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1 NASCITA DELL’ANTROPOLOGIA
La Società chiude presto, già nel 1805, per le mutate condizioni politiche. Si perdeva
la traccia filosofica dell’Illuminismo e si enfatizzava la dimensione tecnicista,
funzionale alle esigenze dello stato. La scienza sociale viene allontanata dal potere.
Ma nel frattempo, gli studi storici sulla Bibbia e quelli di Darwin (L’Origine delle
specie è del 1859) iniziavano a fornire prospettive diverse e così creazionismo ed
evoluzionismo iniziano a dare interpretazioni molto diverse della storia naturale e di
quella umana.
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culturale di natura cumulativa. L’idea dello sviluppo delle società attraverso stadi
culturali ordinabili è ormai affermata: leggi sempre identiche agiscono nella storia
della società umana e producono effetti cumulativi che consentono l’ascesa.
Conseguentemente:
L’antropologia viene vista, coerentemente con la società che l’aveva prodotta, come
scienza “ottimista” e in grado di fornire contributi utili ad un’umanità bisognosa di
riforme sul piano sociale, politico e culturale. Tylor, uno dei suoi fondatori, chiama
l’antropologia “scienza del riformatore”.
Il concetto di cultura
Cultura primitiva (1871), l’opera più celebre di Tylor, definisce la cultura come
“insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il
diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto
membro della società”. Secondo Tylor:
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Tylor trasferisce il concetto di cultura dall’individuale al collettivo. L’intera cultura
umana è un patrimonio ottenuto cumulativamente e ulteriormente incrementabile.
Questo concetto si presta bene al progetto evoluzionista.
Potendo quindi rappresentare la storia del genere umano attraverso una linea
ascendente che andava dalle forme di organizzazione sociale più semplici a quelle
più complesse Tylor, come del resto tutti i suoi contemporanei, pensava che
esistessero popoli “inferiori” e “superiori” e che la più alta organizzazione
dell’individuo e della società fosse funzionale al benessere e alla felicità dell’uomo.
Inoltre, i selvaggi contemporanei rappresentavano gli stadi culturali precedenti
nell’evoluzione.
La religione
Tra i primi interessi degli evoluzionisti: la denominazione dei legami di parentela,
l’evoluzione del diritto e, soprattutto, la religione.
Tylor si occupa di animismo, ovvero della credenza negli esseri spirituali; in
particolare di quella tipicamente riscontrabile nei popoli primitivi secondo la quale
ogni cosa, compresi gli oggetti inerti, ha un’anima. Secondo Tylor questa idea deriva
dall’esperienza del sogno, dove si verificano apparizioni e sdoppiamenti, e dalla
conseguente deduzione dell’esistenza di un “doppio”, l’anima appunto, che si può
distaccare dai corpi e dagli oggetti. Da qui la nozione ancora più astratta di spirito
come entità immateriale del tutto autonoma. Per Tylor l’animismo è la base costante
della filosofia della religione, ma con l’evoluzione e l’emergere del pensiero razionale
la credenza iniziale di un’anima in ogni essere vivente e oggetto inerte finisce per
ridursi al solo significato di anima umana attribuito dall’uomo civilizzato. Del resto, la
comparsa del pensiero razionale si accompagnava alla progressiva riduzione della
gamma di fenomeni investiti dal pensiero magico e religioso.
Le sopravvivenze
Altro concetto-chiave dell’antropologia evoluzionista. Cambiamenti generali nelle
condizioni di vita di un popolo conservano molte cose che hanno avuto origine
anteriormente. Le sopravvivenze (credenze, idee, pratiche) testimoniano l’esistenza
di un’evoluzione culturale, poiché non sono giustificabili dalle caratteristiche attuali di
una cultura; il loro significato autentico è rintracciabile solo negli stati culturali
antecedenti. Secondo Tylor le sopravvivenze costituiscono una vera e propria
miniera di conoscenza per l’indagine storica.
Il metodo comparativo
Rappresentando stadi di un’evoluzione che vedeva al culmine la cultura occidentale,
le culture e le società che l’Occidente andava incontrando costituivano, secondo
l’approccio evoluzionista, vere realtà di studio, non curiosità o degenerazioni. Proprio
per questo l’antropologia assunse un carattere comparativo: la comparazione tra
culture divenne condizione essenziale per trarre conclusioni e generalizzazioni.
L’approccio comparativo degli evoluzionisti è stato in parte criticato per la tendenza a
decontestualizzare i dati etnografici e a piegarli ad un progetto conoscitivo teso a
tracciare linee di sviluppo.
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William Robertson Smith – I riti comunitari e l’efficacia sociale della religione
A differenza di molti suoi colleghi, Smith effettua ricognizioni sul campo visitando
Egitto e Palestina.
Smith matura l’idea di un’origine sociale della religione 1. Il dato primario di ogni
esperienza religiosa sono i riti e i simboli ad essa correlati, condivisi dai membri
della società che li trovano già presenti dalla nascita. Smith antepone la dimensione
religiosa collettiva a quella individuale e questo trova riscontro nella collettività dei riti.
Conformarsi e partecipare ai rituali pubblici celebrati periodicamente era indicativo
per Smith dello stato dei rapporti tra gli individui e la comunità. Ecco la natura sociale
della religione e la sua funzione di elemento coesivo della società, contrapposta
all’idea di un bisogno spirituale dell’individuo.
Il sacrificio
Non era un dono offerto alla divinità per ingraziarsela, ma un rituale di comunione tra
la società e la divinità, che rappresentava simbolicamente l’unità della società stessa.
Collega il pensiero magico, quello religioso e quello scientifico che, per Frazer,
costituiscono altrettante tappe nello sviluppo intellettuale umano:
Egli sviluppa questa teoria sulla base di un’immensa mole di dati desunti dal
repertorio dell’etnografia e della letteratura classica.
Negli Stati Uniti, l’antropologia si sviluppa nella prima metà dell’800 ad opera di
alcuni ricercatori dilettanti interessati ai costumi dei nativi americani; a Lewis
Morgan va riconosciuto il merito di avere saputo costruire una visione teorica più
ampia.
Lo scenario ideologico
Agli inizi delle attività di Morgan convivevano due concezioni opposte dell’Indiano:
rispetto alle questioni interne, l’Indiano era il nemico che impediva l’espansione
dell’uomo bianco, mentre nella presentazione della giovane nazione americana
all’Europa l’Indiano incarnava virtù e valori di libertà e semplicità.
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In un certo senso questo è strano, dal momento che Smith aderisce all’antropologia evoluzionista, la
quale individua le fasi originarie della religione in uno stato primitivo sostanzialmente povero di
costrutti e dinamiche sociali.
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Il problema indiano poneva anche questioni giuridiche: gli Indiani costituivano una
nazione?
La lega degli Irochesi esce nel 1851. Fornisce una descrizione socio-politica delle
sei “nazioni” della federazione irochese ed è successiva al lavoro svolto da Morgan
come avvocato difensore dei Sèneca (una delle sei “nazioni”), che rischiavano di
perdere le loro terre a causa di un gruppo di speculatori bianchi. In realtà, Morgan
aveva coltivato contatti e amicizie con i Séneca e compiuto anche brevi soggiorni
nella loro riserva, entrando in contatto diretto con il loro universo sociale.
Quest’opera raccoglie osservazioni sui sistemi di parentela indiani. Zii e zie erano
chiamati padre e madre; coerentemente i cugini erano chiamati fratello e sorella.
Morgan si rese conto di come questo sistema avesse avuto una funzione nell’unità
politica tra le sei “nazioni”. Ogni nazione era divisa in “tribù” designate da nomi di
animali; tribù con lo stesso nome si trovavano in più nazioni e i loro membri si
consideravano discendenti di un antenato comune e perciò fratelli tra loro. Si
determinava così una fitta rete di rapporti di parentele trasversali rispetto alle nazioni
e l’effetto di questa organizzazione si rifletteva nell’integrazione politica tra le stesse
e in un sistema di valori comuni, democratico ed egualitario.
Morgan era un peroratore della causa indiana e sottolineando il valore di questo
ordinamento intendeva anche valorizzare il popolo indiano e dimostrare il rispetto
che esso meritava.
I sistemi di parentela
In base a questa visione, Morgan sostiene l’origine asiatica degli Indiani d’America,
avendo riscontrato in Asia sistemi di parentela simili a quelli osservati tra gli Indiani.
Questo interesse lo porta ad allargare l’indagine: compie ulteriori ricerche in America
e raccoglie dati in tutto il mondo attraverso un questionario distribuito dalla
Smithsonian Institution. I risultati lo portano a distinguere due grandi gruppi di sistemi
di parentela:
Morgan collega la sequenza di sviluppo dei sistemi di parentela con i tipi di unione
matrimoniale dai quali discende l’istituzione familiare. Ad esempio, se il fratello del
padre era chiamato anch’egli padre, era perché vi fu un periodo in cui la distinzione
era effettivamente impossibile, essendo le donne possedute da un gruppo di fratelli
(poliandria adelfica).
Il passaggio dai sistemi classificatori a quelli descrittivi è per Morgan legato alla
comparsa del diritto di proprietà sulla terra e quindi alla formazione concomitante di
un’adeguata società politica. Il diritto di proprietà poneva anche la delicata
questione dell’eredità ai discendenti in linea diretta.
Selvaggio Pesca, uso del fuoco (periodo intermedio), arco e caccia (periodo
superiore);
Barbaro Altre tecniche di sussistenza e invenzioni;
Civilizzato Invenzione di un alfabeto fonetico.
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PARTE SECONDA – FINE OTTOCENTO - PRIMA GUERRA MONDIALE
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Concludendo su Boas
- La differenza di generazione
- La differenza di parentela diretta o collaterale
- Il sesso del parente
- La differenza tra parenti consanguinei e acquisiti per matrimonio
ed altri non presenti nei nostri sistemi, come il sesso di colui che parla, la differenza
di età nell’ambito della stessa generazione e altri ancora.
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Ad esempio, in inglese il termine “cousin” identifica cugini maschi e femmine, sia da parte di madre,
sia da parte di padre e senza considerare l’effettivo grado di prossimità; in tal modo il principio
classificatorio non risulta esclusivo dei sistemi primitivi.
