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Riassunto “L’era della migrazioni” di Castles e Miller

1. Introduzione
Gli episodi di protesta accaduti nel 2005 in Francia e nel 2006 in America sembrano non avere alcuna relazione, ma in entrambi i casi si tratta di
rivendicazioni messe in atto da giovani con esperienze di migrazione alle spalle, che lamentano discriminazione e alto tasso di disoccupazione. In ambedue i
casi le proteste si scagliavano contro il senso di esclusione provato da questi giovani nei confronti della società in cui erano cresciuti, e spesso anche nati. Le
categorie più giovani della società si differenziano notevolmente da quelle più anziane e, a causa della migrazione internazionale, nelle giovani generazioni
queste differenze sono ancora più marcate. In seguito, tali episodi si sarebbero verificati in molte altre regioni, anche di recente immigrazione, come
l’Olanda, l’Oceania ed Emirati Arabi.
- Le sfide della migrazione globale
La migrazione internazionale sta diventando la protagonista dei più rilevanti eventi mondiali. L’uomo si è sempre mosso alla ricerca di nuove opportunità,
oppure per sfuggire all’indigenza, alle guerre o al degrado ambientale, ma a partire dal XVI secolo la migrazione ha assunto un aspetto nuovo, sino al XIX
secolo e la Prima Guerra mondiale quando si può parlare di vere e proprie migrazioni di massa tra Europa e America del Nord. Una delle sfide lanciate
dall’era delle migrazioni coinvolge la sovranità nazionale, ossia l’idea che il governo di uno stato-nazione costituisca l’autorità assoluta per la quale nessun
potere esterno ha diritto di intervenire e contrastarne l’esercizio. Un’altra sfida è data dal transnazionalismo, ossia man mano che spostarsi diventa più
semplice e che le persone acquistano un livello più alto di mobilità, si instaurano importanti e duraturi rapporti politici, economici e sociali tra più società
contemporaneamente, mettendo a repentaglio la lealtà degli stati-nazione. Negli ultimi anni la caratteristica distintiva è stata la portata mondiale dei flussi
migratori, il ruolo centrale nelle politiche interne e internazionali e le loro conseguenze profonde in campo economico e sociale. L’aumento di società e
politiche transnazionali può aiutare a superare la violenza e la distruttività che hanno contrassegnato l’epoca del nazionalismo, anche se a volte è facile
accostare la migrazione internazionale al conflitto. Dopo i fatti dell’11 settembre 2001, la percezione della minaccia alla sicurezza nazionale viene sempre
più messa in relazione con la migrazione internazionale e con i problemi che nascono quando una società è composta da gruppi etnici culturalmente diversi.
L’industrializzazione produce posti di lavoro ma l’inurbamento massiccio eccede la creazione degli impieghi e quindi coloro che sono emigrati dalle
campagne alle città emigrano nuovamente in paesi di recente industrializzazione o maggiormente sviluppati. Anche la classe sociale e le qualifiche
professionali diventano fonte di discriminazione per i meno specializzati e più poveri. Molti motivi fanno pensare che la migrazione durerà a lungo: è molto
probabile che le crescenti disuguaglianze economiche tra Nord e Sud del mondo obblighino sempre più persone a spostarsi alla ricerca di migliori livelli di
vita, infatti sebbene i migranti affrontino condizioni difficili, ciò è preferibile alla povertà, all’insicurezza e alla mancanza di opportunità. Molti di coloro
che si spostano sono di fatto migranti forzati che fuggono da persecuzione, violenza politico-etnica, progetti di sviluppo o disastri naturali. La diminuzione
del numero di rifugiati va di pari passo con la riluttanza dei governi ad accoglierli, facendo così aumentare il numero degli sfollati interni.
- Migrazioni contemporanee: tendenze generali
La migrazione internazionale fa parte di una rivoluzione transnazionale che sta ridisegnando le società e la politica in tutto il mondo: aree come stati
Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda o Argentina sono considerate “zone d’immigrazione classica”; dopo il ’45 l’Europa è diventata una regione
d’immigrazione lavorativa, con successivo insediamento; l’area composta dagli stati dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente (MENA) è interessata da
movimenti molto particolari. In Africa, invece, il colonialismo e l’insediamento bianco hanno portato alla creazione di sistemi di manodopera migrante per
lavorare nelle piantagioni o nelle miniere. È possibile riconoscere certe tendenze generali: globalizzazione, i paesi d’immigrazione si distinguono per la
presenza di ingressi da più paesi del mondo; accelerazione, regioni i cui il volume dei movimenti internazionali sta aumentando, incalzando i governi ad
adottare politiche urgenti e controverse come i rimpatri; differenziazione, che comprende diverse tipologie di migrazione; femminilizzazione, ossia
l’importanza delle donne in ogni flusso e in ogni regione interessata; maggiore politicizzazione, incide sempre in maggior misura su politiche interne,
rapporti bilaterali e regionali tra stati; proliferazione della transizione migratoria, si invertono le direzioni dei flussi.
- Migrazione internazionale e governante globale
Lo sviluppo di una società transnazionale ha dato origine a questioni e problemi inediti e ha confuso le sfere d’influenza e le capacità decisionali. Come
risultato, i provvedimenti presi nell’ambito della gestione politica sono interpretati come governance globale. Fino a qualche tempo fa, la migrazione
internazionale non era tra le questioni politiche più rilevanti; tuttavia, quando alla fine degli anni Ottanta gli stati UE rimossero i confini interni,
cominciarono a preoccuparsi di rafforzare quelli esterni in modo da prevenire ogni afflusso dal Sud e dall’Est. Sebbene con la globalizzazione si siano
rafforzate le istituzioni mondiali, attraverso organismi nel campo del commercio, della finanza e dello sviluppo economico, la volontà di cooperare non è
stata rinnovata. La questione chiave sta infatti nella riluttanza dimostrata dai paesi importatori di manodopera ad applicare i diritti dei migranti e a
concedere privilegi che potrebbero migliorare le condizioni nei paesi d’origine, ma che farebbero lievitare i costi. Tuttavia non mancano i segnali di
cambiamento, come l’istituzione nel 2003 da part dell’allora Segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan, della Commissione Mondiale sulle Migrazioni
Internazionali, formata da figure di spicco che si affidavano ai consigli di alcuni esperti nel campo della migrazione.
- Diversità etnica, razzismo e multiculturalismo
L’altra questione centrale che scaturisce dai movimenti di popolazione in epoca contemporanea sono gli effetti che la crescente diversità etnica sta avendo
sulle società dei paesi d’immigrazione, in termini di comportamenti culturali, ghettizzazione professionale e sociale e status giuridico di non-cittadino o
straniero, oltre alle più o meno evidenti differenze fisiche. La percezione a livello sociale cambia a seconda del paese di immigrazione a dalle popolazioni che
il paese riceve, poiché non tutte sono considerate assimilabili o integrabili, e molti paesi d’immigrazione non si riconoscono come tali e rifiutano residenza
permanente o cittadinanza. Tali stati si oppongono anche al pluralismo, quale minaccia per l’unità e identità dello stato-nazione, producendo minoranze
etniche emarginate; altre volte si accetta la residenza ma richiedono l’assimilazione culturale dell’individuo in cambio dei suoi diritti e della cittadinanza. Il
razzismo non è pericoloso solo per gli immigrati, ma anche per le istituzioni democratiche e l’ordine sociale. Per questo, l’analisi delle cause e degli effetti del
razzismo deve diventare argomento centrale nel dibattito sulla migrazione internazionale. Ad ogni modo, essa non crea sempre differenze: gli inglesi in
Australia e gli austriaci in Germania sono quasi indistinguibili dalla popolazione locale e i professionisti transitori non sono visti come una minaccia.
Infine, i paesi che concedono la cittadinanza senza assimilazione culturale riescono a far fronte alla diversità culturale, mentre gli altri propendono per
politiche discriminatorie ed emarginatorie degli immigrati.
2. Teorie della migrazione
Il ragionamento centrale è che la migrazione e l’insediamento sono strettamente correlati ad altre connessioni economiche, politiche
e culturali, che si formano tra diversi paesi in un processo di globalizzazione in acceleramento. L’immigrazione internazionale deve essere considerata parte
integrante degli sviluppi del mondo contemporaneo. È probabile che, negli anni a venire, aumenti di volume, a causa delle forti pressioni per un’integrazione
globale senza sosta.
- Illustrare i processi migratori
I processi migratori sono stati illustrati mediante diverse teorie. Una di queste è la teoria neoclassica, o in generale le teorie dette push-pull, poiché
percepiscono le cause della migrazione in una combinazione di “fattori di espulsione”, che spingono le persone a lasciare la loro zona d’origine, e di “fattori
d’attrazione”, che richiamano i migranti verso un particolare paese d’approdo. Il concetto principale su cui si basa è il “capitale umano”: le persone
investono nell’immigrazione, allo stesso modo di come potrebbero investire nell’istruzione o nella formazione professionale, migrando solo nel caso in cui la
percentuale di guadagno prevista dai migliori stipendi nel paese di destinazione superi le spese sostenute per migrare. Per questo, Borjas propone il modello
di un “mercato dell’immigrazione”. Le teorie neoclassiche della migrazione sono state bersaglio di critiche, poiché non sono in grado di spiegare i movimenti
reali o di predire quelli futuri. Al contrario, la teoria del mercato del lavoro segmentato si concentra sulla parte della domanda, sottolineando che la
migrazione è messa in moto da fattori strutturali propri delle economie capitaliste moderne. È probabile che la forte domanda di manodopera non
specializzata metta a repentaglio le politiche atte a incrementare il controllo alle frontiere, sviluppando un mercato nero della manodopera migratoria e
offrendo maggiori opportunità ai trafficanti di persone e alle agenzie di reclutamento. I governi potrebbero contrastare la migrazione clandestina solo
attraverso misure che cambino in profondità i mercati del lavoro, togliendo gli incentivi all’assunzione di lavoratori di questo tipo. La teoria migratoria di
Massey sostiene che le varie teorie economiche operano a diversi livelli di analisi e si concentrano su aspetti migratori diversi, ma che tutti forniscono
preziosi giudizi per comprendere la migrazione. Tuttavia, essa necessita un’indagine più ampia, considerando il ruolo decisivo degli stati nel mettere in
moto, controllare e plasmare gli spostamenti. Poiché le migrazioni sono un fenomeno collettivo, dovrebbero essere prese in esame come sottoinsiemi di un
sistema economico globale e politico in espansione. Le descrizioni storico-istituzionali volgono lo sguardo al reclutamento massiccio di manodopera.
L’analisi affonda le radici intellettuali nell’economia politica marxista, in particolare nella teoria della dipendenza, secondo cui il sottosviluppo dei paesi
del Terzo Mondo era dovuto allo sfruttamento delle risorse del colonialismo e nel periodo post-coloniale ciò era esasperato da accordi ingiusti con i paesi più
sviluppati. Negli anni Settanta e Ottanta si affermò la teoria più esatta del sistema-mondo, secondo cui la penetrazione di imprese multinazionali nelle
economie meno sviluppate accelerò il cambiamento delle campagne, causando povertà, spostamento di lavoratori, inurbamento rapido e la nascita di
economie informali. Inoltre, la migrazione contribuì a rafforzare gli effetti che l’egemonia militare e il controllo del mercato globale e degli investimenti
provocavano nel mantenere il Terzo Mondo in totale dipendenza dal Primo. Queste teorie possono essere considerate le anticipatrici delle teorie della
globalizzazione che si diffusero negli anni Novanta.
- Sistemi e reti migratorie: la tendenza a un approccio interdisciplinare
Una seconda argomentazione è che il processo migratorio possiede certe dinamiche interne che si fondano sulle reti sociali. Queste dinamiche possono portare
a sviluppi non previsti inizialmente né dagli stessi migranti né dagli stati in questione, come l’insediamento di una fetta significativa dei migranti e la
formazione di comunità etniche o minoranze nel nuovo paese. Un sistema migratorio è costituito da due o più paesi tra i quali esistono flussi di migranti.
La teoria dei sistemi migratori suggerisce l’esistenza di tali movimenti in virtù di collegamenti precedenti basati su colonizzazione, influenza politica,
commercio, investimenti o legami culturali. Il principio di base dei sistemi migratori è che ciascun movimento di migranti può essere conseguenza di macro e
micro strutture che interagiscono tra loro. Le macrostrutture racchiudono l’economia politica del mercato globale, i rapporti tra gli stati e le leggi, le
strutture e le prassi stabilite dagli stati di origine e di destinazione. Invece, le microstrutture sono le reti sociali informali create dagli stessi migranti, al fine
di far fronte alla migrazione e all’insediamento (catena migratoria, capitale culturale e sociale, famiglia e comunità). Gruppi di migranti costruiscono le
proprie infrastrutture socio-economiche: luoghi di culto, associazioni, negozi, bar, studi professionali e altri servizi; il che si collega al ricongiungimento
familiare. Per ultimo, le mesostrutture intermedie, ovvero mediatori tra i migranti e le istituzioni politico-economiche, che possono aiutare come sfruttare i
migranti come agenzie, avvocati, organizzazioni che reperiscono risorse umane ma anche trafficanti (industria della migrazione, King privatizzazione della
migrazione).
- Dalla migrazione all’insediamento
La terza questione è che un numero sempre crescente di migranti internazionali non si muove solo da una società a un’altra, ma mantiene legami ricorrenti e
importanti in due o più luoghi, formando comunità transnazionali che vivono tra i confini. Il transnazionalismo è in grado di estendere le relazioni faccia a
faccia delle comunità, basate su consanguineità, vicinato o stesso posto di lavoro, a vaste comunità virtuali, che comunicano a distanza. Fanno distinzione
tra transnazionalismo dall’alto (compiuto da potenti attori istituzionali) transnazionalismo dal basso (attività che sono il risultato di iniziative scaturite
dalla base degli immigrati e delle loro controparti). Glick-Schiller suggerisce il termine transmigrante per identificare le persone che intervengono nelle
comunità transnazionali basate sulla migrazione, tuttavia molti credono che tali definizioni non lascino spazio a precisazioni sui comportamenti e
coscienza transnazionale. Questo andamento è reso più semplice dalla globalizzazione: da un lato, attraverso il miglioramento sia dei trasporti, sia delle
tecnologie nel campo della comunicazione; dall’altro, tramite la diffusione di valori culturali globali. In questo momento, le comunità transnazionali
comprendono solo una minoranza di migranti, ma a lungo termine potrebbero incidere in modo profondo sull’identità sociale e le istituzioni politiche sia dei
paesi riceventi che di quelli di origine. Non si può negare che il transnazionalismo meriti ricerche e approfondimenti futuri, tuttavia le sue definizioni
risultano ad oggi inflazionate.
- La formazione delle minoranze etniche
Il quarto ragionamento riguarda la natura delle minoranze etniche e il processo che dà loro vita. La negazione della realtà dell’insediamento, il rifiuto della
cittadinanza e dei diritti per gli immigrati residenti, oltre al rigetto della diversità culturale, può dare vita a minoranze etniche. Per minoranza etnica
s’intende un gruppo: al quale è stata assegnata una posizione subordinata nella società per mano dei gruppi dominanti sulla base di origine o cultura, e che
possiede un certo grado di coscienza collettiva basata sull’idea di lingua, tradizioni, religione, storia ed esperienze comuni. La maggior parte delle minoranze
è creata dalla combinazione di eterodefinizioni e autodefinizioni. L’eterodefinizione fa riferimento a varie forme di esclusione e discriminazione (o
razzismo). L’autodefinizione possiede un carattere doppio. Da una parte include l’affermazione e la ricreazione dell’identità etnica, fondata su simboli e
usanze culturali precedenti la migrazione. Dall’altra include la mobilitazione politica contro l’esclusione e la discriminazione, impiegando le usanze e i
simboli culturali in modo strumentale. Quando l’insediamento e la formazione di minoranze etniche si svolgono contemporaneamente a una crisi socio-
economica diventano politicizzate. Questioni di cultura, identità e comunità possono assumere grande importanza per la società ricevente nel suo insieme.
Per individuare le origini dell’etnia, che nel linguaggio comune designa un gruppo di minoranza ma che invece accomuna tutti gruppi culturali, sono sorti
approcci diversi: quello primordialista, che considera la conformità di sangue, lingua e usanze sociali pertanto definisce l’etnia come qualcosa con cui si
nasce; quello situazionale, secondo cui un gruppo invoca l’etnia in una situazione particolare in cui tale identificazione è vantaggiosa; quello strumentale,
secondo cui le caratteristiche fenotipiche e culturali sono impiegate per rafforzare la solidarietà all’interno del gruppo, e ci si serve di tali marcatori in virtù
di una scelta strategica arbitraria. Alcuni studiosi rifiutano del tutto l’idea di etnia, liquidandola come un mito o una nostalgia, incapace di sopravvivere
alle forze razionali dell’integrazione socio-economica tipiche della società industriale su larga scala. Gli indicatori visibili (colore della pelle, lingua,
comportamento) possono essere sfruttati da altri gruppi per l’esclusione, e ciò conduce al razzismo. Bisogna dire che la nozione di razza è stata
scientificamente confutata, poiché l’uomo appartiene ad un’unica razza umana, pertanto la razza è una costruzione sociale prodotta dal razzismo. Si
tratta di una chiusura sociale (Weber) in base al quale un gruppo di prestigio stabilisce norme e pratiche con l’obiettivo di escludere gli altri, in modo da
ottenere un vantaggio competitivo. Il potere del gruppo dominante è appoggiato dallo sviluppo di strutture, come leggi e politiche, che escludono o
discriminano il gruppo dominato (razzismo strutturale o istituzionale). Atteggiamenti razzisti o discriminatori messi in atto dai membri del gruppo
costituiscono il razzismo informale, mentre il termine razializzazione viene utilizzato per descrivere l’idea comune che certe caratteristiche fisiche o
culturali siano la “causa naturale” di un insieme di problemi sociali o politici (razializzazione della politica, dello spazio urbano…). I motivi deil recente
aumento di episodi razzisti giacciono nei fondamentali cambiamenti economici e sociali che mettono in dubbio la visione ottimista del progresso incarnata
dal pensiero occidentale. Poiché tali cambiamenti sono accaduti in concomitanza del’arrivo delle nuove minoranze etniche, l’inclinazione è stata percepire i
nuovi arrivati come la causa delle trasformazioni incombenti, visione incoraggiata da destra estrema e politici in auge. Il declino dei partiti della classe
operaia e dei sindacati, assieme all’erosione delle reti comunicative locali, ha aperto uno spiraglio in cui il razzismo si è inserito in maniera consistente e
virulenta. Vi sono altri aspetti della differenziazione sociale, ovvero forme di standardizzazione sociale ed esclusione quali classe sociale, sesso e posizione
nel ciclo vitale. Oggi la migrazione internazionale è legata alla dinamiche di forza lavoro e classe sociale, che incidono sulle opportunità di migrazione e
sulle condizioni per le quali le persone si spostano e trovano lavoro. Sebbene le donne, sin dagli inizi della migrazione, abbiano assunto un ruolo
fondamentale per i benefici economici della migrazione lavorativa, esse potevano ricevere stipendi più bassi ed essere controllate con facilità dagli uomini in
virtù del loro ruolo di dipendenza dal marito all’interno dell’ambiente familiare. Negli ultimi anni, sembra che le donne abbiano raggiunto posizioni
lavorative di maggior livello, ma devono comunque fronteggiare precarizzazione del lavoro e disoccupazione crescente. Gli ultimi studi sul femminismo
guardano alla migrazione femminile come una possibile chance per le donne di ottenere maggior controllo sulla propria vita, e ciò spiegherebbe la riluttanza
a tornare nei paesi d’origine. Le donne hanno anche il ruolo chiave di tramandare ai giovani la lingua e i simboli culturali. Il ruolo del sesso nella chiusura
etnica è evidente nelle regole migratorie: gli uomini sono tuttora i migranti principali, mentre le donne e i figli sono solo “persone a carico”, che ancora oggi
in molti paesi non hanno diritto a residenza e potrebbero rischiare l’espulsione se divorziano. Gli stadi del ciclo vitale sono dei fattori altrettanto importanti
nel determinare la posizione economica e sociale, la cultura e la coscienza. Spesso, esiste un abisso tra le esperienze della generazione migrante e quelle dei
loro figli, che sono cresciuti e hanno frequentato la scuola nel nuovo paese. Essi sono considerati come una bomba a orologeria sociale o una minaccia
all’ordine pubblico, che deve essere contenuta per mezzo di istituzioni di controllo sociale come polizia, scuola e sistema burocratico. Per le minoranza
etniche, la cultura ha un compito chiave, poiché da un lato è fonte d’identità, e dall’altro fornisce una barriera per resistere all’esclusione e
all’emarginazione. Esse si riadattano di continuo in base alle necessità e alle esperienze del gruppo e alle sue interazioni con l’ambiente sociale del momento.
Una regressione nel fondamentalismo religioso, può scaturire proprio da una forma di modernizzazione subita in maniera discriminatoria, sfruttatrice e
distruttiva dell’identità nazionale. In tutti i paesi d’immigrazione è facile assistere ad una crescente politicizzazione della cultura.
- Stato e nazione
L’ultima questione si concentra sul significato di migrazione per lo stato nazionale. Sembra sempre più probabile che una maggiore diversità etnica
contribuirà a cambiare le istituzioni politiche centrali, come la cittadinanza, potendo incidere anche sulla stessa natura dello stato-nazione. Lo stato
nazionale si trova davanti a un dilemma, rappresentato dall’immigrazione di persone diverse da l punto di vista culturale: l’incorporazione dei nuovi
arrivati come cittadini può erodere il mito di omogeneità culturale; tuttavia, fallire nel loro inserimento potrebbe far nascere società divise, contraddistinte
da gravi disuguaglianze e dissidi. Mettendo insieme le definizioni che Anderson, Seton-Watson e Smith danno di “nazione”, si può affermare che essa è un
sistema di credenze, basato su legami culturali e sentimenti collettivi che trasmettono un senso d’identità e di appartenenza che può prendere il nome di
coscienza nazionale. Essa si collega al principio di democrazia, secondo cui ogni persona facente parte di tale comunità possiede lo stesso diritto di
partecipare alla formulazione del volere politico. Le ideologie nazionaliste portano all’idea che ogni gruppo etnico dovrebbe costituire di per sé una nazione,
ma di fatto di rado si è raggiunta una tale coerenza all’interno di una stato, e il tentativo di consolidare lo stato-nazione può comportare esclusione,
assimilazione ma anche genocidio dei gruppi minoritari. Per i nazionalisti, un gruppo etnico è una nazione potenziale che non ha ancora il controllo su un
territorio o che non possiede uno stato proprio, e da qui nasce il timore dei ghetti. Gli stati dei paesi d’immigrazione sono stati costretti a concepire politiche
e istituzioni per dare una risposta ai problemi che comporta l’aumento della diversità etnica. Le questioni centrali sono: chi è cittadino; cosa significa
cittadinanza. Pr cittadinanza s’intende l’uguaglianza di diritti per tutti i cittadini all’interno di una comunità politica, così come una serie di corrispettive
istituzioni che facciano da garanzia di questi diritti. Tuttavia, l’uguaglianza formale di rado porta alla parità effettiva, infatti il cittadino è stato in genere
definito in base alla cultura, ai valori e agli interessi del gruppo maggioritario. La prima preoccupazione degli immigrati è come ottenerla, in modo da
raggiungere uno status giuridico uguale, almeno sulla carta, a quello degli altri residenti. Vi sono diversi tipi ideali di cittadinanza, tutti basati
sull’appartenenza ad uno stato-nazione: il modello imperiale, ossia i cittadini sono tutti i sudditi di un re o di un potere (Regno Unito sino all’81, ex
Unione Sovietica); il modello tradizionale o etnico, si basa sull’etnia, escludendo le minoranze da cittadinanza e comunità nazionale (Germania sino al
2000); il modello repubblicano, definizione di nazione come comunità politica basata su costituzione, diritto e cittadinanza, che ammette nuovi arrivati
purché aderiscano a norme politiche e cultura nazionale (Francia); il modello multiculturale, come quello repubblicano ma qui non è necessario aderire alle
norma culturali ma si possono mantenere quelle d’origine e formare comunità etniche, purché si aderisca alle norme politiche (anni ’70-’80 in Australia,
Canada e Svezia). In futuro, potremmo trovarci di fronte ad un nuovo tipo ideale di cittadinanza, ossia quello transnazionale, con forme di appartenenza
multiple e differenziate. La sopravvivenza della democrazia può dipendere dalla scoperta di nuove vie d’inclusione delle persone con multiple identità in
una serie di comunità politiche. Inoltre, la distinzione tra cittadini e non-cittadini sta diventando sempre meno precisa. Gli immigrati che hanno risieduto
regolarmente in un paese per molti anni sono spesso in grado di ottenere uno status giuridico speciale, una “quasi-cittadinanza”, che testimonia l’evoluzione
di diritti umani internazionali uniformi. Il trattato di Maastrict del 1994 stabilì la cittadinanza dell’UE, che garantiva libertà di circolazione e di
residenza nel territorio degli stati membri, diritti di voto e candidatura nelle elezioni locali e per quelle del Parlamento Europeo nello stato di residenza,
protezione diplomatica da parte di qualsiasi console di qualunque stato dell’UE in un paese terzo. Tuttavia non è possibile la candidatura in parlamento
nazionale, l’accesso all’impiego pubblico e la dipendenza dalla previdenza sociale. Nel 1997 il trattato di Amsterdam stabilì la competenza comunitaria
nelle aree di migrazione e asilo, e gli stati UE adottarono norme comuni per il trattamento dei richiedenti asilo e dei migranti, sebbene l’attuazione sia
lasciata al libero arbitrio di ciascuno stato. Per questo, le norme sono state cambiate spesso negli ultimi 40-50 anni; sempre più paesi accettano la doppia
cittadinanza, mentre ci sono opposizioni sulla cittadinanza per diritto di nascita o naturalizzazione (una sorta di cittadinanza transnazionale).
Queste conclusioni fanno comprendere l’urgenza politica delle questioni legate alla migrazione e alle minoranze etniche. I movimenti migratori degli ultimi
sessant’anni hanno provocato cambiamenti irreversibili in molti paesi. La migrazione continua causerà nuove trasformazioni, sia nelle società già coinvolte
sia in quei paesi che si accingono a entrare nell’arena della migrazione internazionale.

