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PARTE PRIMA – L’OTTOCENTO

1 NASCITA DELL’ANTROPOLOGIA

1799: Louis-François Jauffret fonda la Société des Observateurs de l’Homme;


gruppo di intellettuali eredi dell’Illuminismo e dell’Encyclopédie, non antropologi nel
senso moderno del termine. La società rappresenta la prima formulazione di un
piano scientifico di ricerca sullo studio dell’uomo, sia empirico, sia teorico, basato
sullo studio comparato di società e culture.

Prima c’erano solo:

- La tradizione della letteratura esotica e di viaggio e dei resoconti di missionari,


esploratori, mercanti e soldati, che però non rispondeva ad alcun progetto
scientifico e si limitava a riportare sensazioni e impressioni semplicemente
basate su esotismo, moralismo, pregiudizi e meraviglia;
- La tradizione filosofica di autori come Rousseau legati alla polemica
ideologica sui “selvaggi”: battaglie antischiaviste dei filantropi, visione del
“buon selvaggio” e simili; concezioni comunque non autonome e sempre
subordinate all’idea di “uomo civilizzato”.

La Société des Observateurs de l’Homme nasce in un contesto che favorisce la


nascita di una scienza che ha per oggetto l’uomo: intellettuali eredi del patrimonio
filosofico e scientifico dell’Illuminismo, promozione della politica e dell’economia,
l’Europa che si affaccia sull’Oriente, la nascita dell’egittologia. La società nasce solo
un anno dopo la campagna d’Egitto di Napoleone, che comprendeva 160 tra
geografi, ingegneri, matematici, naturalisti, pittori, linguisti, storici e altri studiosi.

Il quadro epistemologico di riferimento permetteva di parlare dell’uomo come genere


universale. Scopo della società era l’osservazione dell’umanità nella sua variabilità
fisica, linguistica, geografica e sociale uscendo dalla semplice conoscenza della
propria società. Il principio guida era quello del confronto-differenza. Il progetto era
filosofico, ma il metodo era diverso da quello dei filosofi: il filosofo doveva diventare
viaggiatore e diventare appunto un “viaggiatore filosofo”, una figura che precorre
l’antropologo moderno, che non si limita a viaggiare, ma pensa e correla i dati delle
sue osservazioni in una teoria.

La Società chiude presto, già nel 1805, per le mutate condizioni politiche. Si perdeva
la traccia filosofica dell’Illuminismo e si enfatizzava la dimensione tecnicista,
funzionale alle esigenze dello stato. La scienza sociale viene allontanata dal potere.

La teoria della degenerazione

All’Illuminismo fa da contraltare, nei primi decenni dell’800, una reazione romantica


sostenuta da autori che, come De Maistre, sostenevano la vanagloria
dell’Illuminismo come atto di sfida all’ordine divino. Una sorta di restaurazione che
ridava forza all’idea di subordinazione alla chiesa e alla monarchia, i garanti terreni di
tale ordine. In questa prospettiva, il selvaggio diventa l’emblema della degradazione
1
alla quale l’uomo è condannato per il peccato originale e la civiltà assume il
significato di un dono divino non concesso a tutti i popoli. Questa tesi viene accolta e
sviluppata in Gran Bretagna; Wathely (vescovo di Dublino) sostiene che una
comunità non può sollevarsi dalla condizione miserabile dello stato selvaggio senza
aiuti esterni e giustifica questa affermazione con l’assenza di prove del passaggio
dallo stato selvaggio alla civiltà e con l’assenza di riscontri di progressi autonomi in
popoli selvaggi rivisitati a distanza anche di molti anni.

Creazionismo contro evoluzionismo

La teoria della degenerazione poggiava sulla convinzione che la storia dell’uomo


fosse riconducibile ad un’ottica creazionista e quindi a una scala temporale molto
ridotta; infatti, la data di creazione del mondo ufficialmente accettata dalla Chiesa
d’Inghilterra risaliva al 4004 a.C.

Ma nel frattempo, gli studi storici sulla Bibbia e quelli di Darwin (L’Origine delle
specie è del 1859) iniziavano a fornire prospettive diverse e così creazionismo ed
evoluzionismo iniziano a dare interpretazioni molto diverse della storia naturale e di
quella umana.

Si fa strada l’idea del lento, ma continuo e inarrestabile movimento dell’uomo lungo


la storia verso la conoscenza, il benessere, la giustizia. Un movimento che la storia
dell’uomo dimostrava essersi prodotto con le sole forze dell’uomo. Tutto sommato,
l’idea autocelebrativa che questa teoria portava con sé ben si adattava come
giustificazione “scientifica” della politica coloniale inglese. E proprio nel quadro
teorico e ideologico dell’evoluzionismo positivo britannico l’ipoteca del
creazionismo cede, anche davanti alle evidenze scientifiche dei progressi della
geologia (stabilità nel tempo e dei tempi dei processi di modificazione della crosta
terrestre) e dell’archeologia (reperti come misuratori del progresso e della sua
cumulabilità), oltre che della biologia.

Il quadro storico-politico in Europa

Il Congresso di Vienna conferisce all’Europa un assetto politico stabile destinato a


mantenersi per un secolo, una condizione favorevole allo sviluppo economico,
sociale e scientifico senza precedenti: sviluppo industriale, sviluppo dei mercati,
sviluppo scientifico e tecnologico, imprese coloniali, trionfo della borghesia. Ne deriva
un’immagine della società in rapido sviluppo grazie al concetto di “progresso”.

Conseguenze sulle scienze sociali

Nasce la sociologia, stadio ultimo del sapere positivo e scienza in grado di


comprendere gli effetti del progresso sulla società e anche di guidarli. Si afferma
anche l’antropologia evoluzionista, che considera il progresso un concetto sintetico
che esprime la continuità e la cumulatività culturale e secondo la quale, a causa della
sostanziale identità delle facoltà umane, per gli stessi livelli di sviluppo intellettuale
i popoli elaborano adattamenti materiali simili; il parallelismo tra europei preistorici e
selvaggi contemporanei è l’assunto centrale dell’antropologia evoluzionista. La
società industriale di metà ‘800 era considerata il più alto stadio di un’evoluzione

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culturale di natura cumulativa. L’idea dello sviluppo delle società attraverso stadi
culturali ordinabili è ormai affermata: leggi sempre identiche agiscono nella storia
della società umana e producono effetti cumulativi che consentono l’ascesa.
Conseguentemente:

- I primitivi contemporanei rappresentavano uno stadio remoto dello sviluppo


culturale;
- Era possibile classificare le società in inferiori e superiori secondo una scala
generale di sviluppo.

E’ proprio con l’evoluzionismo che l’antropologia diventa un sapere scientifico e


quindi riconosciuta come disciplina accademica.

2 L’ANTROPOLOGIA EVOLUZIONISTA DELL’ETA’ VITTORIANA

La culla dell’antropologia moderna è l’Inghilterra della regina Vittoria, poiché nel


lungo periodo del suo regno questo paese si impone come la maggiore potenza
industriale, coloniale (India, Africa, Medio Oriente, Sudest Asiatico, Oceania,
Australia, Nuova Zelanda), militare e politica. Internamente, superato il periodo del
“capitalismo di rapina”, il proletariato migliora lentamente le proprie condizioni e
nascono le prime organizzazioni sindacali; lo spirito liberale eleva l’economia,
aumenta i salari e riconosce i diritti dei lavoratori; alfabetizzazione, scolarizzazione e
suffragio universale (anche se ai soli uomini). Visione ottimistica del divenire storico
grazie anche al progresso scientifico e tecnologico: una visione favorevole
all’interpretazione della storia dell’umanità sostenuta da prove empiriche.

Edward Tylor e la scienza delle società primitive

L’antropologia viene vista, coerentemente con la società che l’aveva prodotta, come
scienza “ottimista” e in grado di fornire contributi utili ad un’umanità bisognosa di
riforme sul piano sociale, politico e culturale. Tylor, uno dei suoi fondatori, chiama
l’antropologia “scienza del riformatore”.

Il concetto di cultura
Cultura primitiva (1871), l’opera più celebre di Tylor, definisce la cultura come
“insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il
diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto
membro della società”. Secondo Tylor:

- La cultura si trova ovunque;


- Ovunque comprende le diverse dimensioni elencate (morale, economia,
ecc.);
- La cultura è acquisita e non connaturata ad una razza (come sostenevano i
creazionisti);
- La cultura è acquisita dall’uomo in quanto membro di una società. Società
diverse  culture diverse.

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Tylor trasferisce il concetto di cultura dall’individuale al collettivo. L’intera cultura
umana è un patrimonio ottenuto cumulativamente e ulteriormente incrementabile.
Questo concetto si presta bene al progetto evoluzionista.

Potendo quindi rappresentare la storia del genere umano attraverso una linea
ascendente che andava dalle forme di organizzazione sociale più semplici a quelle
più complesse Tylor, come del resto tutti i suoi contemporanei, pensava che
esistessero popoli “inferiori” e “superiori” e che la più alta organizzazione
dell’individuo e della società fosse funzionale al benessere e alla felicità dell’uomo.
Inoltre, i selvaggi contemporanei rappresentavano gli stadi culturali precedenti
nell’evoluzione.

La religione
Tra i primi interessi degli evoluzionisti: la denominazione dei legami di parentela,
l’evoluzione del diritto e, soprattutto, la religione.
Tylor si occupa di animismo, ovvero della credenza negli esseri spirituali; in
particolare di quella tipicamente riscontrabile nei popoli primitivi secondo la quale
ogni cosa, compresi gli oggetti inerti, ha un’anima. Secondo Tylor questa idea deriva
dall’esperienza del sogno, dove si verificano apparizioni e sdoppiamenti, e dalla
conseguente deduzione dell’esistenza di un “doppio”, l’anima appunto, che si può
distaccare dai corpi e dagli oggetti. Da qui la nozione ancora più astratta di spirito
come entità immateriale del tutto autonoma. Per Tylor l’animismo è la base costante
della filosofia della religione, ma con l’evoluzione e l’emergere del pensiero razionale
la credenza iniziale di un’anima in ogni essere vivente e oggetto inerte finisce per
ridursi al solo significato di anima umana attribuito dall’uomo civilizzato. Del resto, la
comparsa del pensiero razionale si accompagnava alla progressiva riduzione della
gamma di fenomeni investiti dal pensiero magico e religioso.

Le sopravvivenze
Altro concetto-chiave dell’antropologia evoluzionista. Cambiamenti generali nelle
condizioni di vita di un popolo conservano molte cose che hanno avuto origine
anteriormente. Le sopravvivenze (credenze, idee, pratiche) testimoniano l’esistenza
di un’evoluzione culturale, poiché non sono giustificabili dalle caratteristiche attuali di
una cultura; il loro significato autentico è rintracciabile solo negli stati culturali
antecedenti. Secondo Tylor le sopravvivenze costituiscono una vera e propria
miniera di conoscenza per l’indagine storica.

Il metodo comparativo
Rappresentando stadi di un’evoluzione che vedeva al culmine la cultura occidentale,
le culture e le società che l’Occidente andava incontrando costituivano, secondo
l’approccio evoluzionista, vere realtà di studio, non curiosità o degenerazioni. Proprio
per questo l’antropologia assunse un carattere comparativo: la comparazione tra
culture divenne condizione essenziale per trarre conclusioni e generalizzazioni.
L’approccio comparativo degli evoluzionisti è stato in parte criticato per la tendenza a
decontestualizzare i dati etnografici e a piegarli ad un progetto conoscitivo teso a
tracciare linee di sviluppo.

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William Robertson Smith – I riti comunitari e l’efficacia sociale della religione

A differenza di molti suoi colleghi, Smith effettua ricognizioni sul campo visitando
Egitto e Palestina.

Smith matura l’idea di un’origine sociale della religione 1. Il dato primario di ogni
esperienza religiosa sono i riti e i simboli ad essa correlati, condivisi dai membri
della società che li trovano già presenti dalla nascita. Smith antepone la dimensione
religiosa collettiva a quella individuale e questo trova riscontro nella collettività dei riti.
Conformarsi e partecipare ai rituali pubblici celebrati periodicamente era indicativo
per Smith dello stato dei rapporti tra gli individui e la comunità. Ecco la natura sociale
della religione e la sua funzione di elemento coesivo della società, contrapposta
all’idea di un bisogno spirituale dell’individuo.

Il sacrificio
Non era un dono offerto alla divinità per ingraziarsela, ma un rituale di comunione tra
la società e la divinità, che rappresentava simbolicamente l’unità della società stessa.

James Frazer – Dalla magia alla scienza

Collega il pensiero magico, quello religioso e quello scientifico che, per Frazer,
costituiscono altrettante tappe nello sviluppo intellettuale umano:

Magia Tentativo di esercitare un controllo sulla natura in una fase intellettiva


caratterizzata dall’ignoranza sui rapporti causali del mondo;
Religione Accattivarsi il favore delle forze della natura. Sacerdote come mediatore;
Scienza Osservazione dei fenomeni naturali e ricerca delle leggi che li regolano.

Egli sviluppa questa teoria sulla base di un’immensa mole di dati desunti dal
repertorio dell’etnografia e della letteratura classica.

3 LE ORIGINI DELL’ANTROPOLOGIA AMERICANA E LEWIS MORGAN

Negli Stati Uniti, l’antropologia si sviluppa nella prima metà dell’800 ad opera di
alcuni ricercatori dilettanti interessati ai costumi dei nativi americani; a Lewis
Morgan va riconosciuto il merito di avere saputo costruire una visione teorica più
ampia.

Lo scenario ideologico

Agli inizi delle attività di Morgan convivevano due concezioni opposte dell’Indiano:
rispetto alle questioni interne, l’Indiano era il nemico che impediva l’espansione
dell’uomo bianco, mentre nella presentazione della giovane nazione americana
all’Europa l’Indiano incarnava virtù e valori di libertà e semplicità.

1
In un certo senso questo è strano, dal momento che Smith aderisce all’antropologia evoluzionista, la
quale individua le fasi originarie della religione in uno stato primitivo sostanzialmente povero di
costrutti e dinamiche sociali.
5
Il problema indiano poneva anche questioni giuridiche: gli Indiani costituivano una
nazione?

Morgan e lo studio degli Irochesi

La lega degli Irochesi esce nel 1851. Fornisce una descrizione socio-politica delle
sei “nazioni” della federazione irochese ed è successiva al lavoro svolto da Morgan
come avvocato difensore dei Sèneca (una delle sei “nazioni”), che rischiavano di
perdere le loro terre a causa di un gruppo di speculatori bianchi. In realtà, Morgan
aveva coltivato contatti e amicizie con i Séneca e compiuto anche brevi soggiorni
nella loro riserva, entrando in contatto diretto con il loro universo sociale.

Quest’opera raccoglie osservazioni sui sistemi di parentela indiani. Zii e zie erano
chiamati padre e madre; coerentemente i cugini erano chiamati fratello e sorella.
Morgan si rese conto di come questo sistema avesse avuto una funzione nell’unità
politica tra le sei “nazioni”. Ogni nazione era divisa in “tribù” designate da nomi di
animali; tribù con lo stesso nome si trovavano in più nazioni e i loro membri si
consideravano discendenti di un antenato comune e perciò fratelli tra loro. Si
determinava così una fitta rete di rapporti di parentele trasversali rispetto alle nazioni
e l’effetto di questa organizzazione si rifletteva nell’integrazione politica tra le stesse
e in un sistema di valori comuni, democratico ed egualitario.
Morgan era un peroratore della causa indiana e sottolineando il valore di questo
ordinamento intendeva anche valorizzare il popolo indiano e dimostrare il rispetto
che esso meritava.

I sistemi di parentela

Morgan sosteneva che i sistemi di parentela costituiscono criteri estremamente validi


per rintracciare somiglianze tra i popoli, ancora più forti di criteri basati su
somiglianze nel linguaggio. Questo perché un sistema di relazioni è meno soggetto a
variazioni rispetto al linguaggio, ovviamente non nei termini usati per descrivere la
parentela, ma nelle idee sottostanti.

In base a questa visione, Morgan sostiene l’origine asiatica degli Indiani d’America,
avendo riscontrato in Asia sistemi di parentela simili a quelli osservati tra gli Indiani.
Questo interesse lo porta ad allargare l’indagine: compie ulteriori ricerche in America
e raccoglie dati in tutto il mondo attraverso un questionario distribuito dalla
Smithsonian Institution. I risultati lo portano a distinguere due grandi gruppi di sistemi
di parentela:

Sistemi classificatori Sistemi descrittivi


Come quello irochese. I consanguinei in linea In vigore presso i popoli europei. I
collaterale non vengono distinti da quelli in consanguinei in linea collaterale vengono
linea diretta. Il sistema è classificatorio nel distinti da quelli in linea diretta. Il sistema è
senso che è maggiormente categorizzante. descrittivo nel senso che è più “accurato”
Morgan ipotizza che i due sistemi siano caratteristici di società di tipo diverso:
Organizzazione sociale basata sui rapporti di Organizzazione sociale fondata su rapporti di
parentela; adeguata in mancanza di leggi tipo politico; tipica di una società “evoluta”.
codificate e di uno stato in grado di
assicurare i diritti degli individui.
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Da questa premessa, Morgan concepisce le possibili forme di organizzazione sociale
in termini evoluzionistici sulla base del grado di espressione della logica
classificatoria o descrittiva nel sistema di parentele; la lenta sostituzione della logica
classificatoria con quella descrittiva definisce lo schema evolutivo teorizzato da
Morgan, soprattutto in relazione alla famiglia: da una situazione di promiscuità nella
quale non è possibile distinguere i figli di una coppia da quelli di un’altra, alla famiglia
monogamica che permette di “descrivere” con precisione i rapporti di parentela.

Nel caso specifico degli Irochesi, l’esistenza di un sistema classificatorio non


significava necessariamente che i rapporti di parentela non fossero descrivibili; tale
sistema poteva essere una sopravvivenza (vedi Tylor) ereditata da un periodo in cui
effettivamente ciò non era possibile, ma era comunque funzionale alla condizione di
assenza di un’istituzione politica centrale.

Morgan collega la sequenza di sviluppo dei sistemi di parentela con i tipi di unione
matrimoniale dai quali discende l’istituzione familiare. Ad esempio, se il fratello del
padre era chiamato anch’egli padre, era perché vi fu un periodo in cui la distinzione
era effettivamente impossibile, essendo le donne possedute da un gruppo di fratelli
(poliandria adelfica).

Il passaggio dai sistemi classificatori a quelli descrittivi è per Morgan legato alla
comparsa del diritto di proprietà sulla terra e quindi alla formazione concomitante di
un’adeguata società politica. Il diritto di proprietà poneva anche la delicata
questione dell’eredità ai discendenti in linea diretta.

Morgan e l’evoluzione sociale

Morgan, considerato l’espressione più compiuta dell’evoluzionismo americano,


stabilisce condizioni della società ben distinguibili tra loro in base alle invenzioni e
alle scoperte rappresentative del grado di progresso e identifica in tal modo quelli
che chiama periodi etnici:

Selvaggio Pesca, uso del fuoco (periodo intermedio), arco e caccia (periodo
superiore);
Barbaro Altre tecniche di sussistenza e invenzioni;
Civilizzato Invenzione di un alfabeto fonetico.

L’uso di invenzioni e scoperte come indicatori del progresso è un’idea condivisa da


altri studiosi europei contemporanei di Morgan.

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PARTE SECONDA – FINE OTTOCENTO - PRIMA GUERRA MONDIALE

4 LO SVILUPPO DELL’ANTROPOLOGIA NEGLI STATI UNITI E LA SCUOLA DI BOAS

Franz Boas, etnografo tedesco trapiantato in America, diventa la figura di maggior


rilievo nell’antropologia americana. Studioso sul campo, concentra la propria
attenzione su singole culture e aree culturali particolari. Con questo approccio e
l’avversione per qualsiasi forma di esposizione sistematica, di fatto rifonda in
maniera radicale la seppur giovane antropologia d’oltreoceano.

Boas e la critica dell’evoluzionismo

Boas rompe con la tradizione antropologica americana negando il significato di una


ricostruzione storica sistematica e generale dell’evoluzione della cultura così come
era concepita nella prospettiva evoluzionista. Respinge l’idea che tratti culturali simili
possano prodursi presso popolazioni distanti e prive di origini storiche comuni. Gli
evoluzionisti basavano questo assunto sulla unicità psichica del genere umano, ma
tale assunzione significava per Boas che uno stesso fenomeno etnologico aveva
sviluppi identici ovunque e una tale visione era per lui inadatta alle ricostruzioni
storiche. Boas dimostra ciò producendo una serie di esempi concreti che svelano
l’esistenza di origini e significati differenti per fenomeni culturali simili. In pratica Boas
dice: se stiamo ai fatti, non si può riconoscere un’universalità delle cause alla base di
tratti culturali identici appartenenti a culture diverse.

Parlando di Boas, si parla di storicismo e a questo punto è chiaro anche il motivo di


ciò. La ricerca delle cause, non essendo queste universali, deve essere condotta
attraverso un’indagine storica locale. Con Boas prende avvio il metodo storico (o
particolarismo storico), come base per lo studio delle culture nella loro singolarità.

L’analisi del potlach


Un aspetto particolare studiato da Boas è il potlach, un’istituzione piuttosto singolare
presente tra i Kwakiutl, Indiani della costa americana del Pacifico. Si trattava di
rituali di ostentazione, ovvero sfide nella distruzione di grandi quantità di beni
considerati di prestigio, attuati allo scopo di affermare o riacquistare pubblicamente il
proprio rango o di abbassare quello di un avversario. In una società fortemente
stratificata come quella dei Kwakiutl, questa pratica impediva alterazioni del
sistema che si sarebbero invece prodotte immettendo i beni nei circuiti
convenzionali. Boas descrive il potlach in termini puramente economici (interesse,
capitale, investimento, vendita, ecc.) in un contesto che però non aveva nulla a che
vedere con situazioni di mercato; questo appare strano, poiché considerava la
società occidentale come l’unica ad essere dotata di una vera economia.

Il ruolo della psicologia


Per Boas, uno dei compiti dell’etnologia è quello di determinare i processi psicologici
operanti nello sviluppo dei fenomeni culturali, poiché ritiene che le dinamiche della
vita sociale possano essere comprese sulla base delle reazioni individuali nei
confronti della cultura di riferimento.

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Concludendo su Boas

Boas esercita un’influenza determinante e duratura sulla tradizione antropologica


statunitense. I suoi effetti antievoluzionisti alimenteranno sia la tendenza
diffusionista, sia quella particolaristica e individualizzante.

Kroeber: La critica della prospettiva causale e studio della parentela

Primo studente di antropologia a laurearsi sotto la guida di Boas, Kroeber si occupa


delle cause dei fenomeni culturali e, in particolare, critica le teorie di tipo mono-
causali sull’origine del mito (es. teoria dell’animismo di Tylor), sostenendo per contro
l’esistenza di aggregati causali indistinguibili. Ad esempio rifiuta, proprio perché
basate sull’assunzione di singole istanze causali, le teorie che pongono all’origine dei
miti la sola deformazione di eventi storici o la sola invenzione allegorica.

La critica a Morgan sui sistemi di parentela


La distinzione tra sistemi classificatori e descrittivi è per Kroeber arbitraria ed
etnocentrica, poiché sistemi esistenti rivelano di possedere entrambe le
caratteristiche2. Quindi, come può essere che le terminologie di parentela riflettano la
natura dei rapporti sociali come sostiene Morgan? In realtà Morgan aveva
considerato l’esistenza di casi di questo tipo, che aveva individuato come
semplificazioni del sistema descrittivo per altro incapaci di intaccarne i principi.
Quello che Kroeber avrebbe potuto dire ai fini di una critica, e che invece non ha
detto, è che il termine “cousin” nel sistema inglese designa parenti consanguinei sia
in linea diretta, sia in linea collaterale, ovvero proprio nella variante che secondo
Morgan stabilisce la differenza tra sistemi classificatori e descrittivi.