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Alcuni sistemi considerano tutti gli 8 principi ed altri solo una parte. Siccome il
sistema inglese utilizza solo quelli del primo gruppo, Kroeber sostiene addirittura che
questo sistema sia più classificatorio, ad esempio, di quelli utilizzati dagli Indiani che
invece ne usano da 6 a 8.
Nonostante fosse stata la culla dell’interesse per la vita dei popoli extra-europei, la
Francia sviluppa la propria riflessione sulle società primitive solo alla fine del XIX
secolo e come derivazione della sociologia.
La sociologia francese è dominata dal pensiero di Comte, che teorizza tre stadi nel
cammino dell’umanità: teologico, metafisico e positivo. Mentre nei primi due il ruolo di
stabilizzatori del sistema sociale è svolto dalla “credenze comuni” (le opinioni
mediamente accettate pur non essendo il prodotto di elaborazioni razionali, ma il
frutto di intuizioni, tradizioni e supposizioni), nell’ultimo (che si identifica con la
società capitalistico-industriale dell’800) l’equilibrio e l’ordine sociale sono
conseguenza del sapere positivo.
L’ideale di un sapere capace di tanto subisce però un colpo devastante con la guerra
civile del 1870. Le mutate condizioni economiche e sociali avevano prodotto tensioni
politiche e generato fenomeni di massa che sembravano smossi proprio da quelle
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“credenze comuni” che, secondo Comte, avrebbero dovuto essere relegate negli
stadi antecedenti.
L’intensità con la quale la coscienza collettiva si manifesta nelle società dipende dal
tipo di solidarietà tra i membri:
La teoria generale della religione di Durkheim cerca di individuare gli elementi (le
forme elementari) che fanno parte di ogni sistema religioso. L’assunto alla base della
teoria è l’unicità del fenomeno religioso: ogni religione risponde alle stesse
necessità, assolve le stesse funzioni e dipende dalle stesse cause,
indipendentemente dal suo grado di complessità interno. Ciò rende le religioni
comparabili.
Totemismo degli aborigeni australiani, religione degli antichi o religione del nostro
tempo sono tutte accomunate dalla devozione che i singoli nutrono per la propria
società. Anche l’esercizio di un potere morale attraverso regole e leggi è funzionale
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al senso di rispetto degli individui per la società, i quali spesso obbediscono anche in
contrasto ai propri interessi personali, poiché il rispetto delle norme produce negli
individui sentimenti di appartenenza sociale.
I “fatti sociali”
Con Durkheim emerge una prospettiva del tutto nuova nell’etnologia europea:
fenomeni come la religione, ma anche le istituzioni giuridiche e le norme etiche, da
questo momento non possono più essere considerati come progressi intellettuali di
origine individuale, ma come entità sovraindividuali dotate di vita propria. Infatti, da
Durkheim in poi, si parla di “fatti sociali” come insiemi di rappresentazioni e
comportamenti identificabili proprio per il potere di esercitare costrizioni sugli
individui: ruoli, credenze, miti, norme, ecc. I fatti sociali sono ciò che attraverso i
meccanismi impersonali dell’obbligazione e della norma impongono agli individui
l’adesione alle regole del corpo sociale. Anche la religione è quindi un fatto sociale.
Lucien Lévy-Bruhl
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Negli ultimi anni della sua attività Lévy-Bruhl riconsidera la netta contrapposizione tra
le forme “pre-logico - mistico” del pensiero primitivo e “logico - razionale” del pensiero
occidentale che egli stesso aveva contribuito a generare, constatando come anche
nella società positiva e scientifica fosse comunque possibile ritrovare tracce di
atteggiamenti “partecipativi”, “mistici” e “pre-logici”.
Nel mettere in relazione le peculiarità dei contenuti delle liriche delle due aree con i
corrispondenti dialetti, Nigra riconduce le differenze alla divisione tra un mondo
italico e un mondo celtico, entrambi ricompresi sotto un substrato latino.
Gli studi etnologici nascono lentamente e non propriamente sul campo, ma come
filiazione della tradizione sugli studi storico-giuridici del mondo classico, soprattutto
romano. L’area privilegiata dell’indagine è quella africana, delineatasi già alla fine
dell’800 come possibile obiettivo di espansioni coloniali; tuttavia, queste ricerche non
si strutturano in un progetto scientifico come invece accade in altri paesi europei.
Nato come esploratore, Lamberto Loria dedica l’ultimo periodo delle sue attività
all’etnografia. Due le sue iniziative più importanti:
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- Nel 1910 fonda la “Società di etnografia italiana” e, l’anno successivo,
organizza il primo Congresso Nazionale con un programma fortemente aperto
alle correnti internazionali che prendono corpo in Francia e Bran Bretagna.
Lo slancio dato da queste iniziative si spegne ben presto a causa della morte di Loria
e del primo conflitto mondiale. Gli studi demologici prevalgono così definitivamente
su quelli etnologici, ulteriormente penalizzati nei decenni successivi dalla limitatezza
e dalla brevità dell’esperienza coloniale italiana e dal discredito che una parte
dell’antropologia italiana guadagna in epoca fascista prestandosi alla stesura del
“Manifesto della razza”, con il quale il regime dà inizio alle discriminazioni razziali.
7 L’ETNO-SOCIOLOGIA FRANCESE
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passaggio. Solo due anni dopo, Van Gennep parlerà di transizione da una
condizione sociale all’altra.
La credenza in una vita ultraterrena “in continuità” con quella terrena è comune a
tutte le società e tutte le religioni: avendo fede in se stessa, una società non può
ammettere che colui che è stato un suo individuo sia, con la morte, perduto per
sempre.
I riti di passaggio illustra come, presso tutti i gruppi umani, la vita delle persone sia
scandita da una serie di riti che ufficializzano pubblicamente il passaggio da una
condizione sociale ad un’altra. Essi hanno la funzione di facilitare e rendere più
agevole la transizione sia per la società, sia per l’individuo interessato. Retrocedendo
sulla scala della civiltà, si scopre che questi riti investono situazioni sempre più
numerose, molte delle quali appaiono oggi come profane e quindi non meritevoli di
alcuna ritualizzazione. Van Gennep distingue 3 fasi in ogni rito di passaggio:
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Un importante lavoro di Mauss riguarda la capacità di classificazione dell’universo
naturale, che egli non riconduce ad un’attitudine spontanea della mente umana che
agisce secondo principi di continuità o somiglianza. Il principio di classificazione è
invece la ripartizione degli esseri umani in gruppi sociali. In pratica, l’ordine
simbolico attribuito al mondo deriva da un’omologia con l’ordine della società: la
classificazione delle cose riproduce la classificazione delle persone, che costituisce
l’esperienza più immediata. Chiaramente, a modificazioni della società corrispondono
variazioni nel sistema di classificazione; a società strutturate secondo principi
organizzativi semplici corrispondono sistemi di classificazione altrettanto semplici e
viceversa.
Mauss assume una teoria indigena per la spiegazione del fenomeno: esistono 3
regole alla base del fenomeno del dono: dare, ricevere e ricambiare. L’oggetto
donato possiede sempre una qualità intrinseca che lo assimila alla persona che lo ha
precedentemente posseduto e la mancata restituzione di un dono, provocando
l’interruzione dello scambio, determinerebbe e la vendetta sul trasgressore proprio
da parte di questa “forza” originaria presente nell’oggetto.
Alla fine del XIX secolo le teorie evoluzioniste e la ricerca di leggi generali sullo
sviluppo della cultura declinano e prende corpo la prospettiva di studio delle singole
culture, a partire dalla Germania e dall’Austria, dove l’incidenza della geografia e
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della storiografia è preponderante, e dagli Stati Uniti dove tale incidenza viene
importata da Boas. La nuova corrente che si afferma è il diffusionismo, che
considera movimenti espansivi delle culture a partire da un “centro” di origine.
Frobenius elabora un criterio per l’accertamento della diffusione dei tratti culturali,
secondo il quale la semplice somiglianza di forma legata alla funzione o alla qualità
non è un indizio sufficiente per stabilire un’origine comune, dal momento che la
forma dipende di per sé dalla funzione. Il criterio che Frobenius integra è quello della
quantità. Oggetti simili possono essere accomunati nell’origine quando anche gli
accessori e gli ornamenti, non essendo funzionali, sono confrontabili.
Il diffusionismo americano
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Espressione tedesca corrispondente alle “popolazioni primitive” degli inglesi.
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caccia, istituti sociali come il matrimonio, credenze, ecc.). In tale ambito, la
distribuzione dei tratti veniva pensata come conseguenza di processi di diffusione.
Aree culturali
Tuttavia, gruppi che possedevano un nucleo comune di elementi sufficientemente
rilevante da permettere di essere riconosciuti come appartenenti alla stessa area
culturale presentavano anche distribuzioni irregolari per altri tratti. Spiegazione? La
risposta considerava, oltre alla possibilità dei tratti di migrare, la natura selettiva
della cultura: se alcuni tratti potevano essere accolti, altri potevano invece essere
rifiutati, in base alla caratteristiche della cultura ricevente.
Wissler elabora una teoria delle aree culturali come ambiti di diffusione che hanno
origine da un centro nel quale sono presenti tutti i tratti distribuiti, anche
irregolarmente, nell’area circostante.
Aree cronologiche
Wissler tenta di assegnare anche una dimensione temporale al processo di
diffusione dei tratti culturali: i più lontani dal centro sono anche i più antichi e
appartengono al nucleo culturale originario.
Grafton Elliot Smith e William Perry ne danno una versione estremizzata; le loro
teorie sono per questo dette iperdiffusioniste. Essi postulavano infatti un unico
centro di diffusione: l’Egitto. Le culture variamente distribuite sulla Terra non erano
altro che espressioni, a diversi gradi di degenerazione, di quella cultura originaria. Le
prove di Smith e Perry consideravano la distribuzione geografica delle pratiche di
mummificazione, delle costruzioni piramidali e del culto solare (teoria “eliocentrica”),
anche in zone dell’America precolombiana e dell’Australia. Queste teorie trovarono
accoglienza presso un pubblico di amatori e dilettanti, ma non presso veri specialisti.
