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1. Introduzione
Gli episodi di protesta accaduti nel 2005 in Francia e nel 2006 in America sembrano non avere alcuna relazione, ma in entrambi i casi si tratta di
rivendicazioni messe in atto da giovani con esperienze di migrazione alle spalle, che lamentano discriminazione e alto tasso di disoccupazione. In ambedue i
casi le proteste si scagliavano contro il senso di esclusione provato da questi giovani nei confronti della società in cui erano cresciuti, e spesso anche nati. Le
categorie più giovani della società si differenziano notevolmente da quelle più anziane e, a causa della migrazione internazionale, nelle giovani generazioni
queste differenze sono ancora più marcate. In seguito, tali episodi si sarebbero verificati in molte altre regioni, anche di recente immigrazione, come
l’Olanda, l’Oceania ed Emirati Arabi.
- Le sfide della migrazione globale
La migrazione internazionale sta diventando la protagonista dei più rilevanti eventi mondiali. L’uomo si è sempre mosso alla ricerca di nuove opportunità,
oppure per sfuggire all’indigenza, alle guerre o al degrado ambientale, ma a partire dal XVI secolo la migrazione ha assunto un aspetto nuovo, sino al XIX
secolo e la Prima Guerra mondiale quando si può parlare di vere e proprie migrazioni di massa tra Europa e America del Nord. Una delle sfide lanciate
dall’era delle migrazioni coinvolge la sovranità nazionale, ossia l’idea che il governo di uno stato-nazione costituisca l’autorità assoluta per la quale nessun
potere esterno ha diritto di intervenire e contrastarne l’esercizio. Un’altra sfida è data dal transnazionalismo, ossia man mano che spostarsi diventa più
semplice e che le persone acquistano un livello più alto di mobilità, si instaurano importanti e duraturi rapporti politici, economici e sociali tra più società
contemporaneamente, mettendo a repentaglio la lealtà degli stati-nazione. Negli ultimi anni la caratteristica distintiva è stata la portata mondiale dei flussi
migratori, il ruolo centrale nelle politiche interne e internazionali e le loro conseguenze profonde in campo economico e sociale. L’aumento di società e
politiche transnazionali può aiutare a superare la violenza e la distruttività che hanno contrassegnato l’epoca del nazionalismo, anche se a volte è facile
accostare la migrazione internazionale al conflitto. Dopo i fatti dell’11 settembre 2001, la percezione della minaccia alla sicurezza nazionale viene sempre
più messa in relazione con la migrazione internazionale e con i problemi che nascono quando una società è composta da gruppi etnici culturalmente diversi.
L’industrializzazione produce posti di lavoro ma l’inurbamento massiccio eccede la creazione degli impieghi e quindi coloro che sono emigrati dalle
campagne alle città emigrano nuovamente in paesi di recente industrializzazione o maggiormente sviluppati. Anche la classe sociale e le qualifiche
professionali diventano fonte di discriminazione per i meno specializzati e più poveri. Molti motivi fanno pensare che la migrazione durerà a lungo: è molto
probabile che le crescenti disuguaglianze economiche tra Nord e Sud del mondo obblighino sempre più persone a spostarsi alla ricerca di migliori livelli di
vita, infatti sebbene i migranti affrontino condizioni difficili, ciò è preferibile alla povertà, all’insicurezza e alla mancanza di opportunità. Molti di coloro
che si spostano sono di fatto migranti forzati che fuggono da persecuzione, violenza politico-etnica, progetti di sviluppo o disastri naturali. La diminuzione
del numero di rifugiati va di pari passo con la riluttanza dei governi ad accoglierli, facendo così aumentare il numero degli sfollati interni.
- Migrazioni contemporanee: tendenze generali
La migrazione internazionale fa parte di una rivoluzione transnazionale che sta ridisegnando le società e la politica in tutto il mondo: aree come stati
Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda o Argentina sono considerate “zone d’immigrazione classica”; dopo il ’45 l’Europa è diventata una regione
d’immigrazione lavorativa, con successivo insediamento; l’area composta dagli stati dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente (MENA) è interessata da
movimenti molto particolari. In Africa, invece, il colonialismo e l’insediamento bianco hanno portato alla creazione di sistemi di manodopera migrante per
lavorare nelle piantagioni o nelle miniere. È possibile riconoscere certe tendenze generali: globalizzazione, i paesi d’immigrazione si distinguono per la
presenza di ingressi da più paesi del mondo; accelerazione, regioni i cui il volume dei movimenti internazionali sta aumentando, incalzando i governi ad
adottare politiche urgenti e controverse come i rimpatri; differenziazione, che comprende diverse tipologie di migrazione; femminilizzazione, ossia
l’importanza delle donne in ogni flusso e in ogni regione interessata; maggiore politicizzazione, incide sempre in maggior misura su politiche interne,
rapporti bilaterali e regionali tra stati; proliferazione della transizione migratoria, si invertono le direzioni dei flussi.
- Migrazione internazionale e governante globale
Lo sviluppo di una società transnazionale ha dato origine a questioni e problemi inediti e ha confuso le sfere d’influenza e le capacità decisionali. Come
risultato, i provvedimenti presi nell’ambito della gestione politica sono interpretati come governance globale. Fino a qualche tempo fa, la migrazione
internazionale non era tra le questioni politiche più rilevanti; tuttavia, quando alla fine degli anni Ottanta gli stati UE rimossero i confini interni,
cominciarono a preoccuparsi di rafforzare quelli esterni in modo da prevenire ogni afflusso dal Sud e dall’Est. Sebbene con la globalizzazione si siano
rafforzate le istituzioni mondiali, attraverso organismi nel campo del commercio, della finanza e dello sviluppo economico, la volontà di cooperare non è
stata rinnovata. La questione chiave sta infatti nella riluttanza dimostrata dai paesi importatori di manodopera ad applicare i diritti dei migranti e a
concedere privilegi che potrebbero migliorare le condizioni nei paesi d’origine, ma che farebbero lievitare i costi. Tuttavia non mancano i segnali di
cambiamento, come l’istituzione nel 2003 da part dell’allora Segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan, della Commissione Mondiale sulle Migrazioni
Internazionali, formata da figure di spicco che si affidavano ai consigli di alcuni esperti nel campo della migrazione.
- Diversità etnica, razzismo e multiculturalismo
L’altra questione centrale che scaturisce dai movimenti di popolazione in epoca contemporanea sono gli effetti che la crescente diversità etnica sta avendo
sulle società dei paesi d’immigrazione, in termini di comportamenti culturali, ghettizzazione professionale e sociale e status giuridico di non-cittadino o
straniero, oltre alle più o meno evidenti differenze fisiche. La percezione a livello sociale cambia a seconda del paese di immigrazione a dalle popolazioni che
il paese riceve, poiché non tutte sono considerate assimilabili o integrabili, e molti paesi d’immigrazione non si riconoscono come tali e rifiutano residenza
permanente o cittadinanza. Tali stati si oppongono anche al pluralismo, quale minaccia per l’unità e identità dello stato-nazione, producendo minoranze
etniche emarginate; altre volte si accetta la residenza ma richiedono l’assimilazione culturale dell’individuo in cambio dei suoi diritti e della cittadinanza. Il
razzismo non è pericoloso solo per gli immigrati, ma anche per le istituzioni democratiche e l’ordine sociale. Per questo, l’analisi delle cause e degli effetti del
razzismo deve diventare argomento centrale nel dibattito sulla migrazione internazionale. Ad ogni modo, essa non crea sempre differenze: gli inglesi in
Australia e gli austriaci in Germania sono quasi indistinguibili dalla popolazione locale e i professionisti transitori non sono visti come una minaccia.
