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È difficile indicare un momento nella storia in cui può essere nata una qualche forma embrionale di

antropologia, in quanto la materia, intesa come studio dell’Altro, è un’attività insita nell’osservazione del
mondo di ogni cultura. Per quanto riguarda l’antropologia come disciplina sviluppatasi nel dibattito
intellettuale occidentale, le sue origini possono datare perfino a Erodoto, ma la discussione inizia a palesarsi
chiaramente solo con il colonialismo, con le varie testimonianze di contatto con i cosiddetti “selvaggi” di
esploratori e mercanti britannici, spagnoli e portoghesi e con il mito illuminista del “buon selvaggio” di
Montaigne e le sue rielaborazioni in Rousseau e Voltaire. L’antropologia inizia ad assumere forme
pubblicamente riconosciute e organizzate solo con Lafitau e la nascita dell’etnologia all’inizio del 1700, con
un’opera che può essere considerata un precoce studio comparativo sulle credenze nativi nordamericani, e
dopo l’illuminismo con la francese Società degli osservatori dell’uomo, nata sullo sfondo dell’entusiasmo
napoleonico per l’Oriente palesatosi con la spedizione in Egitto, che teorizzava l’importanza dello studio dei
selvaggi al fine di comprendere le tappe della storia dell’umanità tramite un viaggio, formando la figura del
viaggiatore-filosofo che per certi versi anticipa quella dell’etnologo. La società ebbe però vita breve e con la
composizione dello Stato napoleonico militarizzato e dopo il congresso di Vienna il dibattito sui “selvaggi”
quasi scomparve per una buona metà di secolo.

La seconda metà dell’Ottocento è il periodo in cui viene posta la nascita dell’antropologia come disciplina
accademica. Per capire la sua genesi, però, è essenziale conoscere il contesto culturale dell’epoca, sia
artistico che intellettuale. I due poli principali della cultura tardo ottocentesca sono Parigi e Londra; Parigi,
capitale culturale europea, descritta da Benjamin in quella che per molti è la prima opera di antropologia
urbana, scritta usando la tecnica dell’ipertesto, vede negli anni ’70 nascere il Movimento Impressionista,
seguito dall’invenzione del cinema da parte dei fratelli Lumiere e dall’avanguardia letteraria di Zolà, i cui
diari possono per certi versi venire considerati delle opere di etnologia. Proprio in questi taccuini troviamo
un chiaro esempio di metodo etnografico: Zolà era convinto che bisognasse fare una rappresentazione della
vita, che bisognasse vivere la realtà descritta. Per questo, nel descrivere scene e luoghi egli si basava sugli
appunti presi durante lunghe e ripetute frequentazioni di luoghi simili, oltre che su lunghe analisi del
proprio sentire per riuscire a mostrare piuttosto che a dire, ossia a scrivere senza ricorrere a concetti
astratti, ma mostrando le reazioni che una certa emozione dà piuttosto che l’emozione stessa.
Estremamente rilevante per il suo contesto storico è la bestia umana, pubblicato nel 1890, avente come
soggetto stazioni, treni, locomotive, soggetto poi presente anche nella prima opera dei Fratelli Lumiere. La
locomotiva è, infatti, un vero e proprio simbolo della fine dell’Ottocento, immagine di progresso, della sua
vittoria sul tempo e sullo spazio, e del dilagante ottimismo storico presente. La seconda metà dell’ottocento
è l’epoca delle esposizioni universali di Londra (51) e Parigi (67), dove vengono mostrate le più grandi
avanguardie tecnologiche dell’industria europea, che contribuiscono a forgiare l’idea di un progresso
cumulabile, continuo e lineare, per volere divino portato al “migliore dei mondi possibili”. é proprio questo
generale positivismo a venire attaccato da Zolà, che mostra l’uomo come una bestia, un animale, criticando
aspramente il perbenismo borghese dell’epoca. Una simile critica viene da Robert Louis Stevenson nel suo
Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hide, pubblicato pochi anni prima, che con il tema del doppio, della
presenza di una natura fortemente animale nell’essere umano critica aspramente la borghesia e lo
scientismo, la profonda convinzione, messa in dubbio anche da Zolà, che il progresso scientifico possa
portare l’uomo alla felicità. Londra è la città simbolo dell’evidente contraddizione del progresso: “la città
macchina” descritta così negativamente da Dickens in “Tempi Duri” è comunque la capitale di un impero
che in epoca vittoriana (1837 – 1901) occupa due terzi del suolo mondiale e è all’avanguardia in ogni
scienza progressista.

