopio e la scoperta delle uova e
del funzionamento dell’apparato riproduttivo.
- Epigenesi: teoria sposata da Cartesio che consiste in una materia indifferenziata sottoposta a
movimento può essere sufficiente per sviluppare gli organismi. C’è una materia che è totipotente.
- Preformismo: Leibniz si serve di questa teoria secondo cui fin dal principio sono stati posti nel
mondo tutti i “germi seminali” creati da Dio con un singolo atto, destinati a produrre tutte le forme
di vita successive, perché all’interno di ogni seme è già contenuta la pianta o l’animale in miniatura.
La fecondazione mette in movimento lo sviluppo delle parti all’interno del seme. Secondo questa
teoria non c’è una generazione a partire da zero, ma c’è un accrescersi a partire da un germe
preesistente.
Questa tesi biologica si sposa benissimo con l’idea di un’infinità di monadi create da Dio
originariamente e tali da poter essere annientate solo da Lui. Dio crea tutte le monadi, compresi gli
individui presenti e futuri, per cui quello che c’è non è né generazione né morte ma solo sviluppo e
regresso: “quello che noi chiamiamo generazione è uno sviluppo, quello che chiamiamo morte è
involuzione.”
La teodicea di Leibniz nasce da alcuni articoli del “DIctionnaire Historique et Critique” di Pierre Bayle, in cui
l’autore, per bocca di un epicureo, riprendeva la domanda antica “se Dio esiste perché c’è il male?”
Riprendendo la teodicea razionale di Malebranche, Bayle mostra contro quali scogli si infrangono i tentativi
di affermare una teodicea che si servisse della ragione. Dal punto di vista di Bayle, il Dio di Malebranche
finiva per assomigliare ad un tiranno che permette i peccati per poi fare intervenire le forze dell’ordine a
punirli, in modo da glorificare la propria saggezza.
Secondo Bayle sarebbe stato più conforme l’ipotesi dei manichei che spiegano il male meglio del
cristianesimo: per i manichei il problema si risolve affermando l’esistenza di due principi di cui uno è il Bene
e l’altro il Male.
La conseguenza finale di Bayle è che bisogna optare tra filosofia e Vangelo: se si vuole credere solo a ciò che
è conforme a ragione bisogna lasciare il Cristianesimo, e viceversa, se si accettano i misteri di Dio bisogna
abbandonare la ragione filosofica. FIDEISMO DI FACCIATA
LA LIBERTÀ DELL’UOMO
La libertà umana è formulata da Leibniz sul modello della libertà divina, solo che mentre Dio sceglie sempre
il meglio, l’uomo tende a ciò che gli appare bene ma che bene non è in realtà. La differenza tra i due
riguarda la conoscenza: Dio, a differenza dell’uomo è onnisciente.
Il potere di scelta non è la possibilità di fare o di non fare, né per Dio né per l’uomo: l’anima pensa sempre,
ci sono sempre dei motivi o inclinazioni; inoltre, per il principio di ragione sufficiente, c’è sempre una
ragione del perché le cose stanno in quel modo anche per l’essere umano. L’uomo è un campo di forze in
contrasto tra loro fino a quando un motivo non prevale sugli altri e si attua la decisione.
La ragione lockiana è priva di elementi innati: l’anima per Locke è una tabula rasa e la ragione dell’uomo
non è la retta ragione stoica che affermava l’esistenza di principi pratici e speculativi nell’uomo. Non è
nemmeno la retta ragione dei platonici di Cambridge che avevano sposato l’innatismo.
La ragione umana è una facoltà discorsiva che procede per gradi da ciò che gli è noto a ciò che gli è ignoto.
La ragione è la “candela del signore”: il problema è capire l’ambito in cui si può esercitare con certezza la
ragione, in che limiti si può usare la ragione e dove invece bisogna lasciare spazio alla fede.
Locke anticipa Kant e la sua indagine trascendentale: cerca di evitare il fanatismo religioso. Vuole compiere
un’indagine sui limiti e confini della certezza della ragione in maniera che la ragione veda fino a dove può
arrivare con certezza e lasci spazio ad una fede di cui si possano chiedere i motivi.
Il metodo che intende seguire è da lui definito come metodo storico: egli pensa alla storia nel senso
baconiano. Locke aveva la formazione di un medico e per spiegare il suo metodo fa un parallelismo tra il
compito del medico, che deve prima osservare il paziente e poi prescrivere una cura, e l’obiettivo del suo
metodo che deve prima osservare la mente e poi prescrivere come condurla in maniera funzionale.
È un metodo descrittivo uguale a quello usato dagli scienziati della Royal Society: è un’anatomia della
mente umana che evita ogni indagine di natura fisiologica (come era in Cartesio nel suo “trattato
sull’uomo”) e non ha nemmeno l’intenzione di andare alla ricerca di essenze.
Tutto il primo libro del “Saggio sull’intelletto umano” viene dedicato alla confutazione di teorie innatiste:
Locke porta svariati argomenti che fanno leva sulla psicologia infantile; sui mentecatti (coloro che hanno
ridotte capacità mentali); sulle relazioni di viaggio (affermavano che teorie ritenute innate erano
sconosciute in tante popolazioni). Tutto ciò mostra che la mente acquisisce progressivamente, attraverso
un lavoro di educazione, delle capacità che inizialmente sono assenti.
Quello di Locke non è un sensualismo come quello di Hobbes (secondo cui non posso avere idea di cose che
prima non ho sentito o visto con i sensi): l’esperienza comprende i sensi esterni (la sensazione) ma anche il
senso interno (riflessione). Dalla riflessione ci vengono una serie di idee, prima semplici e poi complesse, di
qualcosa di spirituale.
Locke riprende la definizione di idea cartesiana, nell’introduzione del “Saggio sull’intelletto umano” afferma
che l’idea è qualunque cosa che è oggetto dell’intelletto quando qualcuno pensa.
Come Cartesio, anche Locke è un realista indiretto: noi conosciamo la realtà esterna tramite l’idea. A
differenza di Malebranche che aveva fatto delle idee degli archetipi, Locke ritiene che le idee siano uno
strumento per conoscere la realtà.
Esempio della palla di neve che ha in sé il potere di produrre in noi l’idea di bianco, di freddo, tondo etc.
etc. le quali verranno chiamate qualità, mentre chiamerò idee le percezioni che sono state prodotte da quel
potere. Nel caso delle qualità primarie la nostra idea è simile all’estensione presente all’interno del corpo,
nel caso invece delle qualità secondarie la nostra idea di bianco è completamente dissimile rispetto al
potere presente all’interno della neve di produrre, nel soggetto, l’idea di bianco.
IDEA DI SOSTANZA
A differenza di Cartesio che credeva che l’idea di sostanza fosse semplice e trasparente (essenza delle
sostanze nota perché ci è nota l’estensione), Locke fa della sostanza un oscuro sostegno di qualità che noi
dobbiamo supporre per rendere ragione delle qualità che noi cogliamo. Dal momento che non sappiamo
immaginare come possano sussistere da sole le idee semplici, ci abituiamo a supporre un qualche sostrato
nel quale esse sussistono.
Il problema è che proprio per la sua oscurità, l’idea di sostanza fa rimanere nell’oggetto un senso oscuro.
Locke accetta che ci siano sostanze spirituali oltre a quelle materiali, ma noi non ne abbiamo una
conoscenza adeguata ma abbiamo sempre una conoscenza che rimane in parte oscura. Perché l’idea di
corpo nasce in noi dalla composizione di idee di solidità, estensione e mobilità più l’idea di sostanza;
mentre le idee spirituali ci derivano dalle idee di riflessione più l’idea di sostanza.
Se noi fossimo in grado di conoscere il reticolo atomico del corpo significa che noi potremmo conoscere a
priori il corpo, potremmo trarne tutte le sue qualità. Ma dato che noi procediamo solo a posteriori, non
potremmo mai sapere qual è il numero preciso di proprietà che dipendono dall’essenza reale dell’ente.
Dovremmo sperimentare tutte le qualità che entrano nella composizione del nome dell’ente. Quello che
noi conosciamo non è l’essenza reale ma l’essenza nominale.
- L’essenza nominale:
o “l’idea astratta per il quale sta il nome generale o speciale”
o “l’insieme di caratteri necessari perché una cosa sia chiamata tale”
Esempio dell’oro (pensiero da scienziato): “l’essenza nominale dell’oro è l’idea complessa per cui sta la
parola oro (corpo giallo malleabile) ma l’essenza reale è la costituzione delle parti insensibili da cui
dipendono quelle qualità e proprietà”
Ne deriva che la nostra conoscenza delle sostanze è una conoscenza limitata ma progressiva: noi non
arriveremo mai ad esaurire le sostanze, scoprendone la loro essenza reale perché non è il nostro compito,
altrimenti Dio ci avrebbe donato la vista del microscopio. Egli ci da la conoscenza delle cose che ci servono
per la vita di tutti i giorni ma non è andato oltre. La conoscenza è perfettibile (la conoscenza dell’oro è
diversa tra quella di un bambino, quella di un orafo e quella di un chimico) tramite la sperimentazione.
Accanto alla conoscenza c’è la probabilità che può solo supporre l’accordo o il disaccordo tra due idee: non
possiamo né intuire né dimostrare né esperirlo ma solo supporlo.
Nel quarto libro del “Saggio sull’intelletto umano” Locke ci da tre esempi di conoscenza (intuitiva,
dimostrativa e sensoriale) a proposito della conoscenza dell’esistenza reale:
- Il modello della conoscenza intuitiva dell’esistenza reale è data dalla conoscenza della propria
esistenza, ovvero Locke accetta il “cogito ergo sum” cartesiano. All’interno di questo cogito c’è una
sfumatura tipicamente lockiana: “se qualcuno vuole darsi l’aria di essere così scettico da negare la
propria esistenza, si goda la felicità di essere nulla fino a quando la fame o qualche altro dolore non
lo convinca del contrario” -> l’Io che esiste è già incarnato, tanto da poter sentire fame e dolore che
per Cartesio erano propri del composto di anima e corpo e non solo della mente umana.
- Il modello della conoscenza dimostrativa è l’esistenza di Dio: Locke non accetta le prove cartesiane
che muovono a priori. L’esistenza reale può essere provata solo attraverso la reale esistenza.
La dimostrazione lockiana fa leva sulla conoscenza intuitiva della propria esistenza, sulla
conoscenza intuitiva dell’assioma secondo cui dal nulla non viene nulla, di conseguenza dovrà
esserci qualcosa di necessario che fa essere tutto ciò che è contingente, Dio.
Secondo Locke, l’uomo conosce Dio meglio di quanto conosca la realtà esterna (cosa straordinaria
per un empirista come lui). Razionalista deluso
- Il modello della conoscenza sensibile è dato dall’esistenza delle altre cose: a differenza delle due
precedenti conoscenze, questa mi fornisce una certezza inferiore chiamata da Locke “certezza
morale” o “sicura testimonianza”. Nei sensi c’è una certezza limitata perché non va oltre la
certezza di ciò che ci è presente. Quando Locke affronta la questione della certezza delle altre cose
ha in mente tutti gli argomenti portati contro l’esistenza del mondo esterno da Cartesio e
Malebranche (errore dei sensi/ indistinguibilità del sonno e della veglia/ della follia).
Locke porta una serie di argomenti per assicurare la conoscenza sensibile:
o Passività: la mente è ricettiva e quindi non sono gli organi a produrmi le sensazioni.
o Involontarietà: gli oggetti del mondo esterno mi si impongono per forza, non mi posso
sottrarre all’azione degli oggetti che determinano la mia sensazione.
o Piacere e dolore: Anche supponendo il nostro sonno perenne, il dolore e il piacere
percepiti ci confermano la presenza del mondo esterno.
o Concorso di più sensi: io posso anche pensare che l’oggetto davanti a me sia prodotto della
mia mente ma se entro in contatto diretto aumenta la certezza.
