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CICERONE

 IL PENSIERO DI CICERONE


Cicerone nasce ad Arpino nel 106 a.C. e muore a Formia nel 43 a.C., è il fondatore della filosofia romana,
grazie a lui avviene una trasposizione della filosofia ellenica al popolo romano, in modo da farla
comprendere a pieno agli abitanti romani.
 
ECLETTISMO:
Cicerone è considerato il più caratteristico rappresentante dell'eclettismo accademico a Roma.
"Eclettismo" deriva dal greco "trascegliere, scegliere con cura e riunire da varie parti" scegliere con cura
elementi provenienti da parti diverse. È un'etichetta storiografica (da prendere con le pinze) che definisce una
tendenza dominante nel I sec a.C., quindi nel periodo pieno dell'esistenza di Cicerone, contagia in misura
diversa tutte le scuole. Dal punto di vista storiografico, l'eclettismo, non è mai stato considerato un vanto
nella speculazione filosofica. C'è stato il rischio che questa sia un'etichetta che sminuisce il pensiero di
Cicerone.
Cause strutturali che hanno portato alla tendenza eclettica:
1. Esaurimento della carica vitale delle singole scuole che erano nate verso la fine del IV
secolo a.C. vengono svuotate del significato originario e dell'energia creativa.
2. C'è una polarizzazione etica della problematica filosofica e la conseguente riduzione della
logica e della fisica a meri supporti dell'etica. La ricerca dell'atarassia e le risorse per
raggiungerla risiedono nel saggio che può essere felice tra le fiamme. Non c'è una certezza
logica e fisica quindi diventa più facile considerare positivamente posizioni diverse da quelle
della scuola di appartenenza. Essendo meno sensibili alle opposizioni teoretiche, vengono
favoriti gli accomodamenti eclettici.
3. Lo scetticismo, che si pone in antitesi a qualsiasi dogma, fa venire meno molte posizione
teoretiche.
4. L'Accademia presenta due posizioni che aiutano la formazione dell'eclettismo:
- il Probabilismo: posizione che cerca di avvicinarsi il più possibile al vero, che seppur non si
possa raggiungere totalmente ci si può avvicinare.
5. Nel momento in cui il pensiero si trasferisce a Roma, abbiamo delle modifiche: il pensiero si
scontra con lo spirito pratico romano e con il ruolo sociale e politico che il filosofo acquista
nella società romana. Avendo un risvolto pratico diventa fondamentale che ci sia un'unità di
pensiero che possa essere l'"utile" del popolo, allora si prende la via di mezzo degli altri
pensieri. Questo atteggiamento era frequente nei romani.
6. Se l'esigenza del popolo romano è quella di trovare unità nelle varie scuole filosofiche, cosa
può aiutarli a trovare questo via di mezzo? Questa scelta viene giustificata con la
valorizzazione del senso comune, una convinzione che accomuna più persone possibili, una
consapevolezza interiore su cui tutti, in modo particolare i sapienti, convergono.
7. Tutte le scuole furono contagiate da questa tendenza (l'Epicureismo meno delle altre, perché
mantiene il proprio atteggiamento di chiusura). La Stoa accoglie più accentuatamente il
pensiero eclettico, mentre l'Accademia la abbraccia pienamente (filosofia platonica fondata
sull'evoluzione del pensiero)
 
FONTI DI CICERONE
La presentazione dei maestri a cui Cicerone si è rifatto fa capire la completezza della sua conoscenza
filosofica, egli ha studiato con:
 Fedro e Zenone (Epicureismo)
 Diodoto, Panezio, Posidonio (Stoicismo)
 Filone di Larissa (Quarta Accademia)
 Antioco di Ascalona (Quinta Accademia)
 Platone, Senofonte, Aristotele essoterico (antica Accademia e Peripato).
 
Lui stesso afferma di aver preso elementi da tutti i suoi maestri e di averne cercato conferme su determinati
problemi, esclude gli Epicurei con cui polemizzò fortemente.
 Il contributo di Cicerone è fondamentale per la conoscenza di altri filosofi, dato che si
impegnava a discutere le tesi di altri filosofi presentandone i pro ed i contro.
 La sua esigenza di presentare al popolo romano il bagaglio filosofico greco gli da la possibilità
di far conoscere le varie posizioni dei filosofi.
 Allo stesso tempo ha modo di valutare la consistenza delle tesi opposte e scegliere quella più
probabile (accademico della corrente Filoniana: Probabilità positiva)
 Da buon oratore e avvocato, l'eloquenza è fondamentale, presentare le problematiche
filosofiche in questo modo gli da la possibilità esercitarsi nel discutere.
 
ADATTAMENTO FILOSOFIA GRECA
Il fine del presentare in questo modo le problematiche filosofiche è poter esprimere il verosimile ed
esercitare la retorica. In questo modo però lascia spazio alle accuse di non aver sviluppato un proprio
sistema filosofico ma di essersi limitato a sviluppare il pensiero di altre correnti filosofiche. In realtà, in tutti
i suoi scritti la filosofia è sempre presente, nel momento in cui da il suo giudizio rispetto a ciò che è
probabile riesce sempre a dare una soluzione originale, e ad adattarla al suo pensiero ed alle circostanze
della Roma del I secolo a.C.
Il suo fine è quello di migliorare la coscienza dei romani, per la difesa della patria ed il perseguimento
della virtù e della giustizia. Tutti i cittadini sapienti avrebbero dovuto unirsi contro i demagoghi affidando ad
un personaggio di valore il ruolo di guida. Cicerone si auto-conferisce il ruolo di comunicatore, infatti, il
suo nome ancora oggi indica una persona che porta alla scoperta di bellezze storiche e artistiche, guide delle
città. La valenza dell'uso del nome "cicerone" è dovuta:
 Alla sua conoscenza erudita spropositata in tutti gli ambiti
 Capacità a comunicare, contribuire a migliorare la coscienza dei Romani, avendo come
obiettivo la difesa della patria e il perseguimento di virtù e giustizia.
Essere un filosofo romano significa essere impegnato in tutte le decisioni importanti dell'epoca ma allo
stesso tempo ha maturato la necessità di ritrovare, nel sapere teorico e critico-filosofico, le coordinate
necessarie al superamento delle difficoltà connesse alle vicende storiche.
Molto importante è stato il suo viaggio in Grecia, con cui egli si propone il fine di consegnare ai romani un
quadro di riferimento della filosofia antica comprensibile ed accettabile, con la traduzione in latino ma
anche con la scelta dei termini. Tutto questo perché doveva fare sì che i romani capissero che quello poteva
guidare le loro decisioni politiche e sociali della loro epoca. Allo stesso tempo doveva essere consono alla
tradizione dei maiores la coscienza e la moralità dei Romani. È stato un grande lavoro non solo di traduzione
ma di interpretazione che sottolinea il suo ruolo di comunicatore.
 
PRESUPPOSTI DELL'ORIGINALITÀ FILOSOFICA DI CICERONE:
Secondo Cicerone, l'uomo è un animale dialogante (che comunica), non solo razionale. Il concetto di
dialogo è un concetto molto più ampio del concetto di ragione. Mentre l 'oggetto della ragione può essere
limitato anche alla singola persona, l'oggetto del dialogo coinvolge almeno due persone. Il dialogo deve
coinvolgere più di una persona, il rapporto è fondamentale nel dialogo.
 
UOMO DIALOGANTE V.S UOMO POLITICO
Non può essere considerato solo un filosofo ma è anche un oratore e un retore: ciò che distingue l'uomo
dalle bestie è il dialogo e la possibilità di esprimere le proprie emozioni. L'oratoria e la filosofia si incontrano
nella dimensione politica della natura umana.
 A guidare Aristotele c'è stata una considerazione di valore: la ragione vale più delle emozioni.
 A guidare Cicerone, invece, è una considerazione storica: egli guarda alla nascita della vita
aggregata e organizzata.
Nel momento in cui gli uomini sono usciti dalle caverne non sono stati riuniti da una teoria del sommo bene,
ma si sono riuniti grazie al dialogo che poteva far leva su speranza, paura e passioni.
Retorica e logica sono al servizio di una strategia argomentativa funzionale ad un progetto etico e politico. Si
propone:
 di seguire una procedura logica e dimostrativa modellata sulla tradizione greca (presentare i
pro ed i contro delle varie opinioni)
 allo stesso tempo di rendere in modo linguisticamente adeguato e attraente i contenuti da
comunicare.
 
CRITERIO DI VERITÀ
Il criterio di verità si basa sulla testimonianza dei sensi, a livello di probabilità, i sensi ci aiutano a
considerare quello che più si avvicina al vero. Anche il senso comune, che si trova nel consenso universale
degli uomini, è molto importante, questo ha due origini: l'innatismo platonico e la dottrina delle prolessi.
Il metodo: viene riconosciuta una verità logica a cui si aggiunge un'altra verità di natura fisica, che nasce
dall'essenza delle cose fuori di noi. Quando le due coincidono abbiamo la più credibile delle verità umane
che diventa quasi certezza quando si somma al consenso dei grandi pensatori delle età precedenti, per
questo motivo dedica molta attenzione al pensiero antico.
 