È in questo contesto che esce, nel 1859, un’opera rivoluzionaria tanto per le scienze naturali quanto per lo
studio dell’uomo: L’origine delle specie di Charles Darwin. Darwin, figlio di intellettuali e borghesi, nasce
all’inizio dell’Ottocento e intraprende studi prima di medicina, seguendo le orme del padre, per poi passare
a teologia. Darwin abbandona entrambi gli studi e nel 1831 si imbarca con l’ammiraglio Fitz-Roi per una
spedizione di carattere scientifico intorno al mondo. Tornerà dopo cinque anni con un’imponente quantità
di documentazione sulle varie specie di animali e di pianti presenti nel mondo, in particolare nelle isole
Galapagos dove la spedizione si ferma a lungo. Al ritorno, il giovane Darwin si sposerà con una cugina e si
ritirerà in campagna, lavorando per i successivi vent’anni all’opera che vedrà la luce nel 1859. L’avanguardia
di Darwin sta nel fatto di riprendere le intuizioni di Lamarck, morto nel ’29, che già aveva intuito l’infinita
variabilità delle specie animali (ma che Darwin illustra scientificamente) e la loro evoluzione tramite
l’adattamento all’ambiente senza però giungere a spiegare il rapporto tra fenotipo e genotipo, ossia tra il
cambiamento dato dalla supercompensazione e la sua trasmissione ereditaria. Darwin realizza la casualità
dell’emergenza delle diverse caratteristiche nei singoli animali all’interno di una specie e la graduale
sopravvivenza del più adatto che porta all’evoluzione globale della specie con l’accoppiamento tra membri
più adatti e il trasferimento di tali caratteristiche alla prole. In questo, Darwin reinterpreta le idee di Lyell,
geologo, autore dei “Principi di Geologia” del 1830, secondo cui gli stessi meccanismi che avevano portato
alla formazione del mondo come appare oggi sarebbero in atto nel modificare il mondo attuale. Per capire
la rilevanza e lo scandalo che queste opinioni destarono nella società dell’epoca è importante far notare
che prima delle teorie di Darwin, la versione ufficialmente riconosciuta dell’evoluzione fosse quella estratta
letteralmente dalla Bibbia, che si distingueva in fissismo, ossia la convinzione che la realtà fosse stata creata
circa nel 4000 a.C. esattamente come ci appare oggi, e in degenerazionismo, che escludeva dall’idea fissista
l’uomo, degenerato a causa del peccato originale. Questa degenerazione era totalmente incarnata nel
selvaggio, a cui si contrapponeva il civile uomo bianco occidentale, civile per volontà divina, e la
colonizzazione veniva dunque vista come l’unica possibilità per il selvaggio di trovare salvezza (il cosiddetto
“white man’s burden”). Con Darwin, la stessa civiltà diventa non più un dono divino, ma una tappa della
strada verso il benessere percorribile dall’uomo con le sue forze.

Le idee di Darwin, con lo stesso principio isoformista tramite il quale Darwin aveva applicato le leggi della
geologia alla biologia, vennero nei decenni successivi applicate anche alle nascenti scienze sociali. In
particolare, Spencer, sociologo britannico, applicò le idee di Darwin in maniera molto stretta, dando origine
a quello che oggi viene chiamato “darwinismo sociale”, secondo cui questa “sopravvivenza del più adatto”
corrisponderebbe a un dirozzamento dell’umanità, nella quale ci sono “razze” più o meno adatte alla
sopravvivenza (ossia più o meno inclini alla civilizzazione). Il darwinismo sociale ha molto riscontro nella
società vittoriana e porta a una serie di nuove convinzioni (la superiorità scientifica dell’Occidente, il fatto
che la solidarietà sociale sia un male) che oggi vengono viste come protonaziste. Spencer avrà numerosi
allievi anche negli Stati Uniti alla NYU, tra cui Sumner, che conierà l’idea di etnocentrismo.