Come Hobbes, Locke è un giusnaturalista, teoria che suppone l’esistenza di uno stato di natura in cui vige
una legge di natura e alcuni diritti naturali ed in seguito ad un accordo gli uomini formano uno stato,
creando un vero e proprio stato civile.
- Stato di natura hobbesiano: stato di natura in cui non si danno leggi (l’unica legge è quella
dell’autoconservazione una legge che è un semplice dettame della ragione)
- Stato di natura lockiano: stato di natura in cui vige una legge di natura divina (prescrive ciò che e
lecito e ciò che non lo è) è una disposizione della volontà divina, conoscibile attraverso la natura,
che indica ciò che è conforme o difforme alla natura razionale. Secondo Locke c’è una legge divina
dalla quale traggono la loro obbligatorietà tutte le leggi civili.
Dio ha dato a tutto il creato una legge che non violenta la natura del mondo ma al contrario la
esalta: se l’uomo la segue è esaltato nella sua natura razionale.
Non è una legge innata ma è conoscibile tramite la natura, con l’uso della propria ragione che gli è
stata data per conoscere Dio ed i proprio doveri.
Questa legge è già data nello stato di natura e chi la trasgredisce viene già escluso nella società
naturale in quanto è allo stesso livello di una bestia ed è legittimato ad essere punito.
- L’autoconservazione hobbesiana è una fattore biologico: ogni cosa tende verso ciò che lo favorisce
e cerca di evitare ciò che gli nuoce
L’autoconservazione lockiana: il suicidio è illegittimo perché all’uomo non appartiene la propria vita
che gli è stata donata.
LA SOCIETÀ CIVILE:
Mentre per Hobbes è normale uscire da uno stato di natura che si presenta come contraddittorio perché io
posso fare di tutto per assicurare la mia persona, anche andare contro ciò che è morale.
In Locke lo stato di natura può diventare uno stato di guerra contro tutti se c’è un eccesso di legittima
difesa: in stato di natura io sono legittimato ad eliminare chi vuole ledermi, però può darsi che la mia
reazione sia esagerata e che scateni una faida. Quello che manca nello stato di natura è un giudice
imparziale che abbia l’autorità per garantire l’esercizio corretto della legge di natura. Proprio per questo
motivo gli uomini si riuniscono in una associazione: prima formulano un patto di unione e poi cedono in un
patto di sottomissione il loro diritto di amministrare la legge di natura, istituendo un giudice terreno, che
abbia l’autorità di definire le controversie.
Locke restaura il patto unico di Hobbes (il re faceva il popolo che non esiste prima di un patto di unione che
è contemporaneamente un patto di sottomissione) in un doppio patto: con il primo il popolo si riunisce con
il secondo cede la propria libertà ad un terzo.
Quello che è incedibile dai cittadini, secondo Locke, è tutto il pacchetto di beni garantito dalla legge di
natura: un sovrano che legifera contro le leggi di natura non è più degno del suo ruolo, diventa un tiranno
al quale io ho il diritto di ribellarmi. È la mia coscienza ad obbligarmi a respingere questa autorità.
La società che ci descrive Locke è una società pacifica e mercantilistica che deve avere condizioni politiche
tali per poter fiorire. È chiaro che il potere legislativo della società non può estendersi oltre il bene comune,
dunque, chi governa deve impiegare la forza il meno possibile (solo per prevenire i torti degli stranieri) con
un unico fine che è la pace ed il bene del popolo.
Si intravede la distinzione tra poteri teorizzata da Montesquieu.
Se il potere varca questi limiti si trasforma in tirannide: Locke ritiene che ci si possa opporre al tiranno
grazie al diritto di resistenza che non valeva per Hobbes dato che il popolo non può andare contro il re dato
che il popolo si identifica completamente nel proprio re, quindi non può prescinderne.
I limiti del sovrano sono strutturali: anche lui è sottomesso alla legge di natura divina, a differenza del
sovrano hobbesiano che era l’unico a non possedere limiti.
Occorre che il diritto di resistenza che prevede Locke scatti solo quando ce ne è effettivo bisogno, quando
c’è un’ingiustizia macroscopica condotta contro una parte del popolo, in modo da ledere i diritti
fondamentali dell’uomo (persecuzioni degli ebrei). In questo caso il popolo ha il diritto di istituire un nuovo
ordine legislativo, per farlo dovrà usare la forza -> appello al cielo: se non c’è più una giustizia sulla terra si
chiama Dio come testimone della propria guerra condotta contro l’autorità illegittima.
La politica lockiana si fonda su un ordine divino e sull’idea che l’uomo sia una creatura con tutto ciò che ne
scaturisce, con l’appello al cielo sembra che la politica di Locke si dissolva in una prospettiva escatologica
perché nel momento in cui ci si appella al cielo si pensa di essere nel giusto. Però solo nell’al di là si potrà
stabilire chi ha torto e chi ha ragione. Diventa una questione escatologica dato che il valore della guerra per
cui l’individuo si batte potrà essere valutato solo nell’aldilà.
HUME (1711-1776)
RIASSUNTO BERELEY:
Berkeley era un vescovo che si propone di correggere una stortura all’interno della modernità, in particolar
modo nella way of ideas, ovvero quella di aver scisso completamente il mondo descritto dalla nuova scienza
ed il mondo descritto dal senso comune.
- Da un lato abbiamo il mondo della nuova scienza per cui le cose non hanno qualità secondarie, che
sono solo soggettive, ma è un mondo fatto di estensioni ritagliate in differenti modi. Un mondo che
non è direttamente attingibile (realismo indiretto = noi conosciamo le idee che ci rappresentano le
cose).
Berkeley ritiene che il mondo della nuova scienza finisca nell’incappare in due grossi guai:
o Lo scetticismo: come accertarsi della corrispondenza tra le nostre idee e la realtà esterna.
o Il materialismo: ipostatizzazione dell’estensione che finisce per essere una materia
infinitamente estesa concorrenziale a Dio. Potrebbe essere co-eterna a Dio e quindi
condurre all’ateismo.
- Dall’altro lato c’è il mondo del senso comune per cui l’oggetto e la sua estensione vengono
direttamente conosciuti.
Berkeley decide di introdurre un principio cardine, quello dell’esse est percipit, cioè dire che l’essere delle
cose consiste nel loro essere percepite. Non c’è un mondo di idee e di percezioni e dall’altro lato un mondo
di cose che rimane inattingibile. L’unico mondo che esiste per Berkeley è quello delle percezioni: se la mia
percezione di un corpo comprende le qualità secondarie, significa che quella cosa possiederà di fatto tali
qualità. Le cose si fanno percezioni dipendenti dalla mente.
Secondo Berkeley, non ci sono qualità primarie oggettive e qualità secondarie soggettive perché tutte
quante sono soggettive nel senso di dipendenti dalla mente.
Berkeley elimina l’idea che ci sia un’estensione, come oscuro sostegno che Locke aveva supposto a
sorreggere tutte quelle qualità che percepiamo.
Quindi, tutta la realtà si riconduce o ai percepiti o ai percipienti (se c’è un percepito c’è chi percepisce).
Berkeley nega la sostanza materiale con il suo immaterialismo ma non nega le sostanze spirituali che sono
percipienti ed attive, in particolar modo queste sostanze fanno capo alla mente che pensa e percepisce il
mondo quando non c’è nessuno a percepirlo.
In sintesi la posizione berkeleiana è quella di una riconduzione di tutto alle percezioni; negazione della
sostanza materiale; mantenimento di una sostanza spirituale attiva.
Hume costruisce il proprio pensiero a partire dai risultati di Berkeley in maniera radicalizzata: toglie al
discorso berkeleiano tutte le preoccupazioni di natura apologetica che lo sorreggevano.
Se Berkeley aveva eroso la categoria metafisica di sostanza materiale, in Hume si trova una forte
impostazione antimetafisica che finisce il lavoro iniziato dal predecessore:
- facendo crollare la categoria di sostanza in toto, tanto la sostanza materiale quanto quella
spirituale.
- Crolla il principio di causalità
L’intento di Hume nel “Trattato sulla natura umana” (1629) è quello di costruire una scienza della natura
umana attraverso un metodo sperimentale: il modello di Hume è Newton perché come egli aveva spiegato
i fenomeni della natura ricorrendo a pochi principi semplicissimi, senza supporre ipotesi, così Hume intende
ricondurre i molti effetti particolari a poche cause generali, senza trascendere i limiti dell’esperienza.
Hume ritiene che la vera filosofia sia quella che riflette in maniera critica sull’esperienza comune, senza
cadere nell’ingenuità di ipostatizzare queste credenze.
La filosofia di Hume è una filosofia pop-scientifica: vuole fare una filosofia popolare a metà strada tra
l’uomo del volgo e il dogmatico.
«Quando [...] scorriamo i libri di una biblioteca, di cosa dobbiamo disfarci? Se prendiamo
in mano qualche volume – di teologia o di metafisica scolastica, ad esempio – chiediamoci:
“Contiene forse dei ragionamenti astratti intorno alla quantità o al numero”? No. “Contiene dei
ragionamenti basati sull’esperienza e relativi a dati di fatto o all’esistenza delle cose?” No.
Allora diamolo alle fiamme, giacché esso non può contenere nient’altro che sofisticheria e
inganno» (Ricerche sull’intelletto umano)
Questa frase ci dice che per Hume quello che può essere legittimo a livello di ragionamenti o sono i
ragionamenti scientifici/matematici (scienze dure) o sono dei ragionamenti basati sull’esperienza (fisica)
ma tutto quello che trascende questi due ambiti (metafisica) è sofisticheria e va dato alle fiamme.
Secondo Hume la causa delle percezioni è ignota e inconoscibile dalla ragione umana che può al massimo
formulare delle ipotesi:
- Realismo mediato (Cartesio e Locke): la causa risiede negli oggetti.
- Idealismo: prodotte da un potere creativo della mente.
- Dio causa delle percezioni (Malebranche, Berkeley): derivano dall’autore del nostro essere.
Qualsiasi di queste opzioni rimarrebbe semplicemente arbitraria, quindi, non ha senso secondo Hume
sceglierne (contrario di Fichte) perché tanto non si riesce a sapere qual è la causa ultima. Lo scienziato
allora non deve porsi domande riguardo la realtà ultima ma deve preoccuparsi semplicemente del modo in
cui le cose accadono.
IDEE E IMPRESSIONI
Ad ogni idea deve corrispondere una impressione, la quale ha una precedenza temporale sull’idea. Se tutte
le idee semplici derivano da impressioni significa che non si danno idee innate.
- Impressioni di sensazione: ci provengono da una causa sconosciuta esterna
- Impressioni di riflessione: ci derivano dalle idee. Queste riguardano la fame, la sete, il caldo, il
freddo che ci producono a loro volta l’avversione, il desiderio etc. etc.
LA RELAZIONE DI CAUSALITÀ
La relazione di causalità non può essere una relazione tra idee che sono dei giudizi analitici in cui il
predicato è già incluso all’interno del soggetto.
L’effetto e la causa sono separati per cui io non posso esaminando la causa ritrovare l’effetto a priori.
L’esempio di Adamo: per quanto si supponga che le facoltà mentali di Adamo siano fin dall’inizio
assolutamente perfette non avrebbe mai potuto inferire dalla brillantezza dell’acqua che questa l’avrebbe
soffocato. Non c’è nessun’oggetto visto a priori che possa dirci che effetto produrrà. Allora, la causalità non
è una relazione tra idee ma deve essere assegnata all’esperienza.
