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rappresentavano lo stadio più remoto dello sviluppo culturale, e diveniva possibile classificare le società in inferiori e
superiori in base al criterio della complessità culturale.
La congiuntura scientifica
La teoria dell’invarianza delle leggi che determinano lo sviluppo cumulativo culturale era legata quindi alla convinzione
che la società industriale inglese di allora si trovasse al culmine di tutto lo sviluppo culturale precedente, grazie alle
scoperte geologiche di Lyell che permettevano di scartare le teorie creazioniste, e anche grazie a Darwin.
Gli antropologi evoluzionisti erano erroneamente convinti che l’incremento del progresso fosse contrassegnato dalle
stesse caratteristiche di cumulatività osservabili nella società scaturita dalla rivoluzione industriale, ma questa teoria
permise di sottrarre la storia dell’uomo al creazionismo, e di naturalizzare quei processi di trasformazione che questa
teoria si rifiutava di considerare come prodotto dell’attività umana.
Un apporto decisivo alla costituzione del paradigma evoluzionistico venne anche dall’archeologia preistorica, grazie al
metodo comparativo di Lubbock che paragonò la vita dei primitivi abitanti dell’Europa a quella dei selvaggi
contemporanei, reinterpretando i reperti archeologici non come testimonianze del passato ma come misuratori di
progresso in cui era visibile la cumulatività. Esiste una via (provata dalla compresenza di popoli più organizzati e di
altri meno) che porta dallo stato selvaggio alla civiltà: quanto più un popolo è organizzato, tanto più esso è avanti nella
scala dello sviluppo.
È dunque al clima intellettuale dell’evoluzionismo positivista che si deve la costituzione di una scienza delle società
primitive, un clima di tipo autocelebrativo poiché collocava tutte le società in una linea di progresso al cui vertice stava
quella inglese: le culture erano giudicate secondo l’ottica positivista che considerava l’economia, la religione, il diritto
come componenti organiche di tutte le società, per cui queste erano più o meno evolute a seconda del grado di
complessità raggiunto dalle loro istituzioni.
L’evoluzione di queste due distinte linee di sviluppo poteva essere compresa stabilendo un certo numero di periodi
etnici che rappresentassero una condizione della società distinguibile per un peculiare modo di vita: la successione dei
periodi etnici era espressa dalla sequenza “selvaggio-barbaro-civilizzato” con l’aggiunta di tre sottoperiodi (inferiore -
intermedio-superiore) per le prime due epoche. Le invenzioni e le scoperte erano rappresentative del diverso grado di
progresso di ciascuna fase storica: ad esempio lo stadio selvaggio-intermedio era caratterizzato dalla pesca come mezzo
di sussistenza e dall’uso del fuoco, al quale seguiva lo stadio selvaggio-superiore contrassegnato dall’invenzione
dell’arco e quindi dalla caccia; i tre stadi della barbarie erano riconoscibili per certe tecniche di sussistenza, ed erano
seguiti dal periodo della civiltà, caratterizzato dall’invenzione di un alfabeto fonetico. Questi periodi etnici erano
connessi in una sequenza di progresso tanto naturale quanto necessaria: le invenzioni e le scoperte, che per Morgan
erano in rapporto di connessione cumulativa, erano considerati gli indici del progresso caratteristico di ciascuna fase.
Questo tentativo di periodizzazione è stato ritenuto il principale elemento di debolezza del libro, non solo perché è
difficile assegnare ad una semplice invenzione il carattere rappresentativo di un’epoca storica, ma anche perché
l’assunzione di segni di un processo cumulativo (indici di fasi storiche) produceva l’effetto di sdoppiamento della
ricerca in due linee tra di loro indipendenti, che impedì a Morgan di elaborare una teoria dei rapporti che intercorrono
tra tecniche di sussistenza e istituzioni in una stessa epoca storica.
L’assunzione delle invenzioni e delle scoperte come segni del progresso manteneva la problematica di Morgan
nell’orizzonte ideologico dei suoi contemporanei britannici, non costituendo un elemento di originalità rispetto alla
teoria del progresso materiale e cumulativo degli evoluzionisti vittoriani. Invece, la ricerca dei segni del progresso e
l’ampliamento dello schema selvaggio-barbaro-civilizzato in sottoperiodi vanno considerati entrambi come effetti di
una ideologia antropologica tipica di Morgan: diveniva possibile leggere nella storia d’America la storia passata
dell’umanità, dalla fase di caccia e raccolta fino al culmine del progresso rappresentato dalla società industriale,
attraverso la comparsa del commercio. La società indiana, che nella “Lega degli Irochesi” era stata fatta oggetto di
preoccupazione politiche, andava incontro ad un processo di riduzione a oggetto di scienza, a rappresentante di fase
storica, a esempio di società gentilizia caratteristica del periodo della barbarie.
Dopo Morgan
Con l’opera del 1877, la civiltà indiana cessa di essere un problema per la coscienza politica e morale degli Stati Uniti e
viene ridotta a rappresentante di una precisa fase storica di sviluppo: per Morgan, tuttavia, questa riduzione dell’indiano
a oggetto di scienza non è l’effetto di una rimozione, ma del progetto evoluzionista che assegnava ad ogni formazione
sociale un posto nella scala evolutiva. La società indiana descritta da Morgan è il prodotto di una ricostruzione storica
che egli cercò di astrarre dalle condizioni reali di allora, ben conscio che queste caratteristiche non potevano essere
identiche a quelle presenti prima dell’impatto con la società dei bianchi. La tendenza a dissociare l’indiano oggetto di
scienza dall’indiano oggetto di violenza politica fu un elemento diffuso all’interno dell’antropologia americana dopo
Morgan: quest’ultimo riconosceva di trovarsi di fronte ad una “indianità” degradata, mentre gli etnologi dopo di lui
presentavano i risultati delle loro inchieste fra le popolazioni delle riserve come fenomeni culturali di tipo arcaico, un
riflesso ideologico della politica dei governi nei confronti del problema indiano.
Nel 1888 uscì il primo il numero della rivista ufficiale dell’Associazione degli antropologi statunitensi, mentre si
assisteva alla definitiva estensione del sistema delle riserve, una degradazione di cui molti di essi sembravano non
accorgersi. La riserva produceva l’immagine illusoria di una società indiana tenuta al riparo da ogni specie di
contaminazione esterna, immagine che per gli antropologi si tradurrà in una visione complessiva delle culture indiane
come primitive (aventi le caratteristiche di arcaicità pura) grazie a pratiche etnografiche fuorvianti. Di queste, tre
risulteranno decisive:
1. la scelta degli anziani come informatori privilegiati, prodotta da un’immagine deformata delle reali condizioni dei
gruppi studiati;
2. il conferimento ai fenomeni esaminati di un carattere di oggettività;
3. l’enfatizzazione degli aspetti cerimoniali e religiosi della vita sociale.
L’attitudine etnografica prevalente in questo periodo consiste nell’attenersi alla pura descrizione dei fenomeni osservati:
l’empirismo costituì lo strumento attraverso il quale gli antropologi americani si sforzarono di elaborare un progetto di
una scienza generale del comportamento umano.
Empirismo ed evoluzionismo
Il campo specifico dell’antropologia statunitense è costituito fin dall’inizio dalle culture indiane in via di degradazione e
ridotte ad un ruolo di marginalità assoluta. L’empirismo etnologico può essere considerato l’esito di una serie di
operazioni ideologiche condotte dagli antropologi nei confronti della situazione di emarginazione delle società indiane,
che aveva come effetto l’esclusione di un qualunque atteggiamento che non fosse una semplice descrizione degli oggetti
etnologici, ma che si accompagnava a ricostruzioni di sequenze storico-evolutive non sempre legittime.
Negli anni seguenti la scomparsa di Morgan, l’antropologia americana oscillava tra il descrittivismo assoluto e
l’esasperazione dell’interpretazione evoluzionista della storia delle culture e delle società: l’attitudine empirica negava
ogni possibilità di autocorrezione in sede di teoria, accentuando la frattura fra ricerca e riflessione teorica, e doveva
generare la tendenza, caratteristica dell’antropologia americana nei decenni seguenti, a interpretare le culture umane in
senso determinista o idealista.
Le teorie causali spiegano i miti come il risultato di processi di ordine psicologico sviluppatisi da una credenza
originaria (es. animismo secondo Tylor); per Kroeber sono degli aggregati di una serie di tendenze indistinguibili: sia
l’interpretazione deformata di eventi storici reali, che l’invenzione allegorica a scopo etico-pedagogico sono aspetti del
fenomeno mitico, che deve essere compreso nella sua totalità invece che nei suoi aspetti separati. I fenomeni culturali
possono essere compresi solo se si conoscono le relazioni con il resto di quella grande unità che si chiama vita.
In un articolo del 1909, Kroeber critica esplicitamente le teorie di Morgan: la distinzione operata da quest’ultimo tra
sistemi di tipo classificatorio e di tipo descrittivo è arbitraria ed etnocentrica, in quanto i sistemi di parentela empirici
rivelano le caratteristiche di entrambi i tipi, ed è impossibile operare una separazione netta tra questi due sistemi. Nella
lingua inglese, col termine cousin vengono designati sia i cugini che le cugine, indipendentemente dal fatto che siano
tali per parte di padre oppure per parte di madre: per Kroeber ciò costituiva una prova del fatto che il principio
classificatorio non era esclusivo dei sistemi primitivi, ma presente anche nei descrittivi come quello inglese.
Tuttavia, la critica di Kroeber non teneva conto di due fattori essenziali: Morgan era perfettamente consapevole che
anche i sistemi descrittivi possiedono termini per designare individui con i quali esiste una relazione differente, ed i
sistemi classificatori differivano da quelli descrittivi perché designano con gli stessi termini tanto i parenti consanguinei
in linea diretta quanto i parenti consanguinei collaterali. Per Morgan i sistemi di parentela esprimevano la natura dei
rapporti e delle istituzioni sociali, mentre per Kroeber riflettevano semplicemente la psicologia, veicolata dal
linguaggio, dei soggetti culturali, cioè semplici espressioni che potevano essere considerate un aspetto della cultura.
Kroeber negava l’esistenza del rapporto causale tra pratiche matrimoniali e terminologie di parentela che Morgan aveva
postulato, e orientava lo studio dei sistemi di parentela verso un approccio che non teneva conto delle teorie di Morgan
(secondo cui le relazioni di parentela svolgevano funzioni che nelle società civilizzate erano assolte da rapporti di tipo
politico-economico cioè sociali); Kroeber considerava invece i termini di parentela indipendenti dal significato delle
relazioni sociali, e quindi accentuava l’importanza dell’aspetto simbolico su quello sociologico.