Ma al di là di quella che potrebbe anche essere stata un’incomprensione, la critica


riflette un modo diverso di concepire la natura dei sistemi di parentela, che se per
Morgan riflette la natura dei rapporti sociali, per Kroeber riflette aspetti psicologici
determinati dal linguaggio: i termini di parentela possono essere associati anche a
domini semantici diversi da quello parentale, come quando chiamiamo “zia” o
“nonno” persone che non sono parenti nel senso dei termini usati.

Kroeber individua 8 principi fondamentali che regolano la costruzione di sistemi


terminologici per nominare i parenti, alcuni a noi noti, come:

- La differenza di generazione
- La differenza di parentela diretta o collaterale
- Il sesso del parente
- La differenza tra parenti consanguinei e acquisiti per matrimonio

ed altri non presenti nei nostri sistemi, come il sesso di colui che parla, la differenza
di età nell’ambito della stessa generazione e altri ancora.

2
Ad esempio, in inglese il termine “cousin” identifica cugini maschi e femmine, sia da parte di madre,
sia da parte di padre e senza considerare l’effettivo grado di prossimità; in tal modo il principio
classificatorio non risulta esclusivo dei sistemi primitivi.
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Alcuni sistemi considerano tutti gli 8 principi ed altri solo una parte. Siccome il
sistema inglese utilizza solo quelli del primo gruppo, Kroeber sostiene addirittura che
questo sistema sia più classificatorio, ad esempio, di quelli utilizzati dagli Indiani che
invece ne usano da 6 a 8.

La natura superorganica della cultura


Il superorganico (1917) è il saggio con cui Kroeber afferma la discontinuità
assoluta tra il livello dei fenomeni culturali e quello dei fenomeni biologici. L’ordine
dei fenomeni culturali è autonomo e irriducibile all’ordine dei fenomeni biologici. In tal
modo, Kroeber liquida il darwinismo sociale americano, che assimilava le leggi di
funzionamento della società a quelle della natura, giustificando in tal modo certe
disuguaglianze sociali come fenomeni di “selezione naturale”.

La conseguenza estrema dell’autonomia riconosciuta ai processi culturali è la sua


indipendenza dall’azione storica individuale. Il conferimento di una natura
superorganica, ma anche sovraindividuale ai fenomeni culturali pone Kroeber in una
posizione diversa da quella di Boas.

Loewie: Etnologia e psicologia

Anch’egli allievo di Boas, Loewie si concentra sulla peculiarità dell’etnologia e sulla


sua distinzione dalla psicologia. Loewie considera la psicologia, come molti nella sua
epoca, come studio esclusivo dei processi percettivi e cognitivi, per cui basa la sua
distinzione sul principio che mentre la psicologia studia ciò che è innato, l’etnologia
si occupa di ciò che è acquisito. Per chiarire meglio, egli porta ad esempio la
percezione di un segno a forma di croce: psicologicamente (cioè percettivamente)
tutti percepiscono lo stesso segno, ma il significato ad esso associato (percezione
culturale, significante) varia a seconda che chi percepisce sia un cristiano, un
musulmano o un buddista.

5 LA RIFLESSIONE FRANCESE SULLE SOCIETÀ E LA MENTALITÀ “PRIMITIVE”

Nonostante fosse stata la culla dell’interesse per la vita dei popoli extra-europei, la
Francia sviluppa la propria riflessione sulle società primitive solo alla fine del XIX
secolo e come derivazione della sociologia.

La sociologia francese è dominata dal pensiero di Comte, che teorizza tre stadi nel
cammino dell’umanità: teologico, metafisico e positivo. Mentre nei primi due il ruolo di
stabilizzatori del sistema sociale è svolto dalla “credenze comuni” (le opinioni
mediamente accettate pur non essendo il prodotto di elaborazioni razionali, ma il
frutto di intuizioni, tradizioni e supposizioni), nell’ultimo (che si identifica con la
società capitalistico-industriale dell’800) l’equilibrio e l’ordine sociale sono
conseguenza del sapere positivo.

L’ideale di un sapere capace di tanto subisce però un colpo devastante con la guerra
civile del 1870. Le mutate condizioni economiche e sociali avevano prodotto tensioni
politiche e generato fenomeni di massa che sembravano smossi proprio da quelle

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“credenze comuni” che, secondo Comte, avrebbero dovuto essere relegate negli
stadi antecedenti.

Émile Durkheim: Coscienza e rappresentazioni collettive

Lo sforzo più significativo teso al superamento delle concezioni comtiane è quello di


Durkheim, che introduce il concetto di coscienza collettiva come entità sociale
sovraindividuale, con una logica di sviluppo autonoma e quindi indipendente dalle
coscienze dei singoli. Per Durkheim tutte le società possiedono una coscienza
collettiva e sono quindi comparabili. E’ proprio questa la prospettiva che permette a
Durkeim di aprirsi verso l’etnologia.

L’intensità con la quale la coscienza collettiva si manifesta nelle società dipende dal
tipo di solidarietà tra i membri:

Società a solidarietà meccanica Società a solidarietà organica


La coscienza collettiva è molto forte, poiché Prevale la tendenza del singolo a differenziarsi
la vita sociale è pervasiva rispetto alla vita rispetto alla collettività. La coscienza collettiva
del singolo, determinandone i sentimenti e le occupa spazi più ristretti e legati a volontà
scelte. La riprovazione sociale per ogni atto contrattuali, in ogni caso efficaci per il
contro le norme sociali è quindi molto forte. mantenimento di un’identità sociale comune.

Per Durkheim la solidarietà meccanica è caratteristica delle società “primitive”,


mentre quella organica di quelle “civili” e le diverse società di posizionano su di un
continuum tra i due estremi.

Il lavoro di Durkheim sulle forme elementari di religione

La teoria generale della religione di Durkheim cerca di individuare gli elementi (le
forme elementari) che fanno parte di ogni sistema religioso. L’assunto alla base della
teoria è l’unicità del fenomeno religioso: ogni religione risponde alle stesse
necessità, assolve le stesse funzioni e dipende dalle stesse cause,
indipendentemente dal suo grado di complessità interno. Ciò rende le religioni
comparabili.

Il sistema religioso più semplice per Durkheim è il totemismo, una forma di


religione in cui il gruppo sociale si identifica con un animale, una pianta o un
fenomeno naturale che diventa simbolo del gruppo, rappresentazione dell’antenato
comune e oggetto di culto. Coerentemente con la sua impostazione di base, le
rappresentazioni di questo sistema sono di natura collettiva e indipendenti dalla
psiche individuale: la consapevolezza di non poter esistere al di fuori della società
spinge gli individui a idealizzare la propria unione e a rappresentarla nel simbolo
totemico. Il totem diventa oggetto di culto, ma in realtà ciò che viene adorato è il clan,
la società, che mantiene così vivo il senso di una perpetua dipendenza. E’ così
chiaro il significato del dominio esercitato dalla dimensione sociale sul
comportamento e sul pensiero individuale.

Totemismo degli aborigeni australiani, religione degli antichi o religione del nostro
tempo sono tutte accomunate dalla devozione che i singoli nutrono per la propria
società. Anche l’esercizio di un potere morale attraverso regole e leggi è funzionale
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al senso di rispetto degli individui per la società, i quali spesso obbediscono anche in
contrasto ai propri interessi personali, poiché il rispetto delle norme produce negli
individui sentimenti di appartenenza sociale.

I “fatti sociali”
Con Durkheim emerge una prospettiva del tutto nuova nell’etnologia europea:
fenomeni come la religione, ma anche le istituzioni giuridiche e le norme etiche, da
questo momento non possono più essere considerati come progressi intellettuali di
origine individuale, ma come entità sovraindividuali dotate di vita propria. Infatti, da
Durkheim in poi, si parla di “fatti sociali” come insiemi di rappresentazioni e
comportamenti identificabili proprio per il potere di esercitare costrizioni sugli
individui: ruoli, credenze, miti, norme, ecc. I fatti sociali sono ciò che attraverso i
meccanismi impersonali dell’obbligazione e della norma impongono agli individui
l’adesione alle regole del corpo sociale. Anche la religione è quindi un fatto sociale.

Lucien Lévy-Bruhl

Filosofo di formazione, Lévy-Bruhl sviluppa le idee di Durkheim uscendo però


dall’ambito sociologico. Inizia la sua attività etnografica con le società “primitive”, un
ambito dal quale poi di fatto non si muove più, spostando l’oggetto della sua
riflessione anche sulle forme di pensiero che diventa così l’oggetto principale della
sua produzione.

Lévy-Bruhl critica l’evoluzionismo inglese teso a ricercare le cause “prime” delle


rappresentazioni collettive comuni ad un dato gruppo sociale. Dal suo punto di vista,
invece, questi fenomeni non sono il prodotto di attività intellettuali, ma conservano
una natura sovraindividuale (si richiama ai “fatti sociali” di Durkheim), si trasmettono
attraverso le generazioni tramite la pratica sociale e dipendono da una sorta di
predeterminazione sociologica: il gruppo sociale primitivo vive cioè un’esperienza
“mistica” priva di giudizi individuali indipendenti diversi da quello imposto dalla
società. Questa caratteristica del pensiero dei primitivi permette, ad esempio, di
comprendere la pratica della magia indipendentemente dai risultati che può dare: la
rappresentazione collettiva impedisce di concentrare l’attenzione sui dati
dell’esperienza oggettiva.

Questo studioso definisce il pensiero primitivo “pre-logico”; il termine non


sottintende un pensiero meno evoluto, quanto piuttosto a-scientifico e a-critico.
Rispetto al pensiero “civilizzato” non c’è una differenza quantitativa, ma qualitativa:
anche la mentalità primitiva si preoccupa delle cause di ciò che accade, ma le ricerca
secondo criteri diversi e tesi a coordinare le tante rappresentazioni mistiche possibili.
Lévy-Bruhl parla in tal senso di “relazione partecipante” per indicare l’idea di
innumerevoli potenze occulte pronte ad intervenire.

Nonostante l’uso di termini come “pre-logico” o “primitivo”, la distanza tra Lévy-Bruhl


e gli evoluzionisti appare notevole, anche se alcuni hanno letto nella distinzione
radicale tra mentalità “pre-logica” e “logica” una variante del pregiudizio etnocentrico
che Lévy-Bruhl avrebbe riprodotto per altra via.

12
Negli ultimi anni della sua attività Lévy-Bruhl riconsidera la netta contrapposizione tra
le forme “pre-logico - mistico” del pensiero primitivo e “logico - razionale” del pensiero
occidentale che egli stesso aveva contribuito a generare, constatando come anche
nella società positiva e scientifica fosse comunque possibile ritrovare tracce di
atteggiamenti “partecipativi”, “mistici” e “pre-logici”.

6 TRADIZIONI POPOLARI ED ETNOLOGIA IN ITALIA

L’etnologia italiana, sviluppatasi solo minimamente attorno alle imprese coloniali,


rappresenta una tradizione minore legata all’indagine storico-giuridica dell’età
classica e soprattutto allo studio del folklore e della tradizione popolare (demologia).
Il ritardo della cultura antropologica italiana è anche dovuto al ritardo dell’unità
politica nazionale; l’interesse per le tradizioni popolari (canti, leggende e costumi)
segue infatti la riscoperta delle origini comuni, anche se la consapevolezza di una
eterogeneità di fondo del popolo italiano non è mai mancata in questi studi.
Costantino Nigra sviluppa la Teoria del sostrato etnico, secondo la quale la
produzione lirica popolare è divisa in due aree:

Area superiore Area inferiore


A nord dell’Appennino Tosco-Emiliano. Prevale A sud dell’Appennino Tosco-Emiliano.
l’elemento narrativo storico-romanzesco; Prevale l’elemento narrativo lirico-amoroso.

Nel mettere in relazione le peculiarità dei contenuti delle liriche delle due aree con i
corrispondenti dialetti, Nigra riconduce le differenze alla divisione tra un mondo
italico e un mondo celtico, entrambi ricompresi sotto un substrato latino.

Giuseppe Pitré e gli esordi della demologia

L’iniziatore della tradizione demologia è Giuseppe Pitré, che raccoglie proverbi,


favole, credenze, pratiche magico-mediche e divertimenti popolari nei 25 volumi della
Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane e fonda a Palermo un importante
museo etnografico. In quanto medico, ebbe la possibilità di frequentare i ceti popolari
compiendo osservazioni molto accurate e attendibili.

Lamberto Loria: dall’esplorazione all’etnografia

Gli studi etnologici nascono lentamente e non propriamente sul campo, ma come
filiazione della tradizione sugli studi storico-giuridici del mondo classico, soprattutto
romano. L’area privilegiata dell’indagine è quella africana, delineatasi già alla fine
dell’800 come possibile obiettivo di espansioni coloniali; tuttavia, queste ricerche non
si strutturano in un progetto scientifico come invece accade in altri paesi europei.
Nato come esploratore, Lamberto Loria dedica l’ultimo periodo delle sue attività
all’etnografia. Due le sue iniziative più importanti:

- Nel 1911 organizza la “Mostra di etnografia italiana”, che si propone di offrire


un’immagine della vita dei ceti popolari;

13
- Nel 1910 fonda la “Società di etnografia italiana” e, l’anno successivo,
organizza il primo Congresso Nazionale con un programma fortemente aperto
alle correnti internazionali che prendono corpo in Francia e Bran Bretagna.

Lo slancio dato da queste iniziative si spegne ben presto a causa della morte di Loria
e del primo conflitto mondiale. Gli studi demologici prevalgono così definitivamente
su quelli etnologici, ulteriormente penalizzati nei decenni successivi dalla limitatezza
e dalla brevità dell’esperienza coloniale italiana e dal discredito che una parte
dell’antropologia italiana guadagna in epoca fascista prestandosi alla stesura del
“Manifesto della razza”, con il quale il regime dà inizio alle discriminazioni razziali.

7 L’ETNO-SOCIOLOGIA FRANCESE

I concetti di “fatto sociale” e di “coscienza collettiva” usati da Durkheim per


rappresentare la natura autonoma, sovraindividuale e simbolica della dimensione
sociale producono originali spazi di riflessione non solo nella sociologia, ma anche
nell’etnologia francese; le due discipline restano infatti legate a lungo in una
riflessione comune generatasi proprio sulla scia dell’opera di Durkheim.

Robert Hertz: La morte, il sacro e il profano

Hertz, studioso di formazione filosofica, riprende lo studio delle rappresentazioni


collettive inaugurato da Durkheim. A differenza di quanto ritenevano gli evoluzionisti,
per Hertz le credenze dei primitivi sulla morte non costituivano le spiegazioni (e
quindi l’origine) del pensiero religioso, ma delle rappresentazioni collettive, cioè
processi mentali condivisi da tutti i membri di una società in relazione a valori sociali
fondamentali.

Lo “scandalo” della morte


Prima di tutto Hetrz rileva come presso tutti i popoli la morte assuma un senso
sociologico, nel senso che la morte distrugge, oltre al corpo di una persona, anche
l’essere sociale che rappresenta. La morte di un capo o di una persona investita di
una grande dignità determina reazioni e riti diversi dalla morte di uno straniero, di
uno schiavo o di un bambino; nei due casi, la coscienza collettiva attribuisce
un’importanza diversa.
In ogni caso, la morte di un membro è vissuta come una minaccia alla coesione
della comunità, che vede alterare il proprio equilibrio. I rituali funebri hanno lo scopo
di recuperare tale equilibrio: essi distaccano adeguatamente il defunto dalla comunità
dei vivi e lo integrano altrettanto adeguatamente in quella degli antenati.

La morte come transizione


La situazione che spinge Hertz a riflettere sul significato sociologico della morte è il
rito della doppia sepoltura messo in pratica da alcune popolazioni del Borneo. Alle
prime esequie che seguono immediatamente la morte segue un rito più solenne e
definitivo. Il tutto è giustificato dalla credenza in una transizione che però non è
istantanea. Hertz nota che i riti funebri assomigliano in qualche modo a quelli della
nascita e del matrimonio proprio per la loro funzione di agevolazione di un

14
passaggio. Solo due anni dopo, Van Gennep parlerà di transizione da una
condizione sociale all’altra.

La credenza in una vita ultraterrena “in continuità” con quella terrena è comune a
tutte le società e tutte le religioni: avendo fede in se stessa, una società non può
ammettere che colui che è stato un suo individuo sia, con la morte, perduto per
sempre.

Destra e sinistra, ovvero sacro e profano


E’ interessante la riflessione che Hertz sviluppa sulle rappresentazioni collettive
legate alla “destra” in La preminenza della mano destra. Studio sulla polarità
religiosa. Egli sostiene che l’asimmetria organica della prevalenza della destra sulla
sinistra data dalla differenziazione degli emisferi cerebrali non è sufficiente a rendere
conto della preminenza della “destra” sul piano simbolico. Hertz si appella invece alla
distinzione tra sacro e profano, una distinzione che permea la dimensione
spirituale di tutti i popoli in modo così pervasivo da spingere a strutturare l’intero
universo secondo un principio bipolare che distribuisce fenomeni naturali, vegetali,
animali e umani tra questi due opposti, che prendono consistenza simbolica nella
“destra” e nella “sinistra”. Un contrasto che si manifesta anche sul piano linguistico:
basta considerare il significato di termini come “destrezza” o come “sinistro”. Hertz
individua in tal modo un principio di opposizione fondamentale nelle forme di
classificazione tipiche del pensiero umano che si traduce in una catena di altre
opposizioni: maschile/femminile, buono/cattivo, chiaro/scuro, ecc.

Arnold Van Gennep : I riti di passaggio

I riti di passaggio illustra come, presso tutti i gruppi umani, la vita delle persone sia
scandita da una serie di riti che ufficializzano pubblicamente il passaggio da una
condizione sociale ad un’altra. Essi hanno la funzione di facilitare e rendere più
agevole la transizione sia per la società, sia per l’individuo interessato. Retrocedendo
sulla scala della civiltà, si scopre che questi riti investono situazioni sempre più
numerose, molte delle quali appaiono oggi come profane e quindi non meritevoli di
alcuna ritualizzazione. Van Gennep distingue 3 fasi in ogni rito di passaggio:

Separazione Margine Aggregazione


 
Riti preliminari Riti liminari Riti postliminari

e conferisce grande importanza alla fase centrale, proprio perché ha la funzione di


ridurre il trauma tra la fase iniziale di distacco da una determinata condizione e
quella finale di incorporazione in un’altra categoria con l’acquisizione di un nuovo
status sociale. La fase intermedia è anche la più delicata perché espressione di una
condizione non definitiva portatrice di forze giudicate pericolose per la comunità (ad
esempio il periodo intermedio nel caso della doppia sepoltura richiamato sopra).

Marcel Mauss: I fatti sociali “totali”

Ultimo degli allievi di Durkheim, Mauss orienta la riflessione sociologica francese


sulle società primitive verso la ricerca empirica trasformandola definitivamente in
etnologia.

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Un importante lavoro di Mauss riguarda la capacità di classificazione dell’universo
naturale, che egli non riconduce ad un’attitudine spontanea della mente umana che
agisce secondo principi di continuità o somiglianza. Il principio di classificazione è
invece la ripartizione degli esseri umani in gruppi sociali. In pratica, l’ordine
simbolico attribuito al mondo deriva da un’omologia con l’ordine della società: la
classificazione delle cose riproduce la classificazione delle persone, che costituisce
l’esperienza più immediata. Chiaramente, a modificazioni della società corrispondono
variazioni nel sistema di classificazione; a società strutturate secondo principi
organizzativi semplici corrispondono sistemi di classificazione altrettanto semplici e
viceversa.

Il fatto sociale “totale”


L’ipotesi dell’omologia strutturale è per Mauss la premessa per una riflessione più
ampia che porta all’individuazione dei fatti sociali totali, ovvero situazioni talmente
pregnanti e pervasive nella morfologia dei gruppi sociali da configurarsi non come
fenomeni da spiegare, ma addirittura come spiegazioni per numerosi altri aspetti
della vita sociale. Un esempio: la società dei cacciatori eschimesi assumeva
disposizioni diverse nel corso delle stagioni dell’anno; dispersione estiva per la
caccia e riunificazione nell’inverno. Riti, feste e relazioni sociali erano massimamente
frequenti nell’inverno. La vita sociale di questi popoli presentava quindi una natura
bipolare e ciclica che alternava fasi sociali collettive e individuali. Questa bipolarità si
rifletteva anche a livello simbolico: rappresentazioni di persone, cose, animali,
fenomeni naturali venivano associate all’uno o all’altro estremo di questa scissione
attorno alla quale si costituiva l’esperienza di vita dei gruppi. Questi aspetti così
decisivi del sociale vengono individuati da Mauss come fatti sociali “totali”.

La teoria del dono


Partendo dai lavori etnografici di altri studiosi (Boas sul potlatch e Malinowski sullo
scambio cerimoniale kula), Mauss rileva l’esistenza anche presso popoli primitivi di
fenomeni di scambio e circolazione di beni materiali che, sulla base delle descrizioni
disponibili, Mauss interpreta come fatti sociali “totali”, essendo questi fenomeni legati
a molti altri aspetti della vita sociale. Poiché questi eventi sembravano collocarsi al
centro di relazioni tra individui e gruppi imperniate su forme di scambio e reciprocità,
Mauss utilizza la categoria del “dono”.

Mauss assume una teoria indigena per la spiegazione del fenomeno: esistono 3
regole alla base del fenomeno del dono: dare, ricevere e ricambiare. L’oggetto
donato possiede sempre una qualità intrinseca che lo assimila alla persona che lo ha
precedentemente posseduto e la mancata restituzione di un dono, provocando
l’interruzione dello scambio, determinerebbe e la vendetta sul trasgressore proprio
da parte di questa “forza” originaria presente nell’oggetto.

8 DIFFUSIONE DELLE CULTURE – I KULTURKREIS, AREE CULTURALI E MIGRAZIONI

Alla fine del XIX secolo le teorie evoluzioniste e la ricerca di leggi generali sullo
sviluppo della cultura declinano e prende corpo la prospettiva di studio delle singole
culture, a partire dalla Germania e dall’Austria, dove l’incidenza della geografia e

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della storiografia è preponderante, e dagli Stati Uniti dove tale incidenza viene
importata da Boas. La nuova corrente che si afferma è il diffusionismo, che
considera movimenti espansivi delle culture a partire da un “centro” di origine.

Mentre gli evoluzionisti trattavano similitudini ed analogie socioculturali come prodotti


di cause simili e generali (idea spesso basata sull’unità psichica del genere umano),
il diffusionismo considera elementi di espansione, contatto, selezione e
incorporazione dei tratti culturali.

Leo Frobenius: La teoria degli strati culturali

Frobenius elabora un criterio per l’accertamento della diffusione dei tratti culturali,
secondo il quale la semplice somiglianza di forma legata alla funzione o alla qualità
non è un indizio sufficiente per stabilire un’origine comune, dal momento che la
forma dipende di per sé dalla funzione. Il criterio che Frobenius integra è quello della
quantità. Oggetti simili possono essere accomunati nell’origine quando anche gli
accessori e gli ornamenti, non essendo funzionali, sono confrontabili.

L’estensione di questo criterio ad una serie di reperti permette di individuare dei


“cerchi culturali”, modello di diffusione che considera la migrazione dei tratti culturali
non isolatamente, ma come complessi organici. Secondo Frobenius, ondate
successive nella diffusione dei tratti determinano stratificazioni progressive che
possono essere oggetto di studio per comprendere i fenomeni di diffusione avvenuti
non solo per contatto tra società diverse, ma anche in seguito ad ondate migratorie.

Wilhelm Schmidt: L’origine dell’idea di Dio

Austriaco, missionario cattolico, Wilhelm Schmidt contribuisce alla propagazione


delle teorie diffusioniste fondando una vera e propria scuola conosciuta come
Scuola di Vienna. Schmidt si dedica alla ricerca dell’origine delle idee religiose e, in
particolare, dell’idea di Dio.