La nostra ragione senza l’assistenza dell’esperienza non può mai trarre un’inferenza che riguardi l’esistenza
effettiva ai dati di fatto.
La causalità ci viene dall’esperienza per via del fatto che noi vediamo reiteratamente che due eventi si
susseguono, sono sempre concomitanti (fuoco e fumo). Però questa generalizzazione dell’esperienza non si
può proiettare nel futuro, perché se fino ad ora ho visto sorgere il sole ogni mattina, non posso estendere al
futuro quello che è valso nel passato.
L’esempio del pane: non c’è solo una semplice concomitanza nella causalità ma c’è anche un legame
necessario che vale sempre.
Ma questa necessità non c’è nelle cose: la conseguenza non risulta affatto necessaria ma è un’operazione
della mente che non vede altro che la concomitanza di due eventi.
Questa operazione della mente può essere spiegata con l’abitudine (custom) che acquisita produce una
credenza (belief). L’abitudine genera in noi la convinzione della necessità del nesso causale. La credenza è
una rappresentazione più energica e vivace di un’idea.
Per esempio, io ho l’impressione del fumo e la credenza mi richiama alla mente il fuoco come se io lo
vedessi.
Proprio per il suo carattere scettico, secondo Hume, è un bene che non stia un ragionamento alla base della
casualità ma che ci stia solo una credenza come prodotto dell’abitudine. L’operazione della mente con cui
inferiamo effetti analoghi da cause analoghe è talmente essenziale che è stata affidata ad un istinto
(tendenza meccanica) infallibile nelle sue operazioni.
Quindi la causalità non è giustificata sulla base di argomenti razionali ma sulla base di un meccanismo
naturale che ci guida.
La religione:
Secondo Hume la teologia va spiegata come fenomeno in termini psicologici, si tratta di spiegare come gli
uomini sono arrivati ad elaborare la credenza di un Dio invisibile. A partire dalla natura umana descrive
come sono nate le religioni: Il timore della morte unito all’ignoranza delle cause spinge gli uomini a creare
dei antropomorficamente intesi, con stesse passioni e collere dell’uomo, per riuscire a spiegarsi il loro
destino ed in seguito da adorare nel culto.
La nascita della religione coincide con la nascita del politeismo dopodiché Hume ritiene che il monoteismo
sia una forma più raffinata di politeismo, non vede una distanza siderale: ad un certo punto si è eletto un
capo, un Dio degli dei, che da materiale e antropomorfa si è fatta trascendente e immateriale.
Hume ritiene ci siano tendenze che si alternano tra idolatria e teismo, tra paganesimo e religione, a
seconda che prevalga la volontà di esaltare la divinità quando invece si teme la potenza di un Dio
onnipotente si torna all’idea di un Dio materiale.
Dal punto di vista della tolleranza è molto meglio il politeismo del monoteismo: il primo crea società
decisamente più tolleranti rispetto quelle del monoteismo.
Tutte le questioni che avevano agitato la teologia razionale ora possono scontrarsi con la psicologia
razionale: non ha nemmeno più senso parlare di un’anima e della sua natura.
L’idea dell’IO
Se noi avessimo un’idea semplice dell’Io come quella di Cartesio dovremmo averne un’impressione che
rimane invariabilmente la stessa cosa che invece non accade. L’idea dell’io non può essere da nessuna
impressione quindi l’idea dell’io non esiste.
Perciò se vogliamo essere coerenti dobbiamo dire che la mente non è altro che una collezione di percezioni
che si susseguono con rapidità in un perpetuo flusso e movimento. La mente è un anfiteatro in cui le
percezioni si mescolano (senza immaginarci un magazzino fisico di percezioni perché di questo non si può
dire nulla).
Visto che siamo portati a dire “IO” anche questa volta bisogna spiegare come mai avviene questa tendenza.
Hume, con la stessa tattica, cerca di giustificare quale azione compiamo per arrivare all’idea di una
invariabile esistenza perdurante. Hume fa intervenire le solite due facoltà cooperanti:
- memoria, con la caratteristica di conservare le percezioni in maniera vivida e ordinata
- immaginazione che da percezioni somiglianti giunge alla convinzione che si tratti di percezioni
identiche, andando a colmare il vuoto tra una percezione e l’altra. Converte la somiglianza in
identità rendendo ininterrotta la sequenza di diverse percezioni.
I corpi esterni:
Anche lo scettico, pur non avendo argomenti filosofici dimostrativi, deve ammettere l’esistenza dei corpi
perché la natura ha la meglio sulla ragione: c’è un istinto naturale che conduce l’uomo a ritenere che i corpi
esterni esistano. Posto ciò, ci sono comunque due precondizioni che mettiamo sempre in atto nella nostra
convinzione che i corpi esterni esistano:
- Che i corpi abbiano un’esistenza distinta dalla mente che li percepisce.
- Che i corpi abbiano un’esistenza continuata, sussistenza anche se non sono percepiti.
La domanda non è quella relativa all’esistenza dei corpi esterni ma è chiederci quali sono le cause che ci
inducono a pensare che esistano dei corpi. Hume indaga sensi, ragione e immaginazione per capire a quale
di queste tre facoltà possiamo iscrivere la nostra credenza dell’esistenza dei corpi esterni.
- Sensi: Secondo Hume, siamo naturalmente portati a credere che siano i sensi a darci l’accesso
principale all’esistenza dei corpi. Tuttavia i sensi hanno un limite, non sono in grado di attestare
un’esistenza continua dell’oggetto. Inoltre, i sensi non ci attestano nemmeno un’esistenza dei corpi
distinta dalla mente, perché le sensazioni sono nostre percezioni. Le nostre percezioni non
somigliano alle cose cos’ come sono.
- Ragione: nemmeno la ragione può accertarci l’esistenza dei corpi perché anche il legame di
causalità riconosciuto da Locke e Cartesio (realismo indiretto) non è più invocabile con la critica alla
causalità. Hume aggiunge la serie di argomenti scettici che la modernità aveva portato (sonno,
follia, malattie).
- Ricorso a Dio: Nemmeno questa via è possibile: il ricorso alla veracità divina come ultima garanzia
alla quale si erano rivolti Cartesio e Locke. I sensi dovrebbero diventare infallibili e inoltre c’è
l'ostacolo della dimostrazione dell’esistenza di Dio che non ha reale fondamento dopo la critica
della causalità.
- L’immaginazione: Noi attribuiamo all’oggetto esterno una maggiore costanza rispetto a quella
attribuita ai nostri sentimenti. Inoltre, noi attribuiamo una certa coerenza alla realtà esterna.
L’immaginazione, che converte la somiglianza in identità e l’intermittenza in continuità, colma i vari
intervalli tra le differenti impressioni intermittenti, fingendo una percezione ininterrotta che ci
serve per dare coerenza alla nostra esperienza.
L’esistenza delle cose esterne non è dimostrata razionalmente ma è frutto di una credenza che ha una sua
valenza ed è sufficiente per la vita. Infatti, da buon scettico, Hume afferma che una cosa è il mondo della
vita e un’altra è il mondo della speculazione: la profonda indifferenza di Hume per tutte le speculazioni che
trascendono l’ambito del semplicemente sperimentabile.
Filosofia classica tedesca: IMMANUEL KANT (1724-1804)
L’ultimo dei moderni e il primo degli idealisti:
Kant rappresenta il terzo spartiacque della filosofia moderna in quanto può essere considerato l’ultimo dei
moderni dato che tira le fila del dibattito tra empiristi e razionalisti, tra i costruttori ed i demolitori dei
sistemi metafisici. Dall’altro lato, Kant può essere visto come il primo degli idealisti perché dona al soggetto
ed alla percezione trascendentale un ruolo cardine nella costituzione della conoscenza.
Una critica che si interroghi sullo statuto della metafisica e sui limiti e capacità della ragione. La metafisica,
per Kant, è ineludibile: l’aspirazione dell’uomo alla metafisica è così naturale da apparire ogni volta come
una sorta di “fatica di Sisifo”.
Kant arriva a questa conclusione dall’analisi delle antinomie di cui la metafisica si serve sempre (mondo
eterno/ creato; materia indivisibile/divisibile; necessitarismo/ libertà): c’è sempre una tendenza della
ragione a superare i limiti dell’esperienza per volgersi verso l’incondizionato.
Quello che Kant si propone di fare all’interno della “Critica della Ragion Pura” è quello di “sbarazzare e
spianare” un terreno contorto. L’obiettivo della critica è quello di essere una controprova (linguaggio della
scienza sperimentale attinto da Newton) e una giustificazione (linguaggio giudiziario, richiamo allo stile
giuridico del tribunale perché la ragione è legislatrice. Dunque finché la ragione non giustifica se stessa,
rischia di legiferare oltre i suoi poteri).
Kant intende tracciare la via per una metafisica immanente che definisce “conoscenza razionale pura per
concetti”, cioè una scienza dei principi a priori della ragione, che andrà a distinguere in:
- USO TEORETICO: Una metafisica della natura, cioè la dottrina di principi a priori che costituiscono la
fisica.
- USO PRATICO: Una metafisica dei doveri relativa all’uso pratico della ragione.
In Kant la scissione tra pensiero ed essere è colmata andando a vedere le capacità stesse della ragione, le
procedure con cui la ragione si accerta delle sue conoscenze.
Per rispondere a questa domanda bisogna cambiare il punto di vista, operare una rivoluzione copernicana:
Nella prefazione della seconda edizione della CRPU Kant si paragona a Copernico perché questi ha avuto
l’intuizione geniale di cambiare il punto di vista (sistema eliocentrico).
Bisogna pensare in maniera rovesciata i rapporti tra soggetto e oggetto: fino ad ora si è pensato che la
conoscenza si modella sull’oggetto e che fosse un processo passivo che riproduce nel soggetto le qualità
dell’oggetto. Kant ribalta tutto e inizia ad ipotizzare che sia l’oggetto a doversi adattare alle capacità del
soggetto che ha un ruolo attivo.
La conoscenza non è un mero prodotto passivo ma è un processo attivo dove il risultato della nostra
conoscenza va legittimato sulla base di criteri interni al processo.
La conseguenza di questa impostazione è che quello che noi conosciamo, non sono le cose come sono in sé,
ma sono i fenomeni, le cose come si manifestano a noi. Questo ribaltamento conduce ad una indagine
trascendentale, definendo “trascendentale” ogni conoscenza che si occupi in generale non di oggetti
quanto del nostro modo di conoscere gli oggetti nella misura in cui questo deve essere possibile a priori. È
una riflessione su come certe rappresentazioni siano possibili e applicabili a priori agli oggetti.
Kant si muove in questo modo per evitare due scogli contro cui si erano infranti i suoi predecessori:
- La fantasticheria (Leibniz): finisce per privilegiare l’intelletto sulla sensibilità arrivando ad
intellettualizzare i fenomeni, creando un sistema intellettuale del mondo. Leibniz ha mostrato che
tra la sensibilità e l’intelletto non c’è differenza qualitativa ma c’è continuità: i dati sensibili sono
un’apprensione oscura e confusa dell’oggetto che si fa chiara solo nell’intelletto.
- Lo scetticismo (Locke e Hume): Locke sensibilizza tutti i concetti: riconduce tutto quanto alla mera
sensibilità ed esperienza. Hume si è accorto dell’incapacità del sistema lockiano ed è arrivato alle
porte dell’a-priori ma non è stato in grado di fare l’ultimo passo, finendo per attribuire la necessità
ad una semplice credenza derivata dall’abitudine.