Il distacco di Kroeber da Boas avvenne nel 1917 quando uscì “Superorganico”, un tentativo di elaborare una definizione
precisa e definitiva dell’oggetto dell’antropologia (fino a questa data si muoveva con Boas nelle critiche al metodo
comparativo e al principio causale come metodo di spiegazione dei fenomeni culturali): quest’oggetto coincide con la
cultura intesa nell’accezione tyloriana del termine, cioè l’insieme delle pratiche possibili esercitate dagli individui in
quanto membri di un gruppo sociale.
L’ordine dei fenomeni culturali è di natura superorganica, (cioè non riducibile all’ordine dei fenomeni biologici), sono
provvisti di esistenza autonoma e sono spiegabili soltanto sulla base di altri fenomeni culturali. Kroeber criticava anche
il postulato di base del darwinismo sociale americano, cioè l’esistenza di una continuità tra l’ordine del biologico e
quello del sociale, che assimilava le leggi di funzionamento della società a quelle della natura. Il conferimento di una
natura superorganica e sovraindividuale ai fenomeni culturali collocava Kroeber in una posizione eccentrica rispetto a
Boas e ai suoi allievi: ogni cultura è il prodotto dell’interazione di più modelli culturali (configurazioni) che sono i suoi
segmenti espressivi, ad esempio una filosofia, una moda, un genere di arte. Egli analizzò i modelli culturali delle più
grandi civiltà della storia, tentando di tracciare ricorrenze e somiglianze dei processi di crescita, di culmine e di declino
di varie culture differenti.
modelli significanti”. Ogni società esprime una propria modellizzazione (social patterning): anche se un tratto poteva
avere una distribuzione più o meno ampia, ciò che interessava era il fatto che esso faceva parte di un modello specifico;
ad esempio il tratto dello “spirito guardiano” in una regione si era combinato con le cerimonie della pubertà, in un’altra
con il totemismo, in un’altra ancora con società segrete, ecc. La funzione del modello era quella di integrare i più
svariati tratti dopo averli selezionati; un tratto poteva essere accolto o respinto a seconda dei modelli preesistenti.
La modellizzazione, operata all’interno di ogni società sugli elementi della cultura, produceva un modello culturale
medio che la Benedict definì mediante l’utilizzazione di nozioni di tipo psicologico: agli apollinei indiani Pueblo, il cui
ideare era il controllo delle emozioni attraverso cerimonie pubbliche, contrapponeva i dionisiaci Indiani delle Pianure,
la cui cultura estremizzava sentimenti e passioni; i paranoici Dobu della Melanesia erano sospettosi e invidiosi; i
megalomani Kwakiutl completavano il quadro con la frenesia distruttiva dei potlatch e il loro delirio di potenza.
Queste descrizioni culturali produssero un’immagine delle culture umane come entità definibili attraverso categorie
psicologico-intuitive approssimative, ma era un esito non voluto dalla Benedict, che voleva insistere sulla dimensione
simbolica della cultura contro quelle tendenze che la riducevano a una pura somma di singoli tratti.
Caratteristiche generali
Con questa espressione si indica la tradizione della produzione teorica di Durkheim, Levy-Bruhl, Mauss ed i loro
allievi. Secondo questi autori, le società primitive sono il luogo in cui è possibile osservare i fenomeni sociali nella loro
forma più semplice: essi acquistano un alto valore esplicativo in virtù della natura espressiva che rivestono all’interno di
un sociale scarsamente strutturato. Un altro aspetto comune è che essi credono nella possibilità di esistenza di una
scienza etnologica: l’etnologia classica francese è espressione del mito positivista di una scienza delle società primitive.
Una simile scienza è edificabile appunto grazie a questa idea della natura elementare dei fatti sociali all’interno di
contesti più semplici, senza quel significato strettamente evolutivo che poteva avere per gli antropologi vittoriani e per
Spencer; inoltre, c’è la necessità di dover pensare l’oggetto - il primitivo - come qualche cosa di distinto e separato dalla
realtà alla quale appartiene il soggetto osservante, l’etnologo: solo in questo modo è possibile conferire al sapere
etnografico quel carattere di sis tematicità che la tradizione scientifica richiede. Tuttavia, quando l’etnologo finirà per
trovarsi coinvolto nel processo di destrutturazione delle società primitive conseguente alla dominazione occidentale sul
resto del mondo, questa prospettiva sarà destinata ad entrare in crisi.
propria coesione, perciò deve ristabilire l’equilibrio attraverso una serie di riti atti allo scopo: attraverso i rituali funebri,
il defunto è ragionevolmente distaccato dalla comunità e reintegrato in quella degli antenati.
Nel Borneo, Hertz descrisse due riti distinti intervallati da un periodo di lutto: alle prime esequie, seguiva dopo un certo
tempo un altro rito più solenne. Egli individuò il carattere fondamentale che la morte riveste in tutte le società, ossia
quello di una transizione da uno stato all’altro, dalla comunità dei vivi a quella dei defunti; i riti funebri assomigliavano
ai riti della nascita e del matrimonio, anche questi atti a favorire una transizione da una condizione sociale ad un’altra.
La continuità della comunità dei vivi in quella dei defunti, che corrisponde alla credenza di una vita ultraterrena, è
caratteristica di tutte le società e di tutte le regioni.
Per quanto riguarda il secondo saggio, Hertz sostiene che l’asimmetria organica, per cui la destra è prevalente grazie al
maggiore sviluppo dell’emisfero celebrare sinistro, non può spiegare la preminenza sul piano simbolico delle
rappresentazioni collettive legate alla destra; anzi la preminenza della destra sul piano della motilità è interpretabile
come un effetto di ritorno dell’enfasi che gli uomini hanno attribuito a questa parte del nostro corpo e dello spazio, e
quindi è una vera e propria istituzione sociale.
Sacro e profano pervadono la vita spirituale di tutti i popoli, soprattutto quelli con istituzioni sociali e religiose più
semplici, e spingono gli uomini a strutturare l’intero universo secondo un principio bipolare, distribuendo le cose ed i
fenomeni naturali tra questi due opposti, destra e sinistra, che riproducono nello spazio la suddivisione più generale tra
sacro e profano. Nelle lingue indoeuropee, il termine destra deriva da una radice comune sanscrita, mentre il termine
sinistra varia da lingua a lingua, riflesso del fatto essa rappresenta l’opposto del positivo (associato con la destra) ed i
sentimenti di inquietudine che la comunità prova nei confronti dal lato sinistro.
Il pre-logismo di Levy-Bruhl
L’idea del sociale come entità provvista di una logica di funzionamento autonoma e indipendente dalla comprensione
degli individui è lo sfondo del discorso sulle rappresentazioni collettive caratteristiche della mentalità primitiva. La
tematica centrale di Levy-Bruhl è il tentativo di reperire le istanze sovraindividuali in che determinano il
comportamento dei membri di una società, a cui si affianca una problematica più strettamente filosofica che fanno di
questo autore il teorico della mentalità primitiva. Egli si chiede: esiste una morale oggettiva? Una teoria di una morale
oggettiva deve partire dall’assunto secondo cui esisterebbe una natura umana sempre e ovunque identica a se stessa, ma
ciò equivale ad un pregiudizio etnocentrico: una teoria non può fondare alcuna morale, può soltanto studiarla in contesti
sociali differenti. Levy-Bruhl guarda all’etnologia per rintracciare la prova di questa natura differenziale dell’esperienza
morale e delle forme di pensiero (le funzioni mentali), che diventeranno l’oggetto centrale della sua ricerca.
Nel 1910 entrò in polemica con la tradizione dell’evoluzionismo inglese che pretendeva di spiegare le rappresentazioni
collettive nei popoli primitivi con operazioni mentali di tipo individuale: era questo un metodo estraneo alla natura
dell’oggetto considerato. Le rappresentazioni collettive non sono sbagli di valutazione compiuti dalla mente immatura
del primitivo che tenta di spiegare le cause dei fenomeni, ma sono rappresentazioni che si impongono agli individui
attraverso la pratica sociale, modelli di atteggiamento mentale comuni nel gruppo e trasmissibili di generazione in
generazione. Levy-Bruhl non tenta di scoprire la genealogia di queste rappresentazioni: egli pensa che questi fatti
sociali siano già dati all’interno di un contesto già dato, e la loro origine si perde nella notte dei tempi; invece gli
evoluzionisti erano bloccati dalla necessità di ordinare i dati etnografici nella prospettiva del progresso culturale.
L’universo simbolico del primitivo è, per Levy-Bruhl, omogeneo all’universo sociale in cui si muove: l’emozione
dell’esperienza sociale genera le rappresentazioni collettive che costituiscono questo universo simbolico, e il gruppo
vive così un’esperienza mistica che si realizza nel culto e nell’esecuzione del rito. Una “impermeabilità all’esperienza”,
caratteristica dell’atteggiamento mentale del primitivo, spiegherebbe il fatto che i primitivi praticano la magia
indipendentemente dai risultati: la rappresentazione collettiva impedis ce loro di esaminare i dati dell’esperienza
oggettiva. Diversamente dalla nostra, la mentalità primitiva tende a stabilire relazioni fra le rappresentazioni di natura
mistica: questa tendenza è chiamata partecipazione, ed il conseguente tipo di logica viene definita come pre-logica.
Questo concetto non individua una forma di pensiero meno perfetta ma significa ascientifico, acritico, ma non
irrazionale: indica una differenza di attività mentale di tipo qualitativo e non quantitativo.
Le società primitive erano quindi caratterizzate da comportamenti mentali orientati in maniera radicalmente diversa da
quelli che Levy-Bruhl riteneva caratteristici dei popoli civilizzati: questa distinzione radicale è stata interpretata come
una sorta di imperialismo ideologico praticato da Levy-Bruhl, intellettuale positivista, che pensava che la sua razionalità
fosse quella di un qualunque occidentale con educazione borghese; tuttavia la teoria della mentalità primitiva è un
tentativo di una comprensione della differenza svincolata dagli schemi di indagine di stampo evoluzionistico, che
riconosce al primitivo un suo spazio reale di esistenza.