3. Globalizzazione, sviluppo e migrazione


Fino a qualche tempo fa, le opinioni riguardo al rapporto tra migrazione e sviluppo erano in prevalenza pessimiste. All’inizio del XXI secolo abbiamo
assistito a una notevole inversione di tendenza. Dopo anni passati a considerare i migranti sud-nord come un problema per l’identità nazionale e la coesione
sociale, e di recente persino come una minaccia alla sicurezza nazionale, ora politici e funzionari influenti pongono l’accento sulla capacità della migrazione
internazionale di portare sviluppo economico e sociale nei paesi d’origine (idea condivisa e incentivata dai governi di stati come Marocco, Turchia e
Filippine).
- Globalizzazione
Dalla fine degli anni ’70 è emersa la teoria della globalizzazione, intelaiatura su cui si sviluppano le discussioni riguardanti la migrazione internazionale,
basata su nuove tecnologie d’informazione e comunicazione e voli a basso costo. Nel suo significato generale, la globalizzazione fa riferimento
all’impennata d’investimenti diretti e alla liberalizzazione e deregolamentazione dei flussi di capitale transfrontaliero, tecnologia e servizi, così come alla
creazione di un sistema di produzione globale: una nuova economia mondiale. Gli attori principali di questa nuova economia mondiale sono le imprese
multinazionali, le grandi società che operano in diversi paesi, e il mercato finanziario globale e quello delle merci. La globalizzazione è guidata da logiche di
profitto societario. La globalizzazione non ha a che fare solo con l’economia ma è anche un processo politico concepito in termini normativi e ideologici.
Molti critici della globalizzazione sostengono che non si tratta di un nuovo ordine mondiale, ma dell’ultima fase evolutiva dell’economia mondiale
capitalista, penetrata in ogni recesso del globo sin dal XV secolo. L’apertura dei mercati e la rimozione della protezione assicurata dalle organizzazioni
lavorative hanno portato ad enormi cambiamenti sociali nei paesi di più antica industrializzazione. Una delle argomentazioni chiave in favore della
globalizzazione è la sua presunta capacità di portare ad una più rapida crescita economica i paesi poveri, facendoli convergere con i ricchi. Tuttavia, uno
studio di Milanovic afferma che la disuguaglianza globale sia a livelli mai registrati, e che quindi la globalizzazione sembra essere un paradigma imperfetto,
incapace di spiegare i maggiori cambiamenti globali. Bisogna però operare una distinzione tra progetto politico (il suo dominio ideologico sembra ormai
finito), e processo economico, che non da segni di cedimento. A sua volta, la globalizzazione rimane un ambito decisivo per capire la migrazione del XXI
secolo. Se da una parte controlla la migrazione e ne cambia direzioni e forme, dall’altra è la migrazione è una parte sostanziale della globalizzazione ed è
una forza determinante nella trasformazione di comunità e società. Di conseguenza, la globalizzazione porta a processi pervasivi di trasformazione sociale
in tutto il mondo.
- Trasformazione sociale
Le conseguenze della globalizzazione sono diseguali; in effetti, può essere considerata come un processo sia ‘inclusione, sia di esclusione di specifiche regioni
e gruppi sociali nei rapporti del mercato capitalista globale. La globalizzazione non ha portato solo all’allargamento della voragine tra Nord e Sud del
mondo, ma anche all’aumento della disuguaglianza all’interno di ciascuna regione. Spesso la trasformazione sociale prende il via con l’agricoltura. La
“rivoluzione verde” degli anni Ottanta era contraddistinta dall’introduzione di nuove varietà di riso e altre colture, che aumentò la produttività ma
concentrò la proprietà nelle mani di ricchi agricoltori. A oggi, il processo continua con l’introduzione di sementi geneticamente modificate. Inoltre, la
pressione sugli agricoltori nelle regioni povere aumenta a causa di sussidi ai paesi ricchi, che deprimono i prezzi del mercato globale. L’avanzamento
economico di potenze industriali emergenti come Cina, India e Brasile, si basa sull’enorme crescita della disuguaglianza salariale tra le campagne e le città,
che determina una consistente migrazione e conseguente crescita demografica delle città (nel 2005 circa un miliardo di persone viveva in quartieri poveri
come baraccopoli e favelas, e entro il 2030 tale cifra è destinata a raddoppiare). Le trasformazioni sociali proprie della globalizzazione non incidono solo sul
benessere economico, ma provocano l’aumento della violenza e la diminuzione della sicurezza nei paesi meno sviluppati. A partire dagli anni ’80, le guerre
internazionali lasciarono in gran parte il posto a conflitti interni legati alle divisioni etniche, questioni di genesi statale e alla competizione per accaparrarsi
le risorse economiche. Uno degli obiettivi strategici è spesso l’espulsione di masse di persone, che ha condotto all’impennata della migrazione forzata. La
globalizzazione aiuta a creare nuove tecnologie che semplificano la mobilità: i viaggi aerei sono diventati molto economici e più numerosi; i mass media
diffondono immagini della prosperità del Primo Mondo fino ai villaggi più remoti, e le nuove tecnologie rendono più facile la conoscenza delle rotte
migratorie e delle opportunità lavorative. Va da sé che la migrazione non è solo il risultato della trasformazione sociale, ma è anche una delle forme di
questo mutamento, che provoca effetti retroattivi sulle società coinvolte. Il controllo della migrazione e il trattamento diseguale di varie categorie di
migranti sono diventati il fattore fondante di un nuovo tipo di struttura classistica transnazionale. La globalizzazione ha significati libertà di circolazione
di capitali e degli esperti più vitali al suo profitto, mentre i lavoratori non qualificati fronteggiano regimi legali sempre più restrittivi.

- Migrazione e sviluppo
La spiegazione più usata per illustrare questo cambiamento è la consapevolezza che, ad oggi, le rimesse sono la fonte principale di reddito esterno per molti
paesi, tanto da superare gli aiuti stranieri e persino gli investimenti diretti esteri (senza contare il 50% che avviene attraverso canali informali). Inoltre, le
rimesse sono una fonte affidabile di fondi che vanno subito alle famiglie e contribuiscono in modo diretto alla riduzione della povertà, a rilanciare gli
investimenti e a potenziare la produttività. Tale sviluppo economico può di conseguenza ridurre l’emigrazione. Tuttavia, dietro le rimesse come “mantra
dello sviluppo” (Kapur) si nasconde il fatto che i paesi sviluppati hanno un bisogno disperato di lavoratori, sia qualificati sia non qualificati, allo stesso
tempo i migranti provenienti dal sud del mondo, specie se non qualificati o richiedenti asilo, sono visti come un problema o una minaccia nei paesi del Nord.
Inoltre i policymakers vogliono controllare i movimenti migratori e massimizzarne i benefici. Il nuovo ragionamento su migrazione e sviluppo va aldilà delle
rimesse economiche, concentrandosi maggiormente su quelle sociali, ossia il trasferimento in patria di atteggiamenti e capacità utili allo sviluppo, una forma
di diffusione culturale che mette in relazione i cambiamenti globali in campo politico ed economico con le attività e gli atteggiamenti a livelli locale. Levitt
mette in guardia sull’impatto di tali rimesse, che può avere conseguenze sia positive che negative, come l’eco delle teorie di modernizzazione degli anni ‘50 e
‘60 per cui il trasferimento di valori “giusti” poteva far superare l’arretratezza dei paesi post-coloniali. Per giunta, i governi e le agenzie internazionali
premono affinché i migranti non qualificati tornino in patria e, allo stesso tempo, fanno di tutto per trattenere quelli specializzati, causando una fuga di
cervelli da paesi in via di sviluppo, perdita particolarmente seria nelle regioni con una densità molto bassa di personale medico qualificato rispetto alla
popolazione. Inoltre, alcuni migranti faticano a far riconoscere i propri titoli di studio all’estero o non riescono a trovare un lavoro proporzionato alle loro
qualifiche. La perdita di personale qualificato da parte dei paesi meno sviluppati può causare stagnazione economica, spreco di fondi pubblici investiti
nell’istruzione superiore e diminuzione delle entrate fiscali. Per tutte queste ragioni, la fuga di cervelli è diventata una questione politica di rilievo per i
governi dei paesi d’origine. Essi si pongono l’obiettivo di sostituire la nozione di fuga di cervelli con quella di aumento o circolazione di talenti, secondo cui
se le persone più qualificate non possono essere impiegate in patria, non provocano un danno all’economia andandosene. L’emigrazione è tuttavia un diritto,
per cui impedire alle persone di partire incoraggerebbero i tentativi illegali di lasciare il paese. Lo sviluppo di agenzie e organizzazioni internazionali fa
capire che è meglio incanalare la migrazione dei talenti in maniera positiva che cercare di reprimerla. Alcuni possibili suggerimenti includono: programmi di
miglioramento del sistema sanitario e delle condizioni dei lavoratori; programmi di coinvestimento di lavoratori tra paesi ricchi e poveri per modernizzare le
strutture educative, la formazione di questi ultimi e per mettere in atto progetti di lavoro temporaneo all’estero; maggiori investimenti nell’istruzione;
stabilire collegamenti transnazionali con gli immigrati per sfruttare le loro abilità e talenti. La migrazione di talenti comporta il trasferimento di capitale
umano dai paesi poveri a quelli ricchi, in un processo che di solito giova ai paesi importatori di lavoro e ostacola lo sviluppo dei paesi d’origine. Tuttavia,
questo fenomeno può essere trasformato in una circolazione mondiale di cervelli, in grado di avvantaggiare tutti, a condizione che i paesi di destinazione
cedano alcuni dei vantaggi economici di oggi e che i paesi d’origine trovino il modo di migliorare le condizioni lavorative e di vita delle persone specializzate,
affinché rimangano o ritornino in patria. Nonostante qualche segnale positivo, bisogna ad oggi dimostrare se ci sia di fatto una volontà tale da superare gli
interessi di entrambe le parti. L’ambivalenza riguardo alle politiche su migrazione e sviluppo è resa palese dal rinnovato entusiasmo verso la migrazione
temporanea (per qualche mese o anno), etichettata più positivamente come migrazione circolare. Il presupposto a tale migrazione è la libertà di circolazione
all’interno di comunità economiche regionali come l’UE, che non ha subito grandi variazioni al suo interno poiché è riuscita ad appianare le differenze
economiche tra gli stati membri. Negli anni Sessanta tale tipologia migratoria era la base del reclutamento di lavoratori ospiti in Germania e Olanda,
lavoratori a cui era impedito di portare con sé legalmente le proprie famiglie, per scoraggiarne l’insediamento permanente. Tuttavia essi lo fecero comunque, e
nacquero delle minoranze etniche. Si ritiene che la migrazione temporanea apporti più vantaggi per i paesi in via di sviluppo, ma in realtà essi trarrebbero
profitto da un’emigrazione di lavoratori non qualificati in eccesso e una temporanea di lavoratori qualificati. Invece, i paesi sviluppati hanno l’interesse
opposto, e alcuni datori di lavoro preferiscono manodopera clandestina perché più facile da sfruttare. Dall’11 settembre ci si è convinti che la migrazione
clandestina possa essere un problema per la sicurezza nazionale, e pertanto si sono cercate delle strategie per rimandare in patria lavoratori che dovevano
essere temporanei. Alcune strategie sono: far scadere il permesso di soggiorno dopo un periodo stabilito; far depositare ai datori di lavoro parte dello
stipendio dei migranti in libretti di risparmio accessibili solo una volta tornati in patria; l’acquisto imperativo di speciali obbligazioni. Un metodo del tutto
volontario sarebbe quello di utilizzare la modalità prevista dall’Accordo generale sul commercio dei servizi del WTO che prevede i “movimenti di persone
fisiche” per fornire servizi in altri paesi. Tali fornitori di servizi sarebbero parti autonome e potrebbero non essere considerati dalle leggi sul lavoro, mentre
invece le normative sulla migrazione verrebbero applicate. I critici di questo modello temono però sfruttamento, erosione degli stipendi e peggioramento della
condizione dei lavoratori. Un approccio molto più comune è quello del Governo italiano, che ha adottato un sistema di quote per l’ammissione legale di circa
quindici paesi, i cui governi hanno accettato di sottoscrivere accordi di riammissione che garantiscono l’accoglienza di persone espulse dall’Italia. Tutto
questo implica che la migrazione circolare è soprattutto uno stratagemma per legittimare un controllo più serrato alle frontiere e non sembra che essa possa
operare quei profondi cambiamenti necessari a fare della migrazione la forza motrice per lo sviluppo dei paesi d’origine. Nel passato, le diaspore erano
perlopiù sgradite, considerate dagli stati di origine come fonte di potenziale sovversione e di appoggio ai conflitti armati, sospetto che aumentava quando
erano il risultato di esili politici o fughe da guerra civili. Alcuni movimenti ribelli hanno tentato di controllare le diaspore per tassarne le rendite per
finanziare attività politiche e militari. Fino a poco tempo fa, si trattava di diaspore nate dall’iniziativa dei migranti stessi; oggi si parla di associazioni di
diaspore, che aiutano legalmente e materialmente i migranti e che formano un nucleo culturale. Alcune di esse assumono anche ruolo politico. Negli ultimi
vent’anni i paesi d’origine hanno cambiato atteggiamento; se prima erano spaventati e contrastavano le diaspore, adesso guardano ai migranti come “eroi
dello sviluppo” e cercano di incanalare le rimesse, abilità e conoscenza commerciale che defluiscono nella madrepatria. Anche gli stati che ricevono
migrazione sembrano essere indirizzati verso una politica di incoraggiamento della diaspora con l’intento di promuovere lo sviluppo dei paesi di
provenienza. Tuttavia, laddove i governi impiegano le proprie forze per rafforzare il controllo alle frontiere e ottenere accordi di riammissione, le
associazioni di migranti dubitano delle intenzioni dei programmi che affermano di sostenere le diaspore. Si è anche visto come le speranze che questi paesi
ripongono nel futuro progresso dei paesi d’origine delle migrazioni come fattore di riduzione delle stesse risultano fallaci (circolo virtuoso), poiché tale
ipotetico sviluppo porterebbe solo ad un aumento dei flussi, invece di una loro riduzione. Ciò è spiegato dal fatto che, per migrare, le persone hanno bisogno
di risorse, mentre gran parte dei paesi di emigrazione sono i più poveri. Per questo, si ha bisogno di politiche più ampie che affrontino il sottosviluppo e
l’uguaglianza, poiché le politiche migratorie da sole non bastano. Per quanto riguarda i paesi di provenienza, l’affidamento alle rimesse per finanziare lo
sviluppo può essere fuorviante, giacché la migrazione da sola non può provocarlo, a meno che essa sia affiancata da un miglioramento della governance,
dalla creazione di istituzioni efficaci, dalla costruzione di infrastrutture e dall’emergere di un clima favorevole all’investimento. Per tutti questi motivi è
errato interpretare la migrazione e lo sviluppo come fenomeni isolati da questioni più ampie di potere globale, ricchezza e disuguaglianza. La cooperazione
mondiale è vitale e ha bisogno di nuovi approcci che mettano da parte gli interessi nazionali a breve termine a favore di una cooperazione a lungo termine
tra paesi ricchi e poveri. Forme di migrazione più eque devono entrare a far parte delle strategie globali per lo sviluppo, messe in atto per ridurre la
disuguaglianza mondiale.

4. La migrazione internazionale prima del 1945


- Colonialismo
Nell’Europa Occidentale, già dal 1660, la migrazione ha ricoperto un ruolo vitale nella modernizzazione e industrializzazione; tuttavia, la negazione di
tale ruolo è stato un elemento fondante del mito di omogeneità nazionale, a parte nel caso di paesi d’immigrazione classica come Stati Uniti e Australia. La
libertà individuale è dipinta come una delle conquiste morali del capitalismo, scevra da servitù tradizionali. La migrazione internazionale è considerata un
mercato in cui i lavoratori sono liberi di scegliere di spostarsi in luoghi in cui guadagnerebbero di più. Tuttavia spesso tale visione è ben lontana dalla realtà:
la mobilitazione del lavoro ha spesso un carattere coercitivo, che a volte comprende violenza, forza militare e controllo burocratico. La tratta di migranti,
soprattutto donne e bambini per lo sfruttamento sessuale, è la forma di schiavitù moderna, riscontrabile in ogni parte del mondo. La conquista europea di
Africa, Asia, America e Oceania portò alla dominazione e allo sfruttamento delle popolazioni natie, nonché al loro genocidio fisico e culturale. La
costruzione nazionale si basava sull’importazione di nuove genti, cosa che contribuì ad emarginare ed escludere le popolazioni autoctone. Il colonialismo
europeo generò diversi tipi di migrazione. In primo luogo, l’emigrazione degli europei verso le colonie, sia temporanea che permanente per esigenze
lavorative, movimenti che cambiarono profondamente le strutture economiche e le culture sia nei paesi d’origine che in quelli d’approdo. Inoltre,
fondamentale fu il cosiddetto “commercio triangolare”, ovvero la tratta degli schiavi, che prevedeva il sequestro di africani che venivano venduti come
schiavi nelle colonie, mentre i prodotti delle colonie venivano vendute in Europa. Sebbene la schiavitù esistesse già i molte società precapitalistiche, il
sistema coloniale aveva un carattere del tutto nuovo. La forza motrice principale era l’emergere degli imperi globali, che misero in piedi un mercato globale,
dominato dal capitale mercantile. Nella seconda metà del XIX agli schiavi subentrò la servitù debitoria, grossi gruppi di lavoratori reclutati con la forza per
lavorare in piantagioni di altre regioni, vincolati per anni a condizioni di lavoro e salari miseri e soggetti ad una rigida disciplina. Ciò nonostante, il lavoro
all’estero offriva la possibilità di fuggire da condizioni sociali peggiori, come il sistema delle caste indiano. Una volta abolita la schiavitù, questi lavoratori
poterono ottenere della terra o mettere in piedi un’attività commerciale.
- Industrializzazione e migrazione in America del Nord e in Oceania prima del 1914
La ricchezza accumulata in Europa occidentale grazie allo sfruttamento coloniale fu il capitale che avrebbe finanziato la rivoluzione industriale del XVIII
e del XIX secolo. Tuttavia, sin da subito, il lavoro non libero ebbe un ruolo di primo piano. In tutta Europa si introdussero leggi draconiane contro la
povertà, al fine di controllare contadini e artigiani, costretti a lavorare nelle workhouses insieme ai bambini, definiti manodopera non qualificata a basso
costo. La rivoluzione industriale raggiunse il picco massimo quando inglesi e tedeschi emigrarono in America, intorno al 1800-1860, seguiti da irlandesi,
italiani, spagnoli ed europei dell’est, che videro l’industrializzazione più tardi. Gli Stati Uniti sono in genere considerati il più importante paese
d’immigrazione poiché incarnano il concetto di migrazione libera; tuttavia, gli anni Ottanta del XIX secolo furono testimoni di campagne razziste che
portarono a leggi di esclusione nei confronti degli asiatici, mentre per europei e sudamericani l’entrata fu libera sino al 1920. Nelle prime fasi dell’evoluzione
degli stati Uniti, la schiavitù era stata una della fonti di accumulazione di capitale; dopo la guerra civile, il decollo dell’industria fu alimentato
dall’immigrazione di massa europea. Nello stesso periodo, il sistema razzista “Jim Crow” fu usato per segregare gli afroamericani nelle piantagioni del Sud,
poiché cotone a baso prezzo e altri prodotti agricoli erano fondamentali per l’industrializzazione. Il Canada, in seguito alla Rivoluzione Americana,
ricevette l’entrata di molti lealisti di origine inglese, ma si scoraggiò l’immigrazione asiatica. Per quanto riguarda l’Australia, anche qui l’immigrazione è
stata fondamentale per la costruzione nazionale sin dall’inizio della colonizzazione britannica. Tuttavia, gli interessi economici britannici entrarono in
conflitto con le richieste del nascente movimento dei lavoratori australiani, le cui richieste vennero però presentate in maniera razzista, così come le prime
leggi del nuovo Parlamento federale, che introdusse la politica dell’Australia bianca nel 1901. La Nuova Zelanda seguì più o meno lo stesso schema di
avvenimenti; il trattato di Waitangi del 1840 rese i maori sudditi britannici, mentre i minatori cinesi erano visti come “stranieri” e la popolazione bianca si
considerava più inglese che neozelandese.
- Migrazione lavorativa in Europa
Man mano che le persone dell’Europa occidentale emigravano oltreoceano, i lavoratori delle regioni periferiche come Portogallo, Italia e soprattutto Irlanda
andarono a rimpiazzare la manodopera agricola e della grande industria. Nel caso irlandese, l’emigrazione si dovette alla devastazione dell’agricoltura, alla
rovina dell’industria e a delle carestie. Altra immigrazione consistente nel Regno Unito fu quella ebrea; gli ebrei arrivarono come rifugiati in seguito ai
pogrom russi tra il 1875 e il 1914, e furono oggetto della prima legislazione restrittiva in materia immigratoria. Tuttavia, essi furono capaci di svincolarsi
da posizioni di lavoro subordinato e mettersi in proprio, e grazie alla grande importanza data all’istruzione dei figli le seconda generazione si aprì la strada
delle carriere professionali e degli affari. Irlandesi e ebrei non erano “lavoratori non-liberi” nel Regno Unito; fu invece in Francia e Germania che lo status
di straniero venne utilizzato per la prima volta come limite ai diritti dei lavoratori. In Germania l’industria della Ruhr attrasse i lavoratori agricoli della
Prussia, che avevano origini polacche ma che diventeranno in seguito cittadini tedeschi. I loro contratti di lavoro prevedevano paghe inferiori e minori diritti
rispetto a quelli dei lavoratori tedeschi, e furono istituite sezioni speciali di polizia che potevano trascinare con la forza il lavoratore dal datore di lavoro,
incarcerare o deportare i trasgressori. Assieme ai polacchi, la manodopera straniera ebbe una parte di rilievo nell’industrializzazione tedesca, anche grazie ai
lavoratori italiani, belgi e olandesi. Per quanto riguarda la Francia, la maggioranza dei lavoratori stranieri proveniva dai paesi limitrofi, e il loro numero
aumentò di quasi il 2% nel giro di 30 anni. La particolarità del caso francese è dovuta alle ragioni che portarono alla scarsità di manodopera durante
l’industrializzazione. Si ebbe un calo di natalità dovuto all’applicazione dei metodi contraccettivi maltusiani, e un sempre maggiore numero di famiglie
ridotte consentiva ai francesi di rimanere in patria e di non emigrare oltreoceano. L’unica eccezione era il movimento di coloni in Algeria, invasa nel 1830.
Pertanto, la trasformazione delle piccole imprese in aziende a grande distribuzione e la costruzione della classe operaia poté essere messa in atto solo grazie
alla manodopera straniera; l’immigrazione era considerata importante anche dal punto di vista militare, in virtù dell’imminente conflitto con la Germania.
- Il periodo tra le due guerre
All’alba della Prima Guerra Mondiale, molti migranti ritornarono in patria per partecipare al conflitto o fabbricare munizioni, tuttavia gli stati
combattenti si ritrovarono con scarsità di manodopera. La Germania la reclutò dalle regioni occupate della Russia e del Belgio; la Francia dalla sue colonie
africane e indocinesi e dalla Cina stessa; questi lavoratori erano segregati in caserme, ricevevano una paga minima e erano sorvegliati da supervisori
coloniali. Tutte le nazioni in conflitto utilizzavano il lavoro forzato dei prigionieri di guerra. Il periodo che va dal 1918 al 1945 fu testimone della
riduzione della migrazione internazionale lavorativa. Questo fu in parte a causa della stagnazione economica e della crisi, e in parte per la crescente ostilità
verso gli immigrati in molti paesi. In Australia gli europei meridionali erano visti con sospetto e venne proibito agli immigrati di possedere terre. Negli Stati
Uniti, i gruppi “nativisti”sostenevano che i sud europei e esteuropei erano inassimilabili e che presentavano una minaccia per l’ordine pubblico e i valori
americani, e vennero sostituiti nell’industria dell’era fordiana dagli afroamericani che cercavano di fuggire alla segregazione del Sud emigrando al Nord.
Iniziarono le campagne di americanizzazione, affinché gli immigrati parlassero inglese e divenissero cittadini americani leali e nulla fu fatto per ospitare gli
ebrei europei in fuga da Hitler. La Francia fu l’unico paese dell’Europa occidentale a vivere un’immigrazione concreta nel periodo tra le due guerre, per
colmare il deficit demografico aggravato dal conflitto. I lavoratori stranieri erano controllati attraverso un sistema di carte d’identità e contratti lavorativi
e incanalati verso lavori agricoli, edili e dell’industria pesante, anche se gran parte arrivò in maniera spontanea (la maggior parte italiani, polacchi, spagnoli
e belgi). Durante la depressione degli anni Trenta, l’ostilità nei confronti degli immigrati aumentò tanto da dare il via a politiche in favore dei lavoratori
francesi, e molti migranti furono licenziati e rimpatriati, facendo così crollare il numero della popolazione. Per finire, in Germania, la Repubblica di
Weimar, perseguitata dalla crisi, non aveva affatto bisogno di lavoratori stranieri. Tuttavia, si sviluppò un nuovo sistema di controllo della manodopera
straniera che si basava sui seguenti principi: stretto controllo statale del reclutamento; preferenza di impiego ai nazionali; sanzioni contro datori di lavoro
che assumevano lavoratori irregolari; potere illimitato alla polizia per deportare gli stranieri indesiderati.