I sostenitori del diffusionismo austro-tedesco mostrarono che la diffusione di un tratto


culturale è anche causa della sua decadenza, poiché il contatto con altri complessi
culturali ne determina la corruzione, l’indebolimento e l’allontanamento dalla sua
“purezza” iniziale. Schmidt considera in questo senso la degenerazione dell’idea di
Dio, trovando validi riscontri in “popoli naturali” 3 come i Pigmei africani presso i
quali, in seguito al contatto con altri gruppi, l’idea di Dio risultava “degerarata” ad una
vaga idea di un essere superiore come “Signore della natura”. Il compito dei
missionari era quello di ricondurre i primitivi alla piena consapevolezza di Dio che le
Sacre Scritture indicavano come presente al momento della comparsa dell’umanità.

Il diffusionismo americano

In terra americana il diffusionismo si occupa della distribuzione delle culture


indiane. In questa prospettiva di ricerca è centrale la nozione di area culturale,
ovvero l’area geografica entro la quale erano presenti specifici tratti (tecniche di

3
Espressione tedesca corrispondente alle “popolazioni primitive” degli inglesi.
17
caccia, istituti sociali come il matrimonio, credenze, ecc.). In tale ambito, la
distribuzione dei tratti veniva pensata come conseguenza di processi di diffusione.

Aree culturali
Tuttavia, gruppi che possedevano un nucleo comune di elementi sufficientemente
rilevante da permettere di essere riconosciuti come appartenenti alla stessa area
culturale presentavano anche distribuzioni irregolari per altri tratti. Spiegazione? La
risposta considerava, oltre alla possibilità dei tratti di migrare, la natura selettiva
della cultura: se alcuni tratti potevano essere accolti, altri potevano invece essere
rifiutati, in base alla caratteristiche della cultura ricevente.
Wissler elabora una teoria delle aree culturali come ambiti di diffusione che hanno
origine da un centro nel quale sono presenti tutti i tratti distribuiti, anche
irregolarmente, nell’area circostante.

Aree cronologiche
Wissler tenta di assegnare anche una dimensione temporale al processo di
diffusione dei tratti culturali: i più lontani dal centro sono anche i più antichi e
appartengono al nucleo culturale originario.

La prospettiva di Wissler è criticata da Edward Sapir, anch’egli allievo di Boas. Egli


osserva che i tratti culturali non si diffondono uniformemente in ogni direzione e che
la diffusione non avviene con gli stessi tempi ovunque. Per questo non è in genere
possibile accertare l’anteriorità e la successione di certe acquisizioni da parte di
un’altra cultura. Altri studiosi puntualizzano inoltre che la trasmissione di tratti
culturali non è affidata solo alla diffusione, ma anche alla migrazione di gruppi umani.

Il diffusionismo in Gran Bretagna e la teoria “eliocentrica”

Diverso dal diffusionismo americano, quello inglese si differenziava anche da quello


austro-tedesco e risultava variegato anche al proprio interno, spingendosi comunque
a livelli molto forti e talvolta privi di agganci plausibili con la realtà etnografica.

Grafton Elliot Smith e William Perry ne danno una versione estremizzata; le loro
teorie sono per questo dette iperdiffusioniste. Essi postulavano infatti un unico
centro di diffusione: l’Egitto. Le culture variamente distribuite sulla Terra non erano
altro che espressioni, a diversi gradi di degenerazione, di quella cultura originaria. Le
prove di Smith e Perry consideravano la distribuzione geografica delle pratiche di
mummificazione, delle costruzioni piramidali e del culto solare (teoria “eliocentrica”),
anche in zone dell’America precolombiana e dell’Australia. Queste teorie trovarono
accoglienza presso un pubblico di amatori e dilettanti, ma non presso veri specialisti.

9 TRAMONTO DELL’EVOLUZIONISMO E SVILUPPO DELLA RICERCA SUL


CAMPO IN GRAN BRETAGNA

L’antropologia, in particolare quella inglese, vive una fase di transizione tra l’ultimo
decennio del XIX secolo e la prima guerra mondiale. L’attività sul campo prende
sempre più consistenza: l’estendersi dei possedimenti coloniali favorisce infatti la
Gran Bretagna, più di altre nazioni, nel contatto con le popolazioni extra-europee.

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Va anche detto che gli ultimi anni della Regina Vittoria sono anni di profonde
trasformazioni politiche, sociali e culturali. La Gran Bretagna subisce infatti un lento e
impercettibile declino dato che l’idea positiva di un’evoluzione e di un progresso
sociale trionfante viene gradatamente meno. Nello stesso periodo prendono corpo la
teoria psicoanalitica di Freud e quella della relatività di Einstein, secondo le quali il
soggetto conoscente cessa di essere il punto di riferimento assoluto. In tale
contesto, nella concezione generale delle cose, la linea di separazione tra “selvaggi”
e “civilizzati” perde la sua capacità di demarcazione netta.

Teorici e ricercatori sul campo

Per tutto l’800, la ricerca antropologica aveva conosciuto la separazione tra


antropologi (coloro che riflettevano sulle società primitive da un punto di vista
teorico) ed etnologi (coloro che raccoglievano i dati sul campo). I dati venivano
infatti procurati da intermediari quali missionari, esploratori, funzionari coloniali,
militari, commercianti. Spesso veniva adottata la tecnica della raccolta di dati
etnografici tramite questionari, una tecnica non priva di limiti: spesso chi li doveva
compilare non padroneggiava abbastanza bene le lingue indigene, oppure non
comprendeva correttamente lo spirito di chi li aveva formulati.

Naturalmente, non sempre era così; è emblematico il caso di Fison e Howitt, due
missionari attivi in Australia come corrispondenti di studiosi come Morgan, Tylor e
Frazer, dotati di autonomia scientifica al punto da produrre opere loro stessi. Un’altra
collaborazione famosa e di grande valore fu quella di Spencer (professore di biologia
a Melbourne) e Gillen (magistrato nell’Australia centrale) che pervennero ad una
conoscenza notevole della vita degli aborigeni Australiani stabilendo rapporti
vicendevoli al punto da essere autorizzati ad assistere alle loro cerimonie e
fotografarle. Anche questi due corrispondenti produssero autonomamente lavori poi
utilizzati da studiosi come Durkheim, Mauss e Frazer per sviluppare teorie sul
totemismo, sulle classificazioni e sulle religioni primitive.

Un’altra tecnica di raccolta dei dati etnografici viene adottata in concomitanza degli
importanti programmi di studio inglesi degli ultimi anni del XIX secolo. Le “survey”
(ricognizioni) etnografiche si inquadravano in un piano di collaborazione tra la
disciplina antropologica e le amministrazioni coloniali e consistevano nella
compilazione di rapporti contenenti dati etnografici, linguistici, storici, ambientali ad
opera di ricercatori che soggiornavano per brevi periodi presso le comunità studiate.
Ai funzionari coloniali e ai militari si sostituiscono progressivamente studiosi
professionisti della disciplina antropologica.

I nuovi etnografi

Quindi, anche in concomitanza al radicamento della disciplina nelle università, la


raccolta dei dati a distanza viene abbandonata in favore dell’impegno diretto degli
antropologi sul campo.

La spedizione allo Stretto di Torres (tra l’Australia e la Nuova Guinea) è una pietra
miliare della storia dell’Antropologia. Diretta da Haddon (biologo di Cambridge), fu

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suggellata da un grande successo per la preziosa collezione di oggetti recuperati e
ancora oggi conservati al museo etnografico di Cambridge e per avere guadagnato il
riconoscimento definitivo dell’antropologia sul piano accademico e anche da parte
dei non specialisti. Questa spedizione aveva anche contribuito enormemente a far
comprendere l’importanza di un soggiorno prolungato tra i nativi ai fini della
costruzione di un’adeguata relazione di conoscenza.

Emerge così la nuova figura dell’etnografo. Si tratta in realtà di una figura di


transizione, a metà strada tra il modello di ricerca fondato sulla divisione del lavoro
tra teorici e ricercatori/corrispondenti sul campo e il modello che combina teoria e
pratica nella stessa persona.

Un nuovo prodotto: la monografia etnografica


Il lavoro di queste nuove figure segna il definitivo abbandono del metodo
comparativo di ispirazione evoluzionista e il passaggio a ricerche concentrate sui
gruppi. Alla survey, ricognizione utile, ma rapida e superficiale, si sostituisce un
nuovo prodotto: la monografia etnografica, in grado di generare conoscenze più
dettagliate e puntuali. Il genere monografico modifica per certi versi l’oggetto stesso
della disciplina, concentrandosi su un determinato gruppo e mettendo in secondo
piano i legami che le comunità intrattenevano tra loro.

Antropologi Vs. Missionari

Se la maggior parte dei missionari era animata da intenti evangelici, tra loro vi era
anche chi era interessato ai costumi dei “primitivi”. Chiaramente, soggiornando per
anni o addirittura decenni tra di essi, alcuni di loro poterono raggiungere una
conoscenza approfondita e produrre lavori di grande rilievo etnografico, come Fison
e Howitt in Australia o Robert Cordington in Melanesia.

I missionari-etnografi diedero contributi notevoli, ma gli antropologi erano altro: figure


accademiche e scienziati in primo luogo, ma soprattutto soggetti non motivati a
provocare trasformazioni tra i popoli studiati. Anzi, per l’antropologo i “primitivi”
andavano protetti da forme di contaminazione culturale.

Ecco che gli antropologi si trovarono a dover mettere a punto tecniche e strategie
scientifiche efficaci ed efficienti che li mettessero in grado di fronteggiare la
“concorrenza” missionaria, soprattutto in considerazione che non potevano, almeno
in generale, organizzare lunghe permanenze tra i nativi.

William Rivers: Teoria e metodo della ricerca sul campo

Antropologo della generazione “di mezzo”, Rivers partecipa alla spedizione allo
Stretto di Torres compiendo ricerche sulle facoltà percettive dei nativi e scoprendo
l’assenza di differenze rispetto ai giovani inglesi nella percezione di immagini, colori,
sapori, suoni, ecc. Questo contributo viene ripreso da Boas agli inizi del ‘900 nel
quadro della fondamentale unità psico-fisica del genere umano.

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Il “metodo genealogico”
Gli interessi di Rivers ben presto si spostano verso lo studio dell’organizzazione
sociale dei popoli primitivi e delle terminologie di parentela, avvicinandosi alla tesi di
Morgan secondo la quale queste sono il riflesso linguistico delle relazioni sociali. In
relazione a questi studi, Rivers sviluppa quello che egli stesso chiama “metodo
genealogico”. Si trattava di un sistema semplice, rapido ed efficace per la raccolta
dei termini di parentela, che consisteva nel chiedere ad un individuo il nome dei
parenti più prossimi e i termini di parentela con i quali venivano designati (padre,
madre, ecc.) e poi nel chiedere nomi e termini per la designazione dei parenti più
lontani. Il metodo, anche se banale, è interessante perché esprime un punto di vista
nuovo sulla pratica etnografica, costituendo una modalità comprensibile dal
ricercatore, come dal nativo. Rivers coglie l’importanza di una vera comunicazione
reciproca.

La metodologia della ricerca sul campo


Alcuni lavori di Rivers mettono in luce il valore di questo studioso come precorritore
della grande rivoluzione etnografica degli anni successivi alla prima guerra mondiale.
Egli è un sostenitore del lavoro intensivo in cui il ricercatore soggiorna sul campo
per almeno un anno presso comunità di 400-500 individui studiando ogni dettaglio
della vita e della cultura, giungendo a conoscere personalmente ogni individuo,
mostrandosi sempre curioso e interessato, avido di notizie e anche di dettagli sulle
pratiche e le usanze, il tutto utilizzando la lingua locale. E’ lo stile etnografico
adottato a partire dagli anni ’20. Rivers sostiene l’inutilità di studi limitati, ad esempio,
alla sociologia piuttosto che alla religione o alla tecnologia di un popolo senza
studiarne nel contempo i modi di vita o la lingua. E’ la prospettiva funzionalista che
inizia a farsi strada e che interesserà l’antropologia britannica dei decenni successivi.

21
PARTE TERZA – PRIMA GUERRA MONDIALE - METÀ DEL ‘900

10 LA RIVOLUZIONE ETNOGRAFICA E IL FUNZIONALISMO DI BRONISLAW


MALINOWSKY

Il 1922 vede la pubblicazione di Argonauti del Pacifico occidentale di


Mlalinowsky, un’opera considerata una pietra miliare della storia dell’antropologia.
Nel 1914, Malinowsky, dopo avere studiato antropologia, si trova a Melbourne per un
congresso quando scoppia la prima guerra mondiale; si trattiene così in Australia,
conducendo studi in Nuova Guinea e poi in Melanesia, nelle Isole Trobriand. Studia
a tutto tondo questa società: l’organizzazione sociale, ma anche le tecnologie, i miti,
la lingua, i riti e il comportamento sessuale. Alla fine della guerra rientra in Inghilterra
trovando una situazione segnata dal conflitto, in cui anche la disciplina ristagna. Ha
però modo di imporsi per le sue capacità di scrittore nel riportare le sue novità e le
sue idee in materia di pratica etnografica.

L’osservazione partecipante
A Malinowsky sono state riconosciute capacità del tutto singolari nel saper penetrare
e cogliere dall’interno la cultura delle popolazioni oggetto dei suoi studi. Egli diede il
via alla pratica dell’osservazione partecipante, una tecnica di inchiesta che passa
attraverso la costruzione di un rapporto empatico con i nativi che implica la capacità
di prendere parte il più possibile alla loro vita, allo scopo di cogliere il loro punto di
vista e la loro visione del mondo. Questo mito subisce però un duro colpo quando, a
25 anni dalla sua morte, vengono pubblicati i suoi diari “segreti”, che rivelano aspetti
che sminuiscono l’idea di una persona così capace di adattarsi a situazioni di
estraneità culturale; questi testi riportano parole e espressioni rudi e volgari sui nativi
e raccontando spesso il desiderio di essere altrove.

Il “disagio” dell’antropologo
In realtà, questi ultimi fatti riflettono un problema insito nell’antropologia: quanto
l’antropologo è in grado di cogliere il punto di vista dell’indigeno? E’ una forma di
disagio che pone di fronte alla questione di doversi confrontare non solo con le
proprie, ma anche con le interpretazioni dei nativi, che non possono essere trattate
come materiali interti soggetti alle sole inferenze dello studioso.

Gli Argonauti del Pacifico occidentale

Quest’opera, un eccellente esempio di monografia etnografica, parte da un aspetto


particolare della vita della popolazione studiata per poi aprirsi sugli altri. L’oggetto
principale è la forma di scambio del cerimoniale kula:

Le piccole comunità stanziate sulle isole Trobriand scambiavano tra di loro collane di
conchiglie rosse (spulava) e braccialetti di conchiglie bianche (mwali). Ciascuno dei
due tipi di oggetti poteva però essere scambiato solo con l’altro, per cui, le collane
circolavano tra le isole in senso orario, mentre i braccialetti in senso contrario. Gli
oggetti circolavano in continuazione senza uscire mai dal circuito e gli scambi
avvenivano nel corso delle visite che gli abitanti delle diverse isole (anche molto
lontane) si scambiavano periodicamente. Nelle visite, oltre agli scambi kula,

22
strettamente considerati come “cerimoniali”, venivano scambiati anche oggetti con un
valore d’uso (gimwali), in una pratica che però era “profana”.

L’opera è stata costruita in modo sostanziale passando attraverso la novità


metodologica dell’osservazione partecipante, che consentiva di entrare in rapporti di
intimità e comprensione con lo stile di vita delle popolazioni. L’idea di osservazione
partecipante sottendeva il concetto di una cultura e di una società come complessi
di fenomeni reciprocamente correlati e questo equivaleva a rappresentare
l’oggetto di studio dell’antropologia come qualcosa che poteva essere colto
attraverso una prospettiva di tipo olistico e funzionale.

Malinowsky comprese la portata sociologica generale del cerimoniale kula e la


funzione che svolgeva come mantenimento e rafforzamento dei rapporti tra gli
individui e i gruppi. Tuttavia, gli attribuì stranamente un significato economico,
probabilmente per il suo desiderio di produrre un’immagine del selvaggio come
essere “ragionevole”.

Il principio di reciprocità
Lo scambio kula evidenzia l’esistenza di rapporti tra individui e gruppi fondati su ciò
che l’antropologia definisce principio di reciprocità. Questo scambio era solo il
fenomeno più visibile di una logica sociale che tendeva a promuovere la solidarietà
e l’organicità, secondo la quale, comunque, ogni aspetto ed ogni momento
importante della vita sociale erano caratterizzati da atti che erano espressione di
diritti e doveri tra due parti e quindi da comportamenti di mutua assistenza,
prestazioni e controprestazioni, offerta di doni e controdoni.

Il principio di reciprocità come spiegazione della dinamica sociale primitiva migrerà


nella teoria del dono di Mauss e nell’antropologia di Lévi-Strauss.

L’origine dalla famiglia

Con La famiglia tra gli Aborigeni australiani, Malinowsky confuta l’idea diffusa
della promiscuità che sembrava essere confermata dai lavori degli etnografi che lo
avevano preceduto. Egli sostiene in realtà l’ipotesi del carattere universale della
famiglia elementare, una costante in tutti i suoi lavori, che presenta come il luogo
della riproduzione non solo biologica, ma anche culturale.

Nella famiglia l’incesto è bandito perché, disgregando i rapporti interni alla famiglia
stessa, disgregherebbe il modello di riferimento delle altre strutture sociali,
essendo la società il prodotto dell’estensione dei rapporti familiari. L’esogamia è la
risposta e la soluzione efficace alla proibizione dell’incesto. Ed è proprio su questa
base che Malinowsky spiega le cerimonie nelle quali sono consentiti rapporti sessuali
con partner diversi da quelli matrimoniali, in precedenza interpretate unicamente
come atti di promiscuità legati all’assenza di una struttura famigliare.

Funzionalismo “ristretto” e funzionalismo “allargato”

Malinowsky deriva dalla sua esperienza di ricerca sul campo la propria idea della
società e della cultura: un insieme di pratiche e comportamenti integrati tendenti al

23
mantenimento dell’equilibrio interno della società e del suo “funzionamento”.
Possiamo etichettare questa visione come “funzionalismo ristretto”.

Nelle ultime fasi della sua produzione egli si dedica alla formulazione di una teoria
generale della cultura, modificando alcune cose. Alla concezione del funzionalismo
ristretto, che non scompare, si affianca anche una visione della cultura come vasto
apparato strumentale (materiale, umano e spirituale) di cui l’uomo dispone per
affrontare e risolvere le necessità di adattamento all’ambiente esterno. Parliamo in
questo caso di “funzionalismo allargato”.

In questa teorizzazione, Malinowsky formula una descrizione dell’espressione dei


fenomeni culturali umani come relazioni tra bisogni e risposte prodotte dalla
cultura. L’impianto ricalca una gerarchia dei bisogni ed è così schematizzabile:

Bisogni fondamentali Risposte culturali (concezione strumentale)


Bisogni secondari o derivati Generati a catena dalle risposte del livello
sovraordinato. Esprimono l’esigenza di
organizzare e mantenere la coesione sociale
e della cultura (potere politico,
organizzazione economica, ecc.)
Livello simbolico Trasformazione di impulsi fisiologici in valori
culturali: linguaggio, concetti dogmatici
dominanti.

Questa visione riprende il modello S-R di derivazione comportamentista e mette in


ombra la dimensione simbolica della cultura a vantaggio di una concezione
puramente strumentale.

La magia secondo Malinowsky

Malinowsky respinge ovviamente la visione evoluzionista che considerava la magia il


tentativo di manipolare i fenomeni naturali; la sua spiegazione trova invece una
coerente collocazione nella concezione strumentale della cultura del funzionalismo
allargato: la magia non è anteriore alla religione e alla scienza, ma è una dimensione
primordiale che afferma il potere dell’uomo di perseguire i fini desiderati e che,
attraverso le pratiche rituali, ha la funzione di sopperire alle sue incapacità di
controllare la propria esperienza.

Concludendo su Malinowsky

Grande influenza teorica di Malinowsky fino al 1930. Comunque notevole l’impatto


sulle generazioni successive, soprattutto per lo stile etnografico, caratterizzato da un
tipico senso di “incompiutezza” e “plausibilità” al tempo stesso. I suoi libri non hanno
quasi mai nulla di assertivo e non danno l’impressione di voler trasmettere
informazioni definitive. L’approccio etnografico di Malinowsky è sempre velato dal
sospetto che le interpretazioni dell’antropologo siano continuamente influenzate da
quelle degli informatori.

24
11 L’ANTROPOLOGIA PSICOANALITICA E LO STUDIO DELLA CULTURA

A cavallo tra il XIX e il XX secolo, la nascita della psicoanalisi rivela l’esistenza di una
vita psichica inconscia che si presenta come il risultato di uno scontro tra le pulsioni e
gli istinti dell’individuo e le forze della cultura. La psicoanalisi trova così un posto nei
temi del conflitto tra la costruzione della personalità individuale e i processi di
adattamento dell’individuo all’ambiente culturale. L’antropologia psicoanalitica si è
poi rivelata il punto di partenza per la moderna riflessione dell’etnopsichiatria, che si
occupa dei disturbi e delle sindromi che investono soggetti trapiantati da un contesto
culturale ad un altro.

Naturalmente si parte da Sigmund Freud

Sebbene la dimensione psicologica non fosse stata del tutto estranea al discorso
antropologico sin dall’inizio (con Taylor e Frazer l’approccio evoluzionista l’aveva
considerata nella costruzione delle fasi aurorali del pensiero magico e religioso;
Lévy-Bruhl aveva messo in evidenza dimensioni psicologiche radicalmente diverse
nelle mentalità “primitiva” e “civilizzata”; Rivers aveva studiato i processi percettivi dei
primitivi), nessuna teoria generale sull’origine e lo sviluppo della cultura e
sull’adattamento individuale ebbe modo di essere messa in rapporto con la
psicologia.

Freud, invece, propone una teoria dell’origine e dello sviluppo della cultura con
Totem e tabù, l’opera in cui indaga la natura e il significato il totemismo e le sue
relazioni con l’esogamia. Secondo Freud, nell’”orda primitiva” (immagine ripresa da
Darwin) il padre detiene il controllo assoluto delle madri dei suoi figli e, il conflitto
padre-figli che per questo si sviluppa all’interno della “famiglia” porta questi ultimi ad
uccidere e a divorare il padre per potersi accoppiare con le femmine del gruppo 4.
Tuttavia, dopo l’uccisione e il pasto cannibalico, i figli, colpiti da rimorso, avrebbero
idealizzato la figura del padre (simbolo del gruppo  totemismo) e, come
autopunizione, si sarebbero vietate le femmine del gruppo (esogamia).

L’autointerdizione nei confronti delle femmine del gruppo e la proibizione di uccidere


e di cibarsi dell’animale totemico affondano le proprie radici nel sentimento di colpa
dei figli e nella constatazione dell’inutilità dell’atto commesso. In Totem e tabù Freud
fonda il senso antropologico la sua teoria psicoanalitica.

L’analogia selvaggio-nevrotico
Freud osserva che così come i selvaggi rispettano i tabù comuni alla loro tribù, la
psicoanalisi permette di individuare persone che si creano individualmente divieti
analoghi, adeguandovisi con lo stesso rigore. Egli sembra così postulare
un’analogia tra selvaggio e nevrotico.
Nella nevrosi ossessiva, il tabù nasce come proibizione introiettata nell’infanzia; una
proibizione che non elimina la pulsione, ma la inibisce relegandola nell’inconscio,
dove continua ad essere attiva ma contrastata dalla proibizione introiettata

4
E’ da notare che questa idea di una famiglia nucleare di tipo poligamico contrasta con la promiscuità
originaria postulata dagli evoluzionisti; ciò non è casuale, poiché la condizione di promiscuità non
avrebbe potuto sostenere l’insorgenza del conflitto edipico che Freud pone alla base della sua teoria
psicoanalitica.
25
culturalmente. Ecco che nasce ciò che Freud chiama comportamento ambivalente
di un individuo verso un dato oggetto: egli vuole seguire una certa azione, ma nel
contempo ne ha orrore. La stessa ambivalenza riguarda i selvaggi, che vorrebbero
compiere certe azioni sulle stesse cose o persone che sono oggetto dei loro tabù.
A livello inconscio nulla sarebbe più gradito che trasgredire i tabù, e la forza ad essi
attribuita è la capacità di indurre gli uomini in tentazione.