Anche se non direttamente influenzata da Darwin, è in questo contesto che nasce l’antropologia come
disciplina accademica. Fortemente caratterizzata da un approccio evoluzionista, profondamente teorico
(non esiste ancora il riconoscimento della necessità della pratica sul campo), che vedrà come padre
fondatore Edward Burnett Tylor, britannico, autore di “Primitive Culture” del 1871 e poi primo professore
di antropologia a Oxford nel 1896. In “primitive culture”, l’approccio di Tylor è profondamente nomotetico
e volto a costruire una scienza naturale delle società, della cultura (descritta in questo libro per la prima
volta dal punto di vista antropologico). Perfettamente immerso nel suo tempo, Tylor propone una versione
dell’evoluzione umana e del progresso partendo dalle allora recenti intuizioni dell’archeologo Lubbock, che
afferma che per capire le società “selvagge” contemporanee, un grosso aiuto possa venir dato dallo studio
delle società primitive; Tylor rivolta quest’affermazione e esprime la teoria del fossile vivente, ossia del
fatto che le popolazioni “selvagge” contemporanee non siano altro che testimonianze visibili di uno stato
precedente del progresso umano, visto come continuo, cumulativo e lineare, ossia procedente attraverso le
stesse tappe, il cui scalino più alto è la società inglese tardo ottocentesca. Quest’interpretazione è
valorizzata da una lettura (errata) dei reperti, tramite i quali si assume implicitamente che il progresso
tecnologico determini il progresso sociale: le società vengono comparate per tratti isolati, ossia dalla
comparazione di singole caratteristiche delle culture da cui vengono dedotte le comparazioni fra società.
Tylor introduce nello studio del “selvaggio” una categoria temporale, lo studio del selvaggio diventa un
viaggio nel tempo, negando totalmente la coevità di studiato e studioso, come criticherà negli anni ’80
Fabian. Parlando dell’evoluzione dall’animismo, ossia uno stadio in cui l’uomo crede nella presenza di
“spiriti” in tutte le cose, tramite la religione fino al pensiero scientifico e razionale, Tylor teorizza l’esistenza
di un’altra forma di fossili viventi, ossia le sopravvivenze, le presenze di “vecchio” nel cuore del “nuovo”,
come possono essere le credenze religiose all’interno della società razionale tardo ottocentesca, che sono
qualcosa di “fuori posto”, presente nella società ma senza alcuna relazione con l’attualità.

Dopo Tylor, l’antropologia inizia a diffondersi anche in altri contesti con altri autori (degno di nota è Morgan
e il suo lavoro con i nativi nordamericani), diventando sempre più raffinata fino a giungere all’apice del
paradigma evoluzionista: “il ramo d’oro” di James Frazer. Pubblicato inizialmente nel 1890, la versione
integrale esce nel 1915 e si rivela estremamente influente per tutti gli antropologi da lì a venire. Lo studio di
Frazer, concentrato sui miti e le credenze, parte dal presupposto che la magia sia lo stadio iniziale
dell’evoluzione delle credenze, seguita dalla religione e, infine, dall’osservazione dei fenomeni naturali. In
questa sua analisi, riveste un ruolo centrale lo studio comparativo di diversi miti (il ciclo di Gesù, di Osiride e
di Baldur) in cui è presente il costrutto del Dying God, ossia di una divinità che muore e poi risorge. Frazer
vuole in questo dimostrare che tale costrutto è il minimo comune denominatore dei diversi miti (e quindi
presente in tutte le culture, quindi nell’essere umano in quanto tale, all’origine dell’uomo) e poi spiegare il
perché della sua presenza. Frazer, pur partendo da basi filologiche incredibilmente forti, sembra non porsi il
problema delle fonti e della loro traduzione, problema che verrà poi evidenziato già con Boas. Frazer trova
la soluzione al problema della presenza del costrutto con quella che viene definita ipotesi agraria, ossia un
tentativo di spiegare l’arrivo dell’inverno e della crisi alimentare e poi il ritorno della primavera.
Quest’analisi estremamente affascinante troverà numerose critiche nei suoi successori; Frazer può infatti
venir definito “l’ultimo vittoriano”, e la sua carriera si trova proprio all’inizio di un’epoca di “crisi delle
certezze”, in cui l’ottimismo positivista ottocentesco inizia a crollare per fare spazio a una fase di
destabilizzazione, l’epoca della psicanalisi di Freud e della crisi dell’unicità dell’io, l’epoca di Cuore di
Tenebra di Conrad, che proprio in tema di nativi e selvaggi, denuncia l’orrore del colonialismo e mette in
dubbio la capacità dell’occidente di poter davvero spiegare i nativi.

