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Lucy Mair, “non esiste popolo che non si sia mai chiesto: come saranno fatti quelli che vivono
dall’altra parte del fiume e della collina?”. Il fatto di pensare l’umanità con le sue somiglianze e
le sue differenze, così come i rapporti che legano gli esseri umani al mondo animale e vegetale,
non è affatto una prerogativa esclusiva delle grandi civiltà storiche. I popoli “primitivi” ci sono
apparsi come dei veri e propri filosofi.
L’antropologia di cui stiamo parlando sarebbe una delle tante “antropologie”. Tale idea ha
senza dubbio il vantaggio di ricordarci che gli occidentali non detengono il monopolio sulla
riflessione del genere umano, e ha senz’altro il merito di accumulare culture e società diverse
in uno sforzo, tipicamente e universalmente umano, che consiste nel riflettere sulla nostra
natura e sulla nostra esistenza. L’antropologia di cui stiamo parlando è tuttavia un’attività di
ricerca legata a un contesto storico che ne ha reso possibile lo sviluppo; si tratta cioè di un
sapere che è andato trasformandosi nel tempo in mutazione ai cambiamenti della società
euro-americana e delle relazioni tra quest’ultima e i popoli della Terra. L’antropologia culturale
è però anche un sapere che riflette criticamente su sé stesso, sulle proprie categorie, le nozioni
e i metodi che le sono propri, nonché sui risvolti etico-politici che accompagnano la sua stessa
pratica. La visione dell’antropologia è infatti comparativa e globale perché il progetto di questo
sapere è quello di comprendere il senso dell’esperienza e della vita di un singolo popolo nel
confronto con l’esperienza e la vita di molti altri, spesso ben “al di là del fiume e della collina”.
L’antropologia è un fatto universale che accumuna tutti i popoli.
L’antropologia culturale costituisce un sapere particolare, frutto di una storia particolare e con
una sua storia
altrettanto particolare.
Gli esordi dell’antropologia in Italia:
Contemporaneo a quello delle grandi tradizioni britannica, francese e statunitense. Nella
seconda metà dell’Ottocento alcune importanti figure dell’antropologia italiana furono Paolo
Mantegazza, Tito Vignoli e Giuseppe Pitrè. Mantegazza era un convinto sostenitore
dell’evoluzionismo in campo biologico. Fu il fondatore del museo di antropologia e di etnografia
di Firenze nel 1869, e titolare della prima cattedra di antropologia nel 1871. Tito Vignoli fu
invece professore di Antropologia alla Accademia Reale di Milano e direttore del Museo di
storia naturale nella stessa città. Giuseppe Pitrè era invece un medico. La sua notevole opera di
documentazione relativa a costumi, usanze e credenze degli abitanti dell’isola fu all’origine
degli studi sul folklore meridionale. Lamberto Loria: grande viaggiatore, esploratore e
collezionista, fondò la Società italiana di etnografia nel 1910 e il Museo nazionale di arti e
tradizioni popolari di Roma nel 1911.
Capitolo 2: Oggetti e metodi dell’antropologia culturale:
È possibile definire la “cultura”?:
Non è semplice dare una definizione di “cultura”. Nel 1568 alcune navi spagnole approdarono
nell’arcipelago melanesiano, in pieno oceano Pacifico. Entrati in contatto con gli abitanti del
luogo, i marinai notarono che alcuni “selvaggi” portavano appesi al collo dei bastoni con
incastonate alle sommità delle pietre di un colore dorato. Trattandosi “evidentemente” di oro, i
marinai cercarono di procurarsi i bastoni donando agli indigeni qualcosa in cambio. Gli spagnoli
furono ben contenti del baratto poiché gli isolani, che chiamavano sé stessi Arè’ Arè,
chiedevano in cambio i loro cappelli da marinaio: segno inequivocabile, per gli europei,
dell’ingenuità di questi selvaggi. Gli spagnoli si accorsero che le pietre incastonate in cima a
quei pezzi di legno non erano oro, bensì un materiale ferroso di colore dorato, pirite. Gli Arè’
Arè desideravano i cappelli perché questi manufatti portati da un popolo temibile avevano una
forma simile ai paramenti usati dai capi locali, personaggi ricchi e potenti. Gli isolani erano
infatti convinti che possedere qualcosa che assomigliava alle insegne del potere dei loro capi
avrebbe dato loro prestigio, proprio come gli spagnoli erano convinte che avere qualcosa che
essi credevano essere oro avrebbe dato loro la ricchezza.
Quando due comunità che non si conoscono entrano per la prima volta in contatto leggono la
novità in base a “schemi mentali” già noti. Una “cultura” è un complesso di idee, di simboli, di
comportamenti e di disposizioni storicamente tramandati, acquisiti, selezionati e largamente
condivisi da un certo numero di individui, con cui questi ultimi si accostano al mondo, in senso
sia pratico sia intellettuale. Ciò che gli antropologi chiamano culture sono modi diversi in cui i
gruppi umani che condividono certe idee e certi comportamenti affrontano il mondo.
L’antropologia cerca però anche di mettere in luce quanto vi è di comune o affine tra i vari
modi in cui i diversi gruppi umani interpretano, immaginano, conoscono e
trasformano il mondo che li circonda. Tali comportamenti e idee sono espressione di
un’attitudine tipicamente umana, quella che fa dell’uomo un produttore di cultura.
Le origini del concetto antropologico di cultura:
Col tempo il termine “cultura” ha rivestito, per gli stessi antropologi, significati con sfumature
diverse. La prima definizione antropologica di cultura risale all’antropologo inglese Edward B.
Tylor, Primitive Culture del 1871. Antropologia evoluzionista. “La cultura, o civiltà, intesa nel
suo senso etnografico più ampio, è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le
credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita
dall’uomo in quanto membro della società”. Estensione del termine cultura a indicare tutte le
attività umane, fino a comprendere le manifestazioni più strane o aberranti. La cultura si
manifesta nelle singole società come cultura specifica di coloro che nascono in quella
determinata società. Tuttavia la cultura, intesa come predisposizione di particolari relazioni
umane, è un dato universale, comune all’intero genere umano. Ulf Hannerz nel 1992: “Una
cultura è una struttura di significato che viaggia su reti di comunicazione non localizzate in
singoli territori”.
Darwin e l’antropologia:
Charles Robert Darwin pubblicò nel 1859 L’origine della specie. Era giunto all’idea che le
specie viventi si trasformassero in conseguenza di due processi combinati: la selezione
naturale e la sopravvivenza del più adatto. Piccole, impercettibili variazioni casuali in alcuni
individui consentivano a questi di adattarsi all’ambiente meglio di altri, e quindi di trasmettere
alla discendenza un “vantaggio” che li avrebbe resi più adatti di altri a sopravvivere. La sua
teoria sollevò polemiche, dibattiti e scontri furibondi tra evoluzionisti (pro Darwin) e
creazionisti. Alcuni filosofi e sociologi pensarono ben presto che la teoria dell’evoluzione per
selezione e sopravvivenza del più adatto fosse trasferibile all’evoluzione della società. Si
trattava di un deliberato tentativo di giustificare le disuguaglianze sociali presenti nella
società industriale di allora, e anche di legittimare la conquista e la dominazione coloniale
allora in pieno svolgimento. Teorie antropologiche relative alla storia della cultura e della
società umana viste come risultato di una evoluzione dal semplice al complesso, dal primitivo
al barbaro e dal barbaro al civilizzato. Vennero abbandonate agli inizi del Novecento.
La cultura e la sua “natura”:
Alla nascita il genoma di un essere umano non contiene le informazioni necessarie per fargli
adottare automaticamente determinati comportamenti che sono invece indispensabili per
poter far fronte al mondo circostante. Contrariamente agli animali, l’uomo nasce “nudo”, e
non solo nel senso letterale del termine. Aristotele lo aveva già fatto presente: l’uomo nasce
incompleto. Tra tutti gli animali che popolano il nostro pianeta, l’uomo è quello che, dal
momento in cui nasce, ha bisogno per più tempo delle cure, delle attenzioni e dell’assistenza
dei propri simili adulti. Jean Piaget stabilì che il processo di formazione di tali facoltà non
giunge a compimento prima dei quindici anni. Il nostro codice genetico ci predispone a
compiere una serie di operazioni che sono infinitamente più complesse di quelle effettuabili
da qualsiasi altro animale, ma non ci indica quali operazioni dobbiamo compiere. Dipenderà
da ciò che ci è stato insegnato dal gruppo in cui siamo cresciuti. E ciò che il nostro gruppo sa e
ci insegna è a sua volta frutto di una lunga storia di relazioni con l’ambiente e, al tempo
stesso, di interazioni tra esseri umani. Il fatto che negli umani i comportamenti e le immagini
del mondo non siano geneticamente programmati non significa tuttavia che, venendo al
mondo, gli uomini siano totalmente liberi di scegliere, per esempio, di parlare una lingua
piuttosto che un’altra. Al contrario, nei pensieri come negli atti, gli esseri umani sono
determinati, dal momento che, per vivere in mezzo ai loro simili, devono adottare codici di
comportamento sia pratico sia mentale che siano riconoscibili e quindi condivisi da altri. Dire
che gli esseri umani sono determinati nelle loro scelte “culturali” non esclude però che nel
corso della loro vita essi elaborino, come di fatto accade sempre, le proprie preferenze o le
proprie idiosincrasie: non a tutti piacerà ad esempio lo stesso cibo, così come non tutti
mostreranno le stesse inclinazioni in materia religiosa, estetica o sessuale. La loro “cultura” è
poi, in definitiva, il complesso dei codici comportamentali e ideazionali riconoscibili dal gruppo
nel quale gli esseri umani vengono al mondo e nel quale sono educati. Questo progetto dura
tutta la vita.
La cultura come complesso di modelli:
Noi non ci rendiamo bene conto di come “funzioniamo” dal punto di vista culturale perché le
nostre azioni quotidiane e i nostri pensieri ci sembrano parte di un modo ovvio di comportarci,
di pensare, di sentire, di esistere. Ma noi ci comportiamo, pensiamo e sentiamo in un modo
piuttosto che in un altro perché seguiamo determinati modelli di comportamento e di pensiero
e non altri. Questi modelli possono essere qualificati come modelli per, cioè come modelli-guida
per il comportamento e per il pensiero in contesti “culturali” diversi. Tuttavia non esistono solo
modelli per fare qualcosa, esistono anche modelli di qualcosa, o meglio, i modelli per sono
anche modelli di. Senza modelli culturali per e di gli umani non sarebbero quello che sono.
Il ragazzo selvaggio dell’Aveyron:
I casi di esseri umani abbandonati subito dopo la nascita e ritrovati ancora vivi dopo alcuni
anni sono rarissimi proprio per l’estrema difficoltà che, una volta nati, gli individui della nostra
specie hanno di sopravvivere senza essere accuditi dagli adulti. “Ragazzo selvaggio
dell’Aveyron”, Francia centro- meridionale nel 1800. Privo di parola, nudo, e incapace di
camminare correttamente sulle gambe, questo “ragazzo” di età tra gli undici e i dodici anni si
nutriva di radici e frutti selvatici quando venne trovato e catturato da alcuni contadini ai
margini di una fattoria a cui si era avvicinato in cerca di cibo. Venne preso in cura da Jean
Itard. Itard accolse il ragazzo nella sua casa, gli diede un nome, Victor, e per ben cinque anni
cercò di farlo diventare un “normale ragazzo di Parigi”. Victor non imparò mai a parlare, né a
connettere in sequenze logiche gli elementi che venivano sottoposti alla sua attenzione.
L’ipotesi più probabile è che egli non avesse ricevuto assistenza dai propri simili adulti nei
primi tre anni di vita. Victor morì, “selvaggio”, nel 1828.
La cultura è operativa:
Grazie ai modelli (culturali) di cui dispongono, gli esseri umani si accostano al mondo in senso
pratico e intellettuale. Senza di essi non potrebbero pensare, agire, in pratica sopravvivere.
Alcuni antropologi, tra cui Bronislaw Malinowski, hanno visto nella cultura un complesso
sistema per far fronte alle sfide dell’ambiente e della vita associata. Tra l’impulso a soddisfare
un impulso primario e la sua soddisfazione gli esseri umani mettono la cultura. La cultura è
“operativa”, poiché mette l’essere umano nella condizione di agire in relazione ai propri
obiettivi, adattandosi sia all’ambiente naturale sia a quello sociale e culturale che lo circonda.