FISICA
Cicerone di dichiara Accademico Filoniano Probabilistico, per quante variazioni abbia subito l'accademia,
la sua realtà fisica si ricollega a Platone intriso della visione stoica della casualità efficiente e della materia.
Cicerone, dopo aver analizzato tutte le teorie fisiche e metafisiche esposte fino al suo tempo, sostiene che
tutti credano che: una materia informe e priva di ogni qualità soggiaccia a tuti gli elementi; una materia che
può accogliere tutte le determinazioni e mutarsi in ogni parte, persino perire nel senso di essere stata divisa
fino al punto di non mostrare più la qualità originaria. Unisce elementi stoici e platonici.
La forza che caratterizza tutte le cose può essere chiamata Anima del mondo; Dio; Provvidenza. In questa
forza è racchiuso tutto l'eclettismo di Cicerone.

Il suo interesse fisico resta legato a Dio e all'anima perché sono problemi legati all'etica. Nel momento in cui
si parla di problemi cosmo-ontologici, più teoretici, è come se l'aspetto scettico avesse la meglio, perché
diventa più difficile raggiungere il probabilismo. Nonostante sia più difficile, vale la pena affrontare tali
problemi in quanto le cose celesti aiutano a comprendere come le cose terrestri siano piccole e meschine. Se
il fine di Cicerone è aiutare a vivere il momento storico in cui si trova, avere una percezione che la realtà
terrestre è solo una piccola parte, aiuta ad affrontarla.
 
TEOLOGIA
Non esprime dubbi rispetto all'esistenza di Dio, anche perché tutti i popoli sono concordi, così come rispetto
alla provvidenza, abbracciando la posizione finalistica e ripugnando la posizione meccanicistica epicurea.
 
La natura di Dio crea invece problemi, ai quali Cicerone da risposte più ambigue che oscillano tra
 Il materialismo (stoico)
 Lo spiritualismo: considera la natura di Dio come uno spirito indipendente e libero privo di
materia corruttibile. Deve essere un elemento che sente tutto e che muove tutto e che è in
eterno movimento.
 
PSICOLOGIA
Non dubita dell'immortalità dell'anima, in quanto è la stessa natura che pone in noi questa convinzione: se
ci poniamo il problema di che cosa ci sarà dopo la morte vuol dire che l'anima non muore.
Non dubita dell'esistenza dell'anima: che è il punto di tangenza tra l'uomo e Dio. Senza anima l'uomo non
potrebbe ricordare il passato (memoria), prevedere il futuro (intelligenza) e abbracciare il presente
(pensiero).
Sulla natura dell'anima ci sono le stesse difficoltà che ha avuto nel determinare la natura di Dio.
 
Il sapiente, secondo Cicerone, deve indagare senza accogliere opinioni avventatamente e ritenere che andrà
bene se in questioni di questo tipo troverà qualcosa di verosimile. La verosimiglianza ciceroniana, che è
frutto di un'impostazione platonica mediata dall'Accademia dello scetticismo positivo e dal pensiero stoico.
Cicerone sostiene che la verosimiglianza sia quanto accademici, peripatetici e stoici hanno presentato, ma
con parole diverse.
 
CONCLUSIONE
La sua posizione è un eclettismo prudente, perché non prende a caso aspetti delle altre filosofie, ma prende
ciò che è utile e coerente al suo pensiero ed il suo fine. Nasce da un metodico scetticismo, in senso
probabilistico che fa sì che la sua indagine possa essere positiva. L'idea di eclettismo negativo, come un
mero recupero delle filosofie precedenti, parte dall'800, questa posizione ha condizionato la storiografia
filosofica che però ha cambiato completamente posizione. Ancora adesso la filosofia di Cicerone è oggetto di
indagini che cercano di superare il pre-concetto secondo cui senza una perfetta teoresi non si è davanti ad
una novità filosofica. Questo non tiene conto che la speculazione filosofica non è solo astrazione, infatti, è
giunta fino a noi perché aveva molte novità interessanti per gli uomini del I secolo a.C. a Roma.
 
ETICA
Gli aspetti che riguardavano la gnoseologia, la fisica e la teologia che più interessavano Cicerone erano
quelli che potevano portare a dei risvolti dal punto di vista morale, in quanto riguardavano la vita del
cittadino.
Anche per quanto riguarda l'etica, Cicerone presenta le teorie delle scuole ellenistiche e post ellenistiche per
fare emergere una posizione che si avvicini al vero il più possibile. L'unica scuola a cui si avversa totalmente
è quella epicurea, si dichiara accademico ed ha un ammirazione per la filosofia stoica del suo tempo.
Per capire il punto di riferimento dell'etica ciceroniana bisogna riprendere due concetti:
 La tradizione degli antichi: il cosiddetto mos maiorum, che trova la sua traduzione nel campo
del diritto pubblico e della dimensione privata e si fa parametro di riferimento nella
formazione del cittadino.
 L'esperienza del passato
 
CONCETTI CARDINE
 HONOS: dimensione politica (cursus honorum), morale e religiosa (honestum).
Questo concetto è la traduzione di timè greco, ovvero il riconoscimento dell'onore di qualcuno. Da
questo concetto deriva onesto, ossia, degno di onore.
Da questo riconoscimento esterno si passa ad indicare ciò che è moralmente buono, Cicerone traduce
il bello morale (in greco) con il termine latino onesto.
Indica la misura del corretto comportamento umano, la norma assoluta della sfera etico-morale, pur
conservando sullo sfondo quel senso di degno riconoscimento che riconduce il principio all'ambito.
 DIGNUS: Duplice valenza: Stato e rango sociale indicava chi aveva uno stato sociale di un
certo tipo. Con Cicerone diventa una vera e propria virtù, come se combaciassero l'ambito
politico/civile e quello morale.
 AMICITIA: Cicerone che la ritiene frutto della legge naturale. Solo i cittadini migliori sono
in grado di viverla nel pieno dei modi poiché fanno affidamento alle virtù quali la fiducia, la
saldezza morale, l'onestà e la nobiltà d'animo.
Per Cicerone l'amicizia non nasce dal bisogno ma è frutto dell'amore inteso come sentimento naturale,
se l'uomo segue la propria indole non può non vivere di questo sentimento di amicizia nei confronti
degli altri.
 
IMPEGNO SOCIALE
Questi tre concetti sono fondamentali per capire la dimensione politica di Cicerone, quindi del suo impegno
sociale. Sono due i capisaldi su cui si basa l'impegno sociale di Cicerone:
 L'opposizione al non fare politica degli epicurei. La capacità di bastare a se stessi, che
determina il senso della vita epicurea, non va d'accordo con la concezione della vita politica e
sociale che garantisce la vita del singolo propria di Cicerone.
 La concezione di Stato: la politica deve garantire lo sviluppo dell'individuo inteso come una
parte della comunità. La Repubblica, secondo Cicerone, è l'espressione del popolo inteso come
un gruppo di persone associate in accordo sull'osservanza del diritto e della comunanza di
interessi.
Dal punto di vista della forma governativa Cicerone fa propria la concezione di una costituzione
mista, già espressa da Platone, Aristotele e Polibio (che passa in esame le tre forme di governo nello
stesso modo di Cicerone che vuole giungere alla conclusione che la costituzione mista garantisce tutte
le esigenze). Cicerone ha chiaro in mente che ci sono degli apporti diversi che i cittadini possono dare.
Nella costituzione mista di Cicerone la concordia ordinum, ovvero l'armonia delle diverse fazioni è
conseguenza del consenso universale degli uomini, l'adesione di tutti i cittadini alle aspettative dei
cittadini migliori.
 
CICERONE E GLI STOICI
Il pensiero filosofico più in voga a Roma è il pensiero Stoico romano (l'adattamento dello stoicismo allo
spirito pratico romano), che ha una dimensione pratica. Cicerone però si definisce accademico e non stoico
perché quando Cicerone parla della filosofia stoica, si riferisce alla filosofia stoica antica in cui trova dei
limiti.
C'è un aspetto dello stoicismo romano che non va bene a Cicerone, per la dimensione pratica della filsoofia,
il saggio a Roma non è un ideale astratto e si identifica storicamente nella figura di Catone il Censore, che
decide di portare avanti una causa persa in partenza solo perché la ritiene giusta, come se il logos individuale
andasse contro quello cosmico.
Un altro motivo per cui Cicerone non si definisce stoico è quello che risale al concetto di probabilismo: le
tesi stoiche sono condivise da Cicerone ma le ritiene estremiste perché le azioni che condivide sono difficili
da realizzare e quindi non portano ad alcun beneficio.
Un altro principio stoico che non accetta è quello secondo cui solo il sapiente è buono e tutti gli altri viziosi,
va contro questa idea estremista degli stoici, Cicerone crede che bisogna concentrarsi nella vita comune e
non nelle pure aspirazioni.
 