Infine, i paesi che concedono la cittadinanza senza assimilazione culturale riescono a far fronte alla diversità culturale, mentre gli altri propendono per
politiche discriminatorie ed emarginatorie degli immigrati.
2. Teorie della migrazione
Il ragionamento centrale è che la migrazione e l’insediamento sono strettamente correlati ad altre connessioni economiche, politiche
e culturali, che si formano tra diversi paesi in un processo di globalizzazione in acceleramento. L’immigrazione internazionale deve essere considerata parte
integrante degli sviluppi del mondo contemporaneo. È probabile che, negli anni a venire, aumenti di volume, a causa delle forti pressioni per un’integrazione
globale senza sosta.
- Illustrare i processi migratori
I processi migratori sono stati illustrati mediante diverse teorie. Una di queste è la teoria neoclassica, o in generale le teorie dette push-pull, poiché
percepiscono le cause della migrazione in una combinazione di “fattori di espulsione”, che spingono le persone a lasciare la loro zona d’origine, e di “fattori
d’attrazione”, che richiamano i migranti verso un particolare paese d’approdo. Il concetto principale su cui si basa è il “capitale umano”: le persone
investono nell’immigrazione, allo stesso modo di come potrebbero investire nell’istruzione o nella formazione professionale, migrando solo nel caso in cui la
percentuale di guadagno prevista dai migliori stipendi nel paese di destinazione superi le spese sostenute per migrare. Per questo, Borjas propone il modello
di un “mercato dell’immigrazione”. Le teorie neoclassiche della migrazione sono state bersaglio di critiche, poiché non sono in grado di spiegare i movimenti
reali o di predire quelli futuri. Al contrario, la teoria del mercato del lavoro segmentato si concentra sulla parte della domanda, sottolineando che la
migrazione è messa in moto da fattori strutturali propri delle economie capitaliste moderne. È probabile che la forte domanda di manodopera non
specializzata metta a repentaglio le politiche atte a incrementare il controllo alle frontiere, sviluppando un mercato nero della manodopera migratoria e
offrendo maggiori opportunità ai trafficanti di persone e alle agenzie di reclutamento. I governi potrebbero contrastare la migrazione clandestina solo
attraverso misure che cambino in profondità i mercati del lavoro, togliendo gli incentivi all’assunzione di lavoratori di questo tipo. La teoria migratoria di
Massey sostiene che le varie teorie economiche operano a diversi livelli di analisi e si concentrano su aspetti migratori diversi, ma che tutti forniscono
preziosi giudizi per comprendere la migrazione. Tuttavia, essa necessita un’indagine più ampia, considerando il ruolo decisivo degli stati nel mettere in
moto, controllare e plasmare gli spostamenti. Poiché le migrazioni sono un fenomeno collettivo, dovrebbero essere prese in esame come sottoinsiemi di un
sistema economico globale e politico in espansione. Le descrizioni storico-istituzionali volgono lo sguardo al reclutamento massiccio di manodopera.
L’analisi affonda le radici intellettuali nell’economia politica marxista, in particolare nella teoria della dipendenza, secondo cui il sottosviluppo dei paesi
del Terzo Mondo era dovuto allo sfruttamento delle risorse del colonialismo e nel periodo post-coloniale ciò era esasperato da accordi ingiusti con i paesi più
sviluppati. Negli anni Settanta e Ottanta si affermò la teoria più esatta del sistema-mondo, secondo cui la penetrazione di imprese multinazionali nelle
economie meno sviluppate accelerò il cambiamento delle campagne, causando povertà, spostamento di lavoratori, inurbamento rapido e la nascita di
economie informali. Inoltre, la migrazione contribuì a rafforzare gli effetti che l’egemonia militare e il controllo del mercato globale e degli investimenti
provocavano nel mantenere il Terzo Mondo in totale dipendenza dal Primo. Queste teorie possono essere considerate le anticipatrici delle teorie della
globalizzazione che si diffusero negli anni Novanta.
- Sistemi e reti migratorie: la tendenza a un approccio interdisciplinare
Una seconda argomentazione è che il processo migratorio possiede certe dinamiche interne che si fondano sulle reti sociali. Queste dinamiche possono portare
a sviluppi non previsti inizialmente né dagli stessi migranti né dagli stati in questione, come l’insediamento di una fetta significativa dei migranti e la
formazione di comunità etniche o minoranze nel nuovo paese. Un sistema migratorio è costituito da due o più paesi tra i quali esistono flussi di migranti.
La teoria dei sistemi migratori suggerisce l’esistenza di tali movimenti in virtù di collegamenti precedenti basati su colonizzazione, influenza politica,
commercio, investimenti o legami culturali. Il principio di base dei sistemi migratori è che ciascun movimento di migranti può essere conseguenza di macro e
micro strutture che interagiscono tra loro. Le macrostrutture racchiudono l’economia politica del mercato globale, i rapporti tra gli stati e le leggi, le
strutture e le prassi stabilite dagli stati di origine e di destinazione. Invece, le microstrutture sono le reti sociali informali create dagli stessi migranti, al fine
di far fronte alla migrazione e all’insediamento (catena migratoria, capitale culturale e sociale, famiglia e comunità). Gruppi di migranti costruiscono le
proprie infrastrutture socio-economiche: luoghi di culto, associazioni, negozi, bar, studi professionali e altri servizi; il che si collega al ricongiungimento
familiare. Per ultimo, le mesostrutture intermedie, ovvero mediatori tra i migranti e le istituzioni politico-economiche, che possono aiutare come sfruttare i
migranti come agenzie, avvocati, organizzazioni che reperiscono risorse umane ma anche trafficanti (industria della migrazione, King privatizzazione della
migrazione).
- Dalla migrazione all’insediamento
La terza questione è che un numero sempre crescente di migranti internazionali non si muove solo da una società a un’altra, ma mantiene legami ricorrenti e
importanti in due o più luoghi, formando comunità transnazionali che vivono tra i confini. Il transnazionalismo è in grado di estendere le relazioni faccia a
faccia delle comunità, basate su consanguineità, vicinato o stesso posto di lavoro, a vaste comunità virtuali, che comunicano a distanza. Fanno distinzione
tra transnazionalismo dall’alto (compiuto da potenti attori istituzionali) transnazionalismo dal basso (attività che sono il risultato di iniziative scaturite
dalla base degli immigrati e delle loro controparti). Glick-Schiller suggerisce il termine transmigrante per identificare le persone che intervengono nelle
comunità transnazionali basate sulla migrazione, tuttavia molti credono che tali definizioni non lascino spazio a precisazioni sui comportamenti e
coscienza transnazionale. Questo andamento è reso più semplice dalla globalizzazione: da un lato, attraverso il miglioramento sia dei trasporti, sia delle
tecnologie nel campo della comunicazione; dall’altro, tramite la diffusione di valori culturali globali. In questo momento, le comunità transnazionali
comprendono solo una minoranza di migranti, ma a lungo termine potrebbero incidere in modo profondo sull’identità sociale e le istituzioni politiche sia dei
paesi riceventi che di quelli di origine. Non si può negare che il transnazionalismo meriti ricerche e approfondimenti futuri, tuttavia le sue definizioni
risultano ad oggi inflazionate.