La dicotomia primitivi/civilizzati è frequentissima nella storia dell’antropologia: si veda Morgan con la società fondata
sul rapporto personale e quella fondata su rapporti politico-territoriali; Durkheim a proposito della differenza tra società
a solidarietà meccanica o organica; Levi-Strauss distingue tra società fredde e calde.
Il primo lavoro di Mauss, in collaborazione con Durkheim, si proponeva di mostrare come il concetto di classificazione
divenisse intelligibile se considerato come socialmente determinato: il sociale quindi proietta il proprio ordine sul
sistema delle rappresentazioni; questa omologia è l’effetto dell’idea di un sociale primitivo e quindi semplice. Da qui la
teoria delle trasformazioni della mentalità primitiva per spiegare l’evoluzione dell’atteggiamento mentale umano nei
confronti della realtà circostante. Ad una variazione del sociale corrisponde una variazione omologa nell’ordine della
classificazione: a società semplici e strutturate secondo un principio dicotomico, come quella degli aborigeni
australiani, corrisponde un sistema di classificazione altrettanto semplice, mentre a un sociale strutturato su modello più
complesso corrisponde un sistema di classificazione parimenti complesso; sono le modificazioni del sociale (esperienze
emotive immediate) che spingono l’individuo a modificare l’ordine concettuale delle cose. L’elemento di rilievo di
quest’opera è l’individuazione di una strutturazione omologa delle istanze del sociale e del simbolico.
Questa ipotesi dell’omologia strutturale avrebbe consentito a Mauss di ricercare quegli elementi del sociale che
coinvolgono tutti i livelli sociali, i fatti sociali totali. Nel suo “Saggio sulle variazioni stagionali delle società eschimesi”
del 1904, analizza la disposizione morfologica (spaziale) che la società di questi cacciatori assume nelle diverse
stagioni, cogliendo il significato totale dal punto di vista sociologico: la tendenza a separarsi durante l’estate e a riunirsi
durante l’inverno va considerata in relazione al variare dell’intensità della vita sociale, massima durante l’inverno ed a
zero durante l’estate, quando i vari gruppi seguono le tracce degli animali. Questa bipolarità tra collettivismo e
individualismo permea i vari livelli del sociale col suo potere di simbolizzazione: rappresentazioni di persone, di
animali o di fenomeni naturali sono associate all’una o dall’altra parte di questa scissione, e ogni cosa è definita e
situata al in base al riferimento che essa ha con uno dei due poli. Mauss vedeva nella morfologia dei gruppi sociali non
qualcosa che deve essere spiegato, ma qualcosa che permette di spiegare i diversi aspetti della vita sociale.
La teoria sociologicamente polivalente del fatto sociale totale consentiva Mauss di esplorare la natura di un fatto che
più d’ogni altro interessava tutti i livelli della vita sociale: il sistema delle prestazioni totali economiche nelle società
primitive. I lavori di Boas nel Pacifico e quelli di Malinowski in Melanesia avevano dimostrato l’esistenza, anche
presso le società primitive, di fenomeni di scambio e circolazione di beni materiali che fino a quel momento erano
sfuggiti. Del resto era abituale considerare come interessanti solo quei fenomeni sociali della vita indigena che
presentassero analogie visibili con quelli della società occidentale (etnocentrismo economico).
Nel suo lavoro più celebre, il “Saggio sul dono” del 1923, Mauss voleva rendere ragione del carattere volontario e
tuttavia obbligato e interessato di queste prestazioni. Le 3 regole che sottostanno al fenomeno sociale del dono, cioè
l’obbligo di dare, ricevere e ricambiare, strutturano il principio di reciprocità obbligatoria, una “qualità” intrinseca agli
oggetti scambiati che li assimila alla persona che li ha posseduti. E’ la credenza nell’azione esercitata da questa qualità a
mettere in moto il sistema dei doni reciproci, poiché la mancata restituzione di oggetti interromperebbe lo scambio e
sarebbe un danno per chi trasgredisce questa regola: la qualità presente nella cosa può vendicarsi sul trasgressore, è una
forza magica di colui che l’ha donata. Il principio della reciprocità vale tanto per gli individui quanto per i gruppi
coinvolti: la natura del dono come “fatto sociale totale” appare nella sua giusta luce in occasione di fenomeni come
quelli descritti da Malinowski (kula) o da Boas (potlatch), dove gli individui recitano la semplice parte di attori, mentre
le unità sociali che entrano in gioco sono gruppi più vasti come le famiglie o i clan.
I limiti di quest’opera consisterebbero, secondo Levi-Strauss, nella caduta teorica rappresentata dall’assunzione dello
spirito della cosa donata come motivo reale e non ideologico dello scambio; il limite maggiore consiste tuttavia nel non
aver tentato di definire il sistema sociale al cui interno si inscrive il potlatch, e inoltre nell’uso dello stesso linguaggio
economico che Boas aveva impiegato per descrivere queste pratiche, considerandole come caratteristiche di una
situazione di mercato che tuttavia non esisteva perché era un meccanismo di doni e contro-doni.
Mauss ha comunque portato un grande contributo alla comprensione dei sistemi sociali, che consiste nella
considerazione del dono come fatto sociale totale e nell’averne situato il senso sociologico sui differenti piani della
pratica sociale e simbolica; inoltre, contro il pregiudizio etnocentrico, ha aperto la via verso la comprensione del luogo
differenziale che l’economia occupa nella struttura globale delle società primitive. D’altra parte, il “Saggio sul dono” è
all’origine di un equivoco teorico ancora pesante: l’assunzione della reciprocità e dello scambio come principi
esplicativi - peraltro misteriosi - della logica di funzionamento delle società primitive.
L’importante fase centrale consente di ridurre l’aspetto traumatico dalla fase iniziale di distacco alla di fase di
incorporazione in un’altra categoria sociale (o acquisizione di uno nuovo status sociale). Egli accentuò l’aspetto
simbolico del rituale, precisando che le connessioni logiche fra le fasi del rito dovevano interessare gli etnologi, mentre
i contenuti potevano essere considerati dotati di senso solo contestualmente. I riti passaggio sono l’artificio sociale
attraverso cui gli uomini rendono comprensibile a sé stessi la transitabilità delle diverse condizioni del sociale.
partecipanti; quello che era il personaggio centrale del rito ora è un leader (king), attorno al quale si riuniscono i leader
subalterni (councillors), formando un gruppo che prende decisioni per la comunità.
La polemica anti-diffusionista
Prima di aver costituito un indirizzo teorico definito, il diffusionismo ha rappresentato una modalità interpretativa di
tratti o elementi culturali simili tra loro. Il taglio diffusionista forte (quando cioè l’analisi socioculturale avviene
esclusivamente attraverso questa prospettiva) rischiava di produrre un effetto banalizzante e riduttivo, dal punto di vista
teorico: l’interpretazione coincide con la descrizione dei fenomeni culturali e con il tentativo di ricostruirne la
diffusione attraverso lo spazio e il tempo. Il diffusionismo avversato da Malinowski era di tipo diverso da quello degli
antropologi tedeschi e americani: era il cosiddetto iperdiffusionismo di Smith e Perry, che ebbero ascolto tra il pubblico
medio ma non tra i ricercatori professionali. Secondo questa corrente, la culla della cultura e della civiltà era l’Egitto, e
viaggiando gli egiziani la trasmisero a tutte le altre popolazioni che però non sono state in grado di conservarla. I tratti
culturali sarebbero andati incontro ad un processo di degenerazione, in concomitanza al loro progressivo
allontanamento dal luogo d’origine: le prove sarebbero l’esistenza nell’America precolombiana della pratica di
mummificazione, il culto del sole e i grandi monumenti in pietra, ma sono solo l’effetto di una immaginazione estrema.
Il primo di questi principi strutturali è quello della solidarietà del gruppo dei fratelli (sibling group): costituito dai figli
maschi e femmine di una coppia; questo gruppo forma una unità solidale nei confronti di una persona estranea al gruppo
ma legata da un particolare rapporto con uno dei suoi membri. Questa unità può costituire la ragione fondamentale
dell’esistenza delle terminologie classificatorie che non distinguono tra consanguinei lineari e collaterali: un individuo
che non appartiene al gruppo può mantenerne gli stessi appellativi. Radcliffe -Brown mise in rapporto diretto la
terminologia di parentela e il comportamento sociale, affermandone l’unità funzionale, reperendo nel comportamento
sociale il senso del sistema terminologico.
Un altro principio strutturale è quello dell’unità di lignaggio, in grado anch’esso di spiegare certe caratteristiche dei
sistemi classificatori, per esempio il fatto che un individuo possa chiamare tutti gli appartenenti alla linea di
discendenza di un genitore con lo stesso nome (nella tribù Omaha si chiamano “madre” tutte le ascendenti).
Per Malinowski il fatto che altri individui, oltre a quelli della famiglia nucleare, fossero designati con stesso termine era
conseguenza del fatto che gli esseri umani tendono ad estendere al di fuori della famiglia i sentimenti elaborati
all’interno di essa. Opposta è la spiegazione di Radcliffe-Brown: le istituzioni della famiglia e del matrimonio, le
terminologie e la parentela erano solo parti di una struttura globale; non vi era posto per considerazioni di natura
psicologica, che per lui non spiegavano la funzione che le istituzioni di parentela svolgevano nell’assicurare la
continuità della struttura sociale. Da questa differenza nello studio della parentela emerge la diversa natura dei
funzionalismi di Malinowski e di Radcliffe-Brown: per il primo, il termine funzione indica il loro ruolo svolto da una
istituzione del soddisfacimento di un bisogno primario o secondario; per il secondo, è invece il ruolo che una istituzione
svolge nel processo di coesione della società.
Demologia
I motivi che hanno portato la tradizione demologica a sopravanzare quella etnologica sono vari e complessi: per De
Martino è la breve durata della dominazione coloniale italiana. Nei primi anni del Novecento la cultura antropologica
italiana mostra già un ritardo rispetto a quella degli altri paesi europei (effetto di un altro ritardo, quello dell’unità
politica del nostro paese): il soffermarsi su canti, leggende, costumi delle comunità italiane era parallelo alla riscoperta
delle origini del popolo italiano per l’esigenza di fondare un’idea di nazione. A differenza di altri paesi come la
Germania, dove l’idea di patria era inscindibile da quella di territorio e di unico popolo originato da un’unica stirpe, in
Italia la coscienza della sua eterogeneità fu sempre presente negli studiosi delle tradizioni popolari.