5. Migrazione in Europa, America del Nord e Oceania dal 1945


Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, le migrazioni internazionali sono aumentate di volume e hanno assunto caratteristiche diverse. È possibile
individuare due fasi principali. Nella prima, dal 1945 all’inizio degli anni ’70, la strategia economica dominante, di capitale su vasta scala, è stata la
concentrazione di investimento e l’espansione della produzione nei paesi più sviluppati esistenti. A partire dalla crisi petrolifera del ’73, si entrò in una
seconda fase che prese slancio alla fine del XX e inizio XXI secolo, una fase contraddistinta da nuovi e più complessi modelli di migrazione.
- La migrazione nei lunghi anni del boom economico
Tra il 1945 e l’inizio degli anni Settanta, tre tipi principali di migrazione condussero alla formazione di popolazioni nuove ed etnicamente diverse nei paesi
industrializzati: migrazioni di lavoratori delle periferie dell’Europa occidentale, spesso attraverso il sistema dei lavoratori ospiti; la migrazione di lavoratori
provenienti dalla colonie verso le ex potenze coloniali; la migrazione permanente in America del Nord dall’Europa, Asia e America Latina. Dopo il ’68,
acquisì maggiore importanza la libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità Europea, poi UE.
Tutti i paesi industrializzati dell’Europa Occidentale impiegarono, tra il 1945 e il 1973, il reclutamento temporaneo di manodopera proveniente dalla
periferia europea meno sviluppata, con antiquate strutture politiche e sociali. Il Regno Unito introdusse 90.000 lavoratori dai campi profughi e dall’Italia
attraverso il progetto dei lavoratori volontari europei, costretti a svolgere certi lavori senza possibilità di ricongiungimento familiare e con possibile
rimpatrio per indisciplina. Al contrario, in Belgio molti italiani migranti portarono i loro familiari e si insediarono in modo permanente, cambiando la
composizione etnica della aree industriali del Belgio. In Francia nel ’45 nacque l’Office National d’Immigration, per organizzare l’assunzione dei lavoratori
provenienti dal sud Europa, per contrastare l’insufficienza demografica, insediando famiglie su larga scala, anche se nel ’68, secondo l’ONU, l’82% degli
immigrati ammessi arrivava clandestinamente. La Svizzera seguì una politica di importazione di manodopera su larga scala dal ’45 al ’74. I lavoratori
erano reclutati dai datori di lavoro, ma l’ammissione e la residenza erano gestiti dal governo. Sino agli anni Sessanta ad essi era proibito cambiare lavoro, il
ricongiungimento familiare e insediarsi in modo permanente, dal momento che si preferiva l’impiego di pendolari transfrontalieri, che comunque, insieme agli
latri, erano visti come lavoratori ospiti. La necessità di attrarre e trattenere i lavoratori, insieme alle pressioni diplomatiche dell’Italia ammorbidirono la
rigidità su ricongiungimenti e insediamento. Anche all’interno dell’Italia stessa, la migrazione dal sud arretrato al Nord fu fondamentale per il decollo
dell’economia del triangolo industriale Milano-Torino-Genova.
La migrazione dalle ex colonie fu importante per Regno Unito, Francia e Olanda. Nel primo caso, i lavoratori arrivavano dall’Irlanda e da tutto il
Commonwealth, il cui arrivo venne limitato nel ’62; tuttavia, gran parte degli immigrati era arrivata per rimanere; il ricongiungimento familiare continuò
fino ad essere a sua volta limitato dall’Immigration Act del 1971. Gran parte degli immigrati afrocaraibici e asiatici i cui figli erano nati in Regno Unito
ricevettero la cittadinanza formale, ma vennero comunque discriminati a livello lavorativo e segregati in quartieri degradati. La Francia visse un periodo di
immigrazione spontanea su larga scala dalle sue ex colonie e dall’Europa meridionale. La migrazione dall’Algeria era regolata tramite accordi bilaterali che
conferivano uno status unico agli immigrati algerini. Anche qui gli immigrati di origine non europea erano in condizioni di feroce sfruttamento e relegati in
baraccopoli, le bidonvilles, sottoposti anche a una campagna di violenza razziale. Infine in Olanda, vi furono due afflussi principali dalle colonie: il primo
dall’Indonesia, nei primi anni ’70, dovuto all’efficace campagna di assimilazione che non diede adito a razzismo o discriminazione (tranne per i moluccani);
il secondo, dopo il ’65, proveniente dal territorio caraibico del Suriname.
La migrazione su larga scala verso gli Stati Uniti si sviluppò più tardi (1965) a causa della legislazione restrittiva degli anni Venti; gli ammendamenti
crearono un sistema di migrazione globale, nel quale il criterio più importante di ammissione era la parentela con un cittadino o un residente, che portò ad
un’impennata della migrazione dall’Asia e dall’America Latina. I datori di lavoro statunitensi assumevano anche manodopera temporanea, fatto che portò
alla presenza di numerosi lavoratori irregolari. Il Canada mise in atto politiche di immigrazione dal 1945; in un primo momento erano ammessi solo gli
europei, successivamente grazie all’introduzione di un sistema a punti non discriminante per selezionare i migranti potenziali aprì le porte alla migrazione
non europea. Per tutto questo periodo, s’incoraggiò il ricongiungimento e gli immigrati erano percepiti come residenti e futuri cittadini. Anche l’Australia
iniziò dal ’45 ad applicare politiche migratorie, allo scopo di incrementare la popolazione e quindi sia per motivi economici che strategici (populate or perish).
Tuttavia, attrarre sufficienti migranti inglesi non fu facile, pertanto migranti europei giudicati accettabili a livello razziale furono inclusi nella politica
dell’Australia bianca, resa ancor meno severa alla fine degli anni Sessanta, per far fronte al ritorno degli europei in patria dovuto allo sviluppo di quei
territori. La Nuova Zelanda continuò la sua politica di immigrazione consanguinea dal Regno Unito; gli inglesi entravano liberamente e acquisivano subito
la cittadinanza dopo un ano, erano ammessi anche altri stranieri bianchi, olandesi ed europei sfollati,e in seguito, gradualmente, anche migranti provenienti
da territori del Pacifico, ma sempre neozelandesi.
- Le migrazioni nel periodo di ristrutturazione economica globale
Il periodo successivo, l’epoca della globalizzazione, è stato contraddistinto da: aumento di esportazione di capitale dai paesi sviluppati ch portò alla
fondazione di industrie manifatturiere in alcune aree prima sottosviluppate; rivoluzione microelettronica, che ha ridotto il bisogno di lavoratori manuali nel
settore industriale; erosione delle tradizionali occupazioni manuali; espansione del settore dei servizi, con domanda di lavoratori qualificati e non
qualificati; crescita del settore informale nelle economie dei paesi sviluppati; precarizzazione del lavoro, crescita del lavoro part-time; aumento della
differenziazione della forza lavoro in base a genere, età ed etnia. La globalizzazione provoca trasformazioni sociali complementari nel Nord e nel Sud del
mondo che aumentano la pressione migratoria e generano nuove forme di mobilità. Le tendenze generali sono: declino della migrazione lavorativa
organizzata dai governi verso l’Europa occidentale, sostituita da politiche a favore del lavoro straniero temporaneo; ricongiungimento familiare e
formazione di minoranze etniche; proseguimento della migrazione verso America del Nord e Oceania; nuovi movimenti migratori legati al cambiamento
economico e sociale nei nuovi paesi industrializzati; assunzione di manodopera straniera da parte dei paesi produttori di petrolio; movimenti massicci di
rifugiati e richiedenti asilo; aumento della mobilità internazionale del personale altamente qualificato, sia su flussi temporanei che permanenti;
proliferazione della migrazione clandestina e delle politiche di regolarizzazione.
- Migranti e minoranze in Europa Occidentale
Il periodo immediatamente successivo al ’73 fu caratterizzato dal consolidamento e dalla normalizzazione demografica delle popolazioni immigranti
nell’Europa occidentale. L’assunzione di lavoratori stranieri e coloniali cessò in gran parte. All’inizio i governi provarono a impedire il ricongiungimento
familiare, ma con poco successo; in molti paesi, le corti di giustizia rivestirono un ruolo decisivo nell’impedire le procedure ritenute nocive alla protezione
della famiglia, contenuta nelle costituzioni nazionali. Anche la struttura della popolazione straniera cambiò: diminuirono gli uomini e aumentarono le
donne.
Alla metà degli anni Ottanta, la crescita economica e una brusca caduta del tasso di natalità, fecero sì che Italia, Spagna, Portogallo e Grecia divenissero a
loro volta paesi d’immigrazione e che impiegassero manodopera nordafricana, asiatica e poi esteuropea per i lavori non qualificati. Il cambiamento accelerò
bruscamente dopo il crollo del muro di Berlino nel ’89, a cui seguì il timore di una crisi migratoria e di un’invasione di massa che avrebbe fatto sprofondare
gli standard di vita, ma questo non si verificò. Milioni di persone, invece, si spostarono nei nuovi sati creati dopo il crollo dell’URSS e la russia divenne uno
dei maggiori paesi d’immigrazione. La fine della Guerra Fredda coincise con l’accelerazione della globalizzazione economica e con l’aumento della violenza
e della violazione dei diritti umani in Africa, Medio Oriente, Asia e America Latina. Il cambiamento economico, le trasformazioni sociali e lo
sconvolgimento politico innescarono nuove migrazioni economiche, politiche e culturali e la diversità di bagaglio geografico, etnico sociale e culturale delle
popolazioni migranti aumentò ulteriormente. Negli anni Novanta, i richiedenti asilo erano dipinti dai media come migranti economici in incognito,
ricevendo ostilità poiché la loro ammissione avrebbe portato all’insediamento con conseguenze sociali imprevedibili. All’inizio del nuovo millennio, i
movimenti migratori aumentarono ulteriormente in maniera brusca per via della globalizzazione economica e le maggiori opportunità d’impiego per i
lavoratori qualificati. Dopo l’espansione UE, molti cittadini dei nuovi membri si spostarono in paesi più ricchi Tuttavia, la più grande categoria migratoria
nella maggior parte degli stati europei è il ricongiungimento familiare. Oggi, due delle più grandi questioni pubbliche in tema di migrazione europea sono
l’immigrazione e il lavoro irregolari.
- Europa Meridionale
Italia, Spagna e Portogallo costituiscono un gruppo particolare all’interno dell’Europa, poiché sono passate dall’essere terre di emigrazione a d assumere il
ruolo di terre di immigrazione, soprattutto dopo la Guerra Fredda. Esse presentano alcune caratteristiche comuni: l’economia sommersa riveste un ruolo
chiave nelle entrate migratorie; la migrazione irregolare prevale; i governi sono incapaci di pilotare la migrazione internazionale. In Italia, l’impennata
dell’immigrazione è coincisa con gli alti tassi di disoccupazione a livello nazionale, ma anche ad una brusca diminuzione del tasso di natalità e alle crisi
nelle zone limitrofe. Ciò nonostante, i datori di lavoro soddisfano la domanda di manodopera mediante l’economia sommersa. La migrazione incombe come
una minaccia per le politiche di sicurezza nazionale e la tratta di migranti nel Mediterraneo miete vittime già dal ’90. La cooperazione con Albania, Egitto
e Turchia ha contribuito alla diminuzione degli arrivi irregolari, ma la tratta attraverso la Libia è ancora un problema irrisolto. La Spagna, prima del 1980,
era una terra di emigrazione e di passaggio per i migranti africani che si recavano in Nord Europa. Con il post-franchismo e l’avvicinamento alla Comunità
europea, le cose iniziarono a cambiare, sino al 2005 quando il numero di immigrati equiparò quello degli espatriati. In teoria, tutti gli stranieri che risiedono
in Spagna regolarmente sono entrati in modo clandestino o si sono trattenuti più a lungo del periodo previsto dal visto, e sono tutti stati regolarizzati nel
2005 in virtù di dodici legislazioni messe in atto dal governo. Anche la Spagna ha adottato procedure di assunzione temporanea, che consistevano
nell’accordare permessi lavorativi e di residenza agli irregolari presenti sul suolo spagnolo. Gli sforzi spagnoli per contrattare la tratta di migranti africana
hanno giocato un ruolo importante nella sicurezza nazionale ed estera; le Isole Canarie sono diventate il bersaglio dei trafficanti di persone. La Spagna ha
anche sottoscritto accordi bilaterali con gli stati africani. La storia migratoria del Portogallo si è invece evoluta in tre fasi. Dalla metà del XIX secolo a
metà anni ’70, i portoghesi emigrarono. La rivoluzione del 1974 diede vita a migrazioni dagli ex possedimenti africani. La fase attuale, dagli anni ’80, si
svolge contemporaneamente all’annessione all’UE. Anche qui gran parte degli immigrati è arrivata irregolarmente e ha superato i termini del visto, e allo
stesso modo è stata regolarizzata. Anche in questo caso le autorità hanno faticato ad ottenere il controllo sui flussi. Fino al 1990, l’immigrazione
internazionale verso la Grecia interessava il rimpatrio di minoranze greche dall’estero e l’arrivo di rifugiati. Nel periodo successivo alla Guerra Fredda,
l’immigrazione schizzò verso l’alto; nel giro di due decenni, nonostante l’alto tasso di disoccupazione e una certa ostilità nei confronti degli immigrati, la
Grecia è diventata uno degli stati UE più colpiti dalla migrazione internazionale, in gran parte irregolare.
- Europa Centrale e Orientale
Questa regione si estende dal confine tra Germania e Polonia, sino alla Federazione Russa e dagli Stati baltici sino al Mediterraneo e al Mar Nero. La
transizione dal comunismo alla democrazia e all’economia di mercato ha trasformato gli stati e la società. Durante gli anni ’90 vi sono stati importanti
flussi in uscita, soprattutto di residenti di origine tedesca che rientrarono in una Germania riunita, mentre gli ebrei russi si recarono in Israele o negli Stati
Uniti. Oggi uno degli obiettivi della Politica Estera e di Sicurezza Comune dell’UE è evitare la migrazione irregolare verso ovest, e consolidare le
istituzioni democratiche e le riforme economiche in quest’area. Dopo il ’93 i flussi diminuirono, anche se proseguivano quelli di lavoratori temporanei, per
integrare la scarse paghe dei lavori in Romania o Bielorussia o per trovare un lavoro, dato che la forza lavoro ucraina era per metà disoccupata. Al tempo
stesso, Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, ovvero gli stati economicamente più avanzati della regione, divennero improvvisamente terre di immigrazione,
e si trovarono senza i giusti strumenti per affrontare tale cambiamento. Negli anni ’90 le correnti principali che attraversavano la regione erano tre:
cittadini provenienti dai paesi dell’ex patto di Varsavia e tra loro molti zingari provenienti dalla Romania; rifugiati a causa del conflitto nei Balcani
(bosniaci, croati e kosovari); africani e asiatici, che dopo la caduta dell’Unione Sovietica riuscirono molto più agevolmente a entrare nella regione. Anche
all’interno dell’ex Unione Sovietica vi furono movimenti importanti, soprattutto di rimpatriati russi, ma anche 1 milione di rifugiati causati da conflitti e
sfollati del disastro di Cernobyl. Il 1° maggio 2004 dieci nuovi stati entrarono a far parte dell’UE (A10): Repubblica Ceca, Cipro, Estonia, Ungheria,
Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia e Slovenia. I vecchi stati dell’UE (UE15) decisero di limitare l’immigrazione da questi nuovi stati, tranne
Irlanda Regno Unito e Svezia; di conseguenza, si crearono flussi consistenti verso questi paesi meno la Svezia. La stragrande maggioranza erano lavoratori
senza persone a carico, e spesso lituani. In generale, la mobilità tra stati vecchi e nuovi era più di capitale che di persone, tuttavia l’allargamento dell’Ue
ebbe come effetto la regolarizzazione di molti lavoratori.
Per quanto riguarda la Polonia, dopo il 2004 sino al 2007, 1 milione di polacchi emigrò verso Irlanda e Regno Unito, ma anche Germania. Tuttavia vi era
un clima di preoccupazione per il trattamento riservato ai lavoratori polacchi all’estero, specie in Italia, tant’è che il ministro degli esteri arrivò a
sconsigliare l’emigrazione. Essendo il paese più popoloso della regione, la Polonia incarna bene le complessità della transizione migratoria. Avendo nel 2003
imposto l’obbligo di visto per ucraini, bielorussi e russi, dopo l’esodo del 2004, la diminuzione della natalità e l’invecchiamento della popolazione, ci si
preoccupò per la mancanza di lavoratori, e pertanto gli obblighi suddetti furono rimossi per bielorussi e ucraini, dalla cui manodopera dipendevano i datori
di lavoro polacchi. Dal 2000, Ucraina e Federazione Russa sono state le fonti maggiori di migrazione verso i paesi dell’OCSE. La bipartizione della regione
tra membri UE e non sembra duratura, specie dopo il fallimento del referendum sulla costituzione europea. Uno dei temi principali nei rapporti tra Ucraina
e UE è la riluttanza ucraina a firmare un trattato di riammissione, per il timore di diventare una discarica di migranti irregolari trattenuti in territorio
comunitario.
- La popolazione europea in cambiamento
Più di mezzo secolo di migrazione ha mutato la popolazione europea. È importante segnalare che oggi molti paesi europei hanno percentuali di popolazione
migrante paragonabili a quelle degli Stati Uniti, considerati storicamente il paese d’immigrazione più importante. I paesi dell’UE sono contraddistinti da
una media di natalità molto bassa (1,5 figli per donna). L’aspettativa di vita è in aumento e la popolazione sta invecchiando, cosicché sempre meno persone
in età lavorativa dovranno mantenere in futuro sempre più anziani. Le proiezioni dell’Eurostat mostrano che nel 2050 la popolazione europea scenderà
dell’1,5% e il calo più netto sarà in Germania, Italia e negli stati di Europa centrale e orientale; ancor più serio sarà il declino della popolazione in età
lavorativa. Di conseguenza, quasi tutto l’aumento demografico deriva, oggi, dall’immigrazione. Si tratta di un cambiamento epocale: l’Europa è passata
dall’essere area di emigrazione di massa a un’area di movimenti intraeuropei; oggi, l’Europa è una terra di afflussi su grande scala da tutto il mondo, che
riguardano l’intero continente e non solo le antiche aree industriali nordeuropee come un tempo.
- America del Nord e Oceania
Dopo il 1970, l’immigrazione negli USA crebbe ininterrottamente. Tuttavia, dopo l’11 settembre, l’ammissione dei rifugiati, soprattutto mediorientali e
africani, subì un calo. Negli ultimi anni, l’ammissione di lavoratori o apprendisti temporanei e delle loro famiglie è aumentata in maniera marcata. Il
Canada rimane uno dei pochi paesi al mondo ad attuare una duratura politica migratoria attiva ed estesa, che punta all’ammissione annua dell’1% della
popolazione totale di 30 milioni. Questa politica è appoggiata da un ampio consenso politico, che contrasta nettamente con la mancanza d’intesa nelle
politiche migratorie degli USA. Il sistema di classificazione canadese premia con un migliore punteggio gli immigrati con istruzione e abilità tecniche.
Ciononostante, è cresciuto anche il timore che l’aumento di immigrati specializzati e qualificati abbia contribuito all’aumento della disoccupazione e
sottoccupazione, nonostante le ottime credenziali. Anche i lavoratori temporanei sono aumentati fin dal ’93; sebbene all’inizio si trattasse solo di uomini
sposati, di recente sono state reclutate anche donne. Il soggiorno medio è di 5 mesi, per un minimo di sei settimane, e spesso gli stagionali ritornano presso lo
stesso datore di lavoro. L’immigrazione è stata un o dei fattori principali che hanno plasmato la popolazione e la società dell’Australia. Gli esiti a lungo
termine sono stati il passaggio da una popolazione in prevalenza bianca e perlopiù anglosassone, ad una tra le più eterogenee e multietniche del mondo.
L’abbandono della politica dell’Australia Bianca nel ’73 coincise con la retorica ufficiale che descriveva il paese come società multietnica d’immigrazione da
tutto il mondo. Inoltre, attraverso il suo programma umanitario, l’Australia ha mantenuto il suo ruolo nel re insediamento dei rifugiati, che avevano il
diritto al ricongiungimento familiare. Tuttavia, il clima cambiò nel 1996 con l’elezione di una coalizione di centro-destra: Howard istituì un più rigido
controllo frontaliero e la reclusione obbligatoria dei richiedenti asilo in campi. Ciononostante, l’economia sana e la scarsità di manodopera ha fatto sì che
aumentasse la migrazione organizzata, come pure quella temporanea. Le vacanze-lavoro e gli studenti stranieri rappresentano una fonte di lavoro part-
time, e vengono assunti in modo permanente dopo la laurea. Anche la Nuova Zelanda ha vissuto un periodo di immigrazione costante, diversità in aumento
e una tendenza verso la migrazione temporanea; tuttavia, è aumentata anche l’emigrazione. Negli ultimi tempi a politica è cambiata, concentrandosi
sull’aumento della migrazione di lavoratori qualificati e incoraggiando gli studenti a rimanere. Ora sono i migranti non europei a prevalere (da Asia e
Pacifico). Anche in Nuova Zelanda la migrazione ha portato a cambiamenti fondamentali, con conseguenze importanti per la cultura, l’identità e la
politica.

