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Capitolo 1 Nascita dell’antropologia


La “Società degli Osservatori dell’uomo” nacque nel 1799, per opera di Jauffret, formulando l’antropologia come un
progetto scientifico nuovo basato su uno studio comparato delle società e delle culture in una prospettiva differenziale.

L’antropologia prima dell’antropologia


La letteratura possedeva già dimensioni considerevoli, frutto di resoconti di missionari, viaggiatori, esploratori e soldati,
oltre ad una critica filosofica dei valori della società di allora che, prendendo i selvaggi come soggetti metaforici, si
inscriveva nello scontro ideologico fra la polemica sulla religione e quella sulla libertà.
Lafitau è spesso indicato come uno dei precursori di questa scienza per il metodo comparativo che egli adottò
confrontando le credenze dei selvaggi con quelle degli antichi, comunque più allo scopo di dimostrare ai libertini che in
tutti popoli è presente l’idea di un essere superiore.

La “Società degli osservatori dell’uomo”


Lo scopo che i suoi membri si proponevano era di osservare l’uomo nella sua variabilità fisica, linguistica, geografica e
sociale, integrata dalla prospettiva della differenza, ed esprimendo l’incontro del quadro concettuale illuministico con il
repertorio della letteratura sui selvaggi. La società chiuse i battenti nel 1805, a causa della mancanza di fondi e della
politica di Napoleone, secondo il quale la scienza doveva essere subordinata alle esigenze dello stato, perdendo quindi
l’idea filosofica centrale di ragione universale. L’etnologia subiva così un’eclisse protrattasi per buona parte del XIX
secolo, e doveva poi scontrarsi con la teoria della “degenerazione del selvaggio”.

Progresso o degenerazione dell’uomo


Secondo De Maistre l’uomo non era affatto progredito da uno stato di barbarie ad uno di civiltà: il selvaggio era
esempio della degradazione dell’uomo a causa del peccato originale e della sua caduta dalla grazia divina; l’idea di un
progresso umano era una sfida all’ordine divino, quindi la subordinazione alla Chiesa e alla monarchia era l’unico atto
di saggezza possibile.
Secondo Wathely, il progresso non poteva essere concepito senza un esplicito intervento di Dio: dal giorno della
creazione, nel 4004 a.C., una parte dell’umanità era progredita mentre l’altra era decaduta.
Le principali tesi del degenerazionismo erano: non c’erano prove dello passaggio dallo stato selvaggio a quello di
civiltà; nessun popolo selvaggio aveva compiuto un qualche progresso per conto proprio; eventuali manufatti superiori
dovevano essere stati ricevuti da un’altra civiltà superiore, ad esempio il boomerang non poteva essere stato inventato
dagli aborigeni australiani; la storia dell’uomo era inscrivibile in uno spazio cronologico ristretto di 5.800 anni.

Capitolo 2 L’evoluzionismo vittoriano

Il quadro ideologico e teorico dominante


Nel 1843 fu fondata la “Società etnologica di Londra”, quando l’Europa, grazie al Congresso di Vienna che gli aveva
dato un assetto politico stabile in nome della restaurazione, era in un periodo di eccezionale progresso industriale,
coloniale, e di trionfo della borghesia. La scienza appariva come lo strumento in grado di assicurare all’umanità un
destino di felicità, e la sociologia quella branca della scienza per la quale diveniva possibile comprendere gli effetti del
progresso sulla società.
Nella filosofia sintetica di Spencer, la sociologia fu sistematizzata e acquistò una propria configurazione specifica: la
società era un organismo vivente e come tale era il risultato di un processo evolutivo, uno sforzo di adattamento della
sua popolazione ai suoi mezzi di sussistenza, ma anche in lotta per la supremazia con le altre. I concetti di
“sopravvivenza del più adatto” e di “selezione naturale” legittimavano scientificamente il colonialismo: la società
inglese, che era la più forte, era anche la più evoluta. La società-organismo vivente di Spencer rimase caratteristica della
sua sociologia: gli antropologi suoi contemporanei la condivisero raramente.
All’interno del darwinismo sociale conferivano alcuni aspetti della sociologia di Spencer e, in maniera arbitraria, i
concetti dell’evoluzionismo di Darwin, ma questo filone di pensiero era l’elaborazione dei primi sintomi di una crisi
sociale e politica verso cui l’Europa stava velocemente avvicinandosi.
La fiducia nel progresso materiale e sociale costituì invece il quadro ideologico del lavoro degli antropologi
evoluzionisti: la convinzione dell’esistenza di un progresso nella storia dell’uomo derivava dalla considerazione che la
società industriale di allora era quella che si trovava al più alto stadio di un’evoluzione culturale cumulativa.
L’incremento della produzione materiale e intellettuale della società presente derivava dallo sviluppo delle società
passate, all’inizio lento e poi via via sempre più rapido, che aveva determinato il passaggio da stadi culturali inferiori a
stadi superiori: la storia della società umana era quindi il risultato dell’azione di leggi sempre identiche, i cui effetti
cumulativi avevano generato stadi di sviluppo di crescente complessità; quindi i primitivi contemporanei

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rappresentavano lo stadio più remoto dello sviluppo culturale, e diveniva possibile classificare le società in inferiori e
superiori in base al criterio della complessità culturale.

La congiuntura scientifica
La teoria dell’invarianza delle leggi che determinano lo sviluppo cumulativo culturale era legata quindi alla convinzione
che la società industriale inglese di allora si trovasse al culmine di tutto lo sviluppo culturale precedente, grazie alle
scoperte geologiche di Lyell che permettevano di scartare le teorie creazioniste, e anche grazie a Darwin.
Gli antropologi evoluzionisti erano erroneamente convinti che l’incremento del progresso fosse contrassegnato dalle
stesse caratteristiche di cumulatività osservabili nella società scaturita dalla rivoluzione industriale, ma questa teoria
permise di sottrarre la storia dell’uomo al creazionismo, e di naturalizzare quei processi di trasformazione che questa
teoria si rifiutava di considerare come prodotto dell’attività umana.
Un apporto decisivo alla costituzione del paradigma evoluzionistico venne anche dall’archeologia preistorica, grazie al
metodo comparativo di Lubbock che paragonò la vita dei primitivi abitanti dell’Europa a quella dei selvaggi
contemporanei, reinterpretando i reperti archeologici non come testimonianze del passato ma come misuratori di
progresso in cui era visibile la cumulatività. Esiste una via (provata dalla compresenza di popoli più organizzati e di
altri meno) che porta dallo stato selvaggio alla civiltà: quanto più un popolo è organizzato, tanto più esso è avanti nella
scala dello sviluppo.
È dunque al clima intellettuale dell’evoluzionismo positivista che si deve la costituzione di una scienza delle società
primitive, un clima di tipo autocelebrativo poiché collocava tutte le società in una linea di progresso al cui vertice stava
quella inglese: le culture erano giudicate secondo l’ottica positivista che considerava l’economia, la religione, il diritto
come componenti organiche di tutte le società, per cui queste erano più o meno evolute a seconda del grado di
complessità raggiunto dalle loro istituzioni.

Cultura, religione e sopravvivenze: Tylor


Sebbene Tylor possa essere considerato il maggiore rappresentante dell’evoluzionismo antropologico vittoriano, la sua
fama è largamente dovuta all’azione dominante dell’antropologia americana, che ha visto in lui il fondatore della
“scienza della cultura”. Come tutti suoi contemporanei, Tylor pensava che esistessero popoli inferiori e popoli superiori,
ossia organizzazioni sociali sempre più complesse, e condivideva l’idea secondo la quale i selvaggi sparsi sui vari
continenti erano i rappresentanti degli stadi precedenti della storia umana.
Per Tylor, la cultura è un insieme che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto e qualsiasi altra
capacità o abitudine che l’uomo acquisisce come membro di una società; la constatazione che il potere dell’uomo sulla
natura è minimo presso i selvaggi, medio presso i barbari, e alto presso i civilizzati, implica che la transizione da una
fase all’altra dello sviluppo culturale coincideva col progresso della conoscenza, ed era quindi il principale elemento
nello sviluppo della cultura.
Lubbock, Morgan e gli altri evoluzionisti avevano rifiutato l’idea che le società selvagge rappresentassero un regresso
da forme superiori di vita associata, facendo di questa critica un elemento cruciale delle loro teorie; anche Tylor si
oppose a Wathely con una serie di argomenti che contribuirono a modificare l’ottica evoluzionista: bisognava fornire le
prove di come le acquisizioni culturali avessero un carattere cumulativo. Era possibile che alcuni popoli potessero aver
subito un regresso culturale accidentale, ma Tylor sosteneva che il progresso rimaneva l’elemento costante nella storia
complessiva del genere umano a causa della potenza della diffusione della cultura: infatti, il patrimonio culturale di
Roma era confluito in quello delle popolazioni barbare.
Tylor ha dedicato gran parte dei suoi studi all’aspetto intellettuale della cultura primitiva, e in particolare all’animismo,
termine che indica la credenza nelle anime e negli esseri spirituali in genere presenti in tutti gli oggetti. Dall’esperienza
del sogno, gli umani primitivi dovettero trarre la convinzione che i fenomeni di sdoppiamento della personalità e delle
apparizioni, che si verificano durante il sonno, erano dovuti all’esistenza di un doppio - l’anima - che conduceva
un’esistenza indipendente dal corpo anche dopo la morte, e che in seguito attribuirono anche ad animali, piante ed
oggetti. L’animismo era quindi la base della religione per ogni popolo, e distingueva il pensiero mitico, magico e
religioso da quello scientifico e razionale.
Tylor riteneva che l’emergenza del pensiero razionale fosse il risultato di una lenta e progressiva maturazione
intellettuale del genere umano: bisognava quindi tracciare le tappe evolutive di questo cammino, e mostrare a quali
modificazioni fosse andata soggetta la credenza negli spiriti durante le varie fasi. L’animismo costituiva la credenza
dell’esistenza dell’anima umana, una presenza ininterrotta dalla filosofia del selvaggio a quella del moderno professore
di teologia; con l’accumularsi delle conoscenze, e quindi con l’emergere del pensiero razionale, questa credenza era
andata ritirandosi fino a riguardare soltanto il cristiano civilizzato, restringendo la gamma dei fenomeni investiti dal
pensiero magico e religioso. La credenza nell’anima è quindi, nella religione cristiana, una sopravvivenza (fossile
sociale) delle antiche credenze nelle anime e negli spiriti.
Infine Tylor diede alla nascente antropologia anche delle basi di tipo statistico, tentando di stabilire la frequenza di certe
pratiche in relazione ai sistemi di discendenza matrilineare e patrilineare.

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L’efficacia sociale della religione: Robertson Smith


Egli fu uno dei fondatori dei moderni studi semitici e dell’antropologia mediorientalista, e compì ricognizioni dirette sul
terreno, a differenza di quasi tutti i suoi colleghi, visitando l’Egitto e la Palestina. Si pronunciò a favore della critica
storica della Bibbia, che considerava l’Antico Testamento come un documento storico che andava studiato, al pari di
qualsiasi altro, al fine di cogliere la realtà sociale e culturale che lo aveva prodotto; inoltre concepì l’idea di uno studio
comparato delle istituzioni sociali e religiose dei popoli semitici, mirando ad elaborare una teoria globale dei rapporti
tra società e religione.
Robertson Smith espose le proprie idee relative alla natura del fenomeno religioso partendo da premesse
diametralmente opposte a quelle di Tylor e di molti altri evoluzionisti: mentre questi ne individuavano la nascita
nell’attitudine riflessiva dell’individuo, egli concentrò la propria attenzione sulla dimensione sociale collettiva, ed in
particolare sull’attività rituale; alla teoria della religione primitiva fondata sulla comprensione della realtà operata
dall’intelletto, egli contrappose l’idea secondo cui i riti e le credenze collettive sono il dato primario di ogni esperienza
religiosa, che i me mbri di una data società trovano già pronti sin dalla nascita (condividendo quindi la posizione di
Tylor sulla sovradeterminazione degli individui da parte della cultura).
La dimensione collettiva e pubblica del fenomeno religioso si rivela negli atti di devozione che coinvolgono la società, e
cioè nei riti comunitari. Egli sosteneva una sostanziale omologia tra attività religiose e rituali da un lato e identità
politica e sociale dall’altro: la religione di un uomo era un elemento integrante nelle sue rela zioni politiche. Questo fatto
era rivelatore della natura politica della religione e della sua funzione di elemento coesivo della società: la religione era
un fattore regolativo perché attraverso l’adesione ai rituali spingeva gli individui a conformarsi ai comportamenti
collettivi standard, e coesivo perché, riunendo periodicamente gli individui a scopo rituale, rafforzava il senso di
appartenenza ad un unico corpo sociale. Di conseguenza la religione non era il prodotto di un atteggiamento speculativo
né un bisogno spirituale, ma qualcosa che esiste per la conservazione e il benessere della società.
In questo ambito, il sacrificio era un rituale di comunione fra la società e una divinità che rappresenta simbolicamente
l’unità della società stessa. L’idea di religione connessa con la dimensione di vita sociale è il punto centrale del pensiero
di Robertson Smith, che proveniva sia dall’esegesi biblica sia dallo studio dei classici arabi sia dagli studi compiuti tra i
Beduini; egli riteneva che la vita di questi nomadi fosse simile a quella del popolo dei patriarchi, e che le loro istituzioni
sociali fossero le sopravvivenze di quelle dell’antico popolo di Israele.
Il comparativismo di Robertson Smith si esercitava in un ambito culturalmente definito e geograficamente limitato, a
differenza della maggior parte degli antropologi del tempo. Fra questi, Frazer ipotizzava che il passaggio da una forma
di pensiero ad un’altra sarebbe stato il risultato di una lenta maturazione delle facoltà mentali dell’uomo, e che quindi la
magia corrispondeva ad una fase contrassegnata dall’ignoranza relativa ai rapporti causali che dominano il mondo; in
un secondo momento gli uomini avrebbero pensato di accattivarsi il favore della potenza della natura, e nasceva così la
religione; quando altri uomini si accorsero che nulla gli dei potevano nella risoluzione dei problemi umani, ebbe l’inizio
l’ultima fase di sviluppo, contrassegnata dall’osservazione dei fenomeni naturali e della ricerca delle leggi che li
governano. Il comparativismo di Frazer si rivela però quasi sempre ispirato dalla scelta di tratti etnografici ad hoc e
decontestualizzato, allo scopo di corroborare le ipotesi di partenza.
Robertson Smith, influenzato dalle teorie di McLennan (che sosteneva la precedenza storica del sistema di discendenza
matrilineare su quello patrilineare), ipotizzò erroneamente l’esistenza, nell’Arabia preislamica, di un sistema parentale
di tipo matrilineare che con l’avvento della nuova religione sarebbe stato rimpiazzato da uno di tipo patrilineare; anche
se giunse a conclusioni errate, il suo fu il primo lavoro di carattere antropologico sulla società degli Arabi del deserto e
costituì la premessa fondamentale per gli sviluppi del settore di ricerca sullo studio delle società segmentarie. L’idea
che esistano forme di organizzazione politica prive di istituzioni centralizzate, e fondate sulla coesione interna di gruppi
di discendenza, è un altro contributo importante dato alla riflessione antropologica.

Linguaggio, pensiero, simbolo: l’antropologia filologica di Muller


Egli sottolineò problemi che, sebbene oggi ci sembrino attuali, vennero invece sottovalutati o respinti dai
contemporanei perché controcorrente. L’importanza di Muller risiede nell’aver insistito sul nesso tra pensiero e
linguaggio, collegando la dimensione linguistica a quella culturale ed ipotizzando che linguaggio incorporasse lo spirito
di un popolo, cioè che fosse il vettore di idee storicamente trasmesse; ciò contrastava con le posizioni degli antropologi
evoluzionisti che consideravano il linguaggio come puro artificio comunicativo. Egli non condivideva totalmente le idee
di Darwin relative dalla continuità tra l’uomo e il resto del regno animale perché individuava nel linguaggio, connesso
al pensiero simbolico, un fattore di separazione incolmabile.
La filologia comparata diede un grande apporto alla nascita dell’antropologia, e l’individuazione di una famiglia di
lingue comuni indoeuropee fu messa in relazione con l’esistenza di popolazioni con una cultura specifica. Inoltre,
Muller riteneva che le credenze religiose fossero il tentativo di esprimere il senso dell’infinito, indicando con questa
espressione la sensazione diffusa dell’esistenza di un mondo posto al di là di quello sensibile: quindi le religioni dei
primitivi non erano più rozze di quelle dei popoli civilizzati, erano espressione dello stesso sentimento.
Egli sviluppò la propria teoria del simbolismo religioso: gli uomini ricorrono ai simboli per esprimere ciò che
esprimibile non è, e considerava i simboli come metafore; anche i miti apparivano come un’ombra gettata dal
linguaggio sul pensiero.

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Capitolo 3 Le origini dell’antropologia americana

L’America e il problema indiano


Diversamente dagli europei, per i quali il “selvaggio” fu una figura letteraria prima e oggetto di sfruttamento coloniale
poi, per gli americani costituì un ostacolo fisico all’occupazione di nuove terre e un ostacolo ideologico che doveva
essere rimosso, per assicurare la legittimità dell’esistenza di un nuovo Paese sulla base di nazione omogenea.
Per comprendere l’opera di Morgan, bisogna considerare il duplice ruolo che gli aborigeni americani sostennero nel
processo di costituzione degli Stati Uniti, tanto in senso materiale quanto in quello ideologico.
? Materiale. Dal 1803 iniziò un movimento di espansione verso ovest, verso la frontiera, verso la conquista di nuove
terre. La frontiera diverrà più tardi un mito che avrà un ruolo decisivo nel processo di formazione dell’ideologia
nazionale americana, in cui si celebrerà la duplice lotta sostenuta da una società contro gli ostacoli della natura e
contro l’Indiano, e in cui gli abitanti degli Stati Uniti, al di là della loro diversità d’origine, cercheranno un
principio di coesione, dimenticando tuttavia che questa conquista fu prima di tutto la storia di un genocidio. Per
tutto l’Ottocento i governi continuarono a comprare o ad espropriare le terre degli indiani, con deportazioni di
massa, distruzioni di villaggi, epidemie fatte scoppiare di proposito, per consolidare ogni nuova frontiera all’ovest.
Con la resa di Geronimo e dei suoi Apache nel 1886, la conquista del West e l’epopea della frontiera furono
mitizzate e diventarono un elemento di rivendicazione di originalità culturale; la distruzione fisica degli indiani fu
velocemente rimossa a livello di coscienza sociale. Nel suo aspetto negativo l’indiano era visto come il
rappresentante di uno stadio primitivo della storia umana che irrazionalmente occupa terre che i bianchi sarebbero
sfruttare molto meglio; nel suo aspetto positivo, il “buon selvaggio” con la sua innocenza costituisce la garanzia
della natura positiva del continente sul quale si sta sviluppando una nuova società.
? Ideologico. Si presentava un problema di natura giuridica: il possesso del suolo conferiva ad un popolo il carattere
di nazione, quindi anche gli indiani ne costituivano una; come pensare allora a una nazione americana che fosse
allo stesso tempo bianca e indiana? Jefferson cercò di risolvere il problema facendoli abbandonare la loro economia
di caccia e convertendoli all’agricoltura, ma ciò non evitò lo sterminio: ad esempio i Cherokee riuscirono a
convertire velocemente la propria organizzazione produttiva, ma quando la pressione demografica si fece più
intensa e si creò la necessità di aprire nuovi territori alla colonizzazione, essi si opposero alla deportazione e ciò li
portò al massacro. Gli ideologi opponevano la primitiva purezza dell’Indiano alla corruzione della civiltà europea: i
mali della società, sostenevano i padri fondatori, provengono dall’Europa e, se l’America li ha parte ereditati, essi
sarebbero scomparsi perché la sua civiltà si svilupperà a fianco di quella indiana.
Quando più tardi, una volta entrati a far parte del gruppo delle nazioni civili, gli Stati Uniti non sentirono più bisogno di
definirsi in maniera originale di fronte all’opinione pubblica europea, l’immagine dell’indiano come “buon selvaggio”
dei discorsi di Jefferson e Franklin tese a scomparire dall’ideologia ufficiale. Il destino delle riserve indiane, con la
degradazione culturale e sociale che comportavano, fece nascere il problema indiano, elaborazione ideologica della
sopraffazione di una civiltà da parte di un’altra che costituì lo sfondo ideologico dell’esordio antropologico di Morgan.

Morgan difensore degli indiani


Il suo primo lavoro importante fu “La lega degli Irochesi” del 1851, la prima descrizione scientifica di una tribù, nel
quale descrisse l’organizzazione sociopolitica delle 6 tribù della federazione Irochese grazie anche all’amicizia che egli
strinse con uno dei discendenti di una stirpe di capi. Morgan notò che questo popolo designava i parenti in un modo
diverso da quello dei popoli civilizzati: un individuo chiamava il fratello di suo padre “padre” e la sorella di sua madre
“madre”, e coerentemente i relativi figli si chiamavano “fratello” e non “cugino”, ma queste osservazioni furono il
punto di partenza di uno studio molto più ampio pubblicato vent’anni dopo. L’attenzione di Morgan fu attratta dalla
funzione che tale sistema sembrava aver svolto in passato nel processo di formazione dell’unità politica delle Sei
Nazioni: in ognuna di queste tribù, in relazione con tutte le altre attraverso un complesso sistema di parentele, era
presente un certo numero di clan ciascuno con un proprio nome di animale, e i suoi membri, anche se appartenenti a
tribù diverse, si consideravano discendenti di un antenato comune e perciò “fratelli”.
Lo sguardo portato da Morgan sulla società indiana era di tipo politico: egli tracciò un quadro di una federazione di
tribù legata da valori comuni, con un sistema di organizzazione sociale democratico ed egualitario, dimostrando che un
popolo di “selvaggi” aveva potuto darsi un ordinamento politico paragonabile a quello della Atene democratica e che
erano quindi degni del più ampio rispetto, non inferiore a quello dovuto agli antichi.
Lo scopo di questo libro era quello di sollevare, agli occhi di cittadini dell’Unione, un problema di interesse nazionale:
la democrazia americana avrebbe potuto dimostrare la propria superiorità sulle altre solo qualora fosse stata in grado di
risolvere, sulla base dei principi egualitari su cui si fondava, il problema indiano. Di fronte alla minaccia di una
scomparsa degli indiani delle riserve, Morgan propose una politica di assimilazione progressiva, attraverso l’educazione
e l’assegnazione di terre di cui potessero liberamente disporre.

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Morgan studioso della parentela


Il libro “Sistemi di consanguineità e di affinità della famiglia umana” del 1871 è probabilmente il capolavoro
dell’antropologia del XIX secolo: le preoccupazioni politiche lasciavano il posto ad interessi esclusivamente scientifici,
non per un mutato atteggiamento di Morgan nei confronti del problema indiano, ma in seguito al costituirsi di una
nuova problematica, sorta in seguito alla sua scoperta in altre tribù di un sistema di parentela molto simile a quello
Irochese, ed alla questione assai dibattuta dell’origine asiatica o autoctona dei pellerossa.
Morgan sosteneva che gli indiani d’America erano di origine asiatica, e l’eventuale presenza in Asia di un sistema di
parentela a simile a quello da lui osservato avrebbe potuto costituire una prova in favore della sua teoria; pensava che
ciò potesse essere un criterio più valido per stabilire le relazioni storiche invece del rintracciare eventuali somiglianze
linguistiche, perché “il linguaggio è soggetto a mutamenti nei vocaboli ma anche grammaticali, mentre un sistema di
relazioni è meno soggetto a cambiamenti nelle idee sottostanti, permanenti ed immutabili, che sono sopravvissute ai
cambiamenti linguistici e alle migrazioni del gruppo originario”.
Morgan raccolse dati relativi ai sistemi di parentela in popolazioni indiane nordamericane e nei popoli della terra intera,
che dovevano confermare la presenza di sistemi di parentela che, benché differenziati tra loro, presentavano una logica
simile di strutturazione; a questo gruppo si opponevano, in quanto fondato su una struttura differente, i sistemi che
Morgan indicò come ariani, semitici ed uralici, ovvero i popoli civilizzati.
Espose quindi in questo libro la distinzione tra due grandi gruppi di sistemi di parentela, corrispondenti a due modi
radicalmente differenti di designare i parenti consanguinei:
1. classificatori, del tipo Irochese, in cui i parenti consanguinei in linea collaterale non venivano distinti da quelli in
linea diretta;
2. descrittivi, del nostro tipo, in cui venivano invece distinti tramite termini specifici.
Egli avanzò l’ipotesi secondo la quale i due sistemi sarebbero stati caratteristici di due distinti tipi di società: il primo
con una organizzazione sociale basata sui rapporti di parentela, il secondo con una società fondata su rapporti di tipo
politico (in mancanza di leggi codificate o di uno stato in grado di assicurare i diritti degli individui, il legame di
parentela era infatti necessario tra le nazioni non civilizzate per l’aiuto reciproco).
Il primo sistema era caratteristico del periodo della barbarie, mentre la comparsa di una società fondata su rapporti di
tipo politico era connessa alla comparsa della civiltà: era quindi uno schema di tipo evoluzionistico, in cui le differenze
esistenti tra i vari sistemi classificatori erano fasi di un processo evolutivo in cui si esprimeva una progressiva
scomparsa della logica classificatoria a vantaggio della logica di tipo descrittivo. Egli ricostruì quindi le diverse forme
che l’istituzione familiare – da lui considerata la base della società - aveva assunto nelle diverse epoche storiche: dalla
promiscuità originaria cui era impossibile riconoscere i figli, alla famiglia monogamica e civile in cui era possibile
descriverne con precisione i rapporti esistenti tra i membri. Le nomenclature di parentela assumevano nella scienza di
Morgan la stessa funzione che le sopravvivenze svolgevano nell’opera di Tylor.
I rapporti sociali in generale ed i termini di parentela in particolare sarebbero quindi una estensione di quelli familiari.
Secondo Morgan le terminologie di parentela erano il riflesso delle relazioni di sangue generate dalle unioni
matrimoniali: i termini di parentela erano un indice del fatto che le popolazioni avevano stabilito legami di sangue, di
conseguenza il fratello del padre era chiamato padre perché ci fu un periodo in cui gli uomini non distinguevano tra
questi due individui in quanto le donne erano possedute in comune.
Per Morgan la comparsa della società politica, al cui interno i rapporti di parentela tendevano a perdere la loro funzione
dominante nelle relazioni sociali, era associata alla comparsa dei diritti di proprietà sulla terra: con la civiltà, la legge
dello stato sarebbe venuta a sostituire la protezione fornita dal gruppo dei parenti, e i diritti di proprietà avrebbero
influenzato con maggiore efficacia il sistema delle relazioni; considerava quindi l’emergenza della proprietà come
l’unico fattore in grado di spiegare la sostituzione di un sistema classificatorio da parte di un sistema descrittivo..

Morgan teorico del progresso


In “Ancient Society” del 1877 Morgan studiò alcune grandi tematiche come il significato delle terminologie di
parentela, lo sviluppo dell’idea di governo e di proprietà, l’evoluzione della cultura e delle società umane. Marx ed
Engels pensavano che quest’opera confermasse indirettamente la loro concezione materialistica della storia; i boasiani
ne fecero invece il principale oggetto delle critiche all’evoluzionismo antropologico (di cui questo libro fu considerato
la massima espressione), sostenendo che l’opera del 1871 avesse i caratteri della scientificità, mentre questo
rappresentasse una caduta ideologica. Coloro che ebbero un giudizio favorevole su quest’opera tesero a vedere un
contributo decisivo alla scienza della storia, mantenendo invece il silenzio sull’opera precedente.
In realtà, il quadro teorico che caratterizza queste due opere di Morgan è, per entrambe le opere, l’evoluzionismo. La
storia dell’umanità aveva seguito più linee parallele di sviluppo, attraverso tappe successive:
1. lo sviluppo delle tecniche di sussistenza, il cui ampliamento coincideva con le grandi epoche del progresso umano;
2. lo sviluppo delle istituzioni domestiche, che comprende le linee dell’organizzazione sociale, dei sistemi di
parentela, della famiglia e della proprietà.
Morgan concepì quindi due linee di ricerca tra loro indipendenti, convinto che le invenzioni e le scoperte erano
concatenate seguendo una connessione più o meno cumulativa, e che le istituzioni si erano invece sviluppate da pochi
germi primari di pensiero.