Nigra era il rappresentante di un indirizzo che mirava alla ricostruzione storica di diffusione e distribuzione delle forme
liriche. Egli divise l’Italia in due aree dal punto di vista della produzione lirica popolare: una superiore con elementi
narrativi storico-romanzeschi, di cui facevano parte le regioni a nord dell’Appennino tosco-emiliano, ed una inferiore
con elementi lirico-amorosi, di cui facevano parte le altre.
L’iniziatore degli studi demologici in Italia fu Pitrè, che raccolse in 25 volumi proverbi, favole, credenze, pratiche
magico-religiose e divertimenti popolari siciliani. Continuatore delle ricerche demologiche di Pitrè fu Cocchiara, allievo
di Marett a Oxford e di Malinowski a Londra. L’evoluzionismo di Marett venne recepito da Cocchiara nello spirito
critico nei confronti delle teorie evoluzioniste ortodosse relative al significato delle sopravvivenze: Marett negava che
esse sarebbero state fossili sociali inerti e proponeva di attribuire loro un carattere significativo sul piano simbolico,
elementi attivi all’interno di un pensiero che li accoglie. Il lavoro di Cocchiara si concentrò su questioni di folklore.
Etnologia
La tradizione etnologica italiana non nacque sul campo, ma come filiazione della tradizione storico-giuridica dello
studio del mondo classico e romano-latino. La figura più rilevante del secolo scorso fu Loria che fondò nel 1910 la
Società di Etnografia Italiana; il suo slancio si esaurì con sua scomparsa, con il primo conflitto mondiale ma anche, e
soprattutto, con il trionfo dello storicismo idealistico sul naturalismo positivistico. Sul piano teorico, l’etnologia italiana
vide comunque l’affermarsi della prospettiva diffusionista della scuola austro-tedesca degli anni Venti.
Non vi è dubbio che uno degli elementi frenanti lo sviluppo di un’etnologia italiana sullo stile di quella britannica e
francese fu il regime fascista, il quale produceva un asservimento dell’etnologia alle proprie tesi di superiorità della
civiltà romano-latina. Contrariamente al colonialismo britannico e francese, che mirava a risultati concreti senza badare
al contorno ideologico, quello italiano fascista ebbe il bisogno di darsi un tono tramite l’ideologia della romanità, fino a
scimmiottare i teorici tedeschi della superiorità della razza ariana. L’etnologia italiana registrò così una totale
decadenza, e quindi la parte non compromessa dell’antropologia italiana, che faceva capo alla tradizione demologica, si
trovò assegnato il compito di rilanciare questo campo di studi nel dopoguerra.
stato etico che l’uomo si sforza di costituire per sfuggire all’idea, insopportabile, di non-esserci: è un moto naturale
dell’uomo, che quando compie lo sforzo di essere nel mondo fonda la cultura, un moto sofferto ma vitale a cui non ci si
può sottrarre se non si vuole essere annientati. In un’ampia casistica etnografica, De Martino descrive l’emergenza
progressiva del magismo come primo tentativo coerente dell’uomo di affermare la sua presenza nel mondo: lo stregone
è la figura centrale di questo dramma storico, in cui si afferma l’universo magico nel quale l’uomo realizza la propria
“volontà di esserci di fronte al rischio di non esserci”.
A differenza degli evoluzionisti, De Martino non pensa alla magia come ad una forma imperfetta di razionalità; al
contrario di Malinowski, la magia non è una risposta allo stress emotivo procurato da situazioni dall’esito incerto, ma
invece una lotta ingaggiata dagli esseri umani per poter esistere. Come per Hocart il rito è una richiesta di vita da cui
scaturisce sia il benessere della comunità sia suo ordinamento politico, così l’atto magico dello stregone è per De
Martino affermazione della presenza e fondazione della cultura.
La presenza non è comunque un’acquisizione definitiva, anzi è qualcosa che può essere sempre rimessa in discussione
dalla crisi individuale o comunitaria: da qui il concetto di perdita della presenza. De Martino analizza il lamento
funebre nel mondo antico e nella Basilicata contemporanea: una forma culturale il cui scopo è far fronte alla crisi della
presenza, che minaccia la comunità e i soggetti che sono parte.
La fase aurorale
Il lavoro etnografico
Attraverso il lavoro sul terreno, l’antropologia si arricchisce di sempre nuove informazioni e stimoli per la riflessione
teorica: è vero che Mauss non condusse mai ricerche sul campo, ma incitò sempre suoi allievi a dedicarsi a questa
attività, e del resto non avrebbe mai potuto scrivere i suoi celebri saggi senza il lavoro etnografico di un Malinowski o
Spencer o Gillen. Le ricerche sul campo costituivano il punto di partenza per rimettere in discussione le teorie, per
ribaltare la prospettiva e per dimostrare ipotesi precedentemente considerate insostenibili.
Alcuni pensano che il lavoro etnografico debba consistere nella raccolta dei dati da un punto di vista distaccato, altri che
l’antropologo debba farsi il più possibile indigeno, altri ancora vedono nell’antropologia una missione per la
conservazione della memoria culturale umana. Il lavoro sul campo è un po’di tutte queste cose, e rappresenta un vero e
proprio rito di passaggio per chi da cultore vuole diventare antropologo.
In passato, i dati utilizzati dagli antropologi erano forniti per lo più da viaggiatori, missionari, e soldati; il progressivo
sviluppo dell’etnografia professionale è dipeso dall’esigenza di verificare personalmente la riflessione teorica,
dall’emergere di un’antropologia accademica, e naturalmente dalla possibilità di accedere in maniera più rapida alle
regioni sulle quali paesi coloniali imposero il loro dominio; quindi le tradizioni britannica, francese e statunitense
costituiscono le tre grandi tradizioni etnografiche che prenderemo in considerazione.
Il periodo iniziale: etnografi sul campo e teorici in madrepatria
Sull’onda delle conoscenze scaturite dall’incontro con i popoli dell’Impero, nel 1843 venne fondata a Londra la Società
Etnologica, per promuovere lo studio dei costumi dei popoli extraeuropei, ma soprattutto per raccogliere dati per
costruire “sequenze di sviluppo”, in accordo col paradigma allora dominante. Già allora si pensava che molte culture
fossero, in conseguenza dell’incontro devastante con gli europei, in via di rapida estinzione, e con urgenza si raccolsero
dati grazie alla compilazione di questionari inviati a coloro che vivevano a contatto con gli indigeni. È facile
immaginare quali fossero i limiti di tali questionari, ma vi furono eccezioni notevoli e alcune persone divennero delle
vere e proprie autorità etnografiche, come ad esempio Howitt e Fison in Australia: essi pervennero ad una conoscenza
approfondita (riportando a Morgan, Tylor e Frazer) di alcuni gruppi aborigeni e della loro vita rituale, inducendoli a
celebrare cerimonie abbandonate dopo l’arrivo dei colonizzatori.
Anche Spencer e Gillen scrissero opere di capitale importanza, sulle quali studiosi come Durkheim, Mauss e Frazer
fondarono le proprie idee sul totemismo, le classificazioni e la religione primitiva; altri, come Malinowski e Radcliffe -
Brown, le loro teorie sull’origine delle funzioni della famiglia e della parentela. Oggi rimangono testimonianze di
inestimabile valore su un mondo definitivamente svanito.
La tradizione britannica
Dalla “survey” alla monografia etnografica
Alla fine del XIX secolo, in Gran Bretagna furono attivati molti programmi di studio sia su base regionale nelle isole
britanniche, che nel resto dell’impero, come la costa del Pacifico canadese o l’India (nella quale venne raccolta
un’impressionante mole di dati). Queste grandi survey (ricognizioni) etnografiche rientravano in un piano di
collaborazione tra la giovane disciplina antropologica e l’amministrazione coloniale e portarono sicuramente allo
sviluppo sul piano accademico. Le università divennero quindi i principali motori della ricerca, sia teorica che sul
campo, con il conseguente declino delle istituzioni che si avvalevano della raccolta dei dati a distanza.
Haddon, Rivers e Seligman erano ricercatori con una formazione scientifica, e furono i partecipanti alla fa mosa
spedizione nello stretto di Torres (che portò al riconoscimento definitivo dell’antropologia sul piano accademico e una
larga udienza presso i non specialisti) nella quale furono elaborati precisi metodi di raccolta dei dati relativi alle
genealogie e furono raccolti preziosi reperti, conservati del museo etnografico di Cambridge. Quel che più conta fu la
prosecuzione delle ricerche sul campo da parte di Rivers sui Toda dell’India orientale, e di Seligman tra i Vedda
anch’essi indiani e tra i popoli nilotici del Sudan, che segnano il definitivo abbandono del metodo comparativo di
ispirazione evoluzionista e il passaggio a ricerche concentrate su una singola popolazione. Nasceva così, al posto della
ricognizione, un nuovo genere di scrittura etnografica, la monografia, dedicata ai molteplici aspetti della vita sociale e
culturale del gruppo studiato, che produceva conoscenze più approfondite della raccolta di dati per convalidare o
costruire ipotesi di sequenze evolutive. Si può riconoscere l’emergenza del paradigma funzionalista, rispondente al
problema di conoscere le interrelazioni dei fenomeni dello stesso ambito socioculturale.
Il genere monografico produsse un’immagine delle popolazioni studiate come di gruppi dotati di una propria cultura
distinta da quella degli altri: la monografia di Rivers sui Toda fu scritta come se questi fossero una tribù distinta con una
storia distinta da quella della società circostante.
La lezione di Malinowski
Egli ebbe un impatto assai grande sulle generazioni successive, e ciò che più influenzò i suoi scolari fu il suo stile di
fare etnografia: probabilmente il suo fascino consiste nel senso di incompiutezza e del tempo stesso di plausibilità dei
suoi libri. L’approccio etnografico di Malinowski, venato dal sospetto che le sue interpretazioni fossero influenzate da
quelle degli informatori, era consono alla sua teoria della società come complesso di parti interagenti.
Gli antropologi della generazione successiva si mossero tuttavia sulle orme dell’antropologia sociale di Radcliffe -
Brown, che si era fortemente battuto per una delimitazione del campo e del metodo dell’antropologia, ma l’ideale
etnografico prevalente resterà quello dell’autore degli Argonauti.
Dall’Oceania all’Africa
Dopo un esordio oceanista, l’etnografia professionale britannica si volge all’Africa subsahariana a causa del crescente
interesse alla tematica del cambiamento culturale, generato dall’impatto tra le diverse società africane ed europee; i
maggiori esponenti erano allievi di Malinowski e svilupparono una tradizione locale dedita agli studi africanistici.