È come se fossimo predisposti operativamente ad affrontare il mondo fisico e il mondo
morale che ci circonda. Tale predisposizione deriva dall’assimilazione di modelli culturali e
corrisponde a ciò che il sociologo francese Pierre Bourdieu ha chiamato habitus. “È un sistema
durevole di disposizioni” sia fisiche che intellettuali, le quali sono il risultato di interiorizzazioni
di modelli di comportamento e di pensiero elaborati dalla cultura nella quale viviamo in
risposta all’ambiente fisico, sociale e culturale che ci circonda.
Selettività della cultura:
La cultura è un complesso di modelli tramandati, acquisiti ma anche selezionati. Agisce
sempre un principio di selezione. Si esercita tanto al fine di accogliere quegli elementi
culturali che si accordano con i modelli in vigore, quanto allo scopo di bloccare l’eventuale
intrusione di modelli incompatibili con quelli in atto.
Tramite la messa in atto di processi selettivi, le culture rivelano il loro carattere di sistemi
aperti e chiusi al tempo stesso. Non esistono situazioni di chiusura o di apertura totali. In
molti casi però, come hanno potuto sperimentare le popolazioni vittime del colonialismo,
alcuni modelli sono stati imposti con la violenza, con un danno irreparabile per la cultura di
coloro che li hanno subiti.
Dinamicità della cultura:
I processi di selezione tipici di tutte le culture lasciano intendere che queste ultime non sono
delle entità statiche, fisse, ma piuttosto dei complessi di idee e comportamenti che cambiano
nel tempo. Sono prodotti storici, cioè il risultato di incontri, cessioni, prestiti e selezioni. Esiste
quella che l’antropologo francese Georges Balandier chiamò “dialettica della dinamica interna
e della dinamica esterna”, intendendo dire, con questa espressione, che le culture si
trasformano tanto secondo logiche proprie, quanto in relazione agli elementi di provenienza
esterna con cui esse entrano in contatto. Tutte le culture hanno una storia, alla cui origine vi è
l’impossibilità, per ognuna, di rimanere identica a sé stessa. Questo fatto è particolarmente
evidente oggi, in un’epoca di grande diffusione di tecnologie e di mezzi di comunicazione oltre
che di grandi spostamenti di popolazioni.
L’evoluzione della cultura:
Molti antropologi dell’Ottocento, definiti evoluzionisti, ritenevano che la cultura umana fosse
sottoposta a processi di tipo cumulativo e migliorativo a cui davano il nome di evoluzione.
Sostenitori di un’idea di “progresso”. Oggi gli antropologi non parlano volentieri di evoluzione
della cultura, proprio perché questa espressione rinvia a un clima storico e ideologico in cui
diventò molto facile guardare gli altri dall’alto in basso e considerarli copie imperfette (cioè
non evolute) di quel che erano gli europei nel secolo XIX. Essi cercano di porsi il problema di
come le innovazioni culturali “utili” vengano mantenute a discapito di quelle “inutili”.
La cultura è differenziata e stratificata:
Siamo portati ad avere un’immagine omogenea della cultura in questione. In realtà sappiamo
bene che anche all’interno di una comunità esistono tanti modi diversi di percepire il mondo,
di rapportarsi agli altri e di esprimersi, di comportarsi in pubblico. Esse hanno spesso a che
vedere con il potere, la ricchezza, la posizione sociale, l’istruzione; ma anche con le
convinzioni, religiose o politiche che siano. Solo in poche realtà tali differenze erano o sono
scarsamente accentuate. In passato queste differenze di cultura o “dislivelli interni” di cultura
erano però assai più evidenti, al punto che si parlava di cultura colta e di cultura popolare: la
prima era identificata con la scienza, le arti e le lettere, mentre la seconda era quella dei
rituali e delle
feste paesane, delle credenze nei fantasmi e nelle streghe, del culto delle reliquie e di tutto
quanto era ritenuto appartenente alla sfera della superstizione. Spesso sono gli interessi, e
quindi la cultura, dei soggetti socialmente più forti a prevalere. Antonio Gramsci coniò le
espressioni “cultura egemonica” e “cultura subalterna”, la prima a indicare la cultura dei ceti
dominanti, e la seconda quella dei ceti subordinati. Roger Keesing: quando studiamo le
rappresentazioni e i comportamenti dei soggetti appartenenti a una certa cultura, dobbiamo
avere presente che le rappresentazioni e i comportamenti che ci vengono presentati come
ovvi e naturali, ossia come tipici di quella cultura, sono di fatto le idee e i comportamenti di
coloro che sono socialmente prevalenti. “Controllo” culturale. Quando studiamo una cultura
dobbiamo tenere conto del modo in cui avviene la “distribuzione” della cultura.
Comunicazione e creatività:
La cultura esiste nella capacità che gli esseri umani hanno di trasmettersi dei messaggi, cioè di
comunicare. La dimensione comunicativa è centrale in qualunque processo di tipo culturale.
Per esistere come entità operative, i modelli devono essere largamente condivisi dai
componenti di un gruppo. Essi devono cioè essere riconoscibili da tutti, e quindi comunicabili.
Devono essere riconosciuti come facenti parte di un sistema di segni condiviso. Se la cultura
esiste come insieme di “segni” riconoscibili, ciò non significa che tali segni costituiscano un
repertorio fisso e ripetibile all’infinto. I segni possono essere combinati secondo sequenze
riconoscibili ma innovative, capaci cioè di creare nuovi significati. Natura creativa della
cultura che ha riscontro in due caratteristiche del linguaggio umano: l’universalità semantica
e la produttività infinita. Universalità semantica: tutte le lingue sono in grado di informazioni
relative a eventi, qualità di cose, luoghi del presente, del passato e del futuro, vicini e lontani,
reali e immaginari: questa capacità manca ai linguaggi animali. Collocare le azioni e gli eventi
nel tempo e nello spazio. Produttività infinita: data una proposizione nulla ci dice su che cosa
potrà seguire ad essa. Esiste però un altro tipo di creatività culturale. Essa consiste nella
creazione di nuovi significati che mostri il nostro modo di intendere le cose, rappresentare il
mondo o di manipolare e modificare il mondo naturale e sociale circostante. Una cultura
“controlla” sempre la creatività degli attori sociali, nel senso che mette ad essa un freno.
Limite quando una società non è in grado di cogliere l’innovazione. Il successo della creatività,
nella cultura, sta nel dire parole, immaginare situazioni o immaginare cose che si allontanano
da ciò che una cultura già conosce, ma che non diventino per questo irriconoscibili o
inutilizzabili dai componenti della società nella quale tale creatività si manifesta.
La cultura è olistica:
I modelli interagiscono sempre con altri modelli, ed è la loro capacità di coniugarsi in un
insieme complesso più o meno coerente che dà vita a quel qualcosa che noi chiamiamo
“cultura”. Questo interagire dei modelli tra loro dà infatti luogo a un complesso integrato. Si
dice che la cultura è un’entità olistica (dal greco òlos,“intero”), cioè complessa e integrata,
formata da elementi che stanno in un rapporto di interdipendenza reciproca, anche se ciò
non significa affatto che una cultura sia “chiusa” o “isolata”. Si affermò solo negli anni a
cavallo della Prima guerra mondiale. Secondo certi antropologi alcune culture sarebbero “più
olistiche” di altre, nel senso che i loro elementi costitutivi sarebbero pensati, dai loro stessi
componenti, in un rapporto di integrazione maggiore rispetto a quanto avviene in altre
società. Noi europei stentiamo un po’ a renderci conto di come le culture siano olistiche, non
solo perché come dice Dumont siamo abituati a
pensare gli individui come autonomi e liberi sul piano giuridico, morale eccetera, ma anche
perché nella nostra storia recente abbiamo imparato a distinguere la politica dalla
religione, la vita privata da quella pubblica, il mondo dei vivi da quello dei morti. Per molte
società le distinzioni tipiche della società occidentale non valgono, o almeno non valgono
nella stessa misura.
Cultura animale:
Non è del tutto esatto dire che il comportamento animale si basa sempre e soltanto sull’istinto e
quello umano sulla cultura. Anche gli umani sono sollecitati da fattori di tipo istintivo, sebbene
tali istinti siano sempre “culturalmente guidati”. Se per cultura si intende una forma di
comportamento appreso, cioè elaborato a partire da un’esperienza e poi trasmesso da alcuni
individui ad altri, non c’è dubbio che certe specie di mammiferi e uccelli danno prova
dell’esistenza, presso di loro, di forme elementari di cultura. Gli esseri umani hanno però
l’enorme vantaggio di avere un linguaggio articolato che è in grado di esprimere sfumature
infinitamente variegate di luogo, tempo e significato.
Esistono i confini di una cultura?:
Le culture non hanno confini netti, precisi, identificabili con sicurezza. Hanno dei nuclei forti
che le distinguono da alcune ma che, al tempo steso, le assimilano ad altre. Però, se ci
allontaniamo da questi nuclei forti, le cose tendono sempre più a confondersi e le differenze
finiscono per sbiadire o per intrecciarsi. Le culture sono aperte e chiuse, sono selettive e
comunicative, dinamiche e differenziate al proprio interno; sono creative e prodotto di
processi storici di incontri, scambi e prestiti. Ciò che noi chiamiamo “cultura” non è
concepibile come un sistema di modelli totalmente coerente e integrato in riferimento ai quali
gli individui si comportano e pensano in maniera meccanica. Nella seconda metà del
Novecento si è messo in atto un intenso processo di incroci e di mutuo arricchimento e di
“inseminazione” tra forme culturali precedentemente separate.
La ricerca antropologica:
Il fatto di riconoscere il carattere olistico della cultura non ci obbliga tuttavia a riconoscerla
nella sua “totalità”, ma piuttosto a studiarla adottando una prospettiva che ci predispone a
stabilire collegamenti tra i vari aspetti della vita di coloro che vivono quella cultura stessa.
L’approccio olistico allo studio dei fenomeni culturali nasce dalla consapevolezza dell’estrema
interdipendenza esistente tra questi stessi fenomeni. Gli antropologi studiano di solito
determinati aspetti di una cultura. Qualunque sia l’oggetto privilegiato di indagine degli
antropologi, questi ultimi sono costretti a considerare un fenomeno in relazione a tutti gli altri,
o per lo meno a molti altri. Inoltre, essi devono estendere la loro ricerca al di là della
dimensione “locale”.
Pratica della ricerca. “Ricerca sul campo” o “etnografia”.
Le emozioni:
Lo studio delle emoziono costituisce un settore di ricerca sviluppato solo recentemente
nell’antropologia. Sono tutti elementi costitutivi della persona e della sua maniera di “essere
nel mondo”. Tali stati d’animo fanno parte di una più generale sfera dell’ “interiorità” in cui
non è sempre facile distinguere tra emozioni, sentimenti e sensazioni. I sentimenti sono in
genere i concetti che una cultura possiede di un determinato stato d’animo, per esempio
“essere innamorati”. L’emozione implicita nel fatto di “essere innamorati” è tuttavia qualcosa
di diverso dal concetto di “amore” mediante cui viene espresso questo stato d’animo
particolare. Gli stati d’animo non sono universali, o meglio, non sono espressi ovunque nella
stessa maniera. Sono concepiti ed espressi da “soggetti culturali”, cioè in base a modelli
culturali interiorizzati durante
l’infanzia e riplasmati continuamente nel corso della vita di un individuo. Le emozioni sono
responsabili della nostra “fabbricazione”. Nel caso del lutto è spesso il corpo a essere
chiamato in causa, come avviene nel caso del “pianto rituale” e dei gesti di disperazione che
mirano, ripetendo un modello prestabilito, a mostrare in pubblico e a socializzare il dolore di
chi ha persona una persona cara. Molte culture mancano di un termine unico per indicare
quell’insieme di stati d’animo e di sentimenti che noi chiamiamo emozioni. Le emozioni
vengono modulate in relazione a una serie complessa di fattori. L’espressione dell’ “amore”
nei beduini egiziani trova un canale privilegiato nella poesia orale. Molti degli studi condotti
dagli antropologi sulle emozioni hanno cercato di mettere in risalto il rapporto di queste
ultime con il sistema delle interazioni personali e delle relazioni sociali. Vi sono molti stati
d’animo, emozioni e sentimenti connessi con espressioni corporee che mutano da cultura a
cultura. Tali espressioni sono apprese dagli individui. Tutte le culture hanno un modo
“razionale” di parlare delle emozioni, poiché possiedono nozioni e concetti atte a descriverle.
Le emozioni “non sono qualcosa che si oppone al pensiero, ma cognizioni che interessano un
Io corporeo, pensieri incorporati”.