Malinowsky e l’approccio psicoanalitico

Malinowsky intende verificare la validità di alcune teorie psicoanalitiche nel contesto


culturale delle Isole Trobriand, essendo questo molto diverso da quello europeo.

Pur essendo monogamica, la famiglia trobiandese presentava una diversa


strutturazione affettiva; infatti, vigendo in questa società il principio della
discendenza matrilineare, l’autorità sulla prole di una coppia era esercitata dallo zio
materno, mentre la relazione padre-figlio era caratterizzata da un rapporto di
confidenza e aperta affettuosità, oltre che disinteressata in senso economico
essendo la trasmissione dei beni (oltre che del sapere) attestata sull’asse zio-nipote.
Nella concezione locale, il padre non aveva nemmeno un ruolo diretto nella nascita
della prole della moglie, poiché i nuovi nati erano considerati la reincarnazione di
spiriti defunti della linea di discendenza materna. Tutto ciò giustificava il ruolo
secondario del “marito della madre”, come sarebbe più giusto chiamarlo.

Malinowsky rileva anche che, rispetto alla cultura europea, il distacco del bambino
dalla madre avviene in tempi più lunghi e in modo meno traumatico e che il desiderio
dell’atto incestuoso sembrava essere diretto più verso la sorella che verso la madre.

Il complesso patriarcale e la non universalità del complesso di edipo


Malinowsky delinea così una sorta di spostamento del complesso di Edipo, in cui
si manifesta il desiderio di unirsi alla sorella e di uccidere lo zio materno. Tuttavia,
egli non intende minare la consistenza teorica della configurazione edipica, ma
controbattere l’universalità della configurazione “classica“ descritta da Freud. In ogni
caso, mostra che la dinamica psico-affettiva individuale deve essere considerata alla
luce dei rapporti sociali e di autorità tipici della società di riferimento.

Géza Roheim: La cultura come “nevrosi collettiva”

Nella tradizione dell’antropologia psicoanalitica, Géza Roheim rappresenta invece la


linea di continuità con le posizioni freudiane. Egli sviluppa il parallelismo postulato in
Totem e tabù tra nevrosi individuale e comportamento dei “selvaggi” sino ad
interpretare la cultura come “nevrosi collettiva”. La cultura sarebbe un edificio
costruito allo scopo di realizzare, in forme traslate, le fantasie infantili.

Roheim ricorre al concetto di sublimazione (per Freud il processo di produzione di


oggetti culturali “superiori” come la scienza, l’arte o la letteratura), cercando di
mostrare come le attività produttive possano derivare da motivazioni radicate
nell’inconscio e risalenti alla condizione infantile. Ad esempio, a proposito delle scelte
professionali, cita casi di questo tipo: il soldato riproduce le sue fantasie di
distruzione del corpo o il suo complesso di Edipo, l’avvocato riproduce la sua lotta

26
endopsichica, lo scienziato è un voyeur che strappa i segreti alla natura, il pittore è
un individuo che continua a giocare con le proprie feci. Ecco il processo di
sublimazione di Roheim, che di fatto viene a coincidere con la cultura.

Jhon Layard: L’antropologia Junghiana

L’antropologia psicoanalitica non ha come unico riferimento le teorie di Freud. John


Layard, infatti, segue la prospettiva di Jung, il cui distacco dalle teorie di Freud è
anche dovuto all’introduzione di concetti estranei all’impianto teorico freudiano come
quello di “inconscio collettivo” e di “archetipo” 5. Ed è proprio all’insegna di queste
idee della psicologia junghiana che Layard affronta l’analisi del rituale maki che ha
potuto osservare a Melekula (Nuove Ebridi – Melanesia sud-orientale).

12 GLI STUDI ETNOLOGICI IN ITALIA

Dopo la prima guerra mondiale, si afferma in Italia la prospettiva diffusionista della


scuola austro-tedesca, autorevolmente rappresentata da Padre Wilhelm Schmidt
che insegnò presso l’Università Pontificia diffondendo le proprie teorie presso i
missionari, ma anche nell’ambiente accademico italiano.

L’Africa Orientale Italiana

Gli studi dell’allora Africa Orientale Italiana furono sostanzialmente del tipo “survey
etnografica”; il genere monografico, ormai affermato nell’antropologia
angloamericana, si manifesta in Italia solo nel 1940 quando Vinili Grottarelli
pubblica I Mao, un resoconto completo dell’omonima popolazione dell’area ovest-
etiopica. Nell’opera non mancano riferimenti al concetto di “missione civilizzatrice” da
compiere in Africa da parte dell’Italia e concessioni al clima politico incombente nel
nostro paese.

Gli studi sui territori coloniali del Nordafrica e in Eritrea furono invece realizzati da
funzionari coloniali e militari, soggetti di formazione storica e giuridica che
orientarono le proprie ricerche sul regime fondiario e il diritto vigente in quelle aree.

La virata razzista dell’antropologia sotto il fascismo

Anche se sembrerebbe contraddittorio, uno degli elementi frenanti per lo sviluppo di


un’etnologia italiana in grado di confrontarsi con quella britannica o francese è il
regime fascista. Il fascismo produce infatti un asservimento dell’etnologia alla proprie
tesi sulla superiorità della civiltà romano-latina e al supposto diritto di “civilizzare” le
popolazioni “inferiori”.

L’VIII Convegno Alessandro Volta tenutosi nel 1938 presenta una situazione
desolante: i relatori italiani rispecchiano il sostanziale asservimento al regime e
oscillano tra gli atteggiamenti paternalistici nei confronti della “razza negra” e il più
aperto razzismo. Fa eccezione solo Raffaele Pettazzoni, il quale si attiene alla pura
5
L’archetipo, cioè un’immagine primordiale nella memoria collettiva, porta le sue tracce nei temi
mitologici, comuni a tutte le razze di ogni epoca. L’archetipo si esprime sempre attraverso un simbolo.
27
discussione teorica sulla mediazione tra la scuola diffusionista e la prospettiva
funzionalista. Lidio Cipriani, teorico della “razza pura” parla di un’inferiorità mentale
irriducibile nei sudditi di colore. In realtà, in quegli stessi anni, Cipriani ed altri
antropologi collaborano alla messa a punto del “manifesto della razza”, ovvero la
base ideologico-giuridica della politica razzista del fascismo. Addirittura, presso le
università italiane vengono istituite cattedre di “Biologia generale delle razze umane”.

Il colpo definitivo a questa condizione di decadenza degli studi antropologici italiani


lo assestano i successivi anni della seconda guerra mondiale. I tragici eventi del
conflitto screditano la disciplina in quanto connessa con la politica coloniale e
scoraggiano nuove vocazioni. Solo la parte meno compromessa della disciplina,
quella facente capo alla tradizione demologica, mantiene il suo corso.

Ernesto de Martino: Un innesto filosofico

Ernesto de Martino fa parte di quegli intellettuali che, alla promulgazione delle leggi
razziali, si schierano apertamente contro il regime. De Martino si avvicina alle idee
filosofiche di Benedetto Croce, personaggio di riferimento di molti intellettuali che
nutrivano sentimenti più o meno ostili nei confronti della dittatura fascista.

In Naturalismo e storicismo, De Martino auspica una “radicale riforma del sapere


etnologico” alla luce della filosofia crociana. La forte critica che egli mette in atto è
rivolta a ciò che lui stesso chiamata “naturalismo” e cioè l’atteggiamento teorico
della scuola francese di matrice durkheimiana, di quella austro-tedesca di ispirazione
storico-culturale e della prospettiva funzionalista. Ciò che rimprovera a questi indirizzi
è l’incapacità di pensare l’esperienza storica dei “primitivi” all’interno di una filosofia
dello spirito in grado di restituirne il senso. Ricorrendo a Croce, De Martino intende
sostanzialmente dire che l’esperienza umana non è riducibile ad un’indagine
scientifica.

Contrapposto a questo punto di vista è Il pensiero dei primitivi di Remo Cantoni,


che si pone in sintonia con il pensiero di Lévy-Bruhl (che invece De Martino
stigmatizzava). Questa linea di pensiero (filosofia della cultura) individua la
razionalità come esigenza rivolta alla comprensione nei diversi campi del sapere
umano, di cui riconosce in tal modo la dimensione scientifica.

In altre parole, de Martino rimproverava a Lévy-Bruhl di avere elaborato una teoria


della mentalità primitiva che faceva dei popoli “lontani” un’umanità doppiamente
distante, la cui esperienza storica non poteva essere compresa in quanto capace di
rappresentazioni e di esperienze non rievocabili in noi se non minimamente;
un’umanità che per questi motivi non può diventare per noi oggetto di storia. Cantoni,
invece, insiste sui temi della coerenza strutturale del pensiero primitivo,
dell’esistenza di uno “spazio mitico” (e simbolico) al cui interno si troverebbero “in
germe” tutte le forme e le strutture spirituali e della “perennità della mentalità
primitiva”, che “noi stessi sentiamo viva nella nostra cultura”.

Se Cantoni intende affermare la sostanziale autonomia del pensiero “primitivo”, de


Martino non accetta la convivenza, la contemporaneità del pensiero mitico (per lui

28
irrazionale) e di quello razionale ed è disposto unicamente ad accettare l’idea di un
passaggio dall’uno all’altro.

13 L’ETNOLOGIA FRANCESE TRA LE DUE GUERRE

Marcel Griaule: L’africanistica

Dal punto di vista etnografico, l’africanistica è il settore di studi che ha avuto


maggior seguito nella tradizione francese. Il balzo etnografico francese si
concretizza all’inizio degli anni ’30 quando il Parlamento, sollecitato da numerosi
studiosi, vota una legge con la quale viene istituita e finanziata la Missione Dakar-
Gibuti, finalizzata alla raccolta di dati sulle culture e le lingue della fascia centro-
africana, dalla costa atlantica a quella indiana. La missione si conclude nel 1933,
dopo circa due anni, con un grande successo scientifico e anche di pubblico (il
grande repertorio di oggetti rituali e d’uso comune viene destinato alle collezioni del
Musée de l’Homme) e la “nuova” etnografia, concepita come studio delle società
primitive sul campo, si afferma in modo definitivo anche grazie alla preveggenza di
Mauss.

Lo studio della cosmogonia dogon


Direttore della missione è Marcel Griaule, alliveo di Mauss. Nel corso del viaggio,
l’équipe prende contatto con i Dogon, popolazione destinata ad attirare l’attenzione
di numerose generazioni di ricercatori. Nel 1938, Griaule pubblica Maschere dogon,
uno studio approfondito di un rituale la cui simbologia era basata appunto sull’uso di
maschere. Per Griaule, le cosmologie primitive sono sistemi coerenti e autonomi e
quindi, anche nella cultura dogon, egli concepisce l’idea di un’interconnessione tra
simbologia, mito, rito e sacrificio. In Dio d’acqua, pubblicato nel 1948, Griaule
fornisce un resoconto della cosmogonia dogon, ricostruita in forma di intervista ad
Ogotemmeli, un anziano cacciatore cieco incontrato nel corso dell’ultima missione. Il
pensiero dogon che emerge da questo libro è degno, per Griaule, del pensiero
filosofico dell’antichità.

Per Griaule ogni cosa, dall’organizzazione sociale alla vita produttiva, ai cerimoniali,
ai rapporti tra i sessi non poteva essere spiegata senza la conoscenza di questa
complessa cosmologia. La cosmologia come sistema di idee del tutto autonomo fa sì
che la realtà sociale discenda sempre dalla rappresentazione che gli attori sociali
hanno di questo complesso di idee. La conoscenza della cosmologia di questa
società era la chiave per la comprensione della sua cultura.

Va comunque detto che i Dogon studiati da Griaule non erano ignari dei bianchi e
della loro religione e, negli anni ’30, non erano nemmeno un popolo isolato come
invece potrebbe sembrare leggendo le opere di Griaule.

L’epistemologia di Griaule
Griaule rivendica la priorità degli studi monografici su quelli comparativi
(contrastando parzialmente con la tradizione durkheimiana) sulla base dell’idea che
l’umanità fosse costituita da gruppi sociali provvisti di culture fondate su principi
diversi. E’ una prospettiva paragonabile al particolarismo storico di Boas in

29
America e al funzionalismo di Malinowsky in Gran Bretagna, cioè legata all’idea di
una ricerca circoscritta ai singoli contesti culturali e sociali, pur nelle differenze delle
corrispondenti premesse.
Per Griaule, questa impostazione resta legata ad uno studio che mira a cogliere i
sistemi cosmologici per come sono concepiti dai nativi; quindi lo studio dei sistemi di
pensiero diversi da quello occidentale non deve passare attraverso una lettura
fondata sulle categorie dell’osservatore, ma sulla coerenza interna di tali sistemi.

Il Metodo dell’etnografia
Quest’opera testimonia l’acutezza e la spregiudicatezza di Griaule in materia. Egli
infatti considera l’inchiesta etnografica in termini “strategici”, mettendo in guardia
dalle tortuosità e fornendo modalità per superare alcune situazioni: il carattere
lacunoso delle dichiarazioni fornite dall’informatore, il continuo sforzo dell’etnografo
per rimettere in pista l’indigeno tendente alla divagazione, il valore di tali divagazioni
come indizi di altri fatti sociali, ecc. Diciamo pure che Griaule si presenta anche come
teorico della “manipolazione” dell’informatore. Tutto ciò fa comprendere come e
quanto l’etnografia non possa essere considerata una semplice raccolta di dati, ma
qualcosa che implica una complessa serie di relazioni di potere tra etnologo e
indigeno.

Maurice Leenhardt: L’oceanistica

Maurice Leenhardt è considerato il fondatore dell’etnologia oceanistica francese.


Sino agli anni della prima guerra mondiale, questo campo era battuto soprattutto
dagli antropologi di scuola britannica e tedesca. Leenhardt è un missionario
protestante inviato giovanissimo all’inizio del secolo in Nuova Caledonia
(Melanesia); egli sviluppa il proprio interesse etnologico stando a contatto con i
Canaki, gli abitanti del luogo. Il suo stile missionario non è del tipo persuasivo;
Leenhardt preferisce mettersi sulla scia della tradizione locale cercando di costruire
un ponte che permettesse di trasfondere la fede in Dio. In tal senso, si impegna nella
traduzione della Bibbia nella lingua locale e, in tal modo, intraprende una grande
indagine linguistica, uno studio che gli disvela un mondo denso di simboli,
rappresentazioni e idee relative alla vita e alla morte.

L’elaborazione di Leenhardt sulle idee canaki relative al mito e alla persona non è
indenne dall’influsso della religione cristiana. Seguendo la propria inclinazione di
missionario, egli imposta un’analisi della persona e non dei fatti sociali, ponendosi
anche in una posizione diversa dalla tradizione francese di ispirazione durkhemiana.
Non sorprende quindi che il mito gli parve strettamente legato all’idea di persona
come complesso di rappresentazioni pervasive della vita dei Canaki. Per Leenhardt,
il mito non era un racconto nel quale era stata trasfigurata una realtà storica (come
per Malinowsky) e nemmeno una spiegazione pre-razionale della realtà (come per
Frazer), ma qualcosa che dava un senso al tempo e alla partecipazione dell’uomo
al mondo e alla natura; uno spazio intellettuale in cui il primitivo costruiva il proprio
mondo, partecipandovi.

Ancora prima di Griaule, Leenhardt inaugura una corrente caratteristica della


tradizione etnologica francese, che si distingue per privilegiare lo studio delle

30
cosmologie indigene più come sistemi di pensiero che come antecedenti della
struttura sociale.

Robert Montagne: La sociologia maghrebina

Algeria, Tunisia e Marocco diventano, tra l’800 e il ‘900, colonie o protettorati


francesi. Ciò determina la nascita nella tradizione sociologica francese di
ispirazione durkheimiana di una riflessione sulle società e le culture del Maghreb
(“sociologia maghrebina”, appunto). Robert Montagne giunge in Marocco come
militare nel 1918; studia l’arabo e il berbero e diventa uno dei maggiori conoscitori
delle popolazioni locali e della loro organizzazione sociale e politica. Mentre
Montagne compiva le sue ricerche in Marocco, l’etnologia francese guardava altrove
e in particolare all’Africa subsahariana, all’Oceania e al Sudamerica.

I Berberi e il Makhzen è uno studio sull’organizzazione politica delle tribù berbere


dell’area marocchina e dei loro rapporti con il governo (Makhzen) del paese; i
berberi di questa regione erano infatti in lotta da secoli con il governo del Sultano per
salvaguardare la loro indipendenza.

I berberi avevano istituzioni democratiche con capi eletti a turno. Il potere dei capi,
però, aumentava quando questi sgominavano i concorrenti generando piccoli
potentati. Tali situazioni erano normalmente destinate al “riassorbimento” alla morte
del capo interessato. Tuttavia, se questo riusciva a trarre vantaggio dall’alleanza con
il Sultano facendosi nominare come suo rappresentante locale, il potere del capo
diveniva tirannico, condizione che cessava con la morte del Sultano o in seguito a
ribellioni comunitarie.

La storia della regione in tal modo oscillava tra forme di governo democratico
(assembleare o oligarchico) e forme di tirannia. I Berberi e il Makhzen analizza
proprio queste oscillazioni, anche perché Montagne riesce a cogliere ed osservare le
diverse comunità nelle varie fasi di trasformazione.

14 L’INDIVIDUO NELLA SUA SOCIETÀ: CULTURA, CARATTERE, PERSONALITÀ

A partire dagli anni ’20, l’antropologia inizia ad interrogarsi, soprattutto in America,


sui processi psicologici implicati nei rapporti tra individuo e cultura, in particolare
nella costruzione della personalità individuale.

Ruth Benedict: Il configurazionismo

Il configurazionismo nasce in America nel corso degli anni ’20 a partire dalla
riflessione di Boas e di alcuni suoi allievi ed esprime l’idea che ogni cultura scaturisce
come prodotto dell’interazione di più modelli (o configurazioni) che ne
rappresentano i segmenti espressivi: una certa filosofia, una moda, uno stile artistico,
ecc. Ruth Benedict, allieva di Boas, segue questa concezione della cultura e fa
notare come la cultura fosse sempre stata considerata un’aggregazione di elementi
isolati, mentre il significato di un tratto poteva cambiare in base alla presenza o meno
di altri tratti; due società provviste di tratti simili potevano infatti anche avere culture
organizzate in base a modelli diversi. In pratica, è importante considerare come un
31
tratto si connette agli altri presenti nella stessa configurazione; in tal modo, una
cultura esprime qualcosa di più della semplice somma delle singole parti.

Nel suo libro Il concetto dello spirito guardiano, la Benedict analizza la


distribuzione di un particolare tratto culturale, la credenza tra gli Indiani del
Nordamerica nello “spirito guardiano”, un’entità sovrannaturale che assisteva
l’individuo nelle sue imprese (di caccia, guerra) rivelandosi in sogni o visioni. E’ così
che rileva alcune differenze nelle diverse società: in alcuni casi esso si combinava
con il totemismo, in altri con i riti legati alla pubertà, in altri con ranghi sociali ereditari,
in altri ancora con la magia nera. La credenza nello spirito guardiano entrava a fare
parte di modelli specifici che, in base alle loro funzioni, integravano i tratti dopo
averli selezionati.

In Modelli di cultura, il suo più celebre lavoro, la Benedict sviluppa l’idea secondo
cui ogni società produce un “modello culturale medio” in base alla formazione di
“pattern” sugli elementi della sua cultura. Combinando nozioni psicologiche allo
studio di società diverse, definisce 4 modelli di riferimento:

Apollinei Controllo delle emozioni raggiunto attraverso


(Indiani Zuni) l’interiorizzazione dei sentimenti.
Dionisiaci Estremizzazione dei sentimenti e delle passioni,
(Indiani delle Pianure) specialmente se riferiti alla guerra e alle competizioni.
Paranoici Sospettosità e invidie reciproche.
(Dobu della Melanesia)
Megalomani (Kwakiutl della Frenesia distruttiva (potlatch) e delirio di potenza alla ricerca
costa settentrionale del Pacifico) di un sempre maggiore prestigio sociale.

La Benedict si avvicina alle posizioni dei funzionalisti suoi contemporanei, ma si


distingue da loro per il fatto di attribuire all’integrazione culturale la generazione di
modelli che si riflettono nel carattere e nel comportamento sociale dell’individuo.

Ogni cultura, come ogni individuo, è un insieme coerente di pensieri e azioni


caratterizzato da scopi caratteristici che rendono la configurazione culturale
irriducibile.

Gregory Bateson: Ethos, eidos e schismogenesi

Gregory Bateson, allievo anche di Malinowsky, dedica solo una parte della sua
carriera scientifica all’antropologia, spostando poi i propri interessi nel campo della
psichiatira e dell’etologia. Ciò nonostante, sviluppa una visione originale dei rapporti
tra individuo e società. Nel 1932, compie alcune ricerche tra gli Iamutl della Nuova
Giunea che lo consacrano come ricercatore brillante ed eccentrico allo stesso
tempo. Naven, studio sul rito omonimo degli Iamutl, analizza congiuntamente le
implicazioni psicologiche, economiche, politiche, magico-religiose ed etiche del rito
stesso, rifiutando la prospettiva comune che considerava separatamente questi
settori delle società.

Il rito “naven” si svolgeva quando un giovane compiva per la prima volta un gesto di
valore nella cultura locale (uccisione di un nemico, cambiamento di status sociale,
ecc.). I suoi parenti di entrambi i sessi si travestivano assumendo insegne e
32
comportamenti tipici del sesso opposto. In particolare, il wau (fratello della madre)
parodiava la “debolezza emotiva” femminile, mentre le femmine assumevano il
comportamento fiero caratteristico dei maschi.

Bateson spiega questa inversione come segue. L’eidos della società locale, cioè
l’ideale culturale legato ai generi, prevedeva un tono emotivo (ethos) che per i
maschi consisteva in comportamenti fieri e aggressivi, che non indulgevano a
tenerezza ed affetto, e per le femmine sottomissione, modestia e atteggiamenti
improntati all’emotività e agli affetti. In seguito al raggiungimento di un obiettivo
socialmente e culturalmente positivo ed approvato, travestendosi da donna il wau
poteva manifestare soddisfazione e affetto per il figlio della sorella, mentre le donne,
travestendosi da uomini, potevano esprimere sentimenti di fierezza ed orgoglio per il
giovane di cui si erano prese cura.

Riprendendo il concetto elaborato dalla Benedict, la combinazione di ethos ed eidos


costituiva per Bateson un’istanza relativamente semplice di “configurazione”.

La schismogenesi
Patendo dal caso degli Iamutl, Bateson allarga la nozione di schismogenesi, ovvero
la dinamica generatrice di comportamenti divergenti, sostenendo che questo
processo non riguarda solo gli individui, ma anche i gruppi. Nella schismogenesi le
società, come gli individui, possiedono meccanismi frenanti poiché, portato alle
estreme conseguenze, tale processo provocherebbe la disgregazione sociale nel
primo caso e schizofrenia nel secondo. Ad esempio, riprendendo il caso del rito
naven, l’equilibrio dinamico si gioca nell’aggiustamento reciproco tra eidos ed ethos,
ovvero tra il livello ideale-prescrittivo e quello emotivo.