Tra gli africanisti troviamo Fortes, che pubblicò due grandi monografie sui Tallensi del Ghana, ed Evans-Pritchard che
lavorò tra il Congo e il Sudan, producendo una serie di studi considerati pietre miliari della storia della ricerca sul
campo e della teoria antropologica.
Nei lavori dei ricercatori della generazione successiva a quella di Malinowski e Radcliffe-Brown, sebbene influenzati
dai maestri, si assiste a un importante cambiamento di prospettiva in relazione al maggior peso della dimensione storica;
anche nella monografia non si cercò più di presentare la molteplicità degli aspetti di una popolazione, ma di elaborare
una visione unitaria della società e della cultura a partire da un nucleo tematico centrale: parentela, organizzazione
politica, economia, religione, eccetera.
L’indirizzo americano
Da Schoolcraft a Boas
La divisione del lavoro etnografico, che aveva caratterizzato gli inizi della tradizione britannica, non costituì mai un
elemento tipico dell’antropologia statunitense, e l’uso del questionario rimase un fenomeno assai limitato:
l’antropologia americana nacque a partire dal lavoro degli etnografi sulle culture locali.
Morgan diede lo slancio teorico alla tradizione antropologica del suo paese, ma non fu il primo etnografo professionale
degli Stati Uniti: Schoolcraft si dedicò dal 1840 alla raccolta di materiale coadiuvato da informatori locali, con
particolare riguardo all’aspetto linguistico: termini indigeni, testi mitici e poetici. Lo studio della cultura indiana venne
favorito dalla creazione di istituzioni preposte alla documentazione della vita delle popolazioni aborigene, come la
Smithsonian Institution fondata nel 1846 che varò un grande programma etnografico.
Lo stile etnografico di Boas ebbe una straordinaria influenza sull’antropologia americana: egli aveva già compiuto
survey tra gli eschimesi e nella costa canadese del Pacifico, ma concepì il lavoro sul campo come lo studio di singole
culture, il che costituiva il prologo di quel particolarismo che nelle intenzioni di Boas era condizione preliminare di
ogni progetto comparativo. La sua propensione per lo studio di culture singole non si tradusse in qualcosa di simile alle
monografie britanniche: egli non si preoccupò mai di integrare i dati raccolti in una prospettiva di tipo unitario.
Margaret Mead e oltre
Negli Stati Uniti, l’antropologia era intesa come una scienza, mentre in Gran Bretagna era considerata come una
disciplina umanistico-letteraria, e in conseguenza di ciò si svilupparono diversamente: in America la pratica etnografica
restò confinata alla raccolta di dati per ottenere il numero maggiore di informazioni sui gruppi indiani; gli antropologi
britannici intraprendevano lunghi soggiorni sul campo, al contrario di quelli americani che erano favoriti dal diverso
stato delle comunicazioni e dalla disponibilità di informatori bilingui. La mancanza di una prospettiva unitaria, presente
invece nella tradizione britannica come riflesso delle idee di Durkheim, produsse una visione della cultura come somma
di tratti indipendenti e rispondente allo stile della ricerca empirica.
Nel corso degli anni Venti si ebbero i primi dissensi nei confronti dalla prospettiva etnografica dominante propugnata
da Boas, anzi la Mead operò una vera e propria rottura con lo stile dal maestro. Ella fu la prima degli studenti di Boas a
compiere ricerche al di fuori del nord America (nelle isole Samoa), ed affrontò una situazione etnografica molto diversa
da quella dei suoi colleghi: l’uso di informatori bilingui era impossibile, così come l’utilizzazione di indigeni addestrati
alla raccolta di informazioni che Boas usava diffusamente; quindi ella usò uno stile più malinowskiano.
Con il suo stile etnografico più britannico che americano, la Mead portava all’attenzione della comunità scientifica un
problema attualmente assai dibattuto, quello relativo al tipo di conoscenza linguistica che un antropologo deve
possedere per condurre ricerche cui sul campo: il loro ruolo decisivo era svolto non una conoscenza perfetta della lingua
- cosa impossibile -, ma dall’osservazione e dalla partecipazione alla vita delle comunità studiate.
Il contrasto tra la Mead e i suoi critici rifletteva due modi diversi di concepire il lavoro etnografico e gli scopi stessi
dell’antropologia: per la prima si trattava di cogliere la vita delle popolazioni studiate, per i secondi di collezionare dati
etnografici ai fini della ricostruzione delle aree linguistiche e della diffusione dei tratti culturali; le posizioni della Mead
riflettevano una progressiva separazione degli studi etnologici da quelli linguistici, e del resto l’antropologia linguistica
nasceva in questo periodo.
L’etnografia francese
Gli inizi
Negli anni compresi tra il 1890 ed il 1920, l’etnologia francese si caratterizzò per una dimensione intellettualistica e
speculativa, a causa della derivazione degli studi etnologici da quelli filosofici e da uno scarso sviluppo di una attività
etnografica sistematica; le fonti utilizzate da autori come Durkheim, Levy-Bruhl, Mauss sono rare o assenti in lingua
francese, e frequenti in lingua inglese e tedesca. Alla fine degli anni Venti si ebbe una forte ripresa degli studi
etnografici, grazie agli allievi degli autori appena citati, ma anche a funzionari dell’amministrazione coloniale operanti
nell’Africa occidentale subsahariana.
L’africanistica e Griaule
Allievo di Mauss, fu uno degli studiosi professionali che contribuì in maniera decisiva allo sviluppo dell’etnologia
francese come una disciplina fondata sulla ricerca sul campo e fece molte ricerche nel nord Africa; in parziale contrasto
con la prospettiva durkheimiana, rivendicò la priorità degli studi monografici su quelli comparativi. La sua concezione
dell’antropologia era lo studio il più esaustivo possibile delle forme culturali, perché la conoscenza di ogni società
poteva contribuire alla costruzione di un sapere etnologico completo del repertorio culturale umano; tale concezione
dipendeva dalla visione dell’umanità costituita da popolazioni distinte, ognuna con una cultura diversa e impermeabile a
quella degli altri (un’idea implicita nella teoria e nella pratica etnografica britannica).
L’idea dell’etnologia fondata sullo studio in profondità delle singole culture rappresentò, per i francesi, qualcosa che
potrebbe essere paragonato al particolarismo storico di Boas; inoltre lo studio delle “altre” culture deve mirare a
raccogliere i loro sistemi così come sono concepiti dai nativi, con una lettura basata sul sistema di coerenza interna che
tali sistemi possiedono.
Altre etnografie
Non bisogna dimenticare il lavoro etnografico svolto da Van Gennep in Francia: raccolse materiale folkloristico e
tradizioni orali e scritte che portarono a grandi opere sul folclore regionale.
De Montagne iniziò il la propria carriera nell’a mministrazione coloniale in Marocco, ma divenne uno dei maggiori
etnografi del Maghreb e fu autore di una delle più grandi monografie del secolo: uno studio sull’organizzazione politica
delle tribù berbere dell’Atlante marocchino e dei loro rapporti col governo centrale.
L’etnografia nelle società complesse
Appare chiaro come le tre grandi tradizioni etnografiche - britannica, francese e statunitense - nascano e si sviluppino in
relazione allo studio di società definite selvagge, primitive o semplici, ritenute meno strutturate di quella occidentale,
mentre le società “complesse” sono rimaste a lungo al di fuori degli interessi antropologici. Naturalmente non vi è
nessuna ragione oggettiva per questo fatto, come non vi è alcun motivo di considerare come veramente semplici quelle
società. Tuttavia vi sono ragioni storiche per cui l’antropologia, da un certo momento, si è dedicata allo studio delle
società complesse: la sempre maggiore influenza della cultura occidentale subita dalle società semplici, che hanno
inficiato l’immagine di queste ultime come entità distinte separate le une dalle altre, e l’insorgere di nuove domande su
realtà sociali che si prestavano ad essere analizzate attraverso gli strumenti dell’antropologia delle società semplici.
E’ solo a partire dalla metà di questo secolo che l’interesse per le società complesse ha acquistato una parte di primo
piano nell’attività di ricerca, con gli studi di Robertson Smith e di Evans-Pritchard sugli arabi del deserto, e di Granet
sui cinesi; altri lavori hanno riguardato l’analisi del sistema castale indiano, un tema che non ha mai cessato di attirare
l’attenzione degli studiosi. L’etnografia delle società mediorientali si orientò verso lo studio dei sistemi segmentari, e di
società prive di strutture politiche centralizzate come i gruppi nomadi. Nel dopoguerra, anche gli americani hanno
sviluppato un’attività di ricerca sulle società contadine della Mesoamerica e dell’area andina: i lavori di Lewis hanno
dato vita a un settore di ricerca che ha per oggetto l’emarginazione nata dai processi di rapida urbanizzazione del mondo
contadino tradizionale, definita la “cultura della povertà”.
dalla proibizione, introiettata culturalmente: si crea quindi una fissazione psichica da cui può derivare un
comportamento nevrotico, l’individuo vuole sempre eseguire questa azione proibita ma al tempo stesso ne ha orrore.
Analogamente al nevrotico, i selvaggi osservano i tabù che essi in realtà desidererebbero compiere o possedere: la forza
magica attribuita al tabù è riconducibile alla capacità di indurre gli uomini in tentazione.
Per sostenere questa ipotesi, Freud attinse dalla letteratura etnografica, in particolare da Frazer, esempi relativi a tre tabù
riguardanti il trattamento dei nemici, dei sovrani e dei morti. Per il trattamento dei nemici uccisi, Freud rileva che,
mentre l’uccisore è considerato tabù dai membri della sua comunità fino a quando viene sottoposto a cerimonie
purificatrici che lo reintegrano in essa, il morto viene placato con doni e preghiere: un atteggiamento di ambivalenza nei
confronti del defunto, oggetto di ostilità ma inconsciamente di ammirazione e di rimorso, che rende ragione del
tentativo di pacificare il suo spirito e dell’imposizione del tabù all’assassino.
Per quanto riguarda i sovrani, Freud ipotizzò che essi siano oggetti di grande venerazione e di tabù proprio perché
investiti da una ostilità inconscia che si scatena quando il corso degli eventi non è favorevole alla comunità: un parallelo
con il delirio di persecuzione, in cui l’importanza di una persona viene straordinariamente accresciuta per addossarle più
agevolmente la responsabilità di tutto ciò che contraria il malato.