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L’evoluzione di queste due distinte linee di sviluppo poteva essere compresa stabilendo un certo numero di periodi
etnici che rappresentassero una condizione della società distinguibile per un peculiare modo di vita: la successione dei
periodi etnici era espressa dalla sequenza “selvaggio-barbaro-civilizzato” con l’aggiunta di tre sottoperiodi (inferiore -
intermedio-superiore) per le prime due epoche. Le invenzioni e le scoperte erano rappresentative del diverso grado di
progresso di ciascuna fase storica: ad esempio lo stadio selvaggio-intermedio era caratterizzato dalla pesca come mezzo
di sussistenza e dall’uso del fuoco, al quale seguiva lo stadio selvaggio-superiore contrassegnato dall’invenzione
dell’arco e quindi dalla caccia; i tre stadi della barbarie erano riconoscibili per certe tecniche di sussistenza, ed erano
seguiti dal periodo della civiltà, caratterizzato dall’invenzione di un alfabeto fonetico. Questi periodi etnici erano
connessi in una sequenza di progresso tanto naturale quanto necessaria: le invenzioni e le scoperte, che per Morgan
erano in rapporto di connessione cumulativa, erano considerati gli indici del progresso caratteristico di ciascuna fase.
Questo tentativo di periodizzazione è stato ritenuto il principale elemento di debolezza del libro, non solo perché è
difficile assegnare ad una semplice invenzione il carattere rappresentativo di un’epoca storica, ma anche perché
l’assunzione di segni di un processo cumulativo (indici di fasi storiche) produceva l’effetto di sdoppiamento della
ricerca in due linee tra di loro indipendenti, che impedì a Morgan di elaborare una teoria dei rapporti che intercorrono
tra tecniche di sussistenza e istituzioni in una stessa epoca storica.
L’assunzione delle invenzioni e delle scoperte come segni del progresso manteneva la problematica di Morgan
nell’orizzonte ideologico dei suoi contemporanei britannici, non costituendo un elemento di originalità rispetto alla
teoria del progresso materiale e cumulativo degli evoluzionisti vittoriani. Invece, la ricerca dei segni del progresso e
l’ampliamento dello schema selvaggio-barbaro-civilizzato in sottoperiodi vanno considerati entrambi come effetti di
una ideologia antropologica tipica di Morgan: diveniva possibile leggere nella storia d’America la storia passata
dell’umanità, dalla fase di caccia e raccolta fino al culmine del progresso rappresentato dalla società industriale,
attraverso la comparsa del commercio. La società indiana, che nella “Lega degli Irochesi” era stata fatta oggetto di
preoccupazione politiche, andava incontro ad un processo di riduzione a oggetto di scienza, a rappresentante di fase
storica, a esempio di società gentilizia caratteristica del periodo della barbarie.

Dopo Morgan
Con l’opera del 1877, la civiltà indiana cessa di essere un problema per la coscienza politica e morale degli Stati Uniti e
viene ridotta a rappresentante di una precisa fase storica di sviluppo: per Morgan, tuttavia, questa riduzione dell’indiano
a oggetto di scienza non è l’effetto di una rimozione, ma del progetto evoluzionista che assegnava ad ogni formazione
sociale un posto nella scala evolutiva. La società indiana descritta da Morgan è il prodotto di una ricostruzione storica
che egli cercò di astrarre dalle condizioni reali di allora, ben conscio che queste caratteristiche non potevano essere
identiche a quelle presenti prima dell’impatto con la società dei bianchi. La tendenza a dissociare l’indiano oggetto di
scienza dall’indiano oggetto di violenza politica fu un elemento diffuso all’interno dell’antropologia americana dopo
Morgan: quest’ultimo riconosceva di trovarsi di fronte ad una “indianità” degradata, mentre gli etnologi dopo di lui
presentavano i risultati delle loro inchieste fra le popolazioni delle riserve come fenomeni culturali di tipo arcaico, un
riflesso ideologico della politica dei governi nei confronti del problema indiano.
Nel 1888 uscì il primo il numero della rivista ufficiale dell’Associazione degli antropologi statunitensi, mentre si
assisteva alla definitiva estensione del sistema delle riserve, una degradazione di cui molti di essi sembravano non
accorgersi. La riserva produceva l’immagine illusoria di una società indiana tenuta al riparo da ogni specie di
contaminazione esterna, immagine che per gli antropologi si tradurrà in una visione complessiva delle culture indiane
come primitive (aventi le caratteristiche di arcaicità pura) grazie a pratiche etnografiche fuorvianti. Di queste, tre
risulteranno decisive:
1. la scelta degli anziani come informatori privilegiati, prodotta da un’immagine deformata delle reali condizioni dei
gruppi studiati;
2. il conferimento ai fenomeni esaminati di un carattere di oggettività;
3. l’enfatizzazione degli aspetti cerimoniali e religiosi della vita sociale.
L’attitudine etnografica prevalente in questo periodo consiste nell’attenersi alla pura descrizione dei fenomeni osservati:
l’empirismo costituì lo strumento attraverso il quale gli antropologi americani si sforzarono di elaborare un progetto di
una scienza generale del comportamento umano.

Capitolo 4 Lo sviluppo dell’antropologia americana: Boas e la sua


scuola

Empirismo ed evoluzionismo
Il campo specifico dell’antropologia statunitense è costituito fin dall’inizio dalle culture indiane in via di degradazione e
ridotte ad un ruolo di marginalità assoluta. L’empirismo etnologico può essere considerato l’esito di una serie di
operazioni ideologiche condotte dagli antropologi nei confronti della situazione di emarginazione delle società indiane,
che aveva come effetto l’esclusione di un qualunque atteggiamento che non fosse una semplice descrizione degli oggetti
etnologici, ma che si accompagnava a ricostruzioni di sequenze storico-evolutive non sempre legittime.

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Negli anni seguenti la scomparsa di Morgan, l’antropologia americana oscillava tra il descrittivismo assoluto e
l’esasperazione dell’interpretazione evoluzionista della storia delle culture e delle società: l’attitudine empirica negava
ogni possibilità di autocorrezione in sede di teoria, accentuando la frattura fra ricerca e riflessione teorica, e doveva
generare la tendenza, caratteristica dell’antropologia americana nei decenni seguenti, a interpretare le culture umane in
senso determinista o idealista.

Il particolarismo storico di Boas


A lui si deve il tentativo di rifondare l’antropologia americana su premesse teoriche più rigorose di quelle degli
antropologi evoluzionisti successivi a Morgan. Nei suoi pochi lavori di carattere teorico possono essere individuati i
temi che, sviluppati poi dai suoi allievi, delinearono gli indirizzi, gli interessi e le scelte dell’antropologia americana
della prima metà del Novecento, che viene così ad acquistare una fisionomia definita.
Il più noto dei testi teorici di Boas è “I limiti del metodo comparativo dell’antropologia” del 1896, in cui operava una
rottura decisiva nei confronti della tradizione antropologica allora dominante ed enunciava i principi generali del
cosiddetto metodo storico. Rigettando gli esiti speculativi delle ricostruzioni storiche degli evoluzionisti
postmorganiani, negava il valore di una storia uniforme dell’evoluzione della cultura, basata sull’ipotesi secondo cui
tratti culturali simili in popoli distanti sarebbero apparsi indipendentemente. Gli evoluzionisti sostenevano l’esistenza di
un sistema secondo il quale l’umanità si è sviluppata ovunque grazie alla sostanziale unità psichica del genere umano;
secondo Boas, un fenomeno etnologico sviluppato in maniera indipendente in luoghi diversi equivaleva a dire che aveva
avuto uno sviluppo identico in ogni luogo, e che quindi gli stessi fenomeni erano dovuti sempre alle stesse cause:
l’impossibilità di ciò rappresentava un elemento di debolezza nelle ricostruzioni delle sequenze storiche.
Boas produsse una serie di esempi relativi alla possibile origine differente, e al diverso significato, che fenomeni
culturali simili avevano in contesti culturali eterogenei: ad esempio la formazione di una società totemica poteva essere
il prodotto di una tendenza alla scissione di tribù numerose in clan più piccoli (una teoria opposta a quella che sosteneva
che questa società fosse il prodotto di una riunione di clan), oppure dimostrò, a chi postulava la priorità storica della
discendenza matrilineare su quella patrilineare, che presso gli indiani Kwakiutl era accaduto il contrario. Egli sosteneva
che fosse oggettivamente impossibile affermare l’universalità delle cause che avevano determinato l’emergenza dei
tratti culturali apparentemente identici in culture diverse.
Boas riteneva che l’obiettivo dell’etnologia fosse la conoscenza delle cause storiche che avevano determinato i tratti
culturali di una certa popolazione, possibile solo se l’indagine fosse stata circoscritta ai costumi e alla cultura
complessiva della tribù in correlazione con la distribuzione fra quelle limitrofe; questo approccio avrebbe consentito di
determinare le cause storiche che avevano portato alla formazione dei costumi e ai processi psicologici che operavano
durante questo sviluppo. Queste considerazioni erano i principi fondamentali del metodo storico o particolarismo
storico, il cui oggetto era lo studio e la conoscenza delle culture nella loro singolarità.
Nel 1897 pubblicò il suo lavoro sugli indiani Kwakiutl, frutto di una importante e rigorosa ricerca sul campo. Sebbene
fosse convinto che una stretta aderenza ai fatti avrebbe permesso di sfuggire alle speculazioni tipiche delle teorie
evoluzioniste, questo libro è un esempio di come l’empirismo etnologico, illudendosi di poter raggiungere una
oggettività assoluta, si riveli il mezzo più diretto per riprodurre il pregiudizio etnocentrico. Ad esempio, l’aspetto
distruttivo del potlatch (pratica ostentoria e distruttiva) è considerato oggi un meccanismo attraverso cui venivano
sottratti al processo produttivo quei beni che avrebbero provocato una alterazione del sistema e una perturbazione nella
struttura dei rapporti di potere.
Boas descrisse nel linguaggio formale dell’economia classica le pratiche del potlatch: usando termini come
investimento, vendita, interesse, faceva credere al lettore di trovarsi in una tribù composta di trafficanti, interpretando
questa usanza come una pratica connessa esclusivamente all’acquisto di prestigio, derivante dal fatto di aver distribuito
o distrutto più beni dei rivali e di averli superati in generosità. L’empirismo di Boas aveva quindi l’effetto di attivare un
linguaggio di economia capitalista in un contesto che nulla aveva a che fare con l’economia di mercato, e di rendere
operante il pregiudizio etnocentrico che considerava la società occidentale come l’unica dotata di una vera economia,
bloccando ogni possibile analisi di queste pratiche ostentatorie e distruttive per le quali non restava che una spiegazione
in termini di semplice comportamento.
Per Boas, uno dei compiti fondamentali dell’etnologia era quello di determinare i processi psicologici che operavano
nello sviluppo dei fenomeni culturali: bisognava cogliere le dinamiche delle reazioni dell’individuo nei confronti della
cultura, e di come questo contribuisce a modificare i modelli sociali di comportamento. Il criterio che permetteva di
qualificare come valida una inchiesta etnografica risiedeva nel grado di fedeltà con la quale l’etnologo coglieva la realtà
sociale nella rappresentazione che di essa si facevano i membri della popolazione studiata.

Superorganico e configurazioni culturali: Kroeber


Boas aveva operato una critica decisiva nei confronti di quelle teorie che pretendevano di assegnare la medesima causa
a fenomeni culturali simili in tempi e luoghi diversi; Kroeber nella “Spiegazione mediante cause ed origini” (1901)
riprende lo spunto del maestro e considera l’arte degli indiani Arapaho definendola “allo stesso tempo decorativa e
dotata di significato rappresentativo”, cioè un prodotto di simbolismo e decorazione in cui non si possa stabilire quali di
questi due fattori rappresenti l’esito di una trasformazione dell’altro; le tendenze simbolica e decorativa, che le
spiegazioni causali presuppongono separate, esistono invece compenetrate l’una nell’altra ed in quanto tali sono arte.

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Le teorie causali spiegano i miti come il risultato di processi di ordine psicologico sviluppatisi da una credenza
originaria (es. animismo secondo Tylor); per Kroeber sono degli aggregati di una serie di tendenze indistinguibili: sia
l’interpretazione deformata di eventi storici reali, che l’invenzione allegorica a scopo etico-pedagogico sono aspetti del
fenomeno mitico, che deve essere compreso nella sua totalità invece che nei suoi aspetti separati. I fenomeni culturali
possono essere compresi solo se si conoscono le relazioni con il resto di quella grande unità che si chiama vita.
In un articolo del 1909, Kroeber critica esplicitamente le teorie di Morgan: la distinzione operata da quest’ultimo tra
sistemi di tipo classificatorio e di tipo descrittivo è arbitraria ed etnocentrica, in quanto i sistemi di parentela empirici
rivelano le caratteristiche di entrambi i tipi, ed è impossibile operare una separazione netta tra questi due sistemi. Nella
lingua inglese, col termine cousin vengono designati sia i cugini che le cugine, indipendentemente dal fatto che siano
tali per parte di padre oppure per parte di madre: per Kroeber ciò costituiva una prova del fatto che il principio
classificatorio non era esclusivo dei sistemi primitivi, ma presente anche nei descrittivi come quello inglese.
Tuttavia, la critica di Kroeber non teneva conto di due fattori essenziali: Morgan era perfettamente consapevole che
anche i sistemi descrittivi possiedono termini per designare individui con i quali esiste una relazione differente, ed i
sistemi classificatori differivano da quelli descrittivi perché designano con gli stessi termini tanto i parenti consanguinei
in linea diretta quanto i parenti consanguinei collaterali. Per Morgan i sistemi di parentela esprimevano la natura dei
rapporti e delle istituzioni sociali, mentre per Kroeber riflettevano semplicemente la psicologia, veicolata dal
linguaggio, dei soggetti culturali, cioè semplici espressioni che potevano essere considerate un aspetto della cultura.
Kroeber negava l’esistenza del rapporto causale tra pratiche matrimoniali e terminologie di parentela che Morgan aveva
postulato, e orientava lo studio dei sistemi di parentela verso un approccio che non teneva conto delle teorie di Morgan
(secondo cui le relazioni di parentela svolgevano funzioni che nelle società civilizzate erano assolte da rapporti di tipo
politico-economico cioè sociali); Kroeber considerava invece i termini di parentela indipendenti dal significato delle
relazioni sociali, e quindi accentuava l’importanza dell’aspetto simbolico su quello sociologico.
Il distacco di Kroeber da Boas avvenne nel 1917 quando uscì “Superorganico”, un tentativo di elaborare una definizione
precisa e definitiva dell’oggetto dell’antropologia (fino a questa data si muoveva con Boas nelle critiche al metodo
comparativo e al principio causale come metodo di spiegazione dei fenomeni culturali): quest’oggetto coincide con la
cultura intesa nell’accezione tyloriana del termine, cioè l’insieme delle pratiche possibili esercitate dagli individui in
quanto membri di un gruppo sociale.
L’ordine dei fenomeni culturali è di natura superorganica, (cioè non riducibile all’ordine dei fenomeni biologici), sono
provvisti di esistenza autonoma e sono spiegabili soltanto sulla base di altri fenomeni culturali. Kroeber criticava anche
il postulato di base del darwinismo sociale americano, cioè l’esistenza di una continuità tra l’ordine del biologico e
quello del sociale, che assimilava le leggi di funzionamento della società a quelle della natura. Il conferimento di una
natura superorganica e sovraindividuale ai fenomeni culturali collocava Kroeber in una posizione eccentrica rispetto a
Boas e ai suoi allievi: ogni cultura è il prodotto dell’interazione di più modelli culturali (configurazioni) che sono i suoi
segmenti espressivi, ad esempio una filosofia, una moda, un genere di arte. Egli analizzò i modelli culturali delle più
grandi civiltà della storia, tentando di tracciare ricorrenze e somiglianze dei processi di crescita, di culmine e di declino
di varie culture differenti.

L’interludio diffusionista: aree, tratti e culmini culturali


Negli anni in cui si affermavano le posizioni di Boas, si costituiva negli ambienti antropologici statunitensi un indirizzo
di ricerca sulla distribuzione delle culture indiane, i loro contatti e i prestiti reciproci di organizzazione sociale e vita
religiosa. In tale prospettiva di ricerca, la nozione di area culturale designava l’area geografica entro la quale sono
presenti determinati tratti, ossia elementi culturali con una specifica identità; le singole culture erano la somma
complessiva dei loro tratti componenti. La distribuzione dei tratti culturali veniva pensata come la conseguenza di
processi di diffusione. Wissler, allievo di Boas, classificò le culture indiane sulla base del criterio delle loro relazioni
con l’ambiente ed elaborò una teoria di aree culturali come ambiti di diffusione di tratti simili a partire da un centro di
irradiazione. In questo centro culturale sarebbero presenti tutti i tratti che caratterizzano l’area, che si sono
irregolarmente distribuiti diventando sempre più radi man mano che ci si allontana dal centro: ciò poteva spiegare il
fatto che popolazioni appartenenti alla stessa area non erano culturalmente identiche. La nozione di area culturale
implicava la presenza di un elemento temporale (area cronologica): i tratti che si trovavano più lontani dal punto di
diffusione iniziale dovevano essere i più antichi ed appartenere al nucleo culturale originario.
Queste teorie furono criticate da diversi antropologi, che osservavano come i tratti culturali non si diffondono
uniformemente in tutte le direzioni né con ritmi identici, per cui risulta difficile accertare l’anteriorità di certe
acquisizioni, ed inoltre la trasmissione dei tratti poteva essere il risultato di una migrazione. Comunque, questo
interludio non si propose una ricostruzione globale dei processi di diffusione di cultura, ma solo l’obiettivo di definire la
distribuzione delle aree culturali indiane nordamericane.

Modelli di culture: Benedict


Allieva di Boas, fece propria la critica più rilevante rivolta alle posizioni di coloro che privilegiavano la distribuzione
dei tratti culturali per determinarne i processi di diffusione: lo studio della diffusione dei tratti era il riflesso di una
concezione della cultura umana come aggregato di elementi isolati, ma la cultura doveva consistere in qualcosa di più
della somma delle sue singole parti, cioè “una configurazione al cui interno gli elementi interagiscono producendo

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modelli significanti”. Ogni società esprime una propria modellizzazione (social patterning): anche se un tratto poteva
avere una distribuzione più o meno ampia, ciò che interessava era il fatto che esso faceva parte di un modello specifico;
ad esempio il tratto dello “spirito guardiano” in una regione si era combinato con le cerimonie della pubertà, in un’altra
con il totemismo, in un’altra ancora con società segrete, ecc. La funzione del modello era quella di integrare i più
svariati tratti dopo averli selezionati; un tratto poteva essere accolto o respinto a seconda dei modelli preesistenti.
La modellizzazione, operata all’interno di ogni società sugli elementi della cultura, produceva un modello culturale
medio che la Benedict definì mediante l’utilizzazione di nozioni di tipo psicologico: agli apollinei indiani Pueblo, il cui
ideare era il controllo delle emozioni attraverso cerimonie pubbliche, contrapponeva i dionisiaci Indiani delle Pianure,
la cui cultura estremizzava sentimenti e passioni; i paranoici Dobu della Melanesia erano sospettosi e invidiosi; i
megalomani Kwakiutl completavano il quadro con la frenesia distruttiva dei potlatch e il loro delirio di potenza.
Queste descrizioni culturali produssero un’immagine delle culture umane come entità definibili attraverso categorie
psicologico-intuitive approssimative, ma era un esito non voluto dalla Benedict, che voleva insistere sulla dimensione
simbolica della cultura contro quelle tendenze che la riducevano a una pura somma di singoli tratti.

Adolescenza e carattere: il tema della socializzazione in Margaret Mead


Nel primo dopoguerra, i problemi posti dall’aumento della delinquenza, dall’emarginazione sociale,
dall’urbanizzazione, e ovviamente dalla crisi economica del 1929, costituirono degli importanti punti di riferimento per
la psicologia sociale, la sociologia e l’antropologia americana di quel periodo. Uno dei problemi decisivi era quello
della socializzazione, cioè l’adattamento dell’individuo ai valori espressi dalla società in cui vive.
Nella pratica antropologica, lo studio del processo di socializzazione venne a coincidere con lo studio dell’influenza
esercitata dalla cultura sull’individuo, e come quest’ultimo si adatta con successo ai valori espressi dalla società. Il
primo lavoro di M. Mead risentiva dell’influenza boasiana: frutto di una ricerca nelle isole Samoa sul periodo di vita
adolescenziale della donna, analizzò il contesto sociale ed il processo educativo che concorrevano alla formazione della
personalità, in un periodo decisivo per l’adattamento ai valori visti come positivi dalla società.
La Mead mostrava la grande differenza dei metodi educativi e l’alto grado di socializzazione prodotto dai Samoani:
l’adolescenza in una società primitiva (semplice ed omogenea) era una fase della vita meno esposta a traumi di quanto
non lo fosse nella società occidentale. Questa differenza era dovuta alla mancanza di messaggi concorrenziali inviati
dalla cultura ed alla monodimensionalità delle scelte sociali che si parano davanti al giovane; a valori culturali diversi
corrispondevano modelli educativi differenziati, i quali davano luogo alla formazione di personalità diverse.
Le conclusioni della Mead, che oggi possono sembrare semplici luoghi comu ni, costituivano un elemento di rottura
importante nei confronti della mentalità ristretta di certi ambienti americani, sottoponendo allo sguardo etnocentrico del
genitore, del pedagogo e dell’assistente sociale una vita diversa, e rendendo più ampio l’orizzonte teorico e pratico
dell’esperienza educativa americana.
Questo fu il primo di una lunga serie di studi ispirati al problema della socializzazione e della formazione della
personalità nel contesto delle culture primitive, lavori che non portarono nulla di nuovo dal punto di vista teorico. In
essi, la Mead giunge alla conclusione che i tratti di carattere maschile e femminile sono determinati più dalla cultura
che da una predisposizione naturale, e che i differenti valori delle differenti culture producono un carattere-tipo come
risposta adattiva individuale. Queste analisi riflettono l’ossessiva preoccupazione della cultura americana verso
manifestazioni della propria società ritenute patologiche, ma in realtà generate dal funzionamento di un modello sociale
che si poteva cogliere attraverso i suoi effetti macroscopici.

Capitolo 5 L’etnologia classica francese da Durkheim a Mauss

Caratteristiche generali
Con questa espressione si indica la tradizione della produzione teorica di Durkheim, Levy-Bruhl, Mauss ed i loro
allievi. Secondo questi autori, le società primitive sono il luogo in cui è possibile osservare i fenomeni sociali nella loro
forma più semplice: essi acquistano un alto valore esplicativo in virtù della natura espressiva che rivestono all’interno di
un sociale scarsamente strutturato. Un altro aspetto comune è che essi credono nella possibilità di esistenza di una
scienza etnologica: l’etnologia classica francese è espressione del mito positivista di una scienza delle società primitive.
Una simile scienza è edificabile appunto grazie a questa idea della natura elementare dei fatti sociali all’interno di
contesti più semplici, senza quel significato strettamente evolutivo che poteva avere per gli antropologi vittoriani e per
Spencer; inoltre, c’è la necessità di dover pensare l’oggetto - il primitivo - come qualche cosa di distinto e separato dalla
realtà alla quale appartiene il soggetto osservante, l’etnologo: solo in questo modo è possibile conferire al sapere
etnografico quel carattere di sis tematicità che la tradizione scientifica richiede. Tuttavia, quando l’etnologo finirà per
trovarsi coinvolto nel processo di destrutturazione delle società primitive conseguente alla dominazione occidentale sul
resto del mondo, questa prospettiva sarà destinata ad entrare in crisi.

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Fatti sociali e rappresentazioni collettive: Durkheim e la sua scuola


Nella sociologia di Durkheim, possiamo leggere sia la fiducia nella progettabilità del sociale, sia lo sforzo di rendere
comprensibili quei fenomeni che la razionalità del sistema comtiano coglieva il modo inadeguato. La prospettiva di
partenza di Durkheim è quella della ricerca delle norme da cui dipendono la stabilità e la continuità del sociale: i
fenomeni sociali di massa e le mutate condizioni sociali della Francia di allora rendevano inaccettabili agli occhi di
Durkheim l’immagine comtiana della società capitalistico-industriale, sottratta cioè all’influsso di quei fenomeni che
agivano in contesti sociali appartenenti a fasi precedenti di sviluppo storico. Secondo Durkheim, la società è largamente
dominata da forze apparentemente irrazionali che hanno radici nell’opinione pubblica, nelle tensioni sociali, nelle lotte
di religione, e si interroga sugli elementi che, malgrado ciò, assicurano alla società una sua stabilità e il suo perdurare.
Durkheim individua il principale di questi elementi nella coscienza collettiva (“La divisione del lavoro sociale”, 1893),
definita come l’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri di una società: un’entità del
sociale in possesso di un’esistenza sovraindividuale, cioè indipendente dalle singole coscienze e dotata di una logica di
sviluppo autonoma. La maggiore o minore intensità delle manifestazioni dalla coscienza collettiva è in relazione con il
tipo di solidarietà che si instaura tra i membri di ciascuna società: se la vita sociale occupa ogni spazio della vita del
singolo, determinandone le scelte ed i sentimenti, abbiamo una solidarietà di tipo meccanico che lega tra loro gli
individui, in cui ogni atto che trasgredisca le norme sociali suscita riprovazione, e la coscienza collettiva è tanto forte da
essere estensiva delle coscienze singole. Nelle società dove prevale invece la tendenza del singolo a differenziarsi dal
gruppo - cioè con una solidarietà di tipo organico - gli individui si riconoscono nel sociale grazie a meccanismi che
dipendono dalla volontà personale, e la coscienza collettiva tende ad occupare spazi più ristretti ma non meno efficaci
dal punto di vista del mantenimento di un’identità sociale comune.
Le diverse società sembrano disposte lungo una linea continua che conduce da un limite all’altro di una evoluzione
tradizionale dal semplice al complesso. In “Le forme elementari della vita religiosa” del 1912, Durkheim elabora una
teoria generale della religione e della società attraverso il reperimento delle forme elementari che entrano a far parte di
tutti i sistemi religiosi e sociali. Il fenomeno religioso è un fatto sociologicamente unitario: alcune religioni possono
essere superiori e mettere in gioco funzioni mentali più elevate, ma anche quelle semplici rispondono alle stesse
necessità, dipendono dalle stesse cause e perciò possono anch’esse manifestare la natura della vita religiosa. Quindi le
religioni sono comparabili, indipendente dalla loro complessità, poiché alla base ci sono rappresentazioni fondamentali
e atteggiamenti rituali che rivestono ovunque lo stesso significato oggettivo e adempiono ovunque alle stesse funzioni.
Il problema del reperimento di queste rappresentazioni fondamentali, o forme elementari, è risolto da Durkheim
assumendo che la religione nel suo stato originario sia presente nelle società più semplici conosciute, ed elaborando una
teoria di una continuità, dal totemismo australiano fino alla religione positiva, al cui interno agiscono rappresentazioni
collettive indipendenti da quelle dei singoli individui. Quindi le immagini di animali, di piante o fenomeni naturali del
totem, oppure le nozioni più elaborate come quelle di mana esprimenti una forza in generale, esprimono la forza stessa
con cui la società s’impone agli individui: gli uomini adorano il totem, ma è invece il clan (l’unità sociale primaria) che
essi inconsapevolmente adorano attraverso il rito.
Durkheim, influenzato dalla concezione di Robertson Smith relativa ai rapporti tra religione e società, sottolineava così
il dominio esercitato dalla dimensione sociale sul comportamento e il pensiero individuale: la società s’impone
attraverso l’esercizio di un potere morale (che è il rispetto degli individui per essa) al quale ubbidiscono spesso in
contrasto con i loro interessi; tale rispetto è conseguenza di norme e di regole sociali che producono il sentimento di
appartenere a una società. In qualsiasi religione, la natura e la funzione sono identiche, e coincidono sempre con la
società e la devozione dei membri nei suoi confronti.
È importante notare che in quest’opera emerge un nuovo approccio allo studio dei fenomeni sociali: da Durkheim in
avanti la religione, le istituzioni giuridiche, le norme etiche, eccetera, non saranno più considerati il risultato di un
progresso intellettuale a partire da impressioni soggettive, come ad esempio la nascita della religione per Tylor. I fatti
sociali (l’oggetto della sociologia) sono individuabili per il potere che essi hanno di esercitare una costrizione sugli
individui: dotati di vita autonoma, determinano dall’esterno il comportamento dei membri di una società attraverso le
norme che impongono l’adesione alle regole del corpo sociale di cui fanno parte.