- Sintesi Kantiana: Per evitare questi due scogli bisogna dire che la conoscenza comincia con
l’esperienza (Locke) però bisogna ammettere che non tutto deriva dall’esperienza (Leibniz).
INTELLETTO E SENSIBILITÁ:
Nell’introduzione alla “logica trascendentale” Kant chiarisce la funzione della sensibilità e dell’intelletto,
all’interno del processo conoscitivo.
1. Sensibilità: Considerata in maniera tradizionale come la recettività attraverso cui riceviamo
rappresentazioni. Attraverso la sensibilità ci sono dati gli oggetti.
2. Intelletto: Considerato come la facoltà spontanea di produrre da sé rappresentazioni. Attraverso
l’intelletto l’oggetto è pensato dalla mente umana.
A differenza di ciò che credeva Leibniz sono due facoltà distinte, autonome che svolgono differenti funzioni.
Non c’è un’inferiorità della sensibilità rispetto all’intelletto: non ci si può rivolgere solo alla sensibilità o solo
all’intelletto ma le due facoltà devono collaborare perché senza sensibilità non ci è dato alcun oggetto e
senza l’intelletto nessun oggetto sarebbe pensato.
La conoscenza empirica scaturisce dall’unione di sensibilità e intelletto: “I pensieri senza contenuto sono
vuoti e le intuizioni senza concetti sono cieche”.
INTUIZIONI E CONCETTI:
Secondo Kant, l’importante è non scambiare le funzioni delle due facoltà: l’intelletto non intuisce e la
sensibilità non pensa.
1. L’intuizione è la rappresentazione che si riferisce all’oggetto in maniera immediata. È solo
sensibile, propria di una facoltà ricettiva perché io non posso scegliere se ricevere o no una
determinata intuizione di un oggetto che mi è dato. Occorre che io sia affetto (passivo), non
siamo in grado di darci l’oggetto da soli.
a. Materia/Empiriche: mentre il contenuto della nostra conoscenza è dato per quanto
riguarda l’intuizione
b. Forma/Pure: La forma è emessa dal soggetto a priori.
i. Ci sono delle forme pure a priori che riguardano l’intuizione.
ii. E delle forme pure a priori che riguardano l’intelletto: categorie.
2. Il concetto è un atto spontaneo dell’intelletto che produce una rappresentazione universale.
Ogni nostra rappresentazione sensibile viene spazializzata e temporalizzata. Tuttavia, l’effetto di un oggetto
sulla capacità rappresentativa è la sensazione, mentre, l’intuizione che si riferisce all’oggetto si dice
empirica. L’oggetto indeterminato di un’intuizione empirica prende il nome di fenomeno.
La nostra conoscenza è una conoscenza di fenomeni, materiale che noi circoscriviamo in uno spazio ed in
un tempo.
L’ANALITICA TRASCENDENTALE: La tavola dei giudizi e la tavola delle categorie.
L’intelletto, attraverso le sue funzioni, ordina e unisce le rappresentazioni della sensibilità sotto una
rappresentazione comune. Le funzioni dell’intelletto sono unificatrici e giudicatrici perché l’atto con cui i
concetti esprimono la loro forza unificante è il giudizio. Pensare = Giudicare.
I concetti puro sono le forme a priori attraverso cui l’intelletto giudica, cioè unifica le rappresentazioni.
Questi concetti sono chiamati da Kant categorie e vengono analizzate da Kant nella “Analitica
(scomposizione) trascendentale dei concetti”, richiamandosi alle categorie di Aristotele, con la differenza
che queste non saranno modi di essere come per lo Stagirita ma saranno modi del pensare.
L’ingegnosa costruzione che Kant ha effettuato sul contributo del soggetto nella costituzione dell’oggetto è
sì affascinante ma come facciamo a dimostrare che i concetti puri, isolati da Kant nell’analitica, ci diano
davvero una conoscenza affidabile del mondo e spieghino la nostra esperienza in maniera universale e
necessaria?
Kant tenta di risolvere questo problema con la deduzione trascendentale delle categorie: Kant ha in mente
la giustificazione delle categorie, ovvero dimostrare che questi concetti puri danno luogo a conoscenze
effettivamente dotate di una validità universale e oggettiva.
La chiave di volta di questa deduzione trascendentale è data dalla appercezione pura/ Io penso, ovvero nel
far dipendere la funzione unificatrice delle categorie da una sintesi originaria e ulteriore, che è quella
dell’Io.
La sensibilità ci da una molteplicità di intuizioni che non hanno un principio di coesione, serve l’unificazione
dell’intelletto perché queste intuizioni possano essere pensate. Alla base di questa unificazione deve esserci
un’unità superiore che rende possibile le funzioni di unificazione dell’intelletto (“il concetto dell’unificazione
implica, oltre il concetto del molteplice, anche quello dell’unità”). L’unificazione è la rappresentazione
dell’unità sintetica del molteplice e la rappresentazione di questa unità sintetica del molteplice non viene
dall’unificazione ma rende primariamente possibile il concetto dell’unificazione. Questa rappresentazione
dell’unità è chiamata da Kant Io penso, senza il quale avremmo una serie di rappresentazioni slegate l’una
dall’altra, che non potremmo riconoscere come nostre.
Ogni nostra esperienza presuppone sempre l’unità della coscienza. Posso parlare di esperienza solo se
presuppongo l’unità del soggetto. L’Io penso, che rende possibile tutte le funzioni sintetiche dell’intelletto,
ha un ruolo fondativo simile al cogito cartesiano perché legittima il processo conoscitivo dell’intelletto, con
una differenza cruciale: l’Io penso, prodotto dall’autocoscienza, non è una sostanza ma solo una funzione,
una condizione formale che precede a priori tutti i nostri concetti di unificazione successivi.
L’Io penso non è nemmeno l’autocoscienza empirica, il soggetto empiricamente determinato con tutte le
sue caratteristiche, ma è una struttura comune a tutti quanti.
“È quell’autocoscienza che è in ogni coscienza una e identica”
L’immaginazione sistema uno schema per ogni categoria, una struttura con cui la categoria si applicherà
all’intuizione empirica. È un modello per gli oggetti possibili dell’esperienza. Gli schemi dell’immaginazione
sono modelli che noi applichiamo, secondo le varie categorie, all’intuizione empirica.
In base agli schemi che l’immaginazione mette in campo per far sì che le categorie possano applicarsi agli
oggetti ci sono delle regole (principi dell’intelletto). Questi principi dell’intelletto regolano gli schemi
dell’immaginazione che permettono di applicare la categoria all’intuizione empirica.
I quattro principi dell’intelletto:
1. Assiomi dell’intuizione: regolano le categorie della quantità. I loro principio è: “Tutte le intuizioni
sono qualità estensive”, ovvero noi intuiamo gli oggetti sempre secondo una forma quantitativa (Ci
sono due quaderni, ho una felpa). Applicabilità della matematica alla fisica.
2. Anticipazioni della percezione: regolano le categorie della qualità, secondo il principio: “In tutti i
fenomeni il reale ha una quantità intensiva, cioè un grado.” Noi conosciamo gli oggetti anche
secondo un certo grado che possiamo misurare.
3. Postulati del pensiero empirico: regolano le categorie della modalità che decidono se l’oggetto può
essere dato nello spazio e nel tempo; se l’oggetto è reale; se l’oggetto è necessario.
4. Analogie dell’esperienza: regolano le categoria di relazione. Sono rette da tre principi:
a. Principio di permanenza della sostanza: principio necessario per percepire il mutamento
perché senza un sostrato (sostanza) che permane non c’è né un prima né un poi. Lo schema
della sostanza è quello della permanenza della sostanza nel tempo nonostante il variare del
resto. (Primo principio della meccanica Newtoniana: conservazione della materia)
b. Legge di causalità: Il mutamento implica una successione che può essere irreversibile
oppure reversibile. La causalità è ciò che ci permette di passare da un’intuizione all’altra.
Quando la successione è reversibile è soggettiva (per esempio, quando guardo una casa
posso decidere di partire dal tetto, se invece guardo una barca che scende dal fiume non
dipende da me il punto di partenza). Alla base delle successioni sta la legge di causa-effetto
che corrisponde al secondo principio della meccanica Newtoniana.
c. Azione reciproca: Estende il secondo principio in maniera pluridirezionale: è una causalità
che si irraggia nella misura in cui ad ogni azione corrisponde una reazione. Principio della
simultaneità: una stessa cosa può essere effetto di una causa e causa di altri effetti.
(terzo principio di Newton: ad ogni azione una reazione)
Con questi tre principi Kant pensa di aver compiuto la propria missione: dimostrare come avere una
conoscenza che sia valida universalmente partendo dalle strutture trascendentali del pensiero.
Il problema è che questo vale fino a quando siamo in presenza di oggetti la cui esperienza è possibile,
qualcosa di cui possiamo avere intuizione empirica.
Kant distingue:
- Conoscere: serve sempre una intuizione. La conoscenza richiede il concetto per cui un oggetto è
pensato (la categoria) e l’intuizione per cui l’oggetto è dato. Io posso conoscere enti reali come il
cellulare di cui possiede sia il concetto che l’intuizione ma per quanto riguarda l’anima io potrò solo
pensarla ma non posso conoscerla perché non ne ho esperienza (non è un fenomeno).
Se facciamo rifermento all’anima come oggetto non sensibile possiamo attribuirle solo una serie di
cose negative (non è estesa, non è nello spazio e nemmeno nel tempo) ma non possiamo
esprimerne il contenuto. Se cercassimo di parlare del contenuto in modo improprio cadremmo in
quelli che Kant chiama paralogismi.
- Pensare: Il pensiero non porta alla conoscenza di nessun oggetto: io potrei avere il pensiero di un
oggetto che non è dato nella realtà. L’ambito del pensabile è più ampio rispetto all’ambito del
conoscere perché noi possiamo pensare a qualcosa senza averne un’intuizione empirica (senza
conoscerlo poiché l’intuizione è necessaria per la conoscenza). Ci sono delle cose che posso
pensare e conoscere ma ci saranno anche cose che io posso solo pensare ma non conoscere.
La condizione di pensabilità è il principio di non contraddizione.
Dunque le categorie non ci procurano alcuna conoscenza se non per mezzo della loro possibile applicazione
all’intuizione empirica. Questo stabilisce i limiti dell’uso dei concetti puri dell’intelletto rispetto agli oggetti.
Non possiamo fare delle categorie un uso trascendentale: non si può riferire le categorie alle cose in sé,
possiamo e dobbiamo farne solo un uso empirico, ovvero applicarle ai fenomeni (oggetti di esperienza
sensibile).
DISTINZIONE FENOMENO / NOUMENO
Due modi di guardare la cosa:
- Fenomeno: sono le cose che possiamo pensare e conoscere. Quando noi ci riferiamo agli enti
sensibili, nella loro nozione è già incluso il fatto che rimandino ad enti intellegibili che sono al di là
rispetto ai fenomeni.
- Noumeno: sono le cose che possiamo solo pensare. Concetto limite: se c’è un fenomeno deve
esserci un noumeno che ne è la vera identità.
Si configura con due sensi differenti:
o Senso positivo: l’oggetto di una intuizione intellettuale
o Senso negativo: ciò che non è oggetto della nostra intuizione sensibile. L’unico valido: ci
dice che il nostro oggetto è il fenomeno e non la cosa in sé.
LA RAGIONE E LE IDEE:
Oltre all’intelletto che lavora in maniera analitica c’è la ragione che invece ambisce a cogliere la totalità, è la
facoltà dei principi. La ragione è la facoltà dell’incondizionato, delle scienze che vanno oltre ogni esperienza
possibile.