DE OFFICIIS, Cicerone
Il De Officiis è l'ultimo degli scritti filosofici di Cicerone. Conserviamo le lettere che ha scritto ad ad Attico,
grazie alle quali sappiamo che la stesura è stata molto veloce, risale al 44 a.C. (un anno prima della sua
morte), nel periodo in cui lotta contro Antonio.
È uno scritto diverso dalle altre opere filosofiche di Cicerone:
 è un trattato (mentre nelle altre opere sembra riprendere i dialoghi aristotelici).
 È un trattato di etica pratica dal tono "precettistico", dedica lo scritto al figlio Marco
riprendendo una tradizione di ammonimenti e insegnamenti dal padre al figlio.
 È uno scritto molto discusso dalla critica perché, a differenza di altri scritti ciceroniani curati
fino allo strenuo, c'è un fraseggio non lineare e disordinato con delle ripetizioni. Alcuni
ritengono che quest'opera non abbia nemmeno avuto una revisione finale (per la fretta), altri
ritengono che i conti non tornano perché ci sono state delle interpolazioni dagli studiosi
successivi (uno degli scritti romani più studiati).
 Un altro problema è la provenienza dello scritto: Cicerone ci dice che i primi due libri sono
stati presi da testi di Panezio, di cui non ne abbiamo traccia quindi non sappiamo quanto sia
dell'uno e quanto sia dell'altro. Sono tanti i testi di filosofi che conserviamo grazie alle
testimonianze di altri filosofi, in particolare Cicerone che ci ha permesso di conoscere altre
opere e filosofi grazie alle sue menzioni che spesso cita direttamente o in altri casi in maniera
indiretta. È certa l'originalità ciceroniana dell'opera in quanto ci sono chiari riferimenti alla
cultura ed alla situazione sociale romana.
 Panezio e Posidonio sono prediletti poiché: calano la riflessione teorica alla situazione della
vita di tutti i giorni, questo affascina Cicerone; inoltre hanno tutti e tre come nemico
l'epicureismo; hanno il carattere di amore della tradizione.
 L'esperienza personale di Cicerone trasuda dalle pagine del "De Officiis", egli ha arricchito di
esperienza personale e del proprio giudizio politico le prescrizioni che Panezio, in parte,
attingeva dalla letteratura filosofica.
 
CONTENUTO DEI TRE LIBRI
LIBRO PRIMO: incentrato sul concetto di dovere, secondo la filosofia stoica (Panezio), segue la
distinzione tra doveri assoluti e non assoluti. Lega questi concetti a quelli propri della cultura civile romana
come quello di giustizia, moralità, liberalità, coraggio e temperanza.
Specifica il concetto di natura, di quanto sia importante seguire la natura per conoscere le passioni da
controllare; se e come vadano seguite le convenzioni; se la saggezza è la prima delle virtù anche la giustizia
deve avere un ruolo fondamentale.
LIBRO SECONDO: riguarda ciò che è conveniente, rispetto a sé stessi (onorabilità e decoro) e rispetto alla
società di cui sono definite le caratteristiche e le modalità di comportamento e relazione.
Vengono definiti i ruoli di gloria e potere per difendere la giustizia.
Specifica come avere il potere politico implica dei benefici che sono ingiusti, quindi spiega cosa significhi
governare lo stato senza mirare a benefici personali.
LIBRO TERZO: il confronto tra ciò che si deve fare (primo libro) e ciò che conviene fare (secondo libro).
Rispetto alla convenienza emerge il concetto di utile, ma nasce il problema della distinzione dell'utilità. Utile
per il singolo o l'utile per lo Stato?
Il saggio è l'unico in cui dovere ed utile coincidono, l'uomo comune invece deve misurarsi con quanto
natura e legge propongono. La legge, dal punto di vista di Cicerone, rispecchia la natura: il diritto romano è
espressione della natura.
CONCLUSIONE: ritorna il tema dell'esempio del maiores (tema della tradizione stoica): alla fiducia e
osservanza dei giuramenti, fa un approfondimento sul piacere: si chiede se sia il piacere a dover guidare
l'uomo saggio nelle sue scelte e se l'averlo ottenuto costituisca un vantaggio o meno. Cicerone sostiene che il
piacere e la moralità non siano conciliabili.
 
LIBRO PRIMO: DISTINZIONE TRA VITA CONTEMPLATIVA E VITA
ATTIVA
Cicerone ha scritto la maggior parte dei testi filosofici durante la sua fase di vita contemplativa, cioè quando
non aveva impegni politici. La sua vita è come se fosse stata divisa tra momenti di vita attiva e momenti di
vita contemplativa, in cui egli ha sempre cercato di avere come spirito guida il fatto che la vita contemplativa
potesse essere di aiuto agli uomini, in particolare ai migliori, per capire come agire. Il termine "officium"
corrisponde al "compito", alla funzione che ognuno è portato a svolgere, quello che nell'etica aristotelica,
corrisponde alla funzione specifica di ognuno di noi.
Ogni ambito della vita deve fare i conti con quello che Cicerone ritiene essere il compito che l'uomo deve
portare a termine. Questo compito viene legato alla natura umana.
 
LA NATURA UMANA: La nozione di natura svolge un compito sia descrittivo sia prescrittivo, ossia
indica sia la vita dell'uomo sia le indicazioni.
In Cicerone la distinzione tra corpo e anima è solo sul piano teoretico ma sul piano fisico non è possibile
dividerli perché entrambi fanno riferimento alla natura. Quando parla di natura intende un aspetto della realtà
non bucolico ma etico sociale e politico. Se i nostri modi sono coerenti con la natura possono essere
accettati, altrimenti no. La natura è un criterio che va seguito per decidere il comportamento.
La natura ci ha fornito di quattro tipi di maschere:
 Una maschera comune, quella dell'essere razionale, conferita a tutti gli uomini in quanto
partecipano alla ragione.
 L'atra maschera è attribuita ai singoli: come nel corpo vediamo caratteristiche diverse tra gli
uomini, allo stesso tempo, nell'anima ci sono caratteristiche diverse, entrambe sono state date
dalla natura
 La terza è quella indicata dai tempi e dalle circostanze: il fatto che l'uomo viva in un
determinato momento storico è un attributo dato dalla natura.
 La quarta maschera, infine, è la scelta volontaria: è quella che noi stessi scegliamo di
privilegiare, è quella su cui più influisce l'uomo che ha la possibilità, in potenza, di dirigere la
propria volontà che si trasforma, in atto, in una scelta.
Quando Cicerone parla di seguire le regole della natura sta parlando di queste quattro caratteristiche che
riguardano tutto il reale.
Al di là delle vicende instabili, che possono essere costituite dalla fortuna (intesa nella natura non nel "caso
stoico"), è la natura nella sua stabilità, che la fa dire "immortale", a fungere da criterio ultimo.
 
LA NATURALE SOCIEVOLEZZA DELL'UOMO:
La natura stessa, con la forza della ragione, porta l'uomo ad una forma di socialità comunicativa e sociale.
Assecondare la naturale socievolezza dell'uomo porta con sé la salvaguardia e la protezione degli interessi
dell'essere umano.
È un'esigenza dell'uomo quella di essere fatto per la socialità e di essere di giovamento gli uni agli altri. Se
l'essere umano è naturalmente socievole, la vita migliore è quella associata che coincide con la vita attiva.
A questo punto sembra che la vita attiva sia migliore di quella contemplativa , però mancano delle
considerazioni che fanno capire che Cicerone non risolve così sbrigatamente la soluzione.
 
CRITERIO ASSIOLOGICO: è la natura stessa ad aver dato all'uomo l'esigenza della capacità di indagare
ed investigare la verità. Cicerone sceglie l'Accademia Probabilistica-Positiva proprio perché è convinto della
possibilità di raggiungere un grado di verità.
Una persona non può dedicarsi sempre alla vita teoretica ma deve dedicarvisi quando non è occupato ai
compiti "necessari", ovvero quelli della vita politica.

DISTINZIONE SAPIENZA E SAGGEZZA:


In generale, quello a cui l'uomo deve dedicarsi è la vita attiva. Ci sono delle condizioni che portano l'uomo a
dedicarsi alla vita contemplativa. Ma, addirittura, nel caso in cui sia possibile dedicarsi alla vita attiva e non
lo si fa, questo è causa di vergogna.
 
Sono entrambe legate alla verità, ma la saggezza è legata alle azioni, alla vita attiva che Cicerone indica
come la vita felice.
Quando parliamo di sapienza, invece, siamo in un ambito conoscitivo e teoretico.
Nell'animo umano ci sono entrambi gli aspetti: c'è la capacità di prendere decisioni riguardi azioni morali e
le capacità legate allo studio e alla conoscenza.
Riprende la distinzione aristotelica tra sophia e phronesis.
 
Ci sono ragioni per cui si può venire meno all'ambito sociale:
 per la vita contemplativa;
 per proteggere il patrimonio familiare visto che i legami sociali trascurano il proprio
tornaconto;
 per un eccessivo amore per se stessi (egoismo);
 perché si ritiene la vita solitaria più sicura. (La solitudine è un male paragonato alla morte);
una grande avversità vissuta in compagnia è meglio di una grande felicità goduta da soli.
Il punto di partenza continua ad essere la domanda che già nelle filosofie ellenistiche dettava la speculazione
filosofica. Trasuda l'interesse sociale e politico che integra il percorso fatto dalla filosofia ellenistica.
 
Per Cicerone, essere umano significa essere fatto di corpo e di anima, quindi, che non può non tenere conto
dell'esigenza di una ricerca del vero che però è dato dalla vita sociale. La natura è intrecciata all'utilitas e non
è mai svincolata dalla morale perché "ciò che è turpe non è mai utile", la natura e la morale sono strettamente
legate l'una all'altra.
Dopo tutte le distinzioni, resta vero che noi siamo esseri umani, quindi dobbiamo vivere come tali,
esercitando sapienza e giustizia. La filosofia pratica di Cicerone tiene sempre conto della visione dell'essere
umano a 360 gradi, fatto di corpo e anima.
 
