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UGO FABIETTI – STORIA DELL’ANTROPOLOGIA – RIASSUNTO

EVOLUZIONISMO (CAPITOLI 1,2,3)


CAPITOLO 1 – NASCITA DELL’ANTROPOLOGIA

Jauffret fondò la Societé des Observateurs de l’homme, con l’intento di paragonare costumi
abitudini delle popolazioni riportando “la luce” nei costumi moderni, esso era un piano di
ricerca nel quale lo studio dell’uomo si delinea come sapere empirico e come disciplina
teorica e infine come studio comparato.
Prima della società esistevamo solo resoconti di viaggi da parte di esploratori e soldati ma
nessuno poteva essere identificato come progetto scientifico.
Nel contempo però esistevano resoconti di missionari e letterati francesi che avevano
solamente l’intento di paragonare gli usi e gli stili di vita dei popoli selvaggi con quelli della
società parigina, Jean de Léry, Lafitau, de Montaigne e Rousseau.
Il libro di Latifau del 1724 rappresenta l’inizio di una nuova scienza, l’etnologia, furono infatti
descritti i costumi dei selvaggi americani (Uroni e Irochesi). In quest’opera egli adotta il
metodo comparativo, sostenendo che molte delle credenze su questi popoli fossero sbagliate.
Il metodo adottato distanziò l’opera da un’opera filosofica centrando il tema della religione.
Il contesto politico era quello dell’era dell’enciclopedia, di mettere il sapere della scienza al
servizio di tutti. Quindi il programma di questa nuova disciplina, che metteva l’uomo al centro
del discorso aveva tutti i suoi elementi.
Poco dopo uscì l’interesse per l’egittologia con la spedizione di Napoleone in Egitto
accompagnato da ogni sorta di studioso, ciò permise l’elaborazione dell’idea della superiorità
dell’Europa bianca, cristiana e tecnologicamente sviluppata nei confronti di tutti gli altri
popoli della terra.
L’osservatorio constava di esperti che avevano il compito di osserva l’umanità nella sua
variabilità. Osserva significava fare il primo passo per il principio stesso di Jauffret: il
confronto con la differenza.
In uno scritto datato 1800, De Gérando testimonia la novità del progetto di Jauffret, quello di
studiare gli usi i costumi delle popolazioni selvagge ponendosi però dalla loro parte e
cercando di capire attraverso la moderna prospettiva teorica illuminista il passaggio di stadi da
quello selvatico verso la civiltà, come se questi popoli avessero intatte le caratteristiche
dell’origine di tutti i popoli della terra.
La Société des Observateurs de l’Homme ebbe vita breve, Napoleone fece chiudere alcune
sezioni della società, definendo alcuni di loro come semplici ideologi e niente più.
50 anni dopo con la scomparsa della società e degli etnologi ritornò il discorso del selvaggio
stavolta visto però come un degenerato.
Per De Maistre il selvaggio non era appartenente ad uno stadio diverso di civiltà ma era
soltanto colui che era stato condannato al suo stato per via del peccato originale, esempio
della caduta della grazia divina.
Questa idea venne avanzata anche dal vescovo di Dublino Wathely che attaccando Smith (lo
stato di selvaggio era dato dalla divisione sociale del lavoro) confermò l’idea che il progresso
era dato da una forza esterna e quindi per volontà divina.
La teoria della degenerazione poggiava sull’idea che la storia dell’uomo fosse riconducibile
entro un arco di tempo delimitato dalla data di creazione del mondo ricavata dalla cronologia
biblica, che d’ora in avanti sarà ritenuta (la bibbia) come un documento storico.
É l’epoca delle idee di creazionismo ed evoluzionismo, la prima postulava che la variazione
delle specie viventi fosse da attribuire a forze esterne diverse dalla natura, l’evoluzionismo
con il lavoro di Darwin invece sosteneva che le specie viventi si fossero trasformate nel corso
del tempo in base all’ambiente e alle loro capacità di ambientamento ad una data variazione.
Passando all’epoca della restaurazione e quindi della variazione dell’assetto politico e sociale
della società l’Europa andò incontro ad un progresso scientifico senza pari che introdusse temi
nuovi come “progresso” appunto e “sociologia”, stadio ultimo del sapere, che grazie al
contributo di Comte in Francia e Spencer in Inghilterra portò alla luce una nuova disciplina
che si prefisse il compito di rispondere alle domande della società capitalistico-industriale.
La fiducia nel progresso permise la società moderna di poter utilizzare il proprio stadio
culturale come l’ultimo per un’analisi sul percorso progressivo culturale. L’antropologia si
mosse sul filo del progresso materiale e sociale.
Lyell e Darwin si fecero portatori dell’uniformismo (tema fondamentale dell’antropologia)
teoria che consentiva di fornire una spiegazione alternativa al creazionismo e di leggere il
risultato dell’azione uniforme di cause uniformi.
Con l’archeologo Lubbock sostanzialmente si paragonarono oggetti ed utensili primitivi
moderni a quelli trovati nell’Europa, ciò portò all’idea che i popoli avessero uguale sviluppo
intellettuale ma differente organizzazione sociale, tecnologica ed economica.

CAPITOLO 2 – ANTROPOLOGIA EVOLUZIONISTA NELL’ETA’ VITTORIANA

L’antropologia si sviluppa durante tutto l’impero britannico, anche grazie allo sviluppo
scientifico, permettendo all’antropologia di cercare prove empiriche cumulative.
L’antropologia fu una scienza ottimista così come la definì uno dei suoi fondatori (Tylor), che
per primo introdusse il concetto di cultura (nel libro “cultura primitiva” 1871).
Secondo Tylor la cultura è quell’insieme di conoscenze, credenze, arte, morale e diritto e
qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società. La
cultura è universale, è costituita da un insieme di elementi ed è acquisita, dall’uomo in quanto
membro della società e siccome le società sono tante e diverse esistono tante culture quante
tante società.
Il progetto dell’antropologia evoluzionista era quello di osservare (come quello della Société
illuminista) e quindi ricostruire il processo evolutivo, scomponendo gli elementi e
paragonandoli a quelli moderni si poteva determinare ciò. Il concetto di cultura risultò
adeguato a questo tipo di studio.
Anche Tylor come i suoi predecessori sosteneva l’inferiorità e la superiorità di alcuni popoli,
considerava però la cultura dei popoli selvaggi come lo stadio evolutivo più basso, come se i
popoli selvaggi fossero i nostri antenati. (Anthropology 1881).
Le prime tematiche messe in luce furono la religione e la parentela.
Egli dedicò gran parte dell’opera al concetto di animismo, indicando la credenza nelle anime e
negli esseri spirituali e sostenendo che anche gli oggetti inerti possedessero un’anima oltre a
quella dell’uomo.
Altro concetto è la sopravvivenza, credenza idea o pratica che anche se perita da secoli c’è,
esiste in quanto è esistita.
Concetto tipico dell’antropologia è la comparazione, esplicita e massiccia quella degli
evoluzionisti.
La cultura poteva però ad un certo punto prendere una strada diversa da altre culture è per
questo che si parla di “principio delle possibilità divergenti”.
All’interno dell’antropologia si inserirono anche i dati statistici che riemergeranno in quadro
comparativo come tipico della disciplina (esempio della couvade).
William Robertson Smith nel suo studio sulla civiltà semitica concluse che mettendo in luce il
rapporto tra religione fatta di pratiche e riti e la società l’una influenzasse l’altra o meglio mise
in luce il suo carattere socialmente coesivo.
Il sacrificio era per Smith non un rituale per ingraziarsi la divinità ma un rituale di comunione
con la società sottolineando il carattere coesivo della religione come come qualcosa che esiste
non per la salvezza delle anime ma per la conservazione e il benessere della società.
Egli sostenne con accurati studi che la società Araba pre-islamica fosse una società
matrilineare che con l’avvento dell’Islamismo si trasformò in una società patrilineare.
Nell’ottocento in Europa si sviluppò l’interesse di allestire musei e mostre che esibissero
prodotti della cultura primitiva dei popoli: Il primo fu Pitt-Rivers in Inghilterra poi seguito nel
1969 da Mantegazza in Italia, egli però orginò gli oggetti in base alla loro evoluzione
mostrando l’indice primario della stadio evolutivo dei diversi popoli della terra.
Haddon fu promotore della biologia dell’arte sostenendo che bisognasse trattare l’arte
scientificamente in quanto la biologia dell’arte è la storia della vita dei disegni.
Ultimo grande esponente dell’antropologia evoluzionista fu James Frazer che con la sua opera
“Il Ramo d’Oro” sosteneva l’ipotesi secondo la quale magia, religione e scienza avrebbero
costituito le tappe dello sviluppo intellettuale dell’uomo. Nella sua opera riattivava i motivi
teorico-ideologici dell’evoluzionismo vittoriano.
Con la fine degli ideali illuministici vittoriani della centralità dell’uomo anche gli studi e i
lavori dei grandi antropologi finirono per non essere più così ottimistici e positivisti come
nell’ottocento aprendo un’enorme crisi planetaria alla fine del secolo.

CAPITOLO 3 – LE ORIGINI DELL’ANTROPOLOGIA AMERICANA E LEWIS H.


MORGAN

Nell’America del 1800 le prime ricerche antropologiche si svilupparono attorno al mondo


degli Indiani d’America. Essi venivano visti in un’ottica negativa qualora non permettessero ai
bianchi di poter occupare il territorio di cui erano padroni ma allo stesso tempo c’erano molti
che sostenevano (Jefferson, 2° presidente USA) l’idea di far cambiare la loro economia dalla
caccia all’agricoltura così da poter rimanere proprietari legittimi delle loro terre e partecipare
allo sviluppo di una nazione in costruzione, mantenendo le loro caratteristiche. E’ qui che si
inserisce la ricerca di Lewis H. Morgan interessato allo stile di vita e ai costumi dei nativi
americani.
La pubblicazione de “La Lega degli irochesi” è del 1851, è il primo grande lavoro sulla vita
dei nativi, una descrizione accurata della lega delle 6 nazioni della federazione irochese.
Questa era una raccolta di lettere di Morgan che si legavano alla risoluzione di una causa
giudiziaria ai danni dei nativi, lì egli ebbe l’occasione di avvicinarsi al loro mondo e a
stringere amicizia con un capo di loro.
Il primo tema riguardò la complessa rete di parentela che legava le diverse nazioni, divise esse
stesse in tribù (con un nome di un animale), gli appartenenti a queste nazioni si chiamavano
tra di loro fratelli.
Ciò che egli volle mettere in mostra fu il fatto che un popolo “selvaggio” avesse saputo darsi
un ordinamento politico democratico e egualitario.
Ma soprattutto all’interno dello scritto c’era un disegno politico affinché si riportasse alla luce
con una buona via d’uscita il “problema indiano”.
Il primo studio riguarda soprattutto il sistema di parentela tra i sioux (egli infatti aveva
viaggiato molto e si era reso conto delle differenze anche tra gli stessi indiani). Notò che essi
davano ai loro parenti nomi diversi a seconda del sesso. Zio paterno e Zia materna erano
Padre e Madre, i cugini erano fratelli.
Inoltre egli sostenne che gli Indiani d’America provenissero dall’Asia (corretto) poiché le
caratteristiche di parentela erano simili alle popolazioni che abitavano l’asia.
Il linguaggio fu uno di quei fattori che cambiò maggiormente, così la sua ricerca si rivolse in
due direzioni, lo studio della parentela dei popoli dei nativi in America e quello dei popoli
extra-americani.
Alla luce di questionari e ulteriori studi raggiunse l’idea di classificare i sistemi di parentela in
due gruppi classificatori (nativi) e descrittivi (europei). Ciò sottolineò il carattere forte del
sistema di parentela dei nativi opposto a quello politico dei sistemi descrittivi.
Interessante fu anche lo spunto che portò Morgan a sostenere il tipo di sistema di parentela
come in evoluzione, come qualcosa di sopravvissuto, che nel corso del tempo si era
modificato e aveva portato al sistema descrittivo moderno.
Il modo di chiamare i parenti così nacque in un’epoca caratterizzata dal non saper distinguere
gli individui per questo Morgan la considera un’evoluzione. Il carattere familiare-parentale
venne sostituito dal carattere sociale-statale cosa che andò a contrastare anche il diritto di
territorialità.
Nel secondo libro “La società antica” del 1877 Morgan affrontò lo studio sul significato di
alcuni termini come parentela, sviluppo dell’idea di governo, sviluppo dell’idea di proprietà e
una relativa all’evoluzione della cultura e delle società umane.
Egli sostenne l’esistenza di periodi etnici, che venivano espressi nella sequenza “selvaggio-barbaro-
civilizzato (con l’aggiunta di tre sottoperiodi, inferiore-intermedio-superiore),
ciascuna riguardava i diversi gradi progresso di ciascuna fase storica.
Alla luce dello studio di Morgan la storia Americana può essere una rivisitazione della storia
dell’umanità, con le sue intuizioni (marx e engels lo tenerono sott’occhio) e anche con le sue
critiche (Società antica come espressione dell’antropologia evoluzionista superata).
Nel 1888 uscì il primo numero di American Anthropologist la rivista ufficiale degli
antropologi statunitensi. Al suo interno venne riportato il sistema delle riserve, create per
tenere al riparo la società indiana da contaminazioni esterne, ponendo l’accento sulla cultura
indiana come cultura primitiva ed emarginata.

PARTICOLARISMO STORICO, BOAS E LA SUA SCUOLA (CAPITOLI 7,8,13)