Capitolo 3: Le caste, le classi, le etnie:
Le caste:
Il termine casta viene oggi utilizzato in maniera fluida e generica in riferimento a gruppi sociali
ritenuti, per una qualche ragione, superiori o inferiori ad altri e che, per questa loro
caratteristica, tendono a condurre una vita in qualche modo separata da questi ultimi. “Casta”
è un termine che in lingua portoghese significa “casata”, “stirpe”. Quando nel secolo XV i
navigatori portoghesi giunsero in India lo applicarono indistintamente a due criteri per
distinguere le popolazioni sottoposte all’autorità dei principi (raja): il sistema dei varna e
quello degli jat. I varna sono le quattro categorie sociali principali della tradizione indù:
sacerdoti, guerrieri, commercianti, artigiani e, infine, contadini (oltre ai “fuori-casta” o
“intoccabili”, i paria). I varna si suddividono a loro volta in una marea di jat e sotto-jat, ognuno
corrispondente, almeno in via teorica, a uno specifico gruppo occupazionale. Si presentano
come entità sociali tendenzialmente ripiegate su sé stesse. Le unioni matrimoniali devono in
principio avvenire tra individui appartenenti allo stesso varna o allo stesso jat. Non
consentono ai membri delle caste “superiori” di entrare in contatto con i membri delle caste
“inferiori”. Le caste sono infatti disposte gerarchicamente. Esempio particolarmente
esasperato di “stratificazione sociale” fondato sulla disparità di accesso alle risorse. In molti
casi individui di casta superiore si sono impoveriti, mentre altri di casta inferiore si sono
arricchiti. La concezione tradizionale della diversa purezza rituale è entrata così in conflitto
con la sfera delle competenze, della ricchezza e dell’istruzione. Il sistema castale si fonda su
un’idea di gerarchia che è profondamente diversa da quella di gerarchia e potere che gli
occidentali hanno in mente. La gerarchia castale è una gerarchia di purezza rituale la cui logica
informa l’interno pensiero indù, e non solo l’ambito delle relazioni economiche e di potere. Ha
subito un processo di forte irrigidimento con la colonizzazione. Lèvi-Strauss ritenne che le
caste indù siano un tipico esempio delle tendenze classificatrici della mente umana. Gli indù
obbligano gli individui a sposarne altri della stessa casta. Il sistema castale distingue gli esseri
umani sulla base della loro occupazione, quindi sulla base di un elemento culturale. Le
differenze tra gruppi occupazionali vengono assimilate a delle differenze naturali. Il sistema
delle caste concepisce la cultura attraverso la natura. Le caste indù poiché si
autopercepiscono come gruppi naturali, sono unità chiuse sul piano matrimoniale e separate
le une dalle altre sulla base di precisi divieti riguardanti il contatto fisico, il matrimonio, la
preparazione del cibo eccetera.
Le classi:
Karl Marx riteneva che la storia della società (europea) fosse caratterizzata da ciò che chiamo
“lotta di classe”: cioè lo scontro tra gruppi sociali con interessi economici e politici diversi e
conflittuali. Così la società moderna era nato dallo scontro tra borghesia e aristocrazia, e dal
trionfo della prima sulla seconda. La rivoluzione industriale aveva però creato una classe
prima sconosciuta, il proletariato urbano industriale. Si legano tra loro le classi sociali in un
rapporto conflittuale da un lato e funzionale dall’altro. Oggi le teorie di Marx tornano utili per
leggere i processi di espansione dei mercati e del capitale a livello globale, e per tutte quelle
forme di diseguaglianza e di emarginazione che tali fenomeni comportano a livello planetario.
Le distinzioni di classe non si risolvono in differenze di tipo economico. Tali distinzioni erano il
frutto, oltre che di disparità oggettive nell’accesso alle risorse, anche della rappresentazione
che ogni gruppo aveva di sé stesso in relazione alle altre classi. “Coscienza di base”,
consapevolezza che una classe come il proletariato doveva acquisire circa la propria
condizione di sfruttamento che la subordinava alla borghesia capitalista. La subalternità
culturale non si esprime sempre e comunque in forme coscienti e consapevoli, ma sotto forma
di un “folklore di contestazione”, spesso lontano dalla “coscienza di classe” marxiana, come
avviene in certe feste popolari, di natura sia sacra sia profana.
Gli studi culturali:
Sono affrontate dalla tradizione di ricerca che va sotto il nome di “studi culturali” (cultural
studies). Negli anni Sessanta si verificarono in Gran Bretagna le condizioni per dover ripensare
il rapporto tra il concetto di classe sociale e quello di cultura e poi, successivamente, tra quelle
che apparivano come le nuove emergenze identitarie e la dimensione culturale.
L’immigrazione dalle ex-colonie era un fatto rilevante già a partire dagli anni successivi alla
Seconda guerra mondiale, e problemi quali le distinzioni etiche e quelle basate sul colore della
pelle si aggiungevano ai problemi posti dalla differenza di classe e dalle nascenti discussioni sul
genere e l’identità sessuale. Nacquero negli ambienti della sinistra politica. La cultura fu
piuttosto pensata come un’arena, un luogo di incontro-scontro e di disputa-dibattito per
affermare le proprie idee e i propri diritti.
Cultura come discorso che si costruisce socialmente intorno ai diversi gruppi e come
rappresentazione della loro esperienza nel mondo. La nozione di agency sintetizza la capacità
che gli individui hanno di investire di significato eventi e rappresentazioni, accogliendoli o
rifiutandoli per adattarsi e/o “resistere” nel momento stesso in cui promuovono, grazie allo
sviluppo proveniente da tali eventi e rappresentazioni, una propria forma di soggettività.
L’appartenenza di classe non è “ascrittiva”, nel senso che, nel contesto delle moderne società
industriali, nulla impedisce in via teorica al proletariato di diventare egli stesso capitalista (e
viceversa). La divisione della popolazione in classi ha naturalmente a che vedere con la
divisione del lavoro, ma non coincide con quest’ultima. Gruppi occupazionali diversi possono
infatti appartenere alla stessa classe sociale. Dove non esiste “coscienza di classe” non
sembrerebbe legittimo parlare di classi sociali. Il capitalismo va estendendosi pressoché
ovunque.
Le etnie e l’etnicità:
Il termine etnia, etnico, etnicità sono oggi alquanto utilizzati nel linguaggio dei media e della
politica. Etnia: un gruppo umano identificabile mediante la condivisione di una medesima
cultura, di una medesima lingua, di una stessa tradizione e di uno stesso territorio.
I significati del termine “etnia”:
Alcuni antropologi hanno fortemente criticato l’equazione cultura = lingua = territorio perché
sembra dare per scontata l’idea che dietro ogni etnia vi sia un’origine comune, e che
quest’ultima assegni all’etnia un fondamento “naturale”. Infatti, questo modo di intendere le
etnie corrisponde a un sentimento identitario (l’etnicità) che dà per scontato il carattere
assoluto, statico, eterno del gruppo in riferimento al quale tutte queste cose vengono
pensate. Etnicità: il sentimento di appartenenza a un gruppo definito culturalmente,
linguisticamente e territorialmente in maniera rigida e definita. Tutti i gruppi umani, le loro
culture e le loro lingue sono il frutto di un più o meno lento processo di interazione con altri.
L’uso politico dell’etnicità:
Nella contrapposizione etnica ciò che agisce più di ogni altra cosa è infatti la volontà di
enfatizzare uno o più elementi differenziali reali, o immaginari, dimenticando tutti gli altri che
invece accomunano. Lo scopo dello scontro etnico è la negazione dell’altro, il suo
annullamento fisico, per allontanamento o sterminio. Il fattore etnico può anche essere
manipolato allo scopo di ottenere vantaggi sul piano economico per alcuni gruppi di interesse.
Secondo l’ipotesi di Cohen l’etnicità e la coscienza di base sono esclusive l’una dell’altra. Se c’è
una non ci può essere l’altra. Non è però che le differenze di classe spariscano. Esse passano in
secondo piano. L’etnicità può essere funzionale al mantenimento della divisione della società
in classi, anche se, inibisce la comparsa di una “coscienza di classe”. L’etnicità deve essere
letta come il prodotto di un’interazione tra gruppi con interessi diversi spesso innescati da
soggetti politici esterni.
Il conflitto etnico “perfetto”: Hutu e Tutsi in Rwanda:
Uno dei più violenti conflitti etnici divampati nella seconda metà del Novecento. È costato circa
due milioni di vite. Fu in realtà uno strascico perverso dell’epoca coloniale e della
radicalizzazione delle differenze tra due “comunità” che hanno sempre condiviso la stessa
lingua, lo stesso territorio, la stessa religione, gli stessi “valori” e le stesse istituzioni politiche. È
di fatto quasi sempre impossibile determinare l’appartenenza di un individuo a uno o all’altro
gruppo sulla base delle sue caratteristiche fisiche. In Rwanda vigeva, sino all’arrivo degli europei
nella seconda metà dell’Ottocento, un sistema politico elaborato, fondato sulla
complementarietà di tre gruppi: pastori, agricoltori e cacciatori-raccoglitori. I pastori erano in
prevalenza Tutsi; gli agricoltori erano Hutu. I cacciatori-raccoglitori erano pigmei Twa. I
colonizzatori attribuirono a questa ripartizione un significato “raziale” di tipo gerarchico: Tutsi,
Hutu e Twa. Prima della colonizzazione i Tutsi erano il gruppo politicamente preminente.
Dall’aristocrazia Hutu provenivano tuttavia i sacerdoti preposti ai rituali che assicuravano il
benessere del sovrano (tutsi) e dell’intera popolazione del regno.
Quando i colonizzatori europei si impadronirono della regione, abolirono, oltre alla monarchia
tutsi, anche il ruolo rituale degli Hutu. Quando l’aristocrazia tutsi si convertì al cattolicesimo,
acquisì sul resto della popolazione un nuovo potere, fondato sul rapporto esclusivo e
complice con i colonizzatori. I belgi affidarono ai Tutsi posti e incarichi nell’amministrazione.
Gli Hutu rimasero invece tagliati fuori da tutto ciò. Gli Hutu si ritrovarono ad essere una
semplice massa politicamente ininfluente di contadini sfruttati dai dominatori tutsi. Questa
situazione si protrasse sino alla fine degli anni Cinquanta quando, con l’indipendenza, venne
instaurata una repubblica controllata per motivi numerici dagli Hutu. La presa di potere da
parte degli Hutu segnò l’inizio di un periodo di violenza intermittente culminato con le stragi
degli anni Novanta. Nel 1930 i belgi idearono un censimento allo scopo di identificare, tassare,
sottoporre a leva obbligatoria eccetera la popolazione della loro colonia. Nelle loro intenzioni
erano Tutsi coloro che avevano tanti animali, Hutu chi ne aveva pochi. Il nome di Tutsi o di
Hutu venne riportato sulle carte di identità, e l’appartenenza a una o all’altra “etnia” poteva
determinare il diritto di accesso, o meno, all’istituzione e a ogni altro privilegio concesso dai
colonizzatori ai Tutsi.
Parte sesta: Forme della parentela:
Capitolo 1: La parentela: relazione e rappresentazione. Le nozioni
Levirato e sororato:
Con il termine levirato si indica il costume in base al quale la moglie di un defunto va in sposa
al fratello di quest’ultimo, il quale diventa in tal modo tutore della donna medesima e della
sua prole. Sororato è invece il termine con cui si indica il costume di dare in moglie a un uomo
rimasto vedovo la sorella della donna defunta, soprattutto quando questa muore senza prole.
Lo scopo di questa unione è quello di rimpiazzare le facoltà riproduttive della donna
scomparsa a vantaggio del gruppo del marito con il quale era stato stipulato un accordo
matrimoniale.
I matrimoni poliandrici dei Nayar:
Altre forme di unione matrimoniale contribuiscono a rendere problematica la definizione di
matrimonio corrente nelle società occidentali. I Nayar praticano la poliandria e la loro società
si fonda su gruppi di parenti interrelati dalla comune discendenza matrilineare. Questi gruppi
sono chiamati tavari. Poco prima di raggiungere la pubertà le ragazze sono sottoposte alla
cerimonia del tali, che rende legittimo per una donna avere rapporti sessuali con un uomo.
Tra i Nayar una donna può avere più relazione contemporanee o successive. Neppure la
ragazza è vincolata da obblighi nei confronti dell’uomo. Successivamente può verificarsi che
alcuni degli uomini mantengano una relazione permanente con la donna, relazione chiamata
sambandham e che coinvolge i due individui in un rapporto di tipo formale: l’uomo deve
offrire doni alla donna tre volte l’anno. Ciò lo autorizza a passare la notte in casa della donna
quando vuole e ad avere diritti sessuali permanenti (ma non esclusivi) su di lei. Una donna
può avere questo tipo di relazione con più di un uomo contemporaneamente. Quando la
donna è incinta però, un uomo di condizioni pari o superiori alla sua deve riconoscere la
paternità del nascituro, pena l’espulsione della donna dal suo tavari. Senza contrarre obblighi
di sorta nei confronti del figlio della donna. Altre unioni poliandriche sono in vigore presso i
Tibetani del Nepal, dove però più fratelli prendono una moglie in comune, contraendo quindi
un matrimonio in senso “collettivo”.