CONCLUSIONE: il primo libro, che è il più esteso dei tre, articola le caratteristiche dell'honestum,
secondo le idee del medio-stoicismo che fanno riferimento a quelle che erano le dottrine platoniche. Divide
l'honestum in sapienza, giustizia, fortezza d'animo e temperanza.
Queste quattro parti sono quelle che permettono alla ragione di avere la meglio sugli istinti della natura
umana, ovvero il desiderio di conoscenza, la propensione alla socialità, la tensione ad emergere tra gli altri, e
l'equilibrio che occorre preservare nei rapporti con i propri simili.
 
DECORUM: Nell'ultima parte del primo libro, Cicerone, si sofferma lungamente sul concetto di decorum
che egli dice essere il principio regolatore di tutte le virtù.
Per capire l'importanza del decorum come mediatore tra honestum e utile, bisogna prima fare riferimento
alla società in cui Cicerone vive, nel momento in cui scrive il De officiis, ovvero il periodo subito dopo la
morte di Cesare, che vede il grande disfacimento della società romana, in cui c'è un momento di violenza,
senza la possibilità di armonia tra le parti, aspetto considerato molto importante da Cicerone.
RIFERIMENTO PLATONE: Cicerone si rifà ad una società in cui l'utile ha ancora significato come utilità
comune e non del singolo. Il problema dell'utile, infatti, è quando l'utile personale prendo il sopravvento
sull'utile comune, questo equivale a curare solo una parte del corpo trascurando il benessere di tutto il corpo.
 
Corrispettivo prepon: Ogni volta che Cicerone introduce un concetto chiave cerca di trovare il suo
corrispettivo all'interno del pensiero greco. In questo caso, è Cicerone a precisare che parlando di decorum si
sta riferendo al concetto, in lingua greca, di prepon. Il decorum è un comportamento moderato e temperante,
facilmente perseguibile attraverso l'esercizio dell'autocontrollo, attraverso il pudore nei confronti del proprio
corpo, l'espressione della dignitas, una misura nella conversazione, il rifiuto di ogni tipo di ostentazione che
riguarda solo il singolo.
 
"Come infatti la bellezza del corpo, per l’armonizzata composizione delle membra, attira gli
sguardi e diletta, per il fatto stesso che le parti concordano con una certa grazia, così questo
decoro, che risplende nella vita, suscita l’approvazione di coloro con i quali si vive, per l’ordine, la
coerenza e la moderazione delle parole e delle azioni."
L'armonia delle membra e la grazia di un corpo attira gli sguardi, così come l'armonia del
comportamento, delle parole e delle azioni li attira. Questo decorum quindi è la giusta misura che
fa sì che gli altri apprezzino i tuoi gesti, è un lasciapassare per entrare in rapporto con l'altro, che
abbiamo visto essere molto importante per Cicerone.
 
Dietro questo passo si vede la società romana piegata dalle lotte civili e dalla violenza. Un corpo
disordinato, senza rispetto per i propri simili, ben diverso dall’idea di Cicerone di armonia delle
membra. La condizione per una vita sociale equilibrata è garantita dal rispetto, reverentia, nei
confronti dei propri simili. Una forma di autocontrollo che si esercita all’interno dello spazio
individuale e che tiene in gran conto lo spazio altrui.
 
"La qualità distintiva degli animi e della natura è infatti duplice: una parte è posta nel desiderio,
che in lingua greca si chiama hormé, che trascina qua e là l’uomo, l’altra nella ragione che
istruisce e spiega che cosa si debba fare e che cosa invece si debba evitare. Così accade che la
razionalità guida, il desiderio obbedisce. Ogni azione deve essere priva di temerarietà e di
disattenzione, né si deve compiere alcuna azione della quale non si possa in alcun modo rendere
ragionevole conto"
Questa è la definizione dei compiti che ognuno di noi ha. Per portare a compimento ciò che è
conveniente bisogna sottomettere il desiderio alla ragione, in modo che le azioni siano moderate.
In modo da contrastare la temerarietà che fa prevalere il proprio istinto, atteggiamento egoista.
 
APERTURA DELLA CLASSE DIRIGENTE La convenienza tra compiti e personalità è il
principio che Cicerone declina per definire un codice di comportamenti che non appare più
riservato ai nobiles di nascita, ma che sembra poter essere appreso e riprodotto da tutti i ceti che
aspirino a esercitare funzioni politiche. Ognuno può sottomettere il proprio compito alla propria
personalità, è una società diversa rispetto a quella esclusivamente aristocratica, perché deve fare i
conti con la situazione attuale in cui è molto importante il contributo di ogni cittadino, secondo le
sue possibilità, indipendentemente dalla sua classe di appartenenza.
Per questa via, da un lato Cicerone offre una valida giustificazione teorica al proprio progetto di
affidare la guida della società romana a una classe dirigente aperta e composita; dall’altro,
assicura a tutti i suoi membri, reali e potenziali, il riconoscimento della legittimità di plurime e
differenziate scelte di vita, ancorate ai talenti di ognuno. 
Non è casuale che nel De officiis si trovi la discussione più approfondita che la letteratura romana
abbia prodotto sulla pluralità dei modelli esistenziali, cui è riservata ampia illustrazione nella
cosiddetta «teoria delle personae»  (I, 105-125) che abbiamo già introdotto al concetto di natura, in
cui Cicerone distingue quattro tipi di maschere: quella comune; quella data dalla qualità del singolo;
una data dalle circostanze; quella che dipende dalla volontà.
La maschera comune può corrispondere alla razionalità cosmica mentre la seconda maschera
corrisponde alla razionalità individuale, tenendo però presente che nel momento in cui si parla di
razionalità individuale si intende un concetto più ampio: è come se il concetto di ragione, in
Cicerone, sia più un concetto di razionalità, ovvero la razionalità è un concetto più ristretto, più
logico e meno complessivo della ragione che tiene conto di ogni aspetto del reale.
 
LE MASCHERE: In latino, persona è la «maschera», e per estensione il «personaggio» teatrale;
assai presto, dunque, il termine, in Cicerone, viene utilizzato per indicare i ruoli in senso traslato,
con una puntuale applicazione anche al campo della socialità.
 
Per spiegare il rapporto di convenienza, di decorum appunto, che occorre che l’individuo preservi
nel suo collocarsi all’interno delle dinamiche sociali, Cicerone ricorre all’esempio del poeta tragico
(I, 97), che costruisce i suoi personaggi rivolgendo estrema attenzione all’appropriatezza delle loro
battute: a dire «mi odino purché mi temano», celeberrima battuta teatrale che riassume in modo
efficace un temperamento tirannico. Affinché questa frase faccia effetto, non può essere pronunciata
da un governante giusto ma solo nel momento in cui è un personaggio che si comporta da tiranno ad
utilizzarla.
Da questo punto di vista, emerge dal concetto di decorum, la formazione oratoria e giuridica di
Cicerone.
 
Come dunque il poeta, a partire dalla propria persona, stabilisce ciò che si addice a essa, allo stesso
modo gli uomini, a partire dalla persona che la natura ha imposto loro, devono elaborare
comportamenti e atteggiamenti coerenti con quella. Il dovere diventa consequenziale rispetto alla
giusta valutazione di come moderare gli istinti eccessivi. Naturalmente, in tale processo, è il
decorum a suggerire a ognuno l’officium da seguire, attraverso l’attento controllo degli istinti
operato dalla ratio.
Attraverso la teoria delle personae, Cicerone può offrire come dignitosa e praticabile una proposta
di modelli etici fondata sulla pluralità delle scelte e degli atteggiamenti, che appare in grado di
esaltare la mobilità sociale, ancorandola a una salda gerarchia di valori che pone al primo posto
l’impegno politico e la salvaguardia del bene comune.
In questo quadro composito si innesta il contenuto del secondo libro del trattato, nel quale Cicerone
mette a punto una precettistica altrettanto precisa sui mezzi con i quali coloro che governano lo
stato possono conciliare gli animi degli uomini e trarli ai propri vantaggi. (2, 17).
 
LIBRO II: COM'È POSSIBILE CONCILIARE L'ANIMO CON IL BENE
COMUNE.
STRUTTURA DEL SECONDO LIBRO:
Proemio, con un elogium della filosofia §§ 1-8
Il problema dell’utile: - nel quadro dei doveri §§ 9-10
                                        - nella sua essenza: 
                                             - I come prodotto essenzialmente umano §§ 11-16
                                             - II come funzione della della virtù §§ 17-18
                                             - III come risultante di vari incentivi dati dalla situazione
esterna §§ 19-22
Il problema dell’utile come risultante di vari incentivi (§§ 19-22) viene sviluppato nei restanti
paragrafi (§§ 23-85), con solo l’aggiunta di qualche accessorio finale (§§ 86-90). Cicerone sta
guardando all'aspetto più pratico e concreto delle situazioni che una persona, dall'esterno, si può
trovare a dover affrontare.
Il pensiero filosofico non è mai slegato dalle necessità sociali e politiche.
 