CAPITOLO 7 – GLI SVILUPPI DELL’ETNOGRAFIA AGLI INIZI DEL NOVECENTO

Con il declino dell’impero Inglese scesero in campo altre nazioni (Germania, Francia, Stati
uniti) che avrebbero contribuito in maniera rilevante allo studio antropologico per la fine del
‘800 e per tutto il ‘900.
Ma fu anche un periodo di ribaltamenti sociali oltre che politici, le teorie di Freud e Einstein
avrebbero rovesciato completamente la prospettiva degli antropologi positivisti ed
evoluzionisti, ora anche loro scoprino di possedere tracce di primitività.
Ad eccezione di Morgan quasi tutti gli antropologi ed etnologi (ancora separati nello studio)
avevano raccolto informazioni di terzi senza mai essere stati sul campo. Il sistema era quello
dell’invio di questionari (che avevano molti limiti) agli uomini sul posto, che avevano contatti
con i nativi.
Tra questi corrispondenti c’erano L. Fison e A. Howitt, attivi entrambi in Australia, essi erano
commissionati da Morgan, Tylor e Frazer. Nel loro lavoro ebbero un sguardo speciale per gli
aborigeni australiani, che stavano attraversando un periodo di disintegrazione sul piano
culturale e demografico.
Frazer era legato anche ad un’altro importantissimo etnologo W. Spencer e anche a F. Gillen.
Essi ebbero una conoscenza notevole della vita degli Australiani, talmente era la gratitudine
degli aborigeni nei confronti di questi due studiosi che li permisero di assistere alle loro
cerimonie e di fotografarle.
Le loro opere più note “The Native (and the Northern) Tribes of central Australia, permisero a
studiosi come Durkheim e Mauss di fondare le loro teorie sul Totemismo, sulle classificazioni
e le religioni primitive altri dopo sul concetto di parentela.
Nell’ultimo scorcio del 19° secolo si crearono delle vere e proprie survey (ricognizioni)
etnografiche che raccoglievano al loro interno informazioni sulle popolazioni (maggiormente
colonie dell’Imero Britannico) e sulle coste del Canada del pacifico che permisero
all’Antropologia di svilupparsi sul piano dinamico.
Erano rapporti di dati etnografici, linguistici, geografici, storici e ambientali, ai quali però, si
aggiungevano medici, biologi e psicologi. Il caso più rilevante fu quello della Spedizione allo
Stretto di Torres (lembo che separa l’Australia dalla Nuova Guinea), tra di loro vi era A. Cort
Haddon che aveva pubblicato un resoconto della sua esperienza a contatto coi nativi.
La Spedizione allo stretto di Torres costituisce una pietra miliare nella storia
dell’Antropologia. Con il suo lavoro (oggetti conservati nel museo etnografico di Cambridge)
seguirono altre spedizioni e una sostanziale trasformazione del ruolo dell’etnografo.
Tra in nuovi etnografi si citano Westermark, Seligman, Marett, Hocart, Layard e Rivers. Tutti
si recarono direttamente sul campo per raccogliere informazioni direttamente dai nativi in
Marocco, Melanesia, Africa e India, Polinesia e Nuove Ebridi.
In questo periodo si segna il definitivo abbandono del metodo comparativo di ispirazione
evoluzionista, portandosi appresso anche le survey e si segnò invece l’introduzione della
monografia etnografica (ricerche sul campo centrate su gruppi singoli).
Questo nuovo studio permetteva agli studiosi di aver informazioni più dettagliate e precise, in
particolare si mise in luce la relazione che intercorreva tra le comunità molto simili tra loro.
L’affermazione dell’antropologia vide però grandi ostacoli sopratutto da parte di molti
concorrenti, come geografi, storici, filologi, ma sopratutto missionari. Questi si erano installati
in ogni angolo del globo curiosi di conoscere i costumi dei primitivi, soggiornandoci anche
anni. Di grande rilievo furono Fison e Howitt in Australia, e Codrington in Melanesia (The
Melanesians, 1891). Diedero contributi notevoli alla conoscenza di questi popoli, ma erano
fortemente diversi dagli antropologi, che proteggevano le peculiarità dei primitivi e non
cercavano di trasformarli o farli convertire a qualche ordine religioso. Gli antropologi, in
quanto scienziati, cercarono un metodo per aver la meglio sui missionari, che vivevano a
stretto contatto con queste popolazioni, cercarono qualcosa che li potesse finalmente
qualificare nel mondo accademico come una vera e propria disciplina universitaria.
Nelle regioni di lingua tedesca l’antropologia non aveva avuto uno sviluppo pari a nazione
come Inghilterra e Francia. Nella seconda metà dell’800 lo studio era concentrato sulla
letteratura, sulle tradizioni popolari, sullo studio delle comunità contadine (volkskunde), sullo
studio dell’uomo sotto l’aspetto fisico (Anthropologie) e infine sullo studio dei popoli extraeuropei
(ethnologie).
Negli imperi della mitteleuropa non c’erano stati esempi di colonialismo extra-europeo solo
alla fine dell’800 e nel 900, ma meno sviluppato che in Francia e Inghilterra.
Il fondatore dell’antropologia mitteleuropea era Adolf Bastian, positivista convinto del
primato dell’osservazione sulla speculazione teorica (che imputava all’evoluzionismo
culturale).
L’antropologia mitteleuropea si distinse per tre caratteristiche: 1)straordinaria prolificità in
campo etnografico, 2) la sua natura diasporica 3)un’antropologia speculativa, irrazionale e
reazionaria.
Ci furono molti allievi di Bastian, tra questi i più rilevanti: Von den Steinen, Koch-Grunberg,
Schimdt, Musil. Il primo fu un americanista e oceanista, Koch-Grunberg studioso degli Indi,
Schmidt, lavorò in Sudamerica, mentre Musil, lavorò a Vienna, arabista e scrisse una
monografia sui beduini dell’Arabia settentrionale.
I fatti culturali e le ideologie nazifasciste in crescita, spinsero molti autori a trasferirsi in Gran
Bretagna e Stati Uniti producendo una vera diaspora etnologica (stessa cosa successe con la
Russia di Stalin).
In questo periodo si produssero teorie della storia culturale tendenzialmente degerazioniste,
gli autori furono comunque emarginati negli anni della nazificazione, perché considerati
ancora troppo moderati, ci furono anche molti che aderirono al Nazismo.
L’unico che non espatriò e godette di grande considerazione da parte di colleghi britannici e
Americani fu R. Thurwald.
Grande influenza ebbero le teorie di alcuni geografi come F. Ratzel, sostenendo la superiorità
razziale di un popolo su un altro e coniò l’espressione di spazio vitale, indicando la meta dei
popoli germanici. Tutti gli studiosi che vennero dopo si rifecero a Ratzel piuttosto che a Bastian.
Durante gli ultimi anni dell’Ottocento nacque la cosiddetta “Storia dei cicli naturali” sulla
spinta di Storia Culturale.
I concetti piu interessanti di questa teoria sono l’idea di diffusione: le similitudini riscontrabili
tra popoli geograficamente lontani erano imputabili alla diffusione culturale (contro la teoria
evoluzionista).
Nonostante si discosti molto dalle tesi evoluzioniste egli riconosceva il carattere unitario
dell’uomo e delle sue facoltà intellettuali, esprimendo questa posizione con il concetto di idee
elementari.
Attraverso lo studio di oggetti, utensili dei vari musei questi studiosi elaborarono la teoria
della diffusione di ciò che chiamarono strati o cicli culturali.
Il ciclo era una insieme di elementi di cui era possibile verificare la compresenza in una
determinata area del pianeta.
L’esponente teorico di maggior spicco fu F. Graebner. Egli lavorò in Oceania, suo progetto era
individuare tratti culturali riconducibili ai rispettivi cicli.
Un limite della teoria di Graebner era la compresenza di tratti culturali formanti un ciclo
naturale, distinto da altri. La similitudine tra i cicli era difficilmente sostenibile e avevano basi
speculative.
Venivano collegati tra di loro in maniera troppo arbitraria e poco organica (massima critica del
diffusionismo). Graebner voleva dimostrare la migrazione e la diffusione dei cicli e quindi
l’influenza di una cultura sull’altra.
Ebbe pochi risultati come per esempio la diffusione della cultura del Sudest asiatico su quella
del Madagascar.
Poco dopo fu il tempo di Schmidt, che fece di tutto per emarginare quegli etnografi che non
condividevano le sue idee diffusioniste. Schimdt fondò una vera e propria scuola (30-40),
scuola di vienna, alla quale appartennero grandi etnologi come P. Schebesta e M. Gusinde.
Con “l’origine dell’idea di Dio” Schimdt volle costruire un’opera monumentale, in quest’opera
accentuò il lato degerazionista del diffusionismo. Volle dimostrare tra questi popoli l’esistenza
di un’essere superiore (Dio), e se nel tempo si fosse sbiadita di recuperarla ma infondo essi
erano pur sempre dei missionari.
CAPITOLO 8 – LO SVILUPPO DELL’ANTROPOLOGIA NEGLI STATI UNITI E LA
SCUOLA DI BOAS

Gli istituti di ricerca del tempo promossero uno studio degli Indiani d’America in Canada sulle
coste del pacifico, il progetto che era diretto da H.Hale, era seguito dall’etnografo tedesco
Franz Boas che divenne la figura di maggior rilievo dell’antropologia Americana.
Egli aveva già lavorato tra gli Eschimesi, concepì il lavoro sul campo come studio di singole
culture o di aree culturali particolari. Il fatto di concentrarsi in aree particolari costituì il
prologo di quel Particolarismo che fu la condizione preliminare di ogni progetto di tipo
comparativo, questo fu il principio della “North Jesup Expedition” in America Occidentale.
Boas fu un grande intellettuale che interessò anche della lotta al razzismo, fu curator
dell’American Museum of Natural History e allevò due generazioni di antropologi dai nomi
illustri.
Nel 1911 pubblicò “L’uomo Primitivo” che sottolineava il carattere unitario del genere
umano.
“I limiti del metodo comparativo dell’antropologia” fu il testo più noto contro le teorie
evoluzioniste. Soprattutto ciò che concerne l’esistenza di clan e totem (secondo gli
evoluzionisti, presenti solo nei popoli primitivi) e l’esistenza di clan che per gli evoluzionisti
si erano unificati, per Boas si erano invece segmentati.
Boas riteneva che l’obiettivo fondamentale dell’etnologia restasse la conoscenza delle cause
storiche che avevano determinato la forma dei tratti culturali propri di una certa popolazione,
e ciò poteva avvenire esclusivamente qualora l’indagine fosse stata circoscritta ai costumi
nella loro relazione alla cultura complessiva della tribù che li pratica. Queste considerazioni
costituivano i principi fondamentali del metodo storico (particolarismo storico), conoscenza
delle culture singole.
Il particolarismo storico di Boas trasse ispirazione dalla filosofia storicista e neokantiana
tedesca sulla divisione tra scienze della natura(ricerca di leggi che regolano i fenomeni
naturali) e scienze dello spirito(conoscenza storiografica e particolare).
Tra il 1894 e il 1895 condusse una ricerca tra i gruppi nativi della costa Americana (gli
Kwakiutl) insieme a G.Hunt suo grande collega e allievo.
Egli analizzò una istituzione in questo gruppo, il potlatch.
Il Potlatch è un insieme di pratiche rituali di ostentazione che prevedevano la distruzione di
grandi quantità di beni considerati “di prestigio”. Il rituale si manifestava come sfida tra
individui dello stesso status sociale per affermare pubblicamente il proprio rango, di abbassare
quello del rivale o di riacquistarlo. Tra questi popoli vigevano classi sociali e anche schiavi, il
potlatch serviva a riequilibrare il sistema sociale. Egli parlò anche di investimento, vendita,
interesse e capitale, cercando di trovare un lato economico in un contesto assolutamente
lontano. Di fatto egli invece presentò valori che comunque portarono l’antropologia ad un
passo in avanti.
Boas non sottovalutava neanche l’impatto psicologico dell’individuo con la propria cultura, il
che contribuiva a riprodurre e modificare gli stessi modelli di comportamento.
Nella sua prospettiva i processi psicologici divenivano la realtà oggettiva della vita sociale
stessa, quindi il criterio di fedeltà di una ricerca etnologica si basava sulla capacità
dell’etnografo di cogliere la realtà sociale nella rappresentazione che di essa si facevano i
membri della popolazione studiata.
Kroeber fu il primo studente a laurearsi sotto la guida di Boas. In “Spiegazione mediante
cause ed origini” egli criticò le teorie sull’origine del mito basate su un tipo di spiegazione
mono-causale.
Tali teorie si presentavano per Kroeber come aggregati di una serie di tendenze indistinguibili,
dando luogo al mito specifico.
Kroeber criticò fortemente l’evoluzionismo culturale per ciò che concerne i sistemi di
parentela di Morgan.
Per Morgan questi esprimevano la natura dei rapporti e delle istituzioni sociali per Kroeber
invece riflettevano la psicologia, veicolati dal linguaggio, dei soggetti culturali.
L’importanza del lavoro di Kroeber sta nell’aver lasciato intendere che le terminologie di
parentela non devono essere considerate solo in riferimento alle relazioni sociali.
Egli evidenziò otto principi che regolano la costituzione di tutti i sistemi terminologici.
1. Differenza tra persone della stessa generazione e di generazioni diverse
2. Differenza tra parentela in linea diretta e in linea collaterale
3. Differenze d’età nell’ambito della stessa generazione
4. Il sesso del parente
5. Il sesso di colui che parla
6. Il sesso dell’individuo attraverso il quale passa la relazione di parentela tra chi parla e
colui di cui si parla
7. Distinzione tra parenti consanguinei e acquisiti per matrimonio
8. La condizione di vita attraverso cui passa la relazione tra chi parla e colui di cui si parla.
Alcuni sistemi tengono conto degli 8 principi, il sistema italiano solo 4 (1,2,4,7).
La scelta del livello linguistico come esclusivo di comprensione delle terminologie di
parentela negava l’esistenza di quel rapporto causale tra pratiche matrimoniali e terminologie di
parentela che Morgan aveva postulato.
Boas intendeva sostenere 3 cose: sosteneva priva di fondamento la pretesa di ricostruire
l’evoluzione della cultura umana a partire dallo studio dei popoli primitivi, che il pensiero dei
primitivi era analogo a quello dei civilizzati, infine che natura e cultura erano due cose
distinte, mentre il razzismo voleva collegarle. Queste teorie contrastarono con la politica
razzista del periodo inoltre in questo periodo era dilagante il concetto di “darwinismo
sociale”, ideologia sociologica-politica che ipotizzava una continuità tra l’ordine biologico e
quello sociale, un’ideologia auto celebrativa, individualista e poco attenta alle fasce sociali
meno favorite. Ciò servì a molti di quelli che continuarono lo studio di Boas a rendere
autonoma la natura dagli altri aspetti della vita umana.
Nel 1917 uscì “Il superorganico” un saggio dove Kroeber affermava la discontinuità tra il
livello dei fenomeni culturali e quello di altri fenomeni, biologici e psichici.
Durante questo periodo si diffusero studi di ricerca che ponevano al centro della propria
attenzione la distribuzione geografica delle culture indiane, i loro contatti e prestiti reciproci
sul piano della cultura materiale, dell’organizzazione sociale e della vita religiosa.
Sistemazione e catalogazione basati su un principio di diffusione.
All’interno di questa teoria la nozione di area culturale assunse un ruolo centrale, in quanto
veniva designata l’area geografica entro la quale erano presenti determinati tratti e credenze,
Una tale concezione si trasformò nella questione di determinare la distribuzione dei tratti
culturali, pensata come conseguenza di processi di diffusione dei tratti medesimi.
In un lavoro di definizione delle culture aborigene, è rilevante il lavoro di Clark Wissler,
direttore dell’American Museum of Natural History di New York, che lo spinse ad un lavoro
di classificazione delle culture indiane sulla base del criterio delle loro relazioni con
l’ambiente.
L’assunto era quello di una diffusione di tratti simili da parte di un centro culturale, centro di
irradiazione.
Con la nozione di area cronologia Wissler tentò di assegnare una dimensione temporale al
processo di diffusione: i tratti più lontani dal centro dovevano essere quelli più antichi, quindi
quelli originari.
Ci furono molte critiche a queste teorie, soprattutto da parte dell’etnolinguista E. Sapir,
anch’egli allievo di Boas. In “la prospettiva temporale nella cultura aborigena americana
(1916), Sapir fece osservare che i tratti non si diffondevano in maniera uniforme in tutte le
direzioni, quindi era difficile attribuirne l’origine.
Importante è la sua critica al diffusionismo della scuola austro-tedesca e alla teoria degli strati
(cerchi), che non sono definiti nella loro integrazione.
Il problema della geo-localizzazione spinse gli autori fino agli anni ’50 del ‘900, mentre il
diffusionismo non si propose una ricostruzione globale dei processi di diffusione delle culture
umane ma di rendere conto della definizione e della distribuzione delle aree culturali indiane
del continente nordamericano.

CAPITOLO 13 – USA 1930-1950: L’INDIVIDUO NELLA SUA SOCIETA’