6. Migrazione tra Asia e Pacifico


Oltre metà della popolazione mondiale vive nell’area pacifico-asiatica. Negli anni ’70-’80, la migrazione internazionale dell’Asia crebbe in maniera netta.
Le principali destinazioni erano l’America del Nord, l’Australia e le economie petrolifere del Medio Oriente. A partire dagli anni ’90, la crescita ha
interessato soprattutto la migrazione all’interno del continente asiatico, perlopiù dai paesi meno sviluppati, con un enorme surplus di lavoratori, verso le
regioni di recente industrializzazione in forte crescita. Anche gli sfollati interni rappresentano un grosso problema. Le cause principali erano guerre,
violenza o violazione dei diritti umani. Molti altri milioni sono sfollati a causa di progetti di sviluppo, cambiamento climatico e disastri ambientali, come
eruzioni o inondazioni. In alcune regioni, i gruppi più vulnerabili possono soffrire varie forme di sfollamento. I governi asiatici cercano di controllare in
modo severo la migrazione per cui, molto spesso, i diritti dei migranti sono limitati. I policy makers incoraggiano la migrazione lavorativa temporanea, ma
proibiscono il ricongiungimento familiare e l’insediamento permanente; gran parte delle migrazioni della regione è temporanea, sebbene, in alcuni casi, sia
sempre più evidente la tendenza verso soggiorni a lungo termine. Ad ogni modo, il rigido controllo delle entrate può essere controproducente poiché può
portare all’aumento della migrazione non autorizzata e all’insediamento non pianificato.
- Lo sviluppo della migrazione asiatica
Nel XIX secolo vi era una considerevole migrazione da Cina e Giappone verso USA, Canada e Australia; in tutti e tre i paesi furono fatte passare leggi che
ostacolavano tali movimenti. All’inizio del XX secolo, la migrazione dall’Asia diminuì a causa delle politiche restrittive imposte dai paesi di immigrazione e
dalle potenze coloniali. Ciononostante, i movimenti all’interno del continente continuarono. I movimenti esterni iniziarono a crescere dagli anni ’70, per
diversi motivi: furono abbandonate le politiche discriminatorie contro i migranti asiatici nei paesi suddetti; aumentarono gli investimenti stranieri e del
commercio e di conseguenza si crearono reti di comunicazione necessarie alla migrazione; legami transnazionali nacquero a seguito della presenza militare
statunitense in Corea, Vietnam e altri paesi. La guerra del Vietnam, insieme alle politiche di apertura, facilitò la migrazione familiare e l’insediamento
permanente. L’entrata massiccia dell’Asia nella fase migratoria del XX secolo è quindi il risultato dell’apertura del continente a rapporti economici e politici
con i paesi industrializzati del periodo postcoloniale. La penetrazione dell’Occidente attraverso commercio, aiuti e investimento creò i mezzi materiali e il
capitale culturale necessari alla migrazione. All’inizio del XXI secolo, vi erano circa 6 milioni di asiatici assunti nel proprio continente ma fuori dal paese di
origine, e circa 9 milioni in Medio Oriente. Negli ultimi trent’anni il volume della migrazione è aumentato, diversificandosi allo stesso tempo. I migranti
economici possono essere trovati a ogni livello di qualificazione, con flussi di personale altamente qualificato in entrambi i sensi. La femminilizzazione della
migrazione è un’altra tendenza importante, mentre è in aumento il ricongiungimento familiare e continuano i movimenti di rifugiati. È possibile distinguere
tra paesi in gran parte d’immigrazione (Brunei, Hong Kong, Giappone, Singapore, Corea del Sud e Taiwan(, paesi con entrambe le caratteristiche rilevanti
(Malesia e Tailandia), e paesi prevalentemente d’immigrazione (Bangladesh, Birmania, Cambogia, Cina , India, Indonesia, Laos, Nepal, Pakistan,
Filippine, Sri Lanka e Vietnam). Gran parte dei movimenti è composto da una considerevole migrazione irregolare, nonché traffico e tratta di esseri umani.
Tre paesi europei sperimentarono una migrazione asiatica collegata alla decolonizzazione: l’Olanda dall’Indonesia, la Francia dal Vietnam, il Regno Unito
dal subcontinente indiano e da Hong Kong. Negli anni ’80, URSS e la DDR assunsero i lavoratori vietnamiti che, dopo la riunificazione tedesca, rimasero
mettendosi in proprio. La maggior parte dei migranti asiatici si trova nei paesi d’immigrazione tradizionale, ma si sta assistendo anche a un crescente flusso
di migranti verso l’Europa da Cina, India, Giappone e Filippine; si tratta anche di personale medico e informatico, collaboratrici domestiche e lavoratori
manuali. Il più grande spostamento asiatico mai registrato è quello verso gli USA dopo l’Immigration Act del ’65, che aumentò esponenzialmente dagli anni
’80 in poi. Tali migranti beneficiarono del ricongiungimento familiare. La migrazione asiatica in Australia si sviluppò dopo l’abolizione dell’Australia
Bianca, stimolata anche dal movimento di rifugiati indocinesi degli anni ’70. In Canada, fu grazie all’Immigration Act del ’76, che prevedeva criteri di
selezione non discriminanti e l’attenzione ai rifugiati e ai ricongiungimenti, che si spalancarono le porte alla migrazione asiatica. Anche la Nuova Zelanda
abbandonò le politiche di entrata a sfondo razziale, instaurando negli anni ’50 nuovi legami economici e politici con le vicine isole del Pacifico; dal ’91, le
politiche appoggiano l’immigrazione di persone con abilità professionali e capitale d’investimento. Le migrazioni dall’Asia all’America del Nord e Oceania
hanno in comune il fatto che i movimenti non previsti siano scaturiti dai ricongiungimenti familiari e che i paesi d’origine si sono molto differenziati. La
tendenza più importante oggi è la crescita della migrazione dalla Cina. Tutti i paesi d’immigrazione hanno cambiato le loro regole per incoraggiare l’entrata
di migranti con abilità professionali o con capitale. Da ciò è emerso un mercato del lavoro per lavoratori altamente qualificati, dove l’Asia gioca la parte del
leone.
La migrazione lavorativa dall’Asia verso il Medio Oriente si evolse rapidamente dopo l’impennata del prezzo del petrolio nel ’73. I paesi ricchi di petrolio
importavano manodopera straniera per svolgere il lavoro manuale dei molti progetti edilizi, secondo accordi bilaterali con gli stati d’origine, che a loro volta
concedevano a enti privati l’organizzazione delle assunzioni. Tuttavia, l’invasione irachena del Kuwait e la Guerra del Golfo costrinsero gli immigrati a
tornare in patria, sebbene l’assunzione di manodopera asiatica continuò subito dopo la guerra. Dopo l’85, il calo edilizio fece sì che i lavoratori a contratto
venissero indirizzati verso il settore dei servizi; ne seguì una femminilizzazione dei flussi, provenienti soprattutto da Sri Lanka e Indonesia. Si tratta delle
collaboratrici domestiche, molto esposte a sfruttamento ed abuso sessuale, che è difficile per i paesi d’origine proteggere. Per questo i governi di paesi come
Bangladesh, Iran, Nepal e Pakistan proibirono una simile migrazione, sebbene continuasse comunque illegalmente. La migrazione asiatica nel Medio
Oriente si è molto differenziata con il tempo: mentre molti migranti rimangono semplici lavoratori non qualificati, altri eseguono lavori semi o qualificati
nel settore tecnico, meccanico e imprenditoriali, sebbene siano gerarchicamente secondi a europei o americani. Man mano che i flussi si diversificavano,
crebbe bruscamente la migrazione clandestina. Dagli ’80-’90 gli stati del Golfo hanno reclutato lavoratori necessari per i crescenti investimenti di capitale
per mezzo di un rigido sistema di contratti che evitava la residenza a lungo termine e il ricongiungimento familiare. Ciononostante, la dipendenza
strutturale dal lavoro migrante ha reso difficile ostacolare tali pratiche. Così negli anni ’90 questi stati hanno iniziato ad assumere manodopera locale e
hanno rimpatriato gli immigrati irregolari. Gli asiatici si trovano in condizioni difficili nei paesi arabi sia per la mancanza di diritti lavorativi, sia per
l’enorme differenza culturale, ma sono attratti dai salari molto più alti, anche se spesso vengono illusi dalle agenzie illegali che promettono lavoro ma
rubano loro soltanto denaro.
- Migrazione lavorativa all’interno dell’Asia
Sin dalla metà degli anni ’80, la rapida crescita economica e la diminuzione del tasso di natalità hanno stimolato una forte domanda di lavoro nelle
economie di recente industrializzazione dell’Est e Sudest Asiatico. La migrazione lavorativa in Asia crebbe in modo esponenziale nella prima metà degli
anni ’90. In tutte le “tigri economiche” i lavoratori migranti svolgono i lavori cosiddetti “delle tre D” (dirty, dangerous and difficult), di norma sottopagati e
che non richiedono alcuna qualifica e che i locali rifiutano sempre più spesso. L’orientamento più ovvio è l’aumento della migrazione interasiatica e
l’aumento della diversità, poiché negli ultimi anni sono aumentati in tutta la regione i flussi di lavoratori altamente qualificati, come anche la richiesta di
lavoratori nel campo sanitario e assistenziale.
Di recente, l’evoluzione chiave è stata la femminilizzazione della migrazione, quasi inesistente prima degli anni ’70; in seguito, la domanda di collaboratrici
domestiche crebbe, prima nel Medio Oriente e, dagli anni ’90, all’interno del continente asiatico. Gran parte delle donne migranti svolge lavori tipicamente
femminili: collaboratrici domestiche, intrattenitrici (prostitute), cameriere e lavoratrici nelle catene di montaggio nell’industria elettronica e
dell’abbigliamento. Tale migrazione si ripercuote sulle dinamiche familiari del luogo di provenienza, perché queste donne devono lasciare i figli nelle mani di
altre persone e le lunghe assenze incidono sui rapporti e sui ruoli di genere. Altra forma di migrazione femminile è il matrimonio: a partire dagli anni ’40 le
donne giapponesi, coreane e vietnamite sposarono militari statunitensi, mentre negli anni ’90 emerse il fenomeno delle “mogli per corrispondenza” in Europa
e Australia. In Giappone gli uomini delle campagne, rimasti soli poiché le donne erano attratte dalla città, sposarono donne filippine, vietnamite e
tailandesi, che soffrirono però forme di isolamento sociale; gli indiani presero spose del Bangladesh, i cinesi sposarono vietnamite, laotiane o birmane. Tutti
questi matrimoni erano pianificati da organizzazioni e le conseguenze culturali furono importanti, come in Corea, dove la presenza di madri straniere fu
vista come una minaccia all’identità nazionale.
Un’altra caratteristica della migrazione asiatica è il ruolo rivestito dalla cosiddetta “industria migratoria”, ovvero agenzie di migrazione e intermediari
lavorativi. Se da una parte alcune agenzie svolgono attività legittime, dall’altra ve ne sono altre che ingannano e sfruttano i lavoratori. A volte, le
organizzazioni che svolgono il contrabbando di persone includono ex migranti e funzionari sia dei paesi d’origine che di destinazione, così come intermediari
lungo il tragitto, motivati o dalla volontà di aiutare i migranti o dal profitto. La tratta implica l’uso di violenza, coercizione e raggiro, ai fini dello
sfruttamento di migranti trattati come merce da scambiare. Hugo fa notare la complessità della migrazione irregolare, sostenendo che esiste un continuum
tra il movimento volontario, il passaggio da intermediari e la tratta e schiavitù per debiti. L’aumento di tali pratiche si collega alla riluttanza dei governi a
gestire in modo efficace la migrazione. Inoltre, i lavoratori possono fungere da capro espiatorio per criminalità, malattie e disoccupazione.
La migrazione interasiatica è considerata come temporanea e non insediativa, poiché i datori di lavoro necessitano di manodopera non qualificata per
sopperire al bisogno immediato di manodopera; al tempo stesso i lavoratori vogliono rientrare nei propri paesi d’origine e questi ultimi non vogliono perderli
permanentemente. La linea guida è che la migrazione non va bene per lo stato-nazione e deve essere un espediente temporaneo che non prevede insediamento
e cittadinanza, poiché identità nazionale e cultura non devono essere modificate per fronteggiare influenze esterne.
- Asia orientale
Nell’Asia Orientale, la concomitanza di basso tassa di natalità e quindi invecchiamento della popolazione, rapida crescita economica e aumento della
migrazione clandestina ha causato grandi contraddizioni. Il Giappone ha vissuto un’immigrazione lavorativa considerevole e molteplice sin dalla metà degli
anni ’80, dalla Corea, Cina, Brasile, Filippine e Perù, tuttavia le politiche governative e gli atteggiamenti pubblici rimangono contrari all’assunzione di
manodopera straniera, per timore di perdere l’omogeneità etnica della popolazione; tenuto conto dell’afflusso continuo, tale politica genera tensioni.
Durante gli anni ’70-’80, la Corea esportava forza lavoro nei paesi del Golfo, ma nel 1994 nacque il “sistema per gli apprendisti industriali”, che fece sì che
la manodopera non qualificata venisse sottopagata e perdesse diritti. Nel 2004 il governo coreano introdusse un sistema di permessi lavorativi che
concedevano ai migranti uguali diritti e trattamento sul mercato dei coreani, ma i permessi erano validi per 3 anni e solo con i paesi con cui la Corea ha
stretto rapporti bilaterali. Tra i residenti in Corea vi erano spose stranieri e cinesi di origine etnica coreana, che subirono discriminazione perché percepiti
come possibile fonte di conflitto sociale. Tuttavia, a partire dal 2006, il governo si impegnò per cercare di garantire un lavoro e l’ingresso ai cittadini cinesi
di etnia coreana. Tra gli anni ’50 e la riunificazione con la Cina, Hong Kong mutò da un’economia industriale a una post-industriale basata su commercio,
servizi e investimento. I lavoratori altamente qualificati dall’America del Nord e dall’Europa vennero assunti nel settore dell’istruzione, della finanza e
della gestione, mentre gli irregolari entravano dalla Cina e molti lavoratori qualificati della città emigravano nei paesi classici d’immigrazione. Dopo la
riunificazione con la Cina, Hong Kong divenne Regione Amministrativa Speciale con leggi e istituzioni proprie, che portarono alla non ammissione di
lavoratori non qualificati, ma al ricongiungimento familiare per molti cinesi già presenti. Nel ’92 Taiwan mise in atto una politica di assunzione di
manodopera estera per sopperire alla carenza interna ma la durata di lavoro era limitata a due anni e l’assunzione era gestita da intermediari lavorativi, che
però a volte agivano in maniera illegale. Il governo taiwanese ha siglato accordi lavorativi con Vietnam, Tailandia, Indonesia, Mongolia e Filippine per
disciplinare l’assunzione tramite agenzie.
- Sudest asiatico
Il Sudest asiatico è caratterizzato da un’altissima diversità etnica, culturale e religiosa e da notevoli disuguaglianze economiche. I governi di questi paesi si
occupano di mantenere complessi equilibri etnici e di contrastare qualsiasi minaccia alla sicurezza. Singapore è un paese privo di risorse naturali, ma che è
stato in grado di costruire un’economia da Prima mondo grazie alla specializzazione nell’industria dei servizi moderni. Fa ampio affidamento
sull’importazione di manodopera di ogni livello qualificativo. Gli stranieri lavorano nell’edilizia, nei cantieri navali, nei trasporti e nel terziario, le donne
nei lavori domestici e nei servizi. Il governo ha però tassato i lavoratori stranieri, stringendo i salari; inoltre i non qualificati non possono insediarsi
stabilmente e portare le famiglie con sé, mentre favorisce i qualificati, specie i cinesi, hanno uno status privilegiato e sono incentivati a stabilirsi
permanentemente. La Malesia è un altro paese del Sudest asiatico che dipende quasi totalmente dalla manodopera straniera. La rapida crescita economica
degli anni ’80 l’ha trasformata in una tigre di seconda ondata, con una grave penuria di lavoratori soprattutto nelle piantagioni. A causa della complicata
posizione etnica malese, l’immigrazione è sempre stata controversa ed è stato faticoso trovare approcci adeguati. Sempre negli anni ’80, la Tailandia divenne
uno dei maggiori esportatori di manodopera nei paesi del Golfo, ma nel decennio successivo il lavoro edile, agricolo e industriale attrasse i birmani, in gran
parte clandestini, che per essere regolarizzati sono diventati “lavoratori registrati”. Inoltre, la tratta di donne per l’industria sessuale rimane un problema
irrisolto. In seguito alla diminuzione della natalità e crescita economica hanno fatto sì che i tailandesi non siano più disposti a svolgere i “lavori delle tre
D”, e il paese si avvia quindi a divenire luogo di immigrazione.
- Paesi d’emigrazione
Anche l’Asia in via d’industrializzazione ha le sue riserve di manodopera: Cina, i paesi dell’Asia Meridionale, Filippine, Indonesia, Vietnam, Cambogia,
Laos e Birmania sono tutti diventati principali fornitori di manodopera della regione e anche del resto del mondo. I governi hanno istituito amministrazioni
speciali per gestire le assunzioni e proteggere i lavoratori; questi governi ritengono che la migrazione sia economicamente vitale, in parte perché sperano che
possa ridurre la disoccupazione ma soprattutto per le rimesse. La Cina è un paese vasto, caratterizzato da migrazione interna dalla regione agricole all’ovest
e al centro e verso le coste orientali in rapida industrializzazione. Per quanto riguarda la migrazione internazionale, la Cina è ancora percepita perlopiù
come paese di emigrazione in ogni parte del mondo. La rapida espansione economica e la politica del figlio unico evidenziano la penuria di lavoratori rurali e
personale specializzato. Nel lungo termine, la Cina potrebbe diventare meta d’immigrazione per migranti economici e spose. Anche l’India ha vissuto un
periodo di emigrazione su larga scala, infatti si stima che la diaspora indiana si aggiri intorno ai 20 milioni di persone, emigrate nel Golfo, negli USA e in
altri stati sviluppati. Tuttavia, all’esportazione dei lavoratori più qualificati hanno corrisposto i flussi di ritorno di abilità e capitale, che contribuiscono
allo sviluppo elle moderne industrie manifatturiere e dei servizi. Infine le Filippine sono il paese d’emigrazione asiatico più importante, poiché sin dagli anni
’70 si è evoluta una vera e propria “cultura d’emigrazione” così radicata che lavorare e vivere all’estero è diventata per molti una prospettiva normale. Ciò
ha fatto maturare forti istituzioni in grado di gestire l’esportazione di manodopera e di tenere legami con la diaspora sebbene non si sappia ancora con
certezza se ciò abbia contribuito o meno allo sviluppo del paese.
- Migranti specializzati e studenti
Sebbene gran parte della migrazione asiatica sia composta da non qualificati, la mobilità di professionisti, dirigenti, tecnici e personale specializzato sta
aumentando. Sin dagli anni ’60, le persone con istruzione universitaria si sono spostati dai paesi del sud per accettare un’occupazione in America del nord,
Oceania e Europa. Nonostante ciò abbia causato la perdita di capitale umano, si è visto che questo tipo di migrazione ha avuto risvolti positivi legati a
rimesse economiche, sociali e culturali. Le perdite maggiori si registrarono negli anni ’80-’90 e riguardarono laureati, lavoratori informatici e medici, anche
perché gli USA dipendevano sempre di più da queste figure e oggi sono in competizione con Regno Unito, Germania e Francia, ma anche con Australia e
Canada, per accaparrarsi i lavoratori più qualificati. Un’altra forma di migrazione di lavoratori specializzati riguarda i trasferimenti all’interno di
multinazionali e organizzazioni internazionali, il cui preludio è la mobilità degli studenti, molto richiesti soprattutto se paganti, che spesso rimangono nel
paese di destinazione. Un’atra tendenza molto importante che emerge in questo momento è l’aumento della mobilità dei lavoratori specializzati in Asia, che
i paesi asiatici cercano di richiamare in patria. È chiaro che America del Nord, Oceania e Europa cominciano a perdere la loro posizione dominante
all’interno dell’industria educativa mondiale.
- Rifugiati
Alla fine del 2004 rilevò nell’area tra Asia e Pacifico il 33% del totale del numero di rifugiati al mondo, diminuzione sostanziale poiché nel 2000 si arrivava
al 44%; tale dato riflette la stabilizzazione politica data dalla liberazione coloniale e dalla Guerra Fredda per cui, se comparato con il Medio Oriente e
l’Asia centrale, l’Asia orientale e il Pacifico vivevano un momento tranquillo. Le tre più importanti emergenze scaturirono dalla divisione dell’India nel ’47
e in seguito dalle guerre in Indocina e Afghanistan. Nel ’75 più di 3 milioni di persone fuggirono da Vietnam, Laos e Cambogia a causa della Guerra del
Vietnam. Nell’89 fu adottato un “Piano d’azione comprensivo” per il re insediamento previo accertamento di chi fosse o meno vittima di persecuzione,
poiché chi veniva identificato come migrante economico veniva rimpatriato. In questo modo, nel ’95 l’emergenza fu superata, ma subito dopo si presentò
quella afghana. Gli stati Occidentali non si dimostrarono disponibili a ospitare nuove ondate di rifugiati dopo l’esodo indocinese, sebbene avessero investito
miliardi in armamenti allo scopo di sbaragliare al-Quaeda e i talebani. Nel 2002 l’Amministrazione temporanea dell’Afghanistan e l’ACNUR diedero il via
ad un massiccio programma di ritorno dei rifugiati e Australia, Regno Unito e altri paesi occidentali li rispedirono in patria; pertanto, Pakistan e Iran
ospitarono alla fin circa 1 milione di rifugiati a testa. Oltre a questi due grandi movimenti di rifugiati, vi furono esodi minori ma non meno traumatici, come
quello dei cinesi dopo il fallimento del movimento democratico nel ’89, che cercarono asilo in Georgia, Cecenia, Armenia, Azerbaigian e Tagikistan.
L’esperienza asiatica è la dimostrazione di quanto sia complessa la situazione dei rifugiati in condizioni di rapido cambiamento regionale: non è quasi mai
solo una questione di persecuzione politica individuale, ma anche di pressioni economiche e ambientali, , differenze etniche e religiose, scarsità di risorse
economiche e mancanza di garanzie dei diritti umani.