Contemporaneo di Frazer, ma appartenente a un contesto radicalmente differente sia dal punto di vista
geografico che intellettuale, è Franz Boas. Boas nasce a Minden a metà Ottocento e inizia una promettente
carriera in ambito fisico, matematico e infine geografico. Durante il dottorato, Boas si recherà nell’Artico
canadese al fine di eseguire una serie di ricerche scientifiche. Lì entrerà in contatto con i nativi, gli Inuit,
grazie ai quali inizierà a dedicarsi all’antropologia. Negli anni ’80 Boas resta per lungo tempo in artico e ha
modo di affrontare vari temi prettamente antropologici e non scientifici, come ad esempio il problema della
percezione: Boas nota infatti come gli Inuit abbiano molti più modi per descrivere le varietà di colore
dell’acqua rispetto a quanti ne abbia qualsiasi lingua europea, lingue che derivano quindi da un diverso
modo di percepire la realtà. Boas realizza come la percezione sia un fatto non solo biologico, ma anche
culturale, oltre che soggettivo. Da qui, egli imparerà la lingua inuit e inizierà a capire come per
comprendere l’uomo siano necessari strumenti diversi da quelli scientifici. Non solo; la cultura inizierà a
rivestire un ruolo così prominente nella visione dell’uomo di Boas che egli arriverà a teorizzare la differenza
tra determinismo ambientale e culturale, facendo notare come gli Inuit sviluppino la loro cultura non in
base all’ambiente, ma nonostante esso. Dopo l’esperienza in Artico, Boas si trasferirà definitivamente negli
Stati Uniti, spostando la propria attenzione sui nativi nordamericani, in particolare sui Kwakiutl, e diventerà
professore di antropologia alla NYU, dove avrà come allievi una serie di nascenti stelle dell’antropologia
come Margaret Mead, Edward Sapir e Ruth-Benedict.

A proposito dell’importanza della lingua, proprio la Mead, alla morte di Boas avvenuta nel 1942 ricorderà le
svariate lezioni di antropologia che “il vecchio” soleva passare dando agli alunni svariate ricette di torte ai
mirtilli dei nativi nordamericani da tradurre, per far capire come prima delle credenze e dei sistemi di
parentela ci sia la quotidianità, e essa è evidente al massimo nell’uso quotidiano della lingua. Da questi
aneddoti si può ben capire il carattere antiaccademico di Boas: egli infatti scrisse pochissime opere
teoriche, preferendo di gran lunga articoli etnografici (più di 600), in quanto si riteneva contrario a qualsiasi
tipo di generalizzazione, convinto del fatto che non esistesse LA cultura, ma le culture, e che l’unico modo
di fare antropologia fosse studiare il locale, le singole culture prese individualmente nelle loro relazioni
dirette con altre culture. In questo, Boas ebbe un’influenza di lunga gittata perfino su Geertz e la sua
antropologia interpretativa con il suo uso del termine “verstandnis”, comprensione, base dalla quale
partire per studiare le diverse culture. L’approccio di Boas all’antropologia immerso nel suo contesto
storico è evidente nel seminale articolo del 1896 “i limiti del metodo comparativo in antropologia”, dove
l’autore si schiera apertamente contro l’evoluzionismo e la sua comparazione, criticando ferocemente la
comparazione per tratti isolati, giudicata come una decontestualizzazione dei singoli tratti. Come esempio,
Boas usa le maschere, elencando varie culture in cui sono presenti delle maschere e i loro diversi usi di
società in società: tra di esse ci può essere una similarità formale, ma essa è puramente apparente; lo
scopo dell’antropologia è studiare l’uomo, e ciò si può fare solo cercando di comprendere le differenti
storiche specificità. Boas negava infatti qualsiasi tentativo di costruire una storia uniforme dell’umanità,
affermando che la pretesa degli evoluzionisti di scrivere una storia a “tappe evolutive” era assolutamente
indimostrabile perché partiva dall’idea approssimativa che gli stessi fenomeni etnologici siano sempre
definiti dalle stesse cause. In questo Boas fu molto influenzato dallo storicismo tedesco, che vedeva lo
sviluppo delle cosiddette “scienze dello spirito” in particolarità storiche non assimilabili a quelle di altre
società. L’approccio di Boas viene per questo definito “particolarismo storico”, fondato sulla particolarità di
un tratto nel suo sviluppo storico piuttosto che sulla comparazione tra tratti solo apparentemente simili. È
importante sottolineare come, nel contesto di una società succube delle idee evoluzioniste e spenceriste,
Boas si pose apertamente contro qualsiasi tipo di razzismo; nei suoi studi sul campo e in “The Mind of
Primitive Man”, cercò di far comprendere come la mente del “selvaggio” non fosse in alcun modo
differente dalla mente dell’uomo bianco civilizzato. Egli affermò come esistano stili cognitivi differenti, ma
non “stadi evolutivi mentali” differenti. Il suo tentativo di spiegare la pratica del potlach tra i Kwakiutl
secondo le regole di mercato ne è un chiaro esempio. Proprio questo lavoro, in tedesco “Kultur und Rasse”
fu uno dei tanti libri bruciati durante la notte del 10 maggio 1933 dal regime nazista.