Nel corso degli anni ’20 dalla riflessione di Kroeber e degli allievi di Boas nacque una
prospettiva che prese il nome di “configurazionismo”, termine che si riferisce all’idea secondo
la quale ogni cultura costituisce il prodotto dell’interazione di più modelli culturali o
configurazioni.
Di questa prospettiva se ne occupò Ruth Benedict, allieva di Boas, che sosteneva che il
significato di un tratto culturale era conseguenza del modo in cui si collegava agli altri tratti
venendo a far parte della stessa configurazione, la cultura quindi era una configurazione nella
quale gli elementi interagiscono l’uno con l’altro producendo modelli significanti.
Il primo studio della Benedict riguardava la credenza dello spirito guardiano tra gli indiani del
Nordamerica, entità sovrannaturale che assisteva l’individuo nel sue imprese di caccia o di
guerra e che gli si rivelava attraverso un sogno o una visione.
Questo tratto si riferiva nelle varie culture a diversi rituali specifici.
Con “Modelli di cultura” del ’34 venne sviluppata l’idea secondo la quale la modellizzazione
operata all’interno di ogni società sugli elementi della cultura produceva un modello culturale
medio.
Si avvicinò agli evoluzionisti presentando le culture come complessi integrati.
Tra gli antropologi che svilupparono una visione originale dei rapporti tra individuo e società
ci fu Gregory Bateson, allievo di Malinowski.
Esordì con una ricerca sul campo in Melanesia ma fu tra gli “Iatmul” della Nuova Guinea che
compì ricerche che lo consacrarono come brillante antropologo. Pubblicò nel ’36 Naven
(nome di un rituale iatmul), partendo dallo studio di questa cerimonia ne analizzò le
implicazioni psicologiche, economiche, politiche ed etiche.
Il Naven era un rituale di travestimento che veniva celebrato quando un giovane compiva la
prima vera azione meritevole. I suoi parenti si vestivano con abiti dell’altro sesso mimando i
comportamenti dei sessi, fragilità della donna, fierezza dell’uomo. In questo rituale un ruolo di
primo piano ce l’ha il “wau” il fratello della madre dell’individuo (laua), in onore del quale si
celebra il naven.
Il travestimento segnava la contrapposizione tra ethos(tono emotivo) ed eidos (ideale locale).
Questi due concetti riprendevano il concetto di configurazione della Benedict.
Nella parte centrale del Naven Bateson sviluppò la nozione di “Schismogenesi”, dove L’ideale
maschile Iatmul è intriso di una profonda fierezza e crudeltà (eidos), che non contempla la
possibilità di esprimere sentimenti (ethos), attitudine che è considerata invece esclusivamente
femminile. Durante il rituale del naven, grazie al travestimento, gli uomini hanno modo di
esternare sensazioni emotive e le donne possono ostentare fierezza, possibilità negate nel
quotidiano.
Bateson notò che l’accentuarsi dell’adesione al modello maschile (fatto di forza, coraggio,
fierezza, aggressività) da parte del marito ingenera nella moglie un atteggiamento di
sottomissione via via crescente. Questo fenomeno se non interrotto dall’esterno (o come in
questo caso dal rito naven) può portare ad estreme conseguenze, disgregazione sociale o
schizofrenia.
Un aggiustamento dell’equilibrio tra ethos ed eidos poteva frenare questo meccanismo.
Un grande contributo all’unione di antropologia e psicoanalisi la diede Abram Kardiner,
allievo di Boas e poi in analisi con Freud così psicoanalista anche lui.
Al seminario della Columbia University si avvicinò a Ralph Linton che era in possesso di una
grande esperienza etnografica in Madagascar, in Polinesia e negli Stati Uniti. Egli era in grado
di dare a Kardiner tutto il materiale necessario per l’elaborazione delle sue teorie e sulla
formulazione di quella che chiamò “personalità di base”, sviluppate nel libro del ’39
“L’individuo e la sua società”.
La personalità di base è per Kardiner una struttura in cui concorrono quelle che lui chiama
istituzioni primarie e istituzioni secondarie. Le i.p. Sono ciò che contribuisce a plasmare la
personalità degli individui nella fase infantile della loro esistenza. Le i.s. Sono quegli elementi
culturali che una società elabora allo scopo conciliare le tensioni derivanti dalle i.p. Sulla
psiche, cioè religione, miti, leggende e tabù.
Nelle intenzioni di stabilire un ordine di priorità nel processo di formazione centrale è il
concetto di proiezione. L’individuo elabora, nel corso dell’infanzia, una particolare immagine
delle figure parentali e le proietta nel quadro delle istituzioni secondarie (mito-religione).
Non mancano le critiche ai funzionalisti, a Freud e alla stessa Benedict (l’integrazione di cui
parla è lei è diversa da come la intendiamo noi).
Kardiner inoltre utilizzò anche i dati dei suoi pazienti oltre a quelli di Linton su Madagascar e
Polinesia.
La prima uscita dallo studio delle popolazioni del continente americano si deve a Margaret
Mead, allieva di Boas, compì studi nelle isole Samoa, in Polinesia a cavallo tra il ’26 e il ’27.
In seguito a degli sconvolgimenti nella società America di quegli anni, ci si concentrò sulla
socializzazione all’interno di queste società, prendendo in esempio la teoria superorganica
della cultura di Kroeber e la concezione Boasiana delle dinamica sociale come prodotto delle
reazioni dell’individuo nei confronti della sua cultura.
Il primo lavoro della Mead si intitolava “L’adolescenza a Samoa” (1928). Era uno studio
focalizzato sul periodo di vita adolescenziale della donna Samoana. Ne risultò che
l’adolescenza in una società primitiva era meno esposta a traumi di quanto non fosse quella
occidentale, questo per la mancanza di messaggi concorrenziali, produttivistici e il carattere
monodimensionale nel scelte del giovane.
Ciò mostrava che a modelli culturali diversi corrispondessero modelli educativi differenti.
Il suo lavoro costituiva una rottura nei confronti della mentalità ristretta degli ambienti
statunitensi e un grande contributo agli studi sulla socializzazione e sulla formazione della
personalità nel contesto delle culture primitive oltre che del tema della sessualità ripreso più
tardi con “Sesso e temperamento in tre società primitive” del ’35 e “Maschio e Femmina” del
’49. In questi studi inaugurò lo studio delle differenze di genere. I suoi lavori erano rivolti ad
un pubblico di specialisti e di educatori, rivolti a contribuire alla critica dell’etnocentrismo e
del razzismo.
Il contributo dell’antropologia della Benedict e della Mead era rilevante per dare evidenza alle
forme culturali diverse e non per questo inferiori a quelle occidentali, contribuendo ad
introdurre in antropologia il concetto di “relativismo culturale” (idea secondo la quale
un’azione o un valore devono, per poter essere compresi, considerati all’interno del contesto in
cui si collocano, non giustificare ma comprendere e collocare le cose al posto giusto).

ETNOSOCIOLOGIA FRANCESE (CAPITOLI 4,6)


CAPITOLO 4 – TRA SOCIOLOGIA , FILOSOFIA ED ETNOLOGIA: LA RIFLESSIONE
FRANCESE SULLE SOCIETA’ PRIMITIVE

La novità della Sociologia francese ma soprattutto nel lavoro di Comte prima e di Emile
Durkheim dopo stava nella riflessione sulla coscienza collettiva, che era sovraindividuale,
indipendente, dotata di una logica di sviluppo autonoma ed era un concetto applicabile a tutte
le società, perciò la stessa sociologia per Durkheim era un sapere comparativo che prendendo
in esame il maggior numero di società poteva giungere alla conoscenza delle leggi della vita
sociale.
Passò quindi all’Etnologia direzionando i propri interessi verso le società primitive.
Tra gli scritti figurano “coscienza collettiva” e “ La divisione del lavoro” del 1893, dove egli
mette in luce la diversa intensità della coscienza collettiva nel società, dove più forte la
solidarietà è di tipo meccanico, dove invece è l’individuo a prevalere rispetto alla società si
parla di solidarietà di tipo organico. Per Durkheim le società vivono in una zona mista tra
queste posizioni estreme.
Nel “Le Forme elementari della vita religiosa” del 1912, Durkheim analizza tutti quegli
elementi della religione che entrano a far parte dei sistemi sociali, arrivando alla conclusione
che esistono religioni superiori ad altre però esse stesse rispondono alle stesse necessità,
assolvono la stessa funzione.
Secondo D. la religione era presente in tutte le società semplici. Egli pose il totemismo (un
gruppo di identificava con un animale, una pianta, o un fenomeno naturale, che rappresentava
l’antenato) come il sistema religioso più semplice, al cui interno agivano rappresentazioni di
natura collettiva che alto non erano che la proiezione del gruppo sociale, quindi in realtà
l’individuo rispettando e adorando il totem inconsapevolmente stava rispettando e adorando il
clan.
Le religioni secondo D. costituivano un fenomeno unitario, era sotto il culto del totem che il
clan si sentiva unito e si rispettava.
La religione appare come un sistema di rappresentazioni e di riti attraverso i quali gli
individui sono partecipi misticamente e collettivamente del corpo sociale, con questo però
Durkheim non volle intendere che ciò era un culto della società ma volle sottolineare il
dominio esercitato dalla dimensione sociale-collettiva.
Ne “le regole del metodo sociologico” D. considerava i fatti sociali come insieme di azioni e
rappresentazioni identificabili sulla base del potere che essi avevano di esercitare una
costrizione sugli individui, all’esterno determinavano il comportamento degli individui.
Sulla linea di pensiero di Durkheim si unì Lucien Lévy-Bruhl che costituì L’Institut
d’Ethnologie, fondato nel 1925.
Nell’opera “La morale e la scienza dei costumi” del 1903 L.B. Risponde al tema
dell’esistenza della morale oggettiva, sostenendo che prima di parlare di morale oggettiva si
dovesse prima assumere dell’esistenza della natura umana. La teoria secondo L.B. Non può
fondare alcuna morale, ma può solo studiarla. E’ in questo testo che L.B. Compì la sua
rivoluzione etnologica avvicinandosi sempre di più all’etnologia e avvalendosi delle ricerche
sulle società primitive, in relazione alle forme di pensiero (le funzioni mentali o il “pensiero
primtivo”).
In “Psiche e società primitive” criticò la tradizione dell’evoluzionismo inglese, infatti le
rappresentazioni collettive per quanto bizzarre non erano errori di valutazioni di un popolo
grezzo come sostenevano gli evoluzionisti ma erano veri e propri fatti sociali, il che stava a
sginificare già l’esistenza di una data società in un dato momento. Il gruppo sociale primitivo
viveva così un’esperienza mistica, che si realizzava nelle pratiche mistiche, in questo contesto
l’individuo non aveva la possibilità di sviluppare un giudizio proprio o di praticare la magia
senza tener conto dei risultati che potevano essere ottenuti,in quanto è la rappresentazione
collettiva che impedisce loro di concentrare l’attenzione sui dati dell’esperienza oggettiva.
La tendenza della mentalità primitiva che mirava a coordinare tra loro le rappresentazioni
mistiche vennero definite come “partecipazione”.
Ne “la mentalità primitiva” del 1922, sostiene l’idea della natura pre-logica della mentalità
primitiva, che non significa meno evoluto, ma a-scientifico, a-critico e che indica una
differenza di tipo qualitativo con la mentalità del civilizzato.
Ciò però riportava in una via traversa L.B. Ad una sorta di etnocentrismo molto criticato.
Soltanto nella sua opera postuma “Quaderni” egli ritornò indietro con le proprie idee
sostenendo che il prelogismo e gli atteggiamenti mistici facessero parte anche della società
positiva e scientifica.

CAPITOLO 6 – L’ETNO-SOCIOLOGIA FRANCESE

Il linea con il lavoro di Durkheim si inserì R. Hertz di cui si hanno poche opere, per via della
sua prematura scomparsa, tra queste: “Contributo allo studio sulla rappresentazione collettiva
della morte” e “La preminenza della mano destra. Studio sulla polarità religiosa” (1907-
1909), comparvero entrambe sulla rivista L’Année sociologique di Durkheim.
Egli fu l’iniziatore della così detta Antropologia Alpina, uno studio sul santuario di San Besso
a Cogne, ma fu l’unica ricerca sul campo.
Per Hertz al contrario degli evoluzionisti e in linea con Durkheim le credenze primitive
relativo alla morte erano rappresentazioni collettive, processi condivisi da tutti i membri.
La morte egli sostiene recide il legame di coesione di un gruppo, per questo essi devono
ritualizzare la morte per rendere meno forte il distacco, attraverso i riti funebri.
Nell’osservazione dei riti funebri delle popolazioni del Borneo Hertz notò il fenomeno delle
due sepolture, una veloce subito dopo la morte, la seconda qualche tempo dopo, più solenne.
La seconda spinse all’attenzione Hertz, era il segno di una vera rappresentazione collettiva di
addio al defunto e di inserimento nel mondo dei morti e degli antenati.
La morte è pensata come una transizione dal mondo dei vivi al mondo dei morti o da una
condizione sociale ad un’altro come dirà Van Gennep.
Nel secondo lavoro, “Preminenza della mano destra” egli sostenne che la preminenza della
mano destra era una vera e propria istituzione sociale che andava analizzata.
Nel sapere comune la destra o la parte destra significava forza, rettitudine e buon senso, la
sinistra invece era inquietudine e avversione. Questo bipolarismo richiama in causa il concetto
di sacro/profano, di maschio/femmina e di chiaro/scuro.
Durante gli anni degli studi delal scuola di Durkheim si sviluppò il lavoro di A.Van Gennep, uno dei
padri fondatori di etnologia e folklore. Il suo lavoro del 1909 “I riti di passaggio” non
venne visto di buon occhio, poiché secondo i durkheimiani egli aveva riportato in auge il
sistema comparativo degli evoluzionisti.
La novità del suo lavoro riguarda appunto i riti di passaggio, per la quale la vita dell’uomo era
scandita da una serie di riti che celebravano il passaggio da una condizione sociale ad un’altra
riprendendo il concetto di dualismo tra sacro e profano, con il primo che prevale sul secondo.
Van Gennep distinse all’interno di ciascun rito tre fasi: separazione(riti preliminari), margine
(riti liminari) e aggregazione (riti postliminari), con la fase centrale più importante e delicata.
Egli però rispose alle critiche sull’evoluzionismo delle sue idee che l’interesse doveva
concentrarsi sulle connessioni logiche tra le fasi e non sulla somiglianza dei contenuti tra riti.
Nel 1920 esce “Lo stato attuale del problema totemico”, dove critica l’idea di Durkheim e
Mauss che il totemismo sarebbe stata all’origine di ogni forma di classificazione della realtà,
sociale e naturale, in quanto ogni popolo ha un proprio sistema di classificazione senza
neanche aver mai sentito parlare di totemismo.
Marcel Mauss fu forse l’ultimo grande allievo di Durkheim, insieme a Levy-Bruhl fondò
L’Institut d’Ethnologie dell’università di Parigi.
Uno dei primi lavori di Mauss fu quello dedicato allo studio delle forme primitive di
classificazione, nel saggio prese spunto dalla società australiana che era divisa in classi
matrimoniali e perciò sostennero che tutto era classificato secondo criteri omologhi.
Ad una variazione nella società corrispondeva una variazione nell’ordine del sistema di
classificazione. L’elemento rilevante di questo lavoro è rappresentato dall’idea di una
omologia strutturale tra la dimensione sociale e quella simbolica. L’ipotesi dell’omologia
strutturale era ciò che avrebbe consentito a Mauss di spingersi verso guegli elementi del
sociale suscettibili di coinvolgere i livelli sociali, i fatti sociali totali.
L’opera che rappresenta questo concetto è “Saggio sulle variazioni stagionali delle società
eschimesi”. In quest’opera venne presa in evidenza l’aggregazione degli eschimesi in inverno,
fatta di riti, feste e relazioni sociali e la disgregazione in estate per via della caccia. Si mise
l’accento su questa bipolarità. Così grazie ad un aspetto particolare, in quanto fatto sociale
totale,si potesse gettare lo sguardo su una molteplicità di altri elementi della vita sociale.
Qualche anno dopo si dedicò all’opera “Saggio sul dono”(1923-24), costruito in gran parte sui
lavori di Boas sul Potlatch e di Malinowski sullo scambio cerimoniale del kula.
Questi fatti sociali totali si collegavano ad un principio più generale di reciprocità.
Mauss voleva sostenere che la società imponeva agli individui di comportarsi in base a delle
regole.
Tre erano le regole:dare, ricevere e ricambiare. L’interruzione dello scambio si sarebbe
trasforamtato in un danno per il trasgressore della regola.
Egli fu influenzato dalla teoria degli Hau presente tra i Maori. Lo Hau sarebbe lo spirito della
cosa donata che pone colui che la riceve in una posizione di debito nei confronti del donatore
e lo obbliga a ricambiare per restaurare una specie di equilibrio delle forze. Gli individui
svolgevano solo il ruolo di attori mentre le unità sociali che entravano in gioco erano gruppi
più vasti come clan e tribù.
Secondo Levy-Strauss questa intuizione rappresentava un grande progresso poiché affrontava
un problema etnografico e non da nozioni occidentali.
Egli però sostenne che l’Hau non è la ragione ultima dello scambio ma la necessità la cui
ragione è altrove (principi inconsci).
Questo lavoro permise di comprendere meglio le società primitive sia dal punto di vista
economico sia di aprire nuove prospettive nello studio sulla parentela.