Abram Kardiner: Il concetto di “personalità di base”

Abram Kardiner affronta le problematiche inerenti la formazione della personalità


individuale in contesti culturali diversi. Formatosi alla scuola di Franz Boas, nel 1921
entra in analisi con Freud divenendo egli stesso psicoanalista, anche se non fu mai
un sostenitore dell’ortodossia psicoanalitica. Nel corso degli anni ’30 si fa promotore
di una discussione tra antropologi e psicoanalisti proprio per sviluppare i temi
dell’integrazione individuo-società sotto il profilo psicologico. Ralph Linton,
etnografo, apporta alcuni contributi fondamentali a questa discussione.

Istituzioni primarie e secondarie


All’interno di una cultura, secondo Kardiner esiste una risultante psicologica media
che costituisce la “personalità di base”. Si tratta di una struttura, di un complesso di
tratti correlati alla cui costruzione concorrono:

- Le istituzioni primarie, cioè gli elementi che contribuiscono a plasmare la


personalità delle persone nella fase infantile della loro esistenza e che
riflettono i sistemi di valori caratteristici della cultura di appartenenza;
- Le istituzioni secondarie, che agiscono ad un diverso livello essendo
elementi culturali elaborati dalla società per attenuare e conciliare le tensioni
generate sulla psiche individuale dalle istituzioni primarie. Si tratta di religioni,
riti, leggende, tabù e tutto quanto giustifica l’ordine della società e
dell’universo.
33
La “personalità media” è quindi un prodotto sociale e culturale che combina l’azione
esercitata da questi due tipi di istituzioni. Per Kardiner, l’individuo elabora nel corso
dell’infanzia (quindi sotto l’azione delle istituzioni primarie) immagini delle figure
parentali, che sono oggetto della sua affettività, e le proietta successivamente nel
quadro delle istituzioni secondarie della sfera mitico-religiosa.

Kardiner e Linton distinguono la loro posizione sia da quella dei funzionalisti, sia dal
configurazionismo della Benedict. La prima è considerata da loro come adattamento
reciproco e interdipendenza funzionale degli schemi di comportamento, “una massa
di ingranaggi il cui funzionamento non ha però un fulcro centrale”; riguardo alla
Benedict, rilevano che non in tutte le culture è possibile determinare un’integrazione
incentrata su di un singolo atteggiamento, sentimento o valore in grado di dominare
una data configurazione culturale.

La teoria della personalità di base descrive un costrutto ipotetico, non elaborato


sulla base di casi individuali, ma tramite l’analisi di tutto il materiale riferito alle
popolazioni studiate.

Margaret Mead: Adolescenza, carattere e genere

Solo con Margaret Mead, negli anni ’20, l’antropologia americana allarga i propri
interessi oltre lo studio degli Indiani d’America. Allieva di Boas, la Mead diverrà una
delle figure più autorevoli della disciplina. La sua attività si colloca in un periodo in cui
gli effetti sociali prodotti in America nel primo dopoguerra (vertiginoso aumento della
delinquenza, in particolare di quella giovanile) orientano gli interessi la psicologia
sociale, della sociologia e dell’antropologia americane; in questo scenario, infatti, i
temi dell’adattamento dell’individuo ai valori espressi da una società produttivista e
concorrenziale come quella americana diventano oggetto di molti studi.

E’ così che lo studio del processo di socializzazione viene a coincidere con quello
dell’influenza esercitata dalla cultura sull’individuo e della trasmissione dei valori
che consentono a quest’ultimo di adattarsi con successo ai modelli sociali di
riferimento.

Adolescenti a Samoa
L’adolescente in una società primitiva (1928) è uno studio sul periodo
adolescenziale della donna samoana, che considera la formazione della
personalità attraverso l’analisi del contesto sociale e dei processi educativi. Lo
studio mostrava come l’adolescenza in una società primitiva fosse meno esposto a
traumi rispetto alla società occidentale e a quella americana in particolare. Due i
fattori all’origine di questa differenza, secondo la Mead:

- L’assenza di messaggi concorrenziali e produttivistici inviati all’individuo


dalla cultura;
- Il carattere sostanzialmente monodimensionale, cioè privo di alternative
rilevanti, nelle scelte che un adolescente deve affrontare.

34
La Mead intende mostrare come a modelli culturali diversi corrispondono altri
modelli educativi che alla fine danno luogo alla formazione di personalità
diversamente orientate. Conclusioni oggi scontate, ma che all’epoca generarono un
notevole effetto sia presso gli antropologi, sia presso il pubblico americano colto,
contribuendo a rendere più articolato l’orizzonte teorico e pratico all’interno del quale
si era mossa sino ad allora l’esperienza educativa americana.

Nuove prospettive sul sesso e sul genere


E’ proprio lo studio delle relazioni tra modelli culturali, processi di apprendimento e
formazione della personalità ciò che permette alla Mead di scrivere opere come
Sesso e temperamento in tre società primitive o Maschio e femmina, libri che
riportavano conclusioni estremamente importanti. Le idee centrali erano:

- I tratti del carattere maschile e femminile sono determinati più dalla cultura
che da una predisposizione naturale;
- I differenti valori espressi da culture diverse tendono a produrre dei “caratteri-
tipo” come risposta adattiva individuale.

Margater Mead inaugura così, in antropologia, lo studio delle differenze di genere.

Il relativismo culturale

Ruth Benedict e Margaret Mead, insieme ad altri studiosi, introducono il concetto di


relativismo culturale, secondo cui azioni e valori, per poter essere compresi,
devono essere considerati all’interno del contesto complessivo nel quale si
collocano. Le esperienze culturali “altre” non possono essere comprese attraverso
l’applicazione scontata e ingenua delle categorie interpretative della cultura
dell’osservatore; l’analisi culturale deve invece procedere con cautela e ricercare il
senso dell’esistenza dei fenomeni (azioni, pensieri, valori, ecc.) nel contesto in cui
questi si svolgono. In antropologia, il relativismo è un atteggiamento che serve per
comprendere, il che non significa “giustificare”.

15 IL FUNZIONALISMO STRUTTURALE BRITANNICO DA RADCLIFFE-BROWN


A EVANS-PRITCHARD

Alfred Radcliffe-Brown: La scienza naturale della società

Il quadro di riferimento teorico proposto da Radcliffe-Brown investe un’intera


generazione di studiosi, anche fuori dal mondo anglosassone. Allievo di Rivers, è
profondamente influenzato anche da Durkheim, una condizione riscontrabile nella
sua concezione della funzione sociale dei fenomeni mitico-religiosi: “perché gli umani
possano vivere in società, è necessaria l’esistenza della religione”.

Sin dagli inizi degli anni’20, egli si pone il problema di definire l’oggetto
dell’antropologia e proprio seguendo Durkheim, in un approccio sociologico,
circoscrive il campo dell’antropologia allo studio dei fenomeni sociali non riducibili
ad un altro ordine di realtà. Da un punto di vista metodologico, prima considera i
meccanismi che operano all’interno della società per passare poi alla loro

35
comparazione e, se possibile, ad una generalizzazione in termini di “leggi”. L’oggetto
dell’antropologia diviene in tal modo lo studio delle leggi che determinano il
funzionamento e la trasformazione delle società.

Questo metodo di matrice induttiva conferisce la caratteristica di “scientificità” allo


studio dei popoli primitivi. Se i fenomeni studiati sottostanno a leggi generali che
possono essere scoperte applicando certi metodi logici, Per Radcliffe-Brown,
l’antropologia sociale si qualifica come una “scienza naturale della società” che
indaga fenomeni appartenenti ad un certo ordine di realtà irriducibili ad altri ordini di
natura diversa.

La struttura sociale
Radcliffe-Brown segue una direzione di ricerca molto diversa da quella ormai
consolidata nella tradizione americana basata sullo studio del comportamento
individuale e dei meccanismi di adattamento del singolo alla società, concentrando
l’attenzione sulla trama complessiva dei rapporti sociali e che costituisce ciò che egli
stesso definisce “struttura sociale”. In particolare, definisce tre concetti-chiave:

Struttura socialeTrama dei rapporti realmente esistenti tra gli individui. E’ un


concetto che ha come referente una realtà empirica e concreta;
Processo sociale Interazione e azione congiunta degli individui;
Funzione sociale Esprime il rapporto tra la struttura e il processo vitale. Ha un
ruolo simile a quello del “funzionalismo ristretto” di Malinowsky,
ovvero contribuire al mantenimento del complesso socio-
culturale.

In tal modo, la società può esser pensata come insieme coordinato di attività e quindi
come “organizzazione”.

Radcliffe-Brown mette anche in evidenza la necessità di indagare un campo di


conoscenza del tutto nuovo, che denomina “fisiologia strutturale”, inerente lo studio
dei meccanismi che tengono in vita e regolano la trasformazione della trama dei
rapporti sociali; tuttavia non avrà modo di sviluppare questo particolare aspetto, pur
considerandolo fondamentale per l’antropologia sociale; con i suoi allievi si
concentrerà soprattutto sui meccanismi della conservazione dei sistemi (“continuità
strutturale”).

Lo studio dei sistemi di parentela

Radcliffe-Brown fonda la sua competenza sui sistemi di parentela sull’esperienza


maturata presso gli aborigeni australiani. Il suo lavoro The social organization of
Australian tribes rappresenta un caso molto particolare in quanto predice, sulla
base di un’ipotesi formulata a partire dalla letteratura etnografica, l’esistenza di un
particolare sistema matrimoniale in una determinata regione australiana, il sistema
”kariera”. Questo lavoro si colloca infatti nella storia dell’antropologia come un
memorabile successo deduttivo.

Radcliffe-Brown torna anche sul problema del rapporto tra terminologie di parentela e
rapporto sociale e propone una lettura delle terminologie di parentela prima di tutto

36
legata al significato “attuale”. Ad esempio, nei sistemi di tipo “omaha” (dal nome dei
nativi nordamericani presso i quali tale sistema venne osservato per la prima volta),
la figlia del fratello della madre (per noi, la “cugina”) viene chiamata “madre”.
Partendo dal fatto che nel passato poteva essere consentito il matrimonio di un uomo
con la figlia del fratello della moglie (per noi, la “nipote”):

Spiegazione evoluzionista Spiegazione di Radcliffe-Brown


Si può verificare la possibilità che Qualora il marito abbia già dei figli, la “cugina” diverrebbe
un individuo (un figlio nato da tale la loro “matrigna” e verrebbe da loro chiamata “madre”;
unione) possa essere figlio un modo per rendere questo tipo di unione, qualora si
biologico della propria cugina. verifichi, sociologicamente coerente.

Ma, coerentemente alla sua impostazione, la vera preoccupazione di Radcliffe-


Brown era quella di definire il significato dei termini di parentela in relazione alla
struttura sociale. Per questo enuncia alcuni “principi strutturali”:

- Unità del gruppo dei fratelli (sibling group): i figli degli stessi genitori, senza
distinzione di sesso, rappresentano un’unità nei confronti della quale un
esterno mantiene la stessa attitudine ed utilizza un termine unico. In certi
sistemi africani di lingua bantu, tanto il fratello quanto la sorella del padre
vengono chiamati “padre”;
- Unità di linguaggio: ci si può rivolgere a tutti gli individui appartenenti alla
linea di discendenza di uno dei genitori con lo stesso termine. In un sistema di
tipo “omaha”, la madre, le sue sorelle, le cugine patrilineari e le loro figlie sono
tutte chiamate “madre”.

In entrambi i casi, si tratta di ragioni fondamentali dell’esistenza di terminologie


classificatorie. Radcliffe-Brown mette in rapporto diretto terminologie di parentela e
comportamento sociale, senza però assegnare caratteristiche di causa ed effetto e
limitandosi ad affermare la loro unità funzionale.

La teoria del totemismo di Radcliffe-Brown

Il totemismo “economico”
Radcliffe-Brown accetta l’interpretazione funzionale di Durkheim per cui il simbolo
totemico produce un effetto integrativo nel gruppo che in esso si identifica, ma rifiuta
l’idea durkheimiana della natura sacra del totem in quanto simbolo della società. Egli
interpreta invece l’atteggiamento rituale come una più generale attitudine nei
confronti di specie animali e vegetali che precede l’uso sociologico di questo simbolo.
Infatti, rileva Radcliffe-Brown, un tale atteggiamento, rilevabile anche in situazioni in
cui il totemismo non è presente, è connesso all’importanza economica di
determinate specie nella vita dei gruppi. In breve: i totem non sono oggetto di rituale
in quanto simbolo della società, ma diventano simbolo della società perché già
oggetto di un’attenzione rituale. Questa interpretazione è tuttavia debole, poiché
molte specie risultavano oggetto di culto o di attenzioni speciali pur non rivestendo
un ruolo economico nelle società.

Il totemismo “strutturale”
Una ventina di anno dopo, Radcliffe-Brown supera la concezione “economica” del
totemismo riflettendo sul perché certe specie e non altre venissero scelte come
37
rappresentazioni simboliche di relazioni tra gruppi e sul perché specie simili (ad
esempio “uccelli mangiatori di carne”) fossero spesso abbinate in rappresentazioni di
opposizione. Per esempio, la metà di un gruppo australiano poteva essere “Falco” e
l’altra metà “Cornacchia”. La risposta di Radcliffe-Brown è che le coppie di
opposizione esprimono l’applicazione di un determinato principio “strutturale”: il
totemismo cioè esprimerebbe l’opposizione di gruppi che però sono strutturalmente
uniti in una relazione funzionale, come ad esempio lo scambio matrimoniale.

Dopo Radcliffe-Brown

Nel periodo compreso tra le due guerre, nel panorama britannico i riferimenti
principali sono Malinowsky e Radcliffe-Brown; se il primo rappresenta l’ideale del
comportamento etnografico, il secondo, preoccupato di assegnare all’antropologia un
campo e un oggetto di studio precisi, è un punto di riferimento più ampio. Il
funzionalismo strutturale di Radcliffe-Brown si mantiene, almeno fino agli anni ’50,
il punto di riferimento per quasi tutti i ricercatori della tradizione antropologica di Gran
Bretagna, Australia, Nuova Valenza e Sudafrica.

Edward Evans-Pritchard: Razionalità “primitiva” e antropologia come “arte”

Con Evans-Pritchard, l’antropologia sociale di Radcliffe-Brown subisce importanti


mutamenti di prospettiva. Egli passò da posizioni struttural-funzionaliste ortodosse ad
una prospettiva per molti versi opposta a quella che assegnava all’antropologia il
rango di “scienza naturale delle società” secondo l’idea-guida di Radcliffe-Brown.

Gli Azande e la razionalità primitiva

La monografia etnografica Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande (1937) è la


prima opera di Evans-Pritchard. Lo studio della stregoneria, della magia e delle
procedure seguite dagli indovini per scoprire i responsabili dei malefici diventano una
ricerca sulla natura del pensiero azande, secondo il quale ogni disgrazia poteva
essere attribuita alla magia e colui che la subiva consultava gli oracoli o l’indovino,
che attingeva al vasto repertorio di tecniche e conoscenze magiche di questa cultura.

Stregoneria, oracoli e magia costituiscono un complesso sistema di credenze e riti


che assumono un senso solo se visti come parti di un unico complesso che si basa
su una struttura logica: la stregoneria provoca la morte, perciò la morte costituisce
prova di stregoneria e gli oracoli confermano tale condizione.

Per Evans-Pritchard, la questione della razionalità non deve essere considerata nei
termini di una valutazione del tipo vero/falso, ma esclusivamente in termini di
coerenza all’interno del sistema di credenze. Egli è il primo studioso che
considera la magia come un complesso strutturato di idee, quando la prospettiva
comune, pur ponendola in relazione agli altri aspetti della vita sociale, non la
interpreta affatto come un “sistema di idee”. Infatti, lo studio sugli Azande inaugura,
nell’antropologia britannica, le ricerche sui sistemi di pensiero in seguito alle quali il
pensiero “primitivo” perde la connotazione pre-razionale e pre-logica e si vede
attribuire lo status di insieme coerente di concetti legati da una logica.

38
I Nuer e il modello segmentario

I Nuer (1940), studio sulla popolazione omonima del Sudan, considera le dinamiche
delle alleanze e del conflitto. Evans-Pritchard rileva in questa popolazione l’assenza
di sistemi politici con veri e propri capi. Per contro, scopre una dinamica politica
basata su rapporti variabili di alleanza e conflitto tra segmenti autonomi di
questa società. I segmenti, lignaggi costituiti da discendenti di antenati comuni, si
coalizzavano e separavano dando luogo a gruppi contrapposti quasi sempre in modo
tale da creare una condizione di equilibrio tra le forze in lotta che di solito bloccava il
conflitto emergente. Questo modello dimostrava che una vita politica complessa e
articolata poteva esistere anche dove non era presente un’autorità formale capace di
esercitare un potere di natura coercitiva.

Questo modello della segmentarietà si distingue profondamente da quello proposto


da Durkheim, secondo il quale le società a solidarietà meccanica presentano una
struttura segmentaria tale per cui ogni segmento è la replica di tutti gli altri (metafora
del lombrico). Evans-Pritchard introduce invece una segmentarietà dinamica e
strutturata.

L’antropologia come “traduzione di culture”

Il principio del carattere coerente e logico interno ai sistemi di pensiero “primitivi”


poneva un problema nuovo: come tradurli nel pensiero dell’antropologo e nella
cultura occidentale? Evans-Pritchard si sforza di dimostrare, ad esempio, come certe
affermazioni apparentemente irrazionali, se considerate all’interno del sistema di
pensiero specifico, possono diventare comprensibili, razionali e anche traducibili.
Tuttavia, alcuni studiosi criticano Evans-Pritchard, rimproverandolo di volere
attribuire ad ogni costo una coerenza a sistemi sino ad allora considerati frutto di
atteggiamenti irrazionali. Altre critiche, hanno più opportunamente puntualizzato
come l’esplorazione di un sistema di pensiero non potesse avvenire solo in base ad
un principio di coerenza interna, ma necessitasse anche di indagare le relazioni con
il contesto di utilizzazione pratica dei concetti: osservando come e quando i concetti
vengono utilizzati è possibile coglierne il senso culturale specifico e quindi, se
possibile, anche tradurli.

Concludendo su Evans-Pritchard

Evans-Pritchard arriva ad abbandonare le posizioni di Radcliffe-Brown per approdare


ad una concezione della disciplina vicina a quella delle “scienze storiche”,
sostenendo che l’antropologia sociale va in cerca di modelli che consentano di
interpretare più che di leggi scientifiche in grado di dare spiegazioni.

Non sorprende quindi che Evans-Pritchard abbia sviluppato un attacco vigoroso al


metodo comparativo, da sempre considerato in Gran Bretagna garanzia di
scientificità. Egli però non ritiene che debba essere abbandonato, in quanto ciò
frammenterebbe la disciplina in una serie di studi monografici assimilandola di fatto
alla storiografia. La sua proposta è l’uso di un metodo comparativo “in scala
ridotta”, che consideri le società caratterizzate dalla stessa organizzazione (nomadi,
cacciatori) o situate in aree geografiche circoscritte, o ancora in relazione a

39
tematiche ristrette (organizzazione politica, economica, religiosa), senza mettere in
gioco prospettive generalizzanti a qualunque costo. Questo approccio sposta
l’accento sulla ricerca delle particolarità culturali piuttosto che sulle uniformità; del
resto, per Evans-Pritchard l’antropologia doveva spiegare proprio le differenze.

Con le sue critiche metodologiche e la sua concezione dell’antropologia come sapere


interpretativo piuttosto che scientifico, Evans-Pritchard accelera la crisi del
paradigma funzionalista nella sua concezione della struttura sociale come
complesso di parti e quindi come entità comparabile con altre della stessa natura.

16 ETNOLOGIA E ANTROPOLOGIA IN ITALIA NEL SECONDO DOPOGUERRA

In Italia, gli anni successivi alla seconda guerra mondiale sono caratterizzati dalla
diffidenza del mondo culturale, politico e accademico verso una disciplina sulla quale
grava l’ombra della compromissione con il regime fascista e le sue espressioni
coloniale e razzista. Il rilancio degli studi etno-antropologici si ha con Ernesto de
Martino.

Ernesto de Martino: Il magismo e il concetto di “presenza”

De Martino pubblica Il mondo magico nel 1948, impegnandosi appunto nella


ricostruzione della struttura del mondo magico. La comprensione di un’era magica è
per lui condizione per la comprensione dell’era presente, appena conclusasi nel
segno distruttivo dei miti irrazionali del sangue, della razza e della guerra. Il recupero
del mondo magico significava per De Martino ribaltare (o forse estendere) la
prospettiva crociana, il cui sistema basato sulle quattro forme o categorie
tradizionali rappresentava per lui il limite di un’esperienza confinata alla civiltà
occidentale che rendeva ogni giudizio storico non individuante.

Le categorie dello spirito nella filosofia crociana


Secondo Benedetto Croce, le forme dell’attività dello spirito sono 4: estetica,
concettuale, economica ed etica. Esse articolano il dominio teoretico e quello pratico,
la dimensione universale e quella particolare. La dimensione religiosa non trova
collocazione in questo sistema, essendo concepita da Croce come aggregazione tra
elementi dei domini teoretico/speculativo, della morale e della poesia. Per questo De
Martino intende svincolare lo studio del mondo magico da una filosofia di questo tipo.

Quindi, una realtà storica come quella del mondo magico non può essere compresa
nell’ambito di una visione ispirata dalle categorie dello spirito. Il mondo magico deve
invece essere rivisitato dall’interno. Per poterlo fare è necessario comprendere come
avviene la costruzione della realtà magica, che secondo De Martino ruota attorno al
concetto di “presenza”.

Il concetto di “presenza”
La presenza è per De Martino uno stato che l’uomo si sforza di costruire per sfuggire
all’idea del “non-esserci”. Si tratta di un moto naturale dell’essere umano al quale
non ci si può sottrarre se non si vuole essere annientati. Attraverso una consistente
serie di esempi tratti dalla letteratura etnografica, De Martino descrive il magismo
come primo tentativo coerente dell’uomo di affermare la propria presenza nel mondo:
40
l’universo magico si afferma come spazio di pensiero e di azione in cui affermare la
volontà di esserci. Evidentemente, a differenza di altri evoluzionisti, De Martino non
colloca la magia sul terreno dell’irrazionalità, anzi.

La presenza non è un’acquisizione definitiva: può sempre essere rimessa in


discussione da crisi individuali o anche collettive. Il concetto di “perdita della
presenza” trova spazio anche in Morte e pianto rituale (1958), cha analizza il
lamento funebre nel mondo antico e nella Basilicata contemporanea, interpretandolo
come forma culturale il cui scopo è quello di far fronte alla crisi di presenza che
minaccia comunità e soggettività.

Destorificazione, marxismo e etnocentrismo critico

Nel saggio Intorno a una storia del mondo popolare subalterno (1949), emerge in
De Martino un forte avvicinamento alle tesi del marxismo di Gramsci.
L’atteggiamento marxista di De Martino non fu mai ortodosso e funzionale ad analisi
di tipo storico-economico, ma piuttosto una sorta di espressione umanistica verso i
problemi del meridione.

Su questa premessa De Martino inaugura un’antropologia delle masse che non


fanno storia in senso crociano, ma che nella storia di fatto irrompono (siamo
nell’immediato secondo dopoguerra). Nell’antropologia meridionalistica di De Martino
si fondono il suo marxismo umanista ed etico e il tema della presenza: l’idea della
persona impegnata nel riscatto della propria presenza si traspone nell’idea
dell’umanità estromessa, che ha percorso la storia senza però possederla. De
Martino chiama Lo straniamento e l’esclusione dei soggetti umani dalla storia
“destorificazione”.

L’idea di portare nella storia le masse prive di storia era in realtà vista con
diffidenza sia dagli storici di matrice idealista (il canagliume, la plebe non poteva
essere oggetto di storia non essendone l’agente), sia da alcuni marxisti (l’idea
demartiniana era inaccettabile in quanto turbava la prospettiva del riscatto attraverso
l’emergere di una coscienza di classe).