Sistemi a lezioni:
Lo scambio delle sorelle è stato osservato anche presso società prive di veri e propri gruppi di
discendenza, le quali però riconoscono il sistema della discendenza per creare “sistemi a
sezioni” matrimoniali. È il caso di quei gruppi di aborigeni australiani. I sistemi a sezioni
costituiscono un ulteriore meccanismo di assegnazione dei nuovi nati a dei gruppi che si
formano in base al criterio della discendenza, ma che non sono essi stessi gruppi di
discendenza.
I matrimoni endogamici dei beduini d’Arabia:
È massima espressione il matrimonio tra cugini paralleli. Anche oggi questi nomadi si
disperdono durante la stagione fresca in piccole unità di nomadizzazione composte da alcune
cellule familiari costituite ciascuna da un uomo, sua moglie e i loro figli. Un metodo semplice
per risolvere le unioni dei componenti di queste unità di nomadizzazione, isolate per gran
parte dell’anno, potrebbe essere stato quello di far sposare tra loro i figli maschi e le figlie
femmine dei vari fratelli, cose che effettivamente accade ancor oggi che gli spostamenti
all’interno del deserto sono diventati molto più rapidi e i contatti tra unità domestiche assai
più frequenti di una volta.
Capitolo 2: Le terminologie di parentela:
Terminologie di “parentela” o di “relazioni”?:
Una terminologia di parentela è il complesso dei termini di cui una società dispone per
designare gli individui in relazione di consanguineità e di alleanza (o affinità). Alcuni però
preferiscono parlare di “terminologie di relazioni”. La ragione di ciò dipende dal fatto che in
molte culture gli individui che vengono designati mediante termini che noi riteniamo essere
“di parentela” possono in alcuni casi non evocare l’idea di un legame né di sangue né di
alleanza. Un termine, oltre a indicare uno o più individui, porta con sé un significato profondo,
in quanto il suo impiego implica una serie di atteggiamenti, valori e aspettative nei confronti
degli individui così designati che altri termini non implicano.
I tre assunti di Morgan:
Il primo: terminologie di parentela costituiscono dei sistemi. Ciò significa che a ogni termine
con cui un individuo designa un suo “parente” ne corrisponde sempre un altro usato da
quest’ultimo per designare il primo. Si parla di sistemi terminologici di parentela o, ancor più
brevemente, di sistemi di parentela. “Legge di coerenza interna dei reciproci”. Il secondo: i
sistemi terminologici di parentela rientrano in poche categorie fondamentali. Il terzo assunto:
sistemi molto diversi possono trovarsi in regione geograficamente vicine, mentre sistemi tra
loro simili possono essere rintracciati in località del pianeta lontanissime le une dalle altre.
I sei sistemi terminologici di parentela:
Gli antropologi hanno isolato sei tipi principali di sistemi terminologici di parentela e hanno
assegnato loro i seguenti nomi: hawaiano, eschimese, omaha, crow, irochese e sudanese.
Prendono semplicemente il nome da popoli o da regioni presso cui tali sistemi furono individuati
o studiati per la prima volta. Sono raggruppati di solito in tre differenti categorie:
Sistemi non lineari o
Sono chiamati sciamanici quei culti tipici di società nelle quali il contatto con le potenze
invisibili è assicurato dall’opera di una particolare figura, uomo o donna, definita sciamano.
Caratteristica dello sciamano è quella di essere un individuo come gli altri nella vita di tutti i
giorni, e che solo occasionalmente veste i panni della sua funzione. Talvolta le pratiche
sciamaniche sono accompagnate da musica e dall’assunzione di sostanze psicotrope atte a
provocare nello sciamano stati di tipo allucinatorio. Possibilità di entrare in stati di semi-
incoscienza (trance) durante i quali stabilisce un contatto con i poteri sovrannaturali.
Possessione:
Indica l’idea che spiriti di defunti, di eroi, di divinità, di animali o non meglio definite forze
sovrannaturali possano impossessarsi di determinati individui per parlare e agire attraverso di
essi. Queste forme di possessione consistono in “esibizioni” organizzate di soggetti
predisposti, spesso psichicamente “instabili”, ma non necessariamente patologici, che danno
luogo a manifestazioni sussultorie e scoordinate del corpo, perdita del senso del tempo e dello
spazio, nonché della normale sensibilità al dolore e alla fatica. Il corpo diventa “ricettacolo2
dell’essere che se ne impossessa, funzionando come una specie di “ponte” tra il mondo degli
umani e quello degli esseri soprannaturali. Casi particolarmente noti sono quelli legati ai culti
vudu di Haiti; quelli legati alla credenza nel morso della tarantola e tipici dell’area salentina
della Puglia; o quelli presenti tra le popolazioni etiopiche della regione di Gondar. Si hanno
anche casi di possessione istituzionalizzata, dove cioè gli individui dotati di identità sociali
specifiche, di genere o di classe, danno luogo a manifestazioni socialmente approvate da tutta
la società.
Mana:
Il mana è stato concepito come una sostanza, un medium invisibile che gli uomini cercano di
procurarsi attraverso gli antenati morti, gli spiriti e gli dei. Una specie di benedizione o di una
protezione.
I culti comunitari:
Si tratta di tutte quelle pratiche religiose che prevedono la partecipazione di gruppi di
individui, che si riuniscono temporaneamente per questo preciso scopo senza alcun aspetto di
permanenza e continuità delle funzioni culturali. Possono avvalersi della partecipazione di
sciamani, gruppi di danza, suonatori eccetera. Sovente sono praticati con fini terapeutici. Culti
comunitari sono poi quelli praticati dagli appartenenti alle classi d’età o alle società segrete.
Il totemismo:
Un tipo speciale di culto comunitario è quello chiamato totemico, ritenuto una volta come
connesso con la prima forma di religione. Il termine totem significa qualcosa come “egli fa
parte della mia parentela”. Questa espressione era applicata anche a una specie animale. I
primi studiosi parlarono di totemismo, ritenendo che tutto ciò che potesse segnalare l’uso di
termini di animali o piante in relazione a individui o a gruppi di essi dovesse essere
considerato una forma di religione primitiva, anzi secondo alcuni la forma più primitiva di
religione. Alcuni gruppi di nativi nordamericani erigevano pali con incise le figure dei loro
antenati mitici.
Levi-Strauss dimostrò che si era di fronte a un fenomeno molto diverso da quello a cui si
era per molto tempo pensato. Egli spiegò che quello che gli antropologi avevano ritenuto
essere una forma di religione altro non era che un modo di classificare gruppi e individui
basato sul repertorio delle specie animali e vegetali. Relazione simbolica tra esseri umani e
specie animali (o vegetali).
I culti ecclesiastici:
I culti ecclesiastici sono quelli che prevedono l’esistenza di gruppi di individui specializzati nel
culto. Le varie chiese cristiane possiedono queste caratteristiche. Esistono individui che si
dedicano solo ed esclusivamente al culto. Testi quasi sempre scritti, i quali vengono
tramandati in luoghi speciali come scuole, seminari, conventi, istituiti nei quali la classe
sacerdotale riproduce un modello di autorità e di conoscenza “teologica”. Forti sono le
connessioni tra i gruppi sacerdotali specializzati nel culto e i detentori del potere politico.
Tabu:
Con la parola tabù gli antropologi hanno chiamato tutte le proibizioni relative a esseri umani o
cose speciali che, per questo motivo, sono essi stessi tabu. Tutte le religioni prevedono
oggetti, esseri animati o persone tabu. Qualcosa che è off-limits, tapu, lo è sempre per
qualcuno, e non in sé o per sé. Implica l’esistenza di un contesto.
Capitolo 2: I simboli e i riti:
L’efficacia dei simboli sacri:
Alla base di ogni rappresentazione religiosa vi sono dei “simboli sacri [i quali] servono a
sintetizzare l’ethos di un popolo”. I simboli “significano” dei concetti che rinviano ai valori
fondamentali e ultimi di una società. Per questo motivo si dice spesso che la religione coincide
con una visione del mondo o con una cosmologia, che si riveste di un’aura di “sacralità”. I
simboli sono infatti “sacri”. Emile Durkheim definì le cose sacre come “separate” e
“interdette”: separato da quelle profane e vietate a chi non è “consacrato”, cioè posto in uno
stato tale da poter accedere a esse. Le cose sacre sono quelle che suscitano negli esseri umani
sospetto e timore reverenziale, al punto da essere concepite come “pericolose” per chiunque
le avvicini senza essersi posto preventivamente nella condizione appropriata per poterlo fare.
Agiscono su coloro che li percepiscono mettendoli nella condizione di predisporsi a un’azione
e/o suscitando in loro un particolare stato d’animo.
Producono un’idea “rappacificante” di ordine. Riguarda la certezza che vi è pur sempre una
realtà sicura, vera e immutabile alla quale costoro possono affidarsi. I simboli sacri sono ciò che
consente alla religione di svolgere la sua duplice funzione: integrativa e normativa. Per far sì che
un simbolo sia riconoscibile come sacro bisogna che la sua sacralità si “imponga” alla sensibilità
e alla mente dei soggetti. Gli esseri umani, per poter riconoscere il carattere sacro di un simbolo
devono essere “addestrati” a riconoscerlo come tale. Ora, tale addestramento si realizza
attraverso i riti.
‘Id al kabir:
Una delle più importanti ricorrenze festive della religione musulmana. Cade una volta
all’anno nel decimo giorno del mese del pellegrinaggio alla Mecca, la principale città santa
dell’Islam. Culmina con il sacrificio di un animale che viene sgozzato dal capofamiglia in
ricordo del sacrificio compiuto da Abramo. La sua drammaticità consiste anche e soprattutto
nel ricordare all’uomo il suo essere “in bilico” tra la tentazione di perseguire i propri istinti e i
propri affetti particolari da un lato e la sottomissione alla volontà di Dio dall’altro. ‘Id al kabir
è quindi una sequenza di atti simbolici in cui il fedele “riconosce” la verità della sua religione.
I riti nella religione:
Un rito può essere inteso come un complesso di azioni la cui sequenza è prestabilita da una
formula fissa. Si tratta di sequenze di azioni mediante cui vengono evocati dei simboli i quali,
proprio perché evocati in un contesto “separato” dalla vita ordinaria, svelano il loro carattere
sacro ai partecipanti. Probabilmente è la ripetizione, in un contesto “speciale”, di queste
sequenze verbali, gestuali e sonore a far sì che dal rito scaturisca una forma di autorità
“religiosa”. I riti, inoltre, sono di solito officiati da personaggi speciali in qualche modo dotati
di autorità. Si genera un principio di autorità. I riti sono ciò che rende “evidenti” le verità di
una religione, ossia i valori, i fini ultimi, l’ordine del cosmo e delle società. Vi sono però riti
che evocano solo in parte rappresentazioni di tipo religioso e che, nondimeno, ribadiscono il
carattere sacro di alcuni simboli sacri ma non strettamente religiosi. Di solito in queste
cerimonie il simbolo sacro per eccellenza è costituito dalla bandiera nazionale o da qualche
simbolo ripescato ad hoc. Tali riti mettono in primo piano simboli che, come tali, non hanno
niente di religioso, ma hanno molto di “sacro”.
Churinga e rombi:
Gli aborigeni d’Australia avevano una concezione abbastanza simile dell’origine del mondo.
Quest’ultimo era per loro il frutto di una creazione intrapresa in un tempo mitico dagli
antenati. Usciti dalla terra, gli antenati avrebbero percorso il territorio e avrebbero creato le
montagne, le piante, le rocce, gli animali e gli esseri umani con un canto, con la “voce”.
Percorso e canto degli antenati sono rappresentati in due simboli sacri: i churinga e i rombi. I
churinga, assicelle di legno o di pietra incise o dipinte, riportano in maniera stilizzata il
percorso degli antenati sul territorio nel tempo della creazione. I rombi, invece, sono
tavolette di legno incise o dipinte che, legate all’estremità di una corda, venivano fatte
roteare nell’area in occasioni speciali. Emanano un suono cupo, una specie di muggito. Per gli
aborigeni australiani essi erano “la voce degli antenati”. I rombi potevano essere toccati, e il
loro suono udito, solo dagli iniziati maschi. Allo stesso modo, solo gli iniziati potevano vedere
rappresentato nei churinga il cammino degli antenati nell’opera di creazione del mondo.