IL FUNZIONALISMO E LO STRUTTURAL-FUNZIONALISMO (CAPITOLI 9,10,14)


CAPITOLO 5 – TRADIZIONI POPOLARI ED ETNOLOGIA IN ITALIA
La tradizione italiana si è ispirata principalmente alle tradizioni popolari o demologici, poco
presenti gli studi su popolazioni extra-europee. Il ritardo italiano era dovuta alla creazione
della nazione in ritardo rispetto agli altri paesi protagonisti dei lavori antropoligici.
La ricerca si concentrò su costumi ma soprattutto di canti delle popolazioni regionali italiane,
con gli studi di La Marmora (ufficiale esercito piemontese) in Sardegna e la raccolta di canti
di Tommaseo.
Nella seconda metà dell’Ottocento si mirò alla costruzione e diffusione delle forme liriche
della penisola, i maggiori rappresentanti furono A. D’Ancona e C. Nigra, quest’ultimo
rilevante per la sua teoria del sostrato etnico. Secondo Nigra l’Italia si presenta divisa in due
aree geografiche di lirica: una superiore (nord, appennino tosco-emiliano) e una inferiore
(tutte le altre regioni a sud). La prima area era principalmente a carattere narrativo
storicoromanzesco e la seconda all’elemento lirico-amoroso.
Altri studiosi importanti furono P. Mantegazza, T. Vignoli e G. Pitré. Mantegazza, lumbard, fu
un fervente sostenitore dell’evoluzionismo Darwiniano in Italia e fondò il Museo di
antropologia e di Etnografia di Firenze 1969. Vignoli, toscano, anche lui evoluzionista, fu
professore di Antropologia all’Accademia Reale di Milano. Pubblicò nel 1879 “Mito e
Scienza” apportando sviluppi interessanti all’Iconologia.
Pitré, medico siciliano, fu il primo iniziatore degli studi demologici nel nostro paese grazie
anche ad una grande raccolta etnografica, soprattutto siciliana, che portò alla creazione della
biblioteca delle tradizioni popolari siciliane (1871-1913). Nella raccolta c’erano storie,
proverbi, credenze, favole siciliane. Fondò inoltre il Museo Etnografico di Palermo che porta
il suo nome.
La figura più rilevante dell’etnografia italiana fu Lamberto Loria, nato ad Alessandria d’Egitto
da genitori Italiani ebbe modo di viaggiare molto e le sue raccolte sono custodite nei vari
musei di Roma e Firenze.
Nell’ultimo periodo della sua vita però si appassionò alla cultura della gente italica,
abbandonando l’etnografia esotica.
Nel 1906 fondò a Roma il Museo di Etnografia Italiana (ora Museo Nazionale delle Arti e
Tradizioni Popolari) e nel 1910 fondò la Società di etnografia Italiana.
Nel 1911 per il cinquantenario dell’Unità d’Italia organizzò la Mostra di Etnografia Italiana.
La mostra presento vecchi e mal ridotti costumi popolari rattoppati in modo da creare un
effetto illusorio di autenticità.
Poco dopo fu organizzato il Convegno della Società Etnografica, comprendente una numerosa
serie di interventi ispirati dalle correnti europee.
L’entusiasmo presto però si affievolì per via della scomparsa di Loria stesso, per l’inizio del
primo conflitto mondiale ma soprattutto per il clima culturale italiano dell’epoca, inoltre va
collocato anche l’abbandono dello studio etnografico in favore di quello demologico.
A seguito di questo fatto furono molti a sostenere che la prevalenza dello studio demologico
era stata favorita dalla breve esperienza coloniale italiana, altri della mancanza del nostro
paese dell’influenza del naturalismo positivistico.
Ma soprattutto dal legame che l’antropologia italiana strinse con il regime Fascista e
l’ideazione del manifesto della razza.
Non è da sottovalutare in ultima analisi però le profonde differenze sociali, culturali e di
lingua tra le regioni Italiane che aveva portato gli studiosi borghesi o nobili a studiare il sud
Italia ancorato ad un mondo fermo in contrapposizione ad un nord urbano e industriale.
CAPITOLO 9 – LA RIVOLUZIONE ETNOGRAFICA IN GRAN BRETAGNA. DA
RIVERS A MALINOWSKI

Nel 20° secolo ci fu un declino delle teorie evoluzioniste, con l’ascesa invece dell’etnografia
sopratutto in Gran Bretagna, che mise al centro del discorso antropologico il lavoro sul
campo, queste ricerche furono curate da due grandi studiosi che portarono ad una grande
rivoluzione dell’etnografia, William Rivers e Bronislaw Malinowski.
Rivers partecipò alla Spedizione di Haddon allo stretto di Torres, e somministrò ai nativi gli
stessi test che somministrava agli studenti dell’Università. Fu un grande contributo poiché
mise in luce l’unità fisico-psichica del genere umano.
Le sue teorie poi si concentrarono sulle terminologie di parentela, avvicinandosi alla teoria di
Morgan (terminologie conseguenza linguistica delle relazioni sociali), ma egli somministrò ai
nativi un test nel quale venivano chieste le informazioni sui parenti più stretti e poi lontani e i
termini (The Genealogical Method of Anthropological Inquiry, 1910).
Questo metodo ebbe l’innovazione di mettere non solo l’europeo sullo stesso piano del nativo,
novità assoluta fino a d’ora ma anche di poter sviluppare con il nativo una confidenza
reciproca e infine ad aver accesso a conoscenze di un’epoca lontana che non era stata intaccata
dall’arrivo degli europei.
Ciò che secondo Rivers doveva fare un ricercatore era vivere con la comunità entrare nei
meccanismi, conoscere tutta la tribù, doveva applicare una prospettiva olistica (olos, intero)
tener conto di tutto ciò che concerne la vita del nativo. Questa prospettiva segnerà nei decenni
successivi un’importante svolta nell’antropologia. Il suo lavorò terminò presto sia per lo studio
sul trauma da guerra dei soldati sia per la morte prematura nel 1922.
Il diffusionismo trovò seguaci anche in Gran Bretagna, anche lo stesso Rivers se ne accostò.
Nei primi anni del ‘900, in Gran Bretagna, divennero note le teorie di Grafton Elliot Smith e
William Perry. Essi offrirono una nuova versione del diffusionismo tanto che venne definita
“iperdiffusionismo”.
Essi postularono un unico centro diffusore di cultura, l’Egitto. Gli egiziani viaggiando
avrebbero trasmesso la cultura ad altri popoli, che non furono in grado di conservarla. Molti
popoli ne mostrarono i resti, a un diverso grado di degenerazione proporzionale alla distanza
dal punto di partenza.
Con il libro Children of the Sun (1923) Perry parlò di teorie eliocentriche o eliolitiche,
definite per l’accento posto sulla diffusione del culto del sole e dei grandi monumenti in pietra,
che ebbe un grande seguito.
Il diffusionismo radicale di Smith e Perry in Gran Bretagna fu solo una meteora.
Nel 1922 si trasferì in Inghilterra quello che diverrà un grande esponente dell’antropologia,
Bronislaw Malinowski. Con il suo “Argonauti del Pacifico”.
Egli compì ricerche nelle isole Trobriand, in Melanesia, studiando l’organizzazione sociale,
economica/giuridica, tecnica di costruzione di canoe, i miti, i riti, la lingua e il comportamento
sessuale.
Egli fu molto apprezzato per come si legava ai nativi e ciò era dato dalla sua eccezionale
conoscenza e brillantezza.
Malinowski diede vita a quella che venne definita “osservazione partecipante”, una tecnica
d’inchiesta che permetteva al ricercatore di entrare in un rapporto empatico con i nativi
(cogliere il loro punto di vista, la loro visione del loro stesso mondo).
Il mito di Malinowski (di uomo in fuga dalla civiltà in guerra)si diffuse fino alla scoperta dei
suoi diari che permisero di conoscere un ricercatore completamente diverso da quello che era
e che rappresentava.
Nei suoi appunti si parla di disagio epistemologico dell’antropologo, confrontarsi cioè con le
interpretazioni dei nativi.
Argonauti (1922) non era una descrizione delle componenti della cultura delle Isole Trobriand
ma partiva da un aspetto particolare della vita per poi aprirsi sugli altri.
L’oggetto degli Argonauti era costituito da una forma di attività di scambio praticata da un
numero di comunità stanziate su isole anche lontane ma comprese in un’area geografica
circoscritta.
Questa forma di scambio, Kula, era un fenomeno economico complesso di notevole
importanza teorica che occupa una posizione fondamentale all’interno del circuito indigeno.
In sostanza tra le isole abitate dai gruppi partecipanti allo scambio (disposte in circonferenza)
circolavano due tipi di oggetti: collane di conchiglie rosse (soulava) che circolavano solo in
senso orario e braccialetti di conchiglie bianche (mwali), questi solo in senso anti-orario, in
modo che i primi fossero scambiati con i secondi e viceversa.
Gli oggetti circolavano sempre, restando in mano alle tribù per brevi periodi a meno di visite e
quindi di scambi alla pari. La partenza e l’arrivo dei questi oggetti erano accompagnati da
rituali precisi accompagnati da un commercio in base al valore dell’oggetto.
Ciò che risultò dalla scoperta di Malinowski fu l’esistenza di sfere di scambio, ambiti non
comunicanti tra loro entro cui circolano oggetti di natura differente.
La novità dell’osservazione partecipante era la prospettiva di tipo olistico e non settoriale
inoltre l’oggetto di studio dell’antropologia (le società e le culture) risultava costituito da parti
tra loro correlate in senso funzionale (funzionalismo).
Questa prospettiva mirava ad accentuare il comportamento coerente e ragionevole del
primitivo, contro le tesi discriminatorie degli evoluzionisti.
Inoltre “Gli Argonauti” fu considerato il primo studio sull’Antropologia economica intesa non
come economia ma come complesso di operazioni di produzione, distribuzione e scambio di
beni. In seguito dovette far fronte a delle critiche riguardo alla sua idea di economia primitiva
in quanto gli vennero attribuite tesi su l’homo economicus primitivo.
Ciò che Malinowski evidenziò nello scambio kula fu il principio di reciprocità (Diritto e
costume nella società primitiva, 1926) che attribuiva alla pratica un aspetto di coerenza a
pratiche connesse con il controllo sociale.
Questa novità venne rielaborata nella teoria del dono di Mauss (cap.6) e nell’Antropologia di
Lévy-Strauss (cap.17).
Nel “The family among the Australian Aborigines) confutò l’ipotesi della promiscuità
originaria, secondo Malinowski queste pratiche avevano delle precise regole non
consentivano l’accoppiamento indiscriminato al di fuori del matrimonio.
Da qui partì per l’idea di famiglia elementare come cellula universale e originaria e luogo di
riproduzione biologica e culturale. L’incesto è bandito, poiché comportamenti di questo
genere avrebbero minato la struttura dei comportamenti all’interno della società, mentre
l’esogamia era il mezzo per risolvere correttamente il divieto.
Il modo in cui egli intese queste pratiche lo portò a produrre la concezione funzionalista della
cultura che Malinowski produsse più tardi.
L’immagine della società e della cultura era quella di un insieme di pratiche e comportamenti
tra loro integrati che tendevano all’equilibrio della società e al suo funzionamento
(funzionalismo ristretto di Malinowski).
In seguito aggiunse a questa prospettiva un nuovo elemento quello del significato della
cultura, egli parla di vasto apparato, materiale/umano/spirituale. Questa analisi coincide con
quella delle relazioni tra i bisogni fondamentali (basic needs), quelli secondari o derivati, che
mantengono la coesione sociale.
Ne segue anche la teoria della magia, in “Magia, scienza e religione” (1948), che secondo
Malinowski è un possesso primordiale che afferma il potere autonomo dell’uomo di creare fini
desiderati. Ritualizza l’ottimismo dell’uomo. Inoltre è da distinguere con la religione, che
invece è un mezzo per rassicurarsi di fronte alla prospettiva della fine.
Per ciò che concerne il cambiato culturale, sostenne che l’incontro tra due culture portasse alla
creazione in una terza cultura o terza entità, questa teoria venne criticata in quanto non si
ritenne una vera e propria teoria.

CAPITOLO 10 – L’ANTROPOLOGIA PSICOANALITICA E LO STUDIO DELLA


CULTURA

Nel 20° secolo si è sviluppata una nuova disciplina, la psicoanalisi, che ha rivelato l’esistenza
di una vita psichica inconscia, risultato di pulsioni e istinti da un lato e forze della cultura
dall’altro. Questa si è inserita nello studio dell’Antropologia, dando vita all’Antropologia
psicoanalitica, disciplina a tutto campo ancora in auge.
In molti misero l’aspetto psicologico nelle loro teorie sulla cultura ma il primo che sviluppò una
teoria sull’origine e lo sviluppo della cultura fu Sigmund Freud.
Diventato ormai una figura famosa decise di aprire un dialogo con l’antropologia scrivendo
appunto “Totem e Tabù”. Aveva letto le maggiori opere di antropologia come Frazer e
Robertson Smith. Quest’opera doveva rispondere a due domande correnti, che cos’è il
totemismo? E il rapporto tra totemismo ed esogamia.
All’origine di queste teorie ci fu l’assassinio del padre, poi “mangiato”, del figlio non libero di
poter sposare o accoppiarsi con la madre o con la sorella, in seguito al rimorso dell’omicidio
venne idolatrato e spinto a non accoppiarsi con le donne del gruppo, dando origine così al
totemismo e all’esogamia.
Quindi è la colpa e la punizione del figlio a spiegare l’origine dei comportamenti religiosi e
sociali dell’individuo.
Tabù è un’adattamento della parola polinesiana tapu, proibito, pericoloso. Per i polinesiani
Tapu è il padre ma anche il re e tutto ciò che entra in contatto con lui.
La risposta al tabù da parte di nevrotici e selvaggi consente per Freud, di parlare di
ambivalenza. Nella nevrosi il tabù nasce come proibizione dalla nascita, ma rimuove la
pulsione non la elimina. Ciò scaturisce la fissazione psichica (vuol fare quella cosa proibita
ma ne ha orrore).
Per i selvaggi avviene lo stesso atteggiamento e alla base del rispetto del tabù c’è una rinuncia.
Freud per spiegare questa prospettiva prese in esame l’uccisione di un nemico, la vittima
veniva placata di doni e preghiere, l’uccisore era un tabù, solo dopo qualche tempo veniva
purificato e reintegrato nella comunità.
La stessa cosa succede per quanto riguarda il rapporto dei selvaggi con i sovrani, a cui sono
attribuiti poteri esagerati ma vengono deposti o uccisi perchè la natura ha deluso le loro
aspettative.
Per quanto riguarda la morte di un parente, i selvaggi provano inconsciamente soddisfazione
negando che fossero stati mai ostili al defunto, un’altro caso di ambivalenza.
Malinowski notò alle isole Trobriand che il complesso di Edipo europeo, studiato da Freud,
aveva sembianze diverse, in quanto il padre aveva poca importanza, era lo zio materno a
detenere il potere. Nel caso ci potesse essere desiderio di incesto era diretto più verso la
sorella che la madre.
Nel 1927 Malinowski scrisse “Sesso e repressione sessuale tra i selvaggi” (1927), nel quale
definì un complesso matriarcale, nel quale esisteva un complesso di Edipo diverso
caratterizzato dal desiderio di unirsi alla sorella e di uccidere lo zio materno.
Ciò che trasse da questo studio fu che le società primitive presentavano le stesse nevrosi
occidentali in una forma diversa.
Dopo Freud questo problema della cultura venne analizzato da uno studioso ungherese, Géza
Roheim. Egli con il saggio “Origine e funzione della cultura” intrepretò la cultura come
nevrosi collettiva, in pratica egli sosteneva l’idea che la cultura sarebbe un’edificio costruito
allo scopo di realizzare, le fantasie della nostra infanzia.
Egli pone come chiave di lettura centrale il concetto di sublimazione, ciò che consente
l’edificazione della cultura, rivolta verso qualunque sfera di attività.
La sublimazione però è anche una specie di compromesso che evita il raggiungimento della
soddisfazione immediata dei propri desideri.
Un’altro antropologo che si avvicinò alle idee di Freud fu John Layard, allievo di Rivers,
vissuto però nel periodo del diffusionismo quindi abbastanza emarginato.
Egli conciliò le idee di Rivers (capo spedizione a Malekula) e Jung (di cui fu paziente)
nell’opera “Gli uomini di pietra di Malekula”(1942).
Egli però si distacco da Jung per alcuni motivi: critica nei confronti della interpretazione
sessuale di tutti i simboli data da Freud, concezione della libido come espressione a livello
psichico dell’energia vitale, l’idea che le turbe siano anche il risultato del dialogo
dell’individuo con il modo.
Attraverso queste idee egli affrontò l’analisi del rituale “maki”, un rito secondo il quale un
uomo, sacrificando maiali maschi, si appropriava della forza della vittima e si metteva al
riparo, dopo la morte, dalla distruzione di uno spirito preposto alla sua persona.
Questo rito era ripetuto nella vita finche l’individuo non fosse benvoluto dagli antenati con il diritto
di raggiungerli. A ogni rito egli prendeva un nuovo nome. Il rito si componeva di due
parti ciascuna costituita dalla costruzione di un monumento in pietra, il primo somigliante al
Menhir (associato al sesso maschile) dell’europa preistorica, il secondo era una piattaforma,
simile al dolmen (associato al sesso femminile).
Secondo Layard il maki è una forma di individuazione grazie al quale il soggetto stabilisce un
equilibrio dinamico tra la vita e il suo inconscio.
Layard inoltre vide nel vicino vulcano (luogo raggiunto dai defunti) il simbolo della relazione
madre-bambino e quindi della sessualità maschile e femminile.