Il libro primo ed il libro secondo riprendono l'impostazione dello scritto di Panezio. Secondo
Cicerone, lo scritto di Panezio, che esamina l'utile e l'honestum, manca del rapporto tra i due, di
come il bene morale deve fare i conti con il conveniente pratico. Egli pensa che sia da chiarire il
fatto che l'utile e l'onesto non sono in contrapposizione perché entrambi rispondono alla stessa
esigenza, motivo per cui è fondamentale far capire come non esista un utile personale a discapito
del proprio simile, questo sarebbe contrario alla legge di natura.
 
Cicerone porta avanti una serie di situazioni in cui dimostra che l'utile personale porta a delle
conseguenze negative per la pace sociale. Così, nel III capitolo viene tracciata e analiticamente
esposta una casistica ampia di situazioni nelle quali lo scorretto conseguimento dell’utile personale
viene denunciato nei suoi esiti negativi sull’ordine e sulla pace sociale.
Cicerone nel III libro offre una spiegazione dell’errore di Panezio nel non trattare il rapporto tra
honestum e utile. Per dimostrare ciò risale ai principi stessi dello Stoicismo secondo cui anche solo
ipotizzare che possano esserci differenze tra i l'onesto e l'utile sia segno di mancanza di saggezza,
in quanto per il saggio ciò che è virtuoso è anche utile. Panezio non ha mancato di rapportare il
problema dell'utile e dell'onesto perché dal punto di vista dei principi stoici, l'utile e l'onesto
coincidono, infatti, nella figura del saggio ciò che è virtuoso è anche l'utile. È un errore dal punto di
vista di Cicerone, ma dal punto di vista di Panezio non lo è perché egli non ha fatto altro che essere
consequenziale per la dottrina stoica.
Sappiamo però quanto sia raro trovare un saggio stoico, infatti nella quotidianità non ci si rapporta
alla virtù e alla moralità più alte, bensì a quelle intermedie.
Cicerone nel III libro spiega che nel De officiis non vuole trattare le virtù e le moralità più alte
(quelle del saggio stoico) che nella realtà non esistono. Egli fa riferimento alle virtù e moralità
intermedie, ossia quelle che fanno i conti con la realtà, motivo per cui egli sente l'esigenza di
spiegare il rapporto tra i due.
Da un punto di vista teoretico, non si pone il problema del rapporto tra i due perché nel mito del
saggio coincidono. Dal punto di vista dell'esperienza, un uomo virtuoso nel senso stoico, fatica ad
esistere.
 
Cicerone inizia la sua esposizione indicando che è necessaria una regola per dissolvere tutti i
conflitti apparenti tra honestum e utile:
 La prima regola è che “è sbagliato fare un danno al proprio vicino per un proprio
profitto” perché “ciò che è utile per l’individuo lo è anche per la comunità” e questa è
una legge di natura. 
Solo per chi non è saggio c'è conflitto tra le due cose, l'uomo che non è saggio come fa ad
utilizzare un utile che tenga conto non esclusivamente all'utile individuale? Per Cicerone, chi è
nelle condizioni di partecipare alla vita comunitaria e non lo fa (senza necessità
imprescindibili) è in una condizione vergognosa. L'individuo deve porsi in rapporto con la
comunità.
Il conflitto tra honestum e utile, dunque, è tale solo per chi non è saggio (la maggioranza degli
esseri umani), ma si risolve nel momento in cui l’individuo si pone in rapporto con la
comunità. 
 
Nel terzo libro, Cicerone si serve dell’analogia del corpo in rapporto alle parti di cui è formato che
raggiungono la loro funzione e il loro fine quando sono al servizio dello scopo dell’intero corpo.
Così gli esseri umani devono subordinarsi al bene comune.
Cicerone pone due principi: il sommo bene stoico che coincide con il bene comune; allo stesso
tempo questo sommo bene deve tenere conto delle necessità esterne, dei beni esterni all'individuo,
ossia le situazioni intermedio, della vita pratica.
Dunque, egli fa appello sia allo stoico “sommo bene”, sia alla peripatetica posizione secondo cui ci
sono anche altri beni, inclusi beni esterni che vanno ugualmente ricercati. 
 
Per capire come fanno a sussistere entrambe le posizioni bisogna fare riferimento ad uno scritto di
Cicerone, il "De finibus", scritto solo un anno e mezzo prima del de officiis e, secondo lo stesso
Cicerone, il suo scritto principale riguardo all’etica, si possono ritrovare conferme di quanto
sostenuto nel nostro scritto. 
Nel III libro del "De finibus" Cicerone fa riportare a Catone un discorso sullo Stoicismo che
Cicerone stesso critica nel IV libro sostenendo che la visione stoica non considera che l’essere
umano non è formato solo da anima, ma anche da corpo. Dunque, la virtù può essere considerata
somma solo se non si considera l'uomo calato nella vita sociale, è come se negasse i beni esterni che
Cicerone, nel V libro del "De finibus", dimostra essere validi in riferimento all'Etica Nicomachea,
sono dei beni esteriori, più moderati, che hanno ugualmente importanza. Questa dicotomia tra la
posizione stoica e quella peripatetica è sia nel "De finibus" che nel "De officiis" il che fa capire
come la dottrina stoica sia importante ma comunque segnata da limiti. In entrambi gli scritti
convivono l’insegnamento e i limiti della dottrina stoica.
 
L'operato di Catone è inaccettabile perché egli è visto come la persona che ha scelto una causa
considerata già vinta in partenza. Se si considera la posizione di Cicerone a riguardo, secondo cui
bisogna sposare la causa del bene comune, è come se si stesse andando contro al bene comune, una
posizione opportunistica.
Nel "De officiis" Cicerone esplicita questa sua visione: dal punto di vista del rigore morale, quello
che egli sta presentando ha degli errori, ma lo considera comunque il male minore, come bene per
tutti.
Catone utilizza un rigore che non tiene conto della dicotomia corpo-anima, oltre al sommo bene
esistono dei beni esterni di cui bisogna tenere conto.
 
Il fine educativo giustifica questa compresenza, infatti nel de officiis l’interlocutore è il figlio e nei
dialoghi riportati dal de finibus vi è la presenza di giovani.
La severità morale dello Stoicismo può essere di aiuto in una situazione di declino morale
(insegnamento), ma la lontananza dalla realtà non è di aiuto alle necessità politiche (limiti), cosa su
cui invece il pensiero peripatetico è di aiuto. 
Cicerone si serve dello Stoicismo quasi come una religione civile (Douglas Kries). Religione per
quel rigore etico e civile perché Cicerone se ne serve per provare a venire in aiuto in un momento di
declino morale.
 
Nel "De finibus" che sono tre diversi dialoghi, vi è la presenza di giovani che rendono necessaria la
presentazione di una filosofia morale come quella stoica che può essere di grande aiuto per questo
momento di declino.
Allo stesso tempo, Cicerone si guarda da quella che può essere una lontananza dal rigorismo
morale, in cui interviene il pensiero peripatetico.
Quindi dal punto di vista precettistico, il rigorismo è di aiuto.
 
A ciò s'aggiunge come inoppugnabile testimone Posidonio, il quale scrive anche in una lettera che
Publio Rutilio Rufo, che era stato discepolo di Panezio, soleva dire che, come non si era trovato
alcun pittore capace di completare quella parte nella Venere di Coo che Apelle aveva lasciato
incompiuta (infatti la bellezza del viso toglieva la speranza di imitarla nel resto del corpo), così
quelle parti che Panezio aveva trascurato [e non aveva compiuto] nessuno le aveva completate a
causa dell'eccellenza di quelle che aveva portato a termine. (3, 10)
Spiegando cosa sia l'honestum e l'utile, gli stoici, hanno fatto un lavoro talmente perfetto che
nessuno si è sentito in grado di completare. L'esempio della Venere di Coo, di cui Apelle aveva
disegnato il volto in maniera talmente precisa che nessuno era stato in grado di disegnarne un corpo
all'altezza del viso.
Cicerone intende dire che gli stoici hanno spiegato talmente bene gli officia, come se avessero
dipinto soltanto il volto, ovvero l'anima degli uomini. Ma lo hanno fatto come se gli esseri umani
non avessero il corpo. Hanno reso così attrattiva l'anima da rendere impossibile "dipingere" il corpo
intero, cioè quello che si propone di fare Cicerone nel III libro del "De officiis".
 
Se proviamo a rileggere le battute di apertura del terzo libro del De officiis, l’impressione che ne
ricaviamo è quella di una trasformazione già avvenuta, che impone a Cicerone una netta
riconfigurazione delle dinamiche e delle strategie attraverso le quali si definisce e si ritaglia
l’identità culturale di una comunità, e la si trasmette al futuro. Sente l'esigenza di tramettere un
messaggio che le nuove generazioni non vedono nella vita di tutti i giorni. Per cui, intervengono i
ricordi, il mos maiorum, perché deve essere lui a trasmettere l'eredità alle nuove generazioni. In
particolare a suo figlio Marco, che si sa essere uno di quei giovani che risentiva della nuova realtà
morale e sociale.
A essere messi in gioco sono palesemente i meccanismi del ricordo, perché grazie a essi venga
mantenuto aperto e praticabile il canale di trasmissione di un’eredità culturale ai propri figli, ai
futuri cittadini romani. La realtà, invece, ormai dice altro.
 