L’antropologia, in particolare quella inglese, vive una fase di transizione tra l’ultimo
decennio del XIX secolo e la prima guerra mondiale. L’attività sul campo prende
sempre più consistenza: l’estendersi dei possedimenti coloniali favorisce infatti la
Gran Bretagna, più di altre nazioni, nel contatto con le popolazioni extra-europee.
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Va anche detto che gli ultimi anni della Regina Vittoria sono anni di profonde
trasformazioni politiche, sociali e culturali. La Gran Bretagna subisce infatti un lento e
impercettibile declino dato che l’idea positiva di un’evoluzione e di un progresso
sociale trionfante viene gradatamente meno. Nello stesso periodo prendono corpo la
teoria psicoanalitica di Freud e quella della relatività di Einstein, secondo le quali il
soggetto conoscente cessa di essere il punto di riferimento assoluto. In tale
contesto, nella concezione generale delle cose, la linea di separazione tra “selvaggi”
e “civilizzati” perde la sua capacità di demarcazione netta.
Naturalmente, non sempre era così; è emblematico il caso di Fison e Howitt, due
missionari attivi in Australia come corrispondenti di studiosi come Morgan, Tylor e
Frazer, dotati di autonomia scientifica al punto da produrre opere loro stessi. Un’altra
collaborazione famosa e di grande valore fu quella di Spencer (professore di biologia
a Melbourne) e Gillen (magistrato nell’Australia centrale) che pervennero ad una
conoscenza notevole della vita degli aborigeni Australiani stabilendo rapporti
vicendevoli al punto da essere autorizzati ad assistere alle loro cerimonie e
fotografarle. Anche questi due corrispondenti produssero autonomamente lavori poi
utilizzati da studiosi come Durkheim, Mauss e Frazer per sviluppare teorie sul
totemismo, sulle classificazioni e sulle religioni primitive.
Un’altra tecnica di raccolta dei dati etnografici viene adottata in concomitanza degli
importanti programmi di studio inglesi degli ultimi anni del XIX secolo. Le “survey”
(ricognizioni) etnografiche si inquadravano in un piano di collaborazione tra la
disciplina antropologica e le amministrazioni coloniali e consistevano nella
compilazione di rapporti contenenti dati etnografici, linguistici, storici, ambientali ad
opera di ricercatori che soggiornavano per brevi periodi presso le comunità studiate.
Ai funzionari coloniali e ai militari si sostituiscono progressivamente studiosi
professionisti della disciplina antropologica.
I nuovi etnografi
La spedizione allo Stretto di Torres (tra l’Australia e la Nuova Guinea) è una pietra
miliare della storia dell’Antropologia. Diretta da Haddon (biologo di Cambridge), fu
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suggellata da un grande successo per la preziosa collezione di oggetti recuperati e
ancora oggi conservati al museo etnografico di Cambridge e per avere guadagnato il
riconoscimento definitivo dell’antropologia sul piano accademico e anche da parte
dei non specialisti. Questa spedizione aveva anche contribuito enormemente a far
comprendere l’importanza di un soggiorno prolungato tra i nativi ai fini della
costruzione di un’adeguata relazione di conoscenza.
Se la maggior parte dei missionari era animata da intenti evangelici, tra loro vi era
anche chi era interessato ai costumi dei “primitivi”. Chiaramente, soggiornando per
anni o addirittura decenni tra di essi, alcuni di loro poterono raggiungere una
conoscenza approfondita e produrre lavori di grande rilievo etnografico, come Fison
e Howitt in Australia o Robert Cordington in Melanesia.
Ecco che gli antropologi si trovarono a dover mettere a punto tecniche e strategie
scientifiche efficaci ed efficienti che li mettessero in grado di fronteggiare la
“concorrenza” missionaria, soprattutto in considerazione che non potevano, almeno
in generale, organizzare lunghe permanenze tra i nativi.
Antropologo della generazione “di mezzo”, Rivers partecipa alla spedizione allo
Stretto di Torres compiendo ricerche sulle facoltà percettive dei nativi e scoprendo
l’assenza di differenze rispetto ai giovani inglesi nella percezione di immagini, colori,
sapori, suoni, ecc. Questo contributo viene ripreso da Boas agli inizi del ‘900 nel
quadro della fondamentale unità psico-fisica del genere umano.
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Il “metodo genealogico”
Gli interessi di Rivers ben presto si spostano verso lo studio dell’organizzazione
sociale dei popoli primitivi e delle terminologie di parentela, avvicinandosi alla tesi di
Morgan secondo la quale queste sono il riflesso linguistico delle relazioni sociali. In
relazione a questi studi, Rivers sviluppa quello che egli stesso chiama “metodo
genealogico”. Si trattava di un sistema semplice, rapido ed efficace per la raccolta
dei termini di parentela, che consisteva nel chiedere ad un individuo il nome dei
parenti più prossimi e i termini di parentela con i quali venivano designati (padre,
madre, ecc.) e poi nel chiedere nomi e termini per la designazione dei parenti più
lontani. Il metodo, anche se banale, è interessante perché esprime un punto di vista
nuovo sulla pratica etnografica, costituendo una modalità comprensibile dal
ricercatore, come dal nativo. Rivers coglie l’importanza di una vera comunicazione
reciproca.
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PARTE TERZA – PRIMA GUERRA MONDIALE - METÀ DEL ‘900
L’osservazione partecipante
A Malinowsky sono state riconosciute capacità del tutto singolari nel saper penetrare
e cogliere dall’interno la cultura delle popolazioni oggetto dei suoi studi. Egli diede il
via alla pratica dell’osservazione partecipante, una tecnica di inchiesta che passa
attraverso la costruzione di un rapporto empatico con i nativi che implica la capacità
di prendere parte il più possibile alla loro vita, allo scopo di cogliere il loro punto di
vista e la loro visione del mondo. Questo mito subisce però un duro colpo quando, a
25 anni dalla sua morte, vengono pubblicati i suoi diari “segreti”, che rivelano aspetti
che sminuiscono l’idea di una persona così capace di adattarsi a situazioni di
estraneità culturale; questi testi riportano parole e espressioni rudi e volgari sui nativi
e raccontando spesso il desiderio di essere altrove.
Il “disagio” dell’antropologo
In realtà, questi ultimi fatti riflettono un problema insito nell’antropologia: quanto
l’antropologo è in grado di cogliere il punto di vista dell’indigeno? E’ una forma di
disagio che pone di fronte alla questione di doversi confrontare non solo con le
proprie, ma anche con le interpretazioni dei nativi, che non possono essere trattate
come materiali interti soggetti alle sole inferenze dello studioso.
Le piccole comunità stanziate sulle isole Trobriand scambiavano tra di loro collane di
conchiglie rosse (spulava) e braccialetti di conchiglie bianche (mwali). Ciascuno dei
due tipi di oggetti poteva però essere scambiato solo con l’altro, per cui, le collane
circolavano tra le isole in senso orario, mentre i braccialetti in senso contrario. Gli
oggetti circolavano in continuazione senza uscire mai dal circuito e gli scambi
avvenivano nel corso delle visite che gli abitanti delle diverse isole (anche molto
lontane) si scambiavano periodicamente. Nelle visite, oltre agli scambi kula,
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strettamente considerati come “cerimoniali”, venivano scambiati anche oggetti con un
valore d’uso (gimwali), in una pratica che però era “profana”.
Il principio di reciprocità
Lo scambio kula evidenzia l’esistenza di rapporti tra individui e gruppi fondati su ciò
che l’antropologia definisce principio di reciprocità. Questo scambio era solo il
fenomeno più visibile di una logica sociale che tendeva a promuovere la solidarietà
e l’organicità, secondo la quale, comunque, ogni aspetto ed ogni momento
importante della vita sociale erano caratterizzati da atti che erano espressione di
diritti e doveri tra due parti e quindi da comportamenti di mutua assistenza,
prestazioni e controprestazioni, offerta di doni e controdoni.
Con La famiglia tra gli Aborigeni australiani, Malinowsky confuta l’idea diffusa
della promiscuità che sembrava essere confermata dai lavori degli etnografi che lo
avevano preceduto. Egli sostiene in realtà l’ipotesi del carattere universale della
famiglia elementare, una costante in tutti i suoi lavori, che presenta come il luogo
della riproduzione non solo biologica, ma anche culturale.
Nella famiglia l’incesto è bandito perché, disgregando i rapporti interni alla famiglia
stessa, disgregherebbe il modello di riferimento delle altre strutture sociali,
essendo la società il prodotto dell’estensione dei rapporti familiari. L’esogamia è la
risposta e la soluzione efficace alla proibizione dell’incesto. Ed è proprio su questa
base che Malinowsky spiega le cerimonie nelle quali sono consentiti rapporti sessuali
con partner diversi da quelli matrimoniali, in precedenza interpretate unicamente
come atti di promiscuità legati all’assenza di una struttura famigliare.
Malinowsky deriva dalla sua esperienza di ricerca sul campo la propria idea della
società e della cultura: un insieme di pratiche e comportamenti integrati tendenti al
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mantenimento dell’equilibrio interno della società e del suo “funzionamento”.
Possiamo etichettare questa visione come “funzionalismo ristretto”.
Nelle ultime fasi della sua produzione egli si dedica alla formulazione di una teoria
generale della cultura, modificando alcune cose. Alla concezione del funzionalismo
ristretto, che non scompare, si affianca anche una visione della cultura come vasto
apparato strumentale (materiale, umano e spirituale) di cui l’uomo dispone per
affrontare e risolvere le necessità di adattamento all’ambiente esterno. Parliamo in
questo caso di “funzionalismo allargato”.
Concludendo su Malinowsky
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11 L’ANTROPOLOGIA PSICOANALITICA E LO STUDIO DELLA CULTURA
A cavallo tra il XIX e il XX secolo, la nascita della psicoanalisi rivela l’esistenza di una
vita psichica inconscia che si presenta come il risultato di uno scontro tra le pulsioni e
gli istinti dell’individuo e le forze della cultura. La psicoanalisi trova così un posto nei
temi del conflitto tra la costruzione della personalità individuale e i processi di
adattamento dell’individuo all’ambiente culturale. L’antropologia psicoanalitica si è
poi rivelata il punto di partenza per la moderna riflessione dell’etnopsichiatria, che si
occupa dei disturbi e delle sindromi che investono soggetti trapiantati da un contesto
culturale ad un altro.