La molteplicità dei riti:
Poiché i simboli sacri rimandano differenti aspetti della realtà sociale, venendo a significare,
come abbiamo visto, cose diverse, non è possibile passare in rassegna tutti i tipi di riti. Vi
sono però dei riti che si distinguono per alcune caratteristiche particolari.
Riti di passaggio:
I riti di passaggio sono quelli che sanzionano pubblicamente i riti di passaggio di un individuo
da una condizione sociale o spirituale a un’altra: battesimi, circoncisioni rituali, matrimoni
eccetera. Siccome il mondo sociale è ordinato in ambiti definiti di attività e di posizioni sociali,
ogni cambiamento all’interno di questi ambiti specifici produce una “perdita di equilibrio” che
deve essere tuttavia compensata per poter pensare il mondo come “ordinato”. Tutto deve
essere accompagnato da riti di passaggio atti a scandire la transizione da una condizione a
un’altra. Sono presenti anche nella nostra società. Van Gennep distinse, all’interno di ciascun
rito di passaggio, tre fasi, ciascuna caratterizzata da rituali specifici: separazione (riti
preliminari), margine (riti liminari) e aggregazione (riti postliminari), attribuendo la massima
importanza a quella centrale, o di margine. La fase di margine viene infatti dopo il “distacco”
di un individuo dalla sua condizione precedente, e prima di quella in cui l’individuo in
questione assumerà una nuova identità. Il mondo primitivo era profondamente segnato
dall’opposizione tra sacro e profano, e ogni variazione o passaggio da un’opposizione all’altra
provocherebbe, secondo l’idea che queste società avevano del mondo, un’alterazione delle
forze che stavano alla base del mondo medesimo. Questa teoria si rivelò aderente alla realtà
in relazione all’articolazione di tutti i rituali in tre fasi.
Melilla: il giuramento della bandiera:
Esempio di come un rito nazionalista usi simboli tanto sacri quanto profani. Nel 1983 la
comunità cattolica di Melilla, una enclave spagnola della costa mediterranea del Marocco,
decise di celebrare un rito mai tenutosi prima: il jura de bandera, il “giuramento della
bandiera”. Melilla era allora una città di frontiera, con una popolazione composta in
prevalenza da spagnoli cattolici, arabi musulmani, e indù originari del subcontinente indiano.
Di fronte alle incertezze del momento, gli spagnoli vollero riaffermare, a livello simbolico-
rituale, la loro supremazia. Il jura de bandera aveva lo scopo di sortire tre effetti sulle
comunità ispano-cattolica locale. Doveva suscitare l’orgoglio nazionale e un sentimento di
superiorità nei confronti delle altre componenti della popolazione delle città. Doveva
rafforzare il senso della comunità cattolica rendendola “presente a sé stessa”. Doveva essere
un atto di legittimazione di propiziazione del dominio dei cattolici spagnoli di Melilla sulle
altre componenti della popolazione attraverso l’invocazione della protezione divina, con
l’aiuto però, se fosse stato necessario, di una forza militare.
I rituali funerari:
La morte è ovunque un evento dirompente e drammatico. Le società devono far fronte a
quello che esse ritengono essere un vero e proprio “scandalo”. Poste di fronte alla morte,
tutte le comunità chiamano a raccolta le proprie energie al fine di attenuare lo shock della
perdita. Di fronte alla morte le comunità fanno riferimento ai “valori ultimi” sui quali esse si
fondano. I riti funebri contengono pertanto gesti, azioni e parole che richiamano, nella mente
di coloro che vi partecipano, i valori e i significati su cui la comunità in questione fonda
l’ordine del mondo e di sé medesima. Molte differenze dipendono dalla complessità della
società in questione nonché, come è naturale, dalla “struttura emotiva” che questi riti
mettono in gioco. Se la morte è una transizione che tutte le società rappresentano grazie alla
messa in scena di riti speciali, essa è anche, come è ovvio, l’evento che più di ogni altro si
contrappone alla vita. Proprio perché antitetica alla vita. La morte appare agli esseri umani
come “priva di senso”, un dramma assurdo, una lacerazione totale. Per continuare a esistere,
le società devono “rendere ragionevole” la morte. La vita in effetti si ricrea di continuo,
generazione dopo generazione, ed è proprio su questo fatto che si concentrano, presso alcuni
popoli, i rituali funebri. Presso le società che considerano l’ordine del cosmo come retto dagli
antenati, e in cui questi ultimi sono i garanti dell’ordine e la discendenza assicura la
continuità del legame tra gli antenati e i vivi, i temi della fertilità femminile e maschile, e della
sessualità vengono a caratterizzare sovente i riti funebri. In altre culture tra il sesso e la morte
e tra la morte e la nascita esiste una relazione che è sottolineata di continuo, dal momento
che la morte e i riti che l’accompagnano sono ciò che esplicita gli elementi stessi dell’ordine
ancestrale il quale, a sua volta, è il cuore stesso del sistema normativo. L’espressione rituale
del lutto e il lutto come “vissuto” non sono la stessa cosa, e pertanto non devono essere
confusi. Tra rituale funebre e lutto non c’è rapporto di reciproca inclusione, né ciascuno dei
due più spiegare completamente l’altro.
Liminalità:
La nozione di liminalità, ossia di sospensione di status che secondo van Gennep è tipica della
fase di margine, è stata sviluppata da Victor Turner. I riti comportano una fase con
caratteristiche che la oppongono in maniera radica alla situazione di “normalità” sociale.
Turner riferì la nozione di liminalità alle situazioni in cui si crea uno spirito comunitario, in cui
un insieme di individui viene a formare una communitas. Per Turner una communitas è una
“condizione collettiva” che determina l’insorgere di un intenso spirito di appartenenza. Turner
vide nella contrapposizione di normalità e di liminalità quella che chiamò l’opposizione tra
struttura e antistruttura, la quale non è esclusivamente caratteristica della fase rituale ma
può, in alcuni casi, diventare una caratteristica permanente di alcuni gruppi, specialmente
all’interno di contesti sociali stratificati e differenziati. Ne sono un esempio gli eremiti del
mondo tardoantico e medioevale. Ma anche dei gruppi laici possono costituire, secondo
Turner, casi di liminalità: per esempio gli hippies degli anni Sessanta del Novecento o, su un
altro piano, i punk-a-bestia dei nostri giorni. La finalità esprime una situazione di rottura, di
contrasto, di rovesciamento della situazione normativa che le regole sociali e culturali
impongono ai componenti di un gruppo. La liminalità esprime la volontà di “essere differenti”
in un mondo regolato da norme, una volontà di porsi “al di là” della convenzione in maniera
assoluta e radicale.
Robert Hertz: lo studio antropologico della morte:
Robert Hertz fu il primo studioso ad occuparsi della morte in una dimensione antropologica.
Per lui lo studio della morte costituiva infatti un aspetto di uno studio più vasto, quello dei
meccanismi grazie ai quali una società conserva la propria coesione e la propria identità di
fronte agli eventi più devastanti e drammatici.
Notò che alcune popolazioni del Borneo, di cui studiò i riti funebri, usavano celebrare due
funerali: uno subito dopo la morte di un individuo, e un altro qualche tempo dopo, a volte
alcuni anni dopo. Mise in evidenza che i riti funebri appartenevano a quella particolare
categoria di riti che van Gennep avrebbe poi chiamato “di passaggio”. Le prime esequie, un
periodo intermedio di “elaborazione” del lutto e poi le seconde esequie scandivano,
rispettivamente, il distacco dai vivi, la sospensione e la riaggregazione al mondo degli
antenati.
Morte, vita e struttura sociale in Madagascar:
Le popolazioni del Madagascar interno celebrano riti funebri la cui importanza supera quella
di tutte le altre loro istituzioni. Natura “licenziosa” del comportamento dei partecipanti allo
scopo di intrattener l’anima del defunto mentre questo è in attesa di ricongiungersi con la
comunità degli antenati. I Bara ritengono che la vita di un individuo sia il risultato di un
equilibrio delicato tra due principi: il “principio d’ordine” e il “principio della vitalità”. Per loro
l’identità fisica di un individuo si genera quando, al momento del concepimento, il seme
dell’uomo “mette ordine” nel ventre della donna, dando forma al sangue mestruale.
L’identità sociale di un individuo dipende invece dal rapporto equilibrato che questi sa
instaurare con il gruppo dei parenti in linea paterna da un lato e quelli in linea materna
dall’altro. Si mostrano festosi e “licenziosi” in occasione delle seconde esequie, poiché è
come se in questo modo introducessero “un incremento di vitalità” corrispondente al lato
materno della vita dell’individuo. I Bara vedono, infatti, la morte come “eccesso di ordine”.
Gli atti di licenziosità e il comportamento trasgressivo dei Bara in occasione dei riti funebri
mirerebbero pertanto a constatare simbolicamente il sopravanzare dell’ordine assoluto su
qualsiasi forma di vitalità, ossia la vittoria della morte sulla vita.
I riti di iniziazione:
Sono chiamati così i rituali che sanciscono il passaggio degli individui da una condizione
sociale o spirituale a una diversa dalla precedente. Anche l’investitura di un cavaliere
medioevale come elevazione di rango era un rito di iniziazione. In quanto riti che sanciscono
un cambiamento, la transizione da una situazione precedente ad una successiva, quelli di
iniziazione sono forse quelli che aderiscono meglio allo schema di van Gennep relativo ai riti
di passaggio. Essi sono la dichiarazione pubblica, socializzata, dell’assunzione di un nuovo
status da parte di un individuo e della responsabilità che questo nuovo status comporta. I riti
della pubertà sottolineano per esempio l’entrata di giovani, ragazzi e ragazze, nell’età fertile.
Hanno però sempre assunto una speciale importanza negli individui di sesso femminile. Altri
riti di iniziazione possono riguardare il passaggio dallo stato di adolescente a quello di giovane
guerriero e, da questo, a quello di adulto e padre di famiglia. Ma riti di iniziazione sono anche
quelli che sanciscono l’affiliazione degli individui a gruppi malavitosi, a logge massoniche, o a
società segrete. I riti di iniziazione hanno lo scopo di “situare” ufficialmente l’individuo in
posizioni adeguate alla sua età sociale e quindi sancire i diritti e i doveri che gli competono in
epoche diverse della sua vita. Poiché in molte culture l’anzianità è qualcosa che evoca
l’autorità suprema degli antenati, ecco che i riti che sanciscono l’acquisizione progressiva
dell’autorità possono essere considerati connessi con la dimensione “religiosa” delle culture in
questione. “Riti di iniziazione” esistono anche in società nelle quali, non essendo essi
riconosciuti pubblicamente come validi, si presentano in forma meno strutturata di altri riti
ufficialmente riconosciuti. Nelle moderne società occidentali certi riti di iniziazione possono
consistere, ad esempio, nel compiere certe azioni pericolose o violente mediante cui gli
individui danno “prova di coraggio” e si fanno così accettare dal gruppo.
Capitolo 3: Religioni e identità nel mondo globalizzato:
La secolarizzazione e le nuove religioni:
Processo di secolarizzazione: un fenomeno che coinciderebbe con la “ritrazione progressiva
dal sacro” dalla vita sociale e dalla sensibilità individuale. Non pare essere una tendenza
inarrestabile. Il fiorire di movimenti religiosi e di nuovi culti in tutto il mondo contemporaneo
ci dice piuttosto il contrario, e sembra indicare che tali movimenti e tali culti sembrano
nascere in risposta a eventi e a dinamiche relativamente recenti. Forse ciò che sta avvenendo
non è tanto la scomparsa o il ritorno del sacro, ma una sua riformulazione in molteplici
direzioni. Al tempo stesso la religione pare andare incontro a un processo di
“essenzializzazione”. Manifestazioni religiose di massa: fenomeni che portano al
concentramento periodico di molti individui in luoghi “sacri”. Per privatizzazione si deve
invece intendere una sempre più diffusa religiosità in stile “fai da te”, sintesi personale di
credenze, riti, rappresentazioni provenienti da tradizioni diverse. “Essenzializzazione” della
religione, il quale consiste in una riduzione della fede a un discorso di pura contrapposizione
politica, etnica e culturale. Oggi sono gli squilibri tra le aree del pianeta a essere sovente
all’origine di nuovi culti o del rafforzamento di quelli nati in epoca coloniale. Sorti in risposta
alle mutazioni sociali e culturali. Per definire questi culti e queste religioni gli antropologi
hanno impiegato il termine di movimenti, diversamente qualificati di volta in volta come di
revitalizzazione, millenaristici, nativistici e messianici. I culti di revitalizzazione sono quelli in
cui un gruppo o una comunità dichiarano di puntare a un miglioramento delle proprie
condizioni di vita, e nei quali sia i riti sia le rappresentazioni hanno come fine quello di
rivitalizzare il senso di identità del gruppo o della comunità medesima. I culti millenaristici
sono invece quelli che accentuano le rappresentazioni relative all’avvento di un’epoca di pace
e di felicità, avvento che può essere favorito, incoraggiato e preparato mediante appropriate
attività rituali e grazie a un particolare atteggiamento interiore da parte dei partecipanti. Nei
contesti extraeuropei il termine “millenaristico” serve a indicare i movimenti religiosi nati in
risposta al dominio coloniale e che hanno come scopo la trasformazione totale delle
condizioni presenti avvertite come insopportabili. I culti nativistici sono quelli che fanno
propria la protesta contro le condizioni di svantaggio sofferte dalle popolazioni native e che
mirano a riaffermare e far rinascere aspetti culturali come strumenti di rivendicazione della
propria identità, in opposizione alla cultura del gruppo dominante. I culti messianici, infine,
sono quelli a sfondo carismatico, legati cioè alla presenza di una forte personalità e che sono
sorti dall’incontro fra culti locali e cristianesimo o islam. Si caratterizzano quasi sempre per il
fatto di fondarsi sull’attesa di un rivolgimento socio-politico radicale. Nel complesso si può
dire che ogni tipo di movimento tende a fondere quelli che sono gli elementi caratteristici di
tutti gli altri.