Il primo capitolo dell’ultimo libro del de officiis si apre nel nome di Scipione l'Africano maggiore,
lo fa per riferirsi al tempo migliore della repubblica, un momento in cui non c'era differenza tra vita
attiva e vita contemplativa. Perché nel momento in cui non era impegnato nella vita attiva, poteva
stare da solo e riposarsi, cosa che non può fare Cicerone perché egli sente la necessità di scrivere in
ogni momento in cui non è impegnato nella vita politica, deve dedicarsi agli scritti per tramandare il
suo pensiero. Scipione l'Africano non ne aveva sentito il bisogno e si era dato all'inattività e
solitudine.
Cicerone deve allontanarsi dalla vita attiva a causa della guerra civile e della violenza che lo
costringono ad impegnarsi per le generazioni future.
Nel momento in cui viene evocata una situazione che non è più presente, viene specificata la
situazione in cui verte Roma in questo momento. Cicerone riprende il fatto che questi libri siano
considerati un dono, frutto della sua vita lontana dalla politica.
 
Scipione si presenta come un riferimento incomparabile, come vera e propria figura di ricordo che,
nel momento stesso in cui viene evocata, segnala per intero la distanza da un presente
profondamente stravolto. 
Del tempo libero di Scipione non resta alcun servizio per la collettività, nessun munus (dono) frutto
della sua solitudine: in quel caso, tempo libero e solitudine producevano i medesimi munera del
negotium, che rappresentava il vero scopo verso cui far convergere i momenti dell’attività pubblica
come quelli del riposo. 
La progressiva scomparsa di negotia digna, la rovina delle istituzioni statali, del foro e della curia
hanno decretato la fine delle consuete forme dei munera, e cioè delle controprestazioni che gli
uomini pubblici dovevano allo stato e alla comunità. 
È dunque di estremo interesse che, a conclusione del trattato dedicato alla riconfigurazione del
senso e delle finalità dell’officium – il nome più generale che si possa dare alle prestazioni
reciproche inserite in un circuito di opportunità e di rispondenza alle prerogative sociali ed etiche di
ogni cittadino – anche il munus che un uomo, ora costretto all’inattività forzata dalla morte
della res publica, sente di poter offrire ai suoi contemporanei, venga riconfigurato come
un’eredità collettiva da consegnare ai più giovani, e dunque ai posteri.
 
"Ricevi questo mio dono (munus), figlio mio, a mio avviso importante, ma dipenderà da come lo
riceverai. Questi tre libri dovranno essere accolti come ospiti tra i commentari di Cratippo; ma,
come se io fossi venuto personalmente ad Atene – cosa che avrei fatto, se a metà del viaggio la
chiara voce della patria non mi avesse richiamato indietro – tu mi saresti venuto ad ascoltare, così,
poiché la mia voce è giunta fino a te in questi volumi, dedica loro quanto tempo potrai, e potrai
quanto vorrai dedicarne loro. Quando mi accorgerò che ti piacciono questi studi, allora, di
presenza tra non molto, come spero, e finché sei lontano, da lontano, ti parlerò. Addio, mio
Cicerone, e convinciti del fatto che mi sei molto caro, ma molto di più." (3, 121)
 
Il problema è che non basta il dono di Cicerone al figlio, è importante anche che il figlio sia
interessato e le voglia ascoltare. Il mos maiorum, il ricordo, l'esempio è molto importante perché
non sono più presenti nella situazione attuale. È come se il "De officiis" spiegasse la differente
realtà che Roma deve vivere.
Cicerone comprende che è necessario fornire profili nuovi ai munera, alle controprestazioni rivolte
alla comunità: ed ecco che proprio la scrittura, ovvero ciò che più lo separa dall’exemplum
scipionico, diventa il munus da consegnare quale dono alle giovani generazioni, perché costituisca
testimonianza concreta di una radicale trasformazione delle dinamiche della vita pubblica. 
L’esigenza di ricordare, di comparare ieri e oggi si traduce nell’individuazione della distanza e della
discontinuità tra passato e presente. Assumendo come dato di fatto il crollo irreversibile che ha
travolto le istituzioni della vita pubblica e le trasformazioni dei comportamenti, il de officiis diventa
infatti il luogo dell’elaborazione del cambiamento.
 
Cicerone discute e manipola i capisaldi dell’identità comune, e riconfigura il rapporto tra azioni
compiute per il proprio tornaconto e azioni compiute per il bene comune attraverso un intervento
che trova il suo centro nella riflessione condotta sulla giustizia e sulla circolazione di beneficia. 
Nella riqualificazione secondo giustizia dello scambio di prestazioni e di controprestazioni egli
individua il proprio munus: trasmettere i risultati di questo estremo tentativo di riconfigurazione dei
costumi e dei comportamenti (mores) ai giovani della città, cui tocca ripartire dalle rovine ancora
fumanti dello stato. 
La memoria è più che mai lo strumento più efficace per ricucire il lacerato tessuto connettivo
dell’identità comune.
 
Il libro si conclude con il rischio che i giovani rifiutassero di addossarsi il compito e la fatica
dell’eredità loro trasmessa. 
Il saluto conclusivo al figlio lontano, destinatario reale e simbolico dell’opera appena terminata,
affida tutto alla speranza che le nuove generazioni siano in grado di accogliere con disponibile
gioia, il munus loro trasmesso e le responsabilità a quello connesse: un’eredità convogliata
attraverso la scrittura di ammonizioni e di precetti, individuati nel tessuto della memoria e riproposti
come paradigmatici, essenziali perché la storia comune possa conoscere un nuovo inizio.
 
La filosofia di Cicerone è al servizio della vita sociale, è una filosofia stoica per l'importanza del
valore morale e della tradizione che lo stoicismo presenta, una filosofia anche peripatetica ed
accademica, per cui è come se il "De officiis" fosse un testamento filosofico che giustifica la sua
incoerenza.
L'aspetto aristotelico di Cicerone è il tenere conto di tutte le cose: l'esigenza di una formulazione
delle categorie aristoteliche sottolinea la stessa esigenza di tenere conto di tutta la realtà, anche
politica e sociale.
Cicerone non è solo colui che ha portato la filosofia greca a Roma ma è anche colui che ha creato
una struttura di pensiero seguendo il paradigma greco e creandone uno latino.
 
A partire dal terzo libro si tiene conto sia del primo che del secondo quindi importante!
SENECA
 LIBERTÀ SPIRITUALE: Per tutta la vita, Seneca ribadì l'importanza dell'APERTURA nei
confronti delle dottrine appartenenti ad altre scuole di pensiero. Secondo il filosofo non bisogna
attenersi esclusivamente ai dogmi dei maestri ma bisogna modificare, ampliare e migliorare le
teorie che necessitano di modifiche.
Per questo si può dire che Seneca fu un ECLETTICO che ampliò gli orizzonti del Portico, sempre
mantenendo una base che andasse d'accordo con lo stoicismo:
 EPICUREISMO: guardò alla filosofia di Epicuro e dei suoi seguaci come il fulcro
dell'Atarassia
 MEDIOPLATONISMO: influenza soprattutto ANTROPOLOGIA E ONTOLOGIA:
TRIPARTIZIONE ANIMA
Le nuove conclusioni a cui approda sono guadagnate a livello puramente intuitivo, senza le basi
teoretiche.
 
+ PRATICA - TEORIA: sviluppa dottrine pratiche tralasciando l'aspetto sapienziale.
FILOSOFIA = MEDICINA la filosofia deve essere una terapia che cura dai mali dell'anima. Per
realizzare il fine dell'uomo che è la pace dello spirito non è sufficiente prendersi cura del proprio
corpo ma bisogna anche guardare la propria anima. La filosofia, attraverso il DIALOGO, cura i
mali dell'anima portando la conoscenza agli uomini, la cura avviene quindi attraverso lo strumento
della RAGIONE.
IL TEMPO: Il tempo è una forza INCONTRASTABILE che travolge TUTTO quanto. Non
bisogna averne paura ma bisogna imparare a manovrarlo per vivere bene, per esempio non bisogna
cercare di evitare la MORTE in tutti i modi, bisogna accettarla. La vita è dominata dal DESTINO
e non può evitare fatti che avvengono per volere di uno stretto necessitarismo. In questo caso
rimane coerente con la teoria della CONFLAGRAZIONE UNIVERSALE ed evita invece la
teoria platonica dell'immortalità dell'anima. RIPRESA DEL FEDONE: filosofia come esercizio di
morte che va accetta.
 
LIBERO ARBITRIO: L'uomo non può fuggire dai voleri del destino, quello che può fare è
decidere liberamente di porsi al seguito di questo, in modo da vivere meglio. Deve comportarsi a
metà tra la speranza e disperazione: GIUSTA MISURA.
Dio viene visto come un generale che comanda i soldati. Non bisogna recriminare la natura ma
bisogna adattarsi al volere di Dio senza lamentarsi.
 
Al centro vi è sempre la questione della FELICITÀ sta nel guarire la mente dagli errori e vivere
senza considerare passioni e fortuna che muta rapidamente. L'uomo può raggiungere la giusta
misura durante la vita in terra:
L'uomo felice non deve invidiare nulla agli dei, anzi può considerarsi ancora più realizzato in
quanto passa da una situazione di instabilità ad una condizione di FELICITÀ; inoltre l'uomo agisce
in questo modo liberamente al contrario degli dei che agiscono per loro natura.
La cura dell’anima si realizza con vita felice e realizzata, con la tranquillità
dell’anima, che negli stoici coincide con l’apatia e lo sradicamento delle passioni:
o La filosofia è l’arte del vivere che deve liberare l’anima dagli errori.
o I mali non stanno nelle cose, ma nella nostra valutazione delle cose.
o La filosofia di Seneca è una terapia dei mali dell’anima.
La felicità non si misura quantitativamente ma qualitativamente, la durata della vita non condiziona
la felicità.
 