Sebbene la dimensione psicologica non fosse stata del tutto estranea al discorso
antropologico sin dall’inizio (con Taylor e Frazer l’approccio evoluzionista l’aveva
considerata nella costruzione delle fasi aurorali del pensiero magico e religioso;
Lévy-Bruhl aveva messo in evidenza dimensioni psicologiche radicalmente diverse
nelle mentalità “primitiva” e “civilizzata”; Rivers aveva studiato i processi percettivi dei
primitivi), nessuna teoria generale sull’origine e lo sviluppo della cultura e
sull’adattamento individuale ebbe modo di essere messa in rapporto con la
psicologia.
Freud, invece, propone una teoria dell’origine e dello sviluppo della cultura con
Totem e tabù, l’opera in cui indaga la natura e il significato il totemismo e le sue
relazioni con l’esogamia. Secondo Freud, nell’”orda primitiva” (immagine ripresa da
Darwin) il padre detiene il controllo assoluto delle madri dei suoi figli e, il conflitto
padre-figli che per questo si sviluppa all’interno della “famiglia” porta questi ultimi ad
uccidere e a divorare il padre per potersi accoppiare con le femmine del gruppo 4.
Tuttavia, dopo l’uccisione e il pasto cannibalico, i figli, colpiti da rimorso, avrebbero
idealizzato la figura del padre (simbolo del gruppo totemismo) e, come
autopunizione, si sarebbero vietate le femmine del gruppo (esogamia).
L’analogia selvaggio-nevrotico
Freud osserva che così come i selvaggi rispettano i tabù comuni alla loro tribù, la
psicoanalisi permette di individuare persone che si creano individualmente divieti
analoghi, adeguandovisi con lo stesso rigore. Egli sembra così postulare
un’analogia tra selvaggio e nevrotico.
Nella nevrosi ossessiva, il tabù nasce come proibizione introiettata nell’infanzia; una
proibizione che non elimina la pulsione, ma la inibisce relegandola nell’inconscio,
dove continua ad essere attiva ma contrastata dalla proibizione introiettata
4
E’ da notare che questa idea di una famiglia nucleare di tipo poligamico contrasta con la promiscuità
originaria postulata dagli evoluzionisti; ciò non è casuale, poiché la condizione di promiscuità non
avrebbe potuto sostenere l’insorgenza del conflitto edipico che Freud pone alla base della sua teoria
psicoanalitica.
25
culturalmente. Ecco che nasce ciò che Freud chiama comportamento ambivalente
di un individuo verso un dato oggetto: egli vuole seguire una certa azione, ma nel
contempo ne ha orrore. La stessa ambivalenza riguarda i selvaggi, che vorrebbero
compiere certe azioni sulle stesse cose o persone che sono oggetto dei loro tabù.
A livello inconscio nulla sarebbe più gradito che trasgredire i tabù, e la forza ad essi
attribuita è la capacità di indurre gli uomini in tentazione.
Malinowsky rileva anche che, rispetto alla cultura europea, il distacco del bambino
dalla madre avviene in tempi più lunghi e in modo meno traumatico e che il desiderio
dell’atto incestuoso sembrava essere diretto più verso la sorella che verso la madre.
26
endopsichica, lo scienziato è un voyeur che strappa i segreti alla natura, il pittore è
un individuo che continua a giocare con le proprie feci. Ecco il processo di
sublimazione di Roheim, che di fatto viene a coincidere con la cultura.
Gli studi dell’allora Africa Orientale Italiana furono sostanzialmente del tipo “survey
etnografica”; il genere monografico, ormai affermato nell’antropologia
angloamericana, si manifesta in Italia solo nel 1940 quando Vinili Grottarelli
pubblica I Mao, un resoconto completo dell’omonima popolazione dell’area ovest-
etiopica. Nell’opera non mancano riferimenti al concetto di “missione civilizzatrice” da
compiere in Africa da parte dell’Italia e concessioni al clima politico incombente nel
nostro paese.
Gli studi sui territori coloniali del Nordafrica e in Eritrea furono invece realizzati da
funzionari coloniali e militari, soggetti di formazione storica e giuridica che
orientarono le proprie ricerche sul regime fondiario e il diritto vigente in quelle aree.
L’VIII Convegno Alessandro Volta tenutosi nel 1938 presenta una situazione
desolante: i relatori italiani rispecchiano il sostanziale asservimento al regime e
oscillano tra gli atteggiamenti paternalistici nei confronti della “razza negra” e il più
aperto razzismo. Fa eccezione solo Raffaele Pettazzoni, il quale si attiene alla pura
5
L’archetipo, cioè un’immagine primordiale nella memoria collettiva, porta le sue tracce nei temi
mitologici, comuni a tutte le razze di ogni epoca. L’archetipo si esprime sempre attraverso un simbolo.
27
discussione teorica sulla mediazione tra la scuola diffusionista e la prospettiva
funzionalista. Lidio Cipriani, teorico della “razza pura” parla di un’inferiorità mentale
irriducibile nei sudditi di colore. In realtà, in quegli stessi anni, Cipriani ed altri
antropologi collaborano alla messa a punto del “manifesto della razza”, ovvero la
base ideologico-giuridica della politica razzista del fascismo. Addirittura, presso le
università italiane vengono istituite cattedre di “Biologia generale delle razze umane”.
Ernesto de Martino fa parte di quegli intellettuali che, alla promulgazione delle leggi
razziali, si schierano apertamente contro il regime. De Martino si avvicina alle idee
filosofiche di Benedetto Croce, personaggio di riferimento di molti intellettuali che
nutrivano sentimenti più o meno ostili nei confronti della dittatura fascista.
28
irrazionale) e di quello razionale ed è disposto unicamente ad accettare l’idea di un
passaggio dall’uno all’altro.
Per Griaule ogni cosa, dall’organizzazione sociale alla vita produttiva, ai cerimoniali,
ai rapporti tra i sessi non poteva essere spiegata senza la conoscenza di questa
complessa cosmologia. La cosmologia come sistema di idee del tutto autonomo fa sì
che la realtà sociale discenda sempre dalla rappresentazione che gli attori sociali
hanno di questo complesso di idee. La conoscenza della cosmologia di questa
società era la chiave per la comprensione della sua cultura.
Va comunque detto che i Dogon studiati da Griaule non erano ignari dei bianchi e
della loro religione e, negli anni ’30, non erano nemmeno un popolo isolato come
invece potrebbe sembrare leggendo le opere di Griaule.
L’epistemologia di Griaule
Griaule rivendica la priorità degli studi monografici su quelli comparativi
(contrastando parzialmente con la tradizione durkheimiana) sulla base dell’idea che
l’umanità fosse costituita da gruppi sociali provvisti di culture fondate su principi
diversi. E’ una prospettiva paragonabile al particolarismo storico di Boas in
29
America e al funzionalismo di Malinowsky in Gran Bretagna, cioè legata all’idea di
una ricerca circoscritta ai singoli contesti culturali e sociali, pur nelle differenze delle
corrispondenti premesse.
Per Griaule, questa impostazione resta legata ad uno studio che mira a cogliere i
sistemi cosmologici per come sono concepiti dai nativi; quindi lo studio dei sistemi di
pensiero diversi da quello occidentale non deve passare attraverso una lettura
fondata sulle categorie dell’osservatore, ma sulla coerenza interna di tali sistemi.
Il Metodo dell’etnografia
Quest’opera testimonia l’acutezza e la spregiudicatezza di Griaule in materia. Egli
infatti considera l’inchiesta etnografica in termini “strategici”, mettendo in guardia
dalle tortuosità e fornendo modalità per superare alcune situazioni: il carattere
lacunoso delle dichiarazioni fornite dall’informatore, il continuo sforzo dell’etnografo
per rimettere in pista l’indigeno tendente alla divagazione, il valore di tali divagazioni
come indizi di altri fatti sociali, ecc. Diciamo pure che Griaule si presenta anche come
teorico della “manipolazione” dell’informatore. Tutto ciò fa comprendere come e
quanto l’etnografia non possa essere considerata una semplice raccolta di dati, ma
qualcosa che implica una complessa serie di relazioni di potere tra etnologo e
indigeno.
L’elaborazione di Leenhardt sulle idee canaki relative al mito e alla persona non è
indenne dall’influsso della religione cristiana. Seguendo la propria inclinazione di
missionario, egli imposta un’analisi della persona e non dei fatti sociali, ponendosi
anche in una posizione diversa dalla tradizione francese di ispirazione durkhemiana.
Non sorprende quindi che il mito gli parve strettamente legato all’idea di persona
come complesso di rappresentazioni pervasive della vita dei Canaki. Per Leenhardt,
il mito non era un racconto nel quale era stata trasfigurata una realtà storica (come
per Malinowsky) e nemmeno una spiegazione pre-razionale della realtà (come per
Frazer), ma qualcosa che dava un senso al tempo e alla partecipazione dell’uomo
al mondo e alla natura; uno spazio intellettuale in cui il primitivo costruiva il proprio
mondo, partecipandovi.
30
cosmologie indigene più come sistemi di pensiero che come antecedenti della
struttura sociale.
I berberi avevano istituzioni democratiche con capi eletti a turno. Il potere dei capi,
però, aumentava quando questi sgominavano i concorrenti generando piccoli
potentati. Tali situazioni erano normalmente destinate al “riassorbimento” alla morte
del capo interessato. Tuttavia, se questo riusciva a trarre vantaggio dall’alleanza con
il Sultano facendosi nominare come suo rappresentante locale, il potere del capo
diveniva tirannico, condizione che cessava con la morte del Sultano o in seguito a
ribellioni comunitarie.
La storia della regione in tal modo oscillava tra forme di governo democratico
(assembleare o oligarchico) e forme di tirannia. I Berberi e il Makhzen analizza
proprio queste oscillazioni, anche perché Montagne riesce a cogliere ed osservare le
diverse comunità nelle varie fasi di trasformazione.