Profeti:
Oggi il termine è riferito a individui che, sulla base di una particolare ispirazione, sono ritenuti
avere visioni o rivelazioni da parte di esseri soprannaturali o divinità che li scelgono come
propri messaggeri. Ancorano il proprio discorso alla tradizione culturale e religiosa in vigore o
preesistente, al quale si richiamano però allo scopo di fondarne una versione nuova e
rinnovatrice dell’etica e della spiritualità. Presso i popoli colonizzati i profeti hanno fondato
movimenti, chiese, confraternite, congregazioni i cui membri si raccolgono intorno a culti
particolari che spesso fondono elementi della religione tradizionale con quella dei
colonizzatori o dei dominatori. Questi profeti hanno spesso rappresentato un pericolo per i
detentori del potere politico e religioso.
Le religioni e la globalizzazione:
Alcuni culti nati nel contesto degli sconvolgimenti prodotti dal colonialismo possiedono i
caratteri di movimenti organizzati, con obiettivi che hanno spesso finito per assumere una
coloritura politica di portata più o meno decisa; altri culti sono invece assai più circoscritti ad
ambienti specifici o possiedono finalità molto particolari. Altri ancora, infine, possiedono un
carattere transnazionale e persino virtuale.
Culti legati a trasformazioni economiche: El Tio:
Un culto riconducibile ad un gruppo occupazionale è ad esempio il culto di El Tio, diffusosi ormai
da molto tempo tra i minatori boliviani dello stagno. I minatori boliviani dello stagno avevano
sviluppato in chiave “demoniaca” l’idea del proprio rapporto con il lavoro. Ufficialmente
cristiani, praticavano tuttavia il culto degli spiriti della fertilità e delle divinità dell’antica
religione andina. Spiriti e divinità abitano nel sottosuolo e sono dispensatrici di vita e di morte.
Una di queste divinità, ribattezzata dai minatori “El Tio”, è molto importante perché controlla le
risorse del sottosuolo, e appunto lo stagno. L’immagine di Tio viene posta dai minatori
all’ingresso delle gallerie della miniera e i minatori le sacrificano piccoli animali domestici e le
rivolgono preghiere affinché Tio consenta loro di trovare lo stagno. Gli antropologi ritengono
che Tio sia per i minatori il punto di mediazione e di passaggio concettuale fra un’idea del
delicato equilibrio che presiede al rinnovamento ciclico della natura e dei suoi frutti e il peso di
una logica di sfruttamento all’infinito delle risorse naturali. Mentre essi sono dipendenti dalla
natura per la propria sopravvivenza, di fatto, per poter sopravvivere, contribuiscono alla sua
distruzione in quanto agenti impotenti di una logica di sfruttamento della natura che considera
quest’ultima come qualcosa di illimitato.
Religione, sincretismo e resistenza in un rituale di iniziazione: gli Ngaing della Papa-Nuova
Guinea:
Esempio di fusione tra rappresentazioni religiose locali, religione cristiana e resistenza alla
dominazione coloniale. Un rito di iniziazione maschile praticato oggi dagli Ngaing della Nuova
Guinea nord-orientale. Hanno introdotto, come parte essenziale di loro riti di iniziazione
maschile, la circoncisione. Venne introdotta tra gli Ngaing alla fine della Seconda guerra
mondiale da uno di loro che l’aveva vista praticare dai medici bianchi in un ospedale presso cui
aveva lavorato come inserviente. Dopo la resezione del cordone ombelicale il sangue materno
rimane nel corpo di un giovane e, poiché è impuro, deve essere espulso. La circoncisione
è il momento in cui questo sangue impuro viene fatto defluire. È solo così che un giovane
diverrà un uomo adulto. La fase di preparazione consiste nella pulitura degli strumenti e la
composizione di nuovi “brani” per strumenti musicali. L’iniziazione vera e propria comincia
con il ritiro e la “confessione” degli iniziandi in un luogo isolato e nascosto. Gli iniziandi
“confessano” al loro guardiano i rapporti sessuali eventualmente avuti. Hanno l’effetto di
indebolire gli uomini a vantaggio delle donne. Con la circoncisione il sangue impure,
“materno”, fuoriesce e, con esso, anche il sangue ritenuto puro, il quale è raccolto in speciale
contenitori che, uniti ad altri oggetti rituali, vengono consegnati all’iniziato affinché il tutto gli
assicuri forza e salute per il futuro. Durante le tre-quattro settimane di ritiro gli iniziandi sono
messi al corrente di conoscenze esoteriche, e il ritiro si conclude in pratica con l’accesso degli
iniziati alla visione degli oggetti sacri. Il mattino seguente, vestiti all’europea, coi loro rombi, i
contenitori del sangue e altri oggetti rituali, gli iniziati vengono presentati alla gente del
villaggio e ai parenti. Gli Ngaing dichiarano che il battesimo di Gesù da parte di Giovanni
Battista coincide con la pulitura con l’acqua del fiume degli strumenti rituali. Essi sanno
inoltre che Gesù fu circonciso, e così essi considerano la sua crocifissione alla stregua della
circoncisione rituale.
Giuda non è l’apostolo traditore, bensì il fratello della madre di Gesù, il quale affidò
quest’ultimo a Ponzio Pilato. Pilato avrebbe interrogato Gesù sui suoi rapporti
prematrimoniali ma, pur non avendo potuto stabilire se egli avesse peccato o meno, lo avviò
comunque alla crocifissione, ossia alla circoncisione e all’iniziazione. I tre giorni di sepoltura di
Cristo dopo la morte sarebbero l’equivalente della loro reclusione rituale, e la sua
resurrezione corrisponderebbe, secondo gli Ngaing, alla loro presentazione in pubblico al
termine rituale. La resistenza degli Ngaing ai bianchi mirò pertanto a ricostruire un corpo
diverso ai corpi funzionali al progetto e all’ideologia dei colonizzatori.
Culti legati a perdita di identità sociale: Mami Wata:
Mami Wata è una dea bella e seducente, con lunghi capelli e con la pelle chiara. Si tratta di
una divinità femminile dell’acqua, il cui culto sorse agli inizi del XX secolo nella Nigeria
meridionale. L’importanza di Mami Wata è andata aumentando col tempo. La sua funzione è
molto simile a quella del “diavolo” delle Ande, Tio. Mami Wata è ciò che rende pensabile il
“disagio della modernità” tra gli africani inurbati e tra quelli emigrati in Europa, ciò che
giustifica il loro essere tra due mondi, quella della traduzione rurale e quello della metropoli.
Il culto di Mami Wata è esso stesso un intreccio complicato di tradizioni e rappresentazioni
africane, occidentali e indiane. Gli altari dedicati in Africa alla dea sono ricoperti da una
varietà di oggetti che ben simboleggiano la sua natura di divinità urbana e moderna: che sono
poi i beni “superflui” ma considerati essenziali da una donna di città. I suoi fedeli ritengono
che la dea li ricompensi con ricchezze improvvise, ma che anche li punisca con la miseria e la
pazzia nel caso ne provochino la collera. È raffigurata simile a una sirena, con la coda di
pesce. Mami Wata risulta anche essere volubile di umore, riflettendo in ciò l’insicurezza e
l’incertezza che caratterizzano, per molte donne, la vita urbana. Con l’emigrazione la
presenza di Mami Wata è arrivata nelle città europee. La sua immagine ricorre per esempio
nei soggetti con disturbi psicologici dovuti allo sradicamento e alla posizione ambigua a cui li
costringe la scelta migratoria.
Culti in rete: figure sacre su Internet:
Nuovo livello di comunicazione religiosa. Visionarismo religioso: “fotografie” dell’aldilà, del
volto dei santi, di Cristo e di Maria affollano i siti Web dedicati al tema religioso. Internet
diventa il potente veicolo di queste forme di visionarismo “tecnologico”: ci si scambiano
messaggi in cui si parla di visioni, si trasmettono le foto di una nuvola nella cui forma si ritiene
di vedere il profilo di Cristo eccetera. La rete permette di stabilire dei gruppi di preghiera, di
celebrare riti comunitari, e di visitare siti come se fossero luoghi di pellegrinaggio. Produce
una radicale deterritorializzazione della religione. La figura di Dio sembra scomparire nella
virtualità della comunicazione tra i fedeli.
Religione, media e politica:
Nel mondo attuale la religione tende a subire un processo di “essenzializzazione”. L’idea che
l’identità si fondi sulla religione, che la cultura addirittura sia sinonimo di religione, è in parte
sbagliata, oltre che “pericolosa”. Rappresentazione della religione come dato monolitico,
assolutamente coerente, totalizzante e capace di definire intere identità culturali. Le strategie
planetarie emerse alla fine del secolo XX hanno trovato estremamente comoda e
semplificatrice l’idea della religione come qualcosa che esaurisce la molteplicità delle
espressioni culturali di popoli con culture, tradizioni, costumi, strutture sociali e sensibilità
estetiche tra loro molto differenti. Questa teoria, non tiene troppo conto della “natura della
cultura”.
L’immagine del mondo diviso in “religioni” non soltanto corrisponde a una visione
semplicistica del carattere variegato, multiforme e complesso della dimensione spirituale, ma
è anche una pericolosa mossa ideologica e politica suscettibile di produrre forme di
contrapposizione irriducibile e di scontro laddove, invece, vi sono, o possono esserci, spazi di
ascolto, comprensione reciproca e dialoghi tra culture. Quando la religione diventa un modo
per rappresentare gli altri, è possibile che essa diventi motivo di confronto politico,
soprattutto se la differenza religiosa, equiparata alla differenza culturale, diventa strumento
di manipolazione ideologica da parte di qualcuno.
Il fondamentalismo religioso:
Fondamentalismo religioso: descrivere uno stile di pensiero e di comportamento religioso che
consiste nel prospettare un “ritorno” a quelli che si pensa siano i fondamenti di una certa fede
religiosa. Tali fondamenti sono i testi sacri che vengono letti e interpretati in maniera letterale
e dogmatica. I fondamentalisti cristiano americani, per esempio, ritengono che il mondo sia
stato veramente creato in sei giorni. I fondamentalisti musulmani ritengono che la vita delle
persone debba ispirarsi al Corano. Anche se nel Corano non si trova niente, o quasi, che
corrisponda alle idee dei fondamentalisti musulmani, i fondamentalisti ritengono di operare
conformemente a precetti ritenuti assoluti e irrinunciabili. I fondamentalisti ebraici vogliono
ricostruire il Tempio di Gerusalemme distrutto dai Romani nel 70 d.C. I fondamentalisti indù,
concentrati in India, ritengono per contro che si è “veri indiani” solo se si è induisti. Il
fondamentalismo si contraddistingue per un’interpretazione rigida e ideologica della
tradizione religiosa e per un atteggiamento oppositivo e intollerante nei confronti di chi non
ha le stesse idee in materia di fede. Negli ultimi vent’anni le posizioni fondamentaliste in
campo religioso si sono diffuse un po’ ovunque, minacciando in molti casi la libertà di
pensiero, di espressione e di scelta da parte degli individui. Molti episodi di violenza degli
ultimi anni sono motivati da forme di fondamentalismo religioso al servizio della politica.