Le forme a priori della ragione sono tre idee, intese come un concetto necessario della ragione al quale non
può essere dato nessun oggetto corrispondente nella realtà sensibile. Le idee non sono invenzioni
arbitrarie, al contrario sono imposte alla ragione stessa che tende ad arrivare a delle sintesi ultime.
Queste idee sono inoltre trascendenti, nel senso che trascendono i limiti dell’esperibile perché non c’è un
oggetto adeguato nel mondo sensibile.
1. Anima (Psicologia razionale): sintesi di tutte le conoscenze interne.
2. Mondo (Cosmologia razionale): sintesi di tutte le conoscenze esterne.
3. Dio (Teologia razionale): sintesi di tutte le conoscenze esterne ed interne.
Il problema della metafisica è che di queste idee si è voluto fare un uso costitutivo e non un uso regolativo.
- Uso costitutivo di una categoria: applicando la categoria all’intuizione empirica noi arriviamo ad
avere una conoscenza. Un uso di questo tipo è però impossibile se si considera che noi non
abbiamo l’oggetto da considerare. L’errore della metafisica è quello di procurare un oggetto
corrispondente a queste idee, di ipostatizzare queste tre tendenze, dando degli oggetti alle idee.
- Uso regolativo: possiamo servirci della finalità come strumento per cogliere all’interno della natura,
alcuni elementi che non possiamo ridurre a causa-effetto.
Il problema è quando la metafisica pretende un uso costitutivo delle idee che fa infrangere la metafisica
contro delle antinomie, dei paralogismi, e delle prove dell’esistenza di Dio.
L’anno dopo l’uscita della CRPU, la rivista di Göttingen bolla Kant come un berkeleiano: tutto è percezione e
rappresentazione. A questo punto Kant decide di togliere il quarto paralogismo dalla seconda edizione ed
inserisce una confutazione dell’idealismo.
Kant si oppone frontalmente anche a Hume, che aveva detto fosse una credenza che ci portava all’esistenza
delle cose esterne.
“Per quanto si reputi l’idealismo innocente (ma in realtà non lo è) rispetto agli scopi fondamentali
della metafisica, resta pur sempre uno scandalo per la filosofia e per la ragione umana in generale il
dover ammettere soltanto per fede l’esistenza delle cose fuori di noi (dalle quali pur ricaviamo
l’intera materia della conoscenza, anche per il nostro senso interno) con l’impossibilità di opporre
una prova sufficiente a chi intendesse porla in dubbio”
Argomento per confutare l’idealismo : “Io sono cosciente della mia esistenza nel tempo attraverso
un’esperienza esterna, esperienza che è qualcosa di più del semplice essere cosciente di una mia
rappresentazione e fa tutt’uno con la coscienza empirica della mia esistenza che non è determinabile se non
in riferimento a qualcosa che, connesso con la mia esistenza, sta però fuori di me”.
In questo modo Kant afferma che io sono consapevole che fuori di me ci sono delle cose quanto sono
consapevole della mia esistenza determinata nel tempo. Alla base della mia esperienza interna sta
un’esperienza esterna. Esiste una realtà esterna senza la quale io non potrei avere una coscienza empirica
della mia esistenza, determinata nel tempo. La realtà esterna non è un’immaginazione ma ne abbiamo una
vera e propria esperienza.
Kant affronta due tipi di idealismo:
- Idealismo problematico (Cartesio): questa forma di idealismo non nega la materia al di fuori di noi
ma ne mette in dubbio l’esistenza, per essere certi solo della propria esistenza (cogito ergo sum).
Contro Cartesio, Kant dimostra che io posso affermare la mia esistenza solo se c’è qualcosa fuori di
me perché per cogliere la mia esistenza nel tempo devo percepire il movimento (un cambiamento
di rapporti esterni) ossia il rapporto tra me e un punto fermo. Un punto fermo è la materia fuori di
me che deve esserci necessariamente per ogni determinazione temporale.
La nostra esperienza interna dipende dalla nostra esperienza esterna determinata empiricamente.
- Idealismo dogmatico (Berkeley): Kant l’ha già discusso nell’estetica (CRPU) quando ha detto che
spazio e tempo non sono cose che stanno fuori di noi ma sono delle forme a priori.
“A dire il vero una certa ansietà̀, aveva indotto [Kant] a cambiare nelle edizioni posteriori certi
luoghi della prima edizione della Critica della ragion pura, nei quali egli si era persino dichiarato, in
linea di massima, idealista, in altri nei quali egli apparentemente confutava l’idealismo.
Ma la via verso l’idealismo era stata tuttavia aperta: la cosa in sé era troppo indeterminata, anzi troppo
vuota, per potersi mantenere (giacché tutto ciò che fa dell’oggetto una cosa reale deriva dal soggetto), e
quindi il passo immediato fu incontestabilmente che rimase soltanto il soggetto, l’io”.
(Schelling, Lezioni monachesi)
Il passaggio dal ritenere la cosa in sé come qualcosa di inconoscibile che causa le sensazioni in me a
muovere dal soggetto andando a vedere come il soggetto produca anche quello che il soggetto non è.
La scoperta kantiana della libertà è fondamentale per i tre successori di Kant che non si accontentano che ci
sia il piano della conoscenza e quello della libertà.
“All’idealismo ridotto a sistema non basta punto asserire “che l’attività, la vita e la libertà siano il vero
reale”, [...] si esige piuttosto anche la dimostrazione inversa, che tutto il reale (la natura, il mondo delle
cose) abbia per fondamento l’attività, la vita e la libertà” -> Le leggi finalistiche che muovono la libertà
devono essere le leggi della natura e quella libertà che appartiene alla parte noumenica dell’uomo deve
concretizzarsi nella storia.
Contro questo genere di visione si sono mosso gli interpreti che fanno notare quanto la filosofia classica
tedesca sia variegata (“un arcobaleno di colori” H. Arendt). Questi ribadiscono che non si possono mettere i
tre filosofi (Fichte, Schelling ed Hegel) come se si trattasse di un superamento dialettico perché parte della
loro produzione avviene in contemporanea.
In maniera consequenziale, il criticismo kantiano da origine alla dottrina dfiella scienza fichtiana, che a sua
volta doveva avere per effetto la dottrina dell’uno tutto.
Per Jacobi, queste due dottrine, sono due forme di razionalismo (in senso negativo: da imputare a Spinoza,
quindi un razionalismo ateo).
- Il primo, quello di Fichte, uno spinozismo rovesciato: per Spinoza l’unica sostanza era la natura, per
Fichte l’unica realtà è il soggetto. Secondo Jacobi, solo con questa teoria è possibile una filosofia
pura e immanente, dove ogni cosa è data con la ragione o per mezzo di essa.
- La seconda, quella di Schelling, è uno spinozismo capovolto in un altro senso: Schelling unisce lo
spinozismo originale (della natura come unica sostanza) con la variazione di Fichte. Ne consegue la
dottrina dell’uno tutto, una forma di panteismo.
Entrambe queste forme sono due razionalismi nichilisti: tutta la realtà, gli individui e le cose vengono
ricondotte all’interno del soggetto e delle sue forme di pensiero tanto che la loro filosofia risulta essere un
pensiero del nulla.
REINHOLD E LA RAPPRESENTAZIONE:
Se Jacobi si pone in maniera critica agli sviluppi del pensiero kantiano, al contrario, Reinhold ritiene che
Kant sia riuscito nell’impresa di abbattere il dogmatismo e lo scetticismo. Il problema è che Kant non è
ancora stato portato a piena coerenza, per questo dogmatici e scettici continueranno a polemizzare.
Per mettere a tacere le discussioni tra queste due parti Reinhold ritiene che si debba sviluppare una
filosofia elementare. “Elementare” perché si fondi su un principio primo incondizionato, condivisibile da
tutti così da arrivare ad un accordo. Questo principio primo deve essere un fatto che tutti possano cogliere
in se stessi.
Quello che va sviluppato secondo Reinhold è una teoria della rappresentazione: alla base della
rappresentazione sta la coscienza che quindi è il primo principio che rende possibile ogni rappresentazione.
“La coscienza ci costringe ad ammettere concordemente che ogni rappresentazione implica un soggetto
rappresentativo e un oggetto rappresentato, i quali devono entrambi essere distinti dalla rappresentazione
a cui appartengono.”
(Saggio di una nuova teoria della facoltà rappresentativa dell'uomo)
In ogni rappresentazione abbiamo: un rappresentante ed un rappresentato che devono essere distinti ma
uniti nella coscienza che si qualifica come una struttura relazionale dato che nasce dalla sintesi tra un
soggetto che rappresenta ed un oggetto rappresentato.
Reinhold ha portato la supposta cosa in sé dentro la coscienza: l’oggetto è quel qualcosa che rappresenta la
passività all’interno della rappresentazione.
FICHTE (1762-1814)
Dal guadagno della rappresentazione di Reinhold parte il pensiero fichtiano, il quale ritiene che non basti
fermarsi alla coscienza ma bisogna andare prima di questo fatto per vedere l’atto con cui si istituisce la
coscienza.
Il problema è che Kant è minacciato dalle critiche che gli si sono rivolte da Jacobi e Schlze, il quale scrive
un’opera dal titolo “Enesidemo” (Enesidemo è un filosofo scettico greco antico. Lo scopo generale della sua
opera è quello di stabilire che nulla può essere compreso in modo stabile né mediante la sensazione, né
mediante il pensiero, e per questo motivo, né i pirroniani né gli altri filosofi conoscono la verità delle cose)
in cui fa un’analisi della filosofia elementare di Reinhold in maniera scettica. La prima critica che muove a
Reinhold è che il suo principio, la coscienza, non può essere un principio primo perché è un fatto e quindi
contingente e particolare. La seconda critica colpisce Kant attraverso Reinhold: Kant mutua le categorie
dalla logica formale perciò la logica trascendentale kantiana dipende dalla logica formale significa
condannare il kantismo perché allora l’ordine che Kant ha pensato per spiegare la conoscenza resta nel
mero piano sensibile senza mai arrivare al piano della realtà.
L’intento di Fichte è quello di mettere in sicurezza i fondamenti della filosofia di Kant e per farlo deve
elaborare una dottrina della scienza che assicuri la verità della coscienza nella sua esperienza del mondo.
Questa scienza della scienza deve essere alla base di tutte le altre scienze, un progetto enciclopedico troppo
complicato per essere portato a termine tutto, infatti, ne riesce a terminare solo la parte che più gli
interessa. Da un lato scrive la fondazione del diritto naturale ed i principi di etica secondo la dottrina della
scienza.
Prima esposizione della dottrina della scienza (1794): Fichte si rende conto che per fondare il criticismo su
basi solide bisogna individuare un principio primo/incondizionato che tenga insieme lato teoretico e lato
pratico. Allora, muove da un esercizio di introspezione scoprendo che nella coscienza possiamo distinguere
due tipi di rappresentazioni:
- Rappresentazioni accompagnate dal sentimento di libertà: quelle di immagini fantastiche la cui
causa siamo noi stessi
- Rappresentazioni accompagnate dal sentimento di necessità: quelle che sembrano dipendere da
cose che esistono indipendentemente da noi. Di queste si può affermare che la causa sia la cosa in
sé, gli oggetti esterni che causano la rappresentazione nella nostra mente.
Il problema è che l’idea di una connessione della nostra coscienza con la cosa in sé, completamente
indipendente da essa, permette allo scettico di avere ragione. Per battere lo scettico si deve negare
che la rappresentazione di oggetti esterni sia causa della cosa in sé di modo che rimanga solo il
soggetto conoscente. A questo punto bisogna però spiegare come il soggetto possa crearsi
indipendentemente la rappresentazione dell’oggetto esistente in sé.