7. Migrazione nell’Africa subsahariana, Medio Oriente, Africa Settentrionale e America Latina


Quasi tutta l’Africa settentrionale ed il Messico stanno vivendo un periodo di transizione dato dal crollo demografico per bassa natalità che ridurrà i livelli
delle future migrazioni. Negli ultimi decenni, la migrazione internazionale di queste tre regioni è diventata più varia, complessa e rilevante dal punto di
vista politico ed economico.
- Africa subsahariana: mobilità all’interno e oltre il continente
Alcuni storici e studiosi contemporanei sostengono che l’Africa è il continente con il popolo più mobile di tutta l’umanità, ma la maggioranza degli
spostamenti avviene all’interno del continente stesso, e i flussi in uscita non sono paragonabili a quelli interni. Nel periodo precoloniale gli spostamenti
dipendevano dalle abitudini antiche di piccoli gruppi etnici, legate alle circostanze ambientali, oppure da guerra, crescita demografica a fattori economici.
Lo spostamento più grande fu quello del popolo bantù che da Nigeria e Camerun si spostò nel meridione, unendosi ad altri gruppi lungo il cammino.
Quattrocento anni di tratta di schiavi nell’Atlantico produssero 15 milioni di migranti forzati. Oggi alcuni gruppi mantengono lo stile di vita tradizionale,
ossia mobilità stagionale; tuttavia la migrazione ha subito cambiamenti economici, politici e sociali: molti migrano per cercare migliori condizioni di vita e
lavoro (39 dei 50 paesi meno sviluppati, 70% dei cittadini di alcuni paesi vive con meno di 1 dollaro al giorno), altri fuggono da guerre e violenze
diventando sfollati interni. Inoltre, è molto difficile ottenere dati sui migranti africani in quanto alcuni stati non sono censiti, molte persone non hanno
documenti d’identità e le leggi in tema d’immigrazione, emigrazione e cittadinanza variano considerevolmente. Per molti, le destinazioni sono Libia, Egitto
o Marocco, solo una piccola parte tenta la traversata del Mediterraneo.
Il colonialismo ha plasmato in vari modi la mobilità africana. Nel XIX secolo il continente è stato diviso come una torta in entità politico-ammnistrative
con confini imposti, che dividevano le nazioni africane e i gruppi etnici; agricoltori e amministratori europei furono seminati in tutto il continente,
diventando dopo l’indipendenza minoranze sia privilegiate sia vulnerabili. Il colonialismo controllò sempre la mobilità africana al fine di fornire schiavi per
le piantagioni e le miniere americane controllate dagli europei, sebbene l’intenzione era temporanea poiché la concentrazione permanente era vista come una
minaccia; tutto ciò ha prodotto un processo di rapido inurbamento che dura tutt’ora e che ha causato povertà estrema e malattie.. Flussi esterni di migranti
si sono diretti verso le ex potenze coloniali (congolesi in Belgio, senegalesi in Francia e nigeriani in Regno Unito) e dalla fine dell’apartheid vi è stata
un’emigrazione dei sudafricani bianchi, che comunque sono sempre l’80% della popolazione.
Molti paesi africani sono interessati da migrazione sia economica che forzata: la prima ha predominato per quasi tutto il periodo ’70-’90, ma la seconda è
intervenuta durante le brutali lotte di liberazione delle colonie contro le potenze coloniali non disposte a cedere il controllo. La sconfitta del colonialismo e
l’istituzione degli stati indipendenti spesso non significò tuttavia situazioni di pace: guerre per procura durante la Guerra Fredda, pressioni politiche ed
economiche, fornitura di armi, mercenari e intervento militare diretto provocarono nuovi conflitti e protrassero gli esistenti (guerre interne, persecuzione
delle minoranze e raramente conflitti transfrontalieri e interventi internazionali). Più della metà dei rifugiati sono stati sfollati dal Corno d’Africa e
dall’Africa orientale, il primo colpito da carestie e siccità, la seconda da estrema violenza e guerra civili (Ruanda, Burundi, Uganda e Repubblica
Democratica del Congo). Gli stati dell’Africa orientale hanno accettato nonostante tutto di ospitare i rifugiati, persino durante un conflitto, e la comunità
internazionale ha fatto affidamento su questa disponibilità per limitare i flussi verso nord; tuttavia, dopo l’espulsione dei profughi ugandesi dalla Tanzania
nel ’96, gli africani sono diventati più rigidi. Oggi, secondo l’ACNUR, la situazione è migliorata ma i profughi rimasti sono in condizioni di “esilio
protratto”, ovvero nei campi da più di 5 anni con poche speranze che per loro le cose cambino. Ciononostante, laddove sono stati siglati accordi di pace, i
rifugiati sono stati rimpatriati o re insediati; tuttavia gli stati d’origine non sono preparati a tale ritorno di massa, che sta ostacolando la loro stabilità.
L’enorme pressione di queste migrazioni forzate ricade su popolazioni povere , mente i paesi ricchi del nord tollerano un numero di rifugiati molto minore.
La migrazione per motivi economici è un fattore importante per tutta l’Africa, anche per le zone molto colpite da migrazione forzata; tale migrazione è
preponderante in molte parti del continente e si è concentrata in Libia, Costa d’Avorio, Ghana e Gabon, Sudafrica e Botswana. L’Africa occidentale è
considerata la parte più mobile del continente. I movimenti contemporanei più consistenti avvengono dalla zona dell’entroterra settentrionale alle coste del
sud, dove i migranti cercano lavoro in fabbriche, miniere e piantagioni. La migrazione internazionale è stata in gran parte spontanea, e i migranti sono stati
accolti a braccia aperte in momenti di crescita e respinti in quelli di crisi. Oggigiorno, in Africa occidentale perdurano modelli multi direzionali di migrazione
lavorativa dentro la regione, sebbene spesso siano temporanei, sebbene sempre più africani dell’Ovest si stia spostando a nord e a sud, nonché in Europa,
Cina, Giappone e America del Nord. In particolare, il Sudafrica postapartheid attrae migranti di tutta l’Africa; sebbene nel 2002 il governo promulgò una
legge sull’immigrazione che prevedeva l’assunzione di personale qualificato, il sistema temporaneo di reclutamento nelle miniere continuava e la percentuale
di lavoratori stranieri era del 60%. In Sudafrica erano arrivati migranti ghanesi, nigeriani e congolesi con qualifiche ed esperienza in campo medico,
educativo, amministrativo e degli affari, ma dal ’94 sono stati deportati più di 1 milione di migranti e la xenofobia è diventata un problema molto
preoccupante.
Il carattere prevalentemente intracontinentale della migrazione africana persiste ancora oggi; nonostante l’isteria dei media riguardo alla crescita della
migrazione africana in Europa, le cifre sono dell’ordine dello 0,5% del totale della popolazione europea. Tuttavia, il periodo di globalizzazione post anni
’80 ha incrementato i movimenti dall’Africa ai paesi sviluppati. La migrazione africana in europa e Medio Oriente ha coinvolto un crescente numero di
migranti lavorativi irregolari e con scarsa istruzione; le arre d’interesse sono Spagna, Isole Canarie, Italia e Malta. Le più rigide misure di controllo e
pattugliamento navale da parte di paesi dell’UE hanno costretto i migranti irregolari a intraprendere rotte marine lunghe e pericolose, aumentando il tasso
di mortalità. Una volta giunti in Europa, gli africani affrontano disoccupazione, razzismo e miseria, ma sono disposti a farlo pur di fuggire dalle mancanze
di opportunità a casa loro. Le nazioni dell’UE e dell’Unione Africana stanno cooperando per combattere la migrazione irregolare (accordi bilaterali con la
Spagna, trattati Ue per ridurre migrazione irregolare e creare posti di lavoro in Africa occidentale). Poiché molti emigrati africani che scelgono i paesi
sviluppati sono istruiti, un problema per lo sviluppo africano è la fuga di cervelli, soprattutto in ambito sanitario poiché gli stati sviluppati offrono
incentivi ai più promettenti, inoltre, l’alto tasso di mortalità per malattia ha ulteriormente aggravato il fenomeno. Oltretutto, l’istruzione, la formazione e
l’esperienza lavorativa estera spesso non hanno alcun valore nei paesi d’immigrazione, e gli immigrati sono costretti ad accettare lavori inferiori al loro
livello di preparazione.
Gli africani all’estero mandano tutti denaro alle famiglie, quindi le rimesse rappresentano una forma decisiva di reddito per milioni di persone. L’Africa
subsahariana è stata testimone della creazione di diverse organizzazioni internazionali che incentivano il libero movimento di merci, capitale e persone e
hanno tutte introdotto norme per il libero movimento di nazionali tra gli stati membri. Tuttavia, si è in disaccordo sulla loro reale efficienza, poiché gli
accordi sono stati scarsamente applicati o contraddetti da politiche e prasi di ciascuno stato, e sussiste una grossa fetta d’immigrazione irregolare.
- Il Medio Oriente e l’Africa del Nord (MENA): una regione cruciale dal punto di vista geostrategico
Questa regione comprende un’area dove l’enorme diversità politica, culturale ed economica ha portato ad altrettante forme di migrazione e mobilità,
tuttavia, esistono similitudini storiche, geografiche, religiose e culturali che hanno dato vita ad esperienze migratorie comuni. Oggi la migrazione nel
MENA si svolge secondo sei modelli principali: le forme tradizionali di mobilità; la migrazione per l’insediamento interno; l’emigrazione in altre parti del
mondo; la migrazione lavorativa interna; i flussi interni di rifugiati; la migrazione di transito.
Le ragioni dell’estrema mobilità del MENA sono la presenza dei deserti, di numerosi luoghi di culto che stimolano il pellegrinaggio e una lunga storia di
imperi e vaghi confini che hanno incoraggiato lo scambio di beni e conoscenza, cosa che diminuì tra il XIX e il XX secolo per la regolamentazione più precisa
dei confini statali. Le popolazioni nomadi furono le prime vittime di queste strutture più forti, poiché i governi attuarono politiche di sedentarizzazione
forzata per controllare e tassare i gruppi, i pellegrini e i commercianti.
Sulla scia della contrazione dell’Impero Ottomano, nacquero stati nazionali con politiche di preferenza nazionale che operarono espulsioni di non-nazionali
e accoglienza di nazionali, che diedero luogo a vari trasferimenti, come in Turchia, Israele e alcuni stati arabi, che hanno garantito il diritto a insediamento
e cittadinanza solo a coloro che avevano legami storici o etnici con il paese. La Turchia, rispondendo alle pressioni UE, ha modificato tali linee politiche,
mentre i paesi del Golfo vedono ancora i lavoratori stranieri come una minaccia all’ordine nazionale.
Per quanto riguarda l’emigrazione, la principale destinazione è l’Europa, che possiede circa 6 milioni di migranti provenienti dal MENA; la seconda
destinazione sono gli stati petroliferi del Golfo. Il motivo alla base degli alti livelli di emigrazione è la crescita esplosiva della popolazione sotto i trent’anni,
parallela a disoccupazione e sottoccupazione; ciononostante, si è riscontrato anche un brusco calo della natalità e quindi la pressione sul mercato del lavoro
è destinata a diminuire, così come l’emigrazione. La ricerca sull’emigrazione del MENA si è concentrata sia su aspetti psicologici e sociali (“richiamo
dell’Occidente”), ma anche sulla centralità del capitale sociale e delle reti migratorie nella creazione e mantenimento degli schemi migratori, nonché sul suo
ruolo nel causare conflitti politici tra stati di provenienza e destinazione (Algeria-Francia, Turchia-Germania, Marocco-Spagna).
La crisi petrolifera del ’73 generò le risorse finanziarie per un boom edilizio che richiese l’assunzione di migliaia di lavoratori stranieri, che nel periodo ’60-
’70 erano in prevalenza arabi, mentre oggi la percentuale di non arabi è molto più elevata. I migranti sono stati spesso usati dai paesi ospitanti o da quelli
politici per favorire l’agenda politica, comportamento di cui è esempio estremo la Libia. Essa prima ammette e poi espelle gli egiziani e palestinesi; nel
periodo di Gheddafi fu incoraggiata l’ entrata di migranti dal Chad, Sudan e Niger; dal 2000 gli africani di colore in Libia sono vittime di xenofobia,
violenza ed espulsioni. Tuttavia, la Libia continua ad essere sia destinazione che luogo di transito per lavoratori migranti africani. Nel MENA, le denunce
di condizioni precarie, violazione dei diritti, espulsioni, violenza e abuso sono la routine, nonostante l’esistenza di trattati atti ad assicurare tale
protezione. La sostituzione dei lavoratori mediorientali con quelli asiatici, la femminilizzazione dei flussi di lavoratori migranti, la vulnerabilità, lo
sfruttamento e la dipendenza dalla manodopera migrante sono andamenti rilevanti anche per i flussi verso i paesi non produttori di petrolio. Per quanto
riguarda i palestinesi, la loro dispersione è difficile da quantificare. Durante la prima Intifada essi attaccarono gli ebrei di Israele e lo stato introdusse leggi
restrittive per proteggersi; nel 2002 lo stato dichiarò guerra all’assunzione irregolare di stranieri, ma questo servì solo da deterrente.
L’incessante instabilità politica della regione ha causato costanti flussi di migrazione forzata fuori e dentro i paesi del MENA, così che essi hanno sia
creato che ricevuto rifugiati. La questione dei rifugiati oggi è legata soprattutto ai palestinesi, che sono 4 milioni sparsi nel mondo. Gli accordi di pace con
Israele degli anni ’90 non hanno risolto granché, e le negoziazioni in materia di rifugiati, rimpatrio, compensazione, riparazioni e accesso ai territori sono gli
aspetti più difficili del processo di pace, per via delle posizioni diametralmente opposte. Dal ’90 gli iracheni divennero un’altra popolazione di rifugiati a
causa del regime repressivo di Saddam e della Guerra del Golfo, e poi dell’invasione statunitense dello stato nel 2003. I 4 milioni di rifugiati iracheni
trovarono posto principalmente in Giordania e Siria. Un altro gruppo di profughi è quello del Corno d’Africa (Somali, Eritrea ed Etiopia) diretti in Yemen,
oltre a quello sudanese diretto in Egitto, Siria, Giordania e Israele. Dopo il bombardamento israeliano del Libano nel 2006 si è prodotto un altro flusso,
diretto in Siria, che sarebbe rientrato dopo la fine delle ostilità. A seguito di tutti questi movimenti di esuli, negli anni ’90 l’Iran ospitava il maggior numero
di profughi afgani che si sono insediati oggi stabilmente; la Turchia ne ha ricevuti dai Balcani, dall’Iraq, dall’Iran e Asia centrale e Kurdistan; mentre
l’Egitto ha ospitato africani (sudanesi) e palestinesi.
Il MENA ha capito l’esigenza di prendere dei provvedimenti per disciplinare la migrazione. Tuttavia, molti paesi vedono la migrazione come una soluzione
a disoccupazione e come una risorsa grazie alle rimesse, mobilitando le diaspore per incoraggiare lo sviluppo nazionale. Viceversa, nessuna politica è stata
messa in atto per regolare i flussi di migrazione lavorativa né in materia di rifugiati e diritto di asilo. I rapporti tra l’ACNUR e le autorità locali sono tesi e
gran parte di questi paesi conserva una visione nazionale o etnica della cittadinanza, sebbene l’incremento crescente d’immigrati permanenti renda urgente
una discussione su una società più diversa e multiculturale.
- America Latina e Caraibi: da immigrazione a emigrazione
La regione a Sud degli USA è divisa in quattro aree principali: il Cono Sud (Brasile, Argentina, Cile, Uruguay e Paraguay), ha una popolazione di origine
tendenzialmente europea dovuta al massiccio insediamento di immigrati dal vecchio continente; tuttavia sono avvenuti anche afflussi da altre parti, come
gli schiavi africani e i lavoratori giapponesi degli anni ’50; l’area andina a Nord e a Ovest in cui la popolazione è composta da meticci indio-europei e dove
l’immigrazione europea fu meno significativa; le società dell’America Centrale sono costituite da persone di origine india o meticcia; le società caraibiche, che
sono composte da persone di origine africana ma anche asiatica ed europea.
L’America Latina e i Caraibi hanno ricevuto tra il 1800 e il 1970 21 milioni di immigrati da Spagna, Portogallo e Italia (quella loro in Argentina fu la più
grande). Man mano che l’afflusso di europei si affievoliva, si sviluppò la migrazione lavorativa interregionale. I lavoratori stranieri si disseminarono dalle
aree agricole ai più grandi centri urbani e furono presto raggiunti dalle famiglie, creando interi quartieri di immigrati irregolari. Tuttavia, la migrazione
irregolare non fu percepita come un problema in Sudamerica sino agli anni ’60. Il Venezuela è dipeso dai lavoratori colombiani per la raccolta del caffè, e
gran parte di essi erano irregolari, nonostante la sottoscrizione nel ’79 del Patto Andino volto a regolarizzare i residenti in maniera irregolare. Nonostante il
malcontento per la continua instabilità politica ed economica, il Venezuela continuò ad ospitare flussi migratori dai paesi confinanti. L’Argentina è ancora
sia paese d’immigrazione, prevalentemente interregionale, che di emigrazione. Nel 2006 l’Argentina annunciò un piano di regolamentazione e chi ne avrebbe
soddisfatto i termini avrebbe ricevuto un permesso di soggiorno di due anni e dopo cinque avrebbe potuto richiedere la residenza permanente.
Il MERCOSUR comprende Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay e Venezuela, per una popolazione totale di 250 milioni di abitanti. Il Gruppo Andino
include invece Bolivia, Colombia e Perù, con una popolazione di 98 milioni di persone. I movimenti di persone tra i confini nazionali all’interno di questi
blocchi hanno suscitato grande interesse, tuttavia un’informazione inadeguata ha frustrato il coordinamento e la cooperazione, quando si tratta di gestire la
migrazione interregionale, queste aree hanno una reputazione molto debole.
La seconda caratteristica importante del periodo dopo la Guerra Fredda è che, sebbene ci siano stati consistenti rimpatri, conseguenti agli accordi di pace
siglati da alcuni paesi, lo scatenarsi di nuovi conflitti nella regione ha generato nuovi flussi. Gli accordi di pace più importanti vennero raggiunti in America
Centrale (El Salvador, Nicaragua e Guatemala) e negli anni ’90 vennero rimpatriati molti guatemaltechi dal Messico, mentre quelli presenti in USA,
insieme a salvadoregni e nicaraguensi non rimpatriò e fecero domanda di asilo, che vennero tuttavia rifiutate. L’allora presidente del Salvador, Duarte,
scrisse al governo statunitense che tale politica minava la stabilità del suo paese, che contava sulle rimesse dagli Stati Uniti. Questo paese è stato una
destinazione comune per gli haitiani e i cubani in fuga, spesso illegalmente su barconi, ma a causa della rigida politica immigratoria degli Stati Uniti non vi
furono grandi fuoriuscite, nemmeno dopo la crisi haitiana e le rivolte di ribelli. Haiti venne invasa dagli Stati Uniti nel 2004 proprio per evitare
un’emigrazione di massa.
Fin dal periodo coloniale i migranti caraibici erano giunti sulle coste orientali e meridionali degli odierni USA. Questi flussi verso Nord si accentuarono
durante la Seconda Guerra Mondiale, quando i lavoratori provenienti dai Caraibi erano assunti per impieghi relativi alla difesa e all’agricoltura; si trattava
di manodopera temporanea che mise in moto flussi regolari e irregolari, insieme a fattori come il declino dell’economia, l’esplosione demografica, la
migrazione dalle campagne alle città, l’instabilità politica e i conflitti. Le politiche di intervento politico e militare messe in atto dagli USA ebbero
conseguenze decisive, come nel caso della Repubblica Dominicana. Il fattore più importante dietro l’aumento dell’emigrazione sudamericana fu il disastro
economico degli anni ’80, definiti “decennio perduto”. La situazione migliorò leggermente nel decennio successivo, con il rinnovamento democratico e la
tendenza alla liberalizzazione, per peggiorare ulteriormente in seguito (il 40% della popolazione viveva sotto la soglia di povertà). Nel XXI secolo
l’emigrazione si concentrerà sugli altri continenti, ovvero si ha un ritorno ai paesi d’origine o dei propri antenati tramite accordi preferenziali con questi
stati, sia europei sia asiatici. Anche i brasiliani torneranno in Portogallo, ma anche in USA e Giappone. Il Portogallo regolarizzò i brasiliani irregolari e
incentivò l’arrivo di lavoratori specializzati di classe media. Il numero di brasiliani negli USA aumentò ed essi si spostarono anche in Giappone insieme ad
altri sudamericani di origine nipponica, migrazione facilitata dalla revisione sul controllo della migrazione in Giappone che dava precedenza ai migranti di
origine o discendenza giapponese, migliorando le opportunità formative e lavorative per i migranti qualificati. L’Argentina, degli anni ’90, ha subito una
transizione migratoria divenendo paese di emigrazione verso USA, Spagna, Italia e Israele, alimentata da disoccupazione, domanda estera di manodopera e
accordi preferenziali, come il riconoscimento della discendenza e delle doppia cittadinanza in Spagna e Italia; si è riscontrata anche la migrazione di ritorno
verso Cile, Bolivia, Paraguay e Uruguay e negli USA molti arrivarono con il ricongiungimento familiare. In generale, l’Europa è diventata la meta
principale dei migranti sudamericani; la Spagna occupa la più grande comunità sudamericana del continente, con gli equadoregni al primo posto, mentre in
Italia peruviani e brasiliani sono i più numerosi. La femminilizzazione è un altro andamento importante, soprattutto da Colombia e Repubblica
Dominicana specie in Spagna, dove la manodopera è richiesta principalmente nell’ambito dei servizi domestici.
Un 65% circa dei 25 milioni di latinoamericani all’estero manda rimesse a casa; è stato stimato che le sole rimesse nel periodo 1999-2005 hanno ridotto il
tasso di povertà dei paesi sudamericani del 3%, ed è probabile che tuttora esse costituiscono la principale fonte di reddito per molte famiglie. In tutta la
regione, la tratta di esseri umani è stato un elemento di primo piano (donne e bambini dominicani per l’industria sessuale) e ci si aspetta che il fenomeno
cresca ancora, sebbene molti paesi sudamericani stiano cercando di collaborare tra loro per contrastarlo (Processo di Puebla del ’96, osservatori, cooperazioni
bilaterali e regionali). I confini tra USA e Messico sono scenario di un durissimo controllo frontaliero, che costringe i messicani a ricorrere a mezzi illegali e
pericolosi per entrare nel paese, come l’attraversamento del deserto dell’Arizona. Gli andamenti generali e i modelli migratori dell’America Latina resteranno
probabilmente invariati, ed è probabile che l’emigrazione verso il vecchio continente aumenti in futuro.

8. Lo Stato e la Migrazione Internazionale: la missione per il controllo


Durante la recessione economica globale nei primi anni ’70, al fine di combattere l’immigrazione irregolare, le democrazie postindustriali come Francia,
Germania e Stati Uniti misero in atto una “missione per il controllo” dei movimenti transfrontalieri, che richiese sforzi intensi per prevenire abusi,
circonvenzioni politiche e regolamenti in tema d’immigrazione.
- Le sanzioni ai datori di lavoro
Sin dagli anni ’70 gli USA e gran parte dei paesi europei hanno emanato leggi che puniscono i datori di lavoro per l’assunzione illegale di stranieri
clandestini; tuttavia, tale pratica ha incontrato molte resistenze poiché spesso i datori di lavoro hanno avuto l’ascendente politico per prevenire
l’applicazione delle sanzioni, mentre i lavoratori non sono riusciti a regolarizzarsi per aura di perdere il lavoro e di non riuscire a trovarne un altro. Secondo
la direttiva adottata dalla Commissione Europea nel maggio 2007, i lavoratori erano obbligati a verificare l’identità e l’autorizzazione lavorativa dei
nazionali di paesi terzi, notificando alle autorità competenti l’intenzione di assumere; chi non avesse seguito tali direttive avrebbe subito ingenti multe, il
pagamento delle spese di rimpatrio e il rimborso di stipendi, tasse non pagate e previdenza sociale. Al contrario dell’Europa, gli USA non stabilirono
sanzioni ma, nel periodo ’60-’70 si crearono stabilimenti di montaggio al confine con il Messico per offrire opportunità di lavoro alternative ai braceros
messicani. Soltanto nell’86 Reagan rese punibile l’assunzione di immigrati clandestini con l’Immigration Reform and Control Act. Nel ’94 si concluse che
tale sistema aveva fallito poiché molti lavoratori potevano presentare documenti falsi; inoltre, le sanzioni furono ostacolate politicamente dai sostenitori
degli ispanoamericani, i quali asserivano che esse avrebbero ulteriormente favorito la discriminazione delle minoranze, mentre le imprese cercavano dal canto
loro di tutelare i propri interessi economici. Le sanzioni furono pertanto sospese nel ’99, ma dopo l’11 settembre il controllo divenne questione di sicurezza
nazionale e i fondi deputati alla sicurezza vennero deviati verso datori di lavoro in aree sensibili. La continua crescita della popolazione immigrata
irregolarmente scatenò un dibattito sul fenomeno immigratorio, che ha posto l’accento sul bisogno di nuove sanzioni e di documenti impossibili da
falsificare. Nel 2007 Bush annunciò l’applicazione di sanzioni mediante no-match letters, ossia avvisi ai datori di lavoro sul mancato riscontro dei
lavoratori nel registro pubblico, che tuttavia non ha dato esiti convincenti.
- Programmi di regolarizzazione negli USA e in Francia
Prima degli anni ’80, la tendenza di USA e Francia era quella di regolarizzare de facto i migranti. Nell’81 la Francia adottò un nuovo approccio di
regolarizzazione ai fini di combattere l’illegalità; tuttavia, molti stranieri idonei non erano al corrente dei programmi o temevano di parteciparvi. La prima
differenza con il progetto statunitense dell’86 sta nel fatto che negli USA il processo di regolarizzazione prevedeva un lasso di tempo di 5 anni tra
l’idoneità e l’applicazione. La seconda differenza riguarda il trattamento dei familiari dei candidati: negli USA essi erano temporaneamente tutelati con
uno status giuridico per motivi umanitari, sinché il candidato non si fosse regolarizzato. La transizione migratoria degli stati dell’Europa meridionale portò
ad un’ondata di regolarizzazioni di massa da cui hanno tratto beneficio più di 3 milioni di stranieri (Italia, 5 programmi). L’applicazione di queste politiche
iniziò a farsi strada anche in Germania, sebbene le autorità la considerassero una pratica controproducente. Paradossalmente, man mano che una nuova
generazione di paesi europei iniziò ad abbracciare le regolarizzazioni di massa, la Francia, che le aveva sempre difese, iniziò ad evitarle e nel 2006 Sarkozy
introdusse una procedura per individuare tramite la scuola il numero di genitori e bambini che risiedevano in maniera irregolare. Questo provvedimento
segnò l’inizio dell’inasprimento delle politiche immigratorie francesi. Nel 2006-2007 anche negli USA si sollevò la questione della validità della
regolarizzazione, verso un approccio assimilativo che prevedeva la “cittadinanza meritata” (lingua inglese, fedina penale pulita, lavoro ininterrotto).
L’anno dopo con il “grande compromesso”, si raggiunse un accordo secondo cui gli immigrati potevano regolarizzarsi previo soddisfacimento di alcune
condizioni. I giudizi sui programmi di regolarizzazione sono controversi, poiché essi possono essere interpretati sia positivamente che negativamente.
- Programmi di ammissione per i lavoratori stranieri temporanei
L’era successiva alla Guerra Fredda è stata testimone del riemergere di programmi per i lavoratori stranieri temporanei, ridotti nell’Europa occidentale dopo
il ’73, coinvolgendo sia i paesi con una storia di lavoratori ospiti alla spalle, come la Germania, sia paesi con poca o nessuna esperienza di questo tipo, come
l’Italia. Questi programmi si differenziano dai rimi poiché il numero di lavoratori ammessi è minore, i qualificati e non qualificati vengono trattati
diversamente e si rivendica il fatto di contribuire allo sviluppo de paesi di provenienza tramite le rimesse. La scelta della Germania di riprendere tali
programmi deriva dal tentativo di sostenere i governi democratici dell’Europa centrale e orientale per assicurarsene la cooperazione nella lotta alla
migrazione illegale e alla tratta. In questi paesi, tuttavia, i programmi di lavoratori ospiti rimasero marginali. Negli USA, queste politiche sono state difese
perché considerate una soluzione efficace per regolarizzare milioni di stranieri assunti in modo irregolare, sebbene gran parte dei messicani era intenzionata
a rimanere permanentemente nel paese. Oggi, molti stati assumono una posizione ambivalente, attraendo studenti, ricercatori internazionali e lavoratori
specializzati, ma restringendo la durata dei visti per i non qualificati.
- Rifugiati e asilo
Il numero dei rifugiati e dei richiedenti asilo mondiali è aumentato durante questo secolo dopo un periodo di relativa diminuzione nella metà degli anni ’90;
di conseguenza, l’asilo è diventato uno dei temi politici principali, e soggetto alla provocazione sensazionalista dei media che hanno fomentato i successi
elettorali delle destre in paesi molti diversi, motivati dalla paura di essere sopraffatti da afflussi di massa da sud e da Est.
I rifugiati e i richiedenti asilo sono migranti forzati e non economici. Il termine rifugiato è definito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sullo status dei
rifugiati del 1951 come una persona che risiede fuori dal paese di cui è cittadino e non può o non vuole ritornare temendo a ragione di essere perseguitato per
motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche. Il reinsediamento fa riferimento a quei
rifugiati a cui è permesso spostarsi dal primo paese di asilo ad altri paesi in grado di offrire protezione e assistenza a lungo termine. I richiedenti asilo sono
persone il cui status di rifugiato non è ancora stato determinato; le procedure decisionali possono durare diversi anni. Data l’assenza di ogni tipo di status
giuridico, questi migranti conducono un’esistenza emarginata. Gli sfollati interni sono stati obbligati ad abbandonare le loro case perché le loro vite sono in
pericolo ma, a differenza dei rifugiati, non hanno attraversato una frontiera internazionale; molti subiscono violenza, fame, malattie e violazione dei diritti
umani. Gli sfollati per motivi di sviluppo sono persone costretta a spostarsi per la costruzione di progetti di sviluppo su vasta scala (dighe, aeroporti, strade,
quartieri residenziali). Esistono anche i cosiddetti sfollati per motivi ambientali e catastrofi, destinati ad aumentare a causa del surriscaldamento globale,
senza contare quelli causati da conflitti etnici, sociali e politici.
La migrazione forzata crebbe sino al ’93, per poi calare sino al nuovo innalzamento nel 2006, quando l’ACNUR registrò che stati come Afghanistan,
Sudan, Burundi, Repubblica Democratica del Congo e Somalia iniziarono a produrre rifugiati, senza contare quelli non sotto la responsabilità dell’ente. I
primi dieci paesi con il maggior numero di rifugiati sono Pakistan, Iran, USA, Siria, Germania, Giordania, Tanzania, Regno Unito, Cina e Ciad; è
indicativo come solo tre siano paesi ricchi. Eppure, dagli anni ’80, Europa occidentale, America del Nord, Australia e Sudafrica hanno riscontrato un
incremento delle domande di asilo.
Poiché la migrazione forzata è un elemento di primo piano nella politica globale, è stato istituito un nuovo regime internazionale sui rifugiati, ossia un
insieme di norme legali basate sulla legislazione in materia diritti umani, il cui cuore è la Convenzione del ’51 e l’istituzione chiave l’ACNUR insieme ad
organizzazioni quali la Croce Rossa Internazionale, Il Programma Alimentare Mondiale, UNICEF, Medici senza Frontiere e molte ONG. Oggi,
l’ACNUR ha iniziato ad assumere nuove funzioni come quelle di un’organizzazione di soccorso umanitario; contribuisce alla gestione di campi di
accoglienza e fornisce assistenza alimentare e medica in tutto il mondo. Il regime dei rifugiati dei paesi occidentali si è trasformato in maniera fondamentale
negli ultimi trent’anni: è passato dall’essere un sistema messo a punto per accogliere i rifugiati della Guerra Fredda provenienti da est per reinsediarli come
esiliati permanenti in nuove case, a un regime di esclusione, progettato per mantenere all’esterno i richiedenti asilo del Sud del mondo.
Tra il ’75 e il 2000 gli USA concessero il re insediamento permanente a più di 2 milioni di rifugiati. Dopo gli attentati terroristici dell’!! settembre 2001, il
paese fermarono temporaneamente il programma di re insediamento dei rifugiati. Il Canada accettò numerose persone provenienti dall’Indocina, così come
l’Australia, dove però la questione fu politicizzata e venne adottata la cosiddetta “soluzione del Pacifico”. Essa consisteva nel mandare i richiedenti in
campi nella isole della Papua Nuova Guinea e di Nauru, chiusi poi nel 2007 con l’elezione di un governo laburista. Nell’UE, i cinque principali paesi di
origine dei richiedenti asilo nel periodo ’90-2000 erano la Iugoslavia, Romania, Turchia, Iraq e Afghanistan. Nel 2003 Blair propose di istituire aree di
protezione per i rifugiati nei paesi d’origine, ovvero creare campi in paesi come la Libia e l’Ucraina e valutare lì le domande di asilo; in questo modo si
prefiggeva l’obiettivo d un calo di rifugiati del 30-40%. A seguito di politiche simili le domande nei paesi dell’UE15 diminuirono bruscamente dal 2002 al
2006. Rispetto alla popolazione, le domande più numerose si registrarono a Cipro, in Austria e Svezia.
Man mano che i paesi ricchi diventano sempre meno disponibili ad ammettere i richiedenti asilo, molti cercano rifugio in nuove destinazioni come Sudafrica,
Kenya, Egitto, Malesia e Tailandia. L’ACNUR impiega il termine “situazioni di esilio protratto” per designare la popolazione di rifugiati in esilio da oltre
5 anni che , nel 2003 erano circa 6 milioni di persone ossia i 2/3 del totale.
- Integrazione regionale
Gli stati hanno tentato di regolare la migrazione internazionale attraverso accordi bilaterali o regionali, opzione questa praticabile se gli stati si fossero
impegnati a lungo termine nell’uniformare le economie nazionali. Sin dalla CECA e fino all’odierna UE, gli stati membri hanno proposto un progetto
federalista volto a soppiantare la sovranità degli stati membri mediante la creazione di governi ed istituzioni europei, ai fini della sicurezza e della
prevenzione dei conflitti. A seguito del trattato di Maastrict del ’94 (TUE), si ebbe un rafforzamento ed espansione delle istituzioni europee e la creazione
di tre pilastri, riguardanti il mercato comune, la giustizia e gli affari interni. Il trattato lasciò le questioni relative a immigrazione e asilo al terzo pilastro, e
dunque nelle mani degli stati membri. Il trattato di Amsterdam del ’97 portò invece questi temi sotto l’influenza dell’UE che mise in moto il trasferimento
delle decisioni riguardanti la libertà di movimento dall’autorità intergovernativa a quella sovranazionale, approccio consolidato nel vertice di Tampere in
Finlandia.
In merito alla libertà di circolazione all’interno dell’UE, l’articolo 48 trattato di Roma del ’57 stabiliva la mobilità tra gli stati membri a condizione di
possedere un’occupazione nello stato di destinazione; i principali beneficiari di tale articolo, entrato in vigore 11 anni dopo, furono gli italiani, sebbene non
si trattò, come invece era stato predetto, di un esodo (previsione smentita anche nel caso dell’annessione pianificata di Spagna e Portogallo egli anni ’80). Il
sostegno alla creazione di un mercato comune crebbe, e Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo e Olanda sottoscrissero gli Accordi di Schengen nell’85 con
i quali si impegnavano a creare uno spazio all’interno del quale i cittadini UE potessero circolare liberamente armonizzando il controllo alle frontiere
esterne, a meno che fossero nate circostanze per cui fosse stato necessario irrigidire i controlli frontalieri. Tali accordi entrarono in vigore dieci anni dopo; la
soppressione dei confini fu compensata dall’introduzione del sistema informatico di Schengen, volto a rafforzare la cooperazione in materie giudiziarie come
crimine internazionale e terrorismo. Sempre nel ’95 nuovi stati aderirono a Schengen (Danimarca, Finlandia, Svezia Regno Unito e Irlanda), sottoscrivendo
comunque solo parte degli Accordi. Tra il 2002 e il 2001, la Germania e la Francia si avvalsero di restrizioni per l’ingrasso di lavoratori polacchi, che nel
2007 il governo Merkel annunciò di voler togliere a seguito delle proiezioni di mercato che vedevano positivamente la mobilità. In merito all’annessione
turca, lo spettro di un’ulteriore ondata migratoria e l’islamofobia giocarono un ruolo rilevante nel respingimento della richiesta.
Secondo il TUE i residenti stranieri provenienti da altri stati dell’Ue hanno diritto al voto per le elezioni del paese di residenza, ma solo a quelle locali ed
europee, non nazionali. Lo status di cittadino di un paese terzo fa sì che queste persone non godano di libertà di circolazione e sono soggetti alle prerogative
degli stati su ingresso, soggiorno e allontanamento, e non sono state fatte alcune concessioni in merito alla mobilità intereuropea. L’effetto complessivo
dell’integrazione regionale europea negli ultimi decenni potrebbe essere di aver reso più credibile la missione europea per il controllo; infatti, gli stati dell’UE
che fanno parte di Schengen hanno esternato le funzioni di controllo attraverso la creazione di una zona cuscinetto in Europa centrale e orientale e di una
frontiera comune in Europa meridionale.
Gli Accordi di Schengen vennero percepiti dall’esterno come la creazione di una “Fortezza Europa”, meno accessibile alle esportazioni dall’esterno della
Comunità Europea. Per questo nell’88 Canada e USA firmarono un accordo sul libero scambio, il NAFTA, in seguito allargato anche al Messico ed entrato
in vigore nel ’94. Paradossalmente, l’interesse riguardo alla migrazione internazionale fu al centro della genesi del NAFTA, sebbene fosse appena nominata
nel testo del trattato. Le visioni sulla migrazione di USA e Messico erano agli antipodi, poiché i primi vedevano l’immigrazione dal Messico come in
contrasto con la legislazione vigente, mente l’economia del secondo non cresceva a sufficienza e non creava abbastanza posti di lavoro per la sua
popolazione in aumento. In definitiva, il trattato non alterò le norme vigenti in materia di mobilità, poiché si pensava che la liberazione del commercio
avrebbe ridotto la migrazione irregolare. Questo avvenne solo nel lungo termine; difatti, secondo la teoria di Martin della “gobba migratoria”, sulla scia del
NAFTA l’immigrazione irregolare dal Messico agli USA crebbe considerevolmente, poiché la liberalizzazione dell’economia messicana si abbatté sui poveri
e sulla classe media, che si spostò a Nord. Nel complesso, il NAFTA condusse all’espansione del commercio negli stati firmatari ma anche a una maggiore
interdipendenza socio-economica. Fox e Bush espressero la volontà di rivedere gli accordi bilaterali sulla migrazione per promuovere la libera circolazione di
persone nel NAFTA. Il divario economico tra Messico e USA contrasta con la politica federalista Ue, che ha fornito fondi per lo sviluppo dei membri più
svantaggiati.
- L’”industria migratoria”
Questo termine abbraccia un’ampia gamma di persone che si guadagnano da vivere organizzando gli spostamenti dei migranti, ovvero agenzie di viaggio, di
reclutamento, intermediari, interpreti, agenzie immobiliari, avvocati esperti in diritto dell’immigrazione, e falsari dei documenti d’identificazione ufficiali e
passaporti. Altri sono criminali senza scrupoli che sfruttano i migranti e richiedenti asilo, facendogli pagare cifre esose per lavori spesso inesistenti. Esistono
trafficanti di esseri umani, funzionari e poliziotti corrotti; l’ostacolo principale è quello della percezione di queste figure come “banditi sociali” e a volte
quasi eroi, invece di criminali. Bisogna anche dire che i governi di rado forniscono gli strumenti necessari, così che le agenzie e gli intermediari assumono un
ruolo fondamentale per far sì che l’espatrio vada in porto.
- Traffico e tratta di esseri umani
Una caratteristica rilevante ma inquietante dell’industria migratoria è l’aumento di organizzazioni consacrate al traffico e alla tratta di migranti, dove il
primo è volto a spostare i migranti per trarne profitto, mentre la seconda si basa sul raggiro e la coercizione con l’obiettivo dello sfruttamento.Le donne e le
ragazze sono particolarmente vulnerabili alla tratta e costituiscono l’80% di tutte le vittime, di cui le minori sono il 50%. Mentre i migranti irregolari
rischiano il carcere, la deportazione e persino la morte, i trafficanti sono arrestati molto di rado. Alcuni osservatori hanno confermato che l’aumento di
misure restrittive nell’UE ha provocato l’aumento della domanda per i servizi offerti dalla tratta, aumentandone anche i prezzi e creando quindi la servitù
del debito. Nel 2000 gli USA emanarono il Trafficking Victims Protection Act e la Cina mise in piedi misure capitali per punire i criminali condannati per
tratta, come ergastolo e pena di morte. Tuttavia, se i pesci piccoli finiscono nella rete, i criminali di alto livello restano spesso impuniti.