Le radio/telechiese e i radio/telepredicatori:
Proliferazione della religione mediatica. Nella società nordamericana, specialmente quella
statunitense, sono fiorite negli ultimi decenni delle “religioni televisive” grazie ai cosiddetti
“telepredicatori”, ministri del culto che si rivolgono ai fedeli attraverso i canali televisivi.
Questi telepredicatori diffondo un’immagine della religiosità molto semplificata. Fanno
sempre riferimento quasi esclusivamente al tema del successo personale. Quando la religione
diventa il modo prevalente di rappresentare gli altri e se stessi, è possibile che essa diventi un
motivo di confronto politico, soprattutto se si trasforma in una “radio/telereligione”. E,
soprattutto, quando le differenze religiose diventano strumento di manipolazione politica da
parte di qualcuno. I media come la televisione permettono facilmente di manipolare l’identità
o il messaggio di una religione.
Parte ottava: Creatività culturale ed espressione estetica:
Capitolo 1: La creatività culturale:
Le storyboards di Kambot, Papua-Nuova Guinea (fine secolo XX):
Assi di legno intagliate e dipinte di cui vanno pazzi i turisti e mercanti d’arte occidentali e
asiatici. A partire dalla fine del XIX secolo, i Papua vennero ridotti in una situazione di
subordinazione e, in pratica, di schiavitù. Il processo di decadenza coinvolse anche le attività
artistiche, attività che erano condotte nelle case degli uomini e degli spiriti degli antenati,
luoghi legati soprattutto ai rituali di iniziazione maschile, e perciò bollati dai missionari come
“infernali”. Nella seconda metà del Novecento si è assistito, in tutta l’isola, all’insorgenza di
espressioni identitarie nuove, per una serie di ragioni che vanno dall’alfabetizzazione della
popolazione per opera dei missionari all’arrivo delle merci europee, ai contatti, alla radio, ai
giornali eccetera. Rinascita culturale legata soprattutto al rifiorire dell’arte locale. Il turismo
fece la sua comparsa in queste regioni verso il 1970. Di questa nuova produzione artistica
profana fanno parte le storyboards. Recano incise e dipinte scene della vita quotidiana e
composizioni che si riferiscono alla tradizione mitologica locale. Scene di vita quotidiana o
animali o esseri fantastici facilmente riconoscibili dall’occhio del turista. Per i turisti le
storyboards rappresentano la vita dei Papua così come possono immaginarsela. Confermano
infatti gli stereotipi della Nuova Guinea: un’immagine di primitività, autenticità ed esotismo.
Per i Papua le storyboards hanno un significato economico. I turisti, i mercanti, pagano bene.
Costituiscono peri Papua anche i veicoli dell’immagine della loro terra all’estero. Le
storyboards sarebbero un modo per inviare una rappresentazione di sé stessi al di là del
proprio villaggio e della Nuova Guinea.
Il naven degli Iatmul (Nuova Guinea): festa e rito di travestimento:
A proposito della festa come occasione creativa si potrebbe ricordare il naven degli Iatmul
della Nuova Guinea. Era celebrato in onore di un giovane che avesse compiuto per la prima
volta qualcosa di socialmente lodevole e rispondente all’ideale del maschio iatmul, come ad
esempio il ferimento o l’uccisione di un nemico; oppure dopo che il giovane fosse stato
sottoposto a un rito di iniziazione. Essi si travestivano e adottavano comportamenti che
richiamavano quelli dell’altro sesso. Lo zio materno si travestiva da donna e parodiava la
commozione delle donne per le imprese del giovane. Al contrario, i parenti di sesso femminile
del ragazzo tenevano un comportamento di fierezza. Tra gli Iatmul il “tono emotivo” del sesso
maschile consisteva in atteggiamenti fieri e aggressivi, esattamente il contrario dei
comportamenti teneri e affettuosi ritenuti essere caratteristici dell’ethos femminile.
“Arte” preistorica: Francia meridionale e Spagna settentrionale (30-15.000 a.C.):
Siti paleolitici di Lascaux e Vallon-Pont-d’Arc nella Francia meridionale, e di Altamira nella
Spagna settentrionale. Nulla conosciamo della cultura e dell’organizzazione sociale di queste
popolazioni vissute tra i trenta e i quindicimila anni fa. Raffigurano animali e, più raramente,
umani. Sembrano cogliere gli animali nei loro movimenti e atteggiamenti, mentre gli esseri
umani raffigurati paiono inserirsi in scene di caccia o di danza. Gli animali, più degli umani,
sono raffigurati con grande realismo, un fatto che non lascia alcun dubbio sulle capacità
osservative, cognitive e immaginative di questi nostri “antenati europei”. Sono tracciate per
lo più lungo corridoi stretti e completamente bui. I disegni sono spesso sovrapposti. Gli
uomini del paleolitico abitavano periodicamente nelle caverne, ma non nelle profondità del
sottosuolo, per cui non avrebbero potuto fruire dello spettacolo offerto dalle pitture. A Cap
Blanc, nella Francia occidentale, sotto uno spuntone di roccia all’aperto è rimasto un fregio
lungo quindici metri raffigurante una serie di animali. Si presume che molte di quelle culture
avessero uno scopo “rituale”. Che i soggetti preferiti dai pittori della preistoria avessero un
legame stretto con lo stile di vita di queste popolazioni è indubbio.
L’ispirazione dell’artista: il writing come forma di contestazione (Nordamerica ed Europa
urbane, fine secolo XX-inizi XXI):
Un esempio attuale di cosa possa significare l’espressione “motivazione e ispirazione
dell’artista” ci è offerto da una tipica “arte di strada” molto diffusa in ambiente urbano: il
writing. Si sviluppò nelle città americane alla fine degli anni Settanta. Parente stretta dei
murales. Il writing è una tipica “arte povera”, che si esercita con pochi mezzi tecnici ma che
coinvolge una serie di elementi del tutto particolari. È una forma di “ribellione” che sceglie la
via del linguaggio visivo. Lancia messaggi sulla condizione presente, sul disagio, il degrado, la
sofferenza. I Writers cercano di operare in segreto, preferibilmente di notte, anche perché i
supporti della loro arte sono i muri dei palazzi pubblici e privati, i vagoni delle metropolitane e
dei treni.
L’opinione media bolla il writing come un atto di vandalismo al limite del teppismo, un
attentato alla proprietà. Un’attività carica di suspense, di rischio e di un senso di sfida da
parte di chi lo pratica. Per loro “scrivere” è una sorta di comportamento trasgressivo in
contrapposizione a un ordine sociale avvertito come qualcosa che impedisce una forma di
identificazione.
Capitolo 3: L’arte “tribale” nel contesto occidentale:
I musei e le arti “primitive”:
Nel corso del secolo XIX i musei antropologici ed etnologici vennero moltiplicandosi in Europa
come negli Stati Uniti. L’enorme quantità di oggetti provenienti dai mondi “primitivi” e
“arcaici” dei cinque continenti andò accumulandosi. In accordo con i principi
dell’evoluzionismo ottocentesco tale oggetti venivano spesso raggruppati in categorie
omogenee e presentati in ordine di “complessità crescente”. Ad un certo punto si cominciò a
raggruppare gli oggetti per aree culturali, al fine di presentare le caratteristiche delle culture
tipiche di determinate regioni del pianeta. A partire dagli anni successivi alla Seconda guerra
mondiale: in alcune occasioni vengono ad esempio allestite mostre temporanee “a tema”.
Altre volte i pezzi posseduti da un museo possono venire integrati da oggetti provenienti da
altri musei e che hanno un’affinità con i primi. In certi musei si tende a privilegiare il criterio
documentaristico; in altri, a volte, quello estetico. Dove prevale il criterio estetico i pezzi sono
posti per lo più “decontestualizzati”, ossia considerati da un punto di vista che ne mette in
risalto il valore artistico indipendentemente dalla loro origine e funzione sociale. Questi
tendono ad essere “inglobati” nella categoria occidentale di “arte”. A tale inglobamento
hanno concorso due motivi.
Arte moderna e oggetti “selvaggi”:
Il primo motivo dell’inclusione della produzione estetica “primitiva” nella categoria di arte è
rappresentato dal fatto che, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, i pittori
e gli scultori europei appartenenti alla corrente di avanguardia cominciarono a prestare una
particolare attenzione agli oggetti provenienti dall’Africa, dell’Oceania e dalle Americhe. Vi
furono artisti che sentirono il bisogno di opporre, alla frantumazione dell’universo sociale
prodotto dalla modernità industriale, il recupero di modelli non competitivi, armonici e
sottratti al flusso della modernità stessa. “Primitivista”. Paul Gauguin. In seguito si
affermarono altre tendenze, raggruppate sotto il nome di “modernismo”, le quali ripresero le
“arti esotiche” come motivo di ispirazione. Picasso, Derain, Léger. Questi artisti pensavano
che fosse necessario dar vita a una produzione grafica e plastica capace di esprimere principi
atti a “trascendere”, a superare la cultura, la politica e la storia. Il modernismo considerava
pertanto le opere “primitive” come il riflesso di intuizioni estetiche “originarie”, prive di
connessioni con la realtà, opere “senza tempo” e dunque dei “prototipi” artistici allo stato
puro. In conseguenza di questa “convergenza” dell’arte modernista con l’arte “primitiva”
divenne normale parlare di “primitivismo dell’arte” includendo in questa categoria tanto i
prodotti dell’ “arte tribale” quanto quelli dei pittori e degli scultori dei primi decenni del
Novecento. Probabilmente questo accostamento tra arte primitiva e arte moderna è un
effetto di un’ “illusione ottica”. Tanto l’opera “tribale” quanto quella contemporanea si
discostano dal naturalismo che ha invece dominato la produzione artistica europea tra il
Rinascimento e la fine dell’Ottocento. Gli artisti europei trassero ispirazione da certe opere
“primitive” per esprimere le loro idee estetiche di rivolta nei confronti dell’accademia e dei
canoni del loro tempo.
Il mercato dell’arte “tribale”: come un oggetto “selvaggio” diventa un’opera d’arte:
La seconda ragione dell’inglobamento degli oggetti “esotici” nel sistema estetico occidentale fu
il mercato dell’arte. Gli objets sauvages costavano pochi soldi. Tuttavia nel corso dei decenni
successivi, e soprattutto negli ultimi del Novecento, molti di questi pezzi hanno raggiunto cifre
ragguardevoli. Era successo semplicemente che l’arte “tribale”, “primitiva” o “etnica”, aveva
cominciato ad avere un proprio mercato. Erano richiesti inizialmente dai musei etnografici.
Parallelamente però si sviluppò un mercato privato che andò sempre più affermandosi con il
moltiplicarsi delle mostre, dei collezionisti e naturalmente dei galleristi e delle riviste
specializzate. Ciò che determina il valore economico è il fatto che questi oggetti possono essere
legittimamente giudicati “arte”. A loro volta, però, questi oggetti vengono considerati “artistici”
perché hanno un valore, perché possono cioè entrare nel “mercato dell’arte”. Valutazioni
estetiche e valutazioni economiche interagiscono tra loro nel determinare la considerazione di
un oggetto in quanto “opera d’arte” o meno. Il mercato dell’arte tribale ha d’altronde bisogno di
rifornirsi di articoli sempre nuovi, ed è per questo motivo che tende a inglobare
progressivamente anche oggetti che precedentemente non sarebbero stati considerati degni di
attenzione. Questo allargamento del mercato dell’arte tribale è una conseguenza del fatto che a
partire da un certo periodo le opere ritenute autentiche e originali non sono state più
riprodotte. Molti degli oggetti raccolti erano stati riprodotti a scopi religiosi o rituali. In molte di
queste società il fine per cui tali oggetti erano fabbricati non esiste più. Sono passati da una
“sfera di consumo” a un’altra, con una conseguente trasformazione della natura del loro valore,
da simbolico ad “artistico” ed economico. A volte le rivendicazioni dei popoli nativi si sono
spinte fino a chiedere la restituzione di oggetti conservati nei musei occidentali.
Arte e politiche dell’identità:
I contrasti che sorgono al giorno d’oggi intorno alla gestione delle opere d’arte e del
patrimonio culturale non riguardano solo le istituzioni occidentali come i musei da un lato e i
popoli nativi da un altro. Conflitti, disaccordi e tensioni possono verificarsi anche all’interno di
uno stesso paese, quando ad entrare in gioco sono sentimenti d’orgoglio locale, oppure, come
quando entrano in gioco motivi identitari.
Il patrimonio culturale:
Oggi per patrimonio culturale si intende tutto ciò che appartiene alla cultura materiale,
artistica e culturale in senso antropologico, a cui un certo gruppo o società guarda come a
elementi del proprio passato, della propria “identità”. Ogni regione, provincia o città è in
grado di esibire una propria “tradizione culturale”.