È proprio nel periodo delle due Guerre Mondiali che emerge una delle figure più importante
dell’antropologia del Novecento: Bronislaw Malinowski. Polacco di origine, come Boas egli inizia un
percorso accademico molto promettente nel campo delle scienze “dure”, arriva a laurearsi ma il giorno
dopo gli viene diagnosticata la tubercolosi. Nel periodo di convalescenza, inizia a studiare l’inglese
traducendo un volume presente nella biblioteca paterna, “Il Ramo d’Oro” di Frazer. Folgorato dalla lettura,
inizia ad appassionarsi di antropologia e con una serie di fortunati contatti riesce ad andare a studiare alla
London School of Economics. Già prima della ricerca sul campo, pubblica alcuni lavori (tra cui uno studio
sulla famiglia tra gli aborigeni australiani), ma il momento probabilmente più importante della sua
formazione sono gli anni della Grande Guerra che, in tre spedizioni diverse, passa sul campo nelle isole
Trobriand (Melanesia). Da quest’esperienza Malinowski scriverà la prima monografia etnografica della
storia dell’antropologia, “Argonauti del Pacifico Occidentale”, pubblicata nel 1922, con un’introduzione di
Frazer, che lo considerò un esempio di “perfezione scientifica”. Diventa quindi professore di antropologia e
nel 1938 si traferirà negli Stati Uniti, a Yale, prima come visiting professor e poi, a causa della seconda
guerra mondiale, come professore ordinario. Morirà negli Stati Uniti nel 1942, pochi mesi prima di Boas.
L’importanza di Malinowski, almeno fino agli anni ’60, è di aver contribuito all’antropologia con un metodo:
l’osservazione partecipante. Malinowski non è infatti il primo ad effettuare studi sul campo (già abbiamo
citato gli studi in Artico di Boas), ma è il primo a teorizzare il suo studio nel primo capitolo della monografia.
L’osservazione partecipante consiste nell’immersione nella realtà studiata: Malinowski, in contrasto con i
suoi predecessori (a parte Boas), inizia a vivere con le popolazioni che studia, fa le stesse cose che fanno
loro, dorme dove dormono loro, mangia come mangiano loro e parla la loro stessa lingua. Malinowski
arriva a capire che ogni popolazione ha uno “specifico gusto della vita”, che dietro ogni azione ci sia un
“profondo significato” da “comprendere”, pur comunque mantenendo l’antropologia come uno studio
dell’”altro” e non dell’”incontro con l’altro” come farà poi Geertz. I contributi teorici di malinowski sono
soprattutto riguardanti la famiglia (degno di nota il suo studio sulla famiglia elementare, fondamentale
nucleo nato in funzione della pericolosità dell’incesto per il mantenimento delle strutture familiari stesse),
la magia e della religione (dove a differenza di Frazer, Malinowski individua per le due delle funzioni
diverse: una di “ritualizzare l’ottimismo dell’uomo”, ossia di superare l’incapacità umana di influenzare la
propria vita concreta, l’altra di trovare salvezza dopo la morte), e in particolare la dimensione olistica dello
studio antropologico. Riguardo quest’ultimo punto, Malinowski esemplifica usando la tradizione dello
scambio kula, una pratica trobriandese che fonde ritualità, economia e socialità, facendo capire come tutti i
tratti di una cultura siano tra di loro interconnessi secondo rapporti di covariabilità.