L’etnocentrismo critico
Lo studio dei fenomeni magico-religiosi del Sud Italia apre in De Martino la riflessione
sul rapporto tra l’etnologo e le comunità o gli individui oggetto dell’inchiesta. Egli
parla di “umanesimo etnografico” riferendosi alla capacità, irrinunciabile per
l’etnografo, di “sopportare l’oltraggio delle proprie memorie culturali più care
convertendolo in esame di coscienza”. In realtà, De Martino è perfettamente
consapevole che il rapporto etnologico non è affatto neutro e che l’osservatore
tende, già nell’interrogazione della cultura aliena, ad impiegare griglie interpretative
etnocentriche; del resto, all’estremo opposto, considera giustamente il rischio di un
approccio dogmatico e acritico alla cultura “altra”. E’ il classico paradosso
dell’incontro etnografico: se l’etnografo prescinde totalmente dalla propria storia
culturale, diventa cieco e muto e perde la propria vocazione specialistica; se invece
si affida ad alcune “ovvie” categorie antropologiche, si espone al rischio di
valutazione etnocentriche.

41
La soluzione è nel confronto continuo tra le due storie, con il proposito di raggiungere
un “fondo umano universale in cui ciò che è “proprio” e ciò che è “alieno” sono due
possibilità storiche di essere uomo”, un punto di partenza comune dal quale anche
l’etnografo avrebbe potuto prendere la strada che lo avrebbe condotto all’umanità
aliena, in una consapevolezza dell’essere uomo diversa da quella occidentale6.

Se anche l’incontro etnografico deve suscitare una doverosa autocritica da parte


dell’etnografo, De Martino non si pone alcuna questione sulla costruzione condivisa
del dato etnografico. L’osservato non concorre a determinare, con le proprie
interpretazioni sulla realtà vissuta, le interpretazioni di chi osserva; non c’è un “punto
di vista del nativo”. Questa sorta di arresto di fronte ad un nodo teorico oggi
importantissimo non è una carenza del pensiero di questo studioso, quanto un
riflesso della sua memoria filosofica, ovvero lo storicismo idealistico secondo il quale
la cultura europea sarebbe il punto di osservazione privilegiato dal quale è possibile
ricostruire la storia dell’umanità.

17 L’ANTROPOLOGIA AMERICANA E LA “RINASCITA NOMOTETICA 7”

La prospettiva idiografica, favorita da Boas nel metodo etnografico e nell’analisi


antropologica, si conserva per un buon periodo sottoforma di una tendenziale
avversione per le generalizzazioni e le spiegazioni causali. Nella seconda
generazione degli allievi di Boas affiora però la tendenza contraria, consistente in un
rinnovato interesse per la comparazione e la formulazione di teorie fondate su
spiegazioni causali.

Leslie White: La “scienza della cultura”

Mentre le teorie evoluzioniste erano praticamente bandite, Leslie White rivalutava


l’opera di Morgan. Questo impegno nasce in seguito ad un viaggio in Unione
Sovietica, nel quale rimane influenzato dal marxismo che in seguito combina con
l’evoluzionismo di Morgan8, non certo con la rivalutazione degli schemi di sviluppo
proposti in La società antica, ma nell’idea che la storia del genere umano dimostra
un incremento progressivo della complessità culturale ed un concomitante accumulo
di tecnologia.

Queste idee confluiscono in La scienza della cultura (1949), cui segue


L’evoluzione della cultura una decina di anni dopo. White parla in tal senso di
“culturologia”. Ovviamente, egli si pone il problema della misurazione della crescita
culturale ed individua il criterio di tale misura nella quantità di energia pro-capite che
una società è in grado di controllare e sfruttare. La tecnologia impiegata per produrre
energia è quindi il principio causativo dell’evoluzione.
6
De Martino non ha dubbi sulla superiorità delle cultura occidentale, essendo l’unica ad essersi posta
in modo scientifico la questione della comprensione dell’altro; sa anche che il giudizio dell’occidente
su culture non occidentali non è mai avulso dall’etnocentrismo. L’etnocentrismo critico esprime
proprio la capacità di analizzare le proprie categorie interpretative in una continua ridiscussione.
7
I termine “nomotetico” si riferisce alla ricerca di leggi generali; ad esso si contrappone il termine
“idiografico” che si riferisce allo studio e alla descrizione del particolare.
8
Il marxismo recepito da White si limitava a riprendere l’assunto secondo il quale la vita delle società
umane è determinata dalle condizioni tecnico-economiche.
42
L’anti-idealismo
White contrasta le precedenti concezioni della cultura qualificandole come idealiste.
Egli considera in modo molto pragmatico il rapporto tra individuo e cultura: il primo
viene “aggredito” dalla seconda che lo circonda sin dalla nascita propinandogli, nel
corso della crescita, linguaggio, usi, credenze, strumenti, ecc. E’ esattamente la
cultura a fornire forma e contenuto al suo comportamento di essere umano,
contrariamente alle concezioni del libero arbitrio e delle teorie della storia.

Di fronte a questa concezione della cultura si apre un problema: come e in che


misura l’ambiente esterno può modellare la cultura, soprattutto considerando l’idea
della stessa come apparato strumentale atto a rendere sicura e durevole la vita della
specie umana? Su questo interrogativo, però, White non fornisce alcuna risposta.

Julian Steward: Ecologia culturale ed evoluzionismo multilineare

L’altro grande studioso impegnato nella rifondazione dell’antropologia come sapere


nomotetico è Julian Steward. Mentre Lowie, del quale Steward era stato allievo,
evitò ogni generalizzazione, egli si concentra sulla ricerca di elementi che
consentono di stabilire leggi valide in senso trans-culturale.

Gli studi sugli Shoshone, Indiani del sud-ovest che vivono in una terra proibitiva fatta
di deserti e paesaggi selvaggi, gli permettono di elaborare le teorie dell’ecologia
culturale. Le condizioni ambientali estreme rendono centrale per questa popolazione
la necessità di procurarsi da vivere una stagione dopo l’altra; i loro modelli di vita
sociale vanno compresi come adattamento a questa dura realtà. Questo interesse
per l’influenza dell’ambiente sulla cultura trova riscontro anche nelle ricerche
archeologiche di questo studioso, orientate alla comprensione delle forme di
sfruttamento delle risorse ambientali.

L’evoluzione multilineare
Steward concepisce l’antropologia come scienza naturale costituita da fenomeni
connessi da principi di relazione causale, ma la sua prospettiva generalizzante
appare controllata e meno forte rispetto a Radclliffe-Brown e White. Steward parla a
questo proposito di evoluzionismo mutilineare, intendendo con ciò riconoscere nei
mutamenti culturali l’esistenza di regolarità, e quindi di leggi, che possono essere
identificate parallelamente in ambiti specifici e spesso concatenati; ciò che con
questo approccio si perde in universalità lo si riguadagna in concretezza e specificità.

I livelli di integrazione socioculturale


Per Stewart, lo sviluppo culturale non è solo una questione di complessità crescente,
ma corrisponde anche all’emergere di livelli di organizzazione sociale sempre più
articolati (la banda patrilineare, il lignaggio, la nazione, ecc.), che egli chiama livelli
di integrazione socioculturale. Si tratta di segmenti di sviluppo evolutivo non tanto
descrittivi di tappe e stadi in successione, quanto suscettibili di evolversi in maniera
indipendentemente gli uni dagli altri senza per questo sparire, ma spesso
trasformandosi in parti specializzate o subordinate rispetto a nuove forme emergenti.

43
Marvin Harris e il materialismo culturale

Il materialismo culturale è un ulteriore sviluppo delle teorie di White e Steward e


Marvin Harris ne è il più noto esponente. Egli riassume il determinismo culturale di
White, l’attenzione per i fatti ambientali di Steward e una visione, per altro molto
particolare, delle teorie si Marx e si pone come assertore della necessità di
sviluppare un’antropologia nomotetica generalizzante.

Il neoevoluzionismo di Harris non ha la portata universale di White e anche rispetto


a Marx l’approccio è decisamente contenuto, in quanto limitato alla causalità delle
condizioni materiali di esistenza. Lo studio delle condizioni materiali (cioè non
imposte da aspetti mentali o spirituali come ad esempio la religione o l’arte) imposte
al soggetto dall’esistenza umana è ciò che permette all’antropologia di fornire
spiegazioni causali alle differenze e alle somiglianze nel pensiero e nel
comportamento delle comunità umane. Questo è il materialismo culturale.

Harris, polemizzando contro altri indirizzi di ricerca, sottolinea la necessità di


guardare ai fenomeni culturali da un punto di vista esterno, etico, che prescinde dal
punto di vista, emico, del nativo. Una prospettiva emica, infatti, secondo Harris non
spiega solo i fatti materiali, ma chiama in causa anche le rappresentazioni causate
da tali fatti, il che può compromettere una conoscenza di tipo scientifico dei fenomeni
culturali studiati.

L’antropologia economica e il modello formalista

Il ritorno a una concezione dell’antropologia come sapere generalizzante vede,


sempre in ambito statunitense, un momento importante nello sviluppo di
un’antropologia economica. In realtà, la tradizione di questo genere di studi era da
far risalire ad alcune ricerche di Malinowsky e alle teorizzazioni di Mauss sul dono,
ma emerge solo con il modello formalista, una concezione legata all’idea di fondare
una scienza del comportamento umano in ambito economico9.

Va ricordato che la cultura americana di allora condivideva in gran parte la


costruzione di una “scienza generale del comportamento” attraverso le teorie
comportamentiste. Proprio in chiave comportamentista, l’economista americano
Lionel Robbins individua nella massimizzazione dell’utile (nel senso della ricerca
di un livello ottimale di soddisfazione) il principio basilare di ogni comportamento:
religioso, rituale, politico, affettivo, ludico, ecc. Emerge così il personaggio fittizio
dell’homo oeconomicus, caratterizzato dall’obiettivo costante di adeguare una
scarsità di mezzi ai fini desiderati.

Tuttavia, i concetti impiegati nella prospettiva formalista (investimento, interesse,


rarità, risparmio, capitale, ecc.) si limitano a descrivere azioni e reazioni in campo
decisionale senza però essere portatori di alcuna funzione esplicativa. Si tratta di
un’estensione che trae origine dal pregiudizio filosofico di una natura umana costante
basata su predisposizioni universali indipendenti dai contesti storici e culturali.

9
Il termine “economico” intende circoscrivere il campo di attività nel quale le persone adeguano in
maniera calcolata determinati mezzi a determinati fini.
44
Karl Polanyi e la prospettiva “sostantivista”

Karl Polanyi è l’animatore della prospettiva sostantivista, che considera invece lo


studio dei fenomeni economici in relazione alle forme di organizzazione sociale nei
quali essi si svolgono, criticando l’idea universale della “massimizzazione dell’utile”.
Questo tentativo di elaborare dei principi generali per la comprensione del fenomeno
economico pone come oggetto dell’antropologia economica lo studio delle istituzioni
e dei processi organizzativi delle attività di produzione, distribuzione e scambio.

L’approccio non identifica più l’economico come costante comportamentale, ma


come rapporto concreto tra l’uomo e l’ambiente esterno. In tal modo, Polanyi
contrappone alla definizione “formale”, data appunto dai formalisti in termini di
attitudine psicologica, una definizione “sostanziale” basata su riferimenti materiali e
concreti, ossia i mezzi strumentali per la soddisfazione dei bisogni delle persone.

Secondo Polanyi, le forme di scambio che garantiscono l’integrazione economica in


una società sono tre:

- La prima è retta dal principio di reciprocità ed è fondata sul supporto


istituzionale della simmetria (sistemi economici di società organizzate in
gruppi simmetrici di parentela);
- La seconda si costituisce sul principio della ridistribuzione ed è fondata sul
supporto della centralità (sistemi nei quali è presente un’autorità che
concentra su di sé i beni prodotti per poi ridistribuirli secondo criteri opportuni);
- La terza è lo scambio, dominata dall’istituzione del mercato (sistemi nei quali
le merci circolano in base alle leggi di mercato).

Polanyi dimostra che la dimensione economica non ha vita autonoma, ma risulta


subordinata alle regole costitutive del sistema sociale. Egli parla di “economico
‘imbricato’ nel sistema sociale”. Solo nel sistema capitalista, caratterizzato da
un’economia di mercato in cui lo scambio avviene sulla base del principio della libera
concorrenza, l’economico si ritaglia uno spazio separato dal sociale e organizzato su
regole proprie.

18 L’ANTROPOLOGIA STRUTTURALE DI CLAUDE LÉVI-STRAUSS

L’opera di Claude Lévi-Strauss rappresenta per certi versi lo sviluppo dell’etnologia


francese di ispirazione durkheimiana, anche se in essa confluiscono temi in buona
misura estranei alla tradizione antropologica francese ed anche europea. Nel suo
soggiorno statunitense dal 1941 al 1948 prende infatti contatto con gli etnologi della
scuola di Boas (Kroeber, Lowie) e conosce filosofi e linguisti, anch’essi provenienti
dall’Europa e rifugiatisi negli Stati Uniti. I contributi di Lévi-Strauss rappresentano un
momento decisivo nella storia dell’antropologia.

Lo studio della parentela

Le strutture elementari della parentela (1949) presenta una teoria sulla


proibizione dell’incesto, che Lévi-Strauss individua come l’unica regola sociale a

45
carattere universale, cioè presente in tutte le società (seppur con differenze nelle
categorie di parenti implicati nella proibizione). Tale proibizione appartiene alla sfera
della cultura in quanto regola, ma allo stesso tempo è radicata nella natura in
quanto fenomeno universale; rappresenta così il passaggio dalla natura alla cultura.

L’esogamia e l’atomo di parentela


Precludersi l’accesso alla donne del proprio gruppo significa renderle disponibili ai
membri di un altro gruppo, i quali a loro volta adottano un comportamento identico.
L’esogamia, espressione allargata della proibizione dell’incesto, consente rapporti di
comunicazione tra i gruppi umani fondati sullo scambio reciproco. L’atomo di
parentela è l’unità parentale minima e irriducibile senza la quale non sarebbero
pensabili lo scambio matrimoniale e l’esogamia (e quindi la parentela stessa). E’ il
riflesso primario del principio esogamico.

L’atomo di parentela è formato da 4 individui: madre, padre, figlio e fratello della


madre. Quest’ultimo rappresenta il gruppo della donna ceduta e detiene sul figlio
della sorella e sulla sorella stessa un’autorità inversamente proporzionale a quella
del padre nei confronti del figlio e della moglie; quello dei due che non esercita
autorità intrattiene invece rapporti di confidenza e affetto.

Lévi-Strauss distingue due tipi di struttura di parentela:

Strutture elementari Strutture complesse


Sistemi di parentela che prescrivono il Sistemi di parentela che, come il nostro, si
matrimonio tra certe categorie di parenti limitano a proibire certi individui senza però
esplicitando i parenti proibiti e quelli che non prescrivere categorie o gruppi del partner
lo sono. matrimoniale.

La struttura elementare più semplice è rappresentata per Lévi-Strauss dal


matrimonio tra cugini incrociati (cioè figli, rispettivamente, di fratello e sorella) 10,
un tipo di unione che esprime meglio di ogni altra il principio di reciprocità.

Un esempio in tal senso proviene dai Bororo dell’Amazzonia, che vivono in villaggi
divisi in metà esogamiche abitate da clan matrilineari, poiché gli uomini che si
sposano vanno ad abitare nella metà del villaggio in cui vive il clan della moglie. Si
tratta di un modello dualista: i membri di una metà “devono” sposarsi con un membro
dell’altra metà. Tra i Bororo, il matrimonio tra cugini incrociati bilaterali è un modello di
unione matrimoniale altamente apprezzato perché si accorda perfettamente con il
modello dualista che organizza la loro società.

Il principio di reciprocità
Per Lévi-Strauss, il matrimonio tra cugini incrociati, le regole dell’esogamia e
l’organizzazione dualista sono esempi della ricorrenza della struttura fondamentale
dello scambio basato sulla reciprocità, per lui un elemento fondamentale della natura
umana indipendente da luoghi e tempi della storia. La nozione di reciprocità è una
struttura mentale, un elemento di provenienza inconscia soggiacente a tutte le
relazioni di scambio.

Il concetto di struttura per Lévi-Strauss


10
Si parla invece di cugini paralleli quando questi sono figli di due fratelli o di due sorelle.
46
In un articolo del 1953 (Il concetto di struttura in etnologia), Lévi-Strauss critica
Radcliffe-Brown a proposito della sua concettualizzazione di struttura sociale come
rete delle relazioni sociali, una visione che considera un piatto empirismo. Per lui,
invece, il concetto di struttura sociale non ha alcun referente empirico; la struttura è
una categoria umana che serve per ordinare il mondo dell’esperienza e i cui referenti
sono i modelli costruiti dal pensiero dell’uomo.

Ad esempio, il modello dualista che gli stessi Bororo danno della propria società, ad
un attento esame etnografico di dimostra incompleto, poiché ogni clan, oltre che in
due metà, è anche suddiviso in tre sezioni (superiore, media e inferiore) e le regole
del matrimonio non solo prescrivono che ci si debba sposare con qualcuno dell’altra
metà del clan, ma obbligano anche ad un’unione omogenea rispetto alle sezioni. Ciò
svela l’esistenza di una struttura diversa da quella presentata dagli stessi Bororo;
invece che essere fondata su due metà, questa società è fondata su tre gruppi,
ciascuno diviso in due metà.

Le strutture, in quanto categorie del pensiero, non solo sono vuote, ma sono anche
inconsce e identiche per tutti; quindi anche le leggi del pensiero non cambiano e
con Lévi-Strauss non ha senso una distinzione tra pensiero logico e prelogico, tra
pensiero razionale e mistico e, pertanto, tra pensiero “civilizzato” e “primitivo”. E’
proprio l’universalità delle strutture che porta nativo e antropologo a comunicare.
Qui Lévi-Strauss si richiama alla linguistica, e in particolare la linguistica strutturale,
per lui una specie di ideale paradigmatico. Infatti, non va dimenticato che sin
dall’inizio Lévi-Strauss assume come campo problematico la comunicazione e che
per lui, oltre al linguaggio, anche la cultura è comunicazione; la proibizione
dell’incesto e l’esogamia, essendo fondati sul principio di reciprocità, sono fondati su
una disposizione allo scambio, che è per definizione comunicazione tra i gruppi.

Revisione di totemismo, pensiero selvaggio e miti

Se il concetto di struttura spazza via la cesura tra pensiero logico/civilizzato e


pensiero prelogico/selvaggio, devono essere riviste anche le interpretazioni della
simbologia sacra presso i popoli “primitivi”. Infatti, in Il totemismo oggi (1962), Lévi-
Strauss fornisce un’interpretazione radicalmente nuova del fenomeno totemico,
diversa da quella che legge nell’associazione tra l’individuo o il gruppo e un simbolo
animale o vegetale una manifestazione del pensiero mistico e religioso primitivo. Per
Lévi-Strauss il totemismo esprime, molto più semplicemente, un sistema di
classificazione in quanto i simboli animali/vegetali offrono un vasto repertorio da cui
attingere per la formulazione di classificazioni, opposizioni e relazioni.

Questo sulla base del concetto che il pensiero “primitivo” non è diverso da quello
“civilizzato”; la sola differenza tra i due è che il primo si esercita su cose concrete
piuttosto che astratte. Con Lévi-Strauss cade anche l’idea di un ordine di
successione tra pensiero primitivo e civilizzato; si tratta invece di due opzioni
parallele per poter pensare il reale, basate sulle stesse operazioni logiche e quindi
entrambe analizzabili sulla base degli stessi principi formali.

Sistemi di trasformazione
47
Concepito come sistema di classificazione, il totemismo costituisce un codice che
funziona come tramite per la conversione di messaggi in e da altri codici (si tratta di
una proprietà di tutti i sistemi di classificazione). A questo proposito, Lévi-Strauss
parla di sistema di trasformazione. Un esempio da lui stesso fornito è il seguente:

Totemismo australiano e caste indù sono riconducibili agli stessi principi. Il


totemismo consiste nell’associazione di una pianta o di un animale ad un gruppo
sociale e distingue i gruppi avvalendosi delle diversità esistenti tra le specie naturali;
in questo caso, le differenze tra le specie (distinzioni naturali) sono assimilabili a
quelle tra i raggruppamenti sociali (distinzioni sociali). Il sistema castale, invece,
distingue gli esseri umani in base alla loro occupazione e quindi sulla base di un
fattore culturale: le differenze tra i gruppi occupazionali (distinzioni culturali) sono
assimilabili a differenze naturali.

Lévi-Strauss rileva che la semplice trasformazione che permette di riformulare il


fenomeno totemico (tradizionalmente collocato nel pensiero primitivo) nei termini del
sistema castale (tutt’altro che collocabile nel pensiero primitivo) dimostra
l’inconsistenza dell’ipotesi dell’esistenza del pensiero primitivo stesso e l’esistenza di
un modus operandi che va al di là di istituzioni autonome e tipiche di certe regioni del
mondo e di certe forme di civiltà.

L’analisi dei miti

Il concetto di trasformazione prende pienamente corpo nell’analisi dei miti. Lévi-


Strauss parte dall’analogia formale tra le unità costitutive dei miti (mitemi) e della
lingua (fonemi). Il mitema “sole” può ricoprire contenuti ideali ed assumere significati
diversi in relazione ai rapporti con altri mitemi presenti nel contesto di riferimento. I
miti si prestano così a una lettura formale: una volta isolati i mitemi, è possibile
stabilirne la variabilità nelle diverse versioni in cui il mito si presenta.

La tradizione antropologica precedente considerava il mito come tentativo confuso di


spiegazione della realtà naturale o come codificazione della realtà sociale. Lévi-
Strauss riconosce che il mito non assolve a una funzione pratica (a differenza del
totemismo o dei sistemi di parentela), che non è “in presa diretta” sulla realtà e che di
conseguenza il pensiero che lo elabora si sottrae a certi obblighi; tuttavia, riconosce
alla logica del pensiero mitico la stessa dignità del pensiero positivo. La differenza
nelle operazioni intellettive non è di ordine qualitativo, ma riguarda la natura degli
oggetti elaborati.

Tristi tropici

L’ispirazione scientifica di Lévi-Strauss si accompagna a quella affettivo-esistenziale,


che fa da sfondo a riflessioni più esplicitamente estetiche e morali. Tristi tropici è
l’opera in cui egli parla dei suoi viaggi attraverso i propri ricordi e riscopre le
motivazioni che hanno determinato il suo destino, densa di meditazioni sul senso e
sul destino della civiltà umana. L’ispirazione roussoiana, fortissima ed esplicita,
fornisce un’immagine delle società primitive prossima allo “stato di natura”, al
contrario della società occidentale.

48
Lévi-Strauss definisce “calde” le società occidentali in quanto soggette a
modificazioni sostenute da un’energia prodotta da disequilibri interni; si tratta di
società che proprio attraverso queste modificazioni rompono l’equilibrio che le lega al
mondo, perdendo la convivenza con altre specie e forme di vita sociale.
Contrariamente, le società “fredde” non presentano disequilibri interni e quindi non
producono energia capace di alterare l’ambiente umano e naturale che le circonda.

Questo libro non evoca solo il senso della perdita, ma è anche un atto di denuncia
verso il bianco che impone la propria presenza e volontà a un’umanità e una natura
“altre” senza rispettarle. I tropici diventano tristi per questo.

19 LA PARABOLA DEL FUNZIONALISMO BRITANNICO: CONFLITTI E


MUTAZIONI STRUTTURALI

L’abbandono dell’ortodossia struttural-funzionalista si origina dalla cosiddetta


“Scuola di Manchester”, che produce risultati importanti analizzando le società
africane interessate da spinte al cambiamento; in particolare quella Sudafricana
della metà del XX secolo, caratterizzata da condizioni di multietnicità e multirazzialità.

Max Gluckman: Conflitto, ordine e rituale

Max Gluckman è il fondatore della Scuola di Manchester. Nato in Sudafrica è lì che


riceve parte della sua formazione di antropologo; in Sudafrica e Rhodesia (Zambia)
conduce tutta la sua attività di ricerca sul campo.