NO ERUDIZIONE E NO FILOLOGIA: è necessario diventare uomini virtuosi e praticare la
virtù attraverso la razionalità. ONESTÀ > ERUDIZIONE. Riduzione della logica e della fisica,
quindi, va evitata una dialettica troppo sottile.

CONCEZIONE DI DIO:
 STOICISMO: da una parte rimane allineato al dogma panteistico di DIO = COSMO.
 SENTIMENTO RELIGIOSO: DIO OPPOSTO ALLA MATERIA; va contro le
istanze materialistiche proprie della fase antica della stoa.
In questo campo, Seneca non riesce a fondare le sue aggiunte dal punto di vista teoretico, o
quantomeno ad esprimerle in modo tematico perché non ha gli strumenti per farlo.
Rimane così entro gli orizzonti del panteismo stoico
 
IL DIVINO:
Nell'analisi psicologica avanza una nuova teoria in cui Dio assume tratti spirituali e perfino
personali che sporgono al di fuori dell'ontologia stoica.
 
TRIPARTIZIONE DELL'ANIMA:
L'Anima è divisa in tre parti che sono subordinate all'azione dell'EGEMONICO, la parte dominante
della Psychè.
DUALISMO ANIMA-CORPO: l'anima è incatenata dal corpo; deve liberarsi per raggiungere la
purezza che è la realizzazione dell'uomo
 
SCOPERTA DELLA COSCIENZA E DELLA VOLONTÀ:
 LA COSCIENZA: Mette in primo piano la forza spirituale e morale dell'uomo.
Oltre a Dio, il giudice più implacabile è la nostra coscienza dalla quale nessuno può fuggire.
 LA VOLONTÀ: per la prima volta nella storia fa la sua comparsa questo termine, in
latino voluntas, che rompe nettamente con la visione intellettualistica propria della
filosofia ellenica. Anche i pensatori stoici antichi credevano che la moralità dell'azione
fosse determinata dalla conoscenza; Seneca, per primo, introduce una facoltà staccata
dalla conoscenza che determina il corretto agire.
 
IL SENSO DEL PECCATO:
Questo punto è in netta antitesi con l'ideale del saggio della prima filosofia del portico che credeva
potesse esistere una persona che non si macchiasse del minimo errore sia per quanto riguarda lo
spirito sia il corpo.
Seneca crede invece che sia insito nella struttura dell'uomo il PECCATO, che macchia per sempre
la sua condizione, rendendo irraggiungibile un ideale come quello del saggio. TUTTI GLI UOMINI
SARANNO SEMPRE DEI PECCATORI
 
UGUAGLIANZA TRA GLI UOMINI:
Il pensatore che più si è avversato alla schiavitù ed alle distinzione sociali è Seneca. La vera nobiltà
non è data dalle proprie origini quanto dalla VIRTÙ.
NOBILTÀ D'ANIMO > NOBILTÀ SOCIALE
La virtù si accontenta dell'UOMO NUDO, non guarda le discendenze di nessuno in quanto queste
sono conseguenza della fortune, inoltre, tutti possiamo vantare antenati nobili o schiavi, cambia solo
la distanza nel tempo.
 
"COMPORATI CON IL TUO PROSSIMO COME VORRESTI CHE LUI SI COMPORTASSE
CON TE"
" RENDI IL BENE ANCHE A CHI TI FA DEL MALE"

DE PROVVIDENTIA
Testo breve ma molto particolare di Seneca: Il titolo “De Provvidentia” è l’abbreviazione di un
titolo più ampio che, sotto forma di domanda, ci mostra il tema che verrà trattato nell’opera:
“perché capitano le disgrazie a uomini buoni, dal momento che esiste la provvidenza?”.
Questo quesito è caratteristico dell’uomo e presente in tutte le opere di Seneca (passaggio della
“Fedra” in cui lo scandalo per la ragione dell’uomo è rendersi conto dell’ingiustizia secondo cui i
buoni soffrono e i malvagi stanno bene). Il chiedersi se esiste un’entità che si cura dell’uomo, di
fronte alle disgrazie, è una domanda che si ripresenta molto spesso nella letteratura e nella filosofia
in quanto è caratteristica del modo di pensare dell’uomo.
Questo trattato è dedicato a Lucillio, compagno di Seneca anche durante gli ultimi anni della sua
vita.

PROBLEMI FONDAMENTALI DEL DIALOGO:


Non è un vero e proprio dialogo ma è un sintetizzarsi del tema, reso esistenziale, in cui il soggetto si
rivolge a se stesso ponendosi delle domande.

1. Datazione del trattato:


Questa è una delle ultime opere della vita di Seneca (vedi le domande significative)
la datazione riguarda il periodo in cui Seneca si è ritirato dalla vita politica (62-65
d.C.) e medita sulle grandi tematiche in modo disteso.
La difficoltà nella datazione ha dei supporti nel confronto delle opere:
- Lucillio compare nella vita di Seneca in quanto gli dedica le ultime opere “Le lettere
a Lucillio” e “le questioni naturali”. Si riferisce a Lucillio nonostante sappiamo che
in realtà è più un dialogo interiore quello portato avanti da Seneca.
Lucillio era di Pompei, passa dall’Epicureismo allo Stoicismo, per Seneca è un
discepolo con cui svolge un’attività educativa.
- Il tema: le domande sulle questioni fondamentali rientra nelle ultime opere, di fatti
anche nelle “Lettere a Lucillio” si parla della Provvidenza.
- Il rinvio ad un’opera successiva in cui verranno sviluppate le questioni si trova anche
nelle Lettere e nelle questioni naturali.
In Seneca la questione viene trattata secondo lo stile di dialoghi, con andamento diatribico, che non
vogliono sviscerare tutto.

2. Sospetto di incompiutezza:
Le ultime battute del dialogo possono essere viste come troncate, in realtà la
domanda, riguardo l’uscire dalla vita, ha un valore letterario di provocazione.
- Lattanzio cita il “De Provvidentia” con un passo che a noi non è pervenuto il che fa
pensare a delle mancanze dovute alla tradizione manoscritta.
Contro questa opinione ci sono delle argomentazioni:
- La brevità del trattato, costituito da 6 capitoli.
- In risposta a questa obiezione, Seneca già nel proemio afferma di volersi occupare
solo di una parte del tema. Si presenta come avvocato degli dei che difende da
un’accusa.
- Alla domanda perché accadono disgrazie agli uomini buoni, Seneca risponde che la
sua intenzione è quella di privilegiare una parte del discorso.
- Riguardo al finale tronco, gli studiosi di Seneca hanno dimostrato che questo non è
l’unico dialogo che finisce in questo modo. È un metodo scelto da Seneca per
evidenziare una questione che gli sta a cuore.

La struttura del testo deve quindi tenere conto del fatto che Seneca ha intenzione di concentrarsi
solo su una parte del macro-tema affrontato, ovvero il motivo delle disgrazie agli uomini buoni.
Nel passaggio 3, 1 Seneca elenca i temi di cui vuole parlare , organizzati in maniera non organica.
Quindi, si introducono delle ipotesi ulteriori quando non si hanno spiegazioni intrinseche o dai dati
che abbiamo.
“Dimostrerò come non siano mali quelli che sembrano”: tema di matrice stoica, teoria secondo cui i
beni e i mali sono da considerare solo quelli che riguardano la ragione, tutto il resto (disgrazia,
sofferenza e morte) risulta essere indifferente.
Quello che Lucillio, come tutti, pensa essere una disgrazia, sono in realtà:
I. Un vantaggio per quelli a cui capitano (paradosso)
II. Succede a tutti gli uomini
III. Gli uomini danno il consenso al volere del destino
IV. Il corso degli eventi è predestinato
V. Non bisogna compatire un uomo sventurato e buono perché queste non sono causa di
infelicità in quanto non sono mali ma indifferenti.

STRUTTURA DELL’OPERA:
Seneca non è sistematico come Cicerone e procede, non secondo una logica lineare, ma a spirale,
ritornando sullo stesso tema in modo ciclico, illuminandone nuovi aspetti. I vari passaggi da un
tema all’altro sono infatti difficili da scandire.
Nonostante il procedere ciclico, c’è una struttura e architettura del testo che mostra una regia
presente che sceglie la ripetitività per rendere più evidenti certi passaggi, il che crea squilibri in
quanto in certe parti ci saranno delle mancanze nelle spiegazioni.

PARTI DEL DIALOGO:


- Proemio: duplice scansione: prima risponde alla domanda con osservazioni di
carattere cosmologico; poi con delle affermazioni di carattere etico.
- Suddivisione in 5 punti:
- La sofferenza è un vantaggio
- È propria di tutti
- È voluta dall’uomo buono
- È voluta dal destino
- L’uomo è apparentemente infelice ma in realtà no. Il bene riguarda le cose interiori.
- Epilogo: mostra che c’è una volontà di scrittura in Seneca. L’epilogo è costituito da
una prosopopea del Dio, della provvidenza, che passa da accusato ad accusatore.
Nell’ultima parte Dio rivolge delle domande e critiche agli uomini per come
considerano i problemi della vita.
Una seconda parte dell’epilogo dice che all’uomo rimane sempre una porta aperta: il
suicidio.