Nel 67, dopo essere stato tenuto segreto per decenni, viene pubblicato “a Diary in the strict sense of the
term”, il diario “segreto” di Malinowski tenuto durante la sua esperienza sul campo. Prima della sua
pubblicazione, attorno a Malinowski si era creato un vero e proprio mito: ammirato da tutti per la sua
capacità di entrare in empatia con qualunque interlocutore, in particolare con i nativi, la sua popolarità si
era estesa al di fuori dell’ambito accademico arrivando a fomentare la reazione alla crisi post-bellica
dell’ideale della fuga dalla civiltà. In questi diari, però, Malinowski appare come una persona molto
controversa: intesi come un metodo di auto-analisi, spinto probabilmente dalle ricerche psicanalitiche di
quegli anni, nei Diari Malinowski tratta di fantasie sessuali, disprezzo di sé e perfino di disprezzo nei
confronti dei nativi, che definisce come “negracci”. La loro pubblicazione desta immediatamente scandalo e
perfino il suo allievo Firth, che ne scrive l’introduzione, trova difficoltà nell’interpretare l’apporto che essi
possono dare alla figura del suo maestro e del suo contributo in antropologia. Essi aprirono un grande
problema metodologico su quanto l’antropologo fosse in grado di cogliere il punto di vista dell’indigeno
quando egli deve anche confrontarsi con le proprie stesse interpretazioni, con il proprio stesso disagio.
Dopo molto dibattito, Malinowski negli anni ’80 è stato riabilitato, anche grazie al lavoro di Geertz “I
witnessing”, in cui egli arriva ad affermare il ruolo quasi superiore ad Argonauti che i diari abbiano avuto
nella comprensione della materia antropologica: I diari ci permettono di capire veramente l’osservazione
partecipante e di umanizzare lo studioso, ossia di comprendere l’ossimoro nella locuzione “osservazione
partecipante”, ossimoro che viviamo giornalmente nell’osservazione partecipante del nostro stesso io. Le
accuse di razzismo e di devianza in Malinowski sono state confutate con una lettura che non
decontestualizzi i Diari né internamente (leggendoli interamente) né esternamente (leggendoli assieme
all’opera elaborata che è Argonauti). Quello che con i Diari Malinowski ha insegnato all’antropologia è
l’importanza del riposizionamento a cui il campo porta, un riposizionamento fisicoe ambientale, che cambia
radicalmente le sensazioni e il vivere quotidiano, ma anche un riposizionamento etico, provato da
Malinowski al massimo della sua potenza senza alcuna preparazione (ricevuta invece dagli antropologi di
oggi). Il conflitto che troviamo tra i diari e argonauti è quello descritto da Calvino nelle sue “lezioni
americane”, tra la fiamma, la spontaneità e l’immediatezza dei diari, una testimonianza
dell’incomprensione della vita, e il cristallo, la fredda scientificità il rigore di Argonauti. Nella vita
accademica, la svolta ermeneutica verso la fiamma non si compie, perché viene pubblicato argonauti
perfino con l’introduzione di Frazer. In questo sta la profonda differenza fra il campo in Boas e in
Malinowski: per Boas, il campo, meno sofferto psicologicamente, non si può tramutare in una monografia
in quanto egli si rende conto dell’impossibilità di ridurre le persone in griglie teoriche, cosa che Malinowski
invece fa. Boas si rende conto della difficoltà man mano crescente che si ha andando verso lo studio
sempre più particolare, il che evidenza la totale incomprensione della vita umana e l’impossibilità di ridurla
a interpretazioni scientifiche. Geertz riprenderà questi punti e arriverà a ribaltare l’idea di significato e
comprensione in Malinowski e la sua stessa idea dell’obiettivo dell’antropologia, che è quello di fare un
“giro lungo” (invece del “giro corto” della filosofia) per comprendere l’antropos, ossia per comprendere noi
stessi. È qui che il riposizionamento gioca un ruolo fondamentale. L’antropologia non diventa più un modo
per estrarre informazioni, ma è essa stessa un modo per crearne di nuove nel dialogo. L’antropologia arriva
quindi a cercare di comprendere l’incontro con l’altro, non l’altro in sé.