Il configurazionismo nasce in America nel corso degli anni ’20 a partire dalla
riflessione di Boas e di alcuni suoi allievi ed esprime l’idea che ogni cultura scaturisce
come prodotto dell’interazione di più modelli (o configurazioni) che ne
rappresentano i segmenti espressivi: una certa filosofia, una moda, uno stile artistico,
ecc. Ruth Benedict, allieva di Boas, segue questa concezione della cultura e fa
notare come la cultura fosse sempre stata considerata un’aggregazione di elementi
isolati, mentre il significato di un tratto poteva cambiare in base alla presenza o meno
di altri tratti; due società provviste di tratti simili potevano infatti anche avere culture
organizzate in base a modelli diversi. In pratica, è importante considerare come un
31
tratto si connette agli altri presenti nella stessa configurazione; in tal modo, una
cultura esprime qualcosa di più della semplice somma delle singole parti.
In Modelli di cultura, il suo più celebre lavoro, la Benedict sviluppa l’idea secondo
cui ogni società produce un “modello culturale medio” in base alla formazione di
“pattern” sugli elementi della sua cultura. Combinando nozioni psicologiche allo
studio di società diverse, definisce 4 modelli di riferimento:
Gregory Bateson, allievo anche di Malinowsky, dedica solo una parte della sua
carriera scientifica all’antropologia, spostando poi i propri interessi nel campo della
psichiatira e dell’etologia. Ciò nonostante, sviluppa una visione originale dei rapporti
tra individuo e società. Nel 1932, compie alcune ricerche tra gli Iamutl della Nuova
Giunea che lo consacrano come ricercatore brillante ed eccentrico allo stesso
tempo. Naven, studio sul rito omonimo degli Iamutl, analizza congiuntamente le
implicazioni psicologiche, economiche, politiche, magico-religiose ed etiche del rito
stesso, rifiutando la prospettiva comune che considerava separatamente questi
settori delle società.
Il rito “naven” si svolgeva quando un giovane compiva per la prima volta un gesto di
valore nella cultura locale (uccisione di un nemico, cambiamento di status sociale,
ecc.). I suoi parenti di entrambi i sessi si travestivano assumendo insegne e
32
comportamenti tipici del sesso opposto. In particolare, il wau (fratello della madre)
parodiava la “debolezza emotiva” femminile, mentre le femmine assumevano il
comportamento fiero caratteristico dei maschi.
Bateson spiega questa inversione come segue. L’eidos della società locale, cioè
l’ideale culturale legato ai generi, prevedeva un tono emotivo (ethos) che per i
maschi consisteva in comportamenti fieri e aggressivi, che non indulgevano a
tenerezza ed affetto, e per le femmine sottomissione, modestia e atteggiamenti
improntati all’emotività e agli affetti. In seguito al raggiungimento di un obiettivo
socialmente e culturalmente positivo ed approvato, travestendosi da donna il wau
poteva manifestare soddisfazione e affetto per il figlio della sorella, mentre le donne,
travestendosi da uomini, potevano esprimere sentimenti di fierezza ed orgoglio per il
giovane di cui si erano prese cura.
La schismogenesi
Patendo dal caso degli Iamutl, Bateson allarga la nozione di schismogenesi, ovvero
la dinamica generatrice di comportamenti divergenti, sostenendo che questo
processo non riguarda solo gli individui, ma anche i gruppi. Nella schismogenesi le
società, come gli individui, possiedono meccanismi frenanti poiché, portato alle
estreme conseguenze, tale processo provocherebbe la disgregazione sociale nel
primo caso e schizofrenia nel secondo. Ad esempio, riprendendo il caso del rito
naven, l’equilibrio dinamico si gioca nell’aggiustamento reciproco tra eidos ed ethos,
ovvero tra il livello ideale-prescrittivo e quello emotivo.
Kardiner e Linton distinguono la loro posizione sia da quella dei funzionalisti, sia dal
configurazionismo della Benedict. La prima è considerata da loro come adattamento
reciproco e interdipendenza funzionale degli schemi di comportamento, “una massa
di ingranaggi il cui funzionamento non ha però un fulcro centrale”; riguardo alla
Benedict, rilevano che non in tutte le culture è possibile determinare un’integrazione
incentrata su di un singolo atteggiamento, sentimento o valore in grado di dominare
una data configurazione culturale.
Solo con Margaret Mead, negli anni ’20, l’antropologia americana allarga i propri
interessi oltre lo studio degli Indiani d’America. Allieva di Boas, la Mead diverrà una
delle figure più autorevoli della disciplina. La sua attività si colloca in un periodo in cui
gli effetti sociali prodotti in America nel primo dopoguerra (vertiginoso aumento della
delinquenza, in particolare di quella giovanile) orientano gli interessi la psicologia
sociale, della sociologia e dell’antropologia americane; in questo scenario, infatti, i
temi dell’adattamento dell’individuo ai valori espressi da una società produttivista e
concorrenziale come quella americana diventano oggetto di molti studi.
E’ così che lo studio del processo di socializzazione viene a coincidere con quello
dell’influenza esercitata dalla cultura sull’individuo e della trasmissione dei valori
che consentono a quest’ultimo di adattarsi con successo ai modelli sociali di
riferimento.
Adolescenti a Samoa
L’adolescente in una società primitiva (1928) è uno studio sul periodo
adolescenziale della donna samoana, che considera la formazione della
personalità attraverso l’analisi del contesto sociale e dei processi educativi. Lo
studio mostrava come l’adolescenza in una società primitiva fosse meno esposto a
traumi rispetto alla società occidentale e a quella americana in particolare. Due i
fattori all’origine di questa differenza, secondo la Mead:
34
La Mead intende mostrare come a modelli culturali diversi corrispondono altri
modelli educativi che alla fine danno luogo alla formazione di personalità
diversamente orientate. Conclusioni oggi scontate, ma che all’epoca generarono un
notevole effetto sia presso gli antropologi, sia presso il pubblico americano colto,
contribuendo a rendere più articolato l’orizzonte teorico e pratico all’interno del quale
si era mossa sino ad allora l’esperienza educativa americana.
- I tratti del carattere maschile e femminile sono determinati più dalla cultura
che da una predisposizione naturale;
- I differenti valori espressi da culture diverse tendono a produrre dei “caratteri-
tipo” come risposta adattiva individuale.
Il relativismo culturale
Sin dagli inizi degli anni’20, egli si pone il problema di definire l’oggetto
dell’antropologia e proprio seguendo Durkheim, in un approccio sociologico,
circoscrive il campo dell’antropologia allo studio dei fenomeni sociali non riducibili
ad un altro ordine di realtà. Da un punto di vista metodologico, prima considera i
meccanismi che operano all’interno della società per passare poi alla loro
35
comparazione e, se possibile, ad una generalizzazione in termini di “leggi”. L’oggetto
dell’antropologia diviene in tal modo lo studio delle leggi che determinano il
funzionamento e la trasformazione delle società.
La struttura sociale
Radcliffe-Brown segue una direzione di ricerca molto diversa da quella ormai
consolidata nella tradizione americana basata sullo studio del comportamento
individuale e dei meccanismi di adattamento del singolo alla società, concentrando
l’attenzione sulla trama complessiva dei rapporti sociali e che costituisce ciò che egli
stesso definisce “struttura sociale”. In particolare, definisce tre concetti-chiave:
In tal modo, la società può esser pensata come insieme coordinato di attività e quindi
come “organizzazione”.
Radcliffe-Brown torna anche sul problema del rapporto tra terminologie di parentela e
rapporto sociale e propone una lettura delle terminologie di parentela prima di tutto
36
legata al significato “attuale”. Ad esempio, nei sistemi di tipo “omaha” (dal nome dei
nativi nordamericani presso i quali tale sistema venne osservato per la prima volta),
la figlia del fratello della madre (per noi, la “cugina”) viene chiamata “madre”.
Partendo dal fatto che nel passato poteva essere consentito il matrimonio di un uomo
con la figlia del fratello della moglie (per noi, la “nipote”):
- Unità del gruppo dei fratelli (sibling group): i figli degli stessi genitori, senza
distinzione di sesso, rappresentano un’unità nei confronti della quale un
esterno mantiene la stessa attitudine ed utilizza un termine unico. In certi
sistemi africani di lingua bantu, tanto il fratello quanto la sorella del padre
vengono chiamati “padre”;
- Unità di linguaggio: ci si può rivolgere a tutti gli individui appartenenti alla
linea di discendenza di uno dei genitori con lo stesso termine. In un sistema di
tipo “omaha”, la madre, le sue sorelle, le cugine patrilineari e le loro figlie sono
tutte chiamate “madre”.
Il totemismo “economico”
Radcliffe-Brown accetta l’interpretazione funzionale di Durkheim per cui il simbolo
totemico produce un effetto integrativo nel gruppo che in esso si identifica, ma rifiuta
l’idea durkheimiana della natura sacra del totem in quanto simbolo della società. Egli
interpreta invece l’atteggiamento rituale come una più generale attitudine nei
confronti di specie animali e vegetali che precede l’uso sociologico di questo simbolo.
Infatti, rileva Radcliffe-Brown, un tale atteggiamento, rilevabile anche in situazioni in
cui il totemismo non è presente, è connesso all’importanza economica di
determinate specie nella vita dei gruppi. In breve: i totem non sono oggetto di rituale
in quanto simbolo della società, ma diventano simbolo della società perché già
oggetto di un’attenzione rituale. Questa interpretazione è tuttavia debole, poiché
molte specie risultavano oggetto di culto o di attenzioni speciali pur non rivestendo
un ruolo economico nelle società.
Il totemismo “strutturale”
Una ventina di anno dopo, Radcliffe-Brown supera la concezione “economica” del
totemismo riflettendo sul perché certe specie e non altre venissero scelte come
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rappresentazioni simboliche di relazioni tra gruppi e sul perché specie simili (ad
esempio “uccelli mangiatori di carne”) fossero spesso abbinate in rappresentazioni di
opposizione. Per esempio, la metà di un gruppo australiano poteva essere “Falco” e
l’altra metà “Cornacchia”. La risposta di Radcliffe-Brown è che le coppie di
opposizione esprimono l’applicazione di un determinato principio “strutturale”: il
totemismo cioè esprimerebbe l’opposizione di gruppi che però sono strutturalmente
uniti in una relazione funzionale, come ad esempio lo scambio matrimoniale.