- La formazione delle minoranze etniche
Il quarto ragionamento riguarda la natura delle minoranze etniche e il processo che dà loro vita. La negazione della realtà dell’insediamento, il rifiuto della
cittadinanza e dei diritti per gli immigrati residenti, oltre al rigetto della diversità culturale, può dare vita a minoranze etniche. Per minoranza etnica
s’intende un gruppo: al quale è stata assegnata una posizione subordinata nella società per mano dei gruppi dominanti sulla base di origine o cultura, e che
possiede un certo grado di coscienza collettiva basata sull’idea di lingua, tradizioni, religione, storia ed esperienze comuni. La maggior parte delle minoranze
è creata dalla combinazione di eterodefinizioni e autodefinizioni. L’eterodefinizione fa riferimento a varie forme di esclusione e discriminazione (o
razzismo). L’autodefinizione possiede un carattere doppio. Da una parte include l’affermazione e la ricreazione dell’identità etnica, fondata su simboli e
usanze culturali precedenti la migrazione. Dall’altra include la mobilitazione politica contro l’esclusione e la discriminazione, impiegando le usanze e i
simboli culturali in modo strumentale. Quando l’insediamento e la formazione di minoranze etniche si svolgono contemporaneamente a una crisi socio-
economica diventano politicizzate. Questioni di cultura, identità e comunità possono assumere grande importanza per la società ricevente nel suo insieme.
Per individuare le origini dell’etnia, che nel linguaggio comune designa un gruppo di minoranza ma che invece accomuna tutti gruppi culturali, sono sorti
approcci diversi: quello primordialista, che considera la conformità di sangue, lingua e usanze sociali pertanto definisce l’etnia come qualcosa con cui si
nasce; quello situazionale, secondo cui un gruppo invoca l’etnia in una situazione particolare in cui tale identificazione è vantaggiosa; quello strumentale,
secondo cui le caratteristiche fenotipiche e culturali sono impiegate per rafforzare la solidarietà all’interno del gruppo, e ci si serve di tali marcatori in virtù
di una scelta strategica arbitraria. Alcuni studiosi rifiutano del tutto l’idea di etnia, liquidandola come un mito o una nostalgia, incapace di sopravvivere
alle forze razionali dell’integrazione socio-economica tipiche della società industriale su larga scala. Gli indicatori visibili (colore della pelle, lingua,
comportamento) possono essere sfruttati da altri gruppi per l’esclusione, e ciò conduce al razzismo. Bisogna dire che la nozione di razza è stata
scientificamente confutata, poiché l’uomo appartiene ad un’unica razza umana, pertanto la razza è una costruzione sociale prodotta dal razzismo. Si
tratta di una chiusura sociale (Weber) in base al quale un gruppo di prestigio stabilisce norme e pratiche con l’obiettivo di escludere gli altri, in modo da
ottenere un vantaggio competitivo. Il potere del gruppo dominante è appoggiato dallo sviluppo di strutture, come leggi e politiche, che escludono o
discriminano il gruppo dominato (razzismo strutturale o istituzionale). Atteggiamenti razzisti o discriminatori messi in atto dai membri del gruppo
costituiscono il razzismo informale, mentre il termine razializzazione viene utilizzato per descrivere l’idea comune che certe caratteristiche fisiche o
culturali siano la “causa naturale” di un insieme di problemi sociali o politici (razializzazione della politica, dello spazio urbano…). I motivi deil recente
aumento di episodi razzisti giacciono nei fondamentali cambiamenti economici e sociali che mettono in dubbio la visione ottimista del progresso incarnata
dal pensiero occidentale. Poiché tali cambiamenti sono accaduti in concomitanza del’arrivo delle nuove minoranze etniche, l’inclinazione è stata percepire i
nuovi arrivati come la causa delle trasformazioni incombenti, visione incoraggiata da destra estrema e politici in auge. Il declino dei partiti della classe
operaia e dei sindacati, assieme all’erosione delle reti comunicative locali, ha aperto uno spiraglio in cui il razzismo si è inserito in maniera consistente e
virulenta. Vi sono altri aspetti della differenziazione sociale, ovvero forme di standardizzazione sociale ed esclusione quali classe sociale, sesso e posizione
nel ciclo vitale. Oggi la migrazione internazionale è legata alla dinamiche di forza lavoro e classe sociale, che incidono sulle opportunità di migrazione e
sulle condizioni per le quali le persone si spostano e trovano lavoro. Sebbene le donne, sin dagli inizi della migrazione, abbiano assunto un ruolo
fondamentale per i benefici economici della migrazione lavorativa, esse potevano ricevere stipendi più bassi ed essere controllate con facilità dagli uomini in
virtù del loro ruolo di dipendenza dal marito all’interno dell’ambiente familiare. Negli ultimi anni, sembra che le donne abbiano raggiunto posizioni
lavorative di maggior livello, ma devono comunque fronteggiare precarizzazione del lavoro e disoccupazione crescente. Gli ultimi studi sul femminismo
guardano alla migrazione femminile come una possibile chance per le donne di ottenere maggior controllo sulla propria vita, e ciò spiegherebbe la riluttanza
a tornare nei paesi d’origine. Le donne hanno anche il ruolo chiave di tramandare ai giovani la lingua e i simboli culturali. Il ruolo del sesso nella chiusura
etnica è evidente nelle regole migratorie: gli uomini sono tuttora i migranti principali, mentre le donne e i figli sono solo “persone a carico”, che ancora oggi
in molti paesi non hanno diritto a residenza e potrebbero rischiare l’espulsione se divorziano. Gli stadi del ciclo vitale sono dei fattori altrettanto importanti
nel determinare la posizione economica e sociale, la cultura e la coscienza. Spesso, esiste un abisso tra le esperienze della generazione migrante e quelle dei
loro figli, che sono cresciuti e hanno frequentato la scuola nel nuovo paese. Essi sono considerati come una bomba a orologeria sociale o una minaccia
all’ordine pubblico, che deve essere contenuta per mezzo di istituzioni di controllo sociale come polizia, scuola e sistema burocratico. Per le minoranza
etniche, la cultura ha un compito chiave, poiché da un lato è fonte d’identità, e dall’altro fornisce una barriera per resistere all’esclusione e
all’emarginazione. Esse si riadattano di continuo in base alle necessità e alle esperienze del gruppo e alle sue interazioni con l’ambiente sociale del momento.
Una regressione nel fondamentalismo religioso, può scaturire proprio da una forma di modernizzazione subita in maniera discriminatoria, sfruttatrice e
distruttiva dell’identità nazionale. In tutti i paesi d’immigrazione è facile assistere ad una crescente politicizzazione della cultura.