L’allontanamento dal funzionalismo


Già dai suoi primi lavori, negli anni ’40, emerge un certo distacco dalle posizioni
dominanti del funzionalismo strutturale: per lui, l’equilibrio della struttura sociale
non sono il prodotto di un semplice adattamento reciproco degli elementi che la
compongono, ma il prodotto dell’aggiustamento di fenomeni contraddittori e
conflittuali. In pratica, i sistemi sociali sarebbero caratterizzati da una instabilità di
fondo che periodicamente raggiunge condizioni di equilibrio. Nelle popolazioni
dell’Africa australe ciò significa, ad esempio, ricostruire l’ordine in seguito a
competizioni politiche o ribellioni nei confronti di un sovrano. In questa fase,
Gluckman non affronta la problematica della trasformazione, ma resta legato a quella
della conservazione della struttura; da questo punto di vista non esce dalla
prospettiva struttural-funzionalista.

Come prima cosa, la dimensione del conflitto porta Gluckman a definire alcuni
concetti:

Competizione Definisce le contrapposizioni individuali;


Lotta Rappresenta i contrasti ricorrenti, che hanno implicazioni più
profonde rispetto alla competizione, ma che restano confinate
nell’area dello scontro individuale;
Conflitto Individua le opposizioni interne alla struttura capaci di produrre
alterazioni a livello delle posizioni sociali personali, ma che non

49
alterano il modello delle stesse (una volta risolto il conflitto, il
sistema torna in equilibrio);
Contraddizione Discrepanze tra principi e processi interni alla struttura sociale
che conducono a cambiamenti radicali del modello.

Le funzioni del rituale


Anche se Gluckman considera la contraddizione come motore del cambiamento,
resta comunque legato agli aspetti della conflittualità che conducono a stati di
equilibrio nel sistema. In questa prospettiva, il rituale diventa espressione del
conflitto e, al tempo stesso, contribuisce alla sua risoluzione e al ristabilimento
dell’equilibrio sociale fungendo da “atto liberatorio”, sia in conflitti individuali, sia in
conflitti tra gruppi. La lotta ritualizzata secondo regole prestabilite e comportamenti
stereotipati renderebbe esplicito il contrasto. In pratica, il rito funziona come
metafora del conflitto ed esplicita i principi dai quali deriva l’unità della società.

Verso un nuovo metodo di analisi


Mentre il metodo di analisi sostenuto sino ad allora dalla scuola funzionalista
considerava la norma e l’istituzione le chiavi per ricostruire l’assetto strutturale di
una certa società, la Scuola di Manchester, con Gluckman, considera lo sviluppo
delle relazioni sociali sotto la pressione conflittuale generata dalla presenza
contemporanea si principi e valori antagonistici, come ad esempio le trasformazioni
generazionali. Si tratta, ovviamente, di un approccio più dinamico che sposta
l’attenzione dalla norma all’azione, accentuando i processi piuttosto che le strutture;
quello che adottarono gli allievi di Gluckman fu appunto definito “metodo di analisi
dinamica dei casi”.

Victor Turner: Dramma sociale e simbolismo rituale

Altro studioso della Scuola di Manchester è Victor Turner, allievo di Gluckman,


anch’egli sul campo in Africa, dove studia i conflitti della società Ndembu, una
popolazione di agricoltori dell’allora Rhodesia (oggi Zambia). Turner definisce
dramma sociale i conflitti della società Ndembu, originati dalla contrapposizione di
due principi fondamentali: la discendenza matrilineare e la residenza virilocale.

Le donne, sposandosi, vanno a vivere (principio virilocale) presso il gruppo del


marito. Gli uomini, per rafforzare la propria posizione, devono trattenere i propri figli
con sé e fare in modo che i figli delle sorelle, che abitano con i loro padri tornino da
loro (principio matrilineare); gli obiettivi degli uomini sono evidentemente
contraddittori e generano un conflitto.

Inoltre, poiché l’aggressione fisica non è moralmente ammessa, altre conflittualità,


anche all’interno dello stesso matrilignaggio, vengono riespresse come accuse di
stregoneria, ma poiché la consanguineità mitiga il principio di competizione, i
consanguinei matrilineari alla fine fanno il possibile per evitare una tale accusa tra di
loro.

Turner evidenzia così come non siano le norme a produrre l’assetto reale della
società Ndembu, ma l’aggiustamento dialettico delle parti in conflitto. Il conflitto
diventa funzionale all’unità di gruppo.

50
I simboli e il rituale
L’analisi funzional-strutturale, staticamente focalizzata su norme e istituzioni, non può
svelare certi aspetti della struttura (dei rapporti) sociale, cosa che secondo Turner
può invece essere fatta attraverso lo studio dei rituali, che mediante l’uso di simboli,
evidenziano credenze, principi e valori sui quali si fonda la vita sociale. Egli si rifà ai
riti di passaggio studiati per la prima volta da Van Gennep.

Studiando l’interpretazione locale del significato dei simboli (livello esegetico) e le


relative connessioni, Turner mette in chiaro che la visione che i membri di una cultura
hanno della cultura stessa è diversa da quella dell’osservatore, a meno che
quest’ultimo non osservi l’uso di tali simboli dai membri della società (livello
operazionale). Inoltre, i simboli (unità elementari del rito per Turner) hanno un valore
polisemico, sono cioè in grado di significare cose diverse in relazione al contesto del
loro uso (livello posizionale). I simboli vengono “attivati” nel corso della celebrazione
dei riti e in particolare in quelli che Van Gennep chiama “riti di passaggio”, nei quali
gli individui cambiano status passando da una posizione strutturale all’altra e le
contraddizioni sociali possono essere espresse in forma simbolica (ribellione,
travestimento, ecc.).

Edmund Leach: Critica dell’equilibrio strutturale

Con Edmund Leach, la critica all’ortodossia funzionalista giunge a una fase delicata.
Allievo di Malinowsky, Leach è uno dei pochi etnologi non africanisti della grande
generazione britannica. La sua indagine si svolge tra il Sudest asiatico (Birmania) e
l’Asia meridionale (Ceylon, oggi Sri Lanka) e riguarda società “complesse”, ovvero
caratterizzate dalla presenza di specializzazioni produttive, scrittura, organismi
politici centralizzati, religioni come il cristianesimo, l’induismo, l’ebraismo, il
buddismo, l’islam. In realtà, fino agli anni ’30, pochi antropologi avevano intrapreso
l’analisi di realtà “complesse”. Anche il lavoro di Leach può essere messo in
relazione con quello di Gluckman in relazione all’abbandono dell’ipotesi dell’equilibrio
strutturale e all’importanza attribuita ai temi del conflitto.

Già nel suo esordio con i Kurdi dell’Iraq, Leach mette in discussione l’assunto
fondamentale del funzionalismo strutturale. La società che osserva, sotto l’influenza
di forze economiche e politiche esterne, più che soggetta a modificazioni strutturali,
si dimostra soggetta a veri e propri rivolgimenti; non era pensabile né come sistema
sociale stabilmente integrato, né come sistema periodicamente in conflitto, ma solo
come sistema basato su interessi conflittuali e attitudini divergenti. La critica di Leach
riguarda anche l’idea di società e culture come sistemi chiusi all’interno di confini
netti e il metodo comparativo tipico dell’antropologia britannica.

Tutti questi temi sono sviluppati in Sistemi politici birmani, un lavoro che prende in
considerazione le comunità Kachin, entità “aperte” caratterizzate da lingue e culture
diverse in rapporti di interazione e scambio continui. La complessità di questa realtà
ricorda molto da vicino quella dei Kurdi dell’Iraq: pressione di istituzioni politiche
centralizzate, stratificazione sociale, specializzazione produttiva (pastori nomadi,
agricoltori stanziali), tradizione scritturale, pluralismo linguistico. Evidentemente,
situazioni di questo genere dovevano essere analizzate secondo una prospettiva
diversa da quella prevalente nella tradizione britannica.

51
La struttura socio-politica dei Kachin rispecchia un sistema oscillatorio che
determina “collassi strutturali” periodici. Il sistema prevede due tipi di organizzazione,
una aristocratica (gumsa) e una egualitaria (gumlao), che emergono
alternativamente a intervalli di circa un secolo come prodotti di dinamiche interne
dovute a una specifica contraddizione legata a un complicato meccanismo di scambio
matrimoniale. Nella forma aristocratica, la comunità sviluppa caratteristiche che
innescano una rivolta che porta alla forma egualitaria, ma questa nuova forma manca
dei mezzi per tenere uniti i lignaggi che la compongono. In pratica, raggiunta la forma
aristocratica il sistema non si stabilizza, ma tende a fare ritorno alla forma egualitaria
e poi il ciclo riprende. Se da una parte i due sistemi possono essere considerati come
modelli distinti di una struttura sociale, dall’altra è anche vero che sono sempre
interrelati; quindi sono piuttosto gli “stati possibili” di un sistema.

In particolare, Leach critica la prospettiva normativa, poiché riconosce che gli


individui non si conformano alle norme in tutto. La norma, infatti, si presta ad essere
interpretata in base agli interessi contingenti ed è proprio questo ciò che determina il
processo di cambiamento fino ad arrivare ad un diverso assetto strutturale. La
proposta metodologica di Leach è così la seguente: l’antropologo costruisce un
modello della struttura per poi descrivere le discrepanze tra modello e realtà, così da
rendere conto delle deviazioni individuali dalla norma.

Le nozioni di rete e di organizzazione sociale

La critica allo struttural-funzionalismo porta nuove strategie di analisi e nuove


prospettive di ricerca: prospettiva dell’azione come scelta e non solo come riflesso
della norma, studio del cambiamento, analisi dinamica dei casi. L’analisi di rete è
una delle novità di questo scenario.

Se lo struttural-funzionalismo considerava la società come complesso integrato


composto da gruppi e istituzioni altamente stabili in cui gli individui agivano in base a
norme, le tematiche del mutamento emergenti a partire dagli anni ’50 aprono la
prospettiva secondo la quale gli individui, in base a valutazioni proprie, cercano di
adattare le norme alle proprie scelte. Ciò rende necessario un diverso approccio
analitico consistente nello studio delle reti, ossia delle relazioni che, in modo
informale, connettono gli individui indipendentemente dalla loro comune
appartenenza a gruppi istituzionali. L’analisi di rete si afferma soprattutto in realtà
complesse, come i contesti urbani e le società industrializzate, e nelle situazioni
in cui si producono contatti e interazioni tra contesti “tribali” e contesti “nazionali”.

Raymond Firth opera a questo punto la distinzione tra struttura sociale e


organizzazione sociale:

Struttura sociale Organizzazione sociale


Sistema delle relazioni Azioni e relazioni in riferimento a determinati fini sociali
normative tipiche di una certa (es. adattamenti frutto di scelte compiute dai membri della
società. Concetto statico. società) che producono appunto organizzazione.

Ancora una volta, il nuovo concetto tende a cogliere aspetti più dinamici.

52
Fredrik Barth: La ridefinizione del gruppo etnico

Allievo di Leach, Fredrik Barth è un antropologo di tradizione britannica pur essendo


norvegese. Un suo contributo molto importante riguarda la ridefinizione delle nozioni
di gruppo etnico e di confine etnico, nelle quali riprende il rifiuto di Leach di
considerare le comunità studiate dall’antropologia come entità chiuse.

Il tradizionale concetto di gruppo etnico si basa su fattori quali la lingua, la razza, la


collocazione geografica, la storia e la cultura; secondo Barth si tratta di criteri
arbitrari, essendo invece definibile solo in base ai criteri che gli stessi interessati
elaborano per sentirsi uniti tra loro e per stabilire una distinzione tra sé e gli altri (le
distinzioni etniche, infatti, sono particolarmente vive dove coesistono gruppi con
culture pressoché identiche e lingue mutuamente comprese). Quindi, non sono
importanti le diversità culturali, ma le dinamiche pratiche e simboliche che i gruppi
producono per stabilire i confini con gli altri; infatti, la separazione identitaria viene
ottenuta anche a partire da pochi elementi differenziali.

Il confine etnico può anche essere attraversato, ma è necessario per consentire


quella che Barth chiama la “produzione sociale della differenza culturale”. Lo
scambio tra gruppi etnici presuppone la preventiva elaborazione di criteri di
autoidentificazione, così da non annullare le reciproche identità. Ancora una volta,
emerge un nuovo modo di concepire le cose che presenta un carattere più dinamico.

20 L’ETNOSCIENZA NEGLI STATI UNITI

Il clima della “rinascita nomotetica” determina la nascita, negli Stati Uniti,


dell’etnoscienza o antropologia cognitiva, un dominio di studio sul modo in cui una
cultura organizza la conoscenza del mondo sul piano linguistico, percettivo e
categoriale. In precedenza, nessuno degli studiosi come Durkheim, Lévy-Bruhl,
Leenhardt, Griaule, Evans-Pritchard e Lévi-Strauss entrò nel merito dei meccanismi
cognitivi che regolano il modo in cui individui appartenenti a culture diverse si
pongono in rapporto con la realtà di cui hanno esperienza; solo Rivers, in occasione
della spedizione alle Stretto di Torres, aveva condotto attività di psicologia
sperimentale, ma nella Gran Bretagna degli anni ’20 il paradigma struttural-
funzionalista accantonò questa come molte altre prospettive di ricerca.

L’etnoscienza si occupa di come il sistema di pensiero di una comunità si plasma in


funzione del campo di esperienze e poiché il linguaggio è il mezzo privilegiato per
l’espressione dei concetti e delle relazioni tra i concetti, essa è fortemente connessa
alla linguistica. Per l’etnoscienza una cultura non è tanto un insieme di usi, costumi,
tecniche e istruzioni funzionali alle necessità della vita sociale, quanto un sistema di
pensiero formato da una rete di concetti che funge da “mappa di orientamento” per
il comportamento degli individui che ne fanno parte.

Boas e l’ipotesi Sapir-Whorf

Negli Stati Uniti il punto di partenza è ancora una volta Boas. Verso la metà degli
anni ’30, Edward Sapir e Benjamin Whorf considerano l’ipotesi che la struttura

53
grammaticale della lingua sia responsabile della visione del mondo tipica di una
cultura. Tale ipotesi trae ispirazione da Boas, il quale però attribuiva al pensiero
proprietà determinanti sulla lingua e non il contrario. Per Boas, la differenza tra il
pensiero dei “primitivi” e quello dei “civilizzati” dipendeva solo dal fatto che i primi non
avevano avuto la possibilità di fissare la propria riflessione astratta, ma le facoltà
mentali e le possibilità di ragionare in termini astratti erano comunque le stesse nei
due casi. Il semplice fatto che il ragionamento astratto non facesse parte del campo
dell’esperienza abituale dei “primitivi” presentava i comportamenti di questi ultimi
come pre-logici e irrazionali agli occhi degli occidentali.

Approcci alla conoscenza delle organizzazioni cognitive

L’etnoscienza ritiene che ogni popolo abbia un unico sistema per percepire e
organizzare i fenomeni di tipo materiale; oggetto del suo studio non sono questi
fenomeni, ma il modo in cui essi sono organizzati nella mente delle persone. Quindi,
una cultura non è un insieme di fenomeni materiali, ma l’organizzazione cognitiva
degli stessi.

Il primo contributo della linguistica antropologica sono i termini “etico” ed “emico”,


stanti ad indicare due diverse prospettive di analisi:

Prospettiva etica Prospettiva emica


Si basa sulle teorie e le categorie scientifiche Privilegia il punto di vista dell’osservato
dell’osservatore e mette in secondo piano o e determina un’analisi centrata sulle
addirittura ignora il punto di vista dell’osservato. categorie interne ad una certa cultura.

Ponendosi l’obiettivo di studiare la costituzione e il funzionamento del sistema


cognitivo di una data cultura, gli etnoscienziati privilegiano evidentemente l’approccio
emico; uno studio di tipo emico comporta necessariamente l’esplorazione degli
ambiti semantici della cultura osservata, cioè i contesti al cui interno gli enunciati
acquistano senso nella relazione complessiva con altri enunciati. L’efficacia
conoscitiva dell’antropologia si colloca nella corrispondenza tra quanto viene
elaborato dall’osservatore e il pensiero dell’osservato.

Critiche all’approccio emico


Marvin Harris sostiene che non è possibile giungere ad una conoscenza oggettiva
della realtà socio-culturale facendo riferimento alle idee espresse dagli attori sociali;
per lui è impossibile ricostruire il complesso delle regole che determinano le scelte
degli individui, poiché i nativi possiedono sempre una regola per infrangere ogni
regola e in tal modo il cerchio della spiegazione/comprensione innesca una
regressione infinita alla ricerca delle regole.

Per Harris solo le regole etiche, cioè quelle formulate dall’antropologo, hanno un
valore essendo logicamente conclusive e potendo per questo condurre alla
comprensione della cultura studiata.

In realtà, questa critica può essere a sua volta criticata considerando che le persone
sono in grado di prevedere il comportamento reciproco, anche se non del tutto e non
negli atti specifici; questo è sufficiente per smontare l’idea della regressione infinita,
che invece si arresta sempre ad un certo punto.
54
L’analisi componenziale

Nella prospettiva etnoscientifica, tra le tecniche impiegate per l’analisi dei campi
semantici vi è l’analisi componenziale, applicabile ad ambiti terminologici come
quelli che riguardano i sistemi di parentela, nei cui domini semantici i singoli termini
acquistano significati particolari in funzione delle relazioni di contrasto o di tipo
gerarchico con altri termini.

Da un punto di vista generale, ogni termine è associato a delle “componenti” che si


configurano come valori semantici del termine stesso. Queste componenti sono di
due tipi:

Criteri distintivi Stabiliscono relazioni contrastive tra i termini. Ad esempio, il


criterio distintivo della persona (prima, seconda, terza) rende la
relazione contrastiva tra i pronomi nominali italiani “io”, “tu”, “egli”,
“noi”, ecc;
Specificazioni Sono criteri distintivi che si innestano sulla relazione contrastiva
realizzando varianti specifiche. Ad esempio, sempre per i pronomi
nominali, esistono le specificazioni di genere (maschile/femminile)
e di numero (singolare/plurale).

Ad esempio, le componenti del pronome “egli” sono la terza


persona, il maschile e il singolare.

Passando al dominio semantico dei sistemi di parentela, se consideriamo termini


come “nonno”, “nonna”, “padre”, “madre”, “figlio”, “figlia”, “nipote maschio” e “nipote
femmina”, ci rendiamo conto che la relazione contrastiva coinvolge i criteri distintivi
della generazione e del sesso.

Ci rendiamo però conto che oltre a questa relazione contrastiva questi termini sono
anche legati tra loro da una relazione gerarchica: “padre” e “madre” sono genitori i
quali sono a loro volta parenti, così come “figlio” e “figlia” sono entrambi “figli” i quali
sono a loro volta parenti.

Il significato di ciascun termine dipende quindi dalle sue componenti e dalle


relazioni con gli altri termini del sistema semantico. Questo tipo di analisi
componenziale si dimostra estremamente utile nella comprensione di domini
semantici culturalmente distanti dal proprio.

Percezione e terminologia del colore

L’etnoscienza è un sapere relativistico in quanto fonda la propria scientificità nello


studio di domini semantici all’interno di culture specifiche. Non sono però mancati nel
suo ambito studi in prospettiva generalizzante per identificare regolarità condivise.
In questo senso è stata indagata la classificazione terminologica dei colori di
base. I termini di base nella terminologia del colore sono quelli che indicano
fenomeni della percezione cromatica che non hanno bisogno di altri referenti per

55
essere compresi. Ad esempio, in italiano, “rosso” è uno di questi, mentre “ruggine”
non lo è, necessitando di un riferimento concettuale al termine “rosso”.

Brent Berlin e Paul Kay in Basic color terms (1969) avanzano la teoria che,
indipendentemente dalla complessità della loro cultura, i gruppi umani possiedono
una gamma limitata di termini di base per denominare i colori: da un minimo di due
ad un massimo di undici. Perché questa variabilità nelle diverse culture? Secondo gli
autori, la terminologia di base si sviluppa in senso evolutivo. I sistemi che
possiedono due termini utilizzano “chiaro” e “scuro”; quelli che ne utilizzano tre
utilizzano “bianco”, “nero” e “rosso”, e così via fino ad arrivare al massimo a undici
termini.

Secondo l’ipotesi evolutiva di Berlin e Kay (che dà per scontata la regolarità


percettiva nei diversi gruppi umani), la diversa complessità dei sistemi terminologici è
riconducibile a differenti gradi di organizzazione sociale: più un gruppo è “semplice”
sul piano storico-culturale, più la terminologia cromatica è ristretta. Questa
spiegazione è però discutibile alla luce di alcuni riscontri evidenziati prima da Boas e
poi da Whorf:

- Le terminologie che hanno come referente i campi della percezione tattile e


visiva dipendono dall’importanza che i fenomeni ai quali esse si riferiscono
hanno nell’esperienza;
- Popolazioni come gli Eschimesi hanno un’organizzazione sociale meno
“complessa” di quella occidentale, ma anche 40 diversi modi di dire “neve”.

Altri ricercatori hanno invece posto in relazione la diversa ricchezza terminologica


con alcune variazioni dei gruppi legate alla diversità dell’ambiente di vita. Alcuni
gruppi insediati nelle regioni prossime all’Equatore risulterebbero portatori di una
pigmentazione scura della retina che limita la percezione di alcune tonalità
cromatiche. Altri ancora hanno tentato una conciliazione tra fattori fisiologici e
sociologici, in base alla quale un’ampia complessità sociale corrisponderebbe ad un
ampio lessico cromatico di base, ma solo a latitudini relativamente alte.

Un’ulteriore critica alla teoria di Berlin e Kay proviene dagli studiosi che propendono
per una visione “culturalista” del problema per cui il sistema percettivo di una
popolazione è profondamente influenzato da alcune determinanti culturali che
assegnano ai colori significati contestuali che quindi variano secondo le situazioni.
Non solo: le regolarità individuate da Berlin e Kay non tengono conto che i colori non
sono percepiti solo sul piano fisico, ma possono avere connotazioni che talvolta
precedono la loro definizione cromatica (colori “caldi”, “freddi”, “secchi”, “umidi”,
ecc.).

21 PROSPETTIVE “CRITICHE” NELL’ANTROPOLOGIA FRANCESE:


DINAMISTA, MARXISTA, PRIMITIVISTA

Nel periodo 1950-1970, nell’antropologia francese si affermano nuove prospettive


“critiche” che mettono in discussione alcuni orientamenti disciplinari. Da sapere
proteso alla conoscenza delle culture “altre”, nelle sue espressioni dinamista,

56
marxista e primitivista, l’antropologia inizia a considerare la conoscenza di un mondo
in cui tutte le culture, compresa quella dell’antropologo, sono coinvolte in un
processo globale.

L’ANTROPOLOGIA DINAMISTA

L’impatto coloniale, le migrazioni, l’estensione dei mercati, la nascita dei culti


sincretici e la rapida trasformazione delle società tradizionali africane pongono nuove
questioni in campo etno-antropologico. Ciò che veniva studiato non poteva più
essere considerato al di fuori della storia, come nel caso dei sistemi di pensiero di
Griaule o le strutture di Lévi-Strauss. Nasce così un’antropologia dinamista, che
legge le società cogliendo le dimensioni della storia, del movimento, della
contraddizione e della trasformazione sociale; qualcosa di simile a quanto
accadeva negli stessi anni in terra britannica con il declino del funzionalismo.

Georges Balandier: La “situazione coloniale”

Balandier parla di “situazione coloniale” riferendosi al rapporto tra società


tradizionali e società occidentale, al dominio imposto da una minoranza straniera
culturalmente diversa su di una maggioranza autoctona inferiore sul piano materiale
in nome di una superiorità culturale affermata in maniera dogmatica.