Dopo Radcliffe-Brown
Nel periodo compreso tra le due guerre, nel panorama britannico i riferimenti
principali sono Malinowsky e Radcliffe-Brown; se il primo rappresenta l’ideale del
comportamento etnografico, il secondo, preoccupato di assegnare all’antropologia un
campo e un oggetto di studio precisi, è un punto di riferimento più ampio. Il
funzionalismo strutturale di Radcliffe-Brown si mantiene, almeno fino agli anni ’50,
il punto di riferimento per quasi tutti i ricercatori della tradizione antropologica di Gran
Bretagna, Australia, Nuova Valenza e Sudafrica.
Per Evans-Pritchard, la questione della razionalità non deve essere considerata nei
termini di una valutazione del tipo vero/falso, ma esclusivamente in termini di
coerenza all’interno del sistema di credenze. Egli è il primo studioso che
considera la magia come un complesso strutturato di idee, quando la prospettiva
comune, pur ponendola in relazione agli altri aspetti della vita sociale, non la
interpreta affatto come un “sistema di idee”. Infatti, lo studio sugli Azande inaugura,
nell’antropologia britannica, le ricerche sui sistemi di pensiero in seguito alle quali il
pensiero “primitivo” perde la connotazione pre-razionale e pre-logica e si vede
attribuire lo status di insieme coerente di concetti legati da una logica.
38
I Nuer e il modello segmentario
I Nuer (1940), studio sulla popolazione omonima del Sudan, considera le dinamiche
delle alleanze e del conflitto. Evans-Pritchard rileva in questa popolazione l’assenza
di sistemi politici con veri e propri capi. Per contro, scopre una dinamica politica
basata su rapporti variabili di alleanza e conflitto tra segmenti autonomi di
questa società. I segmenti, lignaggi costituiti da discendenti di antenati comuni, si
coalizzavano e separavano dando luogo a gruppi contrapposti quasi sempre in modo
tale da creare una condizione di equilibrio tra le forze in lotta che di solito bloccava il
conflitto emergente. Questo modello dimostrava che una vita politica complessa e
articolata poteva esistere anche dove non era presente un’autorità formale capace di
esercitare un potere di natura coercitiva.
Concludendo su Evans-Pritchard
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tematiche ristrette (organizzazione politica, economica, religiosa), senza mettere in
gioco prospettive generalizzanti a qualunque costo. Questo approccio sposta
l’accento sulla ricerca delle particolarità culturali piuttosto che sulle uniformità; del
resto, per Evans-Pritchard l’antropologia doveva spiegare proprio le differenze.
In Italia, gli anni successivi alla seconda guerra mondiale sono caratterizzati dalla
diffidenza del mondo culturale, politico e accademico verso una disciplina sulla quale
grava l’ombra della compromissione con il regime fascista e le sue espressioni
coloniale e razzista. Il rilancio degli studi etno-antropologici si ha con Ernesto de
Martino.
Quindi, una realtà storica come quella del mondo magico non può essere compresa
nell’ambito di una visione ispirata dalle categorie dello spirito. Il mondo magico deve
invece essere rivisitato dall’interno. Per poterlo fare è necessario comprendere come
avviene la costruzione della realtà magica, che secondo De Martino ruota attorno al
concetto di “presenza”.
Il concetto di “presenza”
La presenza è per De Martino uno stato che l’uomo si sforza di costruire per sfuggire
all’idea del “non-esserci”. Si tratta di un moto naturale dell’essere umano al quale
non ci si può sottrarre se non si vuole essere annientati. Attraverso una consistente
serie di esempi tratti dalla letteratura etnografica, De Martino descrive il magismo
come primo tentativo coerente dell’uomo di affermare la propria presenza nel mondo:
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l’universo magico si afferma come spazio di pensiero e di azione in cui affermare la
volontà di esserci. Evidentemente, a differenza di altri evoluzionisti, De Martino non
colloca la magia sul terreno dell’irrazionalità, anzi.
Nel saggio Intorno a una storia del mondo popolare subalterno (1949), emerge in
De Martino un forte avvicinamento alle tesi del marxismo di Gramsci.
L’atteggiamento marxista di De Martino non fu mai ortodosso e funzionale ad analisi
di tipo storico-economico, ma piuttosto una sorta di espressione umanistica verso i
problemi del meridione.
L’idea di portare nella storia le masse prive di storia era in realtà vista con
diffidenza sia dagli storici di matrice idealista (il canagliume, la plebe non poteva
essere oggetto di storia non essendone l’agente), sia da alcuni marxisti (l’idea
demartiniana era inaccettabile in quanto turbava la prospettiva del riscatto attraverso
l’emergere di una coscienza di classe).
L’etnocentrismo critico
Lo studio dei fenomeni magico-religiosi del Sud Italia apre in De Martino la riflessione
sul rapporto tra l’etnologo e le comunità o gli individui oggetto dell’inchiesta. Egli
parla di “umanesimo etnografico” riferendosi alla capacità, irrinunciabile per
l’etnografo, di “sopportare l’oltraggio delle proprie memorie culturali più care
convertendolo in esame di coscienza”. In realtà, De Martino è perfettamente
consapevole che il rapporto etnologico non è affatto neutro e che l’osservatore
tende, già nell’interrogazione della cultura aliena, ad impiegare griglie interpretative
etnocentriche; del resto, all’estremo opposto, considera giustamente il rischio di un
approccio dogmatico e acritico alla cultura “altra”. E’ il classico paradosso
dell’incontro etnografico: se l’etnografo prescinde totalmente dalla propria storia
culturale, diventa cieco e muto e perde la propria vocazione specialistica; se invece
si affida ad alcune “ovvie” categorie antropologiche, si espone al rischio di
valutazione etnocentriche.
41
La soluzione è nel confronto continuo tra le due storie, con il proposito di raggiungere
un “fondo umano universale in cui ciò che è “proprio” e ciò che è “alieno” sono due
possibilità storiche di essere uomo”, un punto di partenza comune dal quale anche
l’etnografo avrebbe potuto prendere la strada che lo avrebbe condotto all’umanità
aliena, in una consapevolezza dell’essere uomo diversa da quella occidentale6.
Gli studi sugli Shoshone, Indiani del sud-ovest che vivono in una terra proibitiva fatta
di deserti e paesaggi selvaggi, gli permettono di elaborare le teorie dell’ecologia
culturale. Le condizioni ambientali estreme rendono centrale per questa popolazione
la necessità di procurarsi da vivere una stagione dopo l’altra; i loro modelli di vita
sociale vanno compresi come adattamento a questa dura realtà. Questo interesse
per l’influenza dell’ambiente sulla cultura trova riscontro anche nelle ricerche
archeologiche di questo studioso, orientate alla comprensione delle forme di
sfruttamento delle risorse ambientali.
L’evoluzione multilineare
Steward concepisce l’antropologia come scienza naturale costituita da fenomeni
connessi da principi di relazione causale, ma la sua prospettiva generalizzante
appare controllata e meno forte rispetto a Radclliffe-Brown e White. Steward parla a
questo proposito di evoluzionismo mutilineare, intendendo con ciò riconoscere nei
mutamenti culturali l’esistenza di regolarità, e quindi di leggi, che possono essere
identificate parallelamente in ambiti specifici e spesso concatenati; ciò che con
questo approccio si perde in universalità lo si riguadagna in concretezza e specificità.
43
Marvin Harris e il materialismo culturale
9
Il termine “economico” intende circoscrivere il campo di attività nel quale le persone adeguano in
maniera calcolata determinati mezzi a determinati fini.
44
Karl Polanyi e la prospettiva “sostantivista”
45
carattere universale, cioè presente in tutte le società (seppur con differenze nelle
categorie di parenti implicati nella proibizione). Tale proibizione appartiene alla sfera
della cultura in quanto regola, ma allo stesso tempo è radicata nella natura in
quanto fenomeno universale; rappresenta così il passaggio dalla natura alla cultura.
Un esempio in tal senso proviene dai Bororo dell’Amazzonia, che vivono in villaggi
divisi in metà esogamiche abitate da clan matrilineari, poiché gli uomini che si
sposano vanno ad abitare nella metà del villaggio in cui vive il clan della moglie. Si
tratta di un modello dualista: i membri di una metà “devono” sposarsi con un membro
dell’altra metà. Tra i Bororo, il matrimonio tra cugini incrociati bilaterali è un modello di
unione matrimoniale altamente apprezzato perché si accorda perfettamente con il
modello dualista che organizza la loro società.
Il principio di reciprocità
Per Lévi-Strauss, il matrimonio tra cugini incrociati, le regole dell’esogamia e
l’organizzazione dualista sono esempi della ricorrenza della struttura fondamentale
dello scambio basato sulla reciprocità, per lui un elemento fondamentale della natura
umana indipendente da luoghi e tempi della storia. La nozione di reciprocità è una
struttura mentale, un elemento di provenienza inconscia soggiacente a tutte le
relazioni di scambio.
Ad esempio, il modello dualista che gli stessi Bororo danno della propria società, ad
un attento esame etnografico di dimostra incompleto, poiché ogni clan, oltre che in
due metà, è anche suddiviso in tre sezioni (superiore, media e inferiore) e le regole
del matrimonio non solo prescrivono che ci si debba sposare con qualcuno dell’altra
metà del clan, ma obbligano anche ad un’unione omogenea rispetto alle sezioni. Ciò
svela l’esistenza di una struttura diversa da quella presentata dagli stessi Bororo;
invece che essere fondata su due metà, questa società è fondata su tre gruppi,
ciascuno diviso in due metà.
Le strutture, in quanto categorie del pensiero, non solo sono vuote, ma sono anche
inconsce e identiche per tutti; quindi anche le leggi del pensiero non cambiano e
con Lévi-Strauss non ha senso una distinzione tra pensiero logico e prelogico, tra
pensiero razionale e mistico e, pertanto, tra pensiero “civilizzato” e “primitivo”. E’
proprio l’universalità delle strutture che porta nativo e antropologo a comunicare.
Qui Lévi-Strauss si richiama alla linguistica, e in particolare la linguistica strutturale,
per lui una specie di ideale paradigmatico. Infatti, non va dimenticato che sin
dall’inizio Lévi-Strauss assume come campo problematico la comunicazione e che
per lui, oltre al linguaggio, anche la cultura è comunicazione; la proibizione
dell’incesto e l’esogamia, essendo fondati sul principio di reciprocità, sono fondati su
una disposizione allo scambio, che è per definizione comunicazione tra i gruppi.