La morte e la mano destra: Hertz


Nei suoi studi, rispettò la procedura seguita dal maestro di isolare il fatto sociale dalla sua forma culturale, ma restrinse
di molto il campo di indagine, considerando contesti specifici e fenomeni particolari per poi cercare di conferire ad essi
una validità generale: si concentrò sul costume della seconda sepoltura in un saggio sulla rappresentazione collettiva
della morte nel Borneo, e sui rapporti di esistenti tra mano destra e valori sociali nella tradizione indoeuropea.
L’idea alla base di questi due lavori può essere ricondotta alla problematica di Durkheim della coesione sociale. Per il
primo studio, la concezione che ciascun popolo aveva della morte rientrava nel vasto problema della comprensione dei
meccanismi per cui una società riesce a mantenere la propria identità: le credenze dei primitivi sulla morte non
costituivano spiegazioni - origine del pensiero religioso per Frazer -, ma erano delle rappresentazioni collettive, dei
processi mentali condivisi dai membri di una società. In tutti popoli, la morte comprende emozioni e rappresentazioni
molto diverse culturalmente e sociologicamente. Alla morte di un capo, un vero e proprio panico si impadronisce del
gruppo perché distrugge l’essere sociale sovrapposto all’individualità fisica, mentre quella di uno straniero passa
inosservata e non dà luogo ad alcun rito. Il corpo sociale avverte la morte di un suo membro come una minaccia alla

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propria coesione, perciò deve ristabilire l’equilibrio attraverso una serie di riti atti allo scopo: attraverso i rituali funebri,
il defunto è ragionevolmente distaccato dalla comunità e reintegrato in quella degli antenati.
Nel Borneo, Hertz descrisse due riti distinti intervallati da un periodo di lutto: alle prime esequie, seguiva dopo un certo
tempo un altro rito più solenne. Egli individuò il carattere fondamentale che la morte riveste in tutte le società, ossia
quello di una transizione da uno stato all’altro, dalla comunità dei vivi a quella dei defunti; i riti funebri assomigliavano
ai riti della nascita e del matrimonio, anche questi atti a favorire una transizione da una condizione sociale ad un’altra.
La continuità della comunità dei vivi in quella dei defunti, che corrisponde alla credenza di una vita ultraterrena, è
caratteristica di tutte le società e di tutte le regioni.
Per quanto riguarda il secondo saggio, Hertz sostiene che l’asimmetria organica, per cui la destra è prevalente grazie al
maggiore sviluppo dell’emisfero celebrare sinistro, non può spiegare la preminenza sul piano simbolico delle
rappresentazioni collettive legate alla destra; anzi la preminenza della destra sul piano della motilità è interpretabile
come un effetto di ritorno dell’enfasi che gli uomini hanno attribuito a questa parte del nostro corpo e dello spazio, e
quindi è una vera e propria istituzione sociale.
Sacro e profano pervadono la vita spirituale di tutti i popoli, soprattutto quelli con istituzioni sociali e religiose più
semplici, e spingono gli uomini a strutturare l’intero universo secondo un principio bipolare, distribuendo le cose ed i
fenomeni naturali tra questi due opposti, destra e sinistra, che riproducono nello spazio la suddivisione più generale tra
sacro e profano. Nelle lingue indoeuropee, il termine destra deriva da una radice comune sanscrita, mentre il termine
sinistra varia da lingua a lingua, riflesso del fatto essa rappresenta l’opposto del positivo (associato con la destra) ed i
sentimenti di inquietudine che la comunità prova nei confronti dal lato sinistro.

Il pre-logismo di Levy-Bruhl
L’idea del sociale come entità provvista di una logica di funzionamento autonoma e indipendente dalla comprensione
degli individui è lo sfondo del discorso sulle rappresentazioni collettive caratteristiche della mentalità primitiva. La
tematica centrale di Levy-Bruhl è il tentativo di reperire le istanze sovraindividuali in che determinano il
comportamento dei membri di una società, a cui si affianca una problematica più strettamente filosofica che fanno di
questo autore il teorico della mentalità primitiva. Egli si chiede: esiste una morale oggettiva? Una teoria di una morale
oggettiva deve partire dall’assunto secondo cui esisterebbe una natura umana sempre e ovunque identica a se stessa, ma
ciò equivale ad un pregiudizio etnocentrico: una teoria non può fondare alcuna morale, può soltanto studiarla in contesti
sociali differenti. Levy-Bruhl guarda all’etnologia per rintracciare la prova di questa natura differenziale dell’esperienza
morale e delle forme di pensiero (le funzioni mentali), che diventeranno l’oggetto centrale della sua ricerca.
Nel 1910 entrò in polemica con la tradizione dell’evoluzionismo inglese che pretendeva di spiegare le rappresentazioni
collettive nei popoli primitivi con operazioni mentali di tipo individuale: era questo un metodo estraneo alla natura
dell’oggetto considerato. Le rappresentazioni collettive non sono sbagli di valutazione compiuti dalla mente immatura
del primitivo che tenta di spiegare le cause dei fenomeni, ma sono rappresentazioni che si impongono agli individui
attraverso la pratica sociale, modelli di atteggiamento mentale comuni nel gruppo e trasmissibili di generazione in
generazione. Levy-Bruhl non tenta di scoprire la genealogia di queste rappresentazioni: egli pensa che questi fatti
sociali siano già dati all’interno di un contesto già dato, e la loro origine si perde nella notte dei tempi; invece gli
evoluzionisti erano bloccati dalla necessità di ordinare i dati etnografici nella prospettiva del progresso culturale.
L’universo simbolico del primitivo è, per Levy-Bruhl, omogeneo all’universo sociale in cui si muove: l’emozione
dell’esperienza sociale genera le rappresentazioni collettive che costituiscono questo universo simbolico, e il gruppo
vive così un’esperienza mistica che si realizza nel culto e nell’esecuzione del rito. Una “impermeabilità all’esperienza”,
caratteristica dell’atteggiamento mentale del primitivo, spiegherebbe il fatto che i primitivi praticano la magia
indipendentemente dai risultati: la rappresentazione collettiva impedis ce loro di esaminare i dati dell’esperienza
oggettiva. Diversamente dalla nostra, la mentalità primitiva tende a stabilire relazioni fra le rappresentazioni di natura
mistica: questa tendenza è chiamata partecipazione, ed il conseguente tipo di logica viene definita come pre-logica.
Questo concetto non individua una forma di pensiero meno perfetta ma significa ascientifico, acritico, ma non
irrazionale: indica una differenza di attività mentale di tipo qualitativo e non quantitativo.
Le società primitive erano quindi caratterizzate da comportamenti mentali orientati in maniera radicalmente diversa da
quelli che Levy-Bruhl riteneva caratteristici dei popoli civilizzati: questa distinzione radicale è stata interpretata come
una sorta di imperialismo ideologico praticato da Levy-Bruhl, intellettuale positivista, che pensava che la sua razionalità
fosse quella di un qualunque occidentale con educazione borghese; tuttavia la teoria della mentalità primitiva è un
tentativo di una comprensione della differenza svincolata dagli schemi di indagine di stampo evoluzionistico, che
riconosce al primitivo un suo spazio reale di esistenza.
La dicotomia primitivi/civilizzati è frequentissima nella storia dell’antropologia: si veda Morgan con la società fondata
sul rapporto personale e quella fondata su rapporti politico-territoriali; Durkheim a proposito della differenza tra società
a solidarietà meccanica o organica; Levi-Strauss distingue tra società fredde e calde.

Il dono come fatto sociale totale: Mauss


Il decollo dell’antropologia economica e lo strutturalismo antropologico di Levi-Strauss sono stati considerati come due
dei molteplici sviluppi della ricerca teorica di Mauss: la sua vasta produzione ha toccato i punti più disparati della
riflessione etnologica e sociologica, permettendo approfondimenti in direzioni molto diverse tra loro.

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Il primo lavoro di Mauss, in collaborazione con Durkheim, si proponeva di mostrare come il concetto di classificazione
divenisse intelligibile se considerato come socialmente determinato: il sociale quindi proietta il proprio ordine sul
sistema delle rappresentazioni; questa omologia è l’effetto dell’idea di un sociale primitivo e quindi semplice. Da qui la
teoria delle trasformazioni della mentalità primitiva per spiegare l’evoluzione dell’atteggiamento mentale umano nei
confronti della realtà circostante. Ad una variazione del sociale corrisponde una variazione omologa nell’ordine della
classificazione: a società semplici e strutturate secondo un principio dicotomico, come quella degli aborigeni
australiani, corrisponde un sistema di classificazione altrettanto semplice, mentre a un sociale strutturato su modello più
complesso corrisponde un sistema di classificazione parimenti complesso; sono le modificazioni del sociale (esperienze
emotive immediate) che spingono l’individuo a modificare l’ordine concettuale delle cose. L’elemento di rilievo di
quest’opera è l’individuazione di una strutturazione omologa delle istanze del sociale e del simbolico.
Questa ipotesi dell’omologia strutturale avrebbe consentito a Mauss di ricercare quegli elementi del sociale che
coinvolgono tutti i livelli sociali, i fatti sociali totali. Nel suo “Saggio sulle variazioni stagionali delle società eschimesi”
del 1904, analizza la disposizione morfologica (spaziale) che la società di questi cacciatori assume nelle diverse
stagioni, cogliendo il significato totale dal punto di vista sociologico: la tendenza a separarsi durante l’estate e a riunirsi
durante l’inverno va considerata in relazione al variare dell’intensità della vita sociale, massima durante l’inverno ed a
zero durante l’estate, quando i vari gruppi seguono le tracce degli animali. Questa bipolarità tra collettivismo e
individualismo permea i vari livelli del sociale col suo potere di simbolizzazione: rappresentazioni di persone, di
animali o di fenomeni naturali sono associate all’una o dall’altra parte di questa scissione, e ogni cosa è definita e
situata al in base al riferimento che essa ha con uno dei due poli. Mauss vedeva nella morfologia dei gruppi sociali non
qualcosa che deve essere spiegato, ma qualcosa che permette di spiegare i diversi aspetti della vita sociale.
La teoria sociologicamente polivalente del fatto sociale totale consentiva Mauss di esplorare la natura di un fatto che
più d’ogni altro interessava tutti i livelli della vita sociale: il sistema delle prestazioni totali economiche nelle società
primitive. I lavori di Boas nel Pacifico e quelli di Malinowski in Melanesia avevano dimostrato l’esistenza, anche
presso le società primitive, di fenomeni di scambio e circolazione di beni materiali che fino a quel momento erano
sfuggiti. Del resto era abituale considerare come interessanti solo quei fenomeni sociali della vita indigena che
presentassero analogie visibili con quelli della società occidentale (etnocentrismo economico).
Nel suo lavoro più celebre, il “Saggio sul dono” del 1923, Mauss voleva rendere ragione del carattere volontario e
tuttavia obbligato e interessato di queste prestazioni. Le 3 regole che sottostanno al fenomeno sociale del dono, cioè
l’obbligo di dare, ricevere e ricambiare, strutturano il principio di reciprocità obbligatoria, una “qualità” intrinseca agli
oggetti scambiati che li assimila alla persona che li ha posseduti. E’ la credenza nell’azione esercitata da questa qualità a
mettere in moto il sistema dei doni reciproci, poiché la mancata restituzione di oggetti interromperebbe lo scambio e
sarebbe un danno per chi trasgredisce questa regola: la qualità presente nella cosa può vendicarsi sul trasgressore, è una
forza magica di colui che l’ha donata. Il principio della reciprocità vale tanto per gli individui quanto per i gruppi
coinvolti: la natura del dono come “fatto sociale totale” appare nella sua giusta luce in occasione di fenomeni come
quelli descritti da Malinowski (kula) o da Boas (potlatch), dove gli individui recitano la semplice parte di attori, mentre
le unità sociali che entrano in gioco sono gruppi più vasti come le famiglie o i clan.
I limiti di quest’opera consisterebbero, secondo Levi-Strauss, nella caduta teorica rappresentata dall’assunzione dello
spirito della cosa donata come motivo reale e non ideologico dello scambio; il limite maggiore consiste tuttavia nel non
aver tentato di definire il sistema sociale al cui interno si inscrive il potlatch, e inoltre nell’uso dello stesso linguaggio
economico che Boas aveva impiegato per descrivere queste pratiche, considerandole come caratteristiche di una
situazione di mercato che tuttavia non esisteva perché era un meccanismo di doni e contro-doni.
Mauss ha comunque portato un grande contributo alla comprensione dei sistemi sociali, che consiste nella
considerazione del dono come fatto sociale totale e nell’averne situato il senso sociologico sui differenti piani della
pratica sociale e simbolica; inoltre, contro il pregiudizio etnocentrico, ha aperto la via verso la comprensione del luogo
differenziale che l’economia occupa nella struttura globale delle società primitive. D’altra parte, il “Saggio sul dono” è
all’origine di un equivoco teorico ancora pesante: l’assunzione della reciprocità e dello scambio come principi
esplicativi - peraltro misteriosi - della logica di funzionamento delle società primitive.

Un grande “marginale”: Van Gennep


Contemporaneo di Durkheim, fu criticato da Mauss che gli rimp roverò di aver praticato un comparativismo
evoluzionista, quando invece la scuola di Durkheim preferiva scegliere dei fatti elementari per costruire una teoria
generale, e per la volontà di ritrovare ovunque dei riti che si assomigliavano. L’opera più celebre di Van Gennep fu “I
riti di passaggio” del 1909, dove aveva intuito che la vita degli individui è scandita, presso tutti i gruppi, da una serie di
riti che sanciscono pubblicamente il passaggio da una condizione sociale ad un’altra, al fine di rendere più agevoli i
cambiamenti di condizione senza traumi per la società e per gli individui interessati. Queste cerimonie, man mano che si
retrocedeva nella scala di civiltà, investivano aspetti sempre più numerosi della vita, che invece per noi civilizzati non
richiedono ritualizzazione; con Durkheim, egli riteneva che nelle società prescientifiche il mondo appariva
dicotomizzato nelle due categorie opposte di profano e sacro. All’interno del rito, Van Gennep distinse 3 fasi:
1. separazione (riti preliminari);
2. margine (riti liminari);
3. aggregazione (riti postliminari).

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L’importante fase centrale consente di ridurre l’aspetto traumatico dalla fase iniziale di distacco alla di fase di
incorporazione in un’altra categoria sociale (o acquisizione di uno nuovo status sociale). Egli accentuò l’aspetto
simbolico del rituale, precisando che le connessioni logiche fra le fasi del rito dovevano interessare gli etnologi, mentre
i contenuti potevano essere considerati dotati di senso solo contestualmente. I riti passaggio sono l’artificio sociale
attraverso cui gli uomini rendono comprensibile a sé stessi la transitabilità delle diverse condizioni del sociale.

Capitolo 6 L’antropologia britannica postvittoriana e la crisi


dell’evoluzionismo

Haddon, Rivers, Marett ed altri


Il periodo tra il 1890 e l’inizio della prima guerra mondiale era un’epoca di forte trasformazione sociale e culturale in
cui la gran Bretagna subisce un lento declino, così come l’ideologia positivista e il mito di una evoluzione e di un
progresso sociale trionfante; è un periodo di ristrutturazione delle problematiche espresse dall’antropologia vittoriana..
Fino a poco tempo fa, si descriveva la crisi dell’evoluzionismo come un evento rettilineo che porta al funzionalismo
attraverso la mediazione del diffusionismo, ma ciò non è esatto: dal 1890 al 1920 convivono nell’antropologia
britannica indirizzi eterogenei e contrastanti, mentre l’etnologia francese assume consistenza teorica e mentre si assiste
all’eclissi delle certezze eurocentriche che fino a poco tempo prima erano accettate come verità definitive.
In questo periodo si assiste anche a una ristrutturazione dello spazio accademico, che distingue nel 1906 tra i campi di
indagine dell’antropologia sociale o sociologia primitiva (studio comparato dei fenomeni sociali, dell’organizzazione
sociale, del governo e delle leggi, delle pratiche magiche e religiose) e dell’etnologia (studio comparativo e
classificazione dei popoli sulla base della cultura, del linguaggio, delle istituzioni e delle religioni).
Westerma rck va ricordato per la teoria secondo la quale la famiglia nucleare rappresenterebbe l’elemento originario e
centrale della società umana, criticando la promiscuità originaria di Morgan: la continuità del rapporto fra i partner
sessuali è funzione dell’allevamento della prole, sia tra gli animali che nell’uomo.
Rivers è l’inventore del metodo genealogico al quale il suo nome è legato: va ricordato per lo studio della parentela e
per l’elaborazione del metodo per la raccolta dei relativi dati nei popoli primitivi, che partiva da i nomi di persona, per
raccogliere poi i termini con i quali le persone si chiamavano tra di loro, ed infine i termini descrittivi.
Haddon ha contribuito attivamente allo sviluppo della ricerca sul campo, organizzando la spedizione che rappresentava
il primo tentativo di studio di una popolazione e del suo ambiente da un punto di vista multidisciplinare, la celebre
spedizione dell’università di Cambridge allo stretto di Torres, alla quale fecero parte Rivers e Seligman.
Marett mise in discussione i presupposti intellettualistici dell’antropologia evoluzionista, e precisamente l’idea di un
passaggio rettilineo dal pensiero magico a quello religioso e da quest’ultimo a quello positivo. Contro la teoria
animistica di Tylor, che ipotizzava l’estensione del concetto di anima tutti gli esseri, Marett propose di chiamare
animatismo la tendenza dell’uomo primitivo ad attribuire un’animazione a tutti i fenomeni della natura.

Tra evoluzionismo diffusionismo: Hocart


Anche la figura di Hocart rimase nell’ombra, in conseguenza della sua assenza dalla gran Bretagna e delle idee dei due
giganti di allora, Malinowski e Radcliffe -Brown, che costituirono un filtro selettivo all’interno della corrente britannica.
Hocart studio la genesi delle forme cultura li in rapporto alla funzione che esplicano in relazione alla loro evoluzione e
diffusione. Le forme culturali sono le istituzioni attraverso cui gli uomini organizzano la vita in società: assolvono
funzioni specifiche e si evolvono in relazione ai contesti culturali. Non si può parlare di funzionalismo ma neanche di
diffusionismo, che egli definiva non convincente, e si limitò alla considerazione della possibilità che tratti simili, rilevati
in contesti in cui si fossero provati contatti, potevano avere avuto la stessa origine.
In “King and Councillors” del 1936, Hocart descrive le origini rituali del potere, tentando di fornire una spiegazione
delle origini del potere governativo e una interpretazione della natura stessa del potere, conducendo un lavoro di vasta
comparazione che andava controcorrente rispetto alle tendenze dell’antropologia britannica di allora. Egli sostiene che
tutte le funzioni di governo esistono presso popoli senza governo: l’apparato di governo esiste, è pronto servire se
necessario; è un’organizzazione di tipo rituale, storicamente anteriore a tutte le forme istituzionalizzate di governo.
Questa organizzazione origina dal rituale perché è legata ad una ricerca della vita che costituisce il vero scopo
dell’esistenza sociale, e il rituale è la forma culturale in risposta a questa domanda. Il rito è una tecnica di conservazione
della vita oltre che primo atto associativo umano: egli sostiene la correttezza logica dell’operazione, consistente tanto in
atti pragmatici quanto ad operazioni mentali ad essi corrispondenti.
L’analisi del processo rituale mostra che nel rito non c’è nessuna intenzione di influire sull’ordine naturale, come invece
sosteneva Frazer, ma solo a livello simbolico, restituendo alla natura un ordine coerente ai bisogni vitali della comunità,
in altre parole la natura viene ordinata secondo un modello che gli uomini credono più adatto a produrre gli effetti
desiderati. Dunque la funzione di preservare la vita determina la forma del rituale, e su quest’ultimo si costituisce il
prototipo della forma di governo: nell’atto di conferire un ordine alla natura gli uomini ordinano i rapporti tra loro.
La richiesta di vita all’origine del rituale produce una specializzazione e una distribuzione di ruoli all’interno del
complesso rituale: una gerarchia di individui e gruppi rimpiazza l’organizzazione precedente fondata sulla parità dei

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partecipanti; quello che era il personaggio centrale del rito ora è un leader (king), attorno al quale si riuniscono i leader
subalterni (councillors), formando un gruppo che prende decisioni per la comunità.

Capitolo 7 Il funzionalismo di Malinowski

La magia delle isole: l’impresa etnografica di Malinowski


Con Malinowski ha in un certo senso inizio l’antropologia moderna. Egli è stato un grandissimo ricercatore sul campo
ma anche un mediocre teorico, responsabile di banalizzazioni teoriche che hanno alimentato la tradizione
comportamentistico-empirista dell’antropologia statunitense. Era comunque una persona in grado di raggiungere una
eccezionale identificazione con la gente da lui studiata e un etnografo rivoluzionario che attuava una ricerca intensiva..
Per molto tempo questa immagine di Malinowski ha costituito un mito per la comunità antropologica, ma ha subito un
duro colpo dopo la pubblicazione dei suoi diari 25 anni dopo la morte: egli scrisse cose rudi sui nativi e passò gran parte
del suo tempo desiderando di essere altrove. Pubblicamente, osservava scientificamente e dava interpretazioni
psicologiche sui nativi, in privato manifestava sia disgusto e intolleranza che entusiasmo.
In questo oscillare di stati d’animo Malinowski avvertiva il disagio dell’antropologia di doversi confrontare anche con
le interpretazioni dei nativi senza poterli trattare come materiali inerti: egli ha posto, indirettamente, uno dei problemi
centrali dell’antropologia odierna, cioè il valutare in quale misura le interpretazioni degli “oggetti di studio” degli
antropologi contribuiscano a determinarne le interpretazioni.

Reciprocità e natura dell’economia primitiva


Nel 1922 pubblicò “Gli argonauti del Pacifico occidentale ”, il suo lavoro più famoso, in cui partiva da un aspetto della
vita degli abitanti delle isole Trobriand - una forma di attività di scambio - per poi aprirsi sugli altri. Egli definì questa
forma di scambio kula come “un fenomeno economico di notevole importanza teorica, che occupa il posto più
importante nella vita tribale di questi indigeni”, e ne affrontò lo studio partendo dall’analisi di tutti gli elementi della
vita sociale connessi a questa pratica.
Tra le isole abitate dai gruppi partecipanti allo scambio circolavano due tipi di oggetti: collane di conchiglie rosse in
senso orario, e braccialetti di conchiglie bianche in senso antiorario; gli oggetti appartenenti a una categoria potevano
essere scambiati solo con oggetti dell’altra categoria. Gli oggetti circolavano in continuazione, restando nelle mani del
possessore per un periodo limitato di tempo, non uscivano mai dal circuito di scambio, e venivano barattati nel corso di
visite periodiche; i preparativi per la partenza, le trattative e gli scambi avvenivano secondo rituali precisi e pratiche
magiche. Durante le visite, gli scambi kula - considerati cerimoniali - erano accompagnati da un commercio profano per
scambiare oggetti con un valore d’uso.
Questo libro evidenza l’osservazione partecipante, cioè l’abilità con cui Malinowski seppe penetrare la vita degli
isolani entrando in intimità e comprensione con il loro stile di vita. Questa capacità di cogliere i gesti quotidiani degli
individui produsse un metodo consistente nel pensare la cultura e la società studiata come un complesso di fenomeni
correlati tra loro, e quindi non estraibili dal contesto da cui dipendono. Nei lavori iniziali di Malinowski, agisce
quest’idea di funzionalità dell’istituzione o pratica qualunque al mantenimento di un grado di coerenza complessiva:
ogni elemento della cultura assolve nell’ambito della totalità una funzione (questa teoria tenderà a slittare verso un
orizzonte dei fenomeni socioculturali riduttivo e di tipo biologico).
Malinowski osservò lo scambio kula arrestandosi al processo di circolazione, senza interrogarsi sulla provenienza degli
oggetti che entravano a farne parte. Egli comprese la portata sociologica di questo scambio cerimoniale, e cioè la
funzione che assolveva nel mantenere e nel rafforzare i rapporti tra gli individui e i gruppi, tuttavia gli attribuì un
significato di tipo economico, a causa del desiderio di fornire un’immagine accettabile del selvaggio e della sua
economia. In tal modo circoscrisse la sua analisi al solo processo di circolazione, tacendo sullo scambio profano che
sempre accompagnava quello cerimoniale.
Malinowski rigettava l’opinione, allora abbastanza diffusa, circa l’esistenza di un comunismo primitivo caratteristico
dei popoli selvaggi, ma si rifiutava anche di vedere nell’indigeno delle Trobriand un homo oeconomicus. Egli aveva
intuito il significato complesso di molti fenomeni sociali, ed aveva saputo ricondurre il senso del kula all’agire sociale
di quelle popolazioni: l’analisi dello scambio kula fece emergere l’esistenza di una rete di rapporti tra individui, clan e
tribù fondati su ciò che da allora in poi sarebbe stato noto come principio di reciprocità. Tutte le operazioni connesse
alle spedizioni (dalla fabbricazione delle piroghe allo scambio vero e proprio) erano regolate da una logica sociale che
promuoveva la solidarietà e l’organicità del sociale, e il kula era solo il fenomeno che più di ogni altro mostrava di
possedere queste caratteristiche. Ogni fase della vita sociale appariva contrassegnata da comportamenti di mutua
assistenza, dall’offerta di doni e di controdoni: azioni che trovavano il loro senso nello status sociale delle persone che
ne risultavano implicate.
Per Malinowski esisteva un principio d’ordine non codificato, se non nella pratica tradizionale, in grado di svolgere una
funzione strutturante dell’agire sociale, cioè un principio di reciprocità immanente alla vita sociale delle popolazioni
primitive, che costituisce la base delle relazioni sociali e del diritto di queste società.