Egli precisa che tutte le società, anche quelle tradizionali, sono sottoposte a due tipi
di dinamica:

D. interna Capacità di autotrasformazione sulla spinta delle proprie contraddizioni,


conflitti e interessi;
D esterna Pressione di forze esterne, agenti soprattutto sulle società tradizionali
inglobate nella situazione coloniale, che spingono a rimodellare le
proprie istituzioni, strutture e credenze.

Roger Bastide: Sincretismo

Ancora prima di Balandier, Roger Bastide mette in evidenza le dinamiche tipiche


delle società coinvolte in fenomeni di forte e prolungato contatto culturale. Anche
Bastide parla di una doppia causalità, “interna” ed “esterna”, ma per lui quella
esterna si allarga anche alla pressione che il passato di una società può esercitare
sul suo presente; la ricerca antropologica deve quindi estendersi in senso storico.

Bastide studia le situazioni di sradicamento culturale attraverso le comunità dei


discendenti degli schiavi africani importati in Brasile e le condizioni di nevrosi
culturale vissute dai membri di tali comunità. Queste nevrosi consistono in
atteggiamenti di attaccamento esasperato alla religione ancestrale, un modo per
affermare e conservare la propria identità e anche una risposta all’ostilità
circostante. Una tale radicalizzazione della tradizione chiude ulteriormente le
comunicazioni con l’esterno. In Le religioni africane in Brasile (1961), Bastide
studia i culti sincretici nati dall’incontro delle religioni originarie africane con quelle
amerindiane e cristiane. Poiché i gruppi di origine africana presenti in Brasile hanno
origine molto diverse, pur riaggregandosi nella condivisione di interessi e circostanze

57
concrete, manca loro una memoria comune, che viene “rifabbricata” mettendo
insieme i frammenti di memoria disponibili, colmando i vuoti con elementi di altre
tradizioni, connettendo questi ultimi a quelli già posseduti e attribuendo loro un nuovo
significato.

L’ANTROPOLOGIA DI ISPIRAZIONE MARXISTA

Lo scenario

Il comunismo sovietico, interessato a propagare una visione della storia come


processo evolutivo sfociante nell’instaurazione di una società socialista, riduceva le
società studiate dagli antropologi a rappresentanti di fasi arcaiche di questo sviluppo
storico. Per questo Marx, ma soprattutto Engels, avevano giudicato le teorie di
Morgan conformi alla loro visione circa l’evoluzione della società; in pratica, l’opera
di Morgan era la parte antropologica della visione marxista della storia.

Riprendendo i capisaldi dell’elaborazione teorica di Marx:

Mezzi di produzione Risorse e tecnologia disponibili ad una società in un


dato momento della sua storia;
Manodopera Energia umana impiegata nel processo produttivo;
Rapporto di produzione E’ la relazione sociale tra mezzi di produzione e
manodopera;
Modo di produzione E’ la forma storica dell’esistenza sociale (es.
feudalesimo, capitalismo) determinata dalla
combinazione dei tre precedenti fattori. In particolare,
se cambia la relazione sociale (rapporto di
produzione), cambia il modo di produzione.

Secondo la rilettura delle teorie di Marx fatta dai filosofi francesi negli anni ’60, il
modo di produzione dipende anche dal ruolo svolto dall’ideologia (valori,
rappresentazione del mondo, dell’autorità politica e religiosa, ecc.) a sostegno dei
rapporti sociali dominanti. Le domande che ne nascono sono diverse: Quali sono i
rapporti di produzione delle società tradizionali? Come si costituisce in queste
società il potere? Come si trasformano i rapporti di produzione nel contatto con altre
società e culture? Ma il pensiero marxista ortodosso non è in grado di fornire delle
risposte. Per questo parliamo di “marxismo critico”.

Claude Meillassoux: Dal modo di produzione legnatico a quello domestico

Claude Meillassoux, allievo di Balandier, ma economista di formazione, compie in


Costa d’Avorio una delle prime ricerche etnografiche nella prospettiva del marxismo
critico. Egli definisce il modo di produzione dominante presso i Gouro e le società
vicine “lignatico”; i rapporti di produzione sono infatti modellati sulla dipendenza dei
“giovani” dagli “anziani”11. Con l’arrivo del colonialismo, i Gouro passano da
un’economia di sussistenza ad un’economia di piantagione; tuttavia, nonostante

11
Le nozioni di “giovani” e “anziani” si riferiscono a “età sociali” e designano la posizione di un
individuo nella scala della successione generazionale (lignatica, appunto) e non una giovinezza o
un’anzianità assolute.
58
l’effetto del contatto con il modo di produzione capitalista, il modo di produzione
lignatico non scompare, ma continua a coesistere con quest’ultimo.

Meillassoux spiega questa coesistenza risalendo al modo di produzione


domestico, antecedente a quello lignatico, del quale costituisce anche la base:

Il modo di produzione domestico, corrispondente alla comunità domestica


caratteristica delle società agricole tradizionali non solo africane, si caratterizzava
per una produttività sufficiente al mantenimento della manodopera, per l’uso della
terra resa produttiva a scadenze differite (agricoltura), per l’impiego di energia
umana e per l’uso individuale di mezzi di produzione agricoli fabbricabili
individualmente.

La forma sociale del modo di produzione domestico, la comunità domestica, è l’entità


al centro dell’analisi di Meillassoux poiché, essendo il “luogo di riproduzione della
manodopera”, è stata incorporata anche nei modi di produzione successivi.

Infatti, nei casi come quello delle comunità agricole africane, dove terra e strumenti di
lavoro sono accessibili a tutti, l’unico controllo sui mezzi di produzione riguarda le
sementi, fondamentali per iniziare i cicli produttivi agricoli e le donne, in quanto
“produttrici di produttori”. Per questo motivo i “giovani” riceveranno una moglie che
li metterà in grado di avere una prole del cui lavoro potranno un giorno beneficiare
solo dopo essere stati al servizio degli “anziani” per un periodo più o meno lungo.

Le comunità domestiche, proprio perché fulcro produttivo e riproduttivo di tutte


le comunità agricole subsahariane, vengono quindi inglobate anche dai modi di
produzione diversi da quello domestico. Il sistema lignatico, vigente in epoca
precoloniale, si instaura quando gli “anziani” diventano una categoria in grado di
sfruttare i “giovani”, ad esempio affittandoli ad altri anziani, ma andando anche ben
oltre in altre circostanze, come all’epoca degli schiavi quando gli anziani potevano
arrivare a vendere i giovani ai trafficanti. La comunità domestica viene distrutta dal
capitalismo che, pur essendo interessato alla sua conservazione proprio come luogo
della riproduzione della forza-lavoro, ne mina le basi attraverso lo sfruttamento
“scriteriato” dei singoli individui anziché dell’intera comunità, dissolvendo in tal modo i
rapporti tradizionali all’interno di essa.

Maurice Godelier: Infrastruttura e sovrastruttura

Uno dei temi “forti” dell’antropologia marxista riguarda il ruolo preminente della
parentela delle società tradizionali e il modo in cui tale preminenza poteva essere
conciliata con l’idea, propriamente marxista, di una storia determinata invece dalle
condizioni materiali di esistenza. Maurice Godelier affronta la questione attraverso
un riesame del rapporto infrastruttura-sovrastruttura.

In ambito marxista, l’infrastruttura (condizioni materiali e sociali di esistenza, quindi


anche i rapporti di produzione) è una determinante della sovrastruttura (sfera
ideologica e delle rappresentazioni).

Secondo Godelier, nelle società primitive i rapporti di parentela funzionano come


rapporti di produzione, rapporti politici, schemi ideologici; le relazioni di parentela
59
sono dati di fatto, ma regolano anche i rapporti della sfera politica e religiosa. In
pratica, sono nel contempo infrastruttura e sovrastruttura. E’ una prospettiva
diversa da quella di Meillassoux, per il quale nelle società caratterizzate dal modo di
produzione domestico i rapporti di parentela sono “semplicemente” il dato primario.

Quindi Godelier pone il rapporto tra esistenza materiale (infrastruttura) e ideologia


(sovrastruttura) in termini nuovi. Ad esempio, considerando la religione, tipica
manifestazione sovrastrutturale, Godelier sostiene che sarebbe errato credere che le
sue rappresentazioni non abbiano alcun ruolo nella costruzione dei rapporti di
produzione (collocati nella sfera infrastrutturale) e cita l’esempio dell’impero Inka
precolombiano:

Poiché gran parte delle eccedenze agricole e artigianali veniva incamerato dai templi,
la religione costituiva la principale struttura dei rapporti di produzione, rivestendo a
giudizio di Godelier un carattere infrastrutturale.

La prospettiva aperta da Godelier è utile per comprendere alcune trasformazioni


del mondo attuale. Essa conferisce alla sfera delle rappresentazioni simboliche
piena autonomia rispetto all’apparato infrastrutturale e alle basi materiali
dell’esistenza. Tipicamente, l’apparato rappresentazionale di una società cambia
soprattutto in funzione dell’apparato rappresentazionale preesistente e non in virtù di
una causalità lineare riferita a mutate condizioni materiali.

Concludendo sull’antropologia marxista

L’antropologia di ispirazione marxista ha dato contributi notevoli allo studio delle


comunità coinvolte nell’orbita del mercato globale. Molti studi antropologici ed
economici condotti in precedenza sulle comunità contadine non avevano analizzato
come queste formazioni sociali potessero entrare in contatto con il modo di
produzione capitalistico. Questo vuoto tra “centro” e “periferia” è stato, almeno in
buona parte, colmato dall’antropologia marxista.

Nel corso degli anni ’80 essa ha però conosciuto un forte declino, dovuto in parte al
declino generale del marxismo come ideologia e in parte al crollo dei sistemi politici
che al marxismo si erano ispirati, anche se l’antropologia marxista è stata tutt’altro
che benevola con questi regimi. L’interpretazione data dall’antropologia marxista
(come anche quella derivante dall’antropologia dinamista, alla quale è strettamente
collegata) alle dinamiche sociali e culturali del mondo attuale è ancora presente in
molti studi teorici ed etnografici relativi al modo in cui le economie delle “periferie” del
mondo si intersecano con quella dominante. Se Marx aveva concentrato la propria
analisi sull’Occidente, l’antropologia marxista è andata al di là di questo confine,
rifiutando però l’applicazione dogmatica delle interpretazioni costruite su questa
specifica realtà.

LA TENDENZA “PRIMITIVISTA”

Nella Francia degli anni ’60 si manifesta una rinascita dell’ideologia primitivista,
manifestazione di un più ampio movimento intellettuale, particolarmente diffuso tra gli
antropologi, teso alla denuncia dello sterminio degli indiani sudamericani per lo
sfruttamento della foresta amazzonica.
60
L’etnocidio, ovvero la distruzione di una cultura più debole da parte di un’altra più
forte e aggressiva diventa centrale nel discorso etnografico, che parte da un
atteggiamento di denuncia e sviluppa il rilancio del mito (questa volta in chiave
antropologica, non filosofica) settecentesco del “buon selvaggio”. Questi temi
riprendono elementi tipici della riflessione che Lévi-Strauss aveva espresso in Tristi
tropici parlando di società “fredde” (più vicine allo stato di natura) e società “calde”
(allontanatesi dallo stato di natura).

Pierre Clastres: La società contro lo stato

Sono proprio gli eredi diretti di Lévi-Strauss a rendere centrali i temi del “primitivo”,
delle “società fredde” e della “perdita” all’interno di un più vasto discorso
sull’etnocidio e sulla logica distruttiva della civiltà occidentale, contrapposta a quella
mite e armonica delle culture “lontane”. Pierre Clastres in La società contro lo
stato (1974) sviluppa il tema del primitivismo concentrandosi sull’analisi della natura
del potere nelle società amazzoniche.

Presso queste ultime, il capo viene designato sulla base dei meriti che acquisisce
comportandosi generosamente (donando i suoi beni) e saggiamente (parlando con
senno) nei confronti del gruppo. In cambio ottiene il privilegio della poliginia, ma
niente di più; il suoi potere non può esercitarsi in forme coercitive. Beni e parole a
vantaggio esclusivo del gruppo; donne a vantaggio esclusivo del capo. Il gruppo nega
al capo di oltrepassare la semplice funzione di moderatore e consigliere.

In tali società, il potere coercitivo è di fatto escluso dalla cultura e trova


espressione solo nella natura. Clastres nega che società di questo tipo siano prive
della dimensione politica; in queste società, il “politico” si esprime proprio
nell’assenza di uno stato, il che non è un difetto ma un pregio, in quanto condizione
di libertà e di non-alienazione economica. Mancando un potere, non esiste
sfruttamento economico; i primitivi lavorano quanto basta per soddisfare i loro
bisogni primari e possono dedicare il resto del tempo ad attività diverse da quelle
produttive.

Questa particolare immagine delle società primitive porta ad una profonda frattura tra
i primitivisti e i marxisti. Clastres, infatti, si chiede per quale motivo inserire la società
primitiva in un discorso come quello marxista che intende ricostruire il funzionamento
delle società analizzando i processi generatori di disuguaglianza sociale.

22 ANTROPOLOGIA INTERPRETATIVA E ANTROPOLOGIA DELLA


CONTEMPORANEITÀ

A partire dagli anni ’70, l’antropologia conosce la “crisi della rappresentazione


etnografica” interrogandosi sul modo in cui aveva sino ad allora “parlato degli altri”
senza troppe preoccupazioni circa la legittimità della loro rappresentazione
all’interno di un contesto etnografico. In quegli anni i temi del conflitto, del
mutamento, dello sradicamento e dello sfruttamento avevano erano ormai avviati a
sostituire le dimensioni dell’equilibrio, della funzionalità e della coerenza culturale e il
mondo delle culture non poteva più essere rappresentato come in passato.
61
L’antropologia interpretativa

Affermatasi in America dalla fine degli anni ’60, l’antropologia interpretativa nasce
nel 1973 con la pubblicazione di Interpretazione delle culture di Clifford Geertz. In
realtà, l’antropologia interpretativa fa parte della più ampia corrente
dell’antropologia simbolica, che considera la cultura come sistema di simboli e
significati in grado di determinare l’azione sociale. Se assumiamo la tendenza
generalizzante e quella particolarizzante come i poli dialettici dello sviluppo
disciplinare, la prospettiva interpretativa è sicuramente meglio rappresentata dalla
seconda. L’antropologia interpretativa sviluppa la propria riflessione su tre grandi
temi:

- La considerazione del “punto di vista del nativo” (visione dall’interno);


- La discussione di processi comunicativi sul campo tra etnografo e
informatore (incontro tra culture e traduzione di una cultura ad un’altra);
- Il modo in cui l’esperienza di tale incontro può essere trascritta in un testo
etnografico (trasmissibilità della traduzione ad un pubblico).

La prospettiva interpretativa riconosce quindi che la cultura e la vita sociale sono una
negoziazione di significati che avviene in un incontro che si costituisce in pratiche
realmente agite e rappresentate, comportamenti che sono sempre parte di
costellazioni di significato più ampie. Si tratta di pratiche di natura intersoggettiva e
non riducibili a stati psichici individuali o alle credenze personali. Osservatore e
osservato sono calati nella stessa situazione, l’incontro etnografico, e non esiste una
posizione privilegiata per descrivere che cosa succede. Il distacco, tipico di altri
campi di studio, tra colui che osserva e l’oggetto dell’osservazione non esiste; esiste
invece una circolarità ermeneutica tra due soggetti, entrambi produttori di
significati.

Poiché, oltre che simbolici, gli esseri umani sono anche “interpretanti”, devono
essere scartate anche le prospettive che pretendono di fondare il sapere
antropologico sulla semplice osservazione, come quelle che si illudono di poter
utilizzare un linguaggio “neutro” per descrivere i dati. Il dato primario è il “contesto
significante”, dato dall’interazione interindividuale, dialogica e negoziale tra
antropologo e informatore.

Clifford Geertz: Cultura come testo, descrizione densa e punto di vista del
nativo

La cultura come “testo”


La metafora fondante dell’antropologia interpretativa è quella della “cultura come
testo”. E’ il punto nodale del lavoro di Clifford Geertz, caposcuola di questa
prospettiva, oltre che una delle figura di maggiore rilievo dell’antropologia
contemporanea. Lo stesso Geertz fatica a dare una definizione del principio teorico
dell’approccio interpretativo, dicendo che esso tende a sfuggire ad un’articolazione
concettuale, poiché ogni interpretazione resta imprigionata nella sua stessa
immediatezza ed è convalidata dalla sensibilità della persona che la presenta, per cui
ogni tentativo di esprimere ciò che quest’ultima dice in termini non suoi è comunque

62
considerato un travisamento. Sembra quasi che Geertz identifichi l’antropologia
interpretativa con una forma di soggettivismo; in realtà non è così, poiché esplicita
anche che le interpretazioni soggettive non vanno bene per un campo di studi che
afferma di essere scientifico.

Raggiungere quello che Geertz chiama “il mondo concettuale” dei soggetti “altri”
significa esplorare tutti i significati la cui trama costituisce il testo della loro cultura;
tanto più che il significato non è un fato privato, ma intersoggettivo e questa è una
caratteristica che Geertz attribuisce alla cultura nella sua globalità. La cultura è
costituita da azioni simboliche e, quindi, da una rete di significati, proprio come un
testo o un insieme di testi che l’antropologo tenta di leggere.

La descrizione densa
Per una tale lettura, però, la semplice acquisizione del dato fenomenico (un
comportamento, un’affermazione) non è sufficiente. La cultura, come testo, ha una
sua coerenza e significazioni specifiche fatte di rimandi interni e riferimenti al
contesto. Il concetto di “descrizione densa” dovrebbe proprio spiegare che cosa
deve fare l’antropologo quando cerca di comprendere una cultura aliena. Un
semplice gesto può essere interpretato in modi diversi secondo il contesto, come
contrarre le palpebre volutamente quando esiste un codice pubblico in cui un tale
gesto ha uno specifico significato di intesa e non rappresenta un tic.

L’oggetto dell’etnografia è quindi la gerarchia stratificata si strutture significative nei


cui termini vengono prodotti, percepiti e interpretati comportamenti come tic,
ammiccamenti, falsi ammiccamenti e senza la quale queste cose non esisterebbero.

Per Geertz l’etnografia è antropologia e viceversa, in quanto nel momento stesso in


cui l’antropologo de-stratifica, interpretandole, le strutture significative, egli fa
antropologia. Egli accentua l’importanza della descrizione etnografica in un parallelo
con l’opera letteraria: “così come la critica della narrativa e della poesia si sviluppa
meglio da un coinvolgimento immaginativo con la narrativa e la poesia stesse, e non
da nozioni importate dall’esterno circa ciò che esse dovrebbero essere, allo stesso
modo la critica della scrittura antropologica (che non è né narrativa, né poesia, ma
entrambe in senso lato) dovrebbe svilupparsi da un simile coinvolgimento con il testo
antropologico e non da concezioni esterne relative a che cosa dovrebbe assomigliare
per poter essere qualificato come scientifico”.

Un esempio di comparazione interpretativa

Dal punto di vista dei nativi è l’opera in cui Geertz sviluppa un esame comparativo
di tre modi di costituzione dell’idea di “persona” in tre contesti culturali diversi: Giava,
Bali e il Marocco. Geertz non intende però conferire alcun contenuto predefinito
all’idea di persona, ad esempio, preassegnando caratteristiche motivazionali,
emotive o cognitive di derivazione occidentale; egli intende invece considerare
l’esperienza del quadro concettuale che i Giavanesi, i Balinesi e i Marocchini hanno
del Sé.

Lo spunto per questo lavoro Geertz lo ricava dalle reazioni alla pubblicazione
postuma dei diari di Malinowsky, in cui questo studioso esprimeva il forte disagio che

63
provava di fronte alle culture estranee, che spesso non gli erano comprensibili.
Geertz riconosce in ciò un problema epistemologico: come possiamo conoscere
un’altra cultura se non è possibile capire l’altro per empatia?

La ricerca di una soluzione porta Geertz alla conclusione che la conoscenza


antropologica oscilla tra due poli, quello dei concetti “vicini” e quello dei concetti
“lontani” dall’esperienza dei nativi e passa attraverso la “traduzione controllata” dei
primi nei secondi. Infatti, se utilizzasse solo i concetti vicini all’esperienza dei nativi,
l’antropologo rischierebbe di essere travolto dall’esperienza stessa dell’incontro:
sarebbe talmente dentro la cultura da non avere il distacco necessario per poterla
analizzare e quindi trasmetterla nei suoi significati (“un’etnografia sulla stregoneria
scritta da una strega”). Viceversa, se adottasse solo i concetti lontani, rischierebbe di
allontanarsi dalla vita di coloro che studia al punto da perdere di vista le sue
specificità (“un’etnografia sulla stregoneria scritta da un geometra”). La vera
questione è il ruolo che giocano i due tipi di concetti nell’analisi antropologica; la
ripresa dei concetti “vicini” (legati tra loro) e il loro continuo confronto con quelli
“lontani” che l’antropologo usa per comunicare con il sui pubblico appaiono a Geertz
come le operazioni necessarie per tentare la comprensione dal punto di vista dei
nativi.

Tornando a Dal punto di vista dei nativi


Geertz cerca quindi di dare una caratterizzazione dell’idea del Sé considerando la
costituzione dell’idea di persona in tre contesti culturali piuttosto diversi. Questo ci fa
capire come egli non rifiuti la dimensione comparativa quando questa è funzionale al
raggiungimento di una conoscenza del modo in cui una realtà universale, come
appunto l’idea del Sé, si articoli all’interno di culture diverse. Rifiuta però la
comparazione quando sottende una prospettiva generalizzante di riferimento che
astrae dal punto di vista del nativo e si muove solo a livello dei concetti “lontani”. Allo
stesso modo, rifiuta l’estremismo “emico” per i motivi detti sopra.

Dopo Geertz
Dalla metà degli anni ’70 ad oggi, sulla scia di Geertz si è sviluppata una corrente di
studi che ha accentuato l’approccio ermeneutico e dialogico nel rapporto tra
antropologo e informatore. Privilegiare questa esperienza sposta, in molti casi,
l’attenzione sul rapporto a scapito di uno sguardo più attento alle condizioni
concrete di vita di una popolazione, al comportamento, al cambiamento sociale e ad
altri fenomeni.

La corrente interpretativa non è indenne da critiche e non sempre è convincente sul


piano del contenuto del sapere che pretende di trasmettere. Bisogna però
riconoscere che sulla scia di Geertz ha preso avvio un esame critico dei processi che
la produzione etnografica ha prodotto in passato.

L’antropologia della contemporaneità

Gli informatori e le loro culture sono in genere stati collocati anche in un tempo
“altro”. La maggiore attenzione al rapporto tra antropologo e informatore e ai
processi dialogici alla base delle raccolta delle informazioni etnografiche tende

64
invece a porre le due figure su di un piano di contemporaneità, restituendo all’”altro”
una parola precedentemente negata.

L’idea di contemporaneità non evoca solamente il tempo presente, ma anche il


carattere simultaneo con cui i fatti e le idee si ripercuotono su altri contesti e altre
culture; la contemporaneità è anche frutto della globalizzazione per cui culture e
società oggi non sono più analizzabili a prescindere da un contesto ampio, spesso
planetario, che le connette con altre culture e società.

L’antropologia della contemporaneità non è però un’antropologia dell’”hic et nunc”: le


culture sono sempre il prodotto di storie e stratificazioni. Fare antropologia della
contemporaneità vorrebbe dire studiare le culture oggi non solo nei rapporti con le
culture coeve, ma anche attraverso la loro storia e la storia delle loro relazioni con
altre culture.

La dimensione della contemporaneità oggi viene interpretata da molti antropologi.


Appadurai parla di etnografia cosmopolita come prospettiva di ricerca capace di
cogliere a livello locale le connessioni con un mondo sempre più globale. Kuper
parla invece di antropologia cosmopolita, puntando sul dialogo tra modelli
esplicativi della realtà appartenenti a culture differenti. Infine, Marc Augé parla di
antropologia dei mondi contemporanei riferendosi alla globalizzazione che
interseca l’Occidente con i popoli coloniali africani.

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