Questo sulla base del concetto che il pensiero “primitivo” non è diverso da quello
“civilizzato”; la sola differenza tra i due è che il primo si esercita su cose concrete
piuttosto che astratte. Con Lévi-Strauss cade anche l’idea di un ordine di
successione tra pensiero primitivo e civilizzato; si tratta invece di due opzioni
parallele per poter pensare il reale, basate sulle stesse operazioni logiche e quindi
entrambe analizzabili sulla base degli stessi principi formali.
Sistemi di trasformazione
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Concepito come sistema di classificazione, il totemismo costituisce un codice che
funziona come tramite per la conversione di messaggi in e da altri codici (si tratta di
una proprietà di tutti i sistemi di classificazione). A questo proposito, Lévi-Strauss
parla di sistema di trasformazione. Un esempio da lui stesso fornito è il seguente:
Tristi tropici
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Lévi-Strauss definisce “calde” le società occidentali in quanto soggette a
modificazioni sostenute da un’energia prodotta da disequilibri interni; si tratta di
società che proprio attraverso queste modificazioni rompono l’equilibrio che le lega al
mondo, perdendo la convivenza con altre specie e forme di vita sociale.
Contrariamente, le società “fredde” non presentano disequilibri interni e quindi non
producono energia capace di alterare l’ambiente umano e naturale che le circonda.
Questo libro non evoca solo il senso della perdita, ma è anche un atto di denuncia
verso il bianco che impone la propria presenza e volontà a un’umanità e una natura
“altre” senza rispettarle. I tropici diventano tristi per questo.
Come prima cosa, la dimensione del conflitto porta Gluckman a definire alcuni
concetti:
49
alterano il modello delle stesse (una volta risolto il conflitto, il
sistema torna in equilibrio);
Contraddizione Discrepanze tra principi e processi interni alla struttura sociale
che conducono a cambiamenti radicali del modello.
Turner evidenzia così come non siano le norme a produrre l’assetto reale della
società Ndembu, ma l’aggiustamento dialettico delle parti in conflitto. Il conflitto
diventa funzionale all’unità di gruppo.
50
I simboli e il rituale
L’analisi funzional-strutturale, staticamente focalizzata su norme e istituzioni, non può
svelare certi aspetti della struttura (dei rapporti) sociale, cosa che secondo Turner
può invece essere fatta attraverso lo studio dei rituali, che mediante l’uso di simboli,
evidenziano credenze, principi e valori sui quali si fonda la vita sociale. Egli si rifà ai
riti di passaggio studiati per la prima volta da Van Gennep.
Con Edmund Leach, la critica all’ortodossia funzionalista giunge a una fase delicata.
Allievo di Malinowsky, Leach è uno dei pochi etnologi non africanisti della grande
generazione britannica. La sua indagine si svolge tra il Sudest asiatico (Birmania) e
l’Asia meridionale (Ceylon, oggi Sri Lanka) e riguarda società “complesse”, ovvero
caratterizzate dalla presenza di specializzazioni produttive, scrittura, organismi
politici centralizzati, religioni come il cristianesimo, l’induismo, l’ebraismo, il
buddismo, l’islam. In realtà, fino agli anni ’30, pochi antropologi avevano intrapreso
l’analisi di realtà “complesse”. Anche il lavoro di Leach può essere messo in
relazione con quello di Gluckman in relazione all’abbandono dell’ipotesi dell’equilibrio
strutturale e all’importanza attribuita ai temi del conflitto.
Già nel suo esordio con i Kurdi dell’Iraq, Leach mette in discussione l’assunto
fondamentale del funzionalismo strutturale. La società che osserva, sotto l’influenza
di forze economiche e politiche esterne, più che soggetta a modificazioni strutturali,
si dimostra soggetta a veri e propri rivolgimenti; non era pensabile né come sistema
sociale stabilmente integrato, né come sistema periodicamente in conflitto, ma solo
come sistema basato su interessi conflittuali e attitudini divergenti. La critica di Leach
riguarda anche l’idea di società e culture come sistemi chiusi all’interno di confini
netti e il metodo comparativo tipico dell’antropologia britannica.
Tutti questi temi sono sviluppati in Sistemi politici birmani, un lavoro che prende in
considerazione le comunità Kachin, entità “aperte” caratterizzate da lingue e culture
diverse in rapporti di interazione e scambio continui. La complessità di questa realtà
ricorda molto da vicino quella dei Kurdi dell’Iraq: pressione di istituzioni politiche
centralizzate, stratificazione sociale, specializzazione produttiva (pastori nomadi,
agricoltori stanziali), tradizione scritturale, pluralismo linguistico. Evidentemente,
situazioni di questo genere dovevano essere analizzate secondo una prospettiva
diversa da quella prevalente nella tradizione britannica.
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La struttura socio-politica dei Kachin rispecchia un sistema oscillatorio che
determina “collassi strutturali” periodici. Il sistema prevede due tipi di organizzazione,
una aristocratica (gumsa) e una egualitaria (gumlao), che emergono
alternativamente a intervalli di circa un secolo come prodotti di dinamiche interne
dovute a una specifica contraddizione legata a un complicato meccanismo di scambio
matrimoniale. Nella forma aristocratica, la comunità sviluppa caratteristiche che
innescano una rivolta che porta alla forma egualitaria, ma questa nuova forma manca
dei mezzi per tenere uniti i lignaggi che la compongono. In pratica, raggiunta la forma
aristocratica il sistema non si stabilizza, ma tende a fare ritorno alla forma egualitaria
e poi il ciclo riprende. Se da una parte i due sistemi possono essere considerati come
modelli distinti di una struttura sociale, dall’altra è anche vero che sono sempre
interrelati; quindi sono piuttosto gli “stati possibili” di un sistema.
Ancora una volta, il nuovo concetto tende a cogliere aspetti più dinamici.
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Fredrik Barth: La ridefinizione del gruppo etnico
Negli Stati Uniti il punto di partenza è ancora una volta Boas. Verso la metà degli
anni ’30, Edward Sapir e Benjamin Whorf considerano l’ipotesi che la struttura
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grammaticale della lingua sia responsabile della visione del mondo tipica di una
cultura. Tale ipotesi trae ispirazione da Boas, il quale però attribuiva al pensiero
proprietà determinanti sulla lingua e non il contrario. Per Boas, la differenza tra il
pensiero dei “primitivi” e quello dei “civilizzati” dipendeva solo dal fatto che i primi non
avevano avuto la possibilità di fissare la propria riflessione astratta, ma le facoltà
mentali e le possibilità di ragionare in termini astratti erano comunque le stesse nei
due casi. Il semplice fatto che il ragionamento astratto non facesse parte del campo
dell’esperienza abituale dei “primitivi” presentava i comportamenti di questi ultimi
come pre-logici e irrazionali agli occhi degli occidentali.
L’etnoscienza ritiene che ogni popolo abbia un unico sistema per percepire e
organizzare i fenomeni di tipo materiale; oggetto del suo studio non sono questi
fenomeni, ma il modo in cui essi sono organizzati nella mente delle persone. Quindi,
una cultura non è un insieme di fenomeni materiali, ma l’organizzazione cognitiva
degli stessi.
Per Harris solo le regole etiche, cioè quelle formulate dall’antropologo, hanno un
valore essendo logicamente conclusive e potendo per questo condurre alla
comprensione della cultura studiata.
In realtà, questa critica può essere a sua volta criticata considerando che le persone
sono in grado di prevedere il comportamento reciproco, anche se non del tutto e non
negli atti specifici; questo è sufficiente per smontare l’idea della regressione infinita,
che invece si arresta sempre ad un certo punto.
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L’analisi componenziale
Nella prospettiva etnoscientifica, tra le tecniche impiegate per l’analisi dei campi
semantici vi è l’analisi componenziale, applicabile ad ambiti terminologici come
quelli che riguardano i sistemi di parentela, nei cui domini semantici i singoli termini
acquistano significati particolari in funzione delle relazioni di contrasto o di tipo
gerarchico con altri termini.
Ci rendiamo però conto che oltre a questa relazione contrastiva questi termini sono
anche legati tra loro da una relazione gerarchica: “padre” e “madre” sono genitori i
quali sono a loro volta parenti, così come “figlio” e “figlia” sono entrambi “figli” i quali
sono a loro volta parenti.
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essere compresi. Ad esempio, in italiano, “rosso” è uno di questi, mentre “ruggine”
non lo è, necessitando di un riferimento concettuale al termine “rosso”.
Brent Berlin e Paul Kay in Basic color terms (1969) avanzano la teoria che,
indipendentemente dalla complessità della loro cultura, i gruppi umani possiedono
una gamma limitata di termini di base per denominare i colori: da un minimo di due
ad un massimo di undici. Perché questa variabilità nelle diverse culture? Secondo gli
autori, la terminologia di base si sviluppa in senso evolutivo. I sistemi che
possiedono due termini utilizzano “chiaro” e “scuro”; quelli che ne utilizzano tre
utilizzano “bianco”, “nero” e “rosso”, e così via fino ad arrivare al massimo a undici
termini.
Un’ulteriore critica alla teoria di Berlin e Kay proviene dagli studiosi che propendono
per una visione “culturalista” del problema per cui il sistema percettivo di una
popolazione è profondamente influenzato da alcune determinanti culturali che
assegnano ai colori significati contestuali che quindi variano secondo le situazioni.
Non solo: le regolarità individuate da Berlin e Kay non tengono conto che i colori non
sono percepiti solo sul piano fisico, ma possono avere connotazioni che talvolta
precedono la loro definizione cromatica (colori “caldi”, “freddi”, “secchi”, “umidi”,
ecc.).
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marxista e primitivista, l’antropologia inizia a considerare la conoscenza di un mondo
in cui tutte le culture, compresa quella dell’antropologo, sono coinvolte in un
processo globale.
L’ANTROPOLOGIA DINAMISTA
Egli precisa che tutte le società, anche quelle tradizionali, sono sottoposte a due tipi
di dinamica:
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concrete, manca loro una memoria comune, che viene “rifabbricata” mettendo
insieme i frammenti di memoria disponibili, colmando i vuoti con elementi di altre
tradizioni, connettendo questi ultimi a quelli già posseduti e attribuendo loro un nuovo
significato.