Infine, Freud non accettò la spiegazione secondo cui le proibizioni che colpiscono chi è stato in contatto con il defunto
siano dovute alla “paura del morto”: il tabù del morti è il prodotto del contrasto tra la pena cosciente e la soddisfazione
inconscia per la morte avvenuta; i superstiti inconsciamente negano di aver nutrito sentimenti ostili nei confronti del
defunto, sentimenti che quindi vengono attribuiti proprio al morto; questo è infatti trattato come nemico o demone.
Il disagio della cultura
Il tentativo di dimostrare che l’origine del tabù risiede in un atteggiamento emotivo ambivalente era parallelo
all’individuare la fonte delle nevrosi nel conflitto tra impulsi erotici e ostilità verso un’altra persona. Freud non confuse
mai il nevrotico con il selvaggio, e non identificò mai nevrosi e cultura, ma collegò sempre il sorgere e lo sviluppo della
cultura al complesso di colpa originario elaborato dai figli per aver ucciso il padre padrone nell’orda. Questa relazione è
il tema centrale de “Il disagio della civiltà” del 1929, in cui partiva dall’idea che il senso di colpa era il frutto del
conflitto ambivalente della lotta tra Eros e pulsione distruttiva o Thanatos; tale conflitto è inestricabilmente legato a
qualunque forma di vita sociale e umana, e quindi si riaffaccia ad ogni momento. Finché gli uomini vivono in piccoli
gruppi, il conflitto si esprime nel complesso di Edipo, crea la coscienza e il senso di colpa originario; man mano che la
comunità si allarga il conflitto si rafforza e provoca un ulteriore aumento del senso di colpa, grazie alla spinta erotica
proveniente dalla società stessa. Questa spinta erotica ordina agli uomini di unirsi in una massa collegata intimamente,
una meta che si può raggiungere soltanto attraverso un sempre crescente senso di colpa.
Kardiner, volendo sottolineare la sua portata più descrittiva che teorica e il suo carattere di “maggiore frequenza” invece
che di “media”; questa definizione era in contrasto con l’idea della Benedict di modello (tutti i membri di una società
condividerebbero lo stesso tipo di personalità).
Engels e Morgan
L’istituzione della proprietà, al pari di tutte le altre istituzioni politiche e sociali, rappresentava per Morgan uno
sviluppo progressivo di un “germe primario di pensiero”: il regime di proprietà privata della società borghese dell’800
era il risultato di un lento processo di sviluppo storico aumentato eccezionalmente con l’avvento della civiltà; egli
ipotizzava un esito catastrofico allo sviluppo indiscriminato di questo processo, che avrebbe portato alla dissoluzione
della società se l’intelligenza umana avrebbe riacquistato il dominio sulla ricchezza ridefinendo i rapporti tra stato e
proprietà.
L’idea di un sistema sociale minacciato dallo sviluppo incontrollato di uno dei suoi cardini essenziali (la proprietà
privata), l’idea di una priorità dell’interesse collettivo su quello individuale, e l’annuncio di un’epoca in cui si sarebbe
assistito alla rinascita dei principi egualitari delle società gentilizie indussero Engels a sostenere che queste idee di
Morgan erano assolutamente comuniste (tuttavia Morgan si preoccupava del cattivo uso del diritto di proprietà).
L’opera “Origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato” pubblicata da Engels nel 1884 era un tentativo di
riscrittura in termini marxisti dei punti fondamentali dell’opera di Morgan: Marx ed Engels avevano elaborato una
concezione materialistica della storia, un modello dello sviluppo storico fondato sul rapporto di causalità lineare tra
incremento di forze produttive ed emergenza di forme istituzionali in una certa epoca storica, e per Morgan “le grandi
epoche del progresso umano coincidevano con l’ampliamento e l’accrescimento delle fonti di sussistenza che si sono
succedute nel corso della storia”.
Un innesto filosofico
Althusser operò una rilettura del “Capitale” di Marx, sostenendo che inaugurava un nuovo tipo di conoscenza della
realtà sociale fondato sull’analisi del processo produttivo e che ricostruiva, da un punto di vista teorico, la logica di
funzionamento del modo di produzione capitalistico; tale ricostruzione si fondava su un’idea di causalità strutturale che
lega tutti gli elementi del sistema. Sosteneva inoltre che un modo di produzione è non solo la risultante della relazione
strutturale tra gli elementi che lo compongono, ma addirittura come un insieme di strutture interrelate: forze produttive,
religione, politica, tecnologia eccetera.
Ripresa in ambito antropologico, l’interpretazione di Marx data da Althusser implicava che le società prese in
considerazione dagli antropologi potevano essere riconsiderate alla luce di una nuova teoria dei metodi di produzione, e
diventava possibile sbarazzarsi della gabbia evoluzionista imposta dall’ortodossia sovietica. La situazione coloniale
poteva essere ora ridefinita, in termini marxisti, come effetto dell’articolazione di modi precapitalistici di produzione,
tipici delle società tradizionali, con il modo di produzione capitalistico dominante.
distinte: la prima è quella di Levi-Strauss che opterà per una riformulazione globale del termine struttura, la seconda è
quella espressa dall’antropologia marxista, intenzionata a studiare i sistemi sociali che mutano per le contraddizioni
strutturali e per la dominazione causati dalla situazione coloniale.
La prima opera di sintesi teorica dell’antropologia marxista è di Terray, che critica il modo di produzione, definito da
Meillassoux lignatico, di una popolazione della Costa d’Avorio, caratterizzato da una dipendenza dei giovani dagli
anziani, gestori delle risorse e degli scambi matrimoniali e quindi della riproduzione della comunità. Terray, influenzato
dalla rilettura del “Capitale” di Althusser, considerava la formazione sociale come risultante di due modi di produzione
combinati tra loro: uno di villaggio, fondato sulla cooperazione paritaria, e un altro di lignaggio fondato sulla
distribuzione delle risorse alimentari e riproduttive in base all’anzianità.
Rey criticò questa articolazione dei modi di produzione sostenendo che era troppo poco dinamica per poter spiegare le
trasformazioni della struttura fondamentale dell’organizzazione sociale, e oppose la compresenza di più modi di
produzione e lo scontro di interessi tra gruppi sociali diversi che chiamò classi. Egli non analizza società primitive ma
realtà sociali trasformate dall’impatto dell’economia occidentale, in cui categorie come quella dei giovani, che prima
non costituivano oggetto sfruttamento, sono svantaggiate dal posto che occupano all’interno della struttura trasformata.
Il viaggio e la memoria
L’opera “Tristi tropici” del 1955 è la grande metafora affettiva del cammino a ritroso sulla strada che dalla natura porta
alla cultura, alla scoperta delle strutture inconsce che determinano le scelte degli uomini; è il viaggio alla riscoperta
delle motivazioni personali che hanno determinato un destino professionale, ma anche un libro denso di motivazioni sul
senso della civiltà umana e sul futuro di essa.
L’immagine delle società primitive contenute in questo libro è quella di società più vicine allo stato di natura di quanto
lo siano quella occidentale o mediterranea o asiatica. Ciò che viene designato con il termine “progresso” è il prodotto
recente di una società calda, che dai propri disequilibri interni trae energia per produrre una effervescenza culturale.
Diversamente dalle società fredde, che funzionano in modo meccanico, le società calde, specialmente quella
occidentale, hanno rotto l’equilibrio che le legava all’universo naturale e possono manipolare a proprio vantaggio la
relazione col mondo esterno. Ciò che è perduto è la convivenza con le altre specie e la coesistenza con altre forme di
vita sociale: l’antropologo, esploratore della memoria collettiva, esprime il rimorso dell’occidente, e deve ripercorrere i
legami tra uomo e universo nei quali si esprime l’immutabilità delle strutture dello spirito umano.
Bisogna dire comunque che anche le società indie conoscono forme di coercizione e di violenza che male si accordano
con il modello di saggezza politica e di convivenza con la natura presentatoci dagli eredi radicali di Levi-Strauss.
Il grande contributo di Fortes allo studio della parentela consiste in una serie di saggi teorici, in cui si distacca dalle idee
di Radcliffe-Brown. Quest’ultimo aveva impostato, coerentemente con la propria teoria della struttura sociale, lo studio
della parentela come studio di una struttura, anzi nelle società semplici struttura sociale e di parentela erano
virtualmente coincidenti; inoltre, come per Malinowski, la rete dei rapporti di parentela era un’estensione dei legami
familiari domestici. Per Fortes, che aveva potuto dimostrare con Evans-Pritchard come la struttura sociale andasse al di
là di questa semplice rete, i sistemi di parentela dovevano essere analizzati all’interno di un quadro più ampio, dal
momento che la struttura sociale include anche i rapporti tra gruppi corporati quali i lignaggi, politicamente e
giuridicamente autonomi: infatti individua nell’aspetto giuridico la peculiarità di una istituzione come la parentela, non
una struttura estesa che parte da un nucleo familiare ma un sistema modellato da fattori esterni, come i rapporti tra i
gruppi per lo scambio matrimoniale.
Diversamente da Evans-Pritchard, Fortes rimarrà allineato con il maestro sulla concezione dell’antropologia e del suo
oggetto: l’antropologia resta scienza induttiva ed il suo scopo è sempre quello di pervenire alla formulazione di leggi
generali relative alla società. Come per Evans-Pritchard, lo studio della struttura per Fortes è il punto centrale della
ricerca, ma la struttura sociale perde il carattere di empiricità che rivestiva in Radcliffe -Brown, perché “nella
descrizione della struttura siamo molto distanti dal tessuto della vita sociale reale, è come se fossimo nel mondo di
grammatica e sintassi, non della parola parlata”.
Lo studio delle società segmentarie comportava una concezione delle dinamiche sociali alquanto diversa da quella
statica proposta da Radcliffe-Brown: queste, costituite da lignaggi autonomi, erano non più un organismo costituito da
parti in equilibrio, ma da un insieme sottoposto a forti tensioni centrifughe controbilanciate da forze centripete
(rappresentate dall’autonomia dei segmenti e dal mantenimento dell’unità funzionale). Fortes introduce la dimensione
temporale nell’analisi della struttura sociale, mostrando come sia intimamente associata all’idea di segmentazione. La
distanza genealogica tra i lignaggi, all’interno della struttura complessiva di una società segmentaria, esprime una
distanza sociale; la storia di un gruppo si esprime viceversa nella distanza “strutturale” dei lignaggi che lo compongono.