- Stato e nazione
L’ultima questione si concentra sul significato di migrazione per lo stato nazionale. Sembra sempre più probabile che una maggiore diversità etnica
contribuirà a cambiare le istituzioni politiche centrali, come la cittadinanza, potendo incidere anche sulla stessa natura dello stato-nazione. Lo stato
nazionale si trova davanti a un dilemma, rappresentato dall’immigrazione di persone diverse da l punto di vista culturale: l’incorporazione dei nuovi
arrivati come cittadini può erodere il mito di omogeneità culturale; tuttavia, fallire nel loro inserimento potrebbe far nascere società divise, contraddistinte
da gravi disuguaglianze e dissidi. Mettendo insieme le definizioni che Anderson, Seton-Watson e Smith danno di “nazione”, si può affermare che essa è un
sistema di credenze, basato su legami culturali e sentimenti collettivi che trasmettono un senso d’identità e di appartenenza che può prendere il nome di
coscienza nazionale. Essa si collega al principio di democrazia, secondo cui ogni persona facente parte di tale comunità possiede lo stesso diritto di
partecipare alla formulazione del volere politico. Le ideologie nazionaliste portano all’idea che ogni gruppo etnico dovrebbe costituire di per sé una nazione,
ma di fatto di rado si è raggiunta una tale coerenza all’interno di una stato, e il tentativo di consolidare lo stato-nazione può comportare esclusione,
assimilazione ma anche genocidio dei gruppi minoritari. Per i nazionalisti, un gruppo etnico è una nazione potenziale che non ha ancora il controllo su un
territorio o che non possiede uno stato proprio, e da qui nasce il timore dei ghetti. Gli stati dei paesi d’immigrazione sono stati costretti a concepire politiche
e istituzioni per dare una risposta ai problemi che comporta l’aumento della diversità etnica. Le questioni centrali sono: chi è cittadino; cosa significa
cittadinanza. Pr cittadinanza s’intende l’uguaglianza di diritti per tutti i cittadini all’interno di una comunità politica, così come una serie di corrispettive
istituzioni che facciano da garanzia di questi diritti. Tuttavia, l’uguaglianza formale di rado porta alla parità effettiva, infatti il cittadino è stato in genere
definito in base alla cultura, ai valori e agli interessi del gruppo maggioritario. La prima preoccupazione degli immigrati è come ottenerla, in modo da
raggiungere uno status giuridico uguale, almeno sulla carta, a quello degli altri residenti. Vi sono diversi tipi ideali di cittadinanza, tutti basati
sull’appartenenza ad uno stato-nazione: il modello imperiale, ossia i cittadini sono tutti i sudditi di un re o di un potere (Regno Unito sino all’81, ex
Unione Sovietica); il modello tradizionale o etnico, si basa sull’etnia, escludendo le minoranze da cittadinanza e comunità nazionale (Germania sino al
2000); il modello repubblicano, definizione di nazione come comunità politica basata su costituzione, diritto e cittadinanza, che ammette nuovi arrivati
purché aderiscano a norme politiche e cultura nazionale (Francia); il modello multiculturale, come quello repubblicano ma qui non è necessario aderire alle
norma culturali ma si possono mantenere quelle d’origine e formare comunità etniche, purché si aderisca alle norme politiche (anni ’70-’80 in Australia,
Canada e Svezia). In futuro, potremmo trovarci di fronte ad un nuovo tipo ideale di cittadinanza, ossia quello transnazionale, con forme di appartenenza
multiple e differenziate. La sopravvivenza della democrazia può dipendere dalla scoperta di nuove vie d’inclusione delle persone con multiple identità in
una serie di comunità politiche. Inoltre, la distinzione tra cittadini e non-cittadini sta diventando sempre meno precisa. Gli immigrati che hanno risieduto
regolarmente in un paese per molti anni sono spesso in grado di ottenere uno status giuridico speciale, una “quasi-cittadinanza”, che testimonia l’evoluzione
di diritti umani internazionali uniformi. Il trattato di Maastrict del 1994 stabilì la cittadinanza dell’UE, che garantiva libertà di circolazione e di
residenza nel territorio degli stati membri, diritti di voto e candidatura nelle elezioni locali e per quelle del Parlamento Europeo nello stato di residenza,
protezione diplomatica da parte di qualsiasi console di qualunque stato dell’UE in un paese terzo. Tuttavia non è possibile la candidatura in parlamento
nazionale, l’accesso all’impiego pubblico e la dipendenza dalla previdenza sociale. Nel 1997 il trattato di Amsterdam stabilì la competenza comunitaria
nelle aree di migrazione e asilo, e gli stati UE adottarono norme comuni per il trattamento dei richiedenti asilo e dei migranti, sebbene l’attuazione sia
lasciata al libero arbitrio di ciascuno stato. Per questo, le norme sono state cambiate spesso negli ultimi 40-50 anni; sempre più paesi accettano la doppia
cittadinanza, mentre ci sono opposizioni sulla cittadinanza per diritto di nascita o naturalizzazione (una sorta di cittadinanza transnazionale).
Queste conclusioni fanno comprendere l’urgenza politica delle questioni legate alla migrazione e alle minoranze etniche. I movimenti migratori degli ultimi
sessant’anni hanno provocato cambiamenti irreversibili in molti paesi. La migrazione continua causerà nuove trasformazioni, sia nelle società già coinvolte
sia in quei paesi che si accingono a entrare nell’arena della migrazione internazionale.
- Migrazione e sviluppo
La spiegazione più usata per illustrare questo cambiamento è la consapevolezza che, ad oggi, le rimesse sono la fonte principale di reddito esterno per molti
paesi, tanto da superare gli aiuti stranieri e persino gli investimenti diretti esteri (senza contare il 50% che avviene attraverso canali informali). Inoltre, le
rimesse sono una fonte affidabile di fondi che vanno subito alle famiglie e contribuiscono in modo diretto alla riduzione della povertà, a rilanciare gli
investimenti e a potenziare la produttività. Tale sviluppo economico può di conseguenza ridurre l’emigrazione. Tuttavia, dietro le rimesse come “mantra
dello sviluppo” (Kapur) si nasconde il fatto che i paesi sviluppati hanno un bisogno disperato di lavoratori, sia qualificati sia non qualificati, allo stesso
tempo i migranti provenienti dal sud del mondo, specie se non qualificati o richiedenti asilo, sono visti come un problema o una minaccia nei paesi del Nord.
Inoltre i policymakers vogliono controllare i movimenti migratori e massimizzarne i benefici. Il nuovo ragionamento su migrazione e sviluppo va aldilà delle
rimesse economiche, concentrandosi maggiormente su quelle sociali, ossia il trasferimento in patria di atteggiamenti e capacità utili allo sviluppo, una forma
di diffusione culturale che mette in relazione i cambiamenti globali in campo politico ed economico con le attività e gli atteggiamenti a livelli locale. Levitt
mette in guardia sull’impatto di tali rimesse, che può avere conseguenze sia positive che negative, come l’eco delle teorie di modernizzazione degli anni ‘50 e
‘60 per cui il trasferimento di valori “giusti” poteva far superare l’arretratezza dei paesi post-coloniali. Per giunta, i governi e le agenzie internazionali
premono affinché i migranti non qualificati tornino in patria e, allo stesso tempo, fanno di tutto per trattenere quelli specializzati, causando una fuga di
cervelli da paesi in via di sviluppo, perdita particolarmente seria nelle regioni con una densità molto bassa di personale medico qualificato rispetto alla
popolazione. Inoltre, alcuni migranti faticano a far riconoscere i propri titoli di studio all’estero o non riescono a trovare un lavoro proporzionato alle loro
qualifiche. La perdita di personale qualificato da parte dei paesi meno sviluppati può causare stagnazione economica, spreco di fondi pubblici investiti
nell’istruzione superiore e diminuzione delle entrate fiscali. Per tutte queste ragioni, la fuga di cervelli è diventata una questione politica di rilievo per i
governi dei paesi d’origine. Essi si pongono l’obiettivo di sostituire la nozione di fuga di cervelli con quella di aumento o circolazione di talenti, secondo cui