In risposta alle domande sull’incompiutezza sembra proprio che tutti i punti programmati da Seneca
vengono svolti, seppure in maniera inusuale. C’è unità anche tra elementi trasversali per il ripetersi
di alcuni punti:
- viene ripresa 7 volte la domanda inziale;
- insistenza sulla distinzione tra ciò che riguarda la ragione e ciò che non la riguarda;
- ripresa più volte del tema del suicidio.
Seneca si concepisce come un predicatore di filosofia con la funzione di liberare l’uomo, il che
spiega il suo modo di procedere da una parte inorganico e dall’altro ripetitivo come se stesse
formulando delle massime che devono imprimersi nella memoria (come Epitteto).
Anche in questo caso Seneca sceglie di svolgere qualche argomento e poi di presentare dei punti
che devono essere trattenuti.
Gli interpreti hanno notato che questa idea di “filosofia in pillole” come una raccolta di pensieri
significativi per la condotta di vita è una concezione coerente con quello che Seneca ha affermato.

Un’apertura a tutto, che comporta il pericolo dell’eclettismo, è la strada per percorrere un sentiero
originale avendo delle guide che non sono modelli costringenti. Pur avendo una concezione di
questo tipo, in Seneca si vede che c’è la preferenza delle massime che sono legate ad una volontà di
procedere con la tutela della filosofia. La sapienza, ormai, ha la funzione di terapia di mali, bisogna
servirsene nonostante la vita sia dominata dal destino, o che sia governata dal caso.
Seneca farà l’avvocato degli dei procedendo in modo binario, con l’accusa e la difesa. La natura
retorico-giuridica del trattato viene confermata dalla terminologia tecnica e dalle partes orationis.

La scansione dell’opera evidenzia lo svolgimento della trattazione costituita da un proemium, una


narratio, una propositio, una divisio, una probatio e una peroratio, come se fosse a processo.
- Il proemium: dopo aver indicato i termini e limiti della questione, Seneca accenna a
varie prove dell’esistenza della divinità, l’ordine cosmico a cui accosta problemi
legati al disordine di cui va cercata la causa e della contrarietà rispetto all’ordine
reale; accanto alla trattazione cosmologico ce n’è una di carattere etico in cui Seneca
produce un tema importante che è la somiglianza tra gli dei e gli uomini buoni.
- La narratio: Questione sottile: il filosofo distingue i mali dagli adversa (avversità)
che sono le prove che l’uomo forte deve affrontare.
Lo sviluppo degli esempi è legato al fatto che quello che viene considerato male è
una prova che deve affrontare l’uomo saggio. Le cose avverse invece sono un altro
problema.
Le prove permettono al saggio di esercitare le proprie virtù per volere delle divinità.
Catone è il paradigma dell’uomo forte per via della sua morte che secondo alcune
ricostruzioni egli esce dalla vita liberamente, si suicida dopo aver passato una notte
meditando sullo scontro con Cesare.
- La propositio: si presentano i vari aspetti per cui la sofferenza è utile, si anticipa il
tema dell’apparenza del male.
- La divisio: divisione in cinque punti in cui si spiega che le avversità sono utili a chi
capitano; sono utili a tutti; succedono a chi è consenziente; sono legate al Fato; non
possono portare all’infelicità.
Questi cinque punti vengono ripresi nella parte successiva:
- La probatio: dopo aver enunciato la questione Seneca la riprende amplificandola in
modo asistematico
- La peroratio: in cui si ha la ricapitolazione dei temi, fase finale in cui si riprende e
conclude il tema. Seneca amplia la questione ed introduce una prosopopea
(personificazione) in cui parla Dio che mostra la sua innocenza dalle accuse degli
uomini (danneggiare l’uomo buono) e a sua volta accusa l’uomo di non essere saggio
e di non vivere in conformità.
In chiusura c’è una provocazione di Seneca in cui riprende la questione del suicidio
che è sempre una porta aperta per il saggio. Conclude con una domanda del Dio che
chiede “non arrossite? Una lunga paura per un momento così breve” Gli dei hanno
fatto la morte un momento molto breve ed indolore al contrario del processo di
generazione dell’uomo.
Dunque, non c’è sistematicità, ci sono disuguaglianze nella struttura e nell’argomentazione. Il punto
maggiormente trattato è quello del vantaggio delle sofferenze per l’uomo forte, in cui si dilunga,
dando esempi e spiegazioni.
C’è una ripetizione (7volte) della questione inziale: “perché succedono disgrazie all’uomo buono?”
domanda a cui c’è una reiterazione con esemplificazioni. Negli argomenti ed esempi si nota
l’eclettismo di Seneca che ricorre ad esempi dell’opinione comune del mondo romano associato a
temi stoici tra cui quello dominante è l’interiorità.

SENECA COME DIFENDE GLI DEI?


La difesa di Seneca poggia su alcuni punti principali:
- In natura non c’è nulla di buono che abbia la capacità di nuocere al bene. Il
bene non è mai qualcosa che distrugge il buono.
- Il male non può nuocere il bene: ciò dipende da una legge dei contrari per cui non è
possibile che il contrario agisca come il suo corrispettivo contrario. Dove sta una
cosa non può esserci il suo contrario.
- L’uomo buono è capace di trasformare in bene ogni evento: dall’interiorità
dell’uomo si possono guardare gli eventi in una concezione diversa. Tutto dipende
dal soggetto, Seneca mostra che le cose considerate mali sono solo apparenti non
hanno una natura reale.
Il tema viene rovesciato: le cose sono beni se Dio non li dispensa che ai buoni e mali se li infligge
solo ai malvagi. I beni e i mali riguardano la ragione, quindi, i beni saranno disposti per il saggio
invece i mali sono disposti per coloro che non seguono la ragione. I beni e i mali riguardano
l’autoconservazione della ragione come le virtù; l’opposto sono i vizi che vanno contro la ragione.
Tutte le disgrazie riguardano l’aspetto esteriore dell’uomo, sono degli indifferenti. Non possono
essere considerati dei mali conferiti dagli dei perché Dio, la provvidenza, procura agli uomini solo
delle adversa, delle prove da cui emerge il valore del singolo.
Dio viene paragonato ad un padre severo che mette alla prova il figlio osservando, in modo
compiaciuto, che affronta le difficoltà mettendo in evidenza il proprio valore.

IL SUICIDIO:
Siamo in epoca neroniana, un mondo in cui chi non viene condannato a morte viene condannato al
suicidio, il valore della vita è sceso tantissimo. Seneca riprende la tradizione presente nel pensiero
antico, soprattutto nello stoicismo, secondo cui l’uomo è padrone di se stesso e quindi può
uccidersi. Per Seneca il suicidio è una “porta aperta”, per cui se si arriva ad un livello di fatiche
troppo gravi l’uomo può risolvere il problema togliendosi la vita.

La morte per gli stoici rientra fra gli indifferenti, dato che riguarda il corpo. A questa concezione
collega il fatto che l’universo è caratterizzato da dei cicli, ci sarà la conflagrazione universale in cui
tutto finisce, dopo questa tutto tornerà a ricostituirsi nello stesso modo di prima.
Seneca, dal lato della prospettiva esistenziale, presenta delle annotazioni importanti circa il tempo e
il senso della vita però emergono anche altre tematiche che permettono di dire altre cose, in
contraddizione con le prime. In particolare tramite teorie medio-platoniche che emergono senza
riferimenti espliciti in quanto rimaniamo entro gli orizzonti dello stoicismo, scuola che nega la
seconda navigazione e quindi ogni tipo di trascendenza.
Se si accetta il destino si deve dare consenso a tutto ciò che vuole il destino e quindi alla morte
voluta dal destino.
Nelle “Lettere a Lucillio” emerge la considerazione di Seneca circa il senso della vita: “La vita è
una commedia: non importa quanto sia lunga, ma se venga rappresentata bene, non importa dive
finirai di vivere. Finisci dove vuoi, soltanto cerca di finire bene” L’uomo è preda di questa realtà e
paragona la vita ad una commedia in cui la cosa importante è fare ciò che vuole la regia (la
provvidenza) in cui il soggetto deve seguire la parte assegnatagli.
L’idea del suicidio, in Seneca, è vista come una scelta di libertà (“uscire quando si vuole”). Nello
stoicismo l’idea di affrontare le prove va contro l’autoconservazione, una realizzazione da tutti i
punti di vista (anche quella del corpo).

RIFERIMENTO AL FEDONE: la filosofia è un esercizio di morte. Il Fedone dice che il vero


filosofo è alla ricerca della morte, è un uomo che cerca di realizzare un rapporto corretto fra anima e
corpo. La fuga dal corpo non è il suicidio ma perseguire la vita filosofica, il corpo è prigione e
quindi va evitato. C’è l’idea di un’anima immortale con un destino escatologico, inoltre, l’uomo è
possesso di Dio e quindi non può decidere di uccidersi da sé.

RIFERIMENTO ALLA CITTÀ DI DIO: Agostino vede una contraddizione in questa concezione
stoica tra il negare che le cose corporee siano male e poi ammettere il suicidio.

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