CAPITOLO 11 – GLI STUDI ETNOLOGICI IN ITALIA TRA LE DUE GUERRE

La scuola italiana fu influenzata da quella autro-tedesca, nella persona di Padre Shmidt, ma fu


con Pettazzoni che si creò uno studio “italiano”, seguendo però il metodo comparativo.
Lo studio si concentrava per lo più su delle survey etnografiche dell’Africa Orientale, grazie al
contributo di Conti-Rossini e Cerulli. Il lavoro invece monografico vide la luce qualche anno
dopo con l’opera “I Mao”, popolazione dell’area ovest etiopica a cura di Vinigi Grottanelli.
Era un resoconto della cultura e societa mao. Questi studi ovviamente erano alla base di
un’idea di missione civilizzatrice, conseguenza del contesto politico italiano (che di fatto fu
anche un motivo frenante per lo sviluppo dell’etnologia) inoltre gli altri studi sulle popolazioni
erano fatte da militari e non da studiosi.
L’etnologia di quel periodo era asservita all’ideologia fascista, incipit delle leggi razziali varate
nel 1938. Tra i partecipanti all’8° convegno Volta (1938) c’erano illustri studiosi, Shmidt che
era un rappresentate del vaticano e che difendeva i cristiani d’africa (anche se neri), Pettazzoni
che cercò di fare da intermediario tra la scuola diffusionista e la prospettiva funzionalista,
infine Lidio Cipriani, uno dei teorici della razza pura e dell’iinferiorità mentale dei sudditi di
colore.
Nel 1938 grazie anche al contributo di Cipriani, fu messo a punto il manifesto della razza,
base ideologico-giuridica della politica razzista contro italiani con ascendenze ebraiche e
minoranze (zingari).
L’Italia fascista fu però anche all’avanguardia nell’elaborazione di disposizioni razziste in
materia coloniale.
L’allineamento dell’Italia alle leggi razziali permise la creazione di cattedre di “Biologia
generale delle razze umane”, nel frattempo il museo di firenze fondato da Mantegazza
secondo Cipriani fu il principale centro in Italia in cui si elaborano idee razziste.
Tra molti che continuarono durante la dittatura il loro lavoro, aderendo di facciata al regime,
ci fu Ernesto de Martino, citato come la figura centrale della tradizione Italiana, si avvicinò
alle idee di Benedetto Croce. Egli si definiva etnologo, esordì con “Naturalismo e storicismo
nell’etnologia” opera che doveva riformare il sapere etnologico.
Egli critica il naturalismo della scuola durkheimiana, colpevole di aver tralasciato la
dimensione storica e spirituale, proseguendo il pensiero crociano.
A Milano nel 1930 sotto la guida del filoso Antonio Banfi, si costituì un gruppo di giovani
studiosi aperti al pensiero francese e tedesco, questo gruppo o “Scuola di Milano” era attenta
alle teorie di Hegel, Kant, Durkheim, Levy-Bruhl e soprattutto a livello pratico alle forme di
vita, oggetto di studio dell’antropologia.
Sempre nel 1941 uscì “Il pensiero dei Primitivi” di Remo Cantoni, filosofo, allievo di Banfi.
Anche quest’opera era frutto di esperienze straniere, sebbene al suo interno ci fossero aspetti
della filosofia della cultura Banfiana, rappresentata da una concezione di razionalità come
esigenza volta a comprendere campi di sapere molto diversi tra loro.
Inoltre per la filosofia della cultura di Banfi bisognava storicizzare le esperiene culturali
riconducendole ad un ambito specifico.
Negli anni del dopoguerra De Martino iniziò la sua riflessione etnologica vera e propria nelle
regioni dell’Italia meridionale.

CAPITOLO 12 – L’ETNOLOGIA FRANCESE (1920-1940)

Seppur per molto tempo poco praticata, l’etnologia francese era stata comunque praticata da
funzionari dell’amministrazione coloniale in Africa, Maurice Delafosse e Louis Tauxier,
ponendo le basi per l’africanistica.
Verso la fine degli anni ’20 gli insegnamenti di Mauss e le attività dell’Institut d’ethnologie
portarono ad una nuova fase. Il parlamento Francese approvò la “Missione Dakar-Gibuti”
nella quale si raccoglievano oggetti e dati sulle lingue e culture dei popoli africani ed esporle
nel Musée d’Etnographie di Parigi (Musée de l’homme). Questa Missione fu un vero successo
e riportò l’attenzione su questo oggetto di studio.
A capo di questa missione c’era Marcel Griaule, allievo di Mauss, accompagnato dallo
scrittore Michel Leiris (“Africa fantasma”). Il libro fu il primo tentativo antropologico di
coordinare l’osservazione di se stessi e quella degli altri, prima esperienza di un’intimità
antropologica.
Durante una tappa presero contato con la popolazione Dogon studiandone i miti e la
cosmologia.
Nel ’38 Griaule pubblicò “Maschere Dogon” uno studio sull’uso delle maschere nella liturgia
di questo popolo.
In “Dio d’acqua” (1948) ricostruì la cosmogonia Dogon sottoforma di un dialogo con un
anziano cacciatore cieco, Ogotemmeli.
Scoprì un pensiero raffinato pari a quello dell’antichità, inoltre gli dette la possibilità di
formulare una teoria sul rapporto tra sistema mitico e vita sociale.
Bisogna per Griaule studiare il mito e la cosmologia di un popolo per per comprendere
l’organizzazione sociale e la vita, sebbene si dovesse essere iniziati.
Ciò che veniva definito “L’iniziazione di Marcel Griaule”, che fu ottenuta con lunghe
interviste al vecchio cacciatore, che rilasciò importanti informazioni (probabilmente ciò che
gli etnografi volevano sentirsi dire) permettendo a Griaule di venir a conoscenza che i Dogon
conoscevano i bianchi e la loro religione dimostrando che non erano poi così lontani dalla
civiltà.
In contrasto con la tesi Durkheimiana, Griaule rivendicò la priorità degli studi monografici su
quelli comparativi, convinto che solo un studio approfondito potesse ricostruire nel miglior
modo un sapere completo di ciascuna civiltà (Ipotesi simile al particolarismo storico di Boas e
al funzionalismo di Malinowski in Gran Bretagna).
Innanzitutto dover essere preso in esame il punto di vista dell’individuo in base alla coerenza
interna del sistema sociale di appartenenza.
Nel lavoro “Il metodo dell’etnografia”(1957) considerava l’inchiesta etnografica come
un’operazione strategica, sottolineando le divagazioni e i vuoti di memoria dell’interlocutore
cercando di registrarli con l’idea che prima o poi sarebbero scomparsi.
Durante la guerra molti etnologi perirono, morì lo stesso Griaule, sebbene in molti
continuarono lo studio dei Dogon (Dieterlen, Paulme e la figlia di Griaule).
L’oggetto di studio era in linea con l’idea di Griaule cercando di ricostruire i sistemi
cosmologici e le religioni africane, ponendola sotto un sistema africano intero.
Anche alcuni antropologi inglesi tra cui Evans-Pritchard opteranno per un pensiero simile con
il popolo degli Azande.
L’etnologia di Griaule ebbe critiche nel momento storico della decolonizzazione, accusato di
congelare le culture in forma di sistemi di pensiero e strutte sociali avulse dal contesto storico
e di cambiamento.
Una figura di rilievo dell’etnologia francese fu Maurice Leenhardt, fondatore dell’etnologia
oceanistica.
Missionario protestante, che fu inviato in Nuova Caledonia, una grande isola della Melanesia.
L’interesse di Leenhardt era quello di evangelizzare la popolazione Canak. Però egli creò un
ponte con la loro cultura, traducendo nel linguaggio Canak le Sacre Scritture, ebbe modo di
scoprire un mondo di simboli, rappresentazioni e idee complesse su vita, morte e della
persona.
In “Do Kamo. La persona e il mito nel mondo melanesiano” (1947) scoprì che il mondo
melanesiano aveva una grande cultura del mito e della persona, i Canak erano gente animata
da uno spirito fortemente religioso. Leenhardt partì dal punto di vista dei fatti personali e non
sociali (in contrapposizione con la tradizione Durkheimiana). Il mito per i Canak era una
qualcosa che dava senso al tempo, al paesaggio e alla persona. Il mito rendeva conto della
partecipazione dell’uomo al mondo, alla natura.
Egli inaugurò quella fila di studiosi che diede vita alla corrente dello studio della cosmologia
primitiva più come sistemi di pensiero che non come aspetti simbolici legati ad una struttura
sociale.
All’interno della tradizione sociologia francese si inserì quella che venne definita come la
Sociologia Maghrebina., riflessione su società e culture del Nordafrica.
Le ricerche di questa Sociologia si diressero su aree ad altra e complessa civilizzazione,
ritrovandosi lontana dall’etnologia africanista (Griaule) e oceanistica (Leenhardt).
Un posto nella “Sociologia Maghrebina” spetta a Robert Montagne.
Egli giunse in Marocco come militare, studio il berbero e l’arabo divenendo uno dei più grandi
conoscitori delle popolazioni locali e della loro organizzazione.
Si occupò anche delle Siria e della sedentarizzazione dei beduini del Vicino Oriente. Fu
direttore dell’Institut français di Damasco e fondò il “Centre des hautes Etudes sur l’Afrique et
l’Asie Modernes.
Nel 1930 diede vita a “I Berberi e il Makhzen” la più monografia etnografica del Novecento.
La novità del suo lavoro sta nel poco interesse che nutriva l’etnologia in generale riguardo al
Nordafrica, inoltre egli si basò molto sulla documentazione storica mentre l’etnologia tendeva
a lavorare su popolazioni prive di scrittura.
Normalmente i berberi avevano istituzioni democratiche, con dei capi eletti a turno tra gli
uomini delle tribù. Costoro potevano accrescere il loro potere e con l’alleanza del Sultano il
loro potere poteva diventare tirannico. Questo potere veniva meno alla morte del Sultano o
alla presenza di una ribellione. Quindi si ritornava allo stato originario.
La storia della religione sembra oscillare tra due estremi: una forma di governo democratico
(assembleare) o oligarchico (notabili locali) da una parte e una forma tirannica dall’altro.
Oggetto dell’opera erano le varie fasi che il potere politico poteva assumere. Dalla democrazia
alla tirannia e viceversa.

CAPITOLO 14 – IL FUNZIONALISMO STRUTTURALE BRITTANICO: DA


RADCLIFFE BROWN A EVANS-PRITCHARD

Dopo Malinowski Alfred Radcliffe-Brown divenne la figura più influente dell’antropologia


britannica. Egli è considerato il principale promotore della prospettiva che poneva l’accento
sulla struttura sociale come entità funzionalmente integrata.
Nel 1922 uscì Gli isolani delle Andamane nella quale definì la religione come condizione
fondamentale per la vita nella società.
Il metodo di Radcliffe-Brown consisteva nell’identificare i meccanismi che operano all’interno
delle società consentendone il funzionamento, poi compararli e arrivare alla formulazione di
leggi valide.
Egli inoltre distinse etnologia e antropologia, la prima aveva per oggetto lo studio della
cultura e della storia dei popoli primitivi, che per Brown doveva essere chiamata Antropologia
sociale, cioè una scienza naturale della società che indaga fenomeni appartenenti a specifici
fatti sociali.
Venne così centrale il concetto di struttura sociale, la trama dei rapporti esistenti tra gli
individui. Questo concetto deve essere considerato in relazione a quelli di processo sociale e
funzione sociale. Processo sociale indica la moltitudine di azioni degli esseri umani,
funzionale sociale indica invece il rapporto tra la struttura e il processo vitale.
Il cambiamento non è nella natura della struttura che invece resta identica è la materia a
cambiare in continuazione (continuità strutturale).
Lo studio sui sistemi di parentela può essere considerato in al totemismo il settore dove ha
contribuito di più, dato anche dal lavoro tra gli aborigeni australiani (“L’organizzazione
sociale delle tribù australiane”).
Egli aveva predetto l’esistenza di un sistema matrimoniale particolare, il sistema kariera,
che prende il nome da una tribù dell’Australia nord-occidentale. E’ un sistema a quattro
sezioni in base al quale un individuo viene assegnato. Ciascun individuo è obbligato a
sposarsi con un individuo che non sia né della sezione sua né della madre e né del padre. Ciò
venne descritto ne “Lo studio dei sistemi di parentela” del 1941. Egli era vicino alle posizioni
di Rivers (che vedeva nelle terminologie il riflesso delle relazioni sociali).
Radcliffe-Brown enunciò i “principi strutturali” alla luce dei quali le terminologie di tipo
classificatorio acquistavano una funzionalità sociologica (contro Kroeber) perdendo le
caratteristiche di sopravvivenza enunciate dagli evoluzionisti.
Il primo principio era quello della “unità del gruppo dei fratelli (cioè dei figli dello stesso
padre e della stessa madre senza distinzione di sesso), con questo egli mise in rapporto diretto
terminologia di parentela e comportamento sociale.
Un’altro principio è l’unità di lignaggio (le femmine per linea materna sono tutte “madre”).
L’altro settore di studi riguardava l’analisi del totemismo, cioè la tendenza ad associare il
nome di un animale o di un vegetale ad un gruppo sociale. In “teoria sociologica del
totemismo” (1929) si allontanò dalle posizioni di Durkheim relativamente alle attribuzioni
dell’utilizzazione di simboli animali e vegetali.
Il comportamento rituale nei confronti delle piante e degli animali era connesso con
l’importanza che determinate specie avevano nella vita economica di certi gruppi (totemismo
economico).
Nel ’52 ne “Il metodo comparativo nell’antropologia sociale” egli abbandonò la spiegazione
economico-sociologica e si concentrò su due problemi. Il primo perché solo certe specie e non
altre venissero scelte allo scopo di rappresentare determinate relazioni tra gruppi. Il secondo è
perché si ritrovino spesso abbinate specie simili pensate però come opposte. Queste coppie
d’opposizione (corvo-cornacchia) sono espressione dell’applicazione di un determinato
principio strutturale, che consiste nell’unione di termini opposti che sono uniti da una
relazione funzionale.
Dopo Malinowski e Radcliffe-Brown un posto particolare nell’antropologia britannica va
assegnata a Evans-Pritchard, figura di passaggio tra concezioni ed e epoche diverse.
Il primo libro uscito fu “stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande”, una delle piu celebri
monografie etnografiche. Gli Azande vivono tra il Sudan e il Congo attuali. Studiò appunto la
loro concezione riguardo la stregoneria e la magia, e le procedure per scoprire i responsabili
dei malefici.
Le conclusioni riguardo il problema della razionalità (preso in precedenza da altri antropologi)
non può essere posto nei termini dell’alternativa vero/falso ma solo in termini di coerenza
interna ad ogni sistema di credenze.
Lo studio sugli Azande aprì alle ricerche di quelli che vennero chiamati sistemi di pensiero.
Egli ritornò su questi argomenti anche in lavori successivi e in particolare in “La religione dei
Nuer” del ’56 dove studiò il sistema di credenze di questo popolo. Ma soprattutto in “I Nuer”
del ’40 nella quale ebbe particolare attenzione alle dinamiche dell’alleanza e del conflitto.
Opposizioni che in un certo senso rendevano la società equlibrata e priva di capi veri e propri.
Questo equilibrio permetteva di bloccare un conflitto e ristabilire l’equilibrio.
Inoltre si propose di illustrare la dinamica politica della società nuer nel modello segmentario.
Questo modello fa intendere che quando avvengono dei conflitti tra segmenti opposti i più
vicini intervengono e così via creando così alleanze e settori più grandi (A e B sezioni
primarie).
Per Evans-Pritchard le nozioni di segmentazione e di società segmentaria acquistavano un
carattere dinamico, in più la società segmentaria non era più equiparabile all’esempio del
lombrico di Durkheim.
Egli riuscì a tradurre affermazioni di pensiero dei Nuer semplicemente entrando all’interno del
sistema di pensiero risultando essere perfettamente comprensibili.
Fu molto criticato per il suo eccessivo impegno a voler rendere tutte questi sistemi di pensiero
razionali.
Egli mutò la concezione stessa di Antropologia avvicinandosi alle scienze storiche, poiché i
suoi studi si erano concentrati in grandi casi etnografici hce sollecitavano una considerazione
più storica che sociale.
Gli ultimi lavori si concentrarono sulle critiche al metodo comparativo. Contro Frazer (esempi
ad hoc e decontestualizzanti per dimostrare teorie precostituite), contro Radcliffe-Brown (idee
prive di documentazione etnografica adeguata).
Propose un metodo comparativo su scala ridotta che prendeva in considerazione società
definite e circoscritte. Questo perché temeva nella scomparsa di questa disciplina autonoma,
che doveva esclusivamente spiegare le differenze, non altro.
Con le sue critiche accelerò la crisi del paradigma funzionalista cioè dei: concezione della
struttura sociale come complesso di parti comparabile ad altri, carattere omeostatico della
società pensata sul modello dell’organismo vivente, esclusione della dimensione temporale
dell’analisi dei sistemi sociali.