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La polemica anti-diffusionista
Prima di aver costituito un indirizzo teorico definito, il diffusionismo ha rappresentato una modalità interpretativa di
tratti o elementi culturali simili tra loro. Il taglio diffusionista forte (quando cioè l’analisi socioculturale avviene
esclusivamente attraverso questa prospettiva) rischiava di produrre un effetto banalizzante e riduttivo, dal punto di vista
teorico: l’interpretazione coincide con la descrizione dei fenomeni culturali e con il tentativo di ricostruirne la
diffusione attraverso lo spazio e il tempo. Il diffusionismo avversato da Malinowski era di tipo diverso da quello degli
antropologi tedeschi e americani: era il cosiddetto iperdiffusionismo di Smith e Perry, che ebbero ascolto tra il pubblico
medio ma non tra i ricercatori professionali. Secondo questa corrente, la culla della cultura e della civiltà era l’Egitto, e
viaggiando gli egiziani la trasmisero a tutte le altre popolazioni che però non sono state in grado di conservarla. I tratti
culturali sarebbero andati incontro ad un processo di degenerazione, in concomitanza al loro progressivo
allontanamento dal luogo d’origine: le prove sarebbero l’esistenza nell’America precolombiana della pratica di
mummificazione, il culto del sole e i grandi monumenti in pietra, ma sono solo l’effetto di una immaginazione estrema.

Origine e funzione della famiglia


Malinowski confutò l’ipotesi della promiscuità originaria, che i lavori di Spencer e Gillen sembravano confermare con
la descrizione di cerimonie in cui erano consentiti rapporti sessuali con partners diversi e che interpretavano come una
sopravvivenza di quell’ipotetico stato originario, dimostrando invece che gli episodi di licenza sessuale invece accadono
secondo precise regole che non consentono l’accoppiamento indiscriminato. Egli sostenne l’ipotesi dell’universalità e
dell’originarietà della famiglia elementare come cellula universale ed originaria della società, ipotesi che rimase
costante in tutti i suoi lavori successivi.
Per Malinowski, la famiglia è il mezzo di trasmissione della cultura, ed il luogo della riproduzione biologica e culturale
allo stesso tempo. L’incesto è bandito in quanto distruggerebbe la famiglia e i relativi rapporti interni “che servono da
modello alle altre strutture sociali”. Il sociale è il prodotto dell’estensione dei rapporti familiari, e l’esogamia è un
mezzo, effetto della proibizione dell’incesto, che tende a risolvere favorevolmente questa proibizione.

Teoria della cultura e del cambiamento culturale


Gli scritti in cui Malinowski formulò teorie generali relative al concetto di cultura furono quasi tutti pubblicati dopo la
sua morte: in essi cercò di produrre un’immagine ordinata e scientifica sia del metodo che dell’oggetto
dell’antropologia. L’idea fondamentale era la stessa della sua opera maggiore del 1922, e cioè che le pratiche sociali
primitive, che non sono fondate su alcun tipo di norma codificata, traggono la loro efficacia dal principio di reciprocità
che regola i rapporti tra individui e gruppi. L’immagine della società e della cultura era quella di un insieme di pratiche
e di comportamenti tra loro integrati, tendenti al mantenimento dell’equilibrio interno alla società ed al suo
funzionamento: questo era il funzionalismo sociologico, prodotto teorico di una pratica di ricerca.
Tuttavia, con gli scritti pubblicati nel 1944, Malinowski spostò il significato del funzionalismo sociologico verso una
banalizzante dimensione biologica. Lo sguardo si sposta dalla società alla cultura, definita “il tutto integrale consistente
negli strumenti, nei beni, nelle regole sociali, nelle idee, nelle credenze e nei costumi”, ma anche “un vasto apparato, in
parte materiale, in parte umano e in parte spirituale, con cui l’uomo può risolvere i problemi specifici che gli stanno di
fronte”. L’analisi della cultura tende così a risolversi in una formulazione dei bisogni fondamentali in grado di
sollecitare determinate risposte culturali, che creano a loro volta altri bisogni secondari (potere politico, organizzazione
economica, eccetera) per organizzare e mantenere la coesione del sociale e della cultura, mentre una terza serie di
fenomeni culturali a livello del simbolico è definita da Malinowski “la trasformazione di un impulso fisiologico in
valore culturale : il linguaggio, la tradizione orale e scritta, alcuni concetti dogmatici dominanti”. All’interno della
cultura umana si articolano relazioni “bisogno fondamentale - risposta culturale” pensate secondo il modello stimolo-
risposta di derivazione comportamentistica.
Malinowski respinse le teorie evoluzioniste che vedevano nella magia un goffo tentativo di manipolare lo svolgersi dei
fenomeni naturali, proponendo di individuarne la natura nella risposta emotiva ad una situazione non controllabile: la
magia non è anteriore alla religione o alla scienza, ma è “un possesso primordiale che afferma il potere dell’uomo di
creare dei fini desiderati”, cioè pratiche rituali per sopperire l’incapacità dell’uomo di controllare gli elementi della
propria esperienza e per metterlo in grado di compiere con fiducia i suoi compiti e di mantenere il suo equilibrio.
L’istituzione, elemento essenziale del sociale, è definita “un sistema organizzato di attività intenzionali ”: un insieme di
pratiche, norme, strumenti tendenti alla realizzazione di un fine dichiarato.
Malgrado l’ambiguità del suo concetto di funzione, e quindi la natura del suo funzionalismo, Malinowski resta il primo
antropologo ad aver sostenuto che tutti i dati dell’esperienza etnografica coesistono ad un pari livello di significato, e
che quindi non si può attribuirgli un senso se sono considerati indipendentemente dal contesto nel quale sono inseriti.
Molti critici hanno rimproverato a Malinowski di non aver mai voluto tener conto della dimensione storica nello studio
della società: egli lo considerava superfluo per il fatto che la conoscenza dell’origine temporale di un certo tratto
culturale non ci illumina sul significato che assume nel contesto della totalità socioculturale di una società primitiva.

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Capitolo 8 Il funzionalismo strutturale di Radcliffe-Brown

Struttura, funzione e processo: la scienza naturale della società


Spetta a Radcliffe-Brown, successore di Malinowski alla cattedra di Oxford, il merito di aver delineato il quadro
concettuale entro il quale si sono mossi i maggiori esponenti dell’antropologia nel secondo dopoguerra. Contrariamente
a quanto avvenne nel caso di Malinowski, che emigrò negli Stati Uniti, nessun allievo di Radcliffe-Brown rinnegò mai
il proprio debito teorico nei confronti del maestro.
Radcliffe-Brown trasportò nell’antropologia britannica la problematica di Durkheim: “Gli isolani delle Andamane”, del
1922, oscillava tra un’impostazione tecnologica classica e un’interpretazione dei miti che risentiva dell’influsso del
sociologo francese. Accanto alla ricostruzione storica, coesisteva il tentativo di definire la funzione sociale dei
fenomeni mitico-religiosi: “fra le condizioni che devono essere soddisfatte se gli esseri umani vogliono vivere in
società, c’è la religione, la credenza di un grande Potere Invisibile”. Attraverso Durkheim, Radcliffe-Brown rilesse
Spencer liberato dalle idee evoluzioniste: l’influenza di quest’ultimo si manifestò nella definizione del concetto di
struttura sociale, che è uno dei contributi maggiori dato da Radcliffe-Brown alla disciplina, assieme allo sforzo di
definirne l’oggetto e il metodo, ed allo studio dei sistemi di parentela.
Radcliffe-Brown circoscrisse il campo dell’antropologia allo studio dei fenomeni sociali e l’oggetto nello studio della
cultura materiale; definì il metodo della ricostruzione storica, per l’identificazione dei meccanismi che operano
all’interno delle società consentendone il funzionamento, e per la loro generalizzazione in leggi; distinse inoltre tra
antropologia ed etnologia, e tra antropologia evoluzionista e moderna antropologia sociale. Egli respinse il progetto
evoluzionista di ricostruzione delle fasi di sviluppo delle forme sociali ed istituzionali, poiché considerava tale
prospettiva incompatibile con l’esistenza dell’antropologia sociale come disciplina scientifica. Per soddisfare queste
condizioni di scientificità, bisognava fondare l’antropologia sociale su un metodo di tipo induttivo (con metodi logici è
possibile scoprire leggi generali) caratteristico delle scienze naturali: essa è dunque una scienza naturale della società
che indaga fenomeni appartenenti ad uno specifico ordine di realtà, non riducibili ad altri di differente natura.
L’acquisizione del concetto di struttura sociale è stato un evento decisivo che determinò la divergente fisionomia
dell’antropologia britannica in rapporto a quella di altri paesi: di fronte alle scelte culturaliste degli americani che si
traducevano spesso in uno studio del comportamento e delle reazioni psicologiche dei membri di una società, la
direzione della ricerca di Radcliffe -Brown era orientata ad uno studio analitico e più ristretto dei rapporti sociali.
1. Struttura sociale: la trama complessiva dei rapporti esistenti tra gli individui.
2. Funzione sociale: il rapporto tra la struttura (1) e il processo vitale (3).
3. Processo sociale: la moltitudine di azioni e interazioni degli esseri umani.
Questi tre concetti costituiscono tre modalità diverse di definire la realtà della vita sociale, e ciascuno di essi è una
condizione per pensare il sociale come organizzazione. Alla base di quest’immagine del sociale come “insieme
coordinato di attività” c’è l’analogia biologica con l’organismo vivente, una metafora che gli consente di pensare il
sociale come una struttura organica che dipende dai processi vitali. La funzione sociale è anche il rapporto che una
forma d’attività sociale ha con la struttura sociale alla cui esistenza contribuisce: il concetto di funzione ha dunque un
valore epistemologico molto diverso da Malinowski, e discrimina il funzionalismo di questi autori.
Radcliffe-Brown pose il problema della conoscenza dei meccanismi che mantengono in vita una trama di rapporti
sociali, del modo in cui questi meccanismi operano e di come si conservano i sistemi strutturali: ciò era necessario per
la determinazione delle fasi di sviluppo. Lo studio delle leggi della continuità sociale rivestiva un’importanza primaria,
mentre i processi di trasformazione delle strutture ed i sistemi apparivano secondari e derivati da queste ultime. Le leggi
del cambiamento sociale erano derivate da quella della continuità sociale, mentre gli evoluzionisti pensavano di dedurre
le leggi dei processi di trasformazione dalla successione di ipotetiche fasi di sviluppo.
La continuità strutturale di un organismo è dinamica (non statica), un processo nel quale la materia di cui è formato
cambia in continuazione, mentre la forma rimane la stessa; anche la continuità strutturale delle società umane è
dinamica: gli uomini sono la materia, e la forma è il modo in cui essi sono rapporto tra loro. La dinamica del sociale è
quindi concepita in termini di semplice rimpiazzo degli elementi strutturali, una concezione che divenne tipica della
tradizione antropologica britannica.

Lo studio dei sistemi di parentela


La competenza di Radcliffe -Brown in questo campo si fondava sulla sua esperienza di lavoro tra gli aborigeni
australiani, con diverse ricerche compiute a partire dal 1910 e pubblicate nel 1930 in un articolo in cui si spinse a
predire l’esistenza di un particolare sistema (kariera) in una determinata regione dell’Australia: questo lavoro fu
definito da Levi-Strauss un “memorabile successo deduttivo”.
Radcliffe-Brown espose in maniera sistematica le sue teorie sulla parentela in un saggio del 1941: tornava sul problema
posto dal rapporto tra terminologie di parentela e comportamento sociale, proponendo una lettura che ne facesse
emergere il significato semantico. Coerentemente alla sua idea dei rapporti sociali, egli tentò di definire il significato
delle terminologie di parentela a livello della struttura sociale: i principi strutturali erano modalità di strutturazione dei
sistemi di parentela che davano una funzionalità sociologica (che Kroeber negava) alle terminologie classificatorie, le
quali perdevano le caratteristiche di sopravvivenze attribuite dagli evoluzionisti.

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Il primo di questi principi strutturali è quello della solidarietà del gruppo dei fratelli (sibling group): costituito dai figli
maschi e femmine di una coppia; questo gruppo forma una unità solidale nei confronti di una persona estranea al gruppo
ma legata da un particolare rapporto con uno dei suoi membri. Questa unità può costituire la ragione fondamentale
dell’esistenza delle terminologie classificatorie che non distinguono tra consanguinei lineari e collaterali: un individuo
che non appartiene al gruppo può mantenerne gli stessi appellativi. Radcliffe -Brown mise in rapporto diretto la
terminologia di parentela e il comportamento sociale, affermandone l’unità funzionale, reperendo nel comportamento
sociale il senso del sistema terminologico.
Un altro principio strutturale è quello dell’unità di lignaggio, in grado anch’esso di spiegare certe caratteristiche dei
sistemi classificatori, per esempio il fatto che un individuo possa chiamare tutti gli appartenenti alla linea di
discendenza di un genitore con lo stesso nome (nella tribù Omaha si chiamano “madre” tutte le ascendenti).
Per Malinowski il fatto che altri individui, oltre a quelli della famiglia nucleare, fossero designati con stesso termine era
conseguenza del fatto che gli esseri umani tendono ad estendere al di fuori della famiglia i sentimenti elaborati
all’interno di essa. Opposta è la spiegazione di Radcliffe-Brown: le istituzioni della famiglia e del matrimonio, le
terminologie e la parentela erano solo parti di una struttura globale; non vi era posto per considerazioni di natura
psicologica, che per lui non spiegavano la funzione che le istituzioni di parentela svolgevano nell’assicurare la
continuità della struttura sociale. Da questa differenza nello studio della parentela emerge la diversa natura dei
funzionalismi di Malinowski e di Radcliffe-Brown: per il primo, il termine funzione indica il loro ruolo svolto da una
istituzione del soddisfacimento di un bisogno primario o secondario; per il secondo, è invece il ruolo che una istituzione
svolge nel processo di coesione della società.

La teoria del totemismo


Radcliffe-Brown mise in discussione le conclusioni di Durkheim relative alle ragioni dell’utilizzazione dei simboli
animali e vegetali nella caratterizzazione del totem: per il sociologo francese, la solidarietà tra i membri del clan poteva
essere ottenuta mediante l’identificazione con un segno o con un simbolo; l’adozione di piante o animali come simboli
sarebbe avvenuta in un secondo tempo, e sarebbe stata secondaria rispetto al fatto totemico in sé.
Radcliffe-Brown accettava l’interpretazione funzionale del totemismo, cioè l’effetto integrativo prodotto dal simbolo,
ma respingeva l’ipotesi dell’adozione del simbolismo animale e vegetale. L’atteggiamento rituale nei confronti di un
totem, che per Durkheim era l’effetto della natura sacra del totem in quanto simbolo della società, era invece
considerato come un caso particolare di una generale attitudine rituale dell’uomo nei confronti delle specie animali e
vegetali, precedente all’utilizzazione di questa simbologia poiché esisteva anche là dove il totemismo non era presente.
Questo comportamento rituale era connesso all’importanza che determinate specie avevano nella vita economica dei
gruppi: dove si ha una segmentazione sociale accompagnata da riti che affermino l’unità dei gruppi, il totemismo trova i
propri simboli tra le specie essenziali e vitali.
Nel 1952, Radcliffe -Brown abbandonò la spiegazione economico-sociologica del totemismo, concentrandosi sul
problema del perché certe specie e non altre vengano scelte come simboli, e del perché si ritrovino spesso abbinate delle
specie che sono pensate dagli uomini come opposte. Egli concluse che il mondo animale era rappresentato in termini di
relazioni sociali simili a quelle della società umana, e che le coppie d’opposizione erano l’applicazione di un
determinato principio strutturale, consistente nell’unione di termini opposti, che esprimeva attraverso il totemismo una
serie di rapporti opposti o correlati.

Capitolo 9 Demologia ed etnologia


La tradizione italiana emerge in relazione a studi folcloristici da un lato, e storico-giuridici relativi all’età classica
dall’altro: la demologia - lo studio delle tradizioni popolari - ha avuto il sopravvento sulla seconda.

Demologia
I motivi che hanno portato la tradizione demologica a sopravanzare quella etnologica sono vari e complessi: per De
Martino è la breve durata della dominazione coloniale italiana. Nei primi anni del Novecento la cultura antropologica
italiana mostra già un ritardo rispetto a quella degli altri paesi europei (effetto di un altro ritardo, quello dell’unità
politica del nostro paese): il soffermarsi su canti, leggende, costumi delle comunità italiane era parallelo alla riscoperta
delle origini del popolo italiano per l’esigenza di fondare un’idea di nazione. A differenza di altri paesi come la
Germania, dove l’idea di patria era inscindibile da quella di territorio e di unico popolo originato da un’unica stirpe, in
Italia la coscienza della sua eterogeneità fu sempre presente negli studiosi delle tradizioni popolari.
Nigra era il rappresentante di un indirizzo che mirava alla ricostruzione storica di diffusione e distribuzione delle forme
liriche. Egli divise l’Italia in due aree dal punto di vista della produzione lirica popolare: una superiore con elementi
narrativi storico-romanzeschi, di cui facevano parte le regioni a nord dell’Appennino tosco-emiliano, ed una inferiore
con elementi lirico-amorosi, di cui facevano parte le altre.
L’iniziatore degli studi demologici in Italia fu Pitrè, che raccolse in 25 volumi proverbi, favole, credenze, pratiche
magico-religiose e divertimenti popolari siciliani. Continuatore delle ricerche demologiche di Pitrè fu Cocchiara, allievo
di Marett a Oxford e di Malinowski a Londra. L’evoluzionismo di Marett venne recepito da Cocchiara nello spirito
critico nei confronti delle teorie evoluzioniste ortodosse relative al significato delle sopravvivenze: Marett negava che

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esse sarebbero state fossili sociali inerti e proponeva di attribuire loro un carattere significativo sul piano simbolico,
elementi attivi all’interno di un pensiero che li accoglie. Il lavoro di Cocchiara si concentrò su questioni di folklore.

Etnologia
La tradizione etnologica italiana non nacque sul campo, ma come filiazione della tradizione storico-giuridica dello
studio del mondo classico e romano-latino. La figura più rilevante del secolo scorso fu Loria che fondò nel 1910 la
Società di Etnografia Italiana; il suo slancio si esaurì con sua scomparsa, con il primo conflitto mondiale ma anche, e
soprattutto, con il trionfo dello storicismo idealistico sul naturalismo positivistico. Sul piano teorico, l’etnologia italiana
vide comunque l’affermarsi della prospettiva diffusionista della scuola austro-tedesca degli anni Venti.
Non vi è dubbio che uno degli elementi frenanti lo sviluppo di un’etnologia italiana sullo stile di quella britannica e
francese fu il regime fascista, il quale produceva un asservimento dell’etnologia alle proprie tesi di superiorità della
civiltà romano-latina. Contrariamente al colonialismo britannico e francese, che mirava a risultati concreti senza badare
al contorno ideologico, quello italiano fascista ebbe il bisogno di darsi un tono tramite l’ideologia della romanità, fino a
scimmiottare i teorici tedeschi della superiorità della razza ariana. L’etnologia italiana registrò così una totale
decadenza, e quindi la parte non compromessa dell’antropologia italiana, che faceva capo alla tradizione demologica, si
trovò assegnato il compito di rilanciare questo campo di studi nel dopoguerra.

Capitolo 10 Dallo storicismo all’etnocentrismo critico: De Martino


Egli rappresenta a tutt’oggi la figura più rilevante della tradizione italiana: la sua opera si inscrive nel clima intellettuale
contrassegnato dall’egemonia dello storicismo filosofico di derivazione crociana, una matrice filosofica che fa di De
Martino un caso anomalo nel panorama degli studi demo -etnologici italiani della prima metà del secolo.

La matrice filosofica: Croce


L’esordio di De Martino etnologo avvenne nel 1941 con il libro “Naturalismo e storicismo nell’etnologia”, un’opera che
si proponeva di riformare il sapere etnologico alla luce della filosofia crociana. Egli operava, da posizione crociana, una
forte critica di ciò che chiamava “naturalismo” (l’atteggiamento teorico della scuola francese durkheimiana e di quella
britannica identificabile con i due funzionalismi): rimproverava l’atteggiamento di riduzione dei fenomeni culturali
tipici dei popoli primitivi a oggetti, indagati con metodi incapaci di restituirci la dimensione storica ed il senso di quelle
esperienze. Come Croce, De Martino pensa che non sia possibile ridurre l’esperienza umana ad un’indagine di tipo
scientifico, in quanto le scienze sono pseudo-conoscenze per semplici applicazioni pratiche ed utilitaristiche, mentre la
vera conoscenza è solo ed esclusivamente storica (dove per storia si intende storia dello spirito, conquista di livelli di
autoconsapevolezza sempre maggiori). Lo storicismo crociano produceva un doppio effetto sulle scienze dell’uomo:
negava loro qualunque pretesa di scientificità, e negava ai primitivi e alla plebe qualunque ruolo attivo nella storia
(dello spirito). È opportuno sottolineare che lo storicismo crociano ha poco a che vedere con quello di tradizione
tedesca, che aveva costituito la premessa dell’antropologia boasiana la quale poi costituì la base della prospettiva
ermeneutico-interpretativa moderna: queste traggono ispirazione dallo storicismo di Dilthey, per il quale le scienze della
natura e le scienze dello spirito hanno eguale statuto conoscitivo, e la conoscenza storiografica è conoscenza di
un’epoca storica e degli uomini che ad essa appartengono, mentre per Croce è conoscenza della progressione dello
spirito verso livelli teoretici, etici ed estetici superiori.

Storicismo e filosofia della cultura: De Martino e Cantoni


Nello stesso anno usciva “Il pensiero dei primitivi” di Cantoni: anche quest’opera non era il prodotto di alcuna scuola
etnologica italiana, e si poneva in linea con le teorie di Levy-Bruhl che De Martino definiva inadeguate alla
comprensione storica del mondo primitivo.

Il problema del magismo ed il concetto di presenza


Nel 1948 De Martino pubblicò “Il mondo magico”, secondo alcuni l’opera più importante dello studioso napoletano, in
cui si impegnava in una ricostruzione della struttura del mondo magico per recuperarlo alla storia. La comprensione di
un’era magica era per l’autore una condizione di comprensibilità dell’era presente, soprattutto di quella appena
terminata nel segno distruttivo dei miti irrazionali dal sangue, della razza e della guerra.
Recuperare alla storia il mondo magico significava ribaltare la prospettiva crociana. Nella filosofia di Croce le categorie
dello spirito sono quattro: estetica, concettuale, economica ed etica; in questi ambiti si risolve l’attività dello spirito. La
religione non trova spazio all’interno di queste quattro categorie, essendo concepita dal filosofo idealista come una
semplice aggregazione di istanze appartenenti al dominio della speculazione, della morale dell’arte. Quindi De Martino
si sforzava di togliere lo studio del mondo magico alla filosofia di Croce, al cui interno non potevano trovare spazio
atteggiamenti mentali come appunto il magis mo.
Una realtà storica come quella del mondo magico non poteva essere compresa dall’esterno, dall’alto di una visione delle
categorie dello Spirito: andava invece rivisitata dall’interno e, al fine di comprendere l’universo magico, era necessaria
l’analisi della costruzione della realtà magica che ruota attorno al processo di costituzione della presenza. Questa è uno

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stato etico che l’uomo si sforza di costituire per sfuggire all’idea, insopportabile, di non-esserci: è un moto naturale
dell’uomo, che quando compie lo sforzo di essere nel mondo fonda la cultura, un moto sofferto ma vitale a cui non ci si
può sottrarre se non si vuole essere annientati. In un’ampia casistica etnografica, De Martino descrive l’emergenza
progressiva del magismo come primo tentativo coerente dell’uomo di affermare la sua presenza nel mondo: lo stregone
è la figura centrale di questo dramma storico, in cui si afferma l’universo magico nel quale l’uomo realizza la propria
“volontà di esserci di fronte al rischio di non esserci”.
A differenza degli evoluzionisti, De Martino non pensa alla magia come ad una forma imperfetta di razionalità; al
contrario di Malinowski, la magia non è una risposta allo stress emotivo procurato da situazioni dall’esito incerto, ma
invece una lotta ingaggiata dagli esseri umani per poter esistere. Come per Hocart il rito è una richiesta di vita da cui
scaturisce sia il benessere della comunità sia suo ordinamento politico, così l’atto magico dello stregone è per De
Martino affermazione della presenza e fondazione della cultura.
La presenza non è comunque un’acquisizione definitiva, anzi è qualcosa che può essere sempre rimessa in discussione
dalla crisi individuale o comunitaria: da qui il concetto di perdita della presenza. De Martino analizza il lamento
funebre nel mondo antico e nella Basilicata contemporanea: una forma culturale il cui scopo è far fronte alla crisi della
presenza, che minaccia la comunità e i soggetti che sono parte.

Destorificazione, marxismo, etnocentrismo critico


Nel 1949 si avvicinava alle tesi del marxismo di Gramsci: il marxismo demartiniano fu etico e con una forte
propensione per l’aspetto umanistico dell’opera di Marx ed Hegel, funzionale all’apertura alle problematiche
meridionalistiche, e produsse il tema dell’“irruzione delle masse nella storia”.
Il concetto di destorificazione indica la tesi per cui “il riscatto magico-religioso è un’alienazione da un sé angosciante e
un processo che consente di stare nella storia come se non ci si stesse”. De Martino inaugura un’antropologia del
negativo, l’antropologia delle masse che non fanno storia (in senso crociano) ma che ora (nel dopoguerra) irrompono
nella storia. Il marxismo demartiniano, etico e umanistico, ed il tema della presenza si fondono per dar vita alla
antropologia meridionalistica.
Il suo avvicinamento allo studio dei fenomeni magico-religiosi del Mezzogiorno, e la sua esperienza di ricerca in loco,
aprirono una riflessione sui rapporti tra soggetto conoscente - l’etnologo - e l’oggetto della conoscenza - le comunità -,
il cui punto di partenza è ciò che egli definisce come “umanesimo etnografico”: la via più difficile dell’umanesimo
moderno, che si incontra nel terreno con l’umanità vivente. De Martino è consapevole che il rapporto tra soggetto
conoscente e oggetto di conoscenza non è neutro, e che l’etnologo interroga la cultura aliena attraverso una griglia
interpretativa costituita dai propri parametri e pregiudizi culturali. Il rischio è di presentare in maniera dogmatica e
acritica l’esperienza culturale aliena: “o l’etnografo prescinde totalmente dalla propria storia culturale ma diventa cieco
e muto di fronte ai fenomeni culturali da osservare e perde la propria vocazione specialistica, oppure si affida ad alcune
ovvie categorie antropologiche, come natura e cultura, normale e anormale, conscio e inconscio, eccetera, esponendosi
al rischio di valutazioni etnocentriche”. La soluzione è nel continuo confronto tra la storia, di cui questi comportamenti
sono un documento, e la storia culturale occidentale sedimentata nell’etnografo; bisogna ritrovare quel punto di
comunione tra noi e gli altri a partire dal quale le due rispettive storia si sono separate.
De Martino non ha dubbi sulla superiorità della cultura occidentale, l’unica che si sia posta in maniera scientifica la
comprensione dell’altro. Il lavoro critico dell’antropologia consiste nell’analizzare le proprie categorie interpretative
cercando di far affiorare la storia di queste, che sono il prodotto della cultura occidentale: quindi l’etnocentrismo critico
è una continua ridiscussione delle proprie categorie analitiche, che deve produrre nell’etnologo la consapevolezza di
stare osservando una cultura aliena attraverso delle categorie storicamente determinate di cui egli non può fare a meno.
Per De Martino insomma l’incontro etnografico deve suscitare una doverosa autocritica concettuale nel segno di un
umanesimo etnografico.