La cultura acquista un senso solo in rapporto alle relazioni tra individui e gruppi, che la esprimono appunto attraverso
queste relazioni; cioè la cultura, che possiede frontiere o contorni sfumati, è individuabile solo se rapportata alla
struttura, che è una entità delimitata. La struttura sociale non è un aspetto della cultura, ma l’intera cultura di una data
popolazione all’interno di un quadro teorico particolare; la struttura sociale non è data, ma prodotta dalla prospettiva
teorica dell’osservatore.
Funzionalismo e colonialismo
L’immagine dell’antropologia come figlia dell’imperialismo coloniale di metà Ottocento è al giorno d’oggi fuori luogo.
Forse.
Barth sviluppa la critica del modello strutturale introducendo le nozioni di scelta e di strategia, provenienti dal
repertorio concettuale dell’antropologia economica formalista, ma non utilizzandole per dimostrare una qualche forma
di razionalità universale nel comportamento di un immaginario homo oeconomicus; l’azione individuale è determinata
dai valori e dalle norme socialmente introiettate dall’individuo e dagli altri attori sociali; le possibilità di scelta non sono
infinite, esiste una gamma delimitata di possibilità a cui l’individuo deve adeguare il proprio comportamento.
Il tema del cambiamento socioculturale è connesso con l’elaborazione del cosiddetto modello generativo. Considerando
la realtà sociale come un processo dinamico prima che come una struttura, Barth connette il comportamento individuale
con le posizioni di status e di ruolo, in riferimento alle quali l’individuo può valutare il buon esito o meno del suo
comportamento: se una scelta è ben fatta e tende a confermare lo status, essa genererà comportamenti simili e rafforzerà
il modello di comportamento. Il modello generativo consente di spiegare la norma e la variazione nei comportamenti
corrispondenti allo status ed al ruolo: i fattori iniziali di variazione agiscono sull’individuo in possesso di determinati
status e ruoli, che potrà reagire in due modi: o lasciando inalterata la sfera dei rapporti della struttura sociale, o
adottando atteggiamenti che risultano adeguati agli input provenienti dall’esterno e generando nuovi modelli
standardizzati di comportamento.
Barth si rifiutò di considerare le comunità umane come entità chiuse e circoscritte: partendo dall’idea che l’identità
etnica è il criterio più generale di autodefinizione di un gruppo, esplora i caratteri che da questo punto di vista lo
caratterizzano in rapporto ad altri. Il gruppo etnico deve elaborare criteri di valutazione che consentano ai suoi membri
di interagire con i membri di altri gruppi per favorire lo scambio, ma senza annullare la propria identità, finendo per
autodefinirsi mediante una serie di strategie contingenti; i gruppi etnici sono allora configurazioni locali di un
continuum più ampio. La definizione del gruppo etnico assume in tal modo un carattere dinamico perché consente di
pensare ai gruppi come entità in relazione reciproca. La nozione di confine etnico ha una rilevanza centrale: confine non
è ciò che definisce una società o una cultura, ma il mezzo attraverso cui i membri di due gruppi definiscono l’ampiezza
e la portata delle loro relazioni reciproche.
La concezione dinamica delle relazioni interetniche e della società, pervase da continui processi di cambiamento, ha
origine dal lavoro etnografico condotto da Barth in Medio Oriente, che ospita comunità plurietniche caratterizzate da
una forte specializzazione produttiva; un quadro ben lontano dall’immagine di staticità che per tanto tempo aveva fatto
da sfondo al discorso della antropologia.
La prospettiva generalizzante
Verso gli anni Venti, l’antropologia americana era indiscutibilmente dominata da Boas; nel corso degli anni Trenta la
sua influenza cominciò a diversificarsi tramite i suoi allievi Kroeber e Lowie verso lo studio dei processi culturali, e la
Benedict e la Mead verso gli studi di cultura e personalità. Nonostante l’avversione del maestro verso la
generalizzazione a livello teorico, soprattutto verso le spiegazioni fondate sulla causazione lineare degli evoluzionisti,
con la seconda generazione emerse un nuovo interesse per la comparazione e la formulazione di teorie fondate su
spiegazioni causali: White e Steward gettarono le basi degli indirizzi noti come neoevoluzionismo e materialismo
culturale che rappresentano uno dei vari indirizzi di ricerca dell’antropologia americana contemporanea.
Evoluzionismo e scienza della cultura: White
Dal 1930 si impegnò in una rivalutazione dell’opera di Morgan, che proprio grazie a White è tornato sullo scenario
della disciplina a partire dagli anni Sessanta; è opportuno precisare che la ripresa di Morgan non implicava la
rivalutazione dei suoi schemi di sviluppo, ma piuttosto l’idea che la storia del genere umano sia contrassegnata da una
sempre maggiore complessità culturale e da un progressivo accumulo di tecnologia (White aveva recepito la teoria
marxista secondo cui sono le condizioni tecnico-economiche a determinare la vita delle società umane).
White sostenne le proprie idee contro una diffusa ostilità per l’evoluzionismo e tutto ciò che suonava come una
concessione al marxismo, ossia il privilegiare le analisi delle condizioni materiali di esistenza delle popolazioni; le sue
teorie possono essere ordinate in tre tematiche principali: la teoria dell’evoluzione culturale, la prospettiva del
determinismo culturale, la concezione della cultura in quanto tale e lo studio di essa, definito “culturologia”.
Per White, una teoria dell’evoluzione culturale deve reperire un sistema di misurazione della crescita culturale;
diversamente da Morgan e dagli altri evoluzionisti (per i quali l’incremento delle acquisizioni culturali era determinato
da uno sviluppo psicologico), White ritiene che l’indice e il criterio di misurazione vada individuato nella quantità di
energia pro capite che una società è in grado di controllare e sfruttare. La causa dell’evoluzione è quindi la tecnologia
impiegata dagli uomini per produrre e imbrigliare energia.
Egli distingue tre sottosistemi della cultura: quello tecnologico, composto dagli strumenti materiali e dalle tecniche
relative al loro uso; quello sociologico, costituito da relazioni interpersonali; quello ideologico, composto da idee,
credenze, conoscenze espresse nel linguaggio o altra forma simbolica. Questi sottosistemi si articolano tra di loro: la
tecnologia è variabile indipendente, il sistema sociale quella dipendente (quindi è determinato da quello tecnologico);
anche le esperienze e le interpretazioni del sottosistema ideologico sono potentemente condizionate dalla tecnologia.
White concepisce la cultura come campo d’azione di simboli determinati dalla tecnologia, e confuta le concezioni del
libero arbitrio e la teoria della storia come prodotto dell’azione dei “grandi uomini”: il singolo nasce in una cultura
preesistente che gli fornisce la forma e il contenuto del suo comportamento di essere umano. Questo atteggiamento
relativista (che riconduceva ogni forma di comportamento o di credenza al quadro culturale) fu profondamente
avversato anche per motivi ideologici dai sostenitori del capitalismo americano.
Questa concezione della cultura come determinazione del livello tecnologico e come sistema sua volta determinante le
scelte individuali indusse White a definirla in maniera analitica: fra le specie inferiori i sistemi sociali sono funzione dei
loro rispettivi organismi biologici, s=f(o); il comportamento umano non è mai una funzione dell’organismo, varia con il
fattore della cultura, quindi è una funzione della cultura, c= f(c).
Contro l’idea generalizzata secondo cui la cultura sia un comportamento appreso (un dato inconfutabile anche per molte
specie animali), White propose una definizione di cultura come “una classe di fenomeni comprendenti oggetti, atti, idee
ed attitudini che dipendono dall’uso di simboli”. In verità, venti anni prima White aveva scritto “tutta la cultura si fonda
sui simboli: l’esercizio della facoltà simbolica portò alla luce la cultura, e l’uso dei simboli rende possibile la
perpetuazione della cultura”.
Ecologia culturale, evoluzione multilineare e livelli di integrazione: Steward
Egli pose particolare enfasi sia sull’ambiente e le condizioni materiali di vita, che sulla ricerca di elementi per stabilire
leggi valide sul piano transculturale; come White, Steward rappresenta la reazione al particolarismo boasiano ed il
ritorno ad una concezione dell’antropologia come sapere generalizzante.
Il suo grande contributo all’etnologia venne dai lavori sugli Shoshoni, gruppi del Grande Bacino; da questi studi elaborò
le sue teorie definite come ecologia culturale: “gli Shoshoni vivevano in una terra proibitiva, l’unico elemento
dominante della loro esistenza era la necessità di procurarsi da vivere una stagione dopo l’altra; data la semplicità della
loro tecnologia, l’ambiente offriva poche alternative, e i loro modelli di vita sociale devono essere compresi come un
adattamento a questa dura realtà fisica”.
L’orientamento di Steward nei confronti della ricerca antropologica derivava da un’idea di scienza come “scienza
naturale”: lo scienziato deve scoprire le ricorrenze nelle relazioni regolari (causali) tra i fenomeni e stabilire delle leggi.
Egli definì la propria prospettiva come evoluzionismo multilineare, basato sul presupposto che nel mutamento culturale
ci sono regolarità significative, bisogna quindi determinare l’esistenza di leggi culturali.
Lo sviluppo culturale deve essere concepito non soltanto come una questione di complessità crescente, ma anche come
l’emergere di successivi livelli di integrazione socioculturale: questi si caratterizzano per una diversa complessità e
designano le modalità più generali di organizzazione presenti nelle varie società, come la banda patrilineare, il
lignaggio, la nazione, eccetera. Essi individuano segmenti di sviluppo evolutivo limitati, non descrivono cioè le tappe di
un movimento dal semplice al complesso, ma forme indipendenti che possono evolvere verso stati di complessità
maggiore; le forme semplici, come la famiglia o la banda, non scompaiono quando si raggiunge uno stadio di sviluppo
più complesso, ma vengono gradualmente modificate.
L’etnoscienza
Questa può essere definita come “lo studio delle modalità in cui sistema di pensiero di una comunità si struttura in
relazione al suo campo di esperienza”, un settore di ricerca fortemente influenzato dalla linguistica perché il linguaggio
è il mezzo privilegiato di espressione dei concetti e delle relazioni tra tali concetti. L’idea fondamentale è che ogni
cultura non costituisce solo un insieme di usi e costumi o di tecniche e istituzioni per far fronte alla necessità della vita
sociale, quanto piuttosto un sistema di pensiero formato da parti interrellate fra loro che fungono da “mappa” per il
comportamento di chi fa parte di quella cultura. L’etnoscienza è quindi un tentativo di comprendere i principi di
organizzazione che stanno alla base del comportamento: ogni popolo ha un unico sistema per percepire ed organizzare
fenomeni materiali (cose, eventi, comportamenti), ed oggetto dello studio sono il modo in cui questi sono organizzati
nella mente degli uomini; le culture non sono fenomeni materiali, ma organizzazioni cognitive di fenomeni materiali.