CAPITOLO 15 – ETNOLOGIA E ANTROPOLOGIA IN ITALIA NEL SECONDO


DOPOGUERRA

Nel ’48 De Martino pubblicò “Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo” Era
un’opera di continuazione del Naturalismo e storicismo. Egli cercava di ricostruire il mondo
magico che serviva anche a comprendere l’era attuale.
Recuperare il mondo magico dalla storia significava ribaltare la prospettiva Crociana, definita
occidentalmente limitata. Le categorie Crociane dello spirito erano quattro: All’attività
teoretica sono da far risalire la filosofia e l’arte. Nella filosofia sono presenti la dimensione
conoscitiva e quella universale;mentre l’arte è conoscenza ma del particolare.L’economia è
atteggiamento pratico mirante al raggiungimento di un fine particolare mentre l’etica è la
volontà di perseguire un fine universale.
La religione non è presente all’interno delle categorie crociane, essendo per Croce una specie
di aggregazione di istanze appartenenti al dominio della speculazione, della morale.
Nel mondo magico De martino si stacca definitivamente da Croce sostenendo che la realtà
storica come quella del mondo magico non poteva essere compresa dall’esterno, dalle
categorie dello spirito ma andava ricercata dall’interno.
La costruzione della realtà magica ruota attorno al processo di costituzione della presenza che
definisce come ethos (comportamento) fondamentale dell’uomo e la perdita della presenza
come rischio a cui l’uomo è esposto.
La presenza è quindi qualcosa che l’uomo si sforza di affermare per sfuggire all’idea,
insopportabile di non-esserci, è un moto naturale dell’essere umano.
Il magismo si sviluppa proprio per affermare questa idea (contro gli evoluzionisti, non è una
forma imperfetta di razionalità), contro Malinowski (non è una semplice risposta allo stress
emotivo procurato da situazioni incerte).
La presenza è qualcosa che può essere rimessa in discussione dalla crisi individuale e
collettiva, e in “Morte e pianto rituale” del ’58 si parla di perdita della presenza (l’antico
lamento funebre nei paesi della Basilicata).
Nel ’49 de Martino pubblicò “Intorno a una storia del mondo popolare subalterno dove si
avvicinava alle tesi del marxismo di Gramsci. Il suo fu un marxismo etico, umanistico, che lo
aprì al tema dell’irruzione della masse nella storia.
Qui viene analizzato un’altro concetto, quello di destorificazione: meccanismo per cui è solo
pensandosi fuori dalla storia e dalla realtà che diventa possibile sopportare entrambe.
Su queste premesse De Martino inaugura quella che verrà definita come Antropologia del
negativo.
Lo studio sui rapporti tra soggetto conoscente e l’oggetto della conoscenza cioè le comunità lo
porterà a parlare di Etnocentrismo critico.
Il punto di partenza della sua riflessione è ciò che egli definisce come umanesimo etnografico
(la via dell’umanesimo moderno, che assumendo come punto di partenza l’umanamente più
lontano si espone all’oltraggio delle memorie culturali più care).
De Martino era conscio che il rapporto tra osservatore e osservato non era neutro e che
l’etnologo interroga la cultura altrui attraverso una griglia interpretativa costituita fatta di
pregiudizi, oppure può “farsi nudo come un verme” ma perderebbe la propria vocazione
specialistica, la soluzione sta in un continuo confronto fra la storia di questi documenti e la
storia culturale occidentale, presupponendo le due realtà storiche dell’essere uomo.
L’incontro etnografico risulta essere per De Martino come un’esame di coscienza dell’uomo
occidentale, anche se giudica la cultura occidentale come superiore in quanto sia sta l’unica a
porsi in maniera scientifica la comprensione dell’altro.
L’etnocentrismo storico si configura come una continua ridiscussione delle proprie categorie
analitiche.
La sua è un’analisi sull’antropologia dell’antropologia in cui l’incontro etnografico non suscita
il punto di vista del nativo ma si limita ad una autocritica concettuale nel segno di un
umanesimo etnografico.
Il pericolo a cui l’umanesimo etnografico va in contro è il relativismo culturale. Cioè porre la
propria cultura come unità di misura delle storie culturali aliene.
Continuatore delle ricerche demologiche di Pitré fu, Giuseppe Cocchiara, influenzato dallo
storicismo crociano e dall’antropologia britannica.
Egli fu allievo di Marett ad Oxford, il su contributo più grande fu la consapevolezza che tutto
che ciò che riecheggia antiche esperienze religiose e sociali (le tradizioni popolari) va visto
nell’ottica della storia moderna in quanto accolte e reinterpretate dal popolo e quindi aventi un
ruolo attivo, quindi richiedono un pensiero che li accolga.
Egli si interessò di folklore e di opere in base a costumi popolari (Cuccagna, il mito del buon
selvaggio, storia del folklore in Europa).
Tra coloro che vengono inseriti tra gli studiosi dell’attuale “Demoetnoantropologia”
(antropologia umanistica) vi sono Grottanelli, Lanternari, Bernardi, Tentori, Tullio-Altan,
Cirese e Cardona.
Lanternari fu il primo a prendere in considerazione i movimenti religiosi revivalisti sorti
presso le popolazioni del Terzo Mondo coloniale e post-coloniale.
Bernardi ha rappresentato l’apertura verso l’antropologia britannica (profetismo africano in
Sudafrica).
Tentori si adoperò per l’introduzione in Italia dell’antropologia culturale intesa come studio
delle società complesse.
Tullio-Altan si è concentrato sui cambiamenti dei valori nell’Italia contemporanea.
Cirese cercò di riformulare gli studi demologici sulle basi marxiste di Gramsci fino allo
strutturalismo francese.
Cardona, glottologo, fu il promotore di studi etnolinguistici nel nostro paese.

CAPITOLO 16 – L’ANTROPOLOGIA AMERICANA ALLA META’ DEL NOVECENTO


Negli anni ’40-’60 del ‘900 negli Stati Uniti andò svilupparsi quella che fu definita prospettiva
nomotetica (ricerca delle leggi come obiettivo delle scienze), a questa era contrapposta la
dimensione idiografica (descrizione del particolare), prospettiva favorita da Boas e seguita da
Kroeber, Benedict e Mead che nel tempo se ne allontanarono per seguire la prospettiva
nomotetica.
Il primo fu Leslie White, autore di contributi importanti riguardo i sistemi terminologici di
parentela e tabù dell’incesto. Da un lato però egli presentò la sua teoria dell’evoluzione
culturale, dall’altro la rivalutazione delle teorie di Morgan in materia di evoluzione culturale,
che erano state dimenticate sia per la loro astrattezza e genericità sia perché l’Accademia
Sovietica delle scienze le aveva elevate al rango di classico del socialismo.
Ciò lo spinse a dirigersi in Unione Sovietica e a tornare influenzato dalle teorie marxiste,
sebbene in maniera riduttiva.
Le sue idee confluirono in due opere “La Scienza delle Cultura” (1949) e dieci anni dopo
“L’evoluzione delle cultura” (1959).
Le sue teorie possono essere ordinate in tre tematiche principali:
– teoria dell’evoluzione culturale:deve prevedere di individuare un sistema di
misurazione della crescita culturale (quantità di energia pro-capite che una società è in
grado di produrre, controllare e sfruttare).
– determinismo culturale: era in contrasto con la teoria della Benedict (nessuna
connessione causale tra stile di vita e tipo di religione.White sosteneva in contrario.
– concezione della cultura come tale (culturology): sosteneva che l’uomo nasce in una
cultura preesistente che gli propina valori, usi, costumi e religione, quindi l’uomo è
un’essere sociale, prodotto del suo tempo e della sua cultura. White coniò il termine di
Culturologia per designare il campo di riflessione relativo ai fenomeni materiali,
sociali, simbolici della cultura.
In confronto a molti di coloro che avevano individuato le caratteristiche della cultura egli egli
l’aveva analizzata per la sua connotazione materialistica.
Julian Steward, che come White rappresentò la reazione al particolarismo Boasiano e il
ritorno ad una concezione dell’antropologia come sapere generalizzante. Diversamente da
White però. Pose enfasi sull’ambiente e sulle condizioni di vita con qualche limite.
Gli studi sulla popolazione indiana degli Shoshoni (Nevada) lo stimolarono all’elaborazione
delle teorie su quella che venne definita “Ecologia Culturale”, poiché questa popolazione
viveva in un ambiente ostile con semplici tecnologie, quindi il loro modello di adattamento a
una dura realtà fisica era degno di studio.
Fornì un grande contributo anche all’archeologia.
L’idea di fondo di Steward era quella dell’antropologia come scienza naturale. La realtà
costituita fenomeni connessi secondo un principio causale du cui andavano individuate le
regolarità con un’accento sul carattere controllato, determinando quello che chiamò
evoluzionismo multilineare, presente nella sua opera “Teoria del cambiamento culturale”
(1955).
Il carattere controllato consisteva nel tentativo di rintracciare analogie, parallelismi tra gruppi
di fenomeni concatenati. Lo sviluppo culturale andava però concepito come l’emergere di
livelli di integrazione socioculturale. Questi livelli corrispondo a segmenti di sviluppo
evolutivo nel senso che certi caratteri non scompaiono con l’evoluzione ma si modificano.
Un’ulteriore sviluppo delle teorie di White e Steward fu dato dal materialismo culturale di
Marvin Harris (allievo di White).
Egli ha contribuito in misura rilevante alle teorie dei suoi predecessori proponendo
un’antropologia nomotetica e generalizzante in una prospettiva materialistica. Per Harris
infatti il materialismo culturale indica come l’antropologia debba fornire spiegazioni causali
delle differenze e delle somiglianze esistenti negli schemi di pensiero e di comportamento, ma
sopratutto dalle condizioni (che sono quindi materiali).
Harris ha sottolineato la necessità di guardare ai fenomeni culturali da un punto di vista
esterno (etico) che prescinda dal punto di vista del nativo (emico).
In questo contesto si sviluppa l’antropologia economica, tentativo di esse è quello di
controbattere gli sconfinamenti della teoria economica in campo antropologico, e fornire un
quadro teorico per una considerazione dei fattori economici da un punto di vista
antropologico.
Le idee alla base, che però non vennero considerate furono quelle di Malinowski e di Mauss
sul dono. Il modello formalista, così chiamato, implicava di fondare la scienza del
comportamento umano attinente ala sfera economica. Robbins pubblicò il “Saggio sulla
natura e sul significato della scienza economica”.
Egli fece della massimizzazione dell’utile in principio basilare di ogni comportamento, ricerca
di un livello ottimale di soddisfazione.
Lo studio dei fenomeni economici in relazione a quello delle forme di organizzazione sociale
divenne l’obiettivo di alcuni studiosi che diedero vita alla così detta prospettiva
“sostantivista”.
Tra questi studiosi vi fu Karl Polanyi, autore de “La Grande Trasformazione”, uno studio sulle
istituzioni del capitalismo liberale e dei suoi rapporti con lo stato. Egli partì del presupposto
che la pratica economica non si riferiva alla ricerca e alla massimizzazione dell’utile ma
invece nello studio delle istituzioni e dei processi organizzativi delle attività di produzione.
Per i sostantivisti il termine economico indicava il rapporto tra l’individuo e l’ambiente per i
formalisti era un’insieme di assunti logici fondati sull’idea di massimizzazione.
Si creavano così le condizioni per la considerazione dell’economico come processo
istituzionalizzato (di interazioni tra l’uomo e il suo ambiente con il continuo apporto di mezzi
che consentono la soddisfazione dei bisogni).
Polanyi elaborò una tipologia dei sistemi economici basata su tre forme di circolazione:
– reciprocità (simmetria parentale)
– ridistribuzione (centralità dei sistemi di prestazioni con un’autorità)
– scambio (mercato)
L’economico quindi è embedded cioè intrecciato nel sistema sociale.
Nella metà del ‘900 si andò diffondendo l’Etnoscienza (o antropologia cognitiva), che cercò di
spazzare via le teorie di ricerca dell’antropologia viste finora. Ma cercare di determinare i
meccanismi cognitivi degli individui appartenenti a culture diverse.
Lo scopo dell’etnoscienza è quello di ricostruire il modo in cui il soggetto vede e categorizza
il mondo naturale.
Sapir (allievo di Boas) e Benjamin Lee Whorf erano giunti all’idea secondo cui la struttura di
una lingua sarebbe determinata dall’esperienza e responsabile della visione del mondo tipica
di una cultura. L’etnoscienza è infatti strettamente collegata alla linguistica, mezzo
privilegiato di espressione dei concetti e delle relazioni tra i concetti.
L’accento viene posto sul tentativo di comprendere i principi di organizzazione che stanno alla
base del comportamento, le culture sono organizzazioni cognitive di fenomeni materiali.
Per distinguere il modo di vedere il mondo da quello in cui lo vede il ricercatore venne
elaborata la coppia concettuale emico/etico. Etico è il punto di vista dell’osservatore che
ignora il punto di vista dell’osservato, emico invece offre un analisi centrata sulle categorie
interne ad una determinata cultura.
La critica maggiore alla prospettiva emica è che non si può giungere ad una conoscenza
oggettiva della realtà facendo riferimento alle idee espresse dagli attori sociali.
Solo le regole etiche permetterebbero questo in quanto, quelle dell’antropologo hanno valore
dal momento che sono logicamente conclusive (Harris).
Una delle tecniche elaborate al fine di analizzare i campi semantici nella prospettiva
del’etnoscienza è quella conosciuta come analisi componenziale dei termini di parentela,
sviluppata da Goodenough e Lounsbury riprendendo le considerazioni di Morgan.
Questi termini sono in relazione di contrasto dal punto di vista del sesso e generazionale.
Oltre a questa relazione di contrasto la classificazione è basata anche su una relazione
gerarchica.
Queste classificazioni sono alla base di quelle componenti da cui si origina il significato
inerente all’uso di ciascun termine e rispondo alle due regole etiche ed emiche.
All’interno di questa analisi l’etnoscienza si configura come un sapere relativista.
La validità di questa scienza ha trovato una grande risposta nella classificazione dei colori di
base, per esempio il rosso(Berlin e Kay in “Basic Color Terms”).
La terminologia di base si sviluppa secondo un andamento di tipo evolutivo, da 2 termini a 11.
Le teorie danno alla società più semplice una classificazione di pochi termini, ciò è
controverso poiché per esempio tra Inuit (Eschimesi) che hanno una società meno complessa
della nostra ci sono almeno 40 modi diversi di dire neve, quindi la ricerca della complessità
socio-culturale e repertorio lessicale appare come una operazione complessa.
Oppure le popolazioni che vivono sulla linea dell’equatore sono portatori di una
pigmentazione scura delle retina, fatto che non permetterebbe loro di individuare una quantità
di scale cromatiche in confronto a popolazioni nord equatoriali.
Anche là dove esiste una complessità sociale elevata e lontano dall’equatore, ci sarebbero
esempi di un ampio lessico cromatico di base.
Le critiche si sono rivolte sopratutto per il fatto che il sistema percettivo è influenzato dalle
determinanti culturali. Quindi i colori possono anche essere freddi, caldi, umidi, secchi, ma
possono variare anche per l’individuo che sia vecchio, bambino, uomo o donna.