Capitolo 11 L’antropologia e la ricerca sul campo

La fase aurorale
Il lavoro etnografico
Attraverso il lavoro sul terreno, l’antropologia si arricchisce di sempre nuove informazioni e stimoli per la riflessione
teorica: è vero che Mauss non condusse mai ricerche sul campo, ma incitò sempre suoi allievi a dedicarsi a questa
attività, e del resto non avrebbe mai potuto scrivere i suoi celebri saggi senza il lavoro etnografico di un Malinowski o
Spencer o Gillen. Le ricerche sul campo costituivano il punto di partenza per rimettere in discussione le teorie, per
ribaltare la prospettiva e per dimostrare ipotesi precedentemente considerate insostenibili.
Alcuni pensano che il lavoro etnografico debba consistere nella raccolta dei dati da un punto di vista distaccato, altri che
l’antropologo debba farsi il più possibile indigeno, altri ancora vedono nell’antropologia una missione per la
conservazione della memoria culturale umana. Il lavoro sul campo è un po’di tutte queste cose, e rappresenta un vero e
proprio rito di passaggio per chi da cultore vuole diventare antropologo.
In passato, i dati utilizzati dagli antropologi erano forniti per lo più da viaggiatori, missionari, e soldati; il progressivo
sviluppo dell’etnografia professionale è dipeso dall’esigenza di verificare personalmente la riflessione teorica,

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dall’emergere di un’antropologia accademica, e naturalmente dalla possibilità di accedere in maniera più rapida alle
regioni sulle quali paesi coloniali imposero il loro dominio; quindi le tradizioni britannica, francese e statunitense
costituiscono le tre grandi tradizioni etnografiche che prenderemo in considerazione.
Il periodo iniziale: etnografi sul campo e teorici in madrepatria
Sull’onda delle conoscenze scaturite dall’incontro con i popoli dell’Impero, nel 1843 venne fondata a Londra la Società
Etnologica, per promuovere lo studio dei costumi dei popoli extraeuropei, ma soprattutto per raccogliere dati per
costruire “sequenze di sviluppo”, in accordo col paradigma allora dominante. Già allora si pensava che molte culture
fossero, in conseguenza dell’incontro devastante con gli europei, in via di rapida estinzione, e con urgenza si raccolsero
dati grazie alla compilazione di questionari inviati a coloro che vivevano a contatto con gli indigeni. È facile
immaginare quali fossero i limiti di tali questionari, ma vi furono eccezioni notevoli e alcune persone divennero delle
vere e proprie autorità etnografiche, come ad esempio Howitt e Fison in Australia: essi pervennero ad una conoscenza
approfondita (riportando a Morgan, Tylor e Frazer) di alcuni gruppi aborigeni e della loro vita rituale, inducendoli a
celebrare cerimonie abbandonate dopo l’arrivo dei colonizzatori.
Anche Spencer e Gillen scrissero opere di capitale importanza, sulle quali studiosi come Durkheim, Mauss e Frazer
fondarono le proprie idee sul totemismo, le classificazioni e la religione primitiva; altri, come Malinowski e Radcliffe -
Brown, le loro teorie sull’origine delle funzioni della famiglia e della parentela. Oggi rimangono testimonianze di
inestimabile valore su un mondo definitivamente svanito.

La tradizione britannica
Dalla “survey” alla monografia etnografica
Alla fine del XIX secolo, in Gran Bretagna furono attivati molti programmi di studio sia su base regionale nelle isole
britanniche, che nel resto dell’impero, come la costa del Pacifico canadese o l’India (nella quale venne raccolta
un’impressionante mole di dati). Queste grandi survey (ricognizioni) etnografiche rientravano in un piano di
collaborazione tra la giovane disciplina antropologica e l’amministrazione coloniale e portarono sicuramente allo
sviluppo sul piano accademico. Le università divennero quindi i principali motori della ricerca, sia teorica che sul
campo, con il conseguente declino delle istituzioni che si avvalevano della raccolta dei dati a distanza.
Haddon, Rivers e Seligman erano ricercatori con una formazione scientifica, e furono i partecipanti alla fa mosa
spedizione nello stretto di Torres (che portò al riconoscimento definitivo dell’antropologia sul piano accademico e una
larga udienza presso i non specialisti) nella quale furono elaborati precisi metodi di raccolta dei dati relativi alle
genealogie e furono raccolti preziosi reperti, conservati del museo etnografico di Cambridge. Quel che più conta fu la
prosecuzione delle ricerche sul campo da parte di Rivers sui Toda dell’India orientale, e di Seligman tra i Vedda
anch’essi indiani e tra i popoli nilotici del Sudan, che segnano il definitivo abbandono del metodo comparativo di
ispirazione evoluzionista e il passaggio a ricerche concentrate su una singola popolazione. Nasceva così, al posto della
ricognizione, un nuovo genere di scrittura etnografica, la monografia, dedicata ai molteplici aspetti della vita sociale e
culturale del gruppo studiato, che produceva conoscenze più approfondite della raccolta di dati per convalidare o
costruire ipotesi di sequenze evolutive. Si può riconoscere l’emergenza del paradigma funzionalista, rispondente al
problema di conoscere le interrelazioni dei fenomeni dello stesso ambito socioculturale.
Il genere monografico produsse un’immagine delle popolazioni studiate come di gruppi dotati di una propria cultura
distinta da quella degli altri: la monografia di Rivers sui Toda fu scritta come se questi fossero una tribù distinta con una
storia distinta da quella della società circostante.
La lezione di Malinowski
Egli ebbe un impatto assai grande sulle generazioni successive, e ciò che più influenzò i suoi scolari fu il suo stile di
fare etnografia: probabilmente il suo fascino consiste nel senso di incompiutezza e del tempo stesso di plausibilità dei
suoi libri. L’approccio etnografico di Malinowski, venato dal sospetto che le sue interpretazioni fossero influenzate da
quelle degli informatori, era consono alla sua teoria della società come complesso di parti interagenti.
Gli antropologi della generazione successiva si mossero tuttavia sulle orme dell’antropologia sociale di Radcliffe -
Brown, che si era fortemente battuto per una delimitazione del campo e del metodo dell’antropologia, ma l’ideale
etnografico prevalente resterà quello dell’autore degli Argonauti.
Dall’Oceania all’Africa
Dopo un esordio oceanista, l’etnografia professionale britannica si volge all’Africa subsahariana a causa del crescente
interesse alla tematica del cambiamento culturale, generato dall’impatto tra le diverse società africane ed europee; i
maggiori esponenti erano allievi di Malinowski e svilupparono una tradizione locale dedita agli studi africanistici.
Tra gli africanisti troviamo Fortes, che pubblicò due grandi monografie sui Tallensi del Ghana, ed Evans-Pritchard che
lavorò tra il Congo e il Sudan, producendo una serie di studi considerati pietre miliari della storia della ricerca sul
campo e della teoria antropologica.
Nei lavori dei ricercatori della generazione successiva a quella di Malinowski e Radcliffe-Brown, sebbene influenzati
dai maestri, si assiste a un importante cambiamento di prospettiva in relazione al maggior peso della dimensione storica;
anche nella monografia non si cercò più di presentare la molteplicità degli aspetti di una popolazione, ma di elaborare
una visione unitaria della società e della cultura a partire da un nucleo tematico centrale: parentela, organizzazione
politica, economia, religione, eccetera.

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L’indirizzo americano
Da Schoolcraft a Boas
La divisione del lavoro etnografico, che aveva caratterizzato gli inizi della tradizione britannica, non costituì mai un
elemento tipico dell’antropologia statunitense, e l’uso del questionario rimase un fenomeno assai limitato:
l’antropologia americana nacque a partire dal lavoro degli etnografi sulle culture locali.
Morgan diede lo slancio teorico alla tradizione antropologica del suo paese, ma non fu il primo etnografo professionale
degli Stati Uniti: Schoolcraft si dedicò dal 1840 alla raccolta di materiale coadiuvato da informatori locali, con
particolare riguardo all’aspetto linguistico: termini indigeni, testi mitici e poetici. Lo studio della cultura indiana venne
favorito dalla creazione di istituzioni preposte alla documentazione della vita delle popolazioni aborigene, come la
Smithsonian Institution fondata nel 1846 che varò un grande programma etnografico.
Lo stile etnografico di Boas ebbe una straordinaria influenza sull’antropologia americana: egli aveva già compiuto
survey tra gli eschimesi e nella costa canadese del Pacifico, ma concepì il lavoro sul campo come lo studio di singole
culture, il che costituiva il prologo di quel particolarismo che nelle intenzioni di Boas era condizione preliminare di
ogni progetto comparativo. La sua propensione per lo studio di culture singole non si tradusse in qualcosa di simile alle
monografie britanniche: egli non si preoccupò mai di integrare i dati raccolti in una prospettiva di tipo unitario.
Margaret Mead e oltre
Negli Stati Uniti, l’antropologia era intesa come una scienza, mentre in Gran Bretagna era considerata come una
disciplina umanistico-letteraria, e in conseguenza di ciò si svilupparono diversamente: in America la pratica etnografica
restò confinata alla raccolta di dati per ottenere il numero maggiore di informazioni sui gruppi indiani; gli antropologi
britannici intraprendevano lunghi soggiorni sul campo, al contrario di quelli americani che erano favoriti dal diverso
stato delle comunicazioni e dalla disponibilità di informatori bilingui. La mancanza di una prospettiva unitaria, presente
invece nella tradizione britannica come riflesso delle idee di Durkheim, produsse una visione della cultura come somma
di tratti indipendenti e rispondente allo stile della ricerca empirica.
Nel corso degli anni Venti si ebbero i primi dissensi nei confronti dalla prospettiva etnografica dominante propugnata
da Boas, anzi la Mead operò una vera e propria rottura con lo stile dal maestro. Ella fu la prima degli studenti di Boas a
compiere ricerche al di fuori del nord America (nelle isole Samoa), ed affrontò una situazione etnografica molto diversa
da quella dei suoi colleghi: l’uso di informatori bilingui era impossibile, così come l’utilizzazione di indigeni addestrati
alla raccolta di informazioni che Boas usava diffusamente; quindi ella usò uno stile più malinowskiano.
Con il suo stile etnografico più britannico che americano, la Mead portava all’attenzione della comunità scientifica un
problema attualmente assai dibattuto, quello relativo al tipo di conoscenza linguistica che un antropologo deve
possedere per condurre ricerche cui sul campo: il loro ruolo decisivo era svolto non una conoscenza perfetta della lingua
- cosa impossibile -, ma dall’osservazione e dalla partecipazione alla vita delle comunità studiate.
Il contrasto tra la Mead e i suoi critici rifletteva due modi diversi di concepire il lavoro etnografico e gli scopi stessi
dell’antropologia: per la prima si trattava di cogliere la vita delle popolazioni studiate, per i secondi di collezionare dati
etnografici ai fini della ricostruzione delle aree linguistiche e della diffusione dei tratti culturali; le posizioni della Mead
riflettevano una progressiva separazione degli studi etnologici da quelli linguistici, e del resto l’antropologia linguistica
nasceva in questo periodo.

L’etnografia francese
Gli inizi
Negli anni compresi tra il 1890 ed il 1920, l’etnologia francese si caratterizzò per una dimensione intellettualistica e
speculativa, a causa della derivazione degli studi etnologici da quelli filosofici e da uno scarso sviluppo di una attività
etnografica sistematica; le fonti utilizzate da autori come Durkheim, Levy-Bruhl, Mauss sono rare o assenti in lingua
francese, e frequenti in lingua inglese e tedesca. Alla fine degli anni Venti si ebbe una forte ripresa degli studi
etnografici, grazie agli allievi degli autori appena citati, ma anche a funzionari dell’amministrazione coloniale operanti
nell’Africa occidentale subsahariana.
L’africanistica e Griaule
Allievo di Mauss, fu uno degli studiosi professionali che contribuì in maniera decisiva allo sviluppo dell’etnologia
francese come una disciplina fondata sulla ricerca sul campo e fece molte ricerche nel nord Africa; in parziale contrasto
con la prospettiva durkheimiana, rivendicò la priorità degli studi monografici su quelli comparativi. La sua concezione
dell’antropologia era lo studio il più esaustivo possibile delle forme culturali, perché la conoscenza di ogni società
poteva contribuire alla costruzione di un sapere etnologico completo del repertorio culturale umano; tale concezione
dipendeva dalla visione dell’umanità costituita da popolazioni distinte, ognuna con una cultura diversa e impermeabile a
quella degli altri (un’idea implicita nella teoria e nella pratica etnografica britannica).
L’idea dell’etnologia fondata sullo studio in profondità delle singole culture rappresentò, per i francesi, qualcosa che
potrebbe essere paragonato al particolarismo storico di Boas; inoltre lo studio delle “altre” culture deve mirare a
raccogliere i loro sistemi così come sono concepiti dai nativi, con una lettura basata sul sistema di coerenza interna che
tali sistemi possiedono.

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Altre etnografie
Non bisogna dimenticare il lavoro etnografico svolto da Van Gennep in Francia: raccolse materiale folkloristico e
tradizioni orali e scritte che portarono a grandi opere sul folclore regionale.
De Montagne iniziò il la propria carriera nell’a mministrazione coloniale in Marocco, ma divenne uno dei maggiori
etnografi del Maghreb e fu autore di una delle più grandi monografie del secolo: uno studio sull’organizzazione politica
delle tribù berbere dell’Atlante marocchino e dei loro rapporti col governo centrale.
L’etnografia nelle società complesse
Appare chiaro come le tre grandi tradizioni etnografiche - britannica, francese e statunitense - nascano e si sviluppino in
relazione allo studio di società definite selvagge, primitive o semplici, ritenute meno strutturate di quella occidentale,
mentre le società “complesse” sono rimaste a lungo al di fuori degli interessi antropologici. Naturalmente non vi è
nessuna ragione oggettiva per questo fatto, come non vi è alcun motivo di considerare come veramente semplici quelle
società. Tuttavia vi sono ragioni storiche per cui l’antropologia, da un certo momento, si è dedicata allo studio delle
società complesse: la sempre maggiore influenza della cultura occidentale subita dalle società semplici, che hanno
inficiato l’immagine di queste ultime come entità distinte separate le une dalle altre, e l’insorgere di nuove domande su
realtà sociali che si prestavano ad essere analizzate attraverso gli strumenti dell’antropologia delle società semplici.
E’ solo a partire dalla metà di questo secolo che l’interesse per le società complesse ha acquistato una parte di primo
piano nell’attività di ricerca, con gli studi di Robertson Smith e di Evans-Pritchard sugli arabi del deserto, e di Granet
sui cinesi; altri lavori hanno riguardato l’analisi del sistema castale indiano, un tema che non ha mai cessato di attirare
l’attenzione degli studiosi. L’etnografia delle società mediorientali si orientò verso lo studio dei sistemi segmentari, e di
società prive di strutture politiche centralizzate come i gruppi nomadi. Nel dopoguerra, anche gli americani hanno
sviluppato un’attività di ricerca sulle società contadine della Mesoamerica e dell’area andina: i lavori di Lewis hanno
dato vita a un settore di ricerca che ha per oggetto l’emarginazione nata dai processi di rapida urbanizzazione del mondo
contadino tradizionale, definita la “cultura della povertà”.

Capitolo 12 L’antropologia psicoanalitica


Con questa espressione si indicano i tentativi di applicazione della teoria psicoanalitica ai fenomeni riguardanti la sfera
della cultura e del comportamento sociale anche a contesti non occidentali.

Totem e tabù: Freud


Nel corso dei suoi soggiorni romani, e sull’onda di una suggestione letteraria che ricevette da un libro di Frazer, Freud
concepì l’idea di questo libro, considerato il testo fondante dell’antropologia psicoanalitica.
L’origine del totemismo e dell’esogamia
Gli evoluzionisti avevano già considerato la dimensione psicologica nel discorso antropologico: Levy-Bruhl aveva
sviluppato una teoria della mentalità primitiva che si riferiva a una dimensione psicologica radicalmente diversa da
quella del civilizzato; Rivers aveva studiato i processi della percezione tra i primitivi. Nessuna di queste esperienze era
però approdata a una teoria in grado di spiegare coerentemente su basi psicologiche l’origine e lo sviluppo della cultura,
che venne invece proposta da Freud nel libro del 1913 e dalle opere seguenti.
Freud si avvicinò al mondo primitivo attraverso la prospettiva della antropologia e della biologia evoluzioniste: egli
considerava i primitivi come discendenti degli uomini che ci hanno preceduti, e la storia biologica dell’individuo come
una ripetizione di quella della specie. Questi due elementi spinsero Freud ad un’indebita proiezione di un elemento
teorico prodotto in sede di analisi clinica, il complesso di Edipo.
La tesi di Freud sull’origine del totemismo e dell’esogamia è la seguente: nell’orda primitiva, il padre detiene il
controllo assoluto delle femmine; si ha una famiglia poliginica al cui interno si sviluppa il conflitto tra il padre e i figli
che lo uccidono e lo divorano (una situazione di promiscuità originaria poco suscettibile di produrre il conflitto edipico
che Freud pone alla base della teoria). Dopo questo atto di cannibalismo, i figli, colpiti da rimorso, avrebbero
idealizzato la figura del padre, e per punirsi si sarebbero vietate le madri e le donne del gruppo dando così origine, in un
sol colpo, alle istituzioni del totemismo e dell’esogamia. L’interdizione nei confronti delle donne del gruppo
(esogamia), e la proibizione di uccidere e di cibarsi del totem (figura traslata del padre), affondavano quindi le proprie
radici nel sentimento di colpa dei figli e nella constatazione dell’inutilità dell’atto commesso.
Questo libro (il cui sottotitolo è “concordanza nella vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici”) ci appare
irrimediabilmente invecchiato, ma un cambiamento di prospettiva della lettura da un punto di vista più epistemologico
può renderlo ancora interessante; ciò implica che, al contrario di quanto si è fatto di solito, si presti più attenzione al
tabù e meno al totem.
Il concetto di ambivalenza emotiva
Nella letteratura antropologica, tabù designa ogni genere di proibizione che deriva dalla natura “s peciale” di qualcosa o
qualcuno, o dal fatto che qualcosa o qualcuno sia entrato in contatto con qualcosa di contaminante.
Freud affronta il tema dell’ambivalenza emotiva collegata al tabù, osservando che esistono persone che si sono create
individualmente divieti ai quali si adeguano con lo stesso rigore con cui i selvaggi rispettano i tabù della loro tribù.
Questo rigore è il prodotto di una ambivalenza: nella nevrosi ossessiva il tabù nasce come una proibizione imposta
nell’infanzia che però rimuove, non elimina la pulsione. Quest’ultima, relegata nell’inconscio, è attiva ma contrastata

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dalla proibizione, introiettata culturalmente: si crea quindi una fissazione psichica da cui può derivare un
comportamento nevrotico, l’individuo vuole sempre eseguire questa azione proibita ma al tempo stesso ne ha orrore.
Analogamente al nevrotico, i selvaggi osservano i tabù che essi in realtà desidererebbero compiere o possedere: la forza
magica attribuita al tabù è riconducibile alla capacità di indurre gli uomini in tentazione.
Per sostenere questa ipotesi, Freud attinse dalla letteratura etnografica, in particolare da Frazer, esempi relativi a tre tabù
riguardanti il trattamento dei nemici, dei sovrani e dei morti. Per il trattamento dei nemici uccisi, Freud rileva che,
mentre l’uccisore è considerato tabù dai membri della sua comunità fino a quando viene sottoposto a cerimonie
purificatrici che lo reintegrano in essa, il morto viene placato con doni e preghiere: un atteggiamento di ambivalenza nei
confronti del defunto, oggetto di ostilità ma inconsciamente di ammirazione e di rimorso, che rende ragione del
tentativo di pacificare il suo spirito e dell’imposizione del tabù all’assassino.
Per quanto riguarda i sovrani, Freud ipotizzò che essi siano oggetti di grande venerazione e di tabù proprio perché
investiti da una ostilità inconscia che si scatena quando il corso degli eventi non è favorevole alla comunità: un parallelo
con il delirio di persecuzione, in cui l’importanza di una persona viene straordinariamente accresciuta per addossarle più
agevolmente la responsabilità di tutto ciò che contraria il malato.
Infine, Freud non accettò la spiegazione secondo cui le proibizioni che colpiscono chi è stato in contatto con il defunto
siano dovute alla “paura del morto”: il tabù del morti è il prodotto del contrasto tra la pena cosciente e la soddisfazione
inconscia per la morte avvenuta; i superstiti inconsciamente negano di aver nutrito sentimenti ostili nei confronti del
defunto, sentimenti che quindi vengono attribuiti proprio al morto; questo è infatti trattato come nemico o demone.
Il disagio della cultura
Il tentativo di dimostrare che l’origine del tabù risiede in un atteggiamento emotivo ambivalente era parallelo
all’individuare la fonte delle nevrosi nel conflitto tra impulsi erotici e ostilità verso un’altra persona. Freud non confuse
mai il nevrotico con il selvaggio, e non identificò mai nevrosi e cultura, ma collegò sempre il sorgere e lo sviluppo della
cultura al complesso di colpa originario elaborato dai figli per aver ucciso il padre padrone nell’orda. Questa relazione è
il tema centrale de “Il disagio della civiltà” del 1929, in cui partiva dall’idea che il senso di colpa era il frutto del
conflitto ambivalente della lotta tra Eros e pulsione distruttiva o Thanatos; tale conflitto è inestricabilmente legato a
qualunque forma di vita sociale e umana, e quindi si riaffaccia ad ogni momento. Finché gli uomini vivono in piccoli
gruppi, il conflitto si esprime nel complesso di Edipo, crea la coscienza e il senso di colpa originario; man mano che la
comunità si allarga il conflitto si rafforza e provoca un ulteriore aumento del senso di colpa, grazie alla spinta erotica
proveniente dalla società stessa. Questa spinta erotica ordina agli uomini di unirsi in una massa collegata intimamente,
una meta che si può raggiungere soltanto attraverso un sempre crescente senso di colpa.

Complesso avuncolare o complesso edipico: Malinowski contro Freud e Jones


Poiché proiettava la relazione conflittuale edipica in un passato remoto e nel contesto di una situazione originaria,
“Totem e tabù” sortiva l’effetto di universalizzare una configurazione psichica teorica, sviluppata a partire da una
situazione conflittuale particolare della triade madre -bambino-padre tipica della famiglia monogamica patriarcale.
Malinowski tentò di verificare il complesso di Edipo presso i trobriandesi che avevano anch’essi una famiglia di tipo
monogamico, ma con una diversa modalità di strutturazione interna dei rapporti affettivi: la società era basata sulla
discendenza matrilineare, e l’autorità sulla prole veniva esercitata dal fratello della madre, cioè lo zio materno, così
l’asse figlio-padre era configurato come un tipo di relazione improntato confidenza e aperta affettuosità. Inoltre,
Malinowski rilevò che il distacco del bambino dalla madre avveniva in tempi più lunghi e con tinte meno traumatiche
che in occidente, e che il desiderio di compiere l’atto incestuoso rivestiva più la figura della sorella che non quella della
madre. Egli ipotizzò quindi un “complesso matrilineare”, una specie di versione spostata del complesso di Edipo
caratterizzata dal desiderio di unirsi alla sorella e di uccidere lo zio materno; Malinowski comunque intendeva mettere
in discussione la generalizzazione della configurazione edipica in tutte le società umane.
Il fondamento edipico del complesso avuncolare: Jones
In un suo libro, Jones aveva sostenuto che l’ignoranza dei selvaggi circa la procreazione paterna era un dato di fatto:
esiste il più stretto parallelismo tra questa ignoranza e l’istituzione del diritto materno, e il complesso avuncolare di
Malinowski era una variante dell’ignoranza originaria della paternità. Per fronteggiare gli effetti disgreganti del
complesso di Edipo, alcune società avrebbero elaborato un sistema di discendenza matrilineare - o diritto materno - a
cui si accompagnava il complesso avuncolare evidenziato dal Malinowski, che doveva essere ricondotto a quello di
Edipo come elaborazione spostata di esso (meccanismo di difesa): la sorella, amata inconsciamente, era un sostituto
della madre, e lo zio materno del padre. Per Malinowski il complesso di Edipo non sarebbe altro che un prodotto
successivo a quello avuncolare; per la psicoanalisi invece è fons et origo.
Malinowski riconosceva la validità delle teorie freudiane, ma rifiutava di farne un principio esplicativo universale; con
Freud, ammetteva l’esistenza di una tendenza generale all’incesto, ma lo considerava un fatto di cultura da interpretarsi
contestualmente; la proibizione all’incesto era spiegata in relazione al ruolo che la famiglia nucleare svolge in quanto
fondamento della società.

Uno junghiano marginale: Layard


Il distacco di Jung dall’ortodossia freudiana può essere ricondotto ai seguenti punti:

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1. la critica nei confronti dell’interpretazione sessuale di tutti i simboli;


2. la concezione della libido come espressione a livello psichico dell’energia vitale (e non solo sessuale);
3. l’idea che le nevrosi non sono solo frutto di turbe psichiche infantili ma anche, e soprattutto, il risultato di una
dialettica attuale tra individuo e mondo;
4. l’utilizzazione di concetti estranei all’apparato teorico freudiano, come inconscio collettivo e archetipo.
Questi due concetti sono intimamente correlati in quanto l’archetipo, o immagine primordiale, è una specie di
precipitato storico della memoria collettiva, di cui abbiamo traccia nei miti comuni a tutte le razze ed in tutte le epoche.
Layard analizzò il rituale maki per mezzo del quale, sacrificando maiali maschi, il propiziatore si appropriava
dell’anima della vittima e si metteva al riparo dalla distruzione ad opera dello Spirito Guardiano; i sacrifici erano
ripetuti parecchie volte nel corso della vita di un individuo, fino a quando l’interessato riusciva conquistarsi la
benevolenza degli antenati. Ogni sacrificio era seguito da un periodo di isolamento che comportava una specie di
rinascita sociale da parte dell’interessato, che assumeva un nuovo nome. Secondo Layard, questo rito non era altro che
una forma particolare del lungo processo di individuazione grazie al quale l’individuo mira al raggiungimento della
completezza; esso era concepito dagli stessi abitanti come una continua rinascita. Il raggiungimento della completezza
era accentrato sul simbolismo del vulcano: gli esseri umani, una volta defunti e purché ritualmente pronti,
raggiungevano un vulcano, simbolo della relazione madre-bambino, della sessualità maschile e di quella femminile. Nel
vulcano, simbolo della totalità, tornava la persona ricomposta dopo la scissione grazie alla ripetizione dei riti maki.
Il clima intellettuale in cui cadeva il lavoro di Layard non era dei più propizi: l’opera del suo maestro Rivers cadde
infatti nell’ostracismo (ad eccezione dei suoi lavori sulla parentela), e la tradizione durkheimiana, ripresa da Radcliffe -
Brown, con il suo rigore ed obbiettività contrastava con le ipotesi congetturali del diffusionismo e della psicologia
dinamica, sia freudiana che junghiana.

Ritorno a Freud: Roheim


Egli cercò di interpretare la cultura come “nevrosi collettiva”: partendo dall’ipotesi che le culture primitive potevano
essere considerate elaborazioni di risposta ai pericoli generati da conflitti psichici non i risolti, tipici dell’età infantile,
sviluppò l’idea che la cultura sia un edificio costruito allo scopo di realizzare, in forma traslata, le fantasie della nostra
infanzia. Centrale è il concetto di sublimazione - che per Freud era la produzione di oggetti culturali “superiori”
(scienza, arte, poesia eccetera) effetto di uno spostamento di energie istintuali - che consente l’edificazione della
cultura. Roheim cercò di dimostrare che le attività produttive possono essere ricondotte a motivazioni radicate
nell’inconscio: “qualunque professione scegliamo, troviamo come elemento latente della scelta la situazione infantile”,
ad esempio il soldato riproduce il suo complesso di Edipo o un avvocato fa una professione della sua lotta endopsichica.
La sublimazione, che quindi coincide con la cultura, è dunque un meccanismo elaborato allo scopo di realizzare i sogni
infantili ma, al tempo stesso, non direttamente, pena la solitudine dell’individuo.