9. Migrazione e sicurezza
- Perché rispolverare il nesso tra migrazione internazionale e sicurezza?
Gli orrori della Seconda guerra mondiale screditarono la xenofobia dell’estrema destra e la percezione dei migranti come una minaccia alla sicurezza. In
effetti, la migrazione internazionale era spesso considerata un fenomeno economico in gran parte positivo, nonché temporaneo soprattutto nell’Europa
occidentale. La questione chiave nelle relazioni internazionali riguardava la pace e la guerra e sembrava che la migrazione internazionale non avesse peso
rilevante su nessuna delle due, per questo non si vedeva quasi nessun collegamento tra lo studio delle relazioni internazionali e la migrazione; tale
supposizione si modificò a seguito di studi compiuti negli anni ’70, quando le indagini sulla “bassa politica” inclusero anche i fenomeni transnazionali.
Negli anni ’80 l’accumulo di immigrati residenti unito ai richiedenti asilo e migranti non autorizzati portò alla “securizzazione” quelle questioni migratorie.
Allo stesso tempo, la lotta al terrorismo in alcuni stati divenne una priorità per la sicurezza. Durante gli anni ’90, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan
(PKK) e il gruppo Islamico Armato (GIA) minacciarono di sequestrare gli aerei e dirottarli contro alcuni obiettivi, anticipando i futuri attentati e la nuova
era della politica mondiale. Nell’era post-bellica sono state attenzionate le minacce alla sicurezza provenienti dagli stati, ma molto meno quelle degli attori
non statali. Gli analisti politici tardarono a capire in che modo i movimenti politici inclini all’uso di violenza e terrorismo potessero prosperare nelle
popolazioni migranti e sfollate. La mobilità internazionale è diventata un aspetto chiave dei conflitti asimmetrici tra stati-nazione avanzati e potenti e
movimenti ribelli. Al-Qaeda personifica tali minacce poiché costituisce una rete composta da migranti militanti arruolati in una guerra contro l’Occidente.
- Aspetti chiave del nesso tra migrazione internazionale e sicurezza
Laddove gli stati sono incapaci di creare sistemi di migrazione regolare per la manodopera necessaria, i migranti sono costretti a muoversi in condizioni di
estrema insicurezza, pericolo che viene dimenticato quando si parla di sicurezza nazionale. Questa insicurezza viene messa in relazione con le minacce
percepite, che sono di tre tipi: culturali, ossia che i popoli migranti siano un rischio per lo status quo culturale; socio-economiche, ossia la sensazione che le
popolazioni migranti siano un rischio per la società ed economia; politiche, ossia l’impressione che i migranti siano persone potenzialmente ostili e
sovversive. La migrazione internazionale incide sull’autonomia degli stati nazionali, sulla loro sovranità e sulla capacità di mettere in atto politiche
pubbliche e applicare le leggi; tuttavia, se essa favorisce la crescita economica, è anche vista come fattore fondamentale di benessere economico e come
possibilità di aumentare e non diminuire il potere di uno stato. Essa può contribuire a sviluppare il soft e lo smart power, ossia influire sulla reputazione
estera di uno stato con conseguenze a livello diplomatico. La migrazione internazionale ha avuto anche un considerevole impatto sulla natura instabile dei
conflitti violenti, fomentando gli scontri in tre modi: fornendo le risorse che alimentano i conflitti interni; favorendo le reti del crimine organizzato ;
facendo da conduttore per il terrorismo internazionale. Sebbene il pericolo per la sicurezza sia in una certa misura reale, bisogna dire che alcuni tipi di
migrazione e certe combinazioni di politiche pubbliche aumentano la sicurezza anziché indebolirla; è chiaro che alcuni stati europei stanno cedendo parte
della propria autonomia al fine di conservare una migliore capacità di regolare la circolazione di beni, persone e idee tra le frontiere.
- Mussulmani immigrati o di origine immigratoria e la sicurezza transatlantica
Dall’11 settembre la questione dei migranti mussulmani e dei loro figli nelle democrazie occidentali è divenuta di primaria importanza a livello
geostrategico. Prima del 2001 molti accademici avevano studiato a fondo questi migranti, in gran parte immigrati nell’area transatlantica nel secondo
dopoguerra e i loro figli. La Francia fa eccezione perché la Terza Repubblica comprendeva l’Algeria e dopo l’indipendenza nel ’62 molti algerini che
vivevano nel paese conservarono la cittadinanza e gli harkis, truppe francesi di origine mussulmana vi si recarono per evitare rappresaglie. Molti algerini
mussulmani si insediarono dunque in modo permanente nella Francia metropolitana, ma furono visti come una minaccia per tutto il periodo tra le due
guerre. Nel resto d’Europa, si supponeva che i migranti di origine mussulmana fossero lavoratori ospiti e stagionali, che sarebbero poi rimpatriati, tranne nel
Regno Unito, che consentiva l’insediamento di pakistani e indiani. In genere sino agli anni ’70 il fondamentalismo islamico non era percepito come una
grossa minaccia, cosa che cambiò dopo la Rivoluzione islamica in Iran nel ’79, il cui fondamentalismo ribattezzò altri governi arabi che stavano operando
riforme secolari come “il nemico vicino”, da rovesciare e sostituire con governi apertamente islamici. Di conseguenza, negli anni ’80 il problema riguardò
anche l’area transatlantica in molti modi. La guerra in Afghanistan tra l’Unione Sovietica e i suoi alleati afghani e i mujaheddin (patrioti afghani) iniziò
ad attrarre volontari mussulmani non afghani (preludio di Al-Qaeda). Una coalizione di stati guidati dagli USA armò e aiutò i mujaheddin, dopo la
sconfitta dell’URSS e dei suoi alleati, il servizio di intelligence pakistano creò i talebani, che selezionavano reclute tra i rifugiati afghani in Pakistan, e nel
’96 avevano preso il controllo di gran parte del paese. Gli esecutori degli attacchi al World Trade Center del ‘3 erano in gran parte immigrati arabi negli
Stati Uniti; una serie di commissioni federali misero in guardia sui possibili rischi ma l’avvertimento rimase inascoltato e, in seguito all’invasione dell’Iraq
da parte degli USA molti mussulmani si offrirono per combattere gli Stati Uniti in Iraq, dopo aver ricevuto addestramento militare nei campi nel MENA.
Gli attacchi terroristici sventati in tutta Europa forniscono ragioni valide di preoccupazione sulla presenza mussulmana nel continente., tuttavia c’è da dire
che la prevalenza delle prove dimostra che il fondamentalismo in stile Al-Qaeda non è un’attrattiva per la maggior parte de mussulmani dell’area
transatlantica, dal momento che sono più istruiti di quelli presenti in Europa. La composizione di questi ultimi è molto eterogenea e molti tardano ad
inserirsi. Tuttavia, la migliore analisi di queste popolazioni migranti è stata compiuta da Tribalat in Francia, dove si è registrato l’uso diffuso del francese e
progressiva diminuzione dell’arabo, un calo dei tradizionali matrimoni combinati a favore di quelli misti e prassi sociali più legate ai cittadini francesi. I
punti problematici erano il tasso alto di disoccupazione, il senso di discriminazione e l’istruzione. Questa visione, sebbene renda palese il pericolo di
generalizzazione rispetto all’eterogeneità delle popolazioni del MENA, va d’accordo con gran parte dei giudizi di altri scienziati sociali. I testi che
suppongono l’esistenza di una predisposizione di questi popoli alla mobilitazione di stampo terroristico, sembrano basarsi inadeguatamente sulla letteratura
sociale scientifica sull’inserimento dei migranti. La minaccia alla sicurezza più importante del XXI secolo per i paesi sviluppati è il disordine che scaturisce
dal fallimento o dalla crisi di molti stati non sviluppati. La chiave per il successo di qualsiasi strategia antiterroristica è saper riconoscere chi è il nemico e
chi non lo è. La grande maggioranza dei migranti non deve essere interpretata come l’avversario e riuscire ad inserirla nei paesi occidentali deve essere un
imperativo geostrategico della guerra al terrorismo.
- Migrazione, sicurezza e la Guerra al Terrorismo
La Guerra al Terrorismo, così battezzata da Bush, è una definizione che comporta un’esagerazione ponderata e una semplificazione fuorviante; dopo aver a
lungo ignorato la minaccia di Al-Qaeda, l’amministrazione le dichiarò guerra comparandola al secondo conflitto mondiale, commettendo un errore classico di
controterrorismo, non riconoscendo il nemico e reagendo in modo eccessivo. Essa fuse insieme minacce terroristiche globali che non avevano nulla in comune
tra loro e mise in relazione Al-Qaeda con il governo iracheno servendosene, insieme alla supposta presenza di armi di distruzione di massa, per invadere lo
stato. L’invasione si dimostrò controproducente e non servì a raggiungere l’obiettivo. Inoltre, rimane una priorità soppesare con cura la minaccia
rappresentata da Al-Qaeda e dai suoi alleati, il cui uso di violenza è condannato da gran parte dei gruppi fondamentalismi islamici e non ha niente a che
vedere con l’Hezbollah libanese o Hamas in Palestina. Il fallimento della guerra contro il “nemico vicino” ha portato molti fondamentalisti islamici a
moderare le loro politiche e rinunciare alla lotta armata, anche perché le insurrezioni mussulmane del periodo ’70-2000 furono tutte sconfitte.
10. Migranti e minoranza nella forza lavoro
Gran parte dei migranti dei paesi dell’OCSE non si spostano per ragioni esclusivamente economiche; infatti, la categoria più grande delle entrate in molti
paesi è il ricongiungimento familiare. Inoltre, numerosi migranti arrivano per cercare un rifugio da guerra e persecuzione, altri ancora per migliorare la
propria istruzione.
- Domanda di manodopera nelle economie avanzate
I paesi poveri possiedono troppi lavoratori giovani e le loro deboli economie non riescono a trovare un impiego per tutti, perciò hanno bisogno di esportare
lavoratori in eccesso. I fattori storici ed economici che stimolano l’immigrazione nel Nord del mondo sono innanzitutto il bisogno di manodopera non
qualificata e la necessità di migliorare l’efficienza del mercato del lavoro dal momento che alcuni lavori sono evitati dai nativi, poiché offrono salari,
condizioni e status miseri. Questo è il motivo del perché sin dagli anni ’70 certi tipi di lavoro sono stati trasferiti al Sud di recente industrializzazione, in
forma di “delocalizzazioni” o “esternalizzazioni”. Nei paesi di destinazione le politiche governative hanno soddisfatto tale domanda di manodopera tramite
la creazione di sistemi di assunzione e gestione del lavoro straniero regolare permettendo anche, con tatto, quello irregolare. I governi credevano che non
avrebbero più avuto bisogno, in futuro, dei lavoratori migranti non qualificati e quindi per tutti gli anni ’90 le politiche di immigrazione lavorativa
migrante rimasero piuttosto restrittive. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una graduale variazione dei pareri ufficiali; questo cambiamento è dato dalla
comprensione che i paesi sviluppati non erano in grado di esportare tutti i lavori non qualificati in paesi con manodopera a basso costo e che il tasso di
natalità totale era precipitato, ancor di più quello della popolazione in età lavorativa. Nel breve e medio termine la migrazione lavorativa può contribuire
positivamente a contrastare gli effetti dell’evoluzione demografica e si dimostrerà fondamentale per soddisfare i bisogni attuali e futuri del mercato del
lavoro assicurando, quindi. Sostenibilità e crescita economica. Se vi saranno meno giovani, pretenderanno migliori opportunità educative e non accetteranno
lavori poco qualificati; oggi in Europa potrebbero diminuire gli esperti dei lavori manuali industriali e agricoli e ci potrebbe essere una crescente domanda di
lavoratori nel campo dei servizi domestici e assistenziali.
Nel periodo ’95-’05 la crescita economica nei paesi dell’OCSE ha portato ad una forte domanda di manodopera; i migranti costituivano da un terzo a due
terzi dei nuovi dipendenti di Europa occidentale e meridionale, anche perché fattori demografici ridussero il numero di lavoratori nazionali rendendo ancora
più indispensabili quelli migranti, che spesso portano con sé abilità. Difatti, il vecchio stereotipo del migrante senza qualifiche è ormai superato anzi, spesso
essi sono in possesso di qualificazioni più alte rispetto ai locali, a parte nell’Europa meridionale, dove comunque vengono preferiti ai locali perché più
disposti a scendere a compromessi e perché più motivati.
- Migranti nel mercato del lavoro
Per quanto riguarda la distribuzione settoriale, negli anni ’70 i lavori più consueti per i migranti erano quelli manuali nelle fabbriche o nei cantieri, oppure
nei servizi di pulizia delle strade e raccolta rifiuti (era possibile trovare anche donne). Oggi i migranti si trovano trasversalmente in tutta l’economia,
sebbene prevalentemente nell’industria e nell’edilizia di molti paesi. In merito alla distribuzione occupazionale, i nati all’estero sono onnipresenti nei lavori
di pulizia, camerieri o cuochi e assistenti domestici, tutti comunque lavori per tradizione poco pagati con pessime condizioni lavorative e minima sicurezza.
Paradossalmente, possiamo trovare dei nati all’estero anche in occupazioni nel settore terziario che richiedono un alto livello di specializzazione come
insegnanti ed esperti informatici. Il quadro è molto misto: in Europa meridionale il tasso di disoccupazione dei migranti era più alto rispetto ai nativi,
mentre in quella occidentale è il contrario; in Usa e Australia i migranti si sono ben integrati nel mercato del lavoro e i tassi di disoccupazione sono molto
simili tra nativi e non. Nel complesso, i migranti tendono ad avere uno status lavorativo più basso e livelli di disoccupazione più alti rispetto ai non
migranti. I lavoratori migranti più giovani hanno qualifiche migliori e riescono ad ottenere lavori più qualificati rispetto ai più anziani, che sembrano
bloccati nel settore della produzione manuale.
Le “persone di origine migratoria”, ossia la seconda generazione dei migranti hanno ricevuto l’istruzione nel paese ospitante ed è interessante confrontare la
loro esperienza con i giovani migranti di oggi e con i nativi nati da genitori nativi. Dalle prime stime sulla loro istruzione emergeva che essi avrebbero
potuto ereditare la modesta posizione sociale dei genitori, tuttavia è emerso che, sebbene i risultati siano inferiori a quelli dei nativi, le loro prestazioni sono
migliori dei giovani migranti odierni ma è anche venuto fuori che i livelli educativi e socio-economici bassi dei genitori hanno la tendenza ad essere trasmessi.
Il divario tra seconda generazione e nativi si è rivelato significativo in Germania, Belgio, Svizzera e Austria, ma non in Svezia, Francia, Australia e
Canada. La ricerca dell’OCSE ha rivelato anche che le ragazze ottengono risultati migliori rispetto alla controparte maschile, sebbene ricevano
un’istruzione inferiore, pertanto, sembra che l’istruzione nei paesi ospitante abbia avuto un effetto emancipatore per le donne di seconda generazione. La
priorità per i membri giovani della seconda generazione è la capacità di ottenere lavori dignitosi nel paese ospitante, anche qui si riflette la tendenza
osservata nell’ambito dell’istruzione ed emerge che i più svantaggiati sono i figli di immigrati provenienti da paesi africani.
Fino agli anni ’60, i migranti, specie in Europa ma non in Regno Unito, USA, Australia e Francia, erano considerati solo lavoratori salariati e di rado
diventavano autonomi o imprenditori, e i loro permessi lavorativi proibivano inizialmente il lavoro in proprio. Le tipiche attività di proprietà dei migranti
sono i ristoranti etnici, i negozi di alimentari e gli empori, spesso a conduzione familiare. L’analisi dell’imprenditoria dei migranti è contrastante, poiché
alcuni esperti pongono l’accento sul dinamismo economico con effetti positivi sulla crescita economica e la qualità di vita dei consumatori, altri evidenziano
la sofferenza umana causata dalla concorrenza, dagli orari massacranti e dallo sfruttamento del lavoro familiare e degli stranieri assunti in nero. Tale scelta
spesso deriva da una fuga dal circolo vizioso di lavori precari e poco pagati e disoccupazione, ed è quindi un ripiego. Queste cifre mostrano un modello
complesso di segmentazione etnica e di genere nel quale alcuni gruppi etnici minoritari vanno piuttosto bene e altri meno, così come non c’è un discrimine tra
lo status lavorativo di dipendenti e autonomi.
- In che modo l’immigrazione incide sull’economia dei paesi ospitanti e sui lavoratori locali?
Alcuni economisti affermano che l’immigrazione può danneggiare l’economia peggiorando l’equilibrio dei salari, provocando inflazione e riducendo gli
incentivi al miglioramento della produttività, inoltre, i lavoratori migranti possono danneggiare i nazionali competendo con loro per i lavori non qualificati
e abbassando le paghe. Al contrario, una ricerca dell’Home Office inglese ha rivelato l’opposto, ossia che non ci sono prove di danni ai lavoratori nativi da
parte della migrazione; allo stesso modo, se si osserva la letteratura dell’immigrazione nel periodo ’70-’90, si scopre una convergenza nell’affermare che
l’immigrazione non causa spiazzamento nel mercato del lavoro e non deprime il reddito dei nazionali, ma può tuttavia avvantaggiare i datori di lavoro a
scapito dei lavoratori non qualificati. Gli economisti statunitensi sono discordi, poiché la commissione dell’NRC parla d’impatto sfavorevole contenuto,
mentre altri credeono in effetti negativi molto più seri. Gli economisti australiani, invece, sono abbastanza concordi nell’affermare che l’immigrazione è
stata benefica per l’economia australiana e per le prospettive di assunzione e di reddito dei residenti australiani. I risultati positivi sembrano trovare
risposta nel desiderio di molti governi di incoraggiare la migrazione economica.
- La nuova economia politica e le dinamiche della variazione della forza lavoro
Le complesse dinamiche del cambiamento della forza lavoro possono essere comprese solo attraverso l’analisi della ristrutturazione globale di capitale,
produzione e scambi, e di come questi fattori abbaino cambiato le condizioni economiche e sociali dei paesi di provenienza, transito e destinazione dei
migranti. A partire dal secondo dopoguerra uno studio ha evidenziato tre fasi dell’economia politica. La prima fase (’45-’73), ovvero l’espansione delle
economie industriali del centro, fu contraddistinta dalla produzione di massa nelle grandi fabbriche e, man mano che l’assunzione di lavoratori migranti
aumentava, essi trovavano lavoro nelle fabbriche sindacalizzate. Negli anni ’70 la recessione, la crescente concorrenza delle economie asiatiche e la
diminuzione dei margini di profitto condussero ad una seconda fase, basata su una nuova divisione internazionale del lavoro che spostò la produzione ad
alta intensità di manodopera nelle economie con lavoro a basso costo e fermò l’assunzione di migranti al nord. La ristrutturazione fu mandata avanti dai
nuovi governi di destra degli anni ’80 aprendo la strada all’arretramento dei diritti dei lavoratori (working poor, politiche di immigrazione zero). Lo stesso
successo della globalizzazione neoliberista portò ad una terza fase negli anni ’90 con la creazione degli sweatshops e altre forme di sfruttamento lavorativo
nei paesi sviluppati. I contesti d’accoglienza per i migranti erano ben diversi: uno stato che non offriva quasi nessuna protezione ai lavoratori; sindacati
deboli e mercati del lavoro frammentati che conducevano allo sfruttamento; esistenza di comunità etniche più o meno in grado di aiutare i nuovi arrivati
nella ricerca di un lavoro.
Un elemento chiave delle pratiche liberiste fu trasformare i salariati in appaltatori indipendenti, senza alcuna garanzia di lavoro e di sicurezza, obbligati
ad orai massacranti e a guadagni molto bassi. Assumere temporaneamente i migranti è un altro sistema per aumentare il controllo dei datori di lavoro e
ridurre richieste per paghe e condizioni di lavoro migliori; è evidente come l’idea del lavoratore migrante come forza lavoro subordinata e flessibile non si è
ancora estinta. Inoltre, la deregolamentazione economica ha portato a una riduzione dei controlli sul lavoro da parte delle autorità competenti e si è dunque
molto diffuso il lavoro precario.