Malinowski, insieme a Radcliffe-Brown, è il principale esponente della corrente definita “funzionalismo”. Il
funzionalismo, come già accennato, si concentra sulla funzione che un tratto culturale assume in una
società. Esso riprende largamente la sociologia di Durkheim e in particolare il suo concetto di struttura: essa
è per Durkheim la realtà empiricamente osservabile di un oggetto; dunque la struttura di una società è “la
trama dei rapporti realmente esistenti fra le persone”, citando Radcliffe-Brown. Questi rapporti sono legati
fra loro con rapporti di covariazione volti a formare un sistema che risulta lo scheletro organizzativo di una
società. Il mattone fondamentale del palazzo che è una società è per i funzionalisti l’istituzione. È
importante notare come in questa analisi la struttura di una società sia indipendente dai membri della
società stessa, sia quindi esistente indipendentemente dall’osservatore. Per questo, essa risulta statica e la
cultura stessa diventa un prodotto piuttosto che un processo; il funzionalismo non è, al contrario
dell’evoluzionismo, antistorico, ma è piuttosto astorico, ossia non contempla lo sviluppo temporale in
generale. Per gli evoluzionisti, la società non si sviluppa “nel Tempo”, ma piuttosto a partire da bisogni
fondamentali, i cosiddetti basic needs, la cui risposta porta poi all’emergenza di bisogni secondari e via
dicendo, come si può notare nella teoria della famiglia elementare di Malinowski precedentemente
esposta.

La teoria della struttura di Durkheim viene completamente ribaltata da un antropologo francese che
diventerà la figura principale dell’antropologia della metà del Novecento: Claude Lévi-Strauss. Nato a inizio
Novecento, inizierà una carriera nella filosofia, studiando alla Sorbonne di Parigi. Egli si sentirà comunque
sempre disancorato dal suo percorso di studi, avendo una fame per grandi risposte che non trova né nella
filosofia né nell’antropologia di allora. Dopo la laurea, diventa professore di liceo e passa poi un periodo in
Brasile nel 35 e poi nel 38. Questo sarà il suo primo contatto con i nativi e soprattutto con il calderone di
culture che è il Brasile degli anni ’30. Interessatosi così all’antropologia, dopo un incontro con Lowe riuscirà
ad ottenere una borsa di studio per la New School for Social Resources di New York, dove vivrà fino al 1945,
assistendo anche alla morte di Boas nel ’42. Nello stesso anno, Lévi-Strauss incontrerà Jakobson, linguista
strutturale grazie al quale inizierà una vera e propria rivoluzione nella sua visione dell’antropologia e che
darà origine a quello che egli chiamerà poi strutturalismo in antropologia. Dopo la tesi di dottorato del 1948
(“le forme elementari di parentela”), nel 1955 Lévi-Strauss pubblica “Tristi Tropici”, monografia riguardante
la sua esperienza di campo in brasile. È importante notare come l’opera di Lévi-Strauss, pur fermamente
scientifica e ordinata, contiene al suo interno diverse sfaccettature e influenze, dalla linguistica strutturale
all’esistenzialismo di Sartre, e lo porta ad affrontare questioni più prettamente filosofiche riguardo
l’esistenza nel senso più vasto. Nel 1960 gli viene concessa la cattedra di antropologia al Collegio di Francia;
essa sarà la sua consacrazione come massimo antropologo vivente, e per l’occasione egli tiene una lezione
inaugurale che risulta una sintesi importantissima del suo pensiero. In tale conferenza, Lévi-Strauss passa
dal definirsi allievo e testimone dei nativi brasiliani, mostrando la sua incredibile umiltà e la sua
comprensione dell’autorità dell’antropologo di “essere stato là”, al criticando aspramente l’idea ancora
presente del “fossile vivente”, individuando la causa del cambiamento sociale, del sopravvivere o meno di
società, nella relazione in qualche modo sempre asimmetrica che vi è fra i diversi gruppi, nel semplice
contatto con altri gruppi.