Nella tradizione dell’antropologia, gli studiosi cercarono di collegare il pensiero primitivo a fenomeni quali la credenza
negli esseri soprannaturali, il totemismo, la stregoneria, la classificazione dei gruppi umani, la produzione di miti,
occupandosi di stabilire le differenze e le somiglianze tra “noi” e “loro” e credendo di trovare elementi di continuità o
punti di rottura tra il pensiero selvaggio e quello civilizzato. Nessuno entrò tuttavia nel merito dei criteri dei meccanismi
conoscitivi delle rappresentazioni del mondo naturale e sociale (realtà) prima di Rivers con la sua spedizione nello
Stretto di Torres: lui e suoi collaboratori lavorarono sui processi percettivi e sulla reattività sensoriale, ma questi studi a
sfondo psicologico non ebbero praticamente alcun seguito in Inghilterra, mentre in America abbiamo assistito grazie a
Boas alla nascita dell’etnoscienza, detta anche etnosemantica o antropologia cognitiva.
Le premesse: Boas, Sapir e Whorf
Il retaggio boasiano è identificabile con la problematica relativa ai rapporti tra pensiero e linguaggio. Sapir e Whorf
ipotizzavano che la struttura di una lingua sia determinata dall’esperienza, che aggirerebbe causativamente sul
complesso delle rappresentazioni determinando le particolari visioni del mondo: questa idea di relativismo linguistico è
stata sviluppata in relazione a Boas, il quale però dava importanza al pensiero in quanto elemento determinante nella
sua relazione con la lingua, e non viceversa.
Per Boas la differenza tra la mentalità dei primitivi e la nostra era dovuta al fatto che i primi non avevano mai avuto la
possibilità di fissare in maniera cumulativa (scrivere) le proprie riflessioni sulla loro esperienza del mondo naturale,
mentre i secondi erano eredi di una lunga tradizione di sistematizzazione scritturale della riflessione astratta: la
diffusione della scrittura costituirebbe il grande elemento di rottura tra noi e loro. Inoltre, popoli come quello eschimese
o quello indiano possedevano esattamente le stesse facoltà mentali e la stessa possibilità di ragionare in maniera astratta
dei popoli civilizzati, ma il fatto che questi ragionamenti non facessero parte del loro campo di esperienza abituale
produceva, agli occhi degli occidentali, comportamenti interpretati come segno di prelogicità o irrazionalità.
La prospettiva emica e l’analisi componenziale
Ponendosi come obiettivo lo studio delle modalità di costituzione e di funzionamento del sistema conoscitivo di una
cultura, gli etnoscienziati privilegiano il punto di vista emico, cioè il modo stesso di conoscere degli individui che fanno
parte di una determinata cultura. A questo si contrappone il punto di vista etico, ossia la prospettiva che valorizza le
categorie scientifiche dell’osservatore, ponendo secondo piano il punto di vista dell’osservato (ossia il livello emico
dell’analisi). Un etnografo dovrebbe cercare di definire gli oggetti di analisi in accordo con il sistema concettuale della
popolazione che studia: lo studio emico di una cultura implica l’esplorazione dei legami semantici tipici di quella
cultura. I termini di parentela, le nozioni relative a salute ed a malattia, i termini impiegati per indicare i colori, un
sistema di classificazione delle specie vegetali, un sistema religioso, sono tutti ambiti semantici da esplorare per
cogliere le relazioni tra i termini che li costituiscono, al fine di capire in che modo i membri di una cultura utilizzano
queste conoscenze per orientare il proprio comportamento.
L’analisi componenziale dei termini di parentela parte dalla considerazione che queste terminologie formano dei domini
semantici al cui interno i singoli termini hanno significati particolari, a seconda che siano pensati in contrasto o in
relazione gerarchica con altri dello stesso dominio. I criteri distintivi (persona, genere e numero) e le specificazioni sono
le componenti dell’analisi in quanto valori semantici di ciascun termine (ad esempio i pronomi io, tu, egli, ecc.).
L’analisi componenziale applicata al dominio semantico dei sistemi di parentela rivela connessioni e opposizioni spesso
inattese tra i vari termini, molto utili se condotte su domini culturalmente distanti dai nostri.
La prospettiva emica dell’etnoscienza è stata aspramente criticata da Harris che propende per una visione generalizzante
e nomotetica della antropologia: la sua critica più nota sostiene che non si può pervenire ad una conoscenza oggettiva
della realtà socioculturale facendo riferimento alle idee espresse dagli attori sociali. Per Harris, è impossibile ricostruire
il complesso delle regole che determinano le scelte dei nativi, in quanto essi possiedono sempre una regola per
infrangere la regola in modo da non chiudere mai il cerchio della spiegazione: solo le regole etiche, formulate
dall’antropologo, possono pervenire alla comprensione della cultura perché sono “logicamente conclusive”.
La ricerca delle regolarità: percezione e terminologia del colore
L’etnoscienza si configura quindi come un sapere emico, attento a riprodurre nella maniera più fedele possibile le
mappe concettuali e conoscitive di cui dispongono i nativi per orientare il proprio comportamento, e relativistico,
perché fonda la propria scientificità nello studio di uno o più domini semantici interni a culture determinate. Tuttavia
non sono mancati studi etnoscientifici in una prospettiva generalizzante, per identificare le regolarità dei meccanismi
che presiedono alla creazione delle categorie culturali.
Berlin e Kay ipotizzano che i gruppi umani possiedono una gamma limitata di termini base per indicare i colori, da un
minimo di 2 ad un massimo di 11. Questa terminologia di base si sviluppa secondo un andamento evolutivo: tutti i
sistemi che possiedono solo due termini, sono chiaro e scuro; quelli che ne hanno tre, sono bianco nero e rosso; quelli
che possiedono cinque aggiungono e giallo verde, eccetera. Questa diversa complessità dei sistemi terminologici
sarebbe riconducibile ad un diverso grado di organizzazione sociale: più il gruppo è semplice sul piano socioculturale,
più la sua terminologia cromatica sarà ristretta. E’ questa un’ipotesi assai debole, perché Boas e dopo di lui Whorf
hanno dimostrato che le terminologie della percezione dipendono dal posto che tali fenomeni occupano nell’esperienza
di una determinata popolazione: ad esempio gli eschimesi hanno una organizzazione sociale meno complessa della
nostra ma hanno 40 modi diversi per dire “neve”.
Altri ricercatori hanno messo in relazione le diverse terminologie del colore con le variazioni che si registrano tra i
gruppi che vivono in ambienti diversi: ad esempio popoli che vivono nei pressi dell’equatore e con una terminologia di
base ristretta sarebbero caratterizzati da presenza di pigmentazione scura nella retina, che consentirebbe loro di cogliere
una quantità minore di tonalità cromatiche di altri soggetti con minor pigmentazione.
In molti hanno criticato queste teorie, insistendo sul fatto che il sistema percettivo di una popolazione è profondamente
influenzato dalle determinanti culturali, in quanto i colori possiedono dei significati contestuali che variano a seconda
della situazione. Al di là delle critiche che possono essere rivolte all’etnoscienza, sia relativistica che generalizzante,
rimane il merito di aver elaborato strumenti d’analisi e prodotto studi rilevanti per la conoscenza dei sistemi di pensiero.
La prospettiva interpretativa
L’antropologia interpretativa si pone il problema della conoscibilità delle culture dall’interno delle culture stesse, e
avanza la questione dei mezzi che ci consentono di raggiungere la conoscenza dell’altro, ovvero del procedimento
etnografico, ovvero di traduzione di una cultura in un’altra. Inoltre si pone in forte contrasto con le prospettive come lo
struttural-funzionalismo o il neoevoluzionismo, che avevano fatto di cultura, comportamento e struttura sociale degli
oggetti suscettibili di una trattazione mirante alla formulazione di proposizioni generali; non risparmia lo strutturalismo
di Levi-Strauss, nel quale vede un eccesso di astrattismo decontestualizzante; non concorda neppure con l’etnoscienza
laddove questa tenta di mostrare che il significato può emergere misteriosamente dalla concatenazione meccanica di
elementi privi di significato.
La prospettiva interpretativa, pur ponendo anch’essa l’accento su comportamento, linguaggio e aspetto simbolico della
cultura, riconosce che la vita sociale è una negoziazione di significati. Per essa, la base comune di incontro tra
osservatore ed osservato sono le pratiche realmente agite e rappresentate, che consistono in comportamenti che sono
sempre parte di costellazioni più ampie di significato, al di fuori delle quali non avrebbero senso (per esempio i
movimenti di un alfiere sulla scacchiera). Queste pratiche sono ciò che fonda la possibilità dell’esistenza sociale, e
devono poter esistere all’interno di un contesto rappresentativo più amp io.
Una cultura non può essere messa al riparo da influenze esterne e studiata in laboratorio: i criteri della verifica e della
misurazione, tipici delle scienze della natura, non valgono nel caso delle scienze umane. Nel caso dell’antropologia,
osservatore ed osservato sono calati nella stessa situazione (l’incontro etnografico), quindi sono in una relazione di
influenza reciproca per quanto riguarda l’elaborazione di teorie sulla cultura che viene studiata. Il contesto significante,
dato dall’interazione tra antropologo ed informatore, è un dato assolutamente primario da cui non è possibile
prescindere se non al prezzo di gravi distorsioni. La considerazione centrale è che sia l’oggetto della ricerca che gli
strumenti di essa appartengono entrambi allo stesso contesto: il mondo dell’uomo, animale simbolico ed interpretativo.
Cultura come testo, descrizione densa e punto di vista del nativo: Geertz
L’idea di una cultura come testo è il punto nodale del lavoro teorico di Geertz, il caposcuola dell’antropologia
interpretativa ed una delle figure di maggior rilievo dell’antropologia contemporanea: i suoi studi sul campo lo hanno
portato ai punti estremi del mondo musulmano, Indonesia e Marocco.
Non esiste nulla di più ostico della spiegazione della teoria interpretativa della cultura.