Fichte si rende conto che nel conoscere è all’opera una circolarità ineludibile: lo spirito finito che deve
porre al di fuori di sé qualcosa di assoluto e dall’altra parte riconoscere che questa cosa esiste in sé solo per
esso. La coscienza opera come Re Mida: si nutre di oggetti reali e trasforma tutto ciò che percepisce in un
oggetto per lei. La cosa in sé non esiste fino a quando non la si possiede e appena la si possiede sfugge.
Il realismo cerca di uscire dal circolo invano perché cade sotto la trappola dello scetticismo. L’unica
soluzione, secondo Fichte, è spiegare come si produce questo circolo: L’Io è in grado di lasciarsi modificare
nella propria attività da istanze che si generano nella relazione con ciò che lui stesso non è.
Da un lato Fichte decostruisce l’oggetto come cosa in sé, dall’altro lato mette in luce la struttura dell’Io con
cui questo produce i suoi contenuti di coscienza.
Per vedere come funziona davvero questa ineludibile circolarità bisogna capire che alla base della sintesi
che Reinhold ha individuato tra rappresentante e rappresentato non c’è un fatto ma un’azione in atto con
cui la coscienza si autodetermina. Questa azione in atto è la Tat-Handlung (termine che unisce la
processualità e il termine dell’azione) ricavato da un verso del “Faust” di Goethe. Questo principio primo
incondizionato è l’atto con cui la coscienza pone se stessa, cogliibile attraverso un’intenzione intellettuale.
In Kant l’appercezione trascendentale coincideva con la spontaneità dell’intelletto, di cui Fichte ritiene che
possiamo avere un’intuizione intellettuale.
I tre principi della dottrina della scienza: sono in grado di spiegare la conoscenza e di dare un fondamento
alle conclusioni di Kant perché fondano i tre principi logici (identità/non contraddizione/ ragion sufficiente),
le tre categorie kantiane della qualità e corrispondono alle tre forme di giudizio (tetico/antitetico/sintetico).
Questi tre principi non vanno pensati come scissi o come consequenziali perché nella nostra concreta
esperienza sono sempre uniti e contemporanei.
1. Il primo principio assolutamente incondizionato: Fichte mostra che il principio logico è possibile
solo astraendo da quello che concretamente accade nella coscienza. Egli muove dal principio di
identità, che ha un valore solamente formale ed ipotetico (A=A non comporta la reale esistenza di
A), al primo principio incondizionato (IO=IO) ovvero l’IO che pone A come uguale a se stesso
necessariamente. In quanto pura attività l’Io pone se stesso come esistente e nell’autocoscienza si
sa come identico a sé. L’Io prima dell’autocoscienza non esiste, nasce solo quando è cosciente di se
stesso. Fichte opera un’inversione: è l’attività che pone un Io e gli da una consistenza.
2. Il secondo principio condizionato nel suo contenuto (-| A non è = A): il contenuto è dato dal primo
principio che ci informa che A=A ed IO=IO. (La negazione dell’Io si può dedurre dal primo principio)
Quello che risulta incondizionato ed indeducibile dal primo principio è la negazione. Questa
seconda attività è una negazione dell’attività: l’Io, nella propria spinta a porsi, si trova ad essere
negato. Se voglio rappresentare una cosa qualunque devo opporla alla rappresentante: nella sua
attività, l’Io, trova un ostacolo che è l’altro da sé. Il non-Io è frutto dell’autolimitazione dell’Io che
pone ciò che lo limita.
3. Il terzo principio condizionato della sua forma: Né il porre né l’opporre, presi da soli, restituiscono
l’esperienza concreta che ci viene dal terzo principio, la mediazione tra le prime due attività che si
contrappongono. Il terzo principio mantiene entrambe le attività come opposte ma unite nella
coscienza.
Come si genera il non-Io: Il non-Io è niente senza l’azione dell’Io che lo pone come opposto da sé attraverso
la facoltà dell’immaginazione produttiva con cui l’Io da una forma a quel qualcosa che limita la sua attività.
Quella dell’immaginazione produttiva è una produzione inconsapevole (pre-cosciente).
L’Io si scopre limitato nella sua attività, questo ostacolo (Anstoss) mette in moto l’immaginazione che senza
questo meccanismo non potrebbe scattare. Il fatto che ad un certo punto l’attività dell’Io incontri un
ostacolo fa si che quell’attività si possa configurare come uno sforzo (Streben).
Se noi restassimo sul piano dell’Io assoluto non si darebbe nessuna autocoscienza perché non si potrebbe
dire Io non avendo altro al di fuori di sé.
Questo urto è stato poi interpretato dai romantici come l’esperienza dolorosa della finitezza dell’uomo, è
anche quello che ha fatto parlare degli interpreti del titanismo di Fichte: incessante tensione al
superamento del limite ed al tempo stesso dell’imprescindibilità del limite, che è la condizione della nostra
possibilità di agire.
L’Io assoluto ricompare come quell’idea di una spontaneità dell’auto-posizione in cui noi possiamo
realizzarci. Senza questa idea primitiva del nostro essere assoluto non ci sarebbe la tensione a porre se
stessi, senza quest’ultima non ci sarebbe il sentimento del limite e quindi nemmeno il mondo
dell’esperienza sensibile potrebbe esistere: questo principio funge da pungolo per l’Io concreto.
Il primo principio incondizionato è necessario per l’esigenza pratica infinita dell’Io, la quale consiste nel
determinare sempre di più il non-Io.
Questo circolo non è perfetto come uno di quelli formulati da Hegel il quale dirà che quello di Fichte è un
“cattivo infinito” che è sempre una tensione al limite.
Secondo Fichte invece è giusto affermare questa tensione al limite fino a quando l’uomo non si sarà fatto
Dio. La sua posizione rimane fedele alla posizione trascendentale kantiana: il finito è sempre in tensione tra
assolutezza e finitezza senza mai diventare assoluto.
Ne “La destinazione del Dotto” dedicata alla destinazione dell’uomo, Fichte spiega la dinamica tra l’Io
assoluto e l’Io empirico. Se nella sfera teoretica l’Io pone se stesso come limitato dal non-io, nella sfera
pratica l’Io si pone come determinante il non-Io, che consiste nel suo essere libero.
L’uomo è da un lato razionale, per il quale egli è ciò che è, dall’altro lato è sensibile quindi recettivo. Per
giungere alla completa coerenza con noi stessi dobbiamo cercare di educare la sensibilità. Il controllo sulla
sensibilità è possibile tramite la cultura che è un antidoto utile per conseguire la piena armonia con se
stessi.
La meta suprema dell’uomo, sottomettere tutta la parte sensibile, è irraggiungibile anche nell’eternità:
allora, il vero scopo dell’uomo sarà tendere il più possibile alla perfezione (illuminismo). L’uomo esiste per
rendere migliore tutto ciò che lo circonda: deve permeare tutto ciò che lo circonda con la sua razionalità.
L’intellettuale dovrà favorire gli uomini nel loro compito, è al servizio della società, deve sorvegliare il
progresso dell’umanità mettendo le proprie conoscenze al servizio della società. Per fare ciò deve essere un
modello morale e dare il buon esempio a tutti gli altri.
Fichte se la prende con Rousseau il quale aveva messo come madre di tutti i mali la cultura sociale che
corrompe il buon selvaggio pacifico e autarchico. Al contrario, Fichte crede che Rousseau si sia sbagliato:
l’età dell’oro arriverà con il continuo perfezionamento.
II FASE (1798-1810)
Questa fase inizia con un evento terribile, nel 1798, in cui avviene la disputa sull’ateismo. Fichte scrive “Sul
fondamento della nostra fede in un governo divino nel mondo” che causa l’accusa di ateismo da parte di
Jacobi: di ridurre Dio al semplice ordine morale del mondo. Questa accusa costringe Fichte a dimettersi
dall’Università di Iena trasferendosi a Berlino, inoltre, l’anno seguente Kant giudica la dottrina della scienza
una “semplice logica” fatta di riflessioni astratte che non arrivano all’oggetto reale della conoscenza. Infine,
anche Schelling, seppure inizialmente entusiasta del sistema fichtiano, gli rimprovera di non aver
considerato sufficientemente il non-io e di ricondurre tutta la realtà al primo principio, l’io
Fichte, per rispondere alle critiche, formula l’esposizione della dottrina della scienza (1804) che rappresenta
uno spostamento rispetto alle prime edizioni.
In questa seconda fase reintegra le nozioni di assoluto, essere, Dio che sono la condizione trascendentale di
quel sapere che diventa la manifestazione dell’assoluto. Quindi, l’Io del primo principio passa in seconda
posizione in questa fase: non è più il fondamento originario della realtà ma è l’immagine di un’ulteriore
realtà. La dialettica in questa fase si fa ontologia: l’assoluto non può essere posto né nell’essere, inteso
come oggettività, ma nemmeno nell’Io perché se poi questo Io si oggettiva e aliena, allora questo diventa la
cosa in sé. Quello che risponde alle accuse di Schelling e di spinozismo è che lui non ha intenzione di ridurre
l’assoluto né all’essere né al pensiero perché entrambe le posizioni cadono nell’idea di una “ morta cosa”,
contraria all’idea di libertà alla base di tutto. La dottrina della scienza non vuole essere né una metafisica
dell’oggettività né una metafisica della soggettività perché tanto il realismo quanto l’idealismo non vanno
assolutizzati. La sua prospettiva può essere chiamata un reale-idealismo o un ideale-realismo che
rimangono sempre ancorati nella prospettiva trascendentale. Fichte crede di andare nella direzione di Kant
che aveva cercato l’assoluto come impenetrabile radice in cui si uniscono mondo sensibile e mondo
intellegibile. Il sapere assoluto, unione dell’io e del non-Io/ del sapere soggettivo e oggettivo, ha sopra di sé
un principio ulteriore rispetto a sé: l’assoluto a cui si può attingere astraendo dalla relazione soggetto-
oggetto.
Oltre il sapere c’è un principio più alto di cui la dottrina della scienza deve indicarne la genesi. Fichte chiama
questo principio puro essere che è da sé (auto-originato); in sé (auto-incluso) mediante sé (si auto-
comprende) quest’ultima è la via di accesso per l’Io finito all’assoluto.
Questo puro essere è pura attualità qualificata da Fichte come coincidenza di vita e di essere. Quello di
Fichte è un gioco di parole (il termine leiben può essere inteso sia come “vita” che come “vivere”) che non
permette di intendere la vita come una vita divina in prima persona ma nemmeno intesa come l’essere
necessario. Il nostro linguaggio ed il nostro pensiero stanno sempre nella mediazione e tentano sempre di
oggettificare l’assoluto. Nella prospettiva trascendentale, l’assoluto rimane inconcepibile: il sapere può
cogliere l’assoluto perché è ciò che lo fonda. Accanto all’essere dell’assoluto c’è anche il suo esserci, ossia
l’essere come manifestazione di questo assoluto.
Secondo Fichte, la coscienza deve cogliere in sé il dovere assoluto di conoscere l’essere per cui si realizza la
vita eterna. In questo punto Fichte trova il legame tra la dottrina della scienza ed il nucleo veritativo del
cristianesimo: nel dogma cristiano il fine ultimo è che l’uomo pervenga alla vita eterna. Il soggetto non
sparisce in questa seconda fase però diventa funzione di un movimento che lo eccede. L’Io concepito come
assoluto nella prima fase, diventa ora il tramite attraverso cui questa vita si coglie nelle sue manifestazioni.