CAPITOLO 17 – L’ANTROPOLOGIA STRUTTURALE DI CLAUDE LEVI-STRAUSS

L’opera di Lévi-Strauss può essere considerata come uno sviluppo dell’etnologia francese di
ispirazione Durkheimiana ma non ne fu un discepolo modello, nei suoi viaggi si avvicinò a
filosofi, linguisti e agli etnologi della Scuola di Boas. Nelle sue opere si mischia lo
strutturalismo linguistico che entra in contatto con la sua sensibilità intellettuale.
Autore di un importante opera sui sistemi di parentela e di una quadrilogia consacrata
all’analisi dei miti, autore di “Tristi Tropici” meditazione sulla condizione del pianeta e di una
specie (umana) che non è mai stata capace di entrare in armonia con le altre.
La prima opera è “Le strutture elementari della parentela” del 1949, una teoria della
proibizione dell’incesto, delle origini della cultura e dello scambio matrimoniale.
Riprendendo le tesi di Morgan sull’argomento Lévi-Strauss attribuisce alle società più
primitive una chiaroveggenza genetica.
Inoltre andando contro l’idea di Westermark Lévi-Strauss riprende il concetto di Freud della
ripugnanza all’incesto come desiderio represso di aver rapporti.
Per Durkheim la ripugnanza dell’incesto era spiegata attraverso un teoria religiosa, clanica,
per Lévi-Strauss questo impostazione deve stabilire tra fenomeni eterogenei un rapporto di
causalità che non possiede i caratteri di necessità logica.
Per Lévi-Strauss la proibizione dell’incesto è una regola che possiede il carattere
dell’universalità (in tutte le società).
La proibizione dell’incesto all’interno di una cerchia però permette l’unione con individui di
un’altra cerchi, quindi rende disponibile il principio di scambio reciproco, la proibizione in
questo modo si accompagna alla pratica dell’esogamia che permette di definire i sistemi di
parentela come sistemi di comunicazione e di scambio tra i gruppi.
Qui si inserisce la riflessione di Lévi-Strauss su ciò che egli chiama atomo di parentela
(madre, padre, figlio, fratello della madre), dove lo zio possiede un grande autorità.
Questa è la teoria generale della parentela, la quale fornisce il quadro generale di riferimento
delle analisi compiute da Lévi-Strauss, inoltre vi è anche una teoria ristretta della parentela:
Le strutture elementari distinguono tra coniugi possibili e coniugi proibiti. Le strutture
complesse sono invece sistemi che si basano su altri meccanismi (economici e psicologici).
La struttura più elementare di unione è quella tra cugini incrociati (lecito). L’esempio è dato
dai Bororo dell’Amazzonia dove questa pratica si accompagna al modello dualista (gli est si
devono sposare con gli ovest, l’uomo va a vivere con il clan della donna) quindi l’unione è
prevedibile tanto che per questi rappresenta il modello della società.
La nozione di reciprocità costituisce la struttura soggiacente a tutte le relazioni di scambio,
matrimonio tra cugini incrociati e come l’organizzazione dualista.
Per Lévi-Strauss il concetto di struttura designa un livello di fenomeni radicalmente differenti
da i precedenti studiosi (Radcliffe-Brown) vedendo nella struttura il prodotto di una struttura
più profonda, è una categoria dello spirito umano. Il pensiero funziona grazie all’opposizione
di termini opposti, vuoti, come la struttura sociale che è modellata da queste strutture nascoste
che si manifestano in modelli (matrimonio tra cugini incrociati ecc.).
Sta all’etnologo cogliere i modelli inconsci (esempio dei bororo e delle sezioni).
Ciò che vale per i sistemi di parentela vale anche qualsiasi processo di simbolizzazione.
La natura inconscia del principio di reciprocità trova espressione nella nozione di inconscio
strutturale che è lo stesso per tutti i pensieri. Inoltre c’è un’analogia tra linguaggio e cultura
che consiste nell’assumere come campo problematico la sfera della comunicazione, il
linguaggio è comunicazione e anche la cultura lo è in quanto è frutto di un passaggio dalla
natura all’atto comunicativo.
Per Lévi-Strauss il totemismo è un semplice sistema di classificazione, la presenza di animali
e vegetali era data in quanto erano portatori di relazioni di pensiero (non buoni da mangiare
ma buoni da pensare).
I fenomeni della natura, gli animali e i vegetali offrono agli esseri umani un repertorio da cui
attingere per le loro classificazioni, opposizioni e relazioni.
Il pensiero primitivo e quello civilizzato stanno su due strade parallele (e non evolutive come
pensava Frazer) compiute dallo spirito umano per poter pensare il reale.
Come scriverà ne “ Il pensiero selvaggio” il totemismo è frutto di un’atteggiamento mentale
che prende i dati dall’esperienza sensibile per costruire classificazioni e relazioni. E’ un codice
convertibile all’interno dei sistemi di classificazione che Lévi-Strauss indica con l’espressione
sistema di trasformazione ( individuano analogie, parallelismi, che presentano sistemi di
classificazione la possibilità che il pensiero avrebbe di passare dall’uno all’altro sistema e al
codice relativo a ciascuno.
Nell’analisi dei miti (Mitologiche) Lévi-Strauss individua le analogie tra le unità costitutive
del mito (mitemi) e unità della lingua (fonemi).
I mitemi sono le grnadi unità costitutive del mito che assumono un significato solo in rapporto
di correlazione con altri mitemi.
Il mito ha per oggetto se stesso (quindi non le classificazioni).
Ne “Tristi Tropici” (1955) Lévi-Strauss riporta i resoconti dei viaggi dal Brasile al Pakistan
riportando alla luce meditazioni sul senso della civiltà umana e sul suo destino esponendo le
sue idee sulle società primitive, descritte come le società più vicine allo stato di natura.
In questo libro riporta la distinzione tra società calde, come quella occidentale che tra energia
dai propri disequilibri e società fredde che non traggono energia in quanto non sono presenti
disequilibri.
Le due espressioni servono all’autore per produrre un discorso sulla perdita di quell’unità tra
universo naturale e tra universo sociale, ciò che è perduto è la convivenza con le altre specie e
con le altre forme di vita sociale.
All’antropologo spetta il compito di ripercorrere quei legami necessari tra l’uomo e l’universo
nei quali si esprime.

CAPITOLO 18 – LA PARABOLA DEL FUNZIONALISMO BRITTANICO:


DALL’EQUILIBRIO AL CONFLITTO

L’antropologia sociale di Radcliffe-Brown incise molto sulla tradizione di studi in Gran


Bretagna.
Sulla stessa lunghezza d’onda si instaurò quella che venne chiamata Scuola di Manchester
(analisi delle società africane, interconnessione tra istanza tradizionali e spinte generatrici di
mutamento).
Il fondatore di questa scuola è Max Gluckman, nato in Sudafrica, dove infatti condusse tutta
la sua attività di ricerca sul campo.
Si allontanò dal Funzionalismo poiché egli sosteneva che l’equilibrio della società era dato dal
prodotto di un aggiustamento di fenomeni contraddittori e conflittuali (e non come il
funzionalismo diceva, di adattamento di elementi ce la compongono).
Compì studi tra gli Zulu, Barotse, Tonga e i Bemba dove produsse varie monografie molto
note. Tra le sue opere troviamo “Ordine e ribellione nell’Africa tribale” (1963) e “Potere,
diritto e rituale nelle società tribali” (1965).
Nello studio del conflitto e dell’ordine Gluckman definì vari concetti tra cui:
– Competizione: contrapposizioni individuali
– Lotta: contrasti ricorrenti, implicazioni più gravi della competizione
– Conflitto: opposizioni interne alla struttura (che portano variazioni nelle posizioni
sociali).
– Contraddizioni: relazioni tra principi e processi discrepanti interni alla struttura sociale
che devono portare ad un cambiamento radicale del modello.
Secondo Gluckman il rituale associato ai conflitti agirebbe come atto liberatorio, rendendo
esplicito agli individui i principi da cui deriva l’unità della loro società. (ipotesi vicina a
Durkheim sebbene Gluckman il ruolo centrale nel processo di equilibrio lo assegna alla
dimensione del conflitto e non all’integrazione delle parti).
Il metodo di analisi fino allora prevalentemente praticato dalla scuola funzionalista
individuava nella norma e nell’istituzione i principali fattori per ricostruire l’assetto strutturale
Gluckman e i suoi allievi invece accentuarono l’aspetto dinamico dell’interazione sociale
spostando l’attenzione dalla norma all’azione e producendo quello che venne chiamato
“metodo di analisi dinamica dei casi”.
Tra gli studi che si sono susseguiti va citato lo studio di Victor Turner, egli inaugurò il filone
di ricerca che si è soliti chiamare “Antropologia del teatro” fu allievo di Gluckman e lavorò in
Africa per il quale pubblicò “Scisma e continuità in una società africana” (1957) dove
analizza la vita in un villaggio ndembu, una popolazione di agricoltori dello Zambia.
Con l’espressione “Dramma Sociale” egli indicò quei conflitti che caratterizzavano questa
società descrivendo l’interazione tra gli individui, il comportamento e la manipolazione delle
credenze.
Questo studio gli permise di scovare la dimensione conflittuale della società ndembu, nella
contrapposizione tra: discendenza matrilineare e la residenza virilocale, che viene espressa
attraverso accuse di stregoneria (la violenza è condannata severamente).
Per Turner il conflitto è endemico alla società e avvicinandosi alle teorie di Gluckman,
esistono però dei meccanismi per cui lo stesso conflitto è utilizzato ai fini dell’unità del
gruppo. Ciò che lo distingue dalla scuola di Manchester è che egli mette in primo piano gli
individui e i loro comportamenti (fatte di scelte, strategie e manipolazioni).
Per Turner i riti di passaggio (di van Gennep) mettono in risalto aspetti della vita sociale
nascosti, cosa che lo porta allo studio del simbolismo ndembu e a tener conto di tre livelli:
– livello esegetico: interpretazione locale dei simboli e la loro connessione
– livello operazionale: l’antropologo deve studiare questi simboli che però
– livello posizionale:hanno un valore polisemico cioè sono in grado di significare cose
diverse in relazione al contesto della loro utilizzazione.
Queste teorie servono a Turner per sviluppare la sua teoria dell’opposizione tra struttura e
antistruttura.
Edmund Leach. Egli fu allievo di Malinowski, le sue ricerche si svolsero nel sud-est asiatico
(Birmania) e Asia Meridionale (Ceylon, ora Sri-lanka).Nel ’38 compì un studio sui Kurdi
dell’Iraq pubblicando nel ’40 un libro “Organizzazione sociale ed economica dei Kurdi
Rowanduz”. Egli fu il primo ad aver condotto ricerche sul campo in società complesse
(accentuata specializzazione produttiva, scrittura, stratificazione sociale, organismi politici, e
varie religioni).
L’analisi dei Kurdi servì a Leach per sostenere che che il sistema sociale di quest’ultimi era
costituito da un complesso di interazioni generate da interessi conflittuali e da attitudini
divergenti inoltre gli permise di criticare l’idea secondo la quale queste società avessero
sistemi chiusi, confini dichiarati, identificabili come tribù, ciò fu affrontato anche da Siegfried
F. Nadel (uno dei più grandi Africanisti britannici).
I temi nello studio sui Kurdi furono analizzati nel libro “Sistemi politici birmani” (1954),
dove fondamentalmente vennero ribaltati i dogmi dell’antropologia (anche per il fatto che si
sta parlando di società complesse), quindi serviva un’analisi basata su una prospettiva diversa.
L’immagine della struttura sociopolitica dei Kachin può essere riassunta dalla
contrapposizione di due sistemi gumlao (egualitario) e gumsa (aristocratico). Questi due
sistemi si contrappongono l’uno con l’altro generando assetti sociopolitici diversi. Quindi gli
individui non si rifanno ad una norma ma vengono seguire in base alle contingenze. Leach
quindi sostiene che l’antropologo deve costruire un modello della struttura come se questo
fosse la struttura, descrivere le discrepanze tra il modello e la realtà e rendere conto delle
deviazioni della norma.
Un ulteriore elemento innovativo fu l’introduzione della nozione di rete e della prospettiva
nota come network analysis, cioè analisi di rete.
L’analisi di rete permetteva di indagare sfere d’azione che non erano riconducibili a schemi
normativi. Quindi entrava in gioco una nuova prospettiva consistente nello studio delle reti
sociali (utile per lo studio delle società complesse).
Questa prospettiva si tradusse nella ricerca di termini più precisi per indicare i processi e le
relazioni sociali. Questo fu il significato della distinzione operata da Raymond Firth, tra
struttura sociale e organizzazione sociale. Egli era allievo di Malinowski, professore alla LSE,
a capo della tradizione dell’Antropologia sociale britannica.
Mentre la nozione di struttura sociale indica il sistema di relazioni normative, quella di
organizzazione sociale indica i processi di coordinamento della azioni e delle relazioni, frutto
di scelte compiute dai membri della società. Il concetto di organizzazione permette di cogliere
la realtà in maniera più dinamica.
Frederick Barth. Norvegese, annoverato tra gli antropologi di tradizione britannica, allievo di
Leach, viene considerato uno degli antropologi più versatili e prolifici della seconda metà del
Novecento.
Nel libro “Gruppi e confini etnici” del 1969 Barth ridefinisce le nozioni di gruppi e confine
etnico.
Per gruppo etnico si intende un insieme di individui aventi orini storiche, linguistiche e
culturali comuni ma Barth sostiene anche che dovrebbero essere definiti in base a criteri che
gli interessati elaborano per sentirsi uniti tra loro e per stabilire una distinzione tra loro e gli
altri.
Quindi sostiene di studiare i gruppi etnici dal punto di vista delle dinamiche, pratiche e
simboliche che tali gruppi producono.
Un gruppo che interagisce con altri gruppi deve elaborare criteri di autoidentificazione che
consentano ai membri di interagire con i membri di gruppi diversi per favorire lo scambio.
I gruppi etnici diventano così configurazioni locali. La definizione del gruppo etnico assume
un carattere dinamico, che spiega la grande specializzazione produttiva di questi territori,
andando contro le concezioni di società statiche della tradizione struttural-funzionalista.

CAPITOLO 19 – PROSPETTIVE CRITICHE NELL’ANTROPOLOGIA FRANCESE

Con prospettive critiche si vuole intendere tutte le posizioni che hanno cambiato radicalmente
la ricerca antropologica, non più come sapere delle culture ma come sapere universale.
– Antropologia dinamista, anni 50, nuovo studio su cambiamento e acculturazione.
– Antropologia di ispirazione marxista, analisi di potere nelle società periferiche
– Antropologia primitivista che ha prodotto un discorso critico sull’Occidente.
– Antropologia dinamista.

Emerse in Francia, si mise in una prospettiva diversa dall’etnologia, lo scopo era quello di
indicare un nuova prospettiva interessata a leggere le società e le culture in una prospettiva
dinamica, di cogliere le dimensioni del cambiamento.
L’espressione situazione coloniale fu introdotta Georges Balandier mise a fuoco il rapporto tra
società tradizionali e società occidentale definendolo situazione coloniale.
Nel libro “Sociologia attuale dell’Africa nera” (1955) lo definì come il dominio imposto da
una minoranza straniera razzialmente e culturalmente diversa, in nome di una superiorità
razziale e culturale dogmatica. Balandier ne “Le società comunicanti” (1971) egli concepisce
all’interno delle società tradizionali due dinamiche: interna ed esterna. L’interna si basa
sulll’idea che ciascuna società abbia la capacità di autotrasformarsi sulla spinta delle proprie
contraddizioni/conflitti mentre esterna indica la pressione esercitata dall’esterno per
rimodellare l’assetto istituzionale e strutturale della società.
La sua novità fu presa molto in esame e a lui si deve l’espressione “terzo mondo”.
Prima di Balandier, Roger Bastide pose per primo l’accento sulle società coinvolte in un
prolungato contatto culturale. Egli prese contatto con le comunità afro-americane studiando
l’intreccio tra cultura bianca, india e africana.
Anche lui parla di doppia dinamica sociale, per esterna però egli indica anche le pressioni che
il passato di una società può ripresentare, quindi la ricerca deve tener conto dell’universalità
storica.
Egli studiò le radici dei neri brasiliani, importati come schiavi dall’africa, inaugurando quella
che lui chiamò “nevrosi culturale”, senso di smarrimento delle comunità in continua ricerca
del proprio passato.
Ne “le religioni africane in Brasile” (1961) Bastide studia l’incontro delle religioni africane
con quelle americane e cristiane, queste religioni sono sincretiche (prodotte dall’incontro con
più religioni).
In “Memoria collettiva e sociologia del bricolage” Bastide offre un’interpretazione del
funzionamento di queste religioni. Essi si uniscono cercando di rispolverare i rituali dell’antica
religione africana, poiché i ricordi sono frammentati essi devono fabbricarsela, coniugandola
con aspetti delle religioni presenti sul territorio.
Il tema dell’acculturazione si fuse con quello dell’antropologia applicata, delicata per
l’antropologo, poiché egli nonostante i propri comportamenti è interprete degli interessi di
sviluppo di società complesse, quindi Bastide propone un percorso parallelo che possa
permettere l’azione senza fenomeni di sgretolamento delle società primitive.
Antropologia di ispirazione marxista.
Fu nell’ambito degli studi di africanistica, da concetti dell’antropologia dinamista, dalle teorie
di Polanyi, dalle critiche alle dottrine ortodosse del comunismo e dai dei rimandi alle teorie di
Morgan che si sviluppò questo indirizzo di studio.
In aggiunta a ciò che aveva scritto Marx nel Capitale i filosofi francesi aggiunsero un modo di
produzione nuovo che si distinguesse da altri per il ruolo dell’ideologia (valori,
rappresentazioni, autorità politica e religiosa), quindi nell’antropologia nacquero nuove
domande e nuove questioni.
La prima ricerca fu condotta da Claude Meillassoux in Costa d’Avorio e venne pubblicata nel
libro “Antropologia economica dei Gouro della Costa d’Avorio”, definita opera chiave.
Allievo di Balandier definì lignatico il modo di produzione dominante presso i gouro,
attraverso la gerarchia di anziani e giovani. Il loro modo di produzione all’arrivo dei francesi
passò da sussistenza a piantagione mantenendo il carattere lignatico parallelamente a quello
capitalista.
Tutto ciò venne analizzato in “Donne, granai e capitali” (1975) delineando ciò che egli
chiamò modo di produzione domestico, che corrisponde all’esistenza della comunità
domestica di tutte le società agricole africane coloniali. Questa comunità si caratterizza per
alcune caratteristiche:
– una produttività sufficientemente elevata
– utilizzo della terra come mezzo di lavoro
– impiego di energia umana come fonte di energia
– uso individuale di mezzi di produzione agricoli