Il momento neofreudiano: gli studi di cultura e personalità di Kardiner, Linton e Du Bois


Formatosi alla scuola di Boas, Kardiner divenne successivamente psicoanalista freudiano (non ortodosso come Jones o
Roheim) e con Linton, successore di Boas alla Columbia University, si interessò al processo di formazione della
personalità individuale all’interno dei sistemi culturali e al ruolo sostenuto dall’individuo nel processo di cambiamento;
questa prospettiva, tipicamente statunitense, è definita come indirizzo di “cultura e personalità” che ha tra i suoi
maggiori esponenti la Benedict e la Mead.
Per Kardiner, la personalità di base costituisce una risultante psicologica media all’interno di una determinata cultura: è
una struttura (cioè un complesso di tratti tra loro correlati) formata dalla azione esercitata dalle istituzioni primarie e
dalle istituzioni secondarie. Le prime sono ciò che contribuisce a plasmare la personalità nella fase infantile
dell’esistenza, come la punizione o la soddisfazione; le seconde sono gli elementi culturali che una società elabora allo
scopo di attenuare o spostare le tensioni derivanti dall’azione delle istituzioni primarie sulla psiche individuale, come la
religione, i riti, le leggende, i tabù. Kardiner propose una lettura della religione e del mito in accordo con le teorie
freudiane: centrale è il concetto di proiezione, per cui l’individuo elaborerebbe dell’infanzia una particolare immagine
delle figure parentali oggetto della sua effettività, e le proietterebbe successivamente, nel quadro delle istituzioni
secondarie, nella sfera mitico-religiosa.
Kardiner e Linton distinguevano le proprie posizioni sia da quelle dei funzionalisti che da quella della Benedict, e
nell’elaborazione del concetto di personalità di base si distaccavano anche da Freud, per il quale i fattori culturali
rivestivano un’importanza secondaria ed erano anzi il prodotto di pulsioni inconsce; tuttavia queste ipotesi avevano
carattere di costrutto ipotetico, cioè non erano costruiti a partire da casi osservati direttamente.
L’esigenza di verificare in maniera empirica queste tesi spinsero una sua collaboratrice, Du Bois, ad intraprendere
ricerche sul campo sui processi costitutivi della personalità di base. Ella lavorò molto sui bambini e sul rapporto di
questi con le loro madri, e concluse che la società studiata (nell’isola di Alor) produceva una struttura della personalità
individuale mancante di un forte SuperIo, sospettosa ed instabile, da mettere in relazione con un rapporto madre-
bambino caratterizzato da frequenti distacchi a causa del ruolo delle donne nella produzione agricola. Il senso di
abbandono e di frustrazione - perdita dell’oggetto - avrebbe generato una personalità difficile, e questa difficoltà di
porsi in relazione con gli altri avrebbe sviluppato istituzioni secondarie come la mitologia, la guerra, la competizione
per la ricchezza. La Du Bois propose la nuova definizione di personalità modale, per indicare la struttura indicata da

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Kardiner, volendo sottolineare la sua portata più descrittiva che teorica e il suo carattere di “maggiore frequenza” invece
che di “media”; questa definizione era in contrasto con l’idea della Benedict di modello (tutti i membri di una società
condividerebbero lo stesso tipo di personalità).

Capitolo 13 L’antropologia economica

Economia politica e comportamentismo: la prospettiva formalista


La nascita di un’antropologia economica, intesa come teorie riferite ai sistemi economici primitivi, risale all’inizio degli
anni Trenta: Malinowski e Mauss avevano aperto questo campo di riflessione, ma gli aspetti più interessanti del loro
lavoro vennero trascurati da chi voleva dare all’antropologia economica uno spazio autonomo, svincolato dagli altri
aspetti della vita sociale primitiva. Il modello teorico formalista e marginalista nell’ambito degli studi di teoria
economica era allora predominante, così come il comportamentismo: la massimizzazione dell’utile era il principio
basilare e la costante universale di ogni comportamento umano, e finiva per diventare il modello esplicativo di ogni
attività umana, il tentativo di ridurre la vita sociale ad un complesso di atteggiamenti imprenditoriali.
Gli antropologi economici hanno concentrato la propria attenzione sul tema della decisione e della scelta economica,
esaminando i sistemi economici per mezzo degli stessi concetti impiegati nel contesto di un’economia concorrenziale di
mercato, anche laddove questo non esiste: nozioni di investimento, interesse, risparmio, capitale, eccetera, non sono
assolutamente in grado di designare processi costitutivi di rapporti sociali a livello strutturale, mentre nel contesto di
un’economia di mercato consentono la descrizione delle scelte prese dall’imprenditore.
Il formalismo riproduce così il personaggio fittizio dell’homo oeconomicus, specie di pura intenzionalità economica il
cui obiettivo è solo l’adeguare i mezzi scarsi ai fini desiderati, finendo per riprodurre il pregiudizio ideologico di una
natura umana sempre identica a se stessa. Tuttavia, analisi tendenti a mettere in luce forme di calcolo economico, come
i processi di scambio nelle società primitive o il ruolo della moneta primitiva, hanno prodotto la constatazione che il
livello economico ottimale non è indipendente da variabili di carattere sociale.

La scuola sostanzialista: Polanyi e l’economico imbrigliato nel sociale


Lo studio dei fenomeni economici, subordinato a quello delle forme di organizzazione sociale, era invece l’obiettivo di
Polanyi e della sua scuola: nel 1957 pubblicò “Traffici e mercati negli antichi imperi”, dove criticava l’ipotesi centrale
del discorso formalista, e indicava l’oggetto dell’antropologia economica nello studio delle istituzioni e dei processi
organizzativi della produzione, distribuzione e scambio, cioè lo studio del modo in cui i processi economici si articolano
all’interno di contesti sociali funzionanti in base a logiche differenziali. L’economico non era più identificato come una
modalità invariante di comportamento, ma come un processo e un rapporto concreto tra uomo e l’ambiente esterno.
Polanyi opera una distinzione concettuale tra i due significati che il termine economico riveste della nostra società: per i
sostanzialisti indica il rapporto che l’uomo intrattiene con la natura e con i propri simili per sopravvivere, mentre per i
formalisti non è che un insieme di assunti logici fondati su un’idea astratta di massimizzazione dell’utile; oppone
dunque alla definizione “vuota” dei formalisti una definizione “sostanziale”. Egli ha concepito l’economico come un
processo istituzionalizzato, dipendente cioè dalla variabilità delle strutture sociali nelle quali esso si trova imbrigliato;
questo significava spostare lo sguardo verso le istituzioni entro cui si compiono le operazioni di produzione,
distribuzione e scambio (cioè quelle appartenenti alla sfera dell’economico).
Polanyi elabora una tipologia descrittiva dei sistemi economici in base alla quale è possibile raggruppare tutte le forme
di circolazione in tre categorie:
1. reciprocità, fondata sul rapporto istituzionale della simmetria, ad esempio società organizzate in gruppi simmetrici
di parentela;
2. ridistribuzione, fondata sul rapporto della centralità, con un’autorità in grado di concentrare su di sé i beni prodotti
e poi di ridistribuirli secondo criteri di volta in volta differenti;
3. scambio, dove domina l’istituzione del mercato e dove le merci circolano liberamente.
Questa tipologia distingue nettamente tra sistemi ove prevale l’economia di mercato e quelli dove il principio del libero
scambio è assente, in cui la circolazione dipende dallo statuto sociale delle parti in causa.
I suoi studi sulle economie antiche, unitamente ai lavori di Malinowski e di Mauss, consentirono di mostrare come i
processi economici potessero dipendere anche da logiche differenti da quelle del mercato e della concorrenza.
Contraddicendo l’ideologia dell’economia politica classica e marginalista, Polanyi dimostrava che l’economico non era
autonomo dal sociale, ma al contrario subordinato alle regole costitutive di quest’ultimo: la circolazione dei beni deve
avvenire secondo regole che non alterino la struttura dei rapporti sociali esistenti. Diverso invece è il caso
dell’economia di mercato: nel sistema capitalista, l’economico sembra ritagliarsi uno spazio, separato dal sociale e
ordinato secondo regole proprie.
Il suo lavoro ha il merito di aver mostrato gli aspetti etnocentrici dei formalisti, ma ha sofferto di alcune incongruenze
teoriche a causa della scelta della circolazione come oggetto di analisi, escludendo i processi produttivi.

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Capitolo14 L’antropologia marxista


Prodotto di una serie di eventi che si iscrivono nella storia politica e culturale del secondo dopoguerra, l’antropologia
marxista si presenta come fenomeno intellettuale prevalentemente francese.

Engels e Morgan
L’istituzione della proprietà, al pari di tutte le altre istituzioni politiche e sociali, rappresentava per Morgan uno
sviluppo progressivo di un “germe primario di pensiero”: il regime di proprietà privata della società borghese dell’800
era il risultato di un lento processo di sviluppo storico aumentato eccezionalmente con l’avvento della civiltà; egli
ipotizzava un esito catastrofico allo sviluppo indiscriminato di questo processo, che avrebbe portato alla dissoluzione
della società se l’intelligenza umana avrebbe riacquistato il dominio sulla ricchezza ridefinendo i rapporti tra stato e
proprietà.
L’idea di un sistema sociale minacciato dallo sviluppo incontrollato di uno dei suoi cardini essenziali (la proprietà
privata), l’idea di una priorità dell’interesse collettivo su quello individuale, e l’annuncio di un’epoca in cui si sarebbe
assistito alla rinascita dei principi egualitari delle società gentilizie indussero Engels a sostenere che queste idee di
Morgan erano assolutamente comuniste (tuttavia Morgan si preoccupava del cattivo uso del diritto di proprietà).
L’opera “Origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato” pubblicata da Engels nel 1884 era un tentativo di
riscrittura in termini marxisti dei punti fondamentali dell’opera di Morgan: Marx ed Engels avevano elaborato una
concezione materialistica della storia, un modello dello sviluppo storico fondato sul rapporto di causalità lineare tra
incremento di forze produttive ed emergenza di forme istituzionali in una certa epoca storica, e per Morgan “le grandi
epoche del progresso umano coincidevano con l’ampliamento e l’accrescimento delle fonti di sussistenza che si sono
succedute nel corso della storia”.

Il marxismo e l’antropologia: dall’esclusione all’incontro


La prolungata lontananza di antropologia e marxismo fu dovuta all’accettazione, via Engels, delle teorie di Morgan da
parte dell’Accademia delle Scienze dell’U.R.S.S. La rivalutazione di Morgan in America è un fatto del secondo
dopoguerra e la si deve all’opera di White che, per questo fatto, subì l’ostracismo dei suoi colleghi abituati a identificare
Morgan con la cultura sovietica, la cui dottrina ufficiale si è sempre alimentata da un’idea della storia come successione
di fasi, conducenti ineluttabilmente al socialismo in cui l’U.R.S.S. fungeva da paese-guida.
Anche in Francia l’interesse degli antropologi per le teorie marxiste fu ostacolato da motivi di varia natura, come la
diffidenza verso lo sviluppo storico unilineare, e l’ombra deterministica gettata dal marxismo ufficiale sulle culture
studiate dagli etnologi, ai quali la dottrina ufficiale appariva una chiave interpretativa della storia universale.
L’emergenza di un interesse per le teorie marxiste da parte degli antropologi, soprattutto francesi, è dovuta al processo
di destalinizzazione che permetteva la possibilità di critica delle posizioni ortodosse, e soprattutto alla situazione
coloniale, cioè il rapporto di inclusione e sottomissione della periferia, rappresentata dalle società tradizionali, nei
confronti del centro industriale e capitalistico. Questo concetto, elaborato da Balandier, evidenziava come la situazione
coloniale avesse generato un processo di destrutturazione delle comunità tradizionali, che vivevano un continuo
processo di trasformazione interna dovuto dalla sottomissione nei confronti della società colonizzatrice, processo che
seguiva regole prodotte dalla combinazione dell’azione sociale dominante con la logica di funzionamento delle società
tradizionali. Gli antropologi ma rxisti trovarono quindi nell’africanistica un terreno fertile per le loro analisi, anche
perché la realtà socioculturale di questo continente possedeva uno spessore storico adatto a loro.

Un innesto filosofico
Althusser operò una rilettura del “Capitale” di Marx, sostenendo che inaugurava un nuovo tipo di conoscenza della
realtà sociale fondato sull’analisi del processo produttivo e che ricostruiva, da un punto di vista teorico, la logica di
funzionamento del modo di produzione capitalistico; tale ricostruzione si fondava su un’idea di causalità strutturale che
lega tutti gli elementi del sistema. Sosteneva inoltre che un modo di produzione è non solo la risultante della relazione
strutturale tra gli elementi che lo compongono, ma addirittura come un insieme di strutture interrelate: forze produttive,
religione, politica, tecnologia eccetera.
Ripresa in ambito antropologico, l’interpretazione di Marx data da Althusser implicava che le società prese in
considerazione dagli antropologi potevano essere riconsiderate alla luce di una nuova teoria dei metodi di produzione, e
diventava possibile sbarazzarsi della gabbia evoluzionista imposta dall’ortodossia sovietica. La situazione coloniale
poteva essere ora ridefinita, in termini marxisti, come effetto dell’articolazione di modi precapitalistici di produzione,
tipici delle società tradizionali, con il modo di produzione capitalistico dominante.

La “costruzione” dei modi di produzione


L’emergenza di un’antropologia marxista fu prodotto di una congiuntura politico-culturale e filosofica, che trovò un
fertile terreno di sviluppo nel declino del paradigma funzionalista che coincise con il tramonto dell’idea, che risaliva a
Radcliffe-Brown, secondo cui la struttura sociale costituirebbe un tutto integrato. Mentre l’antropologia anglosassone
svilupperà la critica del funzionalismo secondo una propria linea, l’antropologia francese mostrerà due tendenze critiche

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distinte: la prima è quella di Levi-Strauss che opterà per una riformulazione globale del termine struttura, la seconda è
quella espressa dall’antropologia marxista, intenzionata a studiare i sistemi sociali che mutano per le contraddizioni
strutturali e per la dominazione causati dalla situazione coloniale.
La prima opera di sintesi teorica dell’antropologia marxista è di Terray, che critica il modo di produzione, definito da
Meillassoux lignatico, di una popolazione della Costa d’Avorio, caratterizzato da una dipendenza dei giovani dagli
anziani, gestori delle risorse e degli scambi matrimoniali e quindi della riproduzione della comunità. Terray, influenzato
dalla rilettura del “Capitale” di Althusser, considerava la formazione sociale come risultante di due modi di produzione
combinati tra loro: uno di villaggio, fondato sulla cooperazione paritaria, e un altro di lignaggio fondato sulla
distribuzione delle risorse alimentari e riproduttive in base all’anzianità.
Rey criticò questa articolazione dei modi di produzione sostenendo che era troppo poco dinamica per poter spiegare le
trasformazioni della struttura fondamentale dell’organizzazione sociale, e oppose la compresenza di più modi di
produzione e lo scontro di interessi tra gruppi sociali diversi che chiamò classi. Egli non analizza società primitive ma
realtà sociali trasformate dall’impatto dell’economia occidentale, in cui categorie come quella dei giovani, che prima
non costituivano oggetto sfruttamento, sono svantaggiate dal posto che occupano all’interno della struttura trasformata.

Dalla produzione alla riproduzione: la teoria del modo di produzione domestico


Meillassoux ha tentato di ricostruire teoricamente il modo di produzione domestico. La comunità domestica è il luogo
della struttura sociale in cui avviene la riproduzione della manodopera che, con l’affermarsi del modo di produzione
capitalistico, diverrà forza lavoro. Dove il controllo del processo di riproduzione sociale non può avvenire mediante il
controllo dei mezzi di produzione, come nel caso delle comunità agricole africane in cui questi sono accessibili a tutti, il
controllo si fonda su quelli che sono i mezzi di riproduzione fisica: le donne, produttrici di produttori. I giovani, una
volta prestato il loro lavoro al servizio degli anziani, riceveranno una moglie che li metterà in grado di avere una prole,
del cui lavoro potranno beneficiare a loro volta. Ciclo produttivo e ciclo riproduttivo vengono così ad essere
strettamente connessi, dato che non è possibile per un individuo troppo giovane acquisire i mezzi della propria
riproduzione sociale (una donna).
I rapporti di parentela sembrano essere dunque il dato primario dell’esistenza delle società fondate sul modo di
produzione domestico, un dato che funge poi da modello per la creazione della parentela sociale che classifica gli
individui in determinate categorie, non più necessariamente formate da parenti in senso biologico.

La parentela: struttura o sovrastruttura


Il dominio esercitato dalla parentela, nelle società studiate dagli antropologi, poneva ai marxisti il problema di come
conciliare tale dominio con l’idea di Marx di una storia determinata dalle condizioni materiali di esistenza. Godelier,
allievo di Levi-Strauss, si pose il problema di conciliare l’economia (dal punto di vista marxista) con la parentela (dal
punto di vista strutturalista), ma anche di porre in altri termini il rapporto infrastruttura-sovrastruttura, cioè il piano
dell’esistenza materiale e quello dell’ideologia, che per i marxisti era un rapporto diretto della prima sulla seconda.
Nelle società primitive, è impossibile isolare i rapporti produzione autonomi se non nel funzionamento stesso del
rapporto di parentela, che è al tempo stesso infrastruttura e sovrastruttura. L’antropologia ha dimostrato da tempo che le
istituzioni hanno spesso un carattere polivalente, ed è proprio in ragione del fatto che funzionano come rapporti di
produzione che le relazioni di parentela sono regolatrici dei rapporti politici e religiosi. In questo modo è salva l’ipotesi
marxista che individua nell’infrastruttura (i rapporti di produzione) la determinante dell’organizzazione sociale, ma
resta aperto il problema di sapere perché i rapporti di parentela dovrebbero funzionare come rapporti di produzione: per
Godelier non c’è molto da spiegare, la parentele semplicemente funziona anche come sistema di rapporti di produzione.
Secondo Godelier, la religione è una sovrastruttura, ma sarebbe errato credere che le sue rappresentazioni non abbiano
alcun ruolo nella costituzione del rapporto di produzione: nell’economia Inca, gran parte della produzione agricola ed
artigianale veniva incamerata dallo stato nei templi, sotto forma di tributi dovuti alla divinità, quindi la religione
costituiva la principale struttura dei rapporti di produzione che legavano le comunità contadine con lo stato e con la
classe dominante.

L’eredità dell’antropologia marxista


Ponendo al centro della propria analisi l’articolazione dei modi di produzione nel contesto della situazione coloniale e
postcoloniale, l’antropologia marxista ha contribuito allo studio delle comunità attratte nell’orbita del sistema mondiale
delle merci, adottando una prospettiva teorica che ha consentito di colmare il vuoto tra centro e periferia, tra società
statuali e tribali. È innegabile che nel corso degli anni Ottanta essa abbia conosciuto un forte declino, a causa di quello
più generale del marxis mo come ideologia e dei sistemi politici ad essa correlati.
I fondatori del marxismo avevano concentrato la loro attenzione sull’occidente e sulla sua storia, mentre l’antropologia
marxista ha guardato fuori dall’occidente, ed ha rifiutato un’applicazione dogmatica delle interpretazioni precostituite,
creando oggetti propri di riflessione trovati “sul campo”. Se la società sembra rimuovere, in senso psicoanalitico, Marx
dai propri riferimenti culturali, bisogna ricordarsi che nei paesi dove più gli antropologi hanno lavorato permangono
delle realtà sociali influenzate dal sistema mondiale delle merci e dello scambio ineguale.

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Capitolo 15 Lo strutturalismo antropologico di Levi-Strauss


Con Levi-Strauss l’etnologia francese classica giunge al punto della sua massima espressione. Nella sua opera
confluiscono temi in larga misura estranei alla tradizione antropologica europea, ad esempio lo strutturalismo
linguistico costituisce un elemento indispensabile per la comprensione di gran parte del suo lavoro. Accanto a una
produzione teorica in senso stretto, affianca temi affettivo-esistenziali che si mescolano alla prima, per attenuarla in
quegli aspetti che risentono in modo eccessivo dell’ispirazione positivista.

Reciprocità e scambio: le strutture elementari della parentela


Levi-Strauss analizza e scarta, come teoricamente inadeguati, quattro tipi di spiegazione della proibizione dell’incesto:
1. di carattere eugenetico-sociologico, sostenuto da Morgan, vede in questa proibizione il mezzo per prevenire i
possibili esiti dannosi dell’unione fra consanguinei; per Levi-Strauss questa spiegazione attribuisce alle società
primitive una eccessiva ed improbabile chiaroveggenza genetica, che contrasta con i dati della genetica moderna la
quale vede nell’esogamia la causa e non l’effetto degli esiti nefasti dell’unione tra consanguinei;
2. sostenuto da Westermark, è di tipo psicologico e considera questa proibizione come il risultato della caduta del
desiderio sessuale nei confronti di individui coi quali esiste una forte familia rità; per Levi-Strauss è inaccettabile
perché è in contraddizione con le scoperte della psicoanalisi, la quale mostra che la ricerca delle relazioni
incestuose è universale;
3. proposto dai vittoriani e da Spencer, privilegia l’aspetto sociologico del problema: la proibizione avrebbe origine
nella pratica del matrimonio per cattura tipico delle popolazioni guerriere antiche; per Levi-Strauss è una
generalizzazione arbitraria;
4. per Durkheim, la proibizione dell’incesto è un effetto delle regole dell’esogamia, la quale sarebbe una conseguenza
dell’identificazione del clan con il totem e dell’assimilazione del sangue clanico al sangue mestruale: la proibizione
confronti delle donne del gruppo, che si esprime nell’esogamia, appare dunque come effetto lontano di una
credenza religiosa; per Levi-Strauss questa interpretazione pretende di stabilire tra fenomeni eterogenei un rapporto
di causalità che non ha necessità logica.
Nel 1949 Levi-Strauss pubblica “Le strutture elementari della parentela”, in cui presenta una teoria generale della
proibizione dell’incesto, dei sistemi di parentela e dello scambio matrimoniale. Da Morgan in poi i sistemi di parentela,
data la loro funzione di “armatura sociologica” delle società primitive, si erano imposti come oggetto privilegiato della
teoria. Malgrado la caratteristica di questi sistemi fosse stata individuata nella natura coerente delle relazioni tra gruppi
di termini (tramite cui venivano designati i parenti, le regole di discendenza, e gli atteggiamenti degli individui), non era
stato possibile però spiegare scientificamente il passaggio dall’uno all’altro di questi tre livelli (linguistico, sociologico
e comportamentale). Per questo motivo è preferibile, per Levi-Strauss, considerare l’unico elemento che possiede le
caratteristiche dell’universalità nella sfera della parentela, cioè la proibizione dell’incesto: appartenente alla cultura in
quanto regola, ma radicata nella natura in quanto fenomeno universale, questa proibizione è il passaggio da un ordine
all’altro , dalla natura alla cultura.
Il significato reale della proibizione è nell’aspetto positivo e prescrittivo della regola: precludersi l’accesso alle donne
del proprio gruppo significa renderle disponibili per i membri di un altro, i quali a loro volta si impongono la stessa
proibizione; quindi l’esogamia è una espressione allargata della proibizione dell’incesto, il principio che consente ai
gruppi umani di stabilire un rapporto di comunicazione fondato sulla reciprocità; i sistemi di parentela sono pertanto
sistemi di comunicazione e di scambio tra i gruppi. Questa è la teoria strutturalista generale della parentela, alla quale
si affianca una teoria ristretta o dell’alleanza matrimoniale che analizza le “strutture elementari”, cioè quei sistemi che
prescrivono il matrimonio tra certe categorie di parenti, distinguendo esplicitamente tra individui proibiti e coniugi
possibili, sistemi che sono caratteristici delle società che formulano regole positive per la scelta del congiunto. Ad essi
si oppongono le “strutture complesse”, ossia sistemi di parentela, come per esempio il nostro, che si limitano a proibire
determinati individui. Secondo Levi-Strauss, all’interno dei sistemi elementari la scelta del coniuge è determinata sulla
base del criterio della parentela, mentre nei sistemi complessi sarebbe ispirata da motivi politici, economici, eccetera.
La struttura più elementare di alleanza matrimoniale è l’unione tra cugini incrociati (figli di fratelli di sesso opposto),
che bene esprime il principio di reciprocità; la distinzione tra cugini incrociati e paralleli (figli di fratelli dello stesso
sesso) limita drasticamente gli individui accessibili da quelli proibiti all’interno di una ristretta cerchia di persone. Levi-
Strauss ritiene indispensabile trattare il matrimonio di cugini incrociati, le regole dell’esogamia e l’organizzazione
dualista come esempi della ricorrenza di una struttura fondamentale, basata sul principio di reciprocità, che costituisce
l’elemento costante dei fenomeni di parentela. La reciprocità costituisce la struttura mentale soggiacente a tutte le
relazioni di scambio, e il matrimonio tra cugini incrociati e l’organizzazione dualista ne rappresentano la codificazione
più semplice. Il principio di reciprocità si presenta come un elemento di provenienza inconscia, già dato nel passaggio
dalla natura alla cultura, e dato con la proibizione dell’incesto. La varietà dei sistemi matrimoniali viene così ridotta
all’espressione di pochi principi strutturali di base, sui quali domina quello della reciprocità.
Levi-Strauss riduce quindi problema di conoscere il funzionamento dei modelli matrimoniali al solo cogliere i principi
universali sottostanti alle regole che li strutturano: il porre la reciprocità a fondamento di tutte le relazioni tra i gruppi
umani impoverisce fortemente lo studio dei sistemi di parentela. Egli scarta l’aspetto più interessante dello studio dei
meccanismi della discendenza: la destinazione della progenitura, che è ben lontana dal riproporsi presso tutte le società.

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Inconscio strutturale, pensiero selvaggio e analisi dei miti


La nozione di inconscio strutturale, che consente a Levi-Strauss di pensare la relazione di reciprocità come già data
nella proibizione dell’incesto, è alla base di un tentativo di ridefinizione della natura del pensiero umano: non si tratta
più di situare “da qualche parte” la differenza che separa la logica del pensiero primitivo da quella del pensiero
civilizzato, ma di definire le leggi del pensiero che in entrambi i casi sono le stesse. Questa affermazione prefigura tre
aspetti centrali della teoria del “pensiero selvaggio” e cioè:
1. l’assoluta identità a se stesse delle strutture mentali, e quindi l’omogeneità di tutte le forme di pensiero appartenenti
ad uno stesso tipo di logica;
2. l’omologia totale tra l’ordine formale delle strutture mentali e quello delle strutture sociali;
3. l’omogeneità strutturale dell’ordine del sociale e dell’ordine naturale, che si esprime nella logica delle
classificazioni totemiche.
Queste idee rappresentano le condizioni generali di utilizzazione del modello teorico di linguistica strutturale. Per Levi-
Strauss l’attività mentale tende ad organizzarsi attorno a una struttura binaria, che procede direttamente
dall’opposizione originaria natura/cultura. Ciò che vale per i sistemi di parentela vale anche per qualsiasi processo di
simbolizzazione, poiché l’opposizione originaria fonda tutte le altre: la dualità, l’alternanza, la simmetria non
costituiscono fenomeni da spiegare ma i dati fondamentali della realtà mentale e sociale.
La logica binaria, che struttura le rappresentazioni della realtà naturale e sociale, è analoga alla logica binaria dei
sistemi fonologici studiati dalla linguistica strutturale: “come il fonema, mezzo senza significato per formare significati,
la punizione dell’incesto mi appare come il campo di unione tra due campi ritenuti separati; all’articolazione
suono/senso corrispondeva così, su un altro piano, quella della natura e della cultura”.
In “Antropologia strutturale” (1958) e nei quattro volumi delle “Mitologiche” (1964-1971), Levi-Strauss analizza il
funzionamento del pensiero mitico la cui logica costituisce, assieme a quella delle classificazioni totemiche, il
fondamento dell’attività simbolica caratteristica del “pensiero selvaggio”. I mitemi, grandi unità costitutive del mito,
sono pensati sul modello dei fonemi, quindi il loro significato è concepito solo in virtù dei rapporti con gli altri mitemi.
Il miti si prestano così ad una lettura di tipo formale che, una volta isolati i mitemi, può stabilirne la variabilità
all’interno delle diverse versioni in cui il mito si presenta; la formazione dei miti è il risultato di un continuo farsi e
disfarsi degli aggregati che li compongono che, sebbene appaia come frutto del caso, mostra di possedere una ragione
profonda nel processo di riaggregazione secondo relazioni coerenti.
Il mito, che la tradizione precedente interpretava come un tentativo confuso di spiegazione della realtà naturale o
sociale, diventa con Levi-Strauss l’altro grande campo di attività del pensiero selvaggio: il settore della produzione
simbolica ha per oggetto se stesso, invece del mondo sensibile a scopo pratico (le classificazioni). Mentre nel “Pensiero
selvaggio” Levi-Strauss produceva un’immagine del sapere primitivo come un’attività orientata alla comprensione della
natura, nelle “Mitologiche” cerca di conferire coerenza logica all’aspetto puramente speculativo del pensiero selvaggio.