se le persone più qualificate non possono essere impiegate in patria, non provocano un danno all’economia andandosene. L’emigrazione è tuttavia un diritto,
per cui impedire alle persone di partire incoraggerebbero i tentativi illegali di lasciare il paese. Lo sviluppo di agenzie e organizzazioni internazionali fa
capire che è meglio incanalare la migrazione dei talenti in maniera positiva che cercare di reprimerla. Alcuni possibili suggerimenti includono: programmi di
miglioramento del sistema sanitario e delle condizioni dei lavoratori; programmi di coinvestimento di lavoratori tra paesi ricchi e poveri per modernizzare le
strutture educative, la formazione di questi ultimi e per mettere in atto progetti di lavoro temporaneo all’estero; maggiori investimenti nell’istruzione;
stabilire collegamenti transnazionali con gli immigrati per sfruttare le loro abilità e talenti. La migrazione di talenti comporta il trasferimento di capitale
umano dai paesi poveri a quelli ricchi, in un processo che di solito giova ai paesi importatori di lavoro e ostacola lo sviluppo dei paesi d’origine. Tuttavia,
questo fenomeno può essere trasformato in una circolazione mondiale di cervelli, in grado di avvantaggiare tutti, a condizione che i paesi di destinazione
cedano alcuni dei vantaggi economici di oggi e che i paesi d’origine trovino il modo di migliorare le condizioni lavorative e di vita delle persone specializzate,
affinché rimangano o ritornino in patria. Nonostante qualche segnale positivo, bisogna ad oggi dimostrare se ci sia di fatto una volontà tale da superare gli
interessi di entrambe le parti. L’ambivalenza riguardo alle politiche su migrazione e sviluppo è resa palese dal rinnovato entusiasmo verso la migrazione
temporanea (per qualche mese o anno), etichettata più positivamente come migrazione circolare. Il presupposto a tale migrazione è la libertà di circolazione
all’interno di comunità economiche regionali come l’UE, che non ha subito grandi variazioni al suo interno poiché è riuscita ad appianare le differenze
economiche tra gli stati membri. Negli anni Sessanta tale tipologia migratoria era la base del reclutamento di lavoratori ospiti in Germania e Olanda,
lavoratori a cui era impedito di portare con sé legalmente le proprie famiglie, per scoraggiarne l’insediamento permanente. Tuttavia essi lo fecero comunque, e
nacquero delle minoranze etniche. Si ritiene che la migrazione temporanea apporti più vantaggi per i paesi in via di sviluppo, ma in realtà essi trarrebbero
profitto da un’emigrazione di lavoratori non qualificati in eccesso e una temporanea di lavoratori qualificati. Invece, i paesi sviluppati hanno l’interesse
opposto, e alcuni datori di lavoro preferiscono manodopera clandestina perché più facile da sfruttare. Dall’11 settembre ci si è convinti che la migrazione
clandestina possa essere un problema per la sicurezza nazionale, e pertanto si sono cercate delle strategie per rimandare in patria lavoratori che dovevano
essere temporanei. Alcune strategie sono: far scadere il permesso di soggiorno dopo un periodo stabilito; far depositare ai datori di lavoro parte dello
stipendio dei migranti in libretti di risparmio accessibili solo una volta tornati in patria; l’acquisto imperativo di speciali obbligazioni. Un metodo del tutto
volontario sarebbe quello di utilizzare la modalità prevista dall’Accordo generale sul commercio dei servizi del WTO che prevede i “movimenti di persone
fisiche” per fornire servizi in altri paesi. Tali fornitori di servizi sarebbero parti autonome e potrebbero non essere considerati dalle leggi sul lavoro, mentre
invece le normative sulla migrazione verrebbero applicate. I critici di questo modello temono però sfruttamento, erosione degli stipendi e peggioramento della
condizione dei lavoratori. Un approccio molto più comune è quello del Governo italiano, che ha adottato un sistema di quote per l’ammissione legale di circa
quindici paesi, i cui governi hanno accettato di sottoscrivere accordi di riammissione che garantiscono l’accoglienza di persone espulse dall’Italia. Tutto
questo implica che la migrazione circolare è soprattutto uno stratagemma per legittimare un controllo più serrato alle frontiere e non sembra che essa possa
operare quei profondi cambiamenti necessari a fare della migrazione la forza motrice per lo sviluppo dei paesi d’origine. Nel passato, le diaspore erano
perlopiù sgradite, considerate dagli stati di origine come fonte di potenziale sovversione e di appoggio ai conflitti armati, sospetto che aumentava quando
erano il risultato di esili politici o fughe da guerra civili. Alcuni movimenti ribelli hanno tentato di controllare le diaspore per tassarne le rendite per
finanziare attività politiche e militari. Fino a poco tempo fa, si trattava di diaspore nate dall’iniziativa dei migranti stessi; oggi si parla di associazioni di
diaspore, che aiutano legalmente e materialmente i migranti e che formano un nucleo culturale. Alcune di esse assumono anche ruolo politico. Negli ultimi
vent’anni i paesi d’origine hanno cambiato atteggiamento; se prima erano spaventati e contrastavano le diaspore, adesso guardano ai migranti come “eroi
dello sviluppo” e cercano di incanalare le rimesse, abilità e conoscenza commerciale che defluiscono nella madrepatria. Anche gli stati che ricevono
migrazione sembrano essere indirizzati verso una politica di incoraggiamento della diaspora con l’intento di promuovere lo sviluppo dei paesi di
provenienza. Tuttavia, laddove i governi impiegano le proprie forze per rafforzare il controllo alle frontiere e ottenere accordi di riammissione, le
associazioni di migranti dubitano delle intenzioni dei programmi che affermano di sostenere le diaspore. Si è anche visto come le speranze che questi paesi
ripongono nel futuro progresso dei paesi d’origine delle migrazioni come fattore di riduzione delle stesse risultano fallaci (circolo virtuoso), poiché tale
ipotetico sviluppo porterebbe solo ad un aumento dei flussi, invece di una loro riduzione. Ciò è spiegato dal fatto che, per migrare, le persone hanno bisogno
di risorse, mentre gran parte dei paesi di emigrazione sono i più poveri. Per questo, si ha bisogno di politiche più ampie che affrontino il sottosviluppo e
l’uguaglianza, poiché le politiche migratorie da sole non bastano. Per quanto riguarda i paesi di provenienza, l’affidamento alle rimesse per finanziare lo
sviluppo può essere fuorviante, giacché la migrazione da sola non può provocarlo, a meno che essa sia affiancata da un miglioramento della governance,
dalla creazione di istituzioni efficaci, dalla costruzione di infrastrutture e dall’emergere di un clima favorevole all’investimento. Per tutti questi motivi è
errato interpretare la migrazione e lo sviluppo come fenomeni isolati da questioni più ampie di potere globale, ricchezza e disuguaglianza. La cooperazione
mondiale è vitale e ha bisogno di nuovi approcci che mettano da parte gli interessi nazionali a breve termine a favore di una cooperazione a lungo termine
tra paesi ricchi e poveri. Forme di migrazione più eque devono entrare a far parte delle strategie globali per lo sviluppo, messe in atto per ridurre la
disuguaglianza mondiale.
9. Migrazione e sicurezza
- Perché rispolverare il nesso tra migrazione internazionale e sicurezza?
Gli orrori della Seconda guerra mondiale screditarono la xenofobia dell’estrema destra e la percezione dei migranti come una minaccia alla sicurezza. In
effetti, la migrazione internazionale era spesso considerata un fenomeno economico in gran parte positivo, nonché temporaneo soprattutto nell’Europa
occidentale. La questione chiave nelle relazioni internazionali riguardava la pace e la guerra e sembrava che la migrazione internazionale non avesse peso
rilevante su nessuna delle due, per questo non si vedeva quasi nessun collegamento tra lo studio delle relazioni internazionali e la migrazione; tale
supposizione si modificò a seguito di studi compiuti negli anni ’70, quando le indagini sulla “bassa politica” inclusero anche i fenomeni transnazionali.
Negli anni ’80 l’accumulo di immigrati residenti unito ai richiedenti asilo e migranti non autorizzati portò alla “securizzazione” quelle questioni migratorie.