Questa forma è stata incorporata dai modi di produzione che l’hanno dominata nel corso della
storia. Ciò che l’autore vuole mettere in luce è la capacità di questa comunità di mettere in
riproduzione la manodopera destinata a trasformarsi in forza lavoro.
Non solo anche la prole è importante per il sistema gerarchico, infatti ciclo produttivo e ciclo
riproduttivo sono strettamente connessi.
Inoltre egli mise in evidenza la dimensione contraddittoria del contatto tra i modi di
produzione differenti. Con l’arrivo però del capitalismo questo sistema domestico viene
distrutto e con questo l’equilibrio gerarchico al suo interno.
L’antropologia marxista oltre a criticare la tradizione funzionalista criticò anche la centralità
del ruolo di parentela nelle società primitive. Infatti doveva spiegare come conciliarlo con
l’idea di una storia determinata dalle condizioni materiali di esistenza.
Il primo che affrontò questo problema fu Maurice Godelier, allievo di Lévi-Strauss,
specialista dell’Oceania. Egli cercò di conciliare economia e parentela producendo un riesame
del rapporto infrastruttura(condizioni materiali e sociali)-sovrastruttura(sfera ideologica).
La parentela per Godelier funziona come i rapporti di produzione ed è al tempo stesso
infrastruttura e sovrastruttura. La parentela andava considerata come un campo autonomo di
rappresentazioni, con leggi proprie, un po’ come aveva cercato di dimostrare Lévi-Strauss.
La religione è considera come sovrastruttura, principale struttura dei rapporti di produzione
che legavano le comunità contadine con l’organizzazione statuale e con la classe dominante.
Antropologia primitivista.
Questa mirava alla denuncia dello sterminio degli indios sudamericani perpetrato all’insegna
dello sfruttamento della foresta amazzonica. Con il termine etnocidio si riprende il concetto di
società calde e società fredde o selvaggio-civilizzato o infine della perdita di un passato di
armonia con la natura (Lévi-Strauss).
L’antropologo che rappresentò più di tutti questo indirizzo di ricerca fu Pierre Clastres, il
quale ne “La società contro lo Stato” (1974) analizza la funzione del capo e le teorie
riguardanti la filosofia politica nelle comunità indie.Il capo è designato in base a meriti e non
ha potere coercitivo nei confronti dei “sudditi”, può praticare la poliginia ma questo carattere
lo pone automaticamente fuori della sfera della cultura. In questo modo viene risolto il
problema del potere.
In questa società non c’è una dimensione politica per il fatto che non c’è uno stato. Questo è
per Clastres un pregio nel senso che non devono rendere conto a nessuno e possono soddisfare
ciascuno i propri bisogni. Sono le società primitive società di abbondanza (lavorare poco per
vivere), società del tempo libero (lavorando poco ne hanno molto), per questi motivi loro
hanno lottato contro la costituzione di uno Stato!
Ciò ovviamente entra in contrasto con la prospettiva marxista giudicata burocrate delle
scienze umane e rimette in un buona luce il primitivo e la denuncia dell’etnocidio.

CAPITOLO 20 – L’ANTROPOLOGIA E I PARADIGMI DELLA CONTEMPORANEITA’

Gli anni ’70 del ‘900 si aprono con una crisi, la crisi etnografica. Questa crisi era nata dalle
inquietudini dovute al contributo dell’antropologia alla questione coloniale. Il tema della crisi
si fuse con quello della scrittura come mezzo di controllo dell’alterità. Negli anni ’80 questa
questione esplose con grande risonanza, la causa fu data alla pubblicazione di un volume
“Scrivere le culture” del ’86, a cura di Clifford e Marcus che raccoglieva alcuni contributi
sull’etnografia e sui suoi aspetti scritturali.
Questo libro era un effetto rado di quella che venne chiamata “ French Teory”,opera di un
gruppo di pensatori francesi che vennero adottati dalla filosofia e dalle scienze umane nel
periodo delle proteste studentesche, tra questi (Sartre, de Beauvoir, Deleuze, Baudrillard,
Foucault e Derrida).
Il tema di questo libro era problematizzare in termini di rappresentazione scritturale il disagio
diffusosi tra gli antropologi nei due decenni precedenti. La fine del mondo coloniale aveva
lasciato un buco nel lavoro di indagine così che la French Teory si inserì in quei Cultural
Studies in pieno sviluppo in quell’epoca.
In quegli stessi anni andò diffondendosi la dimensione riflessiva che si dispiegò nello
sperimento etnografico, cioè ovviare all’alienazione del nativo pubblicando le sue parole.
All’osservazione partecipante di matrice Malinowskiana subentrò l’osservazione della
partecipazione.
La forma dialogica o polifonica contribuì a fare dei fenomeni presi in considerazione qualcosa
che appariva come il frutto di un’accordo.
L’idea che l’antropologo dovesse esplicitare modelli nascosti aveva reso il primitivo non
capace in quanto produttore di significati, era stato in un certo senso eliminato.
Per antropologia interpretativa si intende una prospettiva di ricerca e di analisi affermatasi in
America a partire dalla fine degli anni ’60. Nasce con l’opera di Clifford-Geertz
“Interpretazione di culture”. Questa antropologia trae origine dall’antropologia simbolica.
Tutte le correnti confluite in questa prospettiva hanno consentito di sviluppare tre grandi
tematiche:
– riformulazione del punto di vista del nativo
– discussione sui processi comunicativi tra intervistatore e intervistato
– il tema di come questo incontro possa essere trascritto in un testo etnografico

Riconosce la cultura e la vita sociale come una negoziazione di significati.


La base comune d’incontro tra osservatore e osservatore è costituita da pratiche che sono i
comportamenti parte di costellazioni più ampie di significato.
Intende la vita socio-culturale come sistema aperto, una cultura non può essere studiata in
laboratorio, in antropologia non c’è quel distacco tra osservatore e osservato, c’è piuttosto una
circolarità ermeneutica tra soggetti.
L’antropologia parte dall’assunto che gli esseri umani sono anche animali-interpretanti e
autodefinitori, questo è importante perché il contesto significante è un dato primario e
imprescindibile.
L’idea di una cultura come testo (metafora del paradigma interpretativo) trae origine dalla
ermeneutica e costituisce il lavoro di Clifford-Geertz, caposcuola dell’antropologia
interpretativa. Egli attraversoricerche sul campo ripercorre le tappe del mondo musulmano
anche a scopo comparativo.
In “interpretazione di culture” Geertz ha esposto i principi di una teoria interpretativa della
cultura ma allo stesso tempo ha ammesso i limiti di questa teoria riguardo la valutazione delle
interpretazioni culturali tanto che i suoi critici la definirono “l’indeterminatezza della teoria
interpretativa, in questo modo l’autore ammette la soggettività della teoria ma invece di
trovare verità scavando oltre una superficie per Geertz si tratta di “sfogliare” uno ad uno i
significati stratificati la cui trama costituisce il testo della cultura.
Il significato non è un fatto privato, è inter-soggettivo e pubblico e la cultura nel suo insieme è
un testo che l’antropologo tenta di leggere. Per descrizione densa si intende l’atteggiamento
che l’antropologo deve avere quando cerca cerca di comprendere una cultura che è fatta di
azioni e simboli aventi tutti un significato specifico ma diverso nei contesti.
É qui che risiede l’oggetto dell’etnografia (per Geetrz uguale all’antropologia), una gerarchia
stratificata di strutture significative nei cui termini sono prodotti, percepiti e interpretati i
comportamenti.
Appare quindi evidente la vocazione idiografica (fatti particolari) e particolaristica
dell’antropologia interpretativa, dietro l’impostazione interpretativa di Geertz ci sono filosofi e
sociologi e dietro la sua considerazione del testo etnografico come come testo letterario ci
sono filosofi e saggisti.
“Dal punto di vista dei nativi” consiste in un esame di tre modi di costituzione dell’idea di
persona in tre contesti culturali distinti: Giava, Bali e una cittadina del Marocco. L’intenzione
era quella di scoprire la loro idea di ciò che è il sé.
Lo spunto di questo lavoro venne dopo la pubblicazione postuma dei famosi diari di
Malinowski che per Geertz servirono a chiedersi cosa accade al comprendere quando
l’immedesimarsi scompare, come si può conoscere un’altra cultura se è impossibile capire
l’altro per empatia.
La conoscenza antropologica oscilla tra due poli: concetti vicini, quei concetti che chiunque
può utilizzare per definire ciò che si sente, si pensa si immagina, e poi in concetti lontani,
sono quelli con caratteristiche contrarie. L’antropologo per non essere troppo vicino ne troppo
lontano deve confrontarli sempre, utilizzando e riprendendoli.
Dopo Geertz questa prospettiva ha visto qualche mutamento ma soprattuto ha introdotto il suo
carattere di contemporaneità con conseguente restituzione all’atro di una parola prima negata.
Contemporaneità è un po’ come dire globalizzazione, dove infatti le società e le culture vanno
studiate oggi e nel loro ambiente globale.
Tra i tanti che hanno contribuito a una revisione critica dei metodi e dei paradigmi
antropologici vi è il sociologo francese Pierre Bourdieu, studioso dei Berberi d’Algeria,
sviluppò una teoria “prassiologica della conoscenza” e teoria dell’Habitus. Nei “Lineamenti di
una teoria della pratica” del ’72 Bourdieu espone la prospettiva che per lui è la più corretta da
adottare nel corso della ricerca socio-antropologica.
La conoscenza prassiologica si distingue da quella fenomenologica (osservazione del mondo
così com’è) e da quella oggettivistica (quella prodotta dagli antropologi che collegano
fenomeni e li generalizzano). Per Bourdieu la conoscenza prassiologica è quella che consiste
nell’osservare le pratiche sociali cogliendole con lo sguardo di chi sa che queste pratiche sono
connesse con le strutture colte della conoscenza oggettivistica.
L’habitus è il modo in cui ciascuno di noi esprime con il comportament il pensiero e gli
atteggiamenti in genere, per Bourdieu è un sistema di disposizioni durature predisposte a
funzionare come struttura strutturante.
La nozione di habitus investe la nozione di corpo in quanto mezzo grazie al quale gli esseri
umani entrano in contatto con il mondo.
Gli antropologi hanno molto insistito sull’idea di incorporazione come nozione per descrivere
il nostro essere nel mondo, tra questi vi è l’antropologo americano Thomas Csordas che con il
suo lavoro del ’94 Incorporazione ed esperienza.Il fondamento esistenziale della cultura e del
sé” ha divulgato il cosiddetto paradigma dell’incorporazione.
Per Csordas l’incorporazione può costituire un paradigma-guida della ricerca antropologica, in
quanto il corpo non è solo l’oggetto di studio ma anche il soggetto per eccellenza della
conoscenza e della produzione culturale.
L’antropologia marxista ha lasciato una vasta eredità, ha colmato il buco del concetto di
centro-periferia, ha permesso all’antropologia di poter spiegare dinamiche sociale e culturali
del mondo attuale ma allo stesso è stata utilizzata anche per spiegare fenomeni al di fuori
dell’occidente (marx parlava solo dell’occidente).
Paul Farmer, esponente di primo piano dell’antropologia medica, è colui che ha imposto
l’espressione di “violenza strutturale”. In “Patologie del potere: salute, diritti umani e la nuova
guerra sui poveri” del ‘2003 , egli illustra le nozioni di violenza e sofferenza strutturale
(applicandole a casi come Haiti, dove ha condotto ricerche su malattie e povertà).
Per violenza strutturale intende uno stato di sofferenza che prodotto dell’insieme di più fattori,
strutturale che identifica la maggior difficoltà di poter uscire da questa condizione.
Questa sofferenza si incorpora nel soggetto producendo situazioni di non-progetto della
propria vita. Egli denuncia anche la non-intenzione da parte dei paesi ricchi di risolvere gli
squilibri di queste realtà preferendo lanciare campagne di solidarietà internazionale.
A Farmer si aggiunge anche il lavoro dell’antropologa americana Nancy Scheper-Hughes, che
si è interessata di studi sul genere, sul corpo, sulla malattia mentale, sulle emozioni.
In “Morte senza lacrime:la violenza della vita quotidiana in Brasile” del 1992 ha studiato la
dinamica della violenza e della sofferenza tra i poveri brasiliani e l’instaurazione di
comportamenti di resistenza e rifiuto nei confronti del potere espressi attraverso
l’incorporazione della violenza e della sofferenza.
In Un recente articolo “Il Traffico di organi nel mercato globale”, la Hughes dà un quadro
piuttosto crudo degli squilibri che favoriscono il commercio di organi umani tra Nord e Sud
del mondo., questo dal punto di vista socio-antropologico è un fenomeno che tocca aspetti
molto diversi, come la concezione dell’integrità del corpo umani e l’idea di contaminazione.
L’interesse per la cultura portò al cambiamento di denominazione dell’antropologia in
“Antropologia Culturale”, che ha influenzato anche i Cultural Studies inglesi.
I Cultural Studies di Herbert R. Hoggart erano stati creati dopo la fine dell’impero coloniale
per comprendere una realtà come quella britannica dove questioni come le differenze etniche
e quelle sul colore della pelle si affiancavano alla crisi del movimento operaio, alle accentuate
differenze di classe e alle discussioni sul genere e sull’identità sessuale.
L’idea di cultura venne ad immedesimarsi in un luogo di incontro-scontro, di disputa-dibattito
per l’affermazione di idee e diritti da parte dei gruppi diversi. La politica multiculturalista
britannica favorì queste dinamiche sociali.
In questa prospettiva si inserisce la nozione di agency utilizzata da Stuart Hall, che sintetizza
con questa parola la capacità che gli individui hanno di dare significato a eventi e
rappresentazioni, accogliendoli o rifiutandoli per adattarsi e/o resistere nel momento stesso in
cui promuovono una propria forma di soggettività.
In “Modernità in Polvere” del 1996 Arjun Appadurai ha sostenuto che il termine cultura
dovrebbe essere usato nella sua forma di aggettivo culturale, la sfera del culturale è infatti
mutabile.
Appadurai ha coniato espressioni come: Etno-rama (i nuovi paesaggi umani fatti di
migrazioni, turismo, rifugiati da guerre, espatriati, medio-rama (flussi di immagini e info dei
media che creano nuovi immaginari in persone e ambiti diversi e ideo-rama (idee che grazie ai
media viaggiano da un capo all’altro del mondo, dando origine a nuovi modi di intendere
quelle stesse idee.
In una prospettiva non troppo diversa si inserisce Marc Augé, antropologo francese
africanista. Con il concetto di surmodernità (modernità in eccesso) vuole indicare
essenzialmente tre fenomeni tipici del mondo contemporaneo: accelerazione della storia,
restringimento dello spazio e individualizzazione dei destini. Questi sarebbero effetto di
eccesso di eventi di cui siamo informati quotidianamente, un eccesso di immagini del mondo,
eccesso di riferimenti individuali (solitudine umana). Per Augè le società europee e americane
stanno vivendo quello che hanno vissuto le popolazioni africane durante il colonialismo,
cambiamenti sociali, fine delle religioni tradizionali, arrivo di una nuova divinità, irruzione di
beni materiali, contatti con stranieri portatori di immagini, comportamenti e idee all’inizio
incomprensibili.
Nei suoi grandi lavori “l’Etnologo nel metrò” (1986), Non-luoghi (1992) e “Antropologia
della mobilità” (2009) presenta l’antropologia come una chiave di interpretazione del mondo
contemporaneo attraverso l’esperienza degli altri, mantenendo così il suo carattere di studio
dell’uomo.

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