I concetti di struttura e di modello


In Radcliffe-Brown, il termine struttura individuava una realtà concreta, corrispondente alla rete delle relazioni sociali,
mentre in Levi-Strauss designa un livello di fenomeni radicalmente diverso: quest’ultimo critica l’analogia tra la
struttura dell’organismo e quella della società, che riduce la struttura ad una forma fenomenica; il fatto di ricondurre lo
studio delle strutture sociali a livello della morfologia e della fisiologia descrittive; la riduzione della struttura sociale
alla semplice somma delle relazioni sociali; in conclusione un piatto empirismo.
Il concetto di struttura sociale, per Levi-Strauss, non ha alcun referente empirico: i suoi referenti sono i modelli
costruiti in base ad essa; “le relazioni sociali sono la materia prima impiegata per la costruzione dei modelli che rendono
manifesta la struttura sociale”.
I Bororo, la popolazione brasiliana studiata da Levi-Strauss, hanno villaggi divisi in due metà esogamiche abitate da
clan matrilineari; gli uomini, quando si sposano, vanno ad abitare nella metà del clan della moglie; prevale quindi il
modello dualista, tutti membri del clan della metà est devono sposarsi con quelli della metà ovest. Questo è il modello
che gli stessi Bororo presentano della loro società, ma Levi-Strauss sostiene che, esaminando i dati etnografici, questo è
un modello parziale, a cui hanno aderito gli etnografi che si sono occupati di loro e delle altre popolazioni in possesso di
un sistema di metà: infatti ogni clan è costituito da tre sezioni, superiore media ed inferiore, ed i membri di una sezione
si devono sposare con quelli della sezione corrispondente. Quindi gli scambi matrimoniali si svolgono a tre livelli non
comunicanti, e la società è fondata su tre gruppi, ciascuno dei quali è diviso in due metà. A partire da questa realtà
empirica, Levi-Strauss produce un modello di struttura sociale che corrisponde alla struttura sociale nascosta. I modelli
possono essere consci oppure inconsci: quelli coscienti, chiamati norme, sono tra i più poveri perché la loro funzione è
di perpetuare le credenze. Più è netta la struttura apparente, più è difficile cogliere la struttura profonda a causa dei
modelli consci e deformati. Si hanno così i due possibili scenari: in uno l’antropologo deve costruire modelli
corrispondenti a fenomeni il cui carattere non è percepito dai nativi; nell’altro si trova di fronte ad una massa di dati
disarticolati ed a modelli già costruiti dalla cultura che egli studia, che a volte sono addirittura migliori di quelli degli
etnologi e quindi vi sono ottime ragioni per considerarli. Ad ogni modo il problema è quello di scoprire i modelli
inconsci, ritenuti esplicativi per il fatto che riproducono le strutture mentali.

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Modelli meccanici e modelli statistici


I primi sono quelli in cui gli elementi che li costituiscono sono sulla stessa scala dei fenomeni che individuano, mentre i
secondi sono quelli i cui elementi sono su scala diversa: ad esempio, i modelli matrimoniali nelle società primitive sono
meccanici, mentre nella nostra sono statistici. Nella struttura tripartita dei Bororo i matrimoni sono chiaramente
prevedibili: esiste un insieme di relazioni che mettono in rapporto individui precisi, entro gruppi precisi (clan), facenti
parte a loro volta di precise metà; possiamo dire qual è il destino di un individuo, il modello lo dice con sicurezza. I
modelli meccanici sono quelli che più si avvicinano al modello dell’inconscio, quindi loro valore è superiore.
Nel modello statistico gli elementi sono su scala diversa da quella dei fenomeni considerati, ad esempio un modello
delle relazioni matrimoniali tipiche della società industriale potrà solo raffigurare delle tendenze statistiche, poiché gli
individui non hanno relazioni matrimoniali per il solo fatto di appartenere a determinati clan. I modelli statistici
rispecchiano situazioni in cui al massimo possono essere indicati gli individui proibiti; descrivono delle tendenze, delle
medie, ma non colgono l’essenza della struttura che può essere invece compresa solo dal modello meccanico.
In Levi-Strauss, il modello dell’osservatore e il modello dell’osservato si incontrano laddove le strutture dello spirito
umano si incontrano, nell’inconscio; una sostanziale identità di strutture porta i due universi a comunicare. In qualunque
modo le culture si manifestino, esse sono l’espressione di una struttura invariabile.

Il viaggio e la memoria
L’opera “Tristi tropici” del 1955 è la grande metafora affettiva del cammino a ritroso sulla strada che dalla natura porta
alla cultura, alla scoperta delle strutture inconsce che determinano le scelte degli uomini; è il viaggio alla riscoperta
delle motivazioni personali che hanno determinato un destino professionale, ma anche un libro denso di motivazioni sul
senso della civiltà umana e sul futuro di essa.
L’immagine delle società primitive contenute in questo libro è quella di società più vicine allo stato di natura di quanto
lo siano quella occidentale o mediterranea o asiatica. Ciò che viene designato con il termine “progresso” è il prodotto
recente di una società calda, che dai propri disequilibri interni trae energia per produrre una effervescenza culturale.
Diversamente dalle società fredde, che funzionano in modo meccanico, le società calde, specialmente quella
occidentale, hanno rotto l’equilibrio che le legava all’universo naturale e possono manipolare a proprio vantaggio la
relazione col mondo esterno. Ciò che è perduto è la convivenza con le altre specie e la coesistenza con altre forme di
vita sociale: l’antropologo, esploratore della memoria collettiva, esprime il rimorso dell’occidente, e deve ripercorrere i
legami tra uomo e universo nei quali si esprime l’immutabilità delle strutture dello spirito umano.

Dall’etnocidio al primitivismo: interpretazione radicale di Levi-Strauss


Negli anni Sessanta in Francia ci fu una rinascita dell’ideologia primitivistica, in un più ampio movimento intellettuale
che mirava alla denuncia dello sterminio degli indiani sudamericani all’insegna della colonizzazione della foresta
amazzonica. Il termine etnocidio (la distruzione di una cultura più debole da parte di un’altra più aggressiva) divenne il
referente semantico per promuovere un rilancio del mito settecentesco del “buon selvaggio”: gli antropologi
americanisti si interrogavano sulla natura delle società primitive, considerate antitetiche a quella occidentale, e nel loro
atteggiamento si può rintracciare la radicalizzazione della riflessione di Levi-Strauss di “Tristi tropici”.
Furono pochi gli allievi che proseguirono sulla strada del maestro: alcuni si volsero al marxismo, altri svilupparono i
temi di primitivo, delle società fredde, della perdita, all’interno di un più vasto discorso sull’etnocidio e sulla logica
distruttiva della civiltà occidentale, contrapposta quella armonica e mite delle culture indie.
Clastres ha sviluppato il tema del primitivismo incentrato su un’analisi della natura del potere nelle società
amazzoniche. Il capo è designato sulla base dei meriti che acquisisce comportandosi generosamente e saggiamente nei
confronti del gruppo; in cambio ottiene il privilegio di praticare la poliginia e null’altro, nel senso che il suo potere non
può essere coercitivo a causa di un meccanismo per cui il gruppo gli nega questa funzione. Tale meccanismo consiste
appunto nel concedere la poliginia: alterando la regolare circolazione delle donne si pone il capo fuori della sfera della
cultura, il cui fondamento consiste nell’esogamia. Il potere è coercizione, negazione della cultura, riemergenza della
natura: le società primitive ne sono a conoscenza e combattono il problema con le armi della natura, interrompendo lo
scambio che fonda la cultura (beni e parole a vantaggio esclusivo del gruppo; donne a vantaggio esclusivo del capo).
Per Clastres le società primitive non sono prive della dimensione politica: in esse ciò che caratterizza il politico è
l’assenza di uno stato, e questo è un pregio perché la mancanza di un apparato repressivo è condizione di libertà e di
non-alienazione economica dell’individuo (lo sfruttamento economico è conseguenza della sottomissione ad un potere,
e l’alienazione economica è conseguenza della alienazione politica). Poiché non c’è nessuno (stato) che le li costringe a
lavorare, si accontentano di quel tanto che basta per soddisfare i bisogni primari: le società primitive sono società di
abbondanza e del tempo libero , e sono consapevoli che la presenza di uno stato metterebbe fine alla loro situazione
idilliaca (infatti hanno sempre lottato contro la nascita dello stato, vedasi il destino del capo).
Questa immagine della società indie portava ad una profonda frattura fra primitivisti e marxisti: per Clastres le società
primitive hanno una propria identità fondata sulla consapevolezza che uno stato metterebbe fine alla loro esistenza,
quindi è inutile tentare di inserirle all’interno del discorso marxista, che vuole ricostruire la logica di funzionamento
delle formazioni sociali analizzando i processi che generano diseguaglianza sociale.

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Bisogna dire comunque che anche le società indie conoscono forme di coercizione e di violenza che male si accordano
con il modello di saggezza politica e di convivenza con la natura presentatoci dagli eredi radicali di Levi-Strauss.

Capitolo16 Il funzionalismo britannico: continuità e rotture


Radcliffe-Brown ha impresso all’antropologia britannica un notevolissimo slancio: almeno fino alla fine degli anni
Cinquanta, il suo funzionalismo strutturale, impostosi dopo la partenza di Malinowski dall’Inghilterra, fu il punto di
riferimento di quasi tutti i ricercatori. Nel dopoguerra emersero i primi segni di deviazione da queste posizioni
ortodosse, ma nessun paradigma ha rimpiazzato quello struttural-funzionalista, al quale la tradizione britannica deve
gran parte del prestigio di cui gode.

Dopo Radcliffe-Brown: Evans-Pritchard e Fortes


Allievi di Radcliffe -Brown, africanisti, ebbero una relazione di continuità critica con la prospettiva del maestro e
contribuirono allo sviluppo dell’antropologia sociale britannica, privilegiando la prospettiva sociologica su quella
culturale ed analizzando la struttura sociale. Evans-Pritchard fu il successore di Radcliffe-Brown a Oxford, mentre
Fortes divenne professore a Cambridge.
Razionalità primitiva, comparativismo critico e antropologia come arte: Evans-Pritchard
Egli passò bruscamente da posizioni struttural-funzionaliste ortodosse ad una prospettiva che può essere considerata
opposta alla visione di un’antropologia come “scienza naturale della società”. Il suo primo libro fu una delle più grandi
monografie etnografiche: in “Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande” aveva condotto ricerche sul campo su questa
popolazione stanziata tra Sudan e Zaire, studiando la loro concezione della stregoneria e della magia, e le procedure
seguite per scoprire i responsabili degli atti di stregoneria. Qualsiasi disgrazia può essere attribuita alla magia, che essi
considerano una condizione organica interna: chi subisce disgrazie consulta oracoli e ricorre ad un vasto campo di
conoscenze magiche per proteggere persone e attività dalla stregoneria. In tal modo stregoneria, oracoli e magia
costituiscono un sistema di credenze e di riti che acquistano senso solo come parti interdipendenti di un unico
complesso, dotato di una struttura logica: date certe premesse derivano determinate conseguenze (la stregoneria
provoca la morte, perciò la morte costituisce prova di stregoneria e gli oracoli confermano ciò; quindi la magia serve a
vendicare la morte). Nei discorsi di questa popolazione, un’idea mistica segue un’altra con la stessa ragionevolezza con
cui un’idea del senso comune ne segue un’altra presso di noi.
Evans-Pritchard sollevava il problema della razionalità dei primitivi, ma con conclusioni diverse da quelle di Frazer e
Levy-Bruhl: il problema della razionalità non può essere posto in termini di alternativa vero/falso, ma solo in termini di
coerenza interna ad ogni sistema di credenze.
L’abbandono delle posizioni di Radcliffe -Brown portò Evans-Pritchard ad una concezione della disciplina più vicina
alle scienze storiche: “l’antropologia sociale è una specie di storiografia e quindi di filosofia dell’arte, di conseguenza
studia la società più come sistemi morali che come sistemi naturali, va in cerca di modelli più che di leggi scientifiche,
interpreta piuttosto che spiegare”. Egli attaccò il metodo comparativo da sempre considerato come vera garanzia di
scientificità dell’antropologia: ripercorrendone la storia, polemizza con Frazer che forniva esempi ad hoc e
decontestualizzati per dimostrare delle teorie precostituite, e critica aspramente i tentativi di allora di classificare i tratti
culturali, non risparmiando le idee di Radcliffe-Brown che giudica prive di documentazione etnografica adeguata.
Evans-Pritchard denuncia il pericolo di una frammentazione dell’antropologia in una serie di studi monografici, e
propone un metodo comparativo su scala ridotta che prenda in considerazione tematiche ristrette oppure società
all’interno di aree geografiche circoscritte, quindi contro una prospettiva generalizzante a qualunque costo. Egli sposta
l’accento sulla ricerca delle particolarità culturali più che delle uniformità, perché l’antropologia deve spiegare le
differenze, non le somiglianze.
In conclusione, con la sua critica del metodo comparativo e la relativa concezione dell’antropologia come sapere
interpretativo, Evans-Pritchard contribuì ad accelerare la crisi del paradigma struttural-funzionale, già criticato da altri
nei suoi aspetti più caratteristici: la struttura sociale come risultante della somma delle relazioni individuali, il carattere
omeostatico della società pensata sul modello dell’organismo vivente, l’esclusione della dimensione temporale.
Parentela, tempo e struttura: Fortes
Egli compì ricerche tra il Ghana e il Burkina Faso, studiando (parallelamente e contemporaneamente ad Evans-
Pritchard) l’organizzazione sociale complessiva e le relazioni di lignaggio, e poi la parentela come rete di relazioni
interpersonali. I due antropologi consideravano gruppi, individui e le rispettive relazioni come qualcosa che esigeva un
diverso trattamento analitico da quello riservato dal loro maestro. Per Radcliffe-Brown la struttura sociale era
semplicemente una somma delle relazioni interpersonali, ed aveva sviluppato il tema soltanto in termini di solidarietà
interna come effetto delle relazioni interpersonali tra i membri del lignaggio. Invece Fortes ed Evans-Pritchard
affrontano lo studio dei rapporti tra i gruppi di lignaggio, inaugurando lo studio dell’organizzazione politica delle
società segmentarie, costituite cioè da lignaggi in rapporto di alleanza od ostilità e prive di un potere politico
centralizzato. Essi pubblicarono congiuntamente il primo libro moderno di antropologia politica, “Sistemi politici
africani” in cui emergeva la distinzione tra le società centralizzate e quelle senza stato: le prime corrispondevano ai
regni, nelle seconde rientravano società di banda come quella dei Boscimani e società segmentarie.

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Il grande contributo di Fortes allo studio della parentela consiste in una serie di saggi teorici, in cui si distacca dalle idee
di Radcliffe-Brown. Quest’ultimo aveva impostato, coerentemente con la propria teoria della struttura sociale, lo studio
della parentela come studio di una struttura, anzi nelle società semplici struttura sociale e di parentela erano
virtualmente coincidenti; inoltre, come per Malinowski, la rete dei rapporti di parentela era un’estensione dei legami
familiari domestici. Per Fortes, che aveva potuto dimostrare con Evans-Pritchard come la struttura sociale andasse al di
là di questa semplice rete, i sistemi di parentela dovevano essere analizzati all’interno di un quadro più ampio, dal
momento che la struttura sociale include anche i rapporti tra gruppi corporati quali i lignaggi, politicamente e
giuridicamente autonomi: infatti individua nell’aspetto giuridico la peculiarità di una istituzione come la parentela, non
una struttura estesa che parte da un nucleo familiare ma un sistema modellato da fattori esterni, come i rapporti tra i
gruppi per lo scambio matrimoniale.
Diversamente da Evans-Pritchard, Fortes rimarrà allineato con il maestro sulla concezione dell’antropologia e del suo
oggetto: l’antropologia resta scienza induttiva ed il suo scopo è sempre quello di pervenire alla formulazione di leggi
generali relative alla società. Come per Evans-Pritchard, lo studio della struttura per Fortes è il punto centrale della
ricerca, ma la struttura sociale perde il carattere di empiricità che rivestiva in Radcliffe -Brown, perché “nella
descrizione della struttura siamo molto distanti dal tessuto della vita sociale reale, è come se fossimo nel mondo di
grammatica e sintassi, non della parola parlata”.
Lo studio delle società segmentarie comportava una concezione delle dinamiche sociali alquanto diversa da quella
statica proposta da Radcliffe-Brown: queste, costituite da lignaggi autonomi, erano non più un organismo costituito da
parti in equilibrio, ma da un insieme sottoposto a forti tensioni centrifughe controbilanciate da forze centripete
(rappresentate dall’autonomia dei segmenti e dal mantenimento dell’unità funzionale). Fortes introduce la dimensione
temporale nell’analisi della struttura sociale, mostrando come sia intimamente associata all’idea di segmentazione. La
distanza genealogica tra i lignaggi, all’interno della struttura complessiva di una società segmentaria, esprime una
distanza sociale; la storia di un gruppo si esprime viceversa nella distanza “strutturale” dei lignaggi che lo compongono.
La cultura acquista un senso solo in rapporto alle relazioni tra individui e gruppi, che la esprimono appunto attraverso
queste relazioni; cioè la cultura, che possiede frontiere o contorni sfumati, è individuabile solo se rapportata alla
struttura, che è una entità delimitata. La struttura sociale non è un aspetto della cultura, ma l’intera cultura di una data
popolazione all’interno di un quadro teorico particolare; la struttura sociale non è data, ma prodotta dalla prospettiva
teorica dell’osservatore.

Ethos, eidos, schismogenesi: Bateson


Egli occupa un posto parte della costellazione degli struttural-funzionalistici britannici: nel 1936 pubblicò “Naven”, un
libro sulla società Iatmul intesa complessivamente, che si situava in posizione eccentrica rispetto alle correnti allora
dominanti in gran Bretagna. Partendo dallo studio di una cerimonia chiamata naven, celebrata tutte le volte che un
individuo compiva, per la prima volta nella sua vita, un’azione che corrisponde ad un valore fondamentale della cultura
locale (uccisione di un nemico, cambiamento di status sociale, eccetera), Bateson ne analizzava le varie implicazioni
psicologiche, economiche, politiche, magico-religiose, rifiutando la prospettiva corrente che tendeva a considerare la
società come divisa in settori (economia, politica, religione, eccetera) a ciascuno dei quali corrisponderebbero una o più
istituzioni che producono uno stato di equilibrio.
Bateson ritiene insufficiente l’approccio funzionalista in quanto si limita a prendere in considerazione gli aspetti della
cultura più facilmente descrivibili in termini analitici, mentre bisogna cogliere un altro livello della complessa realtà
culturale, come il tono emotivo ethos che sottostà ad ogni fenomeno culturale e la cui conoscenza consente appunto di
conoscere una cultura. Questa nozione non ha nulla di “intuitivo”: è invece un ponte concettuale in grado di collegare
struttura e cultura, fortemente disgiunti nell’orientamento strutturalista. Bateson accetta la definizione di struttura data
da Radcliffe-Brown come sistema di relazioni, ma la distingue però dalla struttura culturale, cioè le relazioni che
intercorrono tra gli elementi costitutivi di una cultura, chiamati premesse. Queste ultime sono delle sintesi concettuali in
grado di abbracciare una grande varietà di relazioni affini, forme generalizzate di un assunto particolare riconoscibile in
un certo numero di frammenti di comportamento culturale. La struttura culturale, fondata su premesse tra loro correlate,
costituisce l’eidos di una cultura.
Ethos ed eidos sono solo due facce della complessa realtà del comportamento umano: il contenuto cognitivo manifesto
del comportamento (eidos) o l’assai meno palese contenuto emotivo (ethos); l’unità dei due livelli è ciò che forma la
realtà di una cultura del suo complesso. Che si consideri una cultura sotto l’uno l’altro di questi due aspetti, in entrambi
i casi i membri di una comunità risultano uniformati dalla cultura, mentre le caratteristiche della cultura sono
espressione di questa uniformizzazione.
Con il termine schismogenesi, Bateson indicò un processo di differenziazione nelle norme del comportamento
individuale - risultante da un’interazione cumulativa tra individui - che individuava i processi di azione e reazione
cumulativa a livello emozionale (dell’ethos), che dovrebbero consentire una migliore comprensione del comportamento
psichico ed emotivo dell’individuo. Concetti come “pensiero di gruppo” o “inconscio collettivo” sono per Bateson privi
di significato, ed inducono a confondere lo studio dei processi psicologici individuali con lo studio complessivo della
società: il concetto di schismogenesi è una nuova via nello studio dei fenomeni psichici della sfera emotiva, e studia il
formarsi delle individualità, dei conflitti e delle patologie come un processo di azione-reazione come feedback positivo.

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Funzionalismo e colonialismo
L’immagine dell’antropologia come figlia dell’imperialismo coloniale di metà Ottocento è al giorno d’oggi fuori luogo.
Forse.

Gluckman e la scuola di Manchester


Condusse in Africa tutta la propria attività di ricerca sul campo, e fu il fondatore della cosiddetta scuola di Manchester,
un orientamento di ricerca che, discostandosi dall’ortodossia struttural-funzionalista, ha prodotto risultati importanti sul
piano metodologico e nell’analisi della società africane caratterizzate dalla connessione tra tradizione e spinte
generatrici di mutamento.
Conflitto, ordine e rituale: Gluckman
I suoi primi lavori si inscrivevano dall’interno della problematica struttural-funzionalista che indagava i meccanismi
dell’equilibrio sociale, ma già si evidenziava una differenziazione dalle posizioni ortodosse. Per Gluckman l’equilibrio
della struttura sociale non è un semplice adattamento reciproco dei suoi elementi costitutivi, ma il prodotto di un
aggiustamento di fenomeni contraddittori: i sistemi sociali sarebbero caratterizzati da una fondamentale instabilità, solo
periodicamente sostituita da una fase di equilibrio dovuta all’aggiustamento delle contraddizioni del sistema stesso, ad
esempio la ribellione nei confronti del sovrano ha il risultato di produrre, dopo una fase di incertezza, la ricostituzione
dell’ordine iniziale.
La dimensione dinamica del conflitto e dell’ordine portarono Gluckman a definire i concetti di competizione, lotta,
conflitto e contraddizione, riferibili a specifici livelli di opposizione, portandolo lontano dall’ortodossia:
? competizione: le contrapposizioni individuali;
? lotta: i contrasti ricorrenti, che hanno implicazioni più profonde e più gravi rispetto a quelli che generano
competizione, ma che rimangono a livello di scontro individuale;
? conflitto: opposizioni interne alla struttura, che producono alterazioni nel personale delle posizioni sociali, ma non
nel modello delle posizioni;
? contraddizione: relazione tra processi discrepanti, interni alla struttura sociale, che conducono ad un cambiamento
radicale del modello.
Gluckman analizzò il rituale della conflittualità sociale attraverso cui si producono stati di equilibrio all’interno del
sistema: il rituale sarebbe associato ai movimenti di ribellione ed aggirerebbe come un atto liberatorio di conflitti
inerenti al sistema sociale stesso; metaforizzando tali conflitti tramite la pratica rituale, gli individui sarebbero in grado
di rendere esplicita a loro stessi la natura fondamentale dell’unità della loro società.
Questa concezione della solidarietà sociale non è molto lontana da quella teorizzata da Durkheim, ma Gluckman si
discosta per il fatto di assegnare alla dimensione del conflitto, e non all’integrazione delle parti della struttura, il ruolo
centrale nel processo di produzione dell’equilibrio.
Analisi dinamica, processo e dramma sociale: Turner
Tipico della scuola di Manchester fu il modo di avvicinarsi all’analisi delle realtà sociali in trasformazione per un
conflitto tra gruppi etnici e razziali, o tra generazioni, lignaggi, classi, eccetera, adottando il “metodo di analisi dinamica
dei casi” contro quello della scuola struttural-funzionale (che individuava nell’istituzione e nella norma i fattori per
ricostruire la struttura di una determinata società). Questo metodo di Manchester si rivolge allo sviluppo delle relazioni
sociali sotto la pressione conflittuale di principi antagonistici, come le trasformazioni generazionali: osservando queste
relazioni, vedremo che, per difendere i propri interessi, le parti interessate producono credenze mistiche che vengono
osservate nel loro processo dinamico e quotidiano, e lo stesso vale per la creazione di nuovi gruppi e di nuove relazioni.
L’accentuazione dell’aspetto dinamico dell’interazione sociale spostava l’attenzione dalla norma all’azione, e
accentuava gli aspetti processuali del divenire piuttosto che quelli integrativi della struttura.
Turner, il più noto esponente di questa scuola, analizzò la vita in un villaggio in Rhodesia e mediante il concetto di
dramma sociale indicò quei conflitti, che caratterizzavano quella società, descritti in una prospettiva processuale e
dinamica, e concentrandosi sull’interazione tra gli individui, sui loro comportamenti e sulla manipolazione da parte loro
delle credenze e delle norme sociali. Egli individuò la conflittualità nella contrapposizione tra due principi
fondamentali, le regole di discendenza matrilineare e la residenza patrilocale: quando l’uomo che esercita l’autorità
muore o si ritira, deve essere sostituito dal figlio della sorella che, sposandosi, è andata tuttavia a vivere presso il gruppo
del marito nel quale abitano i loro figli; dato che gli uomini uniti per via matrilineare formano il principale gruppo
corporativo, ecco che per rafforzare la propria posizione essi devono aver successo sia nel fare in modo che i propri figli
restino nel villaggio, sia nell’ottenere il ritorno dei figli delle sorelle, due obiettivi contraddittori e quindi generatori di
conflitto. Dal momento che l’aggressione fisica verso i consanguinei non è ammessa, la conflittualità tra i membri dello
stesso lignaggio viene espressa con accuse di stregoneria, anche se si fa tutto il possibile per non far condannare un
consanguineo accusato di essere un mago una strega.
Turner non ha interesse per le norme in quanto tali: queste non producono l’assetto reale della società, che è invece
generato dall’aggiustamento dialettico delle parti in lotta; in questo Turner non si discosta da Gluckman, ma ciò che lo
distingue è il fatto di mettere in primo piano l’individuo ed i suoi comportamenti.