Allo stesso tempo, la lotta al terrorismo in alcuni stati divenne una priorità per la sicurezza. Durante gli anni ’90, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan
(PKK) e il gruppo Islamico Armato (GIA) minacciarono di sequestrare gli aerei e dirottarli contro alcuni obiettivi, anticipando i futuri attentati e la nuova
era della politica mondiale. Nell’era post-bellica sono state attenzionate le minacce alla sicurezza provenienti dagli stati, ma molto meno quelle degli attori
non statali. Gli analisti politici tardarono a capire in che modo i movimenti politici inclini all’uso di violenza e terrorismo potessero prosperare nelle
popolazioni migranti e sfollate. La mobilità internazionale è diventata un aspetto chiave dei conflitti asimmetrici tra stati-nazione avanzati e potenti e
movimenti ribelli. Al-Qaeda personifica tali minacce poiché costituisce una rete composta da migranti militanti arruolati in una guerra contro l’Occidente.
- Aspetti chiave del nesso tra migrazione internazionale e sicurezza
Laddove gli stati sono incapaci di creare sistemi di migrazione regolare per la manodopera necessaria, i migranti sono costretti a muoversi in condizioni di
estrema insicurezza, pericolo che viene dimenticato quando si parla di sicurezza nazionale. Questa insicurezza viene messa in relazione con le minacce
percepite, che sono di tre tipi: culturali, ossia che i popoli migranti siano un rischio per lo status quo culturale; socio-economiche, ossia la sensazione che le
popolazioni migranti siano un rischio per la società ed economia; politiche, ossia l’impressione che i migranti siano persone potenzialmente ostili e
sovversive. La migrazione internazionale incide sull’autonomia degli stati nazionali, sulla loro sovranità e sulla capacità di mettere in atto politiche
pubbliche e applicare le leggi; tuttavia, se essa favorisce la crescita economica, è anche vista come fattore fondamentale di benessere economico e come
possibilità di aumentare e non diminuire il potere di uno stato. Essa può contribuire a sviluppare il soft e lo smart power, ossia influire sulla reputazione
estera di uno stato con conseguenze a livello diplomatico. La migrazione internazionale ha avuto anche un considerevole impatto sulla natura instabile dei
conflitti violenti, fomentando gli scontri in tre modi: fornendo le risorse che alimentano i conflitti interni; favorendo le reti del crimine organizzato ;
facendo da conduttore per il terrorismo internazionale. Sebbene il pericolo per la sicurezza sia in una certa misura reale, bisogna dire che alcuni tipi di
migrazione e certe combinazioni di politiche pubbliche aumentano la sicurezza anziché indebolirla; è chiaro che alcuni stati europei stanno cedendo parte
della propria autonomia al fine di conservare una migliore capacità di regolare la circolazione di beni, persone e idee tra le frontiere.
- Mussulmani immigrati o di origine immigratoria e la sicurezza transatlantica
Dall’11 settembre la questione dei migranti mussulmani e dei loro figli nelle democrazie occidentali è divenuta di primaria importanza a livello
geostrategico. Prima del 2001 molti accademici avevano studiato a fondo questi migranti, in gran parte immigrati nell’area transatlantica nel secondo
dopoguerra e i loro figli. La Francia fa eccezione perché la Terza Repubblica comprendeva l’Algeria e dopo l’indipendenza nel ’62 molti algerini che
vivevano nel paese conservarono la cittadinanza e gli harkis, truppe francesi di origine mussulmana vi si recarono per evitare rappresaglie. Molti algerini
mussulmani si insediarono dunque in modo permanente nella Francia metropolitana, ma furono visti come una minaccia per tutto il periodo tra le due
guerre. Nel resto d’Europa, si supponeva che i migranti di origine mussulmana fossero lavoratori ospiti e stagionali, che sarebbero poi rimpatriati, tranne nel
Regno Unito, che consentiva l’insediamento di pakistani e indiani. In genere sino agli anni ’70 il fondamentalismo islamico non era percepito come una
grossa minaccia, cosa che cambiò dopo la Rivoluzione islamica in Iran nel ’79, il cui fondamentalismo ribattezzò altri governi arabi che stavano operando
riforme secolari come “il nemico vicino”, da rovesciare e sostituire con governi apertamente islamici. Di conseguenza, negli anni ’80 il problema riguardò
anche l’area transatlantica in molti modi. La guerra in Afghanistan tra l’Unione Sovietica e i suoi alleati afghani e i mujaheddin (patrioti afghani) iniziò
ad attrarre volontari mussulmani non afghani (preludio di Al-Qaeda). Una coalizione di stati guidati dagli USA armò e aiutò i mujaheddin, dopo la
sconfitta dell’URSS e dei suoi alleati, il servizio di intelligence pakistano creò i talebani, che selezionavano reclute tra i rifugiati afghani in Pakistan, e nel
’96 avevano preso il controllo di gran parte del paese. Gli esecutori degli attacchi al World Trade Center del ‘3 erano in gran parte immigrati arabi negli
Stati Uniti; una serie di commissioni federali misero in guardia sui possibili rischi ma l’avvertimento rimase inascoltato e, in seguito all’invasione dell’Iraq
da parte degli USA molti mussulmani si offrirono per combattere gli Stati Uniti in Iraq, dopo aver ricevuto addestramento militare nei campi nel MENA.
Gli attacchi terroristici sventati in tutta Europa forniscono ragioni valide di preoccupazione sulla presenza mussulmana nel continente., tuttavia c’è da dire
che la prevalenza delle prove dimostra che il fondamentalismo in stile Al-Qaeda non è un’attrattiva per la maggior parte de mussulmani dell’area
transatlantica, dal momento che sono più istruiti di quelli presenti in Europa. La composizione di questi ultimi è molto eterogenea e molti tardano ad
inserirsi. Tuttavia, la migliore analisi di queste popolazioni migranti è stata compiuta da Tribalat in Francia, dove si è registrato l’uso diffuso del francese e
progressiva diminuzione dell’arabo, un calo dei tradizionali matrimoni combinati a favore di quelli misti e prassi sociali più legate ai cittadini francesi. I
punti problematici erano il tasso alto di disoccupazione, il senso di discriminazione e l’istruzione. Questa visione, sebbene renda palese il pericolo di
generalizzazione rispetto all’eterogeneità delle popolazioni del MENA, va d’accordo con gran parte dei giudizi di altri scienziati sociali. I testi che
suppongono l’esistenza di una predisposizione di questi popoli alla mobilitazione di stampo terroristico, sembrano basarsi inadeguatamente sulla letteratura
sociale scientifica sull’inserimento dei migranti. La minaccia alla sicurezza più importante del XXI secolo per i paesi sviluppati è il disordine che scaturisce
dal fallimento o dalla crisi di molti stati non sviluppati. La chiave per il successo di qualsiasi strategia antiterroristica è saper riconoscere chi è il nemico e
chi non lo è. La grande maggioranza dei migranti non deve essere interpretata come l’avversario e riuscire ad inserirla nei paesi occidentali deve essere un
imperativo geostrategico della guerra al terrorismo.