La posizione svantaggiata delle donne migranti continua ancora oggi, così come anche le donne native rispetto agli uomini, per diversi fattori quali la
presupposizione che le donne non siano il principale sostegno economico familiare, l’aspettative che esse siano lavoratrici temporanee che andranno via una
volta sposate e che cercheranno un impiego part-time per seguire le esigenze familiari, le definizioni di abilità prevalentemente maschili nonché reti sociali di
genere e discriminazione. Uno studio statunitense ha messo a confronto la crescente disuguaglianza etnica e professionale con quella di genere, ponendo
l’accento sulla vulnerabilità di donne e bambini alla tratta e alla prostituzione e sul fatto che tali disuguaglianze possono condurre alla formazione di
nicchie etniche.
Una delle tendenze più marcate degli ultimi 20 anni è stata la crescita delle economie informali nei paesi avanzati. Il neoliberismo e la deregolamentazione
economica hanno condotto ad una informalizzazione del lavoro, ossia la ridistribuzione del lavoro dai settori regolarizzati dell’economia ai nuovi settori
irregolari dell’economia sommersa o informale. L’esempio più evidente sono gli USA , in cui una certa permissività ha fatto si che 12 milioni di persone
lavorino in condizioni di irregolarità. Alcuni politici europei sostengono che l’immigrazione irregolare sia la causa dell’informalizzazione, mentre altri
osservatori credono che il rapporto causa-effetto sia l’esatto contrario. Anche in Germania, vista come l’antitesi del lavoro nero e l’esempio massimo di
regolamentazione del lavoro, la creazione di piccole imprese, deregolamentazione, subappalto e precarizzazione hanno aperto la strada al lavoro informale; i
lavori informali spesso sono gli unici che una persona poco qualificata riesce a trovare. L’informalizzazione non rappresenta il declino industriale ma una
ristrutturazione orizzontale, spesso con l’obiettivo di mantenere e aumentare la flessibilità e la competitività nei mercati regionali, nazionali e
internazionali.
L’insieme di queste ristrutturazioni costituiscono un processo di segmentazione del mercato del lavoro, cioè le possibilità di trovare lavoro non dipendono
solo dal capitale umano ma anche da razza, genere, etnia e status giuridico. Si tratta di una procedura già applicata negli anni ’60 in Europa occidentale,
dove gli immigrati furono incanalati in determinate occupazioni. Negli anni ’80 la situazione cambiò ancora, poiché si assistette al paradosso delle città
globali nelle quali coesistevano alti standard economici e lavorativi e occupazioni non qualificate e condizioni di lavoro da Terzo Mondo, con una forte
crescita di precarizzazione e assunzione di clandestini. All’inizio del XX secolo le industrie erano concentrate nei “quartieri etnici” e gli immigrati sostennero
molto il forte movimento operaio; alla fine del secolo tali industrie vennero de localizzate in paesi non sindacalizzati e furono creati nuovi lavori nella
vendita al dettaglio, servizi personali e alle imprese. La nuova economia è estremamente stratificata in base all’etnia e il nuovo mercato del lavoro è
plasmato dalle politiche governative, che ufficialmente limitano l’immigrazione approvata per soddisfare l’elettorato anti-immigrati e realmente permettono
un flusso costante di immigrati per soddisfare le domande dell’elettorato aziendale.

11. Nuove minoranze etniche e società


- Incorporazione: come gli immigrati diventano parte della società
Una delle questioni chiave è come gli immigrati e i loro figli possano diventare parte delle società e nazioni ospitanti e come esse possano velocizzare tale
processo, risposte che variano a seconda del paese. Il tema principale è capire se gli immigrati debbono essere incorporati come individui, ossia senza tenere
conto delle differenze culturali o del gruppo di appartenenza, oppure come comunità, ossia gruppi etnici che si uniscono e mantengono cultura, lingua e
religione propria. Il punto di partenza per comprendere l’incorporazione è considerare le esperienze storiche della formazione dello stato-nazione, come gli
stati hanno gestito la differenza nell’affrontare minoranze etniche o religiose, la conquista di territori, l’insediamento degli immigrati o il governo dei
sudditi nelle colonie. Da queste esperienze si sono sviluppate diverse idee di cittadinanza. La storia britannica fu caratterizzata dalla conquista di Galles,
scozia e Irlanda e dalla diversità religiosa, ma ha portato ad uno stato integrato dal punto di vista politico che accettava le differenze, sebbene pretendesse
lealtà politica. In Francia, la rivoluzione del 1789 stabilì principi di uguaglianza e diritti di uomini che rifiutavano l’identità culturale di gruppo, con
l’obiettivo di includere gli individui come soggetti politici identici. Sia in Regno Unito che in Francia, fu l’espansione dello stato che creò la nazione:
l’appartenenza politica venne prima dell’identità nazionale. La Germania sino al 1871 non era riunita in un unico stato, mentre la nazione esisteva già da
prima; di conseguenza, si produsse un’appartenenza etnica o popolare non compatibile con le incorporazioni delle minoranze come cittadini. Viceversa, le
società del Nuovo Mondo furono costruite attraverso l’espropriazione dei popoli indigeni e l’immigrazione europea, la cui incorporazione era parte
integrante del mito nazionale, ma riservata alle persone di razza bianca; Australia, Nuova Zelanda, USA e Canada avevano tutte legislazioni molto
selettive. L’assimilazione significava che gli immigrati dovevano essere incorporati nella società mediante un processo univoco di adattamento, rinunciando
alle proprie caratteristiche distintive per diventare indistinguibili dalla popolazione maggioritaria. Il modello dei “lavoratori ospiti” è un esempio di
esclusione differenziale secondo cui i migranti andavano incorporati per un tempo limitato e in determinate aree sociali, venendo esclusi dalle altre.
Tuttavia, la fiducia nella controllabilità della differenza fu in tutti i casi malriposta. L’assimilazione fu sostituita, almeno all’inizio, dal principio di
integrazione che riconosceva l’adattamento come un processo graduale che implicava un certo grado di mutuo adeguamento; ciò prevedeva un’iniziale
accettazione della differenza ma sempre col fine ultimo dell’assorbimento nella cultura dominante. Il multiculturalismo stabiliva che gli immigrati dovevano
partecipare come pari in tutte le sfere della società, senza alcuna richiesta di convergenza culturale. Questo approccio ebbe due varianti principali: la prima,
negli USA, dove la diversità culturale e la coesistenza di comunità etniche sono accettate ufficialmente, ma nono si crede nel compito dello stato di
garantire o appoggiare concretamente queste idee; la seconda variante, quella del Canada, è quella i fare del multiculturalismo una politica pubblica, che
prevedesse la tutela statale (in seguito applicato anche in Australia, Regno Unito, Olanda e Svezia). Tutti gli approcci diversi in favore dell’incorporazione
si sono dimostrati fallimentari, al punto che all’inizio del XXI secolo si credeva si andasse incontro ad una diffusa “crisi dell’integrazione”.
- Politiche migratorie e formazione delle minoranze
Partendo dal ’45 possono essere distinti tre tipi di paesi. I paesi d’immigrazione classica incoraggiavano il ricongiungimento familiare trattando quasi tutti
gli immigrati regolari come cittadini. Il secondo gruppo (Francia, Olanda e Regno Unito) dove gli immigrati provenienti dalle ex colonie erano già cittadini
al momento dell’entrata e dove ricongiungimento e insediamento sono stati in genere sempre permessi. Il terzo gruppo comprende i paesi che hanno tentato
di aderire ai modelli di lavoratori ospiti (Germania, Austria e Svizzera) e che tentarono di impedire ricongiungimenti, status sicuro di residenza e avevano
norme di naturalizzazione molto severe. Rendere cittadini i popoli colonizzati sembrava un buono mezzo per legittimare la colonizzazione e importare
manodopera a basso costo; tuttavia, per osteggiare l’insediamento permanente e far fronte al declino della domanda lavorativa, i popoli colonizzati vennero
messi sullo stesso piano degli stranieri. Le politiche immigratorie incidono sullo status futuro dei migranti. Quelle messe in atto per mantenere i migranti
nello status di lavoratori temporanei hanno maggiore probabilità di generare un insediamento in condizioni discriminatorie. Al contrario, nei paesi dove
l’immigrazione permanente è ben accetta e chi s’insedia può godere di uno status sicuro di residente e di diritti civili uguali per tutti, è più probabile che vi
siano prospettive di lungo periodo. Laddove si mantiene il mito del soggiorno temporaneo, le conseguenze sono isolamento, separazione e risalto delle
differenze; le politiche discriminatorie non possono fermare il processo migratorio, ma rappresentano il primo passo verso l’emarginazione dei futuri
immigrati.
- Posizione nel mercato del lavoro
La segmentazione del lavoro basata su etnia e genere si è sviluppata in tutti i paesi d’immigrazione, ma di recente la situazione è cambiata, infatti i
migranti sono molto più eterogenei in merito a status educativo e occupazionale; il personale altamente qualificato è incentivato ad entrare, al contrario dei
non qualificati che entrano tramite ricongiungimento, come rifugiati o in modo irregolare. Dal momento che il lavoratore non conosce bene né la lingua né le
prassi lavorative locali, è frequente che entri nel mercato del lavoro in una fascia bassa. La possibilità di risalire la scala sociale dipende dalle politiche
statali: alcuni paesi forniscono corsi di lingua, istruzione di base, formazione professionale e legislazioni antidiscriminatorie. Quelli con presenza di
lavoratori ospiti hanno dapprima limitato i diritti dei migranti nel mercato del lavoro, ma oggi la grande maggioranza possiede permessi di residenza a lungo
termine che conferiscono in teoria gli stessi diritti dei nazionali nel mercato del lavoro.
- Segregazione residenziale, formazione delle comunità e la città globale
Un certo livello di segregazione residenziale è presente in molti paesi d’immigrazione, ma mai come negli USA, dove in certe aree si ha una separazione
quasi totale tra bianchi e neri e tra asiatici e ispanoamericani. Questo fenomeno nasce dal fatto che i migranti non possiedono nel nuovo paese reti sociali e
conoscenza del luogo; conta molto anche il loro basso reddito e status sociale, unito alla discriminazione dei locatori che speculano sugli alloggi. Per finire,
prassi istituzionali possono incoraggiare questa forma di segregazione dal momento che i migranti possono anche essere alloggiati dai datori di lavoro e dallo
Stato, creando centri di controllo e isolamento. La segregazione razziale è un fenomeno contraddittorio poiché, secondo la teoria della formazione delle
minoranze, contiene elementi di autodefinizione ma anche di eterodefinizione. Il modello europeo dei palazzoni di molti appartamenti gestiti da locatori
privati, non ha favorito la formazione di comunità, così come i complessi residenziali di proprietà comunitaria, che hanno causato problemi sociali su cui è
maturato il razzismo. Sassen ha dimostrato come le nuove forme di organizzazione globale in campo finanziario, produttivo e distributivo creino “città
globali” che attraggono flussi d’immigrati per ogni genere di attività qualificata o meno. Alcuni individui locali percepiscono la segregazione residenziale
come un deliberato tentativo di creare ghetti, tentativo contro cui si è mobilitata l’estrema destra negli anni ’70. Questi luoghi sono spesso stati teatro degli
scontri tra immigrati e Stato e Polizia. Tuttavia, l’aggruppamento etnico può portare anche a rinnovamento e arricchimento di vita e cultura urbana; molte
delle energie e capacità innovative all’interno delle città risiedono nel sincretismo culturale delle popolazioni multietniche, come nel caso della città di Los
Angeles, e non è più possibile tornare alle popolazioni monoetniche verso culture statiche e omogenee.
- Politica sociale
Man mano che i migranti si sono spostati nei centri o nelle città industriali sono stati accusati di far aumentare i costi per le case e diminuirne la qualità,
deteriorando le strutture sociali; in risposta si cercò di ridurre la concentrazione etnica e attenuare le tensioni, ma si ottenne l’effetto opposto. I problemi
principali sorsero in Francia dove, dopo il ’68, furono eliminate le bidonvilles e si cercò di rendere più accessibili ai migranti i costi per gli alloggi. Fu anche
introdotto il concetto di seuil de tolérance, ossia la presenza di immigrati nei quartieri non doveva superare il 10-15% e il 25% degli studenti ammessi in una
classe. Le quote furono affiancate dalle sovvenzioni all’edilizia popolare e vennero costruite l’ HLM, che presto si rivelarono essere nuovi ghetti e che
sarebbero diventate uno dei dilemmi più importanti da risolvere all’inizio del XXI secolo. Negli anni ’80 vennero applicate una serie di politiche volte alla
gioventù urbana delle banlieues, al fine di migliorare condizioni abitative, istruzione e disoccupazione giovanile, ma incoraggiarono la concentrazione delle
minoranze, rallentarono l’integrazione e consolidarono l’appartenenza a gruppi religiosi e culturali. Fino agli anni ’80 le autorità tedesca adottarono una
strategia doppia, fornendo ai migranti le competenze necessarie per rimanere in Germania ma al tempo stesso mantenere la cultura della madrepatria,
semplificando il ritorno. Questa strategia fece sì che a livello scolastico si creassero classi speciali per bambini stranieri, che favorirono isolamento e scarsi
risultati scolastici. Nel Regno Unito, le politiche per la casa erano antidiscriminatorie, ma portarono a volte alla nascita di quartieri “per bianchi” e “per
neri”. L’assenza di politiche sociali multiculturali può svantaggiare gli immigrati e le loro famiglie e negare loro l’opportunità di risalire la scala sociale.
Nell’ottica multiculturale sta, le politiche specifiche non devono condurre ad una separazione ma devono essere il presupposto all’integrazione. Australia,
Canada, Regno Unito, Svezia e Olanda hanno applicato politiche specifiche in sostegno degli immigrati, ma che sono state criticate negli ultimi anni, gli
USA non le ritengono un intervento necessario se non a livello locale e la Francia le respinge in linea di principio, poiché esse ostacolerebbero il
riconoscimento degli immigrati come cittadini (anche se sono nate le Zone di Educazione Prioritaria). L’ultimo gruppo comprende i paesi che assumevano
lavoratori ospiti. La Germania ha adottato politiche contraddittorie, poiché negli anni ’60 ha commissionato agli enti di beneficenza di fornire specifici
servizi sociali. Dopo il ’73, molti migranti vinsero cause storiche per il riconoscimento di diritti previdenziali e ricongiungimento. Man mano che
l’insediamento diventava permanente si iniziò a considerare la necessità dei migranti, sebbene la rivendicazione ufficiale era che la Germania non fosse un
paese di immigrazione. All’inizio del XXI secolo abbiamo assistito ad una certa convergenza della politica sociale, alimentata dai timori di esclusione o di
“vite parallele”. Un’altra tendenza generale riguarda le politiche per la lotta contro il razzismo e discriminazione; nel 2000 il Consiglio europeo ha adottato
all’unanimità la Direttiva sull’uguaglianza razziale.
- Razzismo e minoranze
Nei paesi d’immigrazione è possibile distinguere tre andamenti principali: in primo luogo, alcuni residenti di lungo periodo si sono fusi con i locali e non
costituiscono gruppi etnici separati (inglesi in Australia, austriaci in Germania); in secondo luogo, alcuni immigrati permanenti formano comunità etniche,
senza essere esclusi da cittadinanza, partecipazione politica e opportunità di mobilità economica e sociale (italiani in Australia, Canada o Stati Uniti;
irlandesi nel Regno Unito; persone sud europee in Francia e Olanda); immigrati permanenti che formano minoranze etniche, che si provano in una
condizione socio-economica svantaggiosa e sono esclusi dalla società più ampia (asiatici in Australia, , Canada e USA; ispanoamericani negli USA;
afrocaraibici in Asia e Regno Unito; turchi in gran parte dell’Europa occidentale; richiedenti asilo di origine non europea in tutto il mondo). Un’altra
questione importante è stabilire perché vi siano più immigrati che assumono lo status di minoranza etnica in un paese piuttosto che in un altro; in questo
senso due fattori sembrano essere rilevanti: quelli delle caratteristiche degli stessi immigrati di lungo periodo (soprattutto caratteri fenotipici) e quelle legate
alle strutture sociali, prassi culturali e ideologie dei paesi riceventi. In merito alla differenza fenotipica, esistono quattro spiegazioni: essa può coincidere con
l’arrivo recente, che può far apparire un gruppo più minaccioso sebbene non si spiega perché il razzismo verso i bianchi sparisca prima di quello verso i neri;
per quanto riguarda la distanza culturale essa si riferisce spesso al cambiamento da culture preindustriali a postindustriali, sebbene l’istruzione non
protegga dalla discriminazione in virtù di lingua, religione e valori (islamofobia); relativamente allo status socio-economico, bisogna dire che molti immigrati
da paesi non sviluppati non hanno la formazione necessaria per risalire la scala sociale, ma ciò non toglie che anche i qualificati subiscano discriminazione;
ne consegue che la spiegazione più verosimile sia che la discriminazione dipende il larga misura dalle pratiche di esclusione perpetrate dalla popolazione
maggioritaria e dallo Stato, ovvero razzializzazione delle minoranze.
- Violenza razzista
A metà degli anni’80, la Commissione d’indagine del Parlamento europeo sulla recrudescenza di fascismo e razzismo in Europa rivelò che le comunità di
immigrati subiscono continuamente dimostrazioni di sospetto e ostilità, discriminazione e spesso violenza razziale. Alla riunificazione della Germania nel
’90 fecero seguito scoppi di violenza razzista. Gli stati Uniti possedevano una lunga storia di violenza perpetrata dai bianchi sugli afroamericani. Persino
nei paesi che vanno fieri della loro tolleranza, come Canada, Svezia e Olanda, si rileva un’alta incidenza di attacchi razzisti. All’inizio del 2007, i ministeri
di Giustizia e Interni degli stati membri dell’UE si accordarono su un insieme di norme, piuttosto deboli rispetto alle proposte della Commissione. I
movimenti antirazzisti si sono evoluti in gran parte dei paesi d’immigrazione, spesso fondati sull’unione di organizzazioni di minoranze, sindacati, partiti
di sinistra, chiese e organizzazioni previdenziali. Esse hanno contribuito a creare pari opportunità e legislazioni antidiscriminatorie, così come politiche ed
enti progettati per frenare la violenza. Ciononostante, finché i politici faranno leva sui sentimenti antimmigrati e antimussulmani per acquisire fette di
elettorato, il razzismo continuerà a essere un problema.
- Minoranze e cittadinanza
Diventare cittadino è un passo fondamentale del processo d’incorporazione. La cittadinanza è uno status giuridico formale che designa l’appartenenza ai
membri di uno stato-nazione. Dal punto di vista storico, le leggi su cittadinanza o nazionalità derivano da due principi concorrenziali: lo ius sanguinis, che
si basa sulla discendenza da un nazionale del paese in questione; e lo ius soli, che si basa sulla nascita nel territorio del paese. In pratica, le regole di
cittadinanza di tutti gli stati moderni si basano sulla combinazione di entrambi, sebbene uno dei due di solito prevalga. Nei paesi caratterizzati dallo ius
soli come Australia, Canada e Usa l’acquisizione della nazionalità era molto alta, poiché questi paesi la consideravano come parte integrante dell’identità
nazionale. Tra l’88 e il ’95 la tendenza è stata di aumentare le acquisizioni in parecchi paesi europei. In Europa, la distinzione dei due principi di
acquisizione è stata erosa dalla tendenza più liberale negli anni ’90. Tuttavia all’inizio del XXI secolo è emersa una controtendenza che ha reso le regole più
severe in Danimarca, Francia, Grecia, Olanda, Regno Unito e Austria. I programmi obbligatori d’integrazione, i test linguistici e di cittadinanza sono tutti
deterrenti alla naturalizzazione. I requisiti legali per la naturalizzazione sono abbastanza simili in molti paesi, ma le prassi reali sono alquanto diverse.
Svizzera, Austria e di recente Germania impongono lunghi periodi di attesa e prassi burocratiche complesse, e considerano la naturalizzazione come un atto
di benevolenza da parte dello Stato. Viceversa, i paesi d’immigrazione classica incoraggiano i nuovi arrivati a diventare cittadini e tramandare i valori
nazionali (cerimonie di conferimento della cittadinanza).
La questione chiave del prossimo futuro è la trasmissione della cittadinanza alla seconda generazione e a quelle successive. In linea di principio, i paesi di
ius soli conferiscono la cittadinanza per diritto di nascita a tutti i figli nati nel proprio territorio. I paesi di ius sanguinis conferiscono la cittadinanza solo
ai figli dei cittadini; è sempre più comune il diritto alla cittadinanza derivato dalla residenza di lungo periodo nel paese, lo ius domicilii. Il conferimento per
diritto di nascita è stato accusato di portare al fenomeno del “turismo di cittadinanza”, donne incinte che viaggiano in un paese per far ottenere la
cittadinanza al figlio. Negli anni ’90, in Francia, Italia, Belgio e Olanda s sviluppò la combinazione di ius soli e ius domicilii; inoltre, in Francia, Belgio
Olanda e Spagna i figli di due genitori stranieri, di cui almeno uno nato nel paese, ricevono la cittadinanza alla nascita (ius soli doppio). Laddove lo ius
sanguinis è ancora applicato severamente (Austria, Svizzera e Giappone), i nati e cresciuti nel paese si ritrovano ad essere cittadini di un paese che forse non
hanno mai visto e non hanno diritto a residenza sicura e identità nazionale nel paese di nascita. In paesi di ius sanguinis più inclini anche allo ius domicilii,
come la Germania, viene data la possibilità ai giovani figli di immigrati di accedere più facilmente alla naturalizzazione. Nel complesso le distinzioni tra i
paesi applicanti i due principi sono divenute meno nette dopo il cambiamento politico degli anni ’90.
Per quanto riguarda la doppia o multipla cittadinanza, le tendenze sono piuttosto differenti. La doppia cittadinanza può essere considerata come una
forma di “globalizzazione interna” mediante la quale le disposizioni dello stato-nazione rispondono ai legami dei cittadini tra gli stati. Uno dei motivi di
questo cambiamento è la tendenza all’uguaglianza di genere; nel passato, la nazionalità nei matrimoni binazionali era sempre trasmessa attraverso il padre;
quando le madri ottennero lo stesso diritto i matrimoni bi nazionali portarono direttamente alla doppia cittadinanza. Inoltre, molti paesi d’emigrazione
hanno cambiato le regole di nazionalità per permettere agli emigrati il possesso della doppia cittadinanza, al fine di mantenere i legami con le diaspore.
Molte delle associazioni che si costituiscono nel processo di formazione delle comunità etniche si occupano di lingua e cultura: insegnano la madrelingua alle
seconde generazioni, organizzano festività e portano avanti rituali. La lingua e la cultura non sono solo mezzo di comunicazione, ma assumono anche un
significato simbolico, fondamentale per la coesione etnica. Rinunciare a tali usanze è visto a volte come la chiave del successo dell’integrazione nel paese
d’immigrazione, mentre mantenerle è considerato un elemento indicativo del desiderio di separazione. Il mantenimento culturale, invece, contribuisce a
creare basi solide che aiutano l’integrazione del gruppo nella società, mentre il bilinguismo è positivo per lo sviluppo cognitivo e intellettuale. La questione
linguistica nelle politiche multiculturali si è risolta in modi diversi: il Canada possiede due lingue ufficiali e ha sostenuto quelle dei migranti, ma in modo
limitato e non negli ambienti principali; la Svizzera applica politiche multiculturali alle sue lingue fondatrici ma non alle altre; Australia e Svezia
forniscono servizi per il mantenimento di lingua e cultura d’origine e supportano le organizzazioni culturali delle comunità etniche e i media etnici. Nelgi
Usa la tradizione monolinguistica è messa in pericolo dalla crescita della comunità ispanoamericana; altri paesi monolinguistici sono la Francia, il Regno
Unito, la Germania e l’Olanda, che sono tuttavia stati costretti a offrire servizi linguistici per prendere atto dei bisogni dei migranti e a livello scolastico per
far fronte alla multiculturalità dei quartieri degradati.