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Critica dello struttural-funzionalismo: Leach


Egli non fu, al contrario degli altri antropologi questo capitolo, allievo di Radcliffe-Brown ma di Malinowski, né fu un
africanista ma la sua ricerca si svolse quasi interamente in Asia; è inoltre uno dei primi antropologi ad aver condotto
ricerche sul campo in aree con società complesse, cioè caratterizzate da una accentuata specializzazione produttiva dei
gruppi che fanno parte, da marcata stratificazione sociale, da organismi politici centralizzati, e da religioni
universalistiche e salvifiche come l’ebraismo, l’induismo, l’islam, eccetera. Il lavoro di Leach è stato messo in relazione
a quello di Gluckman per l’abbandono dell’ipotesi dell’equilibrio come dato, e per l’enfasi sui temi del conflitto e della
manipolazione delle risorse da cui dipende l’esercizio del potere.
Instabilità e cambiamento: i Curdi e i Kachin
Nella sua monografia sui Curdi, Leach osservava che questa società era sottoposta a forze economiche e politiche
esterne generatrici non di modificazioni strutturali ma di veri rivolgimenti; la società curda appare come “una struttura
in uno stato di costante cambiamento potenziale: non un’entità composta da parte integrate (Radcliffe -Brown) o
periodicamente in conflitto (Gluckman), ma un complesso di interazioni generate da interessi conflittuali e attitudini
divergenti”. Leach critica la prospettiva normativa di Radcliffe-Brown e Fortes: gli individui non si conformano affatto
alle norme in tutto e per tutto; la norma è interpretata a seconda degli interessi contingenti, e la reazione degli individui
a tali interessi determina il processo di cambiamento fino a produrre un diverso assetto strutturale. L’antropologo deve
costruire un modello della struttura come se questo fosse la struttura, e deve poi descrivere le discrepanze tra il modello
e la realtà per rendere conto delle deviazioni individuali dalla norma.
L’orizzonte dell’antropologia di Leach è dunque costituito dai temi dell’instabilità, del conflitto, del cambiamento, della
manipolazione, dell’allontanamento dalla norma e della modellizzazione, ai quali si aggiunge quello della distorsione di
prospettiva derivante considerazione delle società studiate come sistemi chiusi, provvisti di confini netti ed identificabili
di solito come tribù. Le comunità Kachin degli altipiani birmani presentavano invece un aspetto diverso da quello di
entità circoscritte: gruppi con lingue e culture diverse erano in continuo contatto, ad es. animiste e buddhiste; sistemi
sociali stratificati accanto a sistemi egualitari; presenza di stato e comunità di villaggio. Quanto a complessità, era
paragonabile a quella riscontrata poco tempo prima in Iraq.
La struttura sociopolitica kachin è fondata su periodici collassi strutturali, che si traducono in trasformazioni della
logica stessa su cui si fonda l’organizzazione politica: il sistema consiste di un continuum compreso tra due forme
estreme ed opposte (modelli) di organizzazione, un aristocratica ed una egualitaria, le quali emergono vicendevolmente
a intervalli di circa un secolo come prodotto della dinamica sociale.
La dinamica del passaggio è determinata da una contraddizione interna, cioè l’esistenza di lignaggi gerarchizzati in
“datori” e “prenditori” di mogli: gli scambi matrimoniali fra lignaggi non implicano una relazione di reciprocità, ma una
gerarchia tra gruppi (superiori) che cedono e gruppi che ricevono mogli; questo sistema non porta alla cristallizzazione
delle relazioni di dominio in una forma amministrativa centralizzata come lo stato, ma provoca la reazione del lignaggi
che si ribellano. Un’organizzazione politica aristocratica sviluppa caratteristiche che innescano una rivolta che si
risolve, temporaneamente, in un ordinamento egualitario, ma questa manca dei mezzi per tenere uniti i lignaggi che la
compongono in uno stato di eguaglianza, e quindi si disgrega per ritornare all’altro modello. Per Leach è corretto
considerare i due sistemi come due modelli distinti di struttura sociale ma, nell’applicazione pratica, sono poi sempre
interrelati; inoltre non sono solo due possibili stati del sistema, ma anche due ideali per descrivere la società.
Norme statistiche e modelli
Il tema della divergenza tra norme e comportamenti è stato sviluppato nella sua terza monografia su Ceylon, in cui
mostra un duplice ordine di fenomeni, costituiti da regole giuridiche (il livello in cui una società esprime il proprio
ordine) e norme statistiche (il comportamento concreto degli individui). Leach critica soprattutto Fortes, nel cui lavoro
il piano normativo è privilegiato a scapito delle norme statistiche considerate come meno importanti, ma si sbilancia sul
lato opposto in una posizione contrassegnata da un forte empirismo: “la struttura sociale è una nozione statistica, la
somma di molte azioni individuali né completamente consce né completamente inconsapevoli.
Leach aveva affrontato il problema di costruzione del modello dell’osservatore: chi fa delle indagini deve prendere in
considerazione tre livelli distinti di modelli di comportamento, il comportamento reale, la media di questi modelli di
comportamento individuale (“la norma”) e la descrizione che l’indigeno fa di se stesso e della sua società (“l’ideale”).
Dato che il temp o del ricercatore è limitato, egli è portato a identificare il secondo di questi modelli con il terzo.
Il problema della verità dei modelli dell’osservatore e dell’osservato fu preso in considerazione anche da Levi-Strauss,
per il quale l’obiettivo dell’antropologo era andare oltre sia al modello ideale che al modello statistico risultante dalla
media dei comportamenti, e quindi di procedere verso un modello meccanico in grado di aderire al modello inconscio
del nativo che ne determina il comportamento.

Il tramonto del funzionalismo: metodo generativo, cambiamento e confine etnico in Barth


Norvegese, ma profondamente influenzato dalla tradizione anglosassone di entrambe le coste dell’Atlantico, è stato uno
degli antropologi più versatili, avendo studiato numerosissime popolazioni. Egli parte dalla critica del modello
omeostatico degli struttural-funzionalisti, arrivando alla conclusione cui era giunto Leach: il comportamento degli
individui non può essere ricondotto alla struttura, ma tra comportamento e norma esiste sempre una discrepanza che non
può essere interpretata come una semplice deviazione dalla regola.

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Barth sviluppa la critica del modello strutturale introducendo le nozioni di scelta e di strategia, provenienti dal
repertorio concettuale dell’antropologia economica formalista, ma non utilizzandole per dimostrare una qualche forma
di razionalità universale nel comportamento di un immaginario homo oeconomicus; l’azione individuale è determinata
dai valori e dalle norme socialmente introiettate dall’individuo e dagli altri attori sociali; le possibilità di scelta non sono
infinite, esiste una gamma delimitata di possibilità a cui l’individuo deve adeguare il proprio comportamento.
Il tema del cambiamento socioculturale è connesso con l’elaborazione del cosiddetto modello generativo. Considerando
la realtà sociale come un processo dinamico prima che come una struttura, Barth connette il comportamento individuale
con le posizioni di status e di ruolo, in riferimento alle quali l’individuo può valutare il buon esito o meno del suo
comportamento: se una scelta è ben fatta e tende a confermare lo status, essa genererà comportamenti simili e rafforzerà
il modello di comportamento. Il modello generativo consente di spiegare la norma e la variazione nei comportamenti
corrispondenti allo status ed al ruolo: i fattori iniziali di variazione agiscono sull’individuo in possesso di determinati
status e ruoli, che potrà reagire in due modi: o lasciando inalterata la sfera dei rapporti della struttura sociale, o
adottando atteggiamenti che risultano adeguati agli input provenienti dall’esterno e generando nuovi modelli
standardizzati di comportamento.
Barth si rifiutò di considerare le comunità umane come entità chiuse e circoscritte: partendo dall’idea che l’identità
etnica è il criterio più generale di autodefinizione di un gruppo, esplora i caratteri che da questo punto di vista lo
caratterizzano in rapporto ad altri. Il gruppo etnico deve elaborare criteri di valutazione che consentano ai suoi membri
di interagire con i membri di altri gruppi per favorire lo scambio, ma senza annullare la propria identità, finendo per
autodefinirsi mediante una serie di strategie contingenti; i gruppi etnici sono allora configurazioni locali di un
continuum più ampio. La definizione del gruppo etnico assume in tal modo un carattere dinamico perché consente di
pensare ai gruppi come entità in relazione reciproca. La nozione di confine etnico ha una rilevanza centrale: confine non
è ciò che definisce una società o una cultura, ma il mezzo attraverso cui i membri di due gruppi definiscono l’ampiezza
e la portata delle loro relazioni reciproche.
La concezione dinamica delle relazioni interetniche e della società, pervase da continui processi di cambiamento, ha
origine dal lavoro etnografico condotto da Barth in Medio Oriente, che ospita comunità plurietniche caratterizzate da
una forte specializzazione produttiva; un quadro ben lontano dall’immagine di staticità che per tanto tempo aveva fatto
da sfondo al discorso della antropologia.

Capitolo 17 Le molte strade dell’antropologia americana

La prospettiva generalizzante
Verso gli anni Venti, l’antropologia americana era indiscutibilmente dominata da Boas; nel corso degli anni Trenta la
sua influenza cominciò a diversificarsi tramite i suoi allievi Kroeber e Lowie verso lo studio dei processi culturali, e la
Benedict e la Mead verso gli studi di cultura e personalità. Nonostante l’avversione del maestro verso la
generalizzazione a livello teorico, soprattutto verso le spiegazioni fondate sulla causazione lineare degli evoluzionisti,
con la seconda generazione emerse un nuovo interesse per la comparazione e la formulazione di teorie fondate su
spiegazioni causali: White e Steward gettarono le basi degli indirizzi noti come neoevoluzionismo e materialismo
culturale che rappresentano uno dei vari indirizzi di ricerca dell’antropologia americana contemporanea.
Evoluzionismo e scienza della cultura: White
Dal 1930 si impegnò in una rivalutazione dell’opera di Morgan, che proprio grazie a White è tornato sullo scenario
della disciplina a partire dagli anni Sessanta; è opportuno precisare che la ripresa di Morgan non implicava la
rivalutazione dei suoi schemi di sviluppo, ma piuttosto l’idea che la storia del genere umano sia contrassegnata da una
sempre maggiore complessità culturale e da un progressivo accumulo di tecnologia (White aveva recepito la teoria
marxista secondo cui sono le condizioni tecnico-economiche a determinare la vita delle società umane).
White sostenne le proprie idee contro una diffusa ostilità per l’evoluzionismo e tutto ciò che suonava come una
concessione al marxismo, ossia il privilegiare le analisi delle condizioni materiali di esistenza delle popolazioni; le sue
teorie possono essere ordinate in tre tematiche principali: la teoria dell’evoluzione culturale, la prospettiva del
determinismo culturale, la concezione della cultura in quanto tale e lo studio di essa, definito “culturologia”.
Per White, una teoria dell’evoluzione culturale deve reperire un sistema di misurazione della crescita culturale;
diversamente da Morgan e dagli altri evoluzionisti (per i quali l’incremento delle acquisizioni culturali era determinato
da uno sviluppo psicologico), White ritiene che l’indice e il criterio di misurazione vada individuato nella quantità di
energia pro capite che una società è in grado di controllare e sfruttare. La causa dell’evoluzione è quindi la tecnologia
impiegata dagli uomini per produrre e imbrigliare energia.
Egli distingue tre sottosistemi della cultura: quello tecnologico, composto dagli strumenti materiali e dalle tecniche
relative al loro uso; quello sociologico, costituito da relazioni interpersonali; quello ideologico, composto da idee,
credenze, conoscenze espresse nel linguaggio o altra forma simbolica. Questi sottosistemi si articolano tra di loro: la
tecnologia è variabile indipendente, il sistema sociale quella dipendente (quindi è determinato da quello tecnologico);
anche le esperienze e le interpretazioni del sottosistema ideologico sono potentemente condizionate dalla tecnologia.
White concepisce la cultura come campo d’azione di simboli determinati dalla tecnologia, e confuta le concezioni del
libero arbitrio e la teoria della storia come prodotto dell’azione dei “grandi uomini”: il singolo nasce in una cultura

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preesistente che gli fornisce la forma e il contenuto del suo comportamento di essere umano. Questo atteggiamento
relativista (che riconduceva ogni forma di comportamento o di credenza al quadro culturale) fu profondamente
avversato anche per motivi ideologici dai sostenitori del capitalismo americano.
Questa concezione della cultura come determinazione del livello tecnologico e come sistema sua volta determinante le
scelte individuali indusse White a definirla in maniera analitica: fra le specie inferiori i sistemi sociali sono funzione dei
loro rispettivi organismi biologici, s=f(o); il comportamento umano non è mai una funzione dell’organismo, varia con il
fattore della cultura, quindi è una funzione della cultura, c= f(c).
Contro l’idea generalizzata secondo cui la cultura sia un comportamento appreso (un dato inconfutabile anche per molte
specie animali), White propose una definizione di cultura come “una classe di fenomeni comprendenti oggetti, atti, idee
ed attitudini che dipendono dall’uso di simboli”. In verità, venti anni prima White aveva scritto “tutta la cultura si fonda
sui simboli: l’esercizio della facoltà simbolica portò alla luce la cultura, e l’uso dei simboli rende possibile la
perpetuazione della cultura”.
Ecologia culturale, evoluzione multilineare e livelli di integrazione: Steward
Egli pose particolare enfasi sia sull’ambiente e le condizioni materiali di vita, che sulla ricerca di elementi per stabilire
leggi valide sul piano transculturale; come White, Steward rappresenta la reazione al particolarismo boasiano ed il
ritorno ad una concezione dell’antropologia come sapere generalizzante.
Il suo grande contributo all’etnologia venne dai lavori sugli Shoshoni, gruppi del Grande Bacino; da questi studi elaborò
le sue teorie definite come ecologia culturale: “gli Shoshoni vivevano in una terra proibitiva, l’unico elemento
dominante della loro esistenza era la necessità di procurarsi da vivere una stagione dopo l’altra; data la semplicità della
loro tecnologia, l’ambiente offriva poche alternative, e i loro modelli di vita sociale devono essere compresi come un
adattamento a questa dura realtà fisica”.
L’orientamento di Steward nei confronti della ricerca antropologica derivava da un’idea di scienza come “scienza
naturale”: lo scienziato deve scoprire le ricorrenze nelle relazioni regolari (causali) tra i fenomeni e stabilire delle leggi.
Egli definì la propria prospettiva come evoluzionismo multilineare, basato sul presupposto che nel mutamento culturale
ci sono regolarità significative, bisogna quindi determinare l’esistenza di leggi culturali.
Lo sviluppo culturale deve essere concepito non soltanto come una questione di complessità crescente, ma anche come
l’emergere di successivi livelli di integrazione socioculturale: questi si caratterizzano per una diversa complessità e
designano le modalità più generali di organizzazione presenti nelle varie società, come la banda patrilineare, il
lignaggio, la nazione, eccetera. Essi individuano segmenti di sviluppo evolutivo limitati, non descrivono cioè le tappe di
un movimento dal semplice al complesso, ma forme indipendenti che possono evolvere verso stati di complessità
maggiore; le forme semplici, come la famiglia o la banda, non scompaiono quando si raggiunge uno stadio di sviluppo
più complesso, ma vengono gradualmente modificate.

Neoevoluzionismo e materialismo culturale


I neoevoluzionisti sono antropologi che hanno ripreso la teoria di White relativa ad un processo di sviluppo cumulativo
della cultura, articolandola con la posizione di Steward sulla evoluzione multilineare.
Partendo dall’idea di White secondo cui l’evoluzione dei sistemi socioculturali è “un movimento in direzione di una
trasformazione progressiva dell’energia in sistemi culturali”, Service e Shalins hanno sviluppato i concetti di evoluzione
specifica e di evoluzione generale: la prima consisterebbe nel fatto che la cultura generale (il patrimonio del genere
umano) è sottoposta adattivamente e selettivamente ad un processo di diversificazione progressiva il cui risultato è nelle
singole culture; la seconda consisterebbe nel passaggio da forme più semplici di organizzazione socioculturale a forme
più complesse, cioè a livelli più efficaci di trasformazione delle risorse in “energia culturale”.
Harris, allievo di White, è il più noto esponente del materialismo culturale, da lui definito una “scienza della cultura”:
riassumendo in sé il determinismo culturale di White, l’attenzione per il fatti ambientali di Steward ed alcune visioni
personali della teoria di Marx, Harris asserisce la necessità di sviluppare un’antropologia nomotetica e generalizzante in
una prospettiva materialistica contrapposta a quella cognitivista ed a quella interpretativa. Pur prendendo le distanze da
Marx, si avvicina a lui per sottolineare la funzione causativa svolta dalle condizioni materiali di esistenza: il
materialismo culturale sostiene che “il compito principale dell’antropologia è dare spiegazioni causali alle differenze e
alle somiglianze negli schemi di pensiero e comportamento dei vari gruppi umani; comp ito che può essere condotto a
termine studiando le costrizioni materiali alle quali è soggetta l’esistenza umana, costrizioni diverse da quelle imposte
da idee o aspetti spirituali, come la religione o l’arte”.
Nella sua polemica contro l’eredità di Boas, Harris sottolinea la necessità di guardare ai fenomeni culturali da un “punto
di vista scientifico” che prescinda da qualunque considerazione del “punto di vista del nativo”.

L’etnoscienza
Questa può essere definita come “lo studio delle modalità in cui sistema di pensiero di una comunità si struttura in
relazione al suo campo di esperienza”, un settore di ricerca fortemente influenzato dalla linguistica perché il linguaggio
è il mezzo privilegiato di espressione dei concetti e delle relazioni tra tali concetti. L’idea fondamentale è che ogni
cultura non costituisce solo un insieme di usi e costumi o di tecniche e istituzioni per far fronte alla necessità della vita
sociale, quanto piuttosto un sistema di pensiero formato da parti interrellate fra loro che fungono da “mappa” per il
comportamento di chi fa parte di quella cultura. L’etnoscienza è quindi un tentativo di comprendere i principi di

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organizzazione che stanno alla base del comportamento: ogni popolo ha un unico sistema per percepire ed organizzare
fenomeni materiali (cose, eventi, comportamenti), ed oggetto dello studio sono il modo in cui questi sono organizzati
nella mente degli uomini; le culture non sono fenomeni materiali, ma organizzazioni cognitive di fenomeni materiali.
Nella tradizione dell’antropologia, gli studiosi cercarono di collegare il pensiero primitivo a fenomeni quali la credenza
negli esseri soprannaturali, il totemismo, la stregoneria, la classificazione dei gruppi umani, la produzione di miti,
occupandosi di stabilire le differenze e le somiglianze tra “noi” e “loro” e credendo di trovare elementi di continuità o
punti di rottura tra il pensiero selvaggio e quello civilizzato. Nessuno entrò tuttavia nel merito dei criteri dei meccanismi
conoscitivi delle rappresentazioni del mondo naturale e sociale (realtà) prima di Rivers con la sua spedizione nello
Stretto di Torres: lui e suoi collaboratori lavorarono sui processi percettivi e sulla reattività sensoriale, ma questi studi a
sfondo psicologico non ebbero praticamente alcun seguito in Inghilterra, mentre in America abbiamo assistito grazie a
Boas alla nascita dell’etnoscienza, detta anche etnosemantica o antropologia cognitiva.
Le premesse: Boas, Sapir e Whorf
Il retaggio boasiano è identificabile con la problematica relativa ai rapporti tra pensiero e linguaggio. Sapir e Whorf
ipotizzavano che la struttura di una lingua sia determinata dall’esperienza, che aggirerebbe causativamente sul
complesso delle rappresentazioni determinando le particolari visioni del mondo: questa idea di relativismo linguistico è
stata sviluppata in relazione a Boas, il quale però dava importanza al pensiero in quanto elemento determinante nella
sua relazione con la lingua, e non viceversa.
Per Boas la differenza tra la mentalità dei primitivi e la nostra era dovuta al fatto che i primi non avevano mai avuto la
possibilità di fissare in maniera cumulativa (scrivere) le proprie riflessioni sulla loro esperienza del mondo naturale,
mentre i secondi erano eredi di una lunga tradizione di sistematizzazione scritturale della riflessione astratta: la
diffusione della scrittura costituirebbe il grande elemento di rottura tra noi e loro. Inoltre, popoli come quello eschimese
o quello indiano possedevano esattamente le stesse facoltà mentali e la stessa possibilità di ragionare in maniera astratta
dei popoli civilizzati, ma il fatto che questi ragionamenti non facessero parte del loro campo di esperienza abituale
produceva, agli occhi degli occidentali, comportamenti interpretati come segno di prelogicità o irrazionalità.
La prospettiva emica e l’analisi componenziale
Ponendosi come obiettivo lo studio delle modalità di costituzione e di funzionamento del sistema conoscitivo di una
cultura, gli etnoscienziati privilegiano il punto di vista emico, cioè il modo stesso di conoscere degli individui che fanno
parte di una determinata cultura. A questo si contrappone il punto di vista etico, ossia la prospettiva che valorizza le
categorie scientifiche dell’osservatore, ponendo secondo piano il punto di vista dell’osservato (ossia il livello emico
dell’analisi). Un etnografo dovrebbe cercare di definire gli oggetti di analisi in accordo con il sistema concettuale della
popolazione che studia: lo studio emico di una cultura implica l’esplorazione dei legami semantici tipici di quella
cultura. I termini di parentela, le nozioni relative a salute ed a malattia, i termini impiegati per indicare i colori, un
sistema di classificazione delle specie vegetali, un sistema religioso, sono tutti ambiti semantici da esplorare per
cogliere le relazioni tra i termini che li costituiscono, al fine di capire in che modo i membri di una cultura utilizzano
queste conoscenze per orientare il proprio comportamento.
L’analisi componenziale dei termini di parentela parte dalla considerazione che queste terminologie formano dei domini
semantici al cui interno i singoli termini hanno significati particolari, a seconda che siano pensati in contrasto o in
relazione gerarchica con altri dello stesso dominio. I criteri distintivi (persona, genere e numero) e le specificazioni sono
le componenti dell’analisi in quanto valori semantici di ciascun termine (ad esempio i pronomi io, tu, egli, ecc.).
L’analisi componenziale applicata al dominio semantico dei sistemi di parentela rivela connessioni e opposizioni spesso
inattese tra i vari termini, molto utili se condotte su domini culturalmente distanti dai nostri.
La prospettiva emica dell’etnoscienza è stata aspramente criticata da Harris che propende per una visione generalizzante
e nomotetica della antropologia: la sua critica più nota sostiene che non si può pervenire ad una conoscenza oggettiva
della realtà socioculturale facendo riferimento alle idee espresse dagli attori sociali. Per Harris, è impossibile ricostruire
il complesso delle regole che determinano le scelte dei nativi, in quanto essi possiedono sempre una regola per
infrangere la regola in modo da non chiudere mai il cerchio della spiegazione: solo le regole etiche, formulate
dall’antropologo, possono pervenire alla comprensione della cultura perché sono “logicamente conclusive”.
La ricerca delle regolarità: percezione e terminologia del colore
L’etnoscienza si configura quindi come un sapere emico, attento a riprodurre nella maniera più fedele possibile le
mappe concettuali e conoscitive di cui dispongono i nativi per orientare il proprio comportamento, e relativistico,
perché fonda la propria scientificità nello studio di uno o più domini semantici interni a culture determinate. Tuttavia
non sono mancati studi etnoscientifici in una prospettiva generalizzante, per identificare le regolarità dei meccanismi
che presiedono alla creazione delle categorie culturali.
Berlin e Kay ipotizzano che i gruppi umani possiedono una gamma limitata di termini base per indicare i colori, da un
minimo di 2 ad un massimo di 11. Questa terminologia di base si sviluppa secondo un andamento evolutivo: tutti i
sistemi che possiedono solo due termini, sono chiaro e scuro; quelli che ne hanno tre, sono bianco nero e rosso; quelli
che possiedono cinque aggiungono e giallo verde, eccetera. Questa diversa complessità dei sistemi terminologici
sarebbe riconducibile ad un diverso grado di organizzazione sociale: più il gruppo è semplice sul piano socioculturale,
più la sua terminologia cromatica sarà ristretta. E’ questa un’ipotesi assai debole, perché Boas e dopo di lui Whorf
hanno dimostrato che le terminologie della percezione dipendono dal posto che tali fenomeni occupano nell’esperienza

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di una determinata popolazione: ad esempio gli eschimesi hanno una organizzazione sociale meno complessa della
nostra ma hanno 40 modi diversi per dire “neve”.
Altri ricercatori hanno messo in relazione le diverse terminologie del colore con le variazioni che si registrano tra i
gruppi che vivono in ambienti diversi: ad esempio popoli che vivono nei pressi dell’equatore e con una terminologia di
base ristretta sarebbero caratterizzati da presenza di pigmentazione scura nella retina, che consentirebbe loro di cogliere
una quantità minore di tonalità cromatiche di altri soggetti con minor pigmentazione.
In molti hanno criticato queste teorie, insistendo sul fatto che il sistema percettivo di una popolazione è profondamente
influenzato dalle determinanti culturali, in quanto i colori possiedono dei significati contestuali che variano a seconda
della situazione. Al di là delle critiche che possono essere rivolte all’etnoscienza, sia relativistica che generalizzante,
rimane il merito di aver elaborato strumenti d’analisi e prodotto studi rilevanti per la conoscenza dei sistemi di pensiero.

La prospettiva interpretativa
L’antropologia interpretativa si pone il problema della conoscibilità delle culture dall’interno delle culture stesse, e
avanza la questione dei mezzi che ci consentono di raggiungere la conoscenza dell’altro, ovvero del procedimento
etnografico, ovvero di traduzione di una cultura in un’altra. Inoltre si pone in forte contrasto con le prospettive come lo
struttural-funzionalismo o il neoevoluzionismo, che avevano fatto di cultura, comportamento e struttura sociale degli
oggetti suscettibili di una trattazione mirante alla formulazione di proposizioni generali; non risparmia lo strutturalismo
di Levi-Strauss, nel quale vede un eccesso di astrattismo decontestualizzante; non concorda neppure con l’etnoscienza
laddove questa tenta di mostrare che il significato può emergere misteriosamente dalla concatenazione meccanica di
elementi privi di significato.
La prospettiva interpretativa, pur ponendo anch’essa l’accento su comportamento, linguaggio e aspetto simbolico della
cultura, riconosce che la vita sociale è una negoziazione di significati. Per essa, la base comune di incontro tra
osservatore ed osservato sono le pratiche realmente agite e rappresentate, che consistono in comportamenti che sono
sempre parte di costellazioni più ampie di significato, al di fuori delle quali non avrebbero senso (per esempio i
movimenti di un alfiere sulla scacchiera). Queste pratiche sono ciò che fonda la possibilità dell’esistenza sociale, e
devono poter esistere all’interno di un contesto rappresentativo più amp io.
Una cultura non può essere messa al riparo da influenze esterne e studiata in laboratorio: i criteri della verifica e della
misurazione, tipici delle scienze della natura, non valgono nel caso delle scienze umane. Nel caso dell’antropologia,
osservatore ed osservato sono calati nella stessa situazione (l’incontro etnografico), quindi sono in una relazione di
influenza reciproca per quanto riguarda l’elaborazione di teorie sulla cultura che viene studiata. Il contesto significante,
dato dall’interazione tra antropologo ed informatore, è un dato assolutamente primario da cui non è possibile
prescindere se non al prezzo di gravi distorsioni. La considerazione centrale è che sia l’oggetto della ricerca che gli
strumenti di essa appartengono entrambi allo stesso contesto: il mondo dell’uomo, animale simbolico ed interpretativo.
Cultura come testo, descrizione densa e punto di vista del nativo: Geertz
L’idea di una cultura come testo è il punto nodale del lavoro teorico di Geertz, il caposcuola dell’antropologia
interpretativa ed una delle figure di maggior rilievo dell’antropologia contemporanea: i suoi studi sul campo lo hanno
portato ai punti estremi del mondo musulmano, Indonesia e Marocco.
Non esiste nulla di più ostico della spiegazione della teoria interpretativa della cultura.

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