- Migrazione, sicurezza e la Guerra al Terrorismo
La Guerra al Terrorismo, così battezzata da Bush, è una definizione che comporta un’esagerazione ponderata e una semplificazione fuorviante; dopo aver a
lungo ignorato la minaccia di Al-Qaeda, l’amministrazione le dichiarò guerra comparandola al secondo conflitto mondiale, commettendo un errore classico di
controterrorismo, non riconoscendo il nemico e reagendo in modo eccessivo. Essa fuse insieme minacce terroristiche globali che non avevano nulla in comune
tra loro e mise in relazione Al-Qaeda con il governo iracheno servendosene, insieme alla supposta presenza di armi di distruzione di massa, per invadere lo
stato. L’invasione si dimostrò controproducente e non servì a raggiungere l’obiettivo. Inoltre, rimane una priorità soppesare con cura la minaccia
rappresentata da Al-Qaeda e dai suoi alleati, il cui uso di violenza è condannato da gran parte dei gruppi fondamentalismi islamici e non ha niente a che
vedere con l’Hezbollah libanese o Hamas in Palestina. Il fallimento della guerra contro il “nemico vicino” ha portato molti fondamentalisti islamici a
moderare le loro politiche e rinunciare alla lotta armata, anche perché le insurrezioni mussulmane del periodo ’70-2000 furono tutte sconfitte.
10. Migranti e minoranza nella forza lavoro
Gran parte dei migranti dei paesi dell’OCSE non si spostano per ragioni esclusivamente economiche; infatti, la categoria più grande delle entrate in molti
paesi è il ricongiungimento familiare. Inoltre, numerosi migranti arrivano per cercare un rifugio da guerra e persecuzione, altri ancora per migliorare la
propria istruzione.
- Domanda di manodopera nelle economie avanzate
I paesi poveri possiedono troppi lavoratori giovani e le loro deboli economie non riescono a trovare un impiego per tutti, perciò hanno bisogno di esportare
lavoratori in eccesso. I fattori storici ed economici che stimolano l’immigrazione nel Nord del mondo sono innanzitutto il bisogno di manodopera non
qualificata e la necessità di migliorare l’efficienza del mercato del lavoro dal momento che alcuni lavori sono evitati dai nativi, poiché offrono salari,
condizioni e status miseri. Questo è il motivo del perché sin dagli anni ’70 certi tipi di lavoro sono stati trasferiti al Sud di recente industrializzazione, in
forma di “delocalizzazioni” o “esternalizzazioni”. Nei paesi di destinazione le politiche governative hanno soddisfatto tale domanda di manodopera tramite
la creazione di sistemi di assunzione e gestione del lavoro straniero regolare permettendo anche, con tatto, quello irregolare. I governi credevano che non
avrebbero più avuto bisogno, in futuro, dei lavoratori migranti non qualificati e quindi per tutti gli anni ’90 le politiche di immigrazione lavorativa
migrante rimasero piuttosto restrittive. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una graduale variazione dei pareri ufficiali; questo cambiamento è dato dalla
comprensione che i paesi sviluppati non erano in grado di esportare tutti i lavori non qualificati in paesi con manodopera a basso costo e che il tasso di
natalità totale era precipitato, ancor di più quello della popolazione in età lavorativa. Nel breve e medio termine la migrazione lavorativa può contribuire
positivamente a contrastare gli effetti dell’evoluzione demografica e si dimostrerà fondamentale per soddisfare i bisogni attuali e futuri del mercato del
lavoro assicurando, quindi. Sostenibilità e crescita economica. Se vi saranno meno giovani, pretenderanno migliori opportunità educative e non accetteranno
lavori poco qualificati; oggi in Europa potrebbero diminuire gli esperti dei lavori manuali industriali e agricoli e ci potrebbe essere una crescente domanda di
lavoratori nel campo dei servizi domestici e assistenziali.
Nel periodo ’95-’05 la crescita economica nei paesi dell’OCSE ha portato ad una forte domanda di manodopera; i migranti costituivano da un terzo a due
terzi dei nuovi dipendenti di Europa occidentale e meridionale, anche perché fattori demografici ridussero il numero di lavoratori nazionali rendendo ancora
più indispensabili quelli migranti, che spesso portano con sé abilità. Difatti, il vecchio stereotipo del migrante senza qualifiche è ormai superato anzi, spesso
essi sono in possesso di qualificazioni più alte rispetto ai locali, a parte nell’Europa meridionale, dove comunque vengono preferiti ai locali perché più
disposti a scendere a compromessi e perché più motivati.
- Migranti nel mercato del lavoro
Per quanto riguarda la distribuzione settoriale, negli anni ’70 i lavori più consueti per i migranti erano quelli manuali nelle fabbriche o nei cantieri, oppure
nei servizi di pulizia delle strade e raccolta rifiuti (era possibile trovare anche donne). Oggi i migranti si trovano trasversalmente in tutta l’economia,
sebbene prevalentemente nell’industria e nell’edilizia di molti paesi. In merito alla distribuzione occupazionale, i nati all’estero sono onnipresenti nei lavori
di pulizia, camerieri o cuochi e assistenti domestici, tutti comunque lavori per tradizione poco pagati con pessime condizioni lavorative e minima sicurezza.
Paradossalmente, possiamo trovare dei nati all’estero anche in occupazioni nel settore terziario che richiedono un alto livello di specializzazione come
insegnanti ed esperti informatici. Il quadro è molto misto: in Europa meridionale il tasso di disoccupazione dei migranti era più alto rispetto ai nativi,
mentre in quella occidentale è il contrario; in Usa e Australia i migranti si sono ben integrati nel mercato del lavoro e i tassi di disoccupazione sono molto
simili tra nativi e non. Nel complesso, i migranti tendono ad avere uno status lavorativo più basso e livelli di disoccupazione più alti rispetto ai non
migranti. I lavoratori migranti più giovani hanno qualifiche migliori e riescono ad ottenere lavori più qualificati rispetto ai più anziani, che sembrano
bloccati nel settore della produzione manuale.
Le “persone di origine migratoria”, ossia la seconda generazione dei migranti hanno ricevuto l’istruzione nel paese ospitante ed è interessante confrontare la
loro esperienza con i giovani migranti di oggi e con i nativi nati da genitori nativi. Dalle prime stime sulla loro istruzione emergeva che essi avrebbero
potuto ereditare la modesta posizione sociale dei genitori, tuttavia è emerso che, sebbene i risultati siano inferiori a quelli dei nativi, le loro prestazioni sono
migliori dei giovani migranti odierni ma è anche venuto fuori che i livelli educativi e socio-economici bassi dei genitori hanno la tendenza ad essere trasmessi.
Il divario tra seconda generazione e nativi si è rivelato significativo in Germania, Belgio, Svizzera e Austria, ma non in Svezia, Francia, Australia e
Canada. La ricerca dell’OCSE ha rivelato anche che le ragazze ottengono risultati migliori rispetto alla controparte maschile, sebbene ricevano
un’istruzione inferiore, pertanto, sembra che l’istruzione nei paesi ospitante abbia avuto un effetto emancipatore per le donne di seconda generazione. La
priorità per i membri giovani della seconda generazione è la capacità di ottenere lavori dignitosi nel paese ospitante, anche qui si riflette la tendenza
osservata nell’ambito dell’istruzione ed emerge che i più svantaggiati sono i figli di immigrati provenienti da paesi africani.
Fino agli anni ’60, i migranti, specie in Europa ma non in Regno Unito, USA, Australia e Francia, erano considerati solo lavoratori salariati e di rado
diventavano autonomi o imprenditori, e i loro permessi lavorativi proibivano inizialmente il lavoro in proprio. Le tipiche attività di proprietà dei migranti
sono i ristoranti etnici, i negozi di alimentari e gli empori, spesso a conduzione familiare. L’analisi dell’imprenditoria dei migranti è contrastante, poiché
alcuni esperti pongono l’accento sul dinamismo economico con effetti positivi sulla crescita economica e la qualità di vita dei consumatori, altri evidenziano
la sofferenza umana causata dalla concorrenza, dagli orari massacranti e dallo sfruttamento del lavoro familiare e degli stranieri assunti in nero. Tale scelta
spesso deriva da una fuga dal circolo vizioso di lavori precari e poco pagati e disoccupazione, ed è quindi un ripiego. Queste cifre mostrano un modello
complesso di segmentazione etnica e di genere nel quale alcuni gruppi etnici minoritari vanno piuttosto bene e altri meno, così come non c’è un discrimine tra
lo status lavorativo di dipendenti e autonomi.