Lo scenario
Secondo la rilettura delle teorie di Marx fatta dai filosofi francesi negli anni ’60, il
modo di produzione dipende anche dal ruolo svolto dall’ideologia (valori,
rappresentazione del mondo, dell’autorità politica e religiosa, ecc.) a sostegno dei
rapporti sociali dominanti. Le domande che ne nascono sono diverse: Quali sono i
rapporti di produzione delle società tradizionali? Come si costituisce in queste
società il potere? Come si trasformano i rapporti di produzione nel contatto con altre
società e culture? Ma il pensiero marxista ortodosso non è in grado di fornire delle
risposte. Per questo parliamo di “marxismo critico”.
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Le nozioni di “giovani” e “anziani” si riferiscono a “età sociali” e designano la posizione di un
individuo nella scala della successione generazionale (lignatica, appunto) e non una giovinezza o
un’anzianità assolute.
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l’effetto del contatto con il modo di produzione capitalista, il modo di produzione
lignatico non scompare, ma continua a coesistere con quest’ultimo.
Infatti, nei casi come quello delle comunità agricole africane, dove terra e strumenti di
lavoro sono accessibili a tutti, l’unico controllo sui mezzi di produzione riguarda le
sementi, fondamentali per iniziare i cicli produttivi agricoli e le donne, in quanto
“produttrici di produttori”. Per questo motivo i “giovani” riceveranno una moglie che
li metterà in grado di avere una prole del cui lavoro potranno un giorno beneficiare
solo dopo essere stati al servizio degli “anziani” per un periodo più o meno lungo.
Uno dei temi “forti” dell’antropologia marxista riguarda il ruolo preminente della
parentela delle società tradizionali e il modo in cui tale preminenza poteva essere
conciliata con l’idea, propriamente marxista, di una storia determinata invece dalle
condizioni materiali di esistenza. Maurice Godelier affronta la questione attraverso
un riesame del rapporto infrastruttura-sovrastruttura.
Poiché gran parte delle eccedenze agricole e artigianali veniva incamerato dai templi,
la religione costituiva la principale struttura dei rapporti di produzione, rivestendo a
giudizio di Godelier un carattere infrastrutturale.
Nel corso degli anni ’80 essa ha però conosciuto un forte declino, dovuto in parte al
declino generale del marxismo come ideologia e in parte al crollo dei sistemi politici
che al marxismo si erano ispirati, anche se l’antropologia marxista è stata tutt’altro
che benevola con questi regimi. L’interpretazione data dall’antropologia marxista
(come anche quella derivante dall’antropologia dinamista, alla quale è strettamente
collegata) alle dinamiche sociali e culturali del mondo attuale è ancora presente in
molti studi teorici ed etnografici relativi al modo in cui le economie delle “periferie” del
mondo si intersecano con quella dominante. Se Marx aveva concentrato la propria
analisi sull’Occidente, l’antropologia marxista è andata al di là di questo confine,
rifiutando però l’applicazione dogmatica delle interpretazioni costruite su questa
specifica realtà.
LA TENDENZA “PRIMITIVISTA”
Nella Francia degli anni ’60 si manifesta una rinascita dell’ideologia primitivista,
manifestazione di un più ampio movimento intellettuale, particolarmente diffuso tra gli
antropologi, teso alla denuncia dello sterminio degli indiani sudamericani per lo
sfruttamento della foresta amazzonica.
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L’etnocidio, ovvero la distruzione di una cultura più debole da parte di un’altra più
forte e aggressiva diventa centrale nel discorso etnografico, che parte da un
atteggiamento di denuncia e sviluppa il rilancio del mito (questa volta in chiave
antropologica, non filosofica) settecentesco del “buon selvaggio”. Questi temi
riprendono elementi tipici della riflessione che Lévi-Strauss aveva espresso in Tristi
tropici parlando di società “fredde” (più vicine allo stato di natura) e società “calde”
(allontanatesi dallo stato di natura).
Sono proprio gli eredi diretti di Lévi-Strauss a rendere centrali i temi del “primitivo”,
delle “società fredde” e della “perdita” all’interno di un più vasto discorso
sull’etnocidio e sulla logica distruttiva della civiltà occidentale, contrapposta a quella
mite e armonica delle culture “lontane”. Pierre Clastres in La società contro lo
stato (1974) sviluppa il tema del primitivismo concentrandosi sull’analisi della natura
del potere nelle società amazzoniche.
Presso queste ultime, il capo viene designato sulla base dei meriti che acquisisce
comportandosi generosamente (donando i suoi beni) e saggiamente (parlando con
senno) nei confronti del gruppo. In cambio ottiene il privilegio della poliginia, ma
niente di più; il suoi potere non può esercitarsi in forme coercitive. Beni e parole a
vantaggio esclusivo del gruppo; donne a vantaggio esclusivo del capo. Il gruppo nega
al capo di oltrepassare la semplice funzione di moderatore e consigliere.
Questa particolare immagine delle società primitive porta ad una profonda frattura tra
i primitivisti e i marxisti. Clastres, infatti, si chiede per quale motivo inserire la società
primitiva in un discorso come quello marxista che intende ricostruire il funzionamento
delle società analizzando i processi generatori di disuguaglianza sociale.
Affermatasi in America dalla fine degli anni ’60, l’antropologia interpretativa nasce
nel 1973 con la pubblicazione di Interpretazione delle culture di Clifford Geertz. In
realtà, l’antropologia interpretativa fa parte della più ampia corrente
dell’antropologia simbolica, che considera la cultura come sistema di simboli e
significati in grado di determinare l’azione sociale. Se assumiamo la tendenza
generalizzante e quella particolarizzante come i poli dialettici dello sviluppo
disciplinare, la prospettiva interpretativa è sicuramente meglio rappresentata dalla
seconda. L’antropologia interpretativa sviluppa la propria riflessione su tre grandi
temi:
La prospettiva interpretativa riconosce quindi che la cultura e la vita sociale sono una
negoziazione di significati che avviene in un incontro che si costituisce in pratiche
realmente agite e rappresentate, comportamenti che sono sempre parte di
costellazioni di significato più ampie. Si tratta di pratiche di natura intersoggettiva e
non riducibili a stati psichici individuali o alle credenze personali. Osservatore e
osservato sono calati nella stessa situazione, l’incontro etnografico, e non esiste una
posizione privilegiata per descrivere che cosa succede. Il distacco, tipico di altri
campi di studio, tra colui che osserva e l’oggetto dell’osservazione non esiste; esiste
invece una circolarità ermeneutica tra due soggetti, entrambi produttori di
significati.
Poiché, oltre che simbolici, gli esseri umani sono anche “interpretanti”, devono
essere scartate anche le prospettive che pretendono di fondare il sapere
antropologico sulla semplice osservazione, come quelle che si illudono di poter
utilizzare un linguaggio “neutro” per descrivere i dati. Il dato primario è il “contesto
significante”, dato dall’interazione interindividuale, dialogica e negoziale tra
antropologo e informatore.
Clifford Geertz: Cultura come testo, descrizione densa e punto di vista del
nativo
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considerato un travisamento. Sembra quasi che Geertz identifichi l’antropologia
interpretativa con una forma di soggettivismo; in realtà non è così, poiché esplicita
anche che le interpretazioni soggettive non vanno bene per un campo di studi che
afferma di essere scientifico.
Raggiungere quello che Geertz chiama “il mondo concettuale” dei soggetti “altri”
significa esplorare tutti i significati la cui trama costituisce il testo della loro cultura;
tanto più che il significato non è un fato privato, ma intersoggettivo e questa è una
caratteristica che Geertz attribuisce alla cultura nella sua globalità. La cultura è
costituita da azioni simboliche e, quindi, da una rete di significati, proprio come un
testo o un insieme di testi che l’antropologo tenta di leggere.
La descrizione densa
Per una tale lettura, però, la semplice acquisizione del dato fenomenico (un
comportamento, un’affermazione) non è sufficiente. La cultura, come testo, ha una
sua coerenza e significazioni specifiche fatte di rimandi interni e riferimenti al
contesto. Il concetto di “descrizione densa” dovrebbe proprio spiegare che cosa
deve fare l’antropologo quando cerca di comprendere una cultura aliena. Un
semplice gesto può essere interpretato in modi diversi secondo il contesto, come
contrarre le palpebre volutamente quando esiste un codice pubblico in cui un tale
gesto ha uno specifico significato di intesa e non rappresenta un tic.
Dal punto di vista dei nativi è l’opera in cui Geertz sviluppa un esame comparativo
di tre modi di costituzione dell’idea di “persona” in tre contesti culturali diversi: Giava,
Bali e il Marocco. Geertz non intende però conferire alcun contenuto predefinito
all’idea di persona, ad esempio, preassegnando caratteristiche motivazionali,
emotive o cognitive di derivazione occidentale; egli intende invece considerare
l’esperienza del quadro concettuale che i Giavanesi, i Balinesi e i Marocchini hanno
del Sé.
Lo spunto per questo lavoro Geertz lo ricava dalle reazioni alla pubblicazione
postuma dei diari di Malinowsky, in cui questo studioso esprimeva il forte disagio che
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provava di fronte alle culture estranee, che spesso non gli erano comprensibili.
Geertz riconosce in ciò un problema epistemologico: come possiamo conoscere
un’altra cultura se non è possibile capire l’altro per empatia?
Dopo Geertz
Dalla metà degli anni ’70 ad oggi, sulla scia di Geertz si è sviluppata una corrente di
studi che ha accentuato l’approccio ermeneutico e dialogico nel rapporto tra
antropologo e informatore. Privilegiare questa esperienza sposta, in molti casi,
l’attenzione sul rapporto a scapito di uno sguardo più attento alle condizioni
concrete di vita di una popolazione, al comportamento, al cambiamento sociale e ad
altri fenomeni.
Gli informatori e le loro culture sono in genere stati collocati anche in un tempo
“altro”. La maggiore attenzione al rapporto tra antropologo e informatore e ai
processi dialogici alla base delle raccolta delle informazioni etnografiche tende
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invece a porre le due figure su di un piano di contemporaneità, restituendo all’”altro”
una parola precedentemente negata.
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