12. Migranti e politica


Il fattore più duraturo nel tempo introdotto dalla migrazione internazionale sono i suoi effetti sulla politica: non si tratta di conseguenze inevitabili, poiché
molto dipende da come sono trattati gli immigrati dai governi e da origine, tempismo, natura e contesto di un particolare flusso migratorio. Da un alto, gli
immigrati possono diventare velocemente cittadini senza evidenti conseguenze politiche, salvo l’aggiunta di altri elettori potenziali. Dall’altro, la
migrazione internazionale può portare all’aumento di persone prive del diritto di voto, la cui marginalità politica è aggravata da vari problemi socio-
economici. I migranti hanno considerevole interesse nella natura delle politiche pubbliche che li riguardano; non sorprende quindi che l’attivismo dei
migranti abbia spesso come obiettivo influenzare il futuro delle politiche migratorie. Il peso politico della migrazione internazionale può essere attivo o
passivo; gli immigrati possono diventare attori politici per quanto li compete o manifestare un certo grado di apoliticità, che può essere comunque fattore
importante per mantenere lo status quo. Viceversa, gli immigrati spesso diventano oggetti della politica: alleati per qualcuno, avversari per altri.
- Madrepatrie ed espatriati
Dopo le Rivoluzione Francese e le sue dichiarazioni sul diritto ad emigrare, divenne più difficile per gli stati europei limitare la migrazione; al tempo stesso,
la diminuzione delle barriere economiche ai viaggi transatlantici e l’assistenza statale all’emigrazione condussero a massicce emigrazioni europee nel periodo
1820-1920. Esse persistono nel XXI secolo in cui, benché nessuno stato condivida più il mercantilismo, gli stati comunisti come la Corea del Nord
impediscono categoricamente ai cittadini di abbandonare il paese e cercano in tutti i modi di prevenire le migrazioni. Dopo la Seconda Guerra mondiale in
molti altri stati i migranti non erano visti di buon occhio, nonostante gli accordi bilaterali per il lavoro all’estero. Alcuni governi delle madrepatrie, come
quello italiano, adottarono provvedimenti per supportare i diritti dei loro cittadini nei paesi di destinazione fin dagli anni ’60. Oggigiorno i governi delle
società di partenza coltivano un rapporto con i cittadini o i sudditi all’estero, politiche queste pilotate da interessi economici, cme semplificare l’invio delle
rimesse. Le istituzioni politiche degli stati del mondo variano considerevolmente, per cui una migrazione che prende piede tra due stati autoritari e non
democratici sarà molto diversa da una tra due stati con istituzioni libere. Nel primo caso, i migranti non hanno possibilità di partecipare alla vita politica
dello stato ricevente, e assume rilevanza la rappresentanza diplomatica in appoggio dei migranti da parte degli stati d’origine. La migrazione internazionale
avviene spesso mediante accordi bilaterali caratterizzati da posizioni dominanti e subordinate, spesso occupate dalle madrepatrie, svantaggio che può
influire negativamente nel caso di paesi che non sappiano proteggere i migranti attraverso la diplomazia e che a volte sono collusi. Le vite reali di milioni di
migranti sono trascurate con frequenza a favore di volubili discussioni in stile governativo riguardo ai meriti di una politica di immigrazione temporanea
ben pianificata. Inoltre, i governi delle madrepatrie tentano di mantenere la lealtà e l’alleanza politica delle popolazioni espatriate, se essi possono votare
nelle elezioni del paese d’origine. Le modalità di voto variano considerevolmente in base al paese: alcune madrepatrie richiedono il rientro in patria (Turchia
e Messico); altri stati permettono il voto attraverso i consolati (Algeria, Israele e Italia); altri ancora permettono il voto per corrispondenza (USA).
Ciononostante, il potere di influire sugli esiti elettorale da parte dei migranti non si traduce necessariamente nell’effettiva rappresentanza dei loro interessi
nei governi delle madrepatrie.
- Forme extraparlamentari di partecipazione e rappresentanza dei migranti
L’inadeguatezza della rappresentanza diplomatica dei residenti stranieri è uno dei motivi per cui nascono canali specifici per la rappresentanza e la
partecipazione politica degli stranieri in Europa. In qualche caso, certi gruppi di estrema sinistra riuscivano a mobilitare di immigrati, come nel caso degli
scioperi negli stabilimenti automobilistici in Francia e Germania. Dagli anni ’70, gli immigrati hanno sempre più cercato di essere rappresentati in politica,
riuscendo a diventare parte del quadro politico dell’Europa occidentale, incidendo sulle linee politiche attraverso movimenti di protesta. Ne sono un esempio
importante gli scontri con la polizia in Francia nel periodo 2005-2007, preannunciati dagli eventi degli anni ’70-’80, quando nacque su tutto il territorio
nazionale il movimento beur, in appoggio al Partito Socialista e alla candidatura di Mitterand. I giovani immigrati rimasero delusi dalle politiche da lui
adottate e organizzarono una linea di azione autonoma con manifestazioni di massa e cortei per protestare contro le condizioni socio-economiche, i rapporti
con società e polizia e per riaffermare la propria identità all’interno della società francese. Negli USA, i cittadini guatemaltechi di origine maya impiegati
nella trasformazione avicola nel Delaware si riversarono a Washington per protestare in favore della regolarizzazione. I migranti messicani organizzarono
immense manifestazioni di massa (Los Angeles) per gli stessi motivi. Ad ogni modo, la portata nazionale delle proteste fece sì che esse incidessero in quasi
tutte le aree del paese, dando testimonianza della sfida globale lanciata dalla migrazione alle regole internazionali riguardo ai diritti umani e alla giustizia
sociale.
- Diritto di voto ai non cittadini: una questione globale
Nel complesso, 65 dei quasi 200 stati mondiali permettono una qualche forma di voto ai non cittadini; in 36 di questi il voto è concesso a tutti; 35 di questi
stati non sono europei. In Europa occidentale, la questione del diritto di voto ai cittadini iniziò a rivestire un ruolo importante a partire dagli anni ’70 e gli
immigrati cercarono di partecipare ed essere rappresentati politicamente dai governi locali; la Svezia fece in questo senso da apripista, seguita nell’85
dall’Olanda, nel 2001 dal Belgio e poi da Lussemburgo e Svizzera. Negli anni ’80, in molte democrazie occidentali conferire il diritto di voto agli stranieri
influiva parecchio sulle elezioni locali, poiché essi si concentravano soprattutto i certi quartieri e nelle città principali. In genere, chi era a favore del diritto
di voto lo considerava un mezzo per incoraggiare l’incorporazione e un contrappeso per bilanciare la crescente influenza di partiti come il FN in Francia;
tuttavia, ciò non risolse i gravi problemi degli immigrati. Nel ’92 il consiglio d’Europa composto da 47 stati approvò un trattato per l’inclusione degli
immigrati negli affari pubblici e i membri che lo avrebbero sottoscritto avrebbero dovuto far votare gli stranieri alle elezioni locali; fu sottoscritto soltanto
da 8 paesi. Sempre in quell’anno fu firmato il trattato sull’UE che prevedeva l’elezione e il voto dei cittadini europei alle elezioni europee e locali. A partire
da quell’anno, è cresciuto a livello istituzionale un movimento a favore del diritto di voto per i nazionali dei paesi terzi e il Parlamento europeo ha votato
parecchie volte in favore all’estensione della cittadinanza a tutti i residenti stabili di lungo periodo all’interno di uno stato membro. Nel 2007 era possibile
individuare 5 gruppi di stati UE a seconda delle loro politiche riguardo ai cittadini degli stati terzi: 7 stati conferivano il diritto di voto e candidatura; 5
accordavano il diritto di voto ma non di candidatura; 4 stati avrebbero conferito tali diritti secondo il principio di reciprocità, ossia solo nel caso il cui gli
stessi diritti fossero stati concessi nei paesi di chi li richiedeva ai propri nazionali emigrati; 10 stati membri conferivano tali diritti ai soli cittadini non
comunitari che risiedevano nel loro territorio. Metà dei 23 stati che compongono i Caraibi, l’America del Nord e il Centro America autorizza qualche forma
di voto ai non cittadini e/o il diritto a candidarsi. Anche molti stati asiatici permettono il voto ai non cittadini, tra i quali la Corea del Sud, che lo concede
agli stranieri residenti da almeno tre anni. La Nuova Zelanda permette a tutti gli stranieri che risiedono permanentemente di votare in ogni tipo di elezione,
ma senza diritto di candidatura. La nuova ondata di democratizzazione iniziata negli anni ’90 è servita solo ad amplificare l’urgenza delle questioni che
riguardano il diritto di voto ai non cittadini. Uno dei paradossi di questo periodo è l’aumento della popolazione senza diritto di voto in quelle stesse società
democratiche che sono prese come modello di emulazione nel resto del mondo.
- Blocchi elettorali migranti ed etnici
Le linee politiche dello stato di Israele sono rimaste influenzate dall’immigrazione di ritorno ebraica. A causa dell’afflusso di ebrei orientali o sefarditi dalle
società a maggioranza mussulmana nel periodo ’50-’60, i sefarditi oltrepassarono la maggioranza askenazita negli anni ’70, variazione demografica che
avvantaggiò il blocco di destra del Likud, eletto con l’appoggio sefardita. Nel’90 iniziò una nuova ondata immigratoria di ebrei sovietici che ha inciso in
maniera pesante sugli esiti elettorali dal ’92 in avanti. Numerosi leader politici di origine sovietica richiesero l’espulsione di massa degli arabi israeliani e dei
palestinesi dalla Cisgiordania e da Gaza nel 2001, l’anno dopo i sondaggi erano favorevoli alla pulizia etnica degli arabi palestinesi. Il caso israeliano
illustra, al suo estremo, il potenziale di un blocco elettorale d’immigrati sugli esiti delle elezioni. Nel referendum del ’96 che decideva il futuro del Québec e
della Federazione Canadese, gli elettori immigrati votarono in massa contro il referendum e a favore del mantenimento dello status quo. In Germania, i
tedeschi di origine turca si contraddistinsero come un blocco elettorale etnico, potenzialmente decisivo, grazie al quale la coalizione tra il Partito
Socialdemocratico e i Verdi riuscì a strappare la vittoria. Dall’altro lato, i cittadini tedeschi naturalizzati di origine europea orientale favorirono i partiti
conservatori che prevalsero nel 2006 portando all’elezione della cancelliera Merkel. In linea generale, i partiti di sinistra si appellano al blocco elettorale
degli immigrati, mentre i partiti conservatori si affidano a quello degli anti-immigrati. Negli Usa, Clinton e i democratici incoraggiarono una campagna in
favore della naturalizzazione, mentre Bush corteggiò l’elettorato ispanoamericano. Molti immigrati naturalizzati non si registrano per votare o non
esercitano il loro diritto di voto: si tratta di un andamento riscontrabile trasversalmente in tutte le democrazie. I cittadini statunitensi nati in paesi che
ammettono la doppia cittadinanza votano con meno probabilità negli USA rispetto a quelli che vivono in paesi che non l’ammettono. L’eccezione a questo
modello è rappresentata dal Regno Unito; infatti, gran parte degli immigrati del secondo dopoguerra, provenienti dal Commonwealth sino al ’71 e gli
irlandesi, entrò già provvista di cittadinanza e diritto di voto. Il Fronte nazionale di estrema destra rivestì un ruolo principale nel provocare la violenza
contro gli immigrati che, insieme all’aumento del numero di immigrati fecero dell’immigrazione il tema chiave delle elezioni del ’79. Ad ogni modo, la
maggiore partecipazione e rappresentanza di neri e asiatici non si tradusse in maggiore attenzione nei confronti dei loro problemi. Nonostante
l’immigrazione su larga scala, la classe sociale e non il luogo di nascita è ancora la base su cui si fondano le divisioni dei partiti politici.
- Movimenti e partiti anti immigrati
In Francia, la politicizzazione delle questioni immigratorie iniziò negli anni ’70 con le proteste di studenti di estrema destra contro l’immigration sauvage, i
cui responsabili furono messi al bando, ma la cui lotta fu continuata dal movimento neofascista Ordre Nouveau che riemerse in seguito come parte del FN.
L’appoggio ai partiti anti-immigrati era un elemento del voto di protesta, che venne racimolato dal FN che invece per tradizione era raccolto dal Partito
Comunista Francese. Nel 2007, l’ex ministro degli interni Sarkozy si candidò ed espose una linea politica di ordine pubblico che includeva forti misure
contro l’immigrazione clandestina, sorprendendo poi tutti includendo nel suo governo esponenti di sinistra come Fadela Amara, attivista per immigrazione.
Nel ’91 il Belgio diventò teatro di agitazione urbana, quando giovani marocchini si scontrarono con la polizia dopo che si diceva che il partito di
indipendenza della Fiandre avrebbe organizzato una manifestazione in un luogo ad alta densità di immigrati. Lo stesso anno il partito austriaco della
Libertà aumentò la sua percentuale di voto al punto da formare un governo di coalizione, e ciò inasprì i rapporti con l’UE, che giudicava inaccettabili le
posizioni di tale partito in materia di immigrazione. In Italia, la reazione all’immigrazione si è concretizzata in una delle principali forze politiche. Il
partito regionalista Lega Nord, Forza Italia e la formazione neofascista Alleanza Nazionale si scagliarono contro l’immigrazione, appoggiati da molti
elettori stanchi della corruzione insita nella DC e nel Partito Comunista. Questo fu il motivo principale del voto diretto a tale coalizione, sebbene
Berlusconi e la Lega avessero fomentato il sentimento anti-immigrati. Nel 2007, i movimenti politici anti-immigrazione si erano sviluppati quasi in tutta
Europa, persino negli ex stati comunisti come Repubblica Ceca e Bulgaria. Sarebbe un errore liquidare questo risveglio del voto a favore dei partiti anti-
immigrati come una semplice espressione di razzismo e intolleranza. I partiti di estrema destra ottengono il favore degli elettori anche per l’insoddisfazione
pubblica riguardo a certe politiche, come quelle nei confronti dei richiedenti asilo e dell’immigrazione irregolare. Sia nel Regno Unito che in Germania è
difficile che questi partiti riescano ad avanzare a causa di barriere costituzionali e istituzionali che, nel caso della Germania autorizzano a bandire i partiti
politici che minacciano la Repubblica. Alcuni esperti sostengono che l’ascesa dei partiti di destra ha avuto un effetto anti-immigrazione in tutto lo spettro
politico europeo.
- La politica delle strategie in campo immigratorio
Il dibattito sulle politiche immigratorie scaturisce dal disaccordo sull’autonomia degli stati nazionali e su continuità e discontinuità nella natura di stati-
nazione nella globalizzazione. Secondo Freeman, le élites politiche sono in favore di approcci aperti all’immigrazione, in genere osteggiati dalle masse
pubbliche. L’isolamento di quelle forze politiche pro-immigrazione dall’elettorato portò ad un andamento diffuso in cui, nelle democrazie occidentali, erano
adottate aperte politiche d’immigrazione. Per Hollifield, le democrazie liberali affrontano restrizioni radicate che limitano le loro prerogative di formulare
politiche immigratorie che garantiscano i diritti umani elementari, e che non dovrebbero essere viste come una diminuzione della sovranità. Soysal
considerava che l’emergere di un embrionale regime internazionale riguardo ai diritti dei migranti poteva ridurre notevolmente la capacità di mettere in
pratica le politiche d’immigrazione delle democrazie europee, mentre Joppke credeva che gli stati hanno bisogno di disciplinare la migrazione ma quando
prendono degli impegni, come firmare la convenzione di Ginevra, si impongono delle limitazioni di azione. Altro punto importante è la tesi della
globalizzazione che giudica gli stati democratici incapaci di controllare la migrazione, a causa di trasformazioni socio-economiche e politiche di fondo che ne
minano la capacità di disciplinare i flussi internazionali. Secondo la teoria della path dependency, gli esiti della politica immigratoria si devono alle radicali
disposizioni istituzionali che delimitano le possibilità di scelta e plasmano le decisioni. Infine, relativamente agli USA, Tichenor identifica quattro
andamenti interdipendenti che stanno influenzando il processo legislativo in materia di immigrazione: il cambiamento delle opportunità e delle forzature
istituzionali; i diversi punti di vista degli esperti di migrazione; la percezione delle minacce internazionali e la loro mancanza; la natura mutevole degli
interessi delle coalizioni.

13. Conclusioni: migrazione e mobilità nel XXI secolo


La migrazione internazionale è una costante, non un’eccezione, della storia umana; tuttavia, essa non è mai stata tanto pervasiva dal punto di vista socio-
economico e politico, alla sicurezza nazionale e mai tanto connessa al conflitto e turbamento su scala mondiale come oggi. L’elemento decisivo dell’era delle
migrazioni è il modo in cui essa coinvolge sempre più paesi e si connette a processi complessi che incidono sul mondo intero. Le migrazioni sono in gran parte
influenzate dalle politiche governative e possono essere accelerate da decisioni che prevedano l’assunzione di lavoratori stranieri o l’ammissione di rifugiati.
Tuttavia, esse possono preservare una certa autonomia. Le reti sociali che nascono attraverso il processo migratorio contribuiscono a plasmare gli effetti di
lungo periodo. Le agenzie e gli intermediari che costituiscono la fiorente “industria migratoria” hanno i propri interessi e obiettivi. Grosse fette della
popolazione dei paesi riceventi possono opporsi alla migrazione; a volte i governi reagiscono adottando strategie di negazione, sperando che i problemi
spariscano se ignorati; in altri casi si sono avvalsi di deportazione e rimpatri di massa. La capacità dei governi di regolare la migrazione internazionale
varia molto, così come l’attendibilità dei loro tentativi per regolare la migrazione clandestina. I processi migratori hanno bisogno di essere analizzati nelle
loro totalità come un complesso sistema d’interazione sociale provvisto di strutture istituzionali e reti informali nei paesi d’origine, transito e destinazione,
e a livello internazionale.
- Prospettive future per migrazione e mobilità globali
La prima variazione chiave riguarda la crescita della connettività tra i processi di globalizzazione, trasformazione sociale e migrazione, che ha creato le
condizioni per una mobilità umana ancora maggiore. La seconda variazione è stata la veloce transizione demografica verso un basso tasso di mortalità e
natalità e maggiori prospettive di vita nei paesi sviluppati. La diminuzione del numero di giovani che entrano nel mercato del lavoro e l’aumento dell’indice
di dipendenza degli anziani renderanno inevitabile la domanda di manodopera a ogni livello di specializzazione. La terza importante variazione si riferisce
alla dinamiche della forza lavoro, sulla cui crescita cui ha inciso in maniera fondamentale la migrazione. Le condizioni dei migranti nel mercato del lavoro
sono molto più varie rispetto al passato, sebbene molto spesso siano ancora sfavorevoli per via della segmentazione del mercato secondo genere, etnia, razza,
origine e status giuridico che costringono i migranti a forme di occupazione precaria, temporanea e informale. La quarta variazione è dovuta all’emergere di
un mondo di regioni multipolari, contraddistinte da modelli diversi e distintivi di regionalizzazione. La quinta variazione è la nascita di tipi di mobilità più
flessibili: cambiamenti nei trasporti, tecnologia e cultura che andranno a sommarsi all’esperienza di migrazione tradizionale.
- Migliorare la cooperazione e la governance internazionale
La migrazione è l’aspetto più importante dell’economia politica internazionale a non essere protetto da un regime globale di cooperazione e governance. Ci
sono almeno quattro ragioni per non aspettarsi la nascita di un regime globale in tema di migrazione nel prossimo futuro. Per primo, per almeno molti
decenni, ci sarà un’offerta abbondante di manodopera straniera a livello globale; questo crea un disincentivo alla cooperazione multilaterale, poiché uno
stato può firmare accordi bilaterali per assumere manodopera straniera o tollerarne l’entrata non autorizzata. In secondo luogo, non esiste un’innata
reciprocità d’interessi tra lavoratori che vivono in stati più avanzati dal punto di vista socio-economico e quelli che vivono in paesi meno sviluppati. Terzo,
la leadership è fondamentale nella formazione del regime. Per ultimo, i leader politici e i dibattiti pubblici vedono ancora a migrazione come qualcosa di
anormale e problematico per natura; la preoccupazione dominante è la cessazione o riduzione della migrazione, come se fosse qualcosa di negativo per
definizione. L’obiettivo dovrebbe essere lavorare per una maggiore uguaglianza economica e sociale tra Nord e Sud del mondo, per far sì che la migrazione si
sviluppi in migliori condizioni e arricchisca le esperienze e le competenze dei migranti e delle comunità. A tal fine, sono necessarie misure che vadano oltre la
consueta serie di politiche in tema di migrazione. La riforma delle politiche commerciali potrebbe incoraggiare la crescita economica nei paesi meno
sviluppati. Gli aiuto allo sviluppo rappresentano la seconda strategia che potrebbe contribuire alla riduzione della migrazione indesiderata nel lungo
periodo. Nonostante alcuni paesi abbiamo raggiunto una crescita sostanziale, nel complesso la spaccatura tra paesi poveri e ricchi è diventata più iniqua.
L’integrazione regionale è vista come mezzo per diminuire la migrazione indesiderata, mediante la riduzione delle barriere commerciali e lo stimolo alla
crescita economica, ma ciò ha successo solo in stati economicamente simili. Né le misure restrittive né le strategie di sviluppo saranno in grado di fermare la
migrazione, poiché essa è mossa da forze troppo potenti quali la crescente compenetrazione di una cultura globale e la crescita di movimenti transfrontalieri
di idee, capitali e merci.
- Affrontare l’immigrazione irregolare
Dagli anni ’80 una delle tendenze principali è stata la nascita di politiche per i lavoratori stranieri temporanei, considerate un modo migliore per gestire la
migrazione irregolare. I lavoratori stranieri possono fornire il lavoro per l’assistenza agli anziani e altri servizi, così come per l’industria edile, ma la
migrazione non può neutralizzare l’invecchiamento della popolazione per via delle restrizioni politiche. Di conseguenza, una delle sfide più urgenti è quella
dei flussi immigratori irregolari o “indesiderati”, che comprendono chi attraversa le frontiere in maniera illegale, chi fa scadere i visti, i familiari dei
lavoratori migranti e i richiedenti asilo. Essi possono entrare in competizione con i locali poco qualificati per lavori non specializzati, alloggi e strutture
sociali; i datori di lavoro spesso sfruttano la loro mancanza di diritti e alcuni governi danno il tacito permesso a spostamenti illegali, pur considerando
importante dare l’impressione di ostacolarli per mantenere la pace sociale. La complessità di controllare la mobilità è acuita dalla globalizzazione e da
un’economia sempre più internazionale che rende difficile aprire le frontiere per merci e capitali e chiuderle per le persone. Infine, la questione è complicata
dal fatto che i datori di lavoro vogliono assumere manodopera che vada a coprire il vuoto lasciato dai nazionali che non vogliono più svolgere alcune
mansioni, dalla difficoltà di decidere sulle domande di asilo e dall’inadeguatezza e insufficienza del diritto dell’immigrazione.
- Migrazione regolare e integrazione
In quasi tutti gli stati democratici e in molti che non lo sono del tutto, la popolazione è in crescita. Ci sono molte prove che dimostrano come le entrate
pianificate e controllate portino a condizioni sociali accettabili per i migranti e a una relativa pace sociale tra migranti e popolazione locale. Per questo
esistono i presupposti per sostenere che tutti i paesi che continuano a subire immigrazione dovrebbero muoversi verso politiche pianificate. Inoltre, è
necessario fornire una rapida uguaglianza dei diritti socio-economici e un ampio grado di libertà politica, altrimenti lo status dei migranti diminuirebbe la
qualità della vita democratica della società. Tuttavia, nella pratica, questo principio è di frequente ignorato. L’unico limite ai diritti degli stranieri che
sembra compatibile con i principi democratici è riservare ai cittadini il diritto di voto e candidatura, giustificabile se si da allo straniero la possibilità di
naturalizzarsi agevolmente.

- Diversità etnica, cambiamento sociale e lo stato-nazione


Una delle motivazioni per cui l’immigrazione e la nascita di nuovi gruppi etnici hanno avuto un impatto così pesante è la concomitanza con la crisi della
modernità e la transizione a società post-industriali. La crescita della mobilità del capitale, la rivoluzione elettronica, il declino delle vecchie aree industriali
e la nascita di altre hanno cambiato le economie avanzate. Lo sgretolamento della classe operaia e la polarizzazione della forza lavoro hanno fatto sì che gli
immigrati si trovino in condizioni di disoccupazione ed emarginazione e vengano contemporaneamente accusati di averle create. Questa situazione è
accompagnata spesso delle ghettizzazione e dall’ascesa del razzismo, processi nei quali la cultura è considerata indicatore di esclusione e meccanismo di
resistenza. La diversità richiede notevoli adattamenti politici e psicologici, resi più facili nei paesi d’immigrazione classica. L’immigrazione potrebbe
sviluppare identità multiple che si collegano alle culture della madrepatria; queste identità possiedono nuovi e complicati elementi transculturali di cui i
migranti prendono coscienza e che esprimono in ambito artistico e culturale, ma anche sociale e politico. Lo statonazione è un’organizzazione politica
piuttosto recente, innovativa e progressiva ai suoi tempi perché era inclusivo e definiva i cittadini come soggetti politici liberi, connessi tra loro mediante le
strutture democratiche. Tuttavia il nazionalismo rese la cittadinanza una forma di appartenenza ad un gruppo etnico dominante, determinato secondo linee
biologiche, religiose e culturali, diventando strumento di esclusione e repressione. L’era delle migrazioni sta operando un’erosione del nazionalismo e sta
risvegliando le divisioni tra i popoli, verso una diversità etnica e culturale di gran parte dei paesi, la nascita di reti transnazionali e la crescita dello scambio
culturale; essa può rappresentare una grande occasione per contrastare i problemi urgenti del nostro pianeta.

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