Questa dottrina viene spiegata nell’introduzione alla “Vita beata” del 1806 (un ciclo di lezioni tenute da
Fichte ad un uditorio piuttosto vasto) in cui Fichte sottolinea la vicinanza tra il nucleo fondamentale della
dottrina della scienza e quello metafisico del cristianesimo che vede presente nel prologo del Vangelo di
Giovanni (Questa fase viene anche chiamata fase giovannea). La sua dottrina della scienza non ha
intenzione di dimostrare la verità della religione cristiana, né si può usare il cristianesimo per dimostrare la
verità della dottrina della scienza.
Nel contenuto della dottrina di Giovanni va distinto ciò che è in sé valido e vero da ciò che è stato vero per
Giovanni. Solo ciò che è metafisico, non ciò che è storico, rende beati: all’interno del cristianesimo c’è un
contenuto storico/dogmatico che non è importante. Ciò che è importante è il contenuto metafisico a cui il
filosofo può approdare anche senza Gesù Cristo, seguendo la via alla vita beata indicata dalla dottrina della
scienza. La beatitudine di Gesù è raggiungibile da chiunque purché si intraprenda la via filosofia della
dottrina della scienza che conduce alla vita beata.
Distingue tra un essere puro della vita, l’esserci di Dio, da un’esistenza esteriore, il mondo, che è l’immagine
dell’immagine di Dio.
Il compito della dottrina della scienza è di spiegare come dall’unità della vita originaria si generi la
molteplicità fenomenica. È uno schema neo-platonico (dall’uno ai molti) che scarta l’ipotesi creazionista,
considerata una non-risposta: pone il passaggio dall’essere assoluto alla molteplicità attraverso un atto di
arbitrio che è ingiustificato ed introduce un pericoloso divenire in Dio.
La maniera più corretta è interpretare il prologo del Vangelo di Giovanni dove si dice come sono andate le
cose: “In principio il Verbo era presso Dio, tutto è stato fatto per mezzo di lui” Dio è identico al suo Logos,
per mezzo del quale tutto è creato. Il Logos del Vangelo di Giovanni diventa il sapere come manifestazione
eterna di Dio. Questo sapere è costituito dalla riflessione che si sdoppia in un pensiero di sé e in una
proiezione che appare come un essere esterno, la molteplicità. In questo senso il mondo è creato tramite il
sapere e nel sapere.
Questa de-sostanizalizzazione dell’Io a profitto dell’assoluto, l’aver posto la soggettività in secondo piano ha
delle implicazioni dal punto di vista etico: nell’introduzione alla “Vita beata” Fichte descrive la teoria della
quintuplicità (che anticipa gli stadi dell’esistenza di Kierkegaard): cinque prospettive in base alle quali il
soggetto determina la propria esistenza. La scelta tra uno o l’altro di questi orizzonti dipende dalla libertà.
Fichte abbandona l’idea dell’imperativo categorico kantiano, per fare della dottrina della scienza una prassi
vivente.
1. Godimento sensibile: coloro che vivono per il mero godimento sensibile, che leggono tutto in
maniera edonistica.
2. Legge giuridica: in questo punto Fichte colloca la legge morale kantiana. La libertà si esprime sotto
la formula della legge. Questa visione sembra difettosa perché la ragione deve imporsi sulla ragione
in maniera contrastante, quindi l’uomo non è appacificato nella sua interezza ma deve dominare
una parte sull’altra.
3. Morale superiore: non si limita più ad ordinare ciò che è presente ma crea il nuovo, non mira più al
dovere per il dovere ma l’autorealizzazione. La libertà si fa potenza creatrice: mira a realizzare la
bellezza e la potenza ma ha il limite di rimanere ancorata all’Io, il che fa arrestarsi al successo ed
alla riuscita.
4. Religione: il sacro, il bene ed il bello non sono nostro prodotto ma sono la manifestazione
dell’intima essenza di Dio in noi. L’uomo moralmente religioso vuole diffondere moralità e religione
non lo fa per sé ma perché è il tramite di Dio, è dominato dall’amore.
5. Scienza: La dottrina della scienza che riconduce a concettualità quello che in religione rimaneva in
termini teologici. Questo punto di vista ci consente di giungere alla saggezza.
La beatitudine consiste nell’essersi elevati alla saggezza che consiste nel trascendere la propria
individualità per capire che la nostra vita è manifestazione necessaria della vita divina.
Questa beatitudine che coincide con l’amore per Dio somiglia all’amore intellettuale spinoziano
perché ha la stessa immanenza (beatitudine terrena) in cui quello che vale non è la riuscita ma ci
dona la tranquillità interiore che ci permette di superare la fatica.
SCHELLING
Il più inquieto e romantico degli idealisti per l’importanza che da al tema della natura e all’arte che
addirittura diventa l’organo della filosofia inoltre per il suo collocarsi all’interno dell’assoluto con uno
sguardo verso l’aspirazione dell’uomo a ritrovare l’infinito nella finitezza.
Il motto della scuola di Tubinga, adottato anche da Schelling è riassumibile nell’”unirsi all’uno tutto”.
Dall’altro lato Schelling è il filosofi delle polarità: dogmatismo e criticismo; filosofia della natura e filosofia
trascendentale (dell’Io). Queste polarità si conciliano nel vertice della filosofia immanentistica
rappresentato dalla filosofia dell’identità che si esplicita in due opere fondamentali: “Esposizione----”;
“Sistema_--” queste polarità trovano un sistema nell’unità indifferenziata della ragione.
Schelling subisce una serie di critiche annunciate dal sistema di Hegel ma che diventano più esplicite nella
prefazione della Fenomenologia dello Spirito, quando Hegel rimprovera a Schelling che la sua idea di
assoluto non ha in sé un principio di differenziazione.
Inoltre, Jacobi muove delle critiche che fanno cadere il sistema di Schelling.
Nuova fase del sistema shelliniano chiamato filosofia della libertà: “filosofia e religione”; “ricerche
filosofiche sull’essenza della libertà umana” in cui Schelling per spiegare il finito a partire dall’assoluto
reintrouce una polarità in Dio
L’ultima fase del pensiero schelliniano vede ancora una polarità tra filosofia negativa e positiva, per cui
Schellling abbandona la prospettiva della via trascendentale, inaugurata da Kant, per elaborare una filosofia
che muove dall’esistente. Le due opere che rappresentano questa fase sono postume: “La filosofia della
mitologia”; “filosofia della ress---”
PRIMA FASE: ADESIONE A KANT e FICHTE
Per Schelling la grande rivelazione è Fichte: nel 1795/1795 Schelling si avvicina molto a Fichte e scrive tre
opere importanti (“L’Io come origine della filosofia”; “lettere criticismo e dogmatismo”).
Kant apre la via all’idealismo che viene condotto in maniera coerente da Fichte: anche per Schelling
significa sbarazzarsi della cosa in sé e ricomporre la frattura tra mondo fenomenico e mondo noumenico.
Fichte ha posto l’Io come principio fondamentale ma ha lasciato inspiegato come è posto l’Io e come è
posto il mondo. Fichte afferma che tutta la natura è svanita nell’astratto concetto del non-Io in cui non c’è
da percepire altro che la sua opposizione al soggetto; egli si occupava solo dell’Io e non a sufficienza del
non-Io riducendo la natura ad un semplice momento interno al soggetto.
Schelling si propone di conciliare l’idealismo fichtiano con la realtà, completando così l’opera di Fichte. Si
tratta di allargare i confini dell’idealismo per vedere come il non-Io si fa per me natura. Bisogna correggere
Fichte con Spinoza, un dogmatico capace di sintesi. Se per Fichte l’Io è il principio dell’infinità soggettiva,
per Spinoza la sostanza è il principio dell’infinità oggettiva: sono due posizioni speculari che vanno unite in
un assoluto che sia unità e indifferenza di entrambi. Si tratta di arrivare ad un monismo per ricostruire il
dualismo di natura e spirito, di reale ed ideale. Mondo ideale e reale devono essere armonizzati, il che si
può fare solo ammettendo un’attività oggettiva che si estrinseca in maniera conscia, mentre in natura
opera in maniera inconscia. Deve esserci omogeneità tra spirito e natura, possibile solo ammettendo che
alla base di entrambe c’è la stessa attività.
Schelling decide di sviluppare i due poli dell’idealismo sviluppando da un lato la filosofia della natura e
dall’altro la filosofia dello spirito.
“Spirito e materia sono una cosa sola, oppure il grande salto, che si è cercato così a lungo di evitare, diviene
inevitabile [...]Noi vogliamo non già che la natura concordi accidentalmente (e magari per la mediazione di
una terza cosa) con le leggi del nostro spirito, ma che in se stessa e originariamente non soltanto esprima
ma realizzi veramente le leggi del nostro spirito”
Occorre che anche la natura sia percorsa dalla medesima spontaneità e finalità del mio spirito, il che è
possibile se la natura si fa “spirito visibile” e se lo spirito si fa “natura invisibile”.
Nell’introduzione al sistema di idealismo trascendentale, Schelling afferma che inconscio e conscio sono
inseparabili. Purtroppo è la riflessione che li separa: ogni riflessione è uno spezzare delle identità che
stanno alla base originaria. Visto che la sua vuole essere una riflessione andrà a sviluppare le parti della
filosofia della natura e della filosofia trascendentale, due momenti della filosofia dell’identità.
- La filosofia della natura parte dal realismo e perviene all’idealismo; mostra come la natura faccia lo
spirito
- La filosofia trascendentale parte dal soggettivo e fa derivare l’oggettivo, muove dall’idealismo al
realismo; mostra come l’intelligenza si faccia natura
Schelling fa un’operazione diversa da Kant e Fichte: non cerca di trarre l’oggettività della conoscenza
spiegandola come un prodotto dell’Io ma spiegandola come un lato di una totalità che comprende sia
l’oggettività che la soggettività che non nascono dall’interno dell’Io ma sono viste come componenti di un
assoluto che li comprende e trascende entrambi.
Quello di Schelling diventa, rispetto al reale idealismo di Fichte, un idealismo oggettivo che include realismo
ed idealismo perché egli subisce il fascino delle visione dell’assoluto di Schiller o Goethe. L’intento di
Schelling è fare il prequel della Tat-Handlung fichtiana, vuole esplorare meglio l’attività inconscia dello
spirito.
La filosofia della natura di Schelling si sviluppa sulla base di tre influssi principali:
- Scoperte in ambito biologico che mettono in crisi il paradigma Newtoniano
- Nuova concezione della natura contrastante il meccanicismo: Goethe nella “metamorfosi delle
piante” in cui viene fatto notare che la natura è una Dea vivente, il che implica che sia produttiva ed
in costante evoluzione ; Kant nella “Critica del Giudizio” nella parte che si occupa dell’organismo
come fine della natura che non può essere spiegato meccanicamente come una macchina. In un
organismo c’è un legame tra parti e tutto: le parti sono funzionali al tutto che non è mai la mera
sommatoria delle parti ma la eccede sempre. Ogni vivente è al tempo stesso individuo e pluralità
(Leibniz: materia vivente come uno stagno pieno di pesci).
Le leggi meccaniche sono insufficienti per rendere conto di un organismo nella sua complessità e
richiedono l’idea che nella natura operi una forza orientata teologicamente. Il fondamento
dell’unità del molteplice può essere intuito da una intuizione intellettuale che quindi ci sfugge.
La finalità della “critica del giudizio” è uno strumento utile per giudizi riguardo la natura.
- Tradizione neo-platonica rinascimentale: l’intera natura viene vista come un gigantesco organismo.
Ne “L’anima del mondo” la natura è presentata come un tutto-vivente, quindi, nella natura si
esplica un’infinita attività produttrice di cui i singoli organismi non sono altro che limitazioni di
questa attività originaria.