Lévi-Strauss è il massimo esponente di quello che lui stesso definì “strutturalismo”. Egli elaborò il suo
pensiero a partire principalmente dai legami di parentela, di cui non tratteremo, e dalla mitologia. Per
definire il proprio concetto di struttura, L.S. venne folgorato dall’idea della Torre di Babele della linguistica,
cui essa aveva, anche se non del tutto trovato soluzione: la linguistica infatti, era riuscita a stabilire una
serie di principi comuni e a ridurre notevolmente la complessità delle differenze tra i vari ceppi linguistici. In
seguito a ciò, la struttura diventa la “cateogoria-pelle” insita nell’essere umano in quanto tale in base alla
quale esso percepisce il mondo esterno. DI questo sono un esempio proprio i miti, da L.S. considerati
strumenti logici per risolvere verità ultime funzionanti sulla base di mitemi, strumenti che, come i fonemi
nella linguistica, di per loro non hanno significato, il quale viene assunto in base al loro diverso associarsi in
base all’esigenza. Questi sono associati secondo il nostro inconscio strutturale, uno strato interno al di
sotto della consapevolezza, appunto una “categoria-pelle” in base alla quale vediamo la realtà (che non è
quindi indipendente dall’osservatore com’era nello strutturalismo). Per questo la cosa più importante da
analizzare secondo Lévi-Strauss è proprio la struttura, in quanto in base ad essa si può interpretare tutti gli
altri fenomeni; l’approccio strutturalista è un approccio quindi deduttivo: solo a partire dalle
generalizzazioni (la struttura) si può analizzare le singolarità. In questo risulta evidente la pretesa
dogmatica, quasi teologica di L.S.: lo strutturalismo è un approccio né antistorico né astorico, è piuttosto
sovrastorico, ossia indipendente dalla storia in quanto anch’essa frutto della struttura, del “pensiero
selvaggio”, che è tale e quale in noi e nei “selvaggi”. Lévi-Strauss ha la pretesa di affrontare la struttura in
modo nomotetico, oggettivo. Secondo Lévi-Strauss, la struttura organizza la realtà in base a opposizioni
binarie, la cui prima e fondamentale è l’opposizione natura-cultura, presente in ogni singola cultura in
qualche modo. I miti, in quanto strumenti logici funzionali al rendere esprimibili delle verità simboliche di
gruppo, sono organizzati secondo la stessa logica di opposizioni binarie. Ne è un esempio il mito di edipo,
che secondo Lévi-Strauss ha la funzione di affrontare un problema socio-politico del contrasto tra la stirpe
(l’eredità che deriva dall’individuo paterno, il dato culturale) e la coscienza di essere figlio di due (il dato
naturale). L’obiettivo del mito è di mostrare come l’uomo senza l’orientamento culturale, in questo caso il
genus, non sia altro se non un animale. Un altro esempio di L.S. sono le Kiowa Tales, miti degli indigeni
statunitensi, in cui è presente l’opposizione carnivoro-erbivoro con la presenza di un trickster, il mediatore,
che rende pensabile la differenza stessa. L’opposizione che verrà fatta a L.S. in questo approccio è che esso
è profondamente nomotetico e svincolato dalle persone. Non è contemplata l’idea che il mito è narrato da
persone, che possono sentire un coinvolgimento emozionale nella narrazione e variarlo per le proprie
personali esigenze.

Nel 1971, lo stesso anno di “Antropologia Strutturale” di Lévi-Strauss, il già celebre Clifford Geertz pubblica
“Interpretazioni di culture”, un’opera che si rivelerà rivoluzionaria per tutta la storia dell’antropologia. La
sua teoria, chiamata poi “teoria interpretativa della cultura” convincerà nei decenni seguenti quasi la
totalità degli antropologi, e si vedrà sempre più applicabile nell’emergenza di problemi nuovi, in particolare
nel campo dell’antropologia medica. Con l’influenza di filosofi quali Sartre e Wittgenstein, con
l’antropologia interpretativa di Geertz nella materia avverrà una presa di coscienza sempre più marcata
della realtà e delle persone, superando la pretesa nomotetica di fare una scienza naturale delle società
facendola diventare una disciplina interpretativa in cerca di significati. Geertz darà per la prima volta una
notevole importanza alle emozioni, partendo dall’interpretazione del combattimento fra galli a Bali, che lui
definisce “una messa in scena delle emozioni”. Questo approccio darà stimolo a molte altre branchie di
studi, come l’antropologia empatica di Rosaldo, che arriva addiritura a superare l’inaccessibilità della sfera
emotiva di Geertz. Già anni prima, con “Celebral Savage” (1967) Geertz si era apertamente schierato contro
Levi Strauss, definendo lo strutturalismo “un’infernale macchina culturale”, in quanto meccanica
(profondamente deterministica e disumanizzante), non storica (assenza di persone e della loro microstoria)
e non particolarizzante (sembra non vedere l’importanza della diversità fra le persone). Geertz parte dai
suoi studi letterari per descrivere invece la cultura come un testo, interpretabile e necessariamente diverso
in base alla persona che lo legge. È questo ciò che Geertz definisce “sistema nativo di significato”,
inaccessibile in quanto proprio del nativo. L’antropologo dovrebbe sforzarsi di mescolare la descrizione
“thin”, etica, e quella “thick”, emica, anche se è per lui impossibile il massimo livello di “thickness”,
raggiungibile solo dal nativo stesso. L’obbiettivo dell’antropologia diventa di allargare lo spazio di
comunicazione tra le culture, non di studiarle.

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