- In che modo l’immigrazione incide sull’economia dei paesi ospitanti e sui lavoratori locali?
Alcuni economisti affermano che l’immigrazione può danneggiare l’economia peggiorando l’equilibrio dei salari, provocando inflazione e riducendo gli
incentivi al miglioramento della produttività, inoltre, i lavoratori migranti possono danneggiare i nazionali competendo con loro per i lavori non qualificati
e abbassando le paghe. Al contrario, una ricerca dell’Home Office inglese ha rivelato l’opposto, ossia che non ci sono prove di danni ai lavoratori nativi da
parte della migrazione; allo stesso modo, se si osserva la letteratura dell’immigrazione nel periodo ’70-’90, si scopre una convergenza nell’affermare che
l’immigrazione non causa spiazzamento nel mercato del lavoro e non deprime il reddito dei nazionali, ma può tuttavia avvantaggiare i datori di lavoro a
scapito dei lavoratori non qualificati. Gli economisti statunitensi sono discordi, poiché la commissione dell’NRC parla d’impatto sfavorevole contenuto,
mentre altri credeono in effetti negativi molto più seri. Gli economisti australiani, invece, sono abbastanza concordi nell’affermare che l’immigrazione è
stata benefica per l’economia australiana e per le prospettive di assunzione e di reddito dei residenti australiani. I risultati positivi sembrano trovare
risposta nel desiderio di molti governi di incoraggiare la migrazione economica.
- La nuova economia politica e le dinamiche della variazione della forza lavoro
Le complesse dinamiche del cambiamento della forza lavoro possono essere comprese solo attraverso l’analisi della ristrutturazione globale di capitale,
produzione e scambi, e di come questi fattori abbaino cambiato le condizioni economiche e sociali dei paesi di provenienza, transito e destinazione dei
migranti. A partire dal secondo dopoguerra uno studio ha evidenziato tre fasi dell’economia politica. La prima fase (’45-’73), ovvero l’espansione delle
economie industriali del centro, fu contraddistinta dalla produzione di massa nelle grandi fabbriche e, man mano che l’assunzione di lavoratori migranti
aumentava, essi trovavano lavoro nelle fabbriche sindacalizzate. Negli anni ’70 la recessione, la crescente concorrenza delle economie asiatiche e la
diminuzione dei margini di profitto condussero ad una seconda fase, basata su una nuova divisione internazionale del lavoro che spostò la produzione ad
alta intensità di manodopera nelle economie con lavoro a basso costo e fermò l’assunzione di migranti al nord. La ristrutturazione fu mandata avanti dai
nuovi governi di destra degli anni ’80 aprendo la strada all’arretramento dei diritti dei lavoratori (working poor, politiche di immigrazione zero). Lo stesso
successo della globalizzazione neoliberista portò ad una terza fase negli anni ’90 con la creazione degli sweatshops e altre forme di sfruttamento lavorativo
nei paesi sviluppati. I contesti d’accoglienza per i migranti erano ben diversi: uno stato che non offriva quasi nessuna protezione ai lavoratori; sindacati
deboli e mercati del lavoro frammentati che conducevano allo sfruttamento; esistenza di comunità etniche più o meno in grado di aiutare i nuovi arrivati
nella ricerca di un lavoro.
Un elemento chiave delle pratiche liberiste fu trasformare i salariati in appaltatori indipendenti, senza alcuna garanzia di lavoro e di sicurezza, obbligati
ad orai massacranti e a guadagni molto bassi. Assumere temporaneamente i migranti è un altro sistema per aumentare il controllo dei datori di lavoro e
ridurre richieste per paghe e condizioni di lavoro migliori; è evidente come l’idea del lavoratore migrante come forza lavoro subordinata e flessibile non si è
ancora estinta. Inoltre, la deregolamentazione economica ha portato a una riduzione dei controlli sul lavoro da parte delle autorità competenti e si è dunque
molto diffuso il lavoro precario.
La posizione svantaggiata delle donne migranti continua ancora oggi, così come anche le donne native rispetto agli uomini, per diversi fattori quali la
presupposizione che le donne non siano il principale sostegno economico familiare, l’aspettative che esse siano lavoratrici temporanee che andranno via una
volta sposate e che cercheranno un impiego part-time per seguire le esigenze familiari, le definizioni di abilità prevalentemente maschili nonché reti sociali di
genere e discriminazione. Uno studio statunitense ha messo a confronto la crescente disuguaglianza etnica e professionale con quella di genere, ponendo
l’accento sulla vulnerabilità di donne e bambini alla tratta e alla prostituzione e sul fatto che tali disuguaglianze possono condurre alla formazione di
nicchie etniche.
Una delle tendenze più marcate degli ultimi 20 anni è stata la crescita delle economie informali nei paesi avanzati. Il neoliberismo e la deregolamentazione
economica hanno condotto ad una informalizzazione del lavoro, ossia la ridistribuzione del lavoro dai settori regolarizzati dell’economia ai nuovi settori
irregolari dell’economia sommersa o informale. L’esempio più evidente sono gli USA , in cui una certa permissività ha fatto si che 12 milioni di persone
lavorino in condizioni di irregolarità. Alcuni politici europei sostengono che l’immigrazione irregolare sia la causa dell’informalizzazione, mentre altri
osservatori credono che il rapporto causa-effetto sia l’esatto contrario. Anche in Germania, vista come l’antitesi del lavoro nero e l’esempio massimo di
regolamentazione del lavoro, la creazione di piccole imprese, deregolamentazione, subappalto e precarizzazione hanno aperto la strada al lavoro informale; i
lavori informali spesso sono gli unici che una persona poco qualificata riesce a trovare. L’informalizzazione non rappresenta il declino industriale ma una
ristrutturazione orizzontale, spesso con l’obiettivo di mantenere e aumentare la flessibilità e la competitività nei mercati regionali, nazionali e
internazionali.
L’insieme di queste ristrutturazioni costituiscono un processo di segmentazione del mercato del lavoro, cioè le possibilità di trovare lavoro non dipendono
solo dal capitale umano ma anche da razza, genere, etnia e status giuridico. Si tratta di una procedura già applicata negli anni ’60 in Europa occidentale,
dove gli immigrati furono incanalati in determinate occupazioni. Negli anni ’80 la situazione cambiò ancora, poiché si assistette al paradosso delle città
globali nelle quali coesistevano alti standard economici e lavorativi e occupazioni non qualificate e condizioni di lavoro da Terzo Mondo, con una forte
crescita di precarizzazione e assunzione di clandestini. All’inizio del XX secolo le industrie erano concentrate nei “quartieri etnici” e gli immigrati sostennero
molto il forte movimento operaio; alla fine del secolo tali industrie vennero de localizzate in paesi non sindacalizzati e furono creati nuovi lavori nella
vendita al dettaglio, servizi personali e alle imprese. La nuova economia è estremamente stratificata in base all’etnia e il nuovo mercato del lavoro è
plasmato dalle politiche governative, che ufficialmente limitano l’immigrazione approvata per soddisfare l’elettorato anti-immigrati e realmente permettono
un flusso costante di immigrati per soddisfare le domande dell’elettorato aziendale.