Il meccanismo messo in campo da Schelling è quello usato da Fichte per spiegare l’attività infinita
dell’Io che incontra lo scarto del non-Io, in seguito alla quale deve limitarsi e porre l’io limitato e
l’oggetto. La stessa cosa accade nel meccanismo della natura in cui sono presenti una forza infinita
produttiva della natura che quando incontra il limite viene data la forma dell’organismo. Ma
essendo di per sé inarrestabile, questa forza, tutto è in continua metamorfosi.
La natura viene vista come spirito inconscio in moto verso la coscienza perché anche nella natura c’è
un’intelligenza. L’uomo rappresenta il vertice della natura e l’inizio dello spirito.
La seconda parte della filosofia dell’identità consiste nel cammino diverso: come lo spirito si faccia natura.
Come nella natura c’è un meccanismo di forze in contrato così anche nell’Io c’è una lotta tra l’attività reale
(inconscia con cui l’Io produce l’oggetto come dato) e l’attività ideale (sente l’oggetto come qualcosa di
estraneo ma lo oltrepassa e ricomprende a sé, intuendosi come senziente nella riflessione).
Questo movimento è descritto da Schelling attraverso le tre epoche:
- Prima epoca: sensazione: l’Io diventa oggetto
- Seconda epoca: riflessione: attività ideale: filosofia critica. Quando l’intelligenza riflette su di sé non
riconosce più la natura come semplice oggetto ma lo vede come impregnato di razionalità, come
organismo e riconosce se stessa nel prodotto che ha davanti, cogliendosi come organismo vivente.
- Terza epoca: astrazione da qualsiasi oggetto e da sé come oggetto, l’intelligenza si coglie nella sua
pura forma, cioè come volontà spontanea che si autodetermina, l’Io si coglie come io-producente.
La riprova concreta dell’intuizione intellettuale è data dall’intuizione estetica che rende concreta
l’intuizione intellettuale. Da qui nasce la superiorità dell’arte sulla filosofia: Schelling crede che l’arte sia il
vero e unico organo della filosofia che rende testimonianza a ciò che la filosofia non può rendere conto.
“L’arte è l’unico vero ed eterno organo della filosofia e insieme l’unico documento che rende testimonianza
sempre e incessantemente a ciò che la filosofia non può esporre esternamente, e cioè il privo di coscienza
nell’agire e nel produrre, e la sua identità originaria con il conscio. Appunto perciò l’arte è per il filosofo quel
che vi è di supremo, perché gli apre per dir così il sancta sanctorum ove in eterna e originaria unione, quasi
in un’unica fiamma, arde ciò che nella natura e nella storia è separato, e ciò che nella vita e nell’agire, come
nel pensiero, deve eternamente fuggirsi»
Se la filosofia porta alla verità solo un frammento dell’uomo, l’arte può portare alla verità l’uomo intero.
Il grosso vantaggio dell’arte sulla natura è che in quest’ultima conscio e inconscio sono ancora in uno stato
embrionale mentre nell’arte l’unione tra conscio e inconscio è dimostrata dopo la loro separazione dalla
riflessione.
Filosofia della natura e filosofia trascendentale costituiscono i due poli della filosofia dell’identità che
rappresenta il culmine dell’idealismo immanentista di Schelling, il quale chiama l’assoluto “ragione assoluta
intendendola come indifferenza totale dell’oggettivo e del soggettivo.
Totalità considerata come l’Uno neoplatonico: è l’assoluto indifferenziato al di fuori della quale non c’è
nulla.
L’identità assoluta non è solo indifferenziata ma è anche : Schelling non riesce a spiegare come da questa
totalità si generi il molteplice finito perché si è tagliato la strada con due soluzioni: quella creazionista e
quella emanazionista (che prevede un fuoriuscire da sé dell’assoluto ma tutto è l’assoluto, nulla è fuori da
questo). Inoltre, tra l’assoluto ed il finito c’è un abisso che riduce il secondo ad un’ombra, ad una negatività.
Piovono le critiche a Schelling che deve spiegare da dove salta fuori il finito, come dall’uno si passa ai molti.
Un primo tentativo viene fatto da Schelling, nel 1804, in “Filosofia e religione” dove è costretto ad implicare
un salto dall’assoluto. Bisogna reintrodurre l’idea cristiana della caduta come peccato originale e l’idea della
caduta in senso platonico, inteso come un atto di libertà connesso alla finitezza stessa.
L’egoità è l’espressione universale, il principio più alto di ogni finitezza che pone il mondo sensibile. L’egoità
ponendo sé si distacca dal tutto e produce negazioni dell’infinito. Schelling dice che l’atto libero che pone se
stesso cade dall’assoluto e poi nel mondo delle idee pone delle rappresentazioni finite ma immagini
dell’assoluto. La caduta è secondo Schelling una colpa felice perché diventa il mezzo di realizzazione
dell’assoluto che manifesta la sua idealità nella realtà.
La prospettiva diventa escatologica: il fine dell’universo è quello della perfetta fusione con l’assoluto.
Se in Dio fondamento ed esistenza sono separabili, questi due principi sono separabili nell’uomo, ed è in
questa separabilità che sta la possibilità del bene e del male, propria dell’uomo che è un’essenza a sé
stante, separata da Dio, che è libero di svincolarsi dalla volontà universale divina, dal principio luminoso per
scegliere la propria volontà.
La volontà deve essere possibilità del bene e del male, quest’ultimo deve essere un’altra scelta rispetto al
bene (non una privatio boni). Quando l’ipseità pone la propria volontà al posto della volontà universale si
compie il male, introducendo uno squilibrio di forze all’interno del mondo.
Se ogni essere si rivela solo nel suo opposto, l’amore per diventare reale ha bisogno del suo opposto, per
questo Schelling scrive che se il male non fosse, non dovrebbe esserci nemmeno Dio. Il male serve per dare
consistenza al bene, senza il quale non potrebbe diventare reale.
Nelle “Ricerche” c’è un trionfo del bene ed un ritorno del male al fondamento dell’esistenza.
L’ultima fase della filosofia di Schelling, che si apre negli anni ‘20, in cui si contrappone alla filosofia
hegeliana, intendendola come una filosofia che passa sempre per il momento della negazione: considera
l’essenza senza pervenire all’esistenza, si occupa solo della possibilità diventando una scienza astratta della
ragione che dal suo punto di vista non è più sufficiente.
A questa scienza della pura ragione è opportuno contrapporre una filosofia positiva che cerca di spiegare
l’esistente come attualità. Questo passaggio può essere operato attraverso uno sforzo di attualità. Si può
compiere solo con un’estasi della ragione che è un’apertura dell’Io alla rivelazione concreta di Dio nella
storia.
HEGEL (1770-1831)
Alla morte di Hegel, egli era conosciuto essenzialmente per “La fenomenologia dello spirito”, “La scienza
della logica”, “L’enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio”, “i lineamenti di filosofia del diritto”,
un corpus di opere che rende l’immagine di un pensatore del sistema: da un lato appariva come colui che
aveva compiuto in maniera definitiva la storia della filosofia, dall’altra parte questo sistema appariva come
artificioso e soffocante.
Questa immagine muta in seguito alla scoperta degli scritti teologici giovanili che rimasero inediti, scritti
quando Hegel si trovava a Berna e Francoforte, prima del suo passaggio a Jena, che furono pubblicati da
Nohl nel 1907. Questi scritti giovanili, che vanno dal 1793 al 1800, restituiscono l’immagine di un Hegel che
arriva al sistema solo dopo numerose preoccupazioni concrete. Il tema di questi scritti è la questione
religiosa, la portata morale e culturale della religione, perché la sua preoccupazione è un rinnovamento
culturale e politico della Germania. Il problema della storia rimane centrale in tutti i suoi scritti tanto da
essere definito il filosofo della dialettica e della storia.
La Germania, ai tempi, era un paese molto arretrato per le sue strutture burocratiche e politiche. Anche
Hegel studia in un ambiente chiuso rispetto alle novità che circolano al tempo.
UN NUOVO METODO
Il metodo della nuova scienza che aveva funzionato fino a poco tempo prima non serve più. Il modello deve
essere capace di cogliere il movimento della storia, questo metodo è la dialettica.
“La costituzione della Germania” testo che Hegel compone dopo la disfatta del Sacro Romano Impero che si
disgrega facendo annettere agli stati più grandi i suoi piccoli territori. La conseguenza che ne trae Hegel è
che la Germania non è più uno stato perché non è riuscita a contenere l’attacco di Napoleone.
Per Hegel lo stato è un modo di vivere, è l’incarnazione dello spirito di un popolo che deve indicare uno
scopo. Quindi, la Germania non ha più una prospettiva condivisa capace di motivare gli individui di fronte
ad uno sforzo comune.
Quello che ci rende inquieti è che le cose siano come non devono essere, al contrario, ciò che è come deve
essere ci rende sereni. Se comprendiamo la ragione per cui le cose sono come devono essere, saremo
tranquilli.
Questo testo mostra cosa intende Hegel con il compito della filosofia che non consiste nell’essere uno
spettatore travolto dagli eventi ma di uno che partecipa agli eventi presenti e ne cerca una soluzione.
SCRITTI GIOVANILI:
Il tema religioso è dovuto al fatto che Hegel studia in un seminario teologico. Il giovane Hegel risente
dell’influsso kantiano e in questi scritti prende posizione pro o contro Kant.
“Religione popolare e cristianesimo”: Hegel sta cercando la risposta alla scissione dell’uomo moderno nella
religione. In questo scritto mette a confronto una religione popolare, intesa come una religione capace di
essere movente d’azione, ed il cristianesimo. Fa un paragone tra religione greca antica e cristianesimo.
Fa un altro parallelo tra religione naturale che preferisce alla religione rivelata (Kant): nella prima il dovere
viene perseguito perché frutto della ragione non perché viene comandato o rivelato nella seconda.
Quello che sta cercando Hegel non è una religione razionale ma una religione che sia da slancio alla
moralità.
La contrapposizione che mette in campo è tra una religione privata, che non impatta sulla società, ed una
religione popolare. Il cristianesimo è una religione privata che si è fatta pubblica snaturalizzandosi.
Gli insegnamenti di Gesù non sono estendibili a tutti gli uomini, inoltre, il religioso viene sempre
considerato come distaccato rispetto al resto della popolazione.
La religione greca, invece, forma gli abitanti per la loro partecipazione alla società per renderla più morale.
“La positività della religione cristiana” si interroga su come sia stato possibile che la religione cristiana si sia
istituzionalizzata in una serie di norme che l’hanno resa una religione positiva. Posizione antigiudaica di
Hegel che vede nell’ebraismo una religione vuota perché attenta solo all’esteriorità del rispetto al
comando. Il problema è che Gesù, per essere accolto dal popolo ebraico, ha dovuto riferire i comandi ad
un’autorità a lui superiore: il motivo della validità dei comandi di Gesù non è il valore degli stessi comandi
ma l’autorità, Dio, che li comanda.
“Lo spirito del cristianesimo” qui Hegel si stacca da Kant perché capisce che il pensiero kantiano è ancora un
legalismo: la legge non è un comando esteriore ma è qualcosa di interiore che rimane sempre una legalità,
al tempo stesso, la grecità non è più il mondo perfetto dove concordano abitanti e comunità ma viene vista
come una comunità immatura, embrionale. Allora, lo spirito dell’amore è l’unico a togliere alla legge la
forma della legalità, ricompone il dissidio tra legalità e natura perché quando agisco per amore il comando
è fatto perché è autenticamente sentito come buono.
Prima versione della dialettica: da un lato toglie, dall’altro supera: il contenuto resta la moralità ma viene
superata la forma della legge. L’amore supera la natura e la legalità, porta l’armonia greca ad un livello
superiore.