Sono sempre più frequenti i casi in cui un’amministrazione comunale o uno Stato tentano di
ottenere un riconoscimento ufficiale dell’importanza di un proprio monumento, di un
paesaggio o di una tradizione da parte degli organismi internazionali affiliati all’ONU (per
esempio l’UNESCO). Tale riconoscimento si traduce infatti con l’iscrizione di un monumento,
di un paesaggio o di una tradizione nella lista dei beni “patrimonio dell’umanità”. Gli interessi
che ruotano attorno a questo riconoscimento sono numerosi.
Innanzitutto economici, perché avere un luogo riconosciuto a livello nazionale come
“patrimonio culturale” attira turisti, sovvenzioni da parte di governi o di organismi
internazionali; ha poi effetti di “rinforzo” del senso identitario di una comunità o di un paese;
fa inoltre sì che il paese che si adopera per veder riconosciuti i propri beni culturali si adegui a
standard internazionali di valutazione che fanno salire il prestigio di quel paese nel contesto
internazionale eccetera. Nella seconda metà del Novecento c’è stata una specie di corsa alla
patrimonializzazione. Dietro la nozione di patrimonio culturale ci sono quindi delle “forze” che
si disputano, che si oppongono, che si appropriano di un qualche monumento, paesaggio o
tradizione al fine di vedere riconosciuta la propria “originalità”. Il patrimonio culturale può
essere anche qualcosa di non strettamente “materiale”. In questo caso si parla pertanto di
beni culturali “intangibili”, come una festa, un canto, o una ricetta di cucina.
La nascita del concetto di patrimonio culturale:
L’idea di patrimonio culturale nacque nell’Inghilterra della metà dell’Ottocento con il nome di
cultural heritage che significa, letteralmente, “eredità culturale”. La sua comparsa coincise
con il tentativo di far fronte alle profonde mutazioni che avevano investito il paese per
effetto della rivoluzione industriale. Il paesaggio di certe regioni era stato messo sotto sopra
dall’industria mineraria che si era sviluppata per l’estrazione del carbone necessario a far
funzionare le macchine industriali. Strade, ponti, ferrovie avevano sconvolto, insieme alle
miniere, ai cantieri industriali e urbani, il paesaggio di tranquille contrade agricole svuotate
dalle loro popolazioni. I riformisti di allora sentirono il bisogno di “fissare” degli ancoraggi per
la memoria del paese, allo scopo di affermare una forma di continuità (culturale) in cui gli
abitanti dell’Inghilterra e di altre regioni della Gran Bretagna potessero riconoscersi. Un
patrimonio comune di monumenti, tradizioni, libri, paesaggi, opere d’arte, al quale gli
abitanti di allora potessero guardare come a qualcosa che affermasse la loro unità e la
continuità della comunità sociale nel tempo.
Parte nona: Risorse e potere:
Capitolo 1: Il potere delle risorse e risorse del potere:
Risorse e potere: un’inscindibile relazione:
Lo studio della produzione e della gestione delle risorse, da un lato, e quello della costruzione
e dell’esercizio del potere, dall’altro, competono per tradizione a due branche distinte
dell’antropologia culturale: l’antropologia economica e l’antropologia politica. Le società
umane hanno probabilmente conosciuto da sempre l’intima relazione tra risorse e potere,
relazione che è andata tuttavia plasmandosi e modificandosi a seconda delle epoche e delle
situazioni, e che ha fatto oggetto di pratiche e di rappresentazioni culturalmente orientate.
Risorse materiali e risorse simboliche:
Per risorsa si deve intendere tanto un bene materiale, concreto, tangibile come l’acqua, il
denaro, il grano, quanto un bene “volatile” come un sapere o una conoscenza tecnica, una
certa idea, un’ideologia politica o una visione religiosa del mondo. Le risorse possono essere
di natura tanto materiale quanto simbolica. È anche qualunque cosa il cui controllo consente
a un individuo o a un gruppo di perseguire scopi di ordine tanto materiale quanto simbolico.
L’acquisizione e la disponibilità di una risorsa non sono mai completamente disgiunte da una
relazione di potere, ossia dal fatto che tale acquisizione e tale disponibilità influiscono
sempre sulla possibilità che un individuo o un gruppo di individui hanno, grazie a esse, di
imporsi o di prevalere su altri individui o altri gruppi. Viceversa, tale possibilità di prevalere è
sempre associata al controllo di una qualche risorsa, materiale o simbolica che sia.
Economia e politica:
Presso le società industriali e postindustriali europee e americane ad esempio, si riconosce
esplicitamente solo da poco tempo che le risorse possono essere tanto di natura materiale
quanto di natura simbolica.
Risorsa immateriale. Tuttavia resta ben radicata l’idea che tutto ciò che riguarda la
produzione, la gestione, lo scambio, la distribuzione e il controllo delle risorse materiali rientri
nelle sfere dell’economia, mentre tutto quanto riguarda le relazioni tra individui e gruppi
sociali mossi da progetti e interessi diversi ricada nel dominio della politica. Anche se è
evidente che nemmeno in Occidente i due ambiti sono separati, per lungo tempo questa idea
di economia e politica come di due sfere distinte è stata proiettata anche sulle società diversa
da quella europea. Un primo risultato di questa situazione fu che agli occhi degli europei la
maggior parte dei popoli “altri” sembravano privi sia di organizzazione economica che di
organizzazione politica, non potendo rintracciare presso molti di loro né un mercato con i suoi
supporti e le sue regole né istituzioni politiche riconoscibili come tali.
Oggetti di prestigio e beni di consumo:
Con lo sviluppo dell’etnografia divenne chiaro che anche gli altri popoli avevano vari modi di
produrre risorse, di farli circolare, nonché di fissare i criteri di accesso a esse, cioè di
controllarne l’utilizzazione da parte di certi individui e di determinati gruppi piuttosto che di
altri. Economie “arcaiche”. Malinowski ebbe modo di studiare una particolare forma di
scambio, chiamato kula dai Trobriand e dai popoli degli arcipelaghi vicini, una forma di
scambio che lui stesso definì “rituale” in quanto legato a regole apparentemente prive di un
significato economico immediato. Circolavano due tipi di oggetti: collane di conchiglie rosse
(soulava), e braccialetti di conchiglie bianche (mwali). Le conchiglie circolano ancora oggi in
senso orario, e i braccialetti in senso inverso. Malinowski chiamò questo circuito “anello kula”
(kula ring). Gli oggetti appartenenti a una categoria potevano essere scambiati solo con
oggetti dell’altra categoria: soulawa in cambio di mwali e mwali in cambio di soulawa.
Restavano nelle mani di chi li riceveva o dei suoi eredi anche per molti anni, ma alla fine
venivano sempre nuovamente scambiati. Erano seguiti da scambi “profani” durante i quali i
gruppi trattavano la cessione di oggetti d’uso corrente: strumenti, armi, reti da pesca, alimenti
eccetera. Gli oggetti cerimoniali e quelli profani che venivano scambiati durante le spedizioni
dei Trobriand costituivano dunque due diversi tipi di oggetti: beni di prestigio e beni di
consumo rispettivamente.
La “vita” e la funzione degli oggetti:
Tali oggetti venivano scambiati dopo lunghi discorsi da parte dei partecipanti al kula. Non tutti
i Trobriand però potevano entrare nel circuito kula secondo le stesse modalità. Era insomma
una prerogativa di pochi. Nell’area delle Trobriand e degli arcipelaghi vicini, c’è un termine,
keda, con il quale i locali si riferiscono al cammino percorso dai beni che entrano nello
scambio kula. Keda è un termine che infatti rinvia al cammino degli oggetti, alle relazioni che
essi “incorporano” (la memoria dei loro passaggi) e alla ricchezza, al potere e alla reputazione
di coloro che li possiedono. Un keda “ben riconosciuto” corrisponde a relazioni stabili di
scambio. Tali relazioni, proprio perché ruotano attorno a beni che sono “segni” di distinzione
sociale, ricchezza e reputazione, sono suscettibili di rafforzare sempre la posizione di prestigio
di coloro che possono vantare la propria appartenenza a un keda molto ampio e complesso. I
keda tuttavia possono anche dissolversi per i più svariati motivi. Cambiando circuito, beni con
lunghe storie di scambio alle spalle possono vedere azzerata la propria “memoria” e così
perdere valore. Tentano di rendere sempre più stabili e durature le relazioni.
La manipolazione delle risorse e le trasformazioni dello scambio:
Il sistema kula è un sistema multicentrico di natura transculturale. Gli oggetti in esso coinvolti
entrano in realtà nelle compensazioni matrimoniali, nell’acquisto di maiali o per pagare il
diritto di coltivare appezzamenti di terreno. Con l’arrivo dei colonizzatori all’inizio
dell’Ottocento, molti beni di provenienza occidentale come utensili in acciaio e armi hanno
cominciato a entrare nel circuito kula. Queste trasformazioni del sistema kula suggeriscono
non soltanto che siamo di fronte a una situazione economico- cerimoniale influenzata da
eventi storici, ma che tale istituzione è stata ed è attualmente oggetto di manipolazioni e
nuove strategie messe in atto dai partecipanti allo scambio. Chi vi si dedicava in passato, e chi
vi partecipa attualmente, poteva e può farlo solo in quanto capace di controllare altre risorse.
Con la monetizzazione dell’economia, “buttarsi” nel circuito kula significa sempre più
controllare risorse legate al possesso e alla circolazione del denaro. Kitoum: indica un “bene
kula” che è stato acquisito al di fuori del circuito cerimoniale e che quindi è ritenuto proprietà
personale e definitiva del possessore. Se questi lo immette nel circuito cerimoniale, ogni
bene ottenuto in cambio diventa di sua proprietà, cioè svincolato dal circuito cerimoniale da
cui proviene.
Sfere di scambio:
“Sfere di scambio”, cioè “spazi” separati di circolazione di beni di natura differente.
Transazioni matrimoniali tra i Nuer. Queste popolazioni del Sudan non fanno entrare il denaro
(qualificato in questa circostanza come “sterile”) nella composizione delle compensazioni
matrimoniali. La “sterilità” del denaro potrebbe essere la “rappresentazione trasformata” di
una relazione di potere soggiacente al loro sistema matrimoniale. Il bestiame è ottenuto dai
giovani uomini che lo ricevono solo dagli individui più anziani della loro famiglia. Questi
sanciscono anche il momento in cui questi ultimi possono diventare “adulti”. Il bestiame
diventa di fatto una risorsa tanto materiale quanto simbolica con cui questi ultimi esercitano il
proprio potere sui “giovani”. Ma perché ciò risulti essere un metodo efficace di fronte alla
monetarizzazione progressiva dei sistemi economici, i primi devono escludere il denaro dalla
sfera dello scambio matrimoniale e far rientrare in quest’ultima il solo bene che essi possono
controllare grazie alla loro autorità, cioè il bestiame.
Le nature del potere:
Elementi costitutivi del potere stesso, i modi della sua presenza e le possibilità della sua
efficacia sul piano sociale e culturale. Tali teorie sono diverse dalle idee che altre culture
hanno del potere e del modo in cui quest’ultimo può essere esercitato. Le teorie del potere
sviluppate in Occidente durante l’età moderna e sino all’inizio del Novecento avevano
cercato di coglierne più che altro la “sostanza”: il potere come facoltà di sovrani “delegati”
dal popolo; come espressione di una “volontà generale”; come prerogativa di monarchi per
garanzia divina; come attività esercitata da parlamenti funzionanti in qualità di “comitati
d’affari di borghesia”. Le teorie più recenti hanno messo invece l’accento sul carattere
pervasivo del potere, sulla sua natura non istituzionale ma inscritta nelle relazioni stesse tra
gli individui, i gruppi e, soprattutto nei “discordi” da essi prodotti. Michel Foucault: non
definisce il potere come una “sostanza”, ma cerca di vedere come esso funzioni, agisca e
costringa gli esseri umani a comportarsi in un certo modo. Il potere è ovunque. Il potere può
sì essere rappresentato con istituzioni parlamentari rappresentative di esso, ma la sua
efficacia si realizza per lo più in maniera invisibile, sotterranea. Entità pervasiva di cui gli
esseri umani non potranno mai liberarsi definitivamente. È chiaro che non solo i rapporti
sociali ed economici in generale, ma anche quelli tra sessi, generazioni e culture medesime
possono essere analizzati in termini di azioni e discorsi nei quali il potere è “incorporato”. Il
potere perde la sua connotazione strettamente politica. Max Weber: definì il potere come la
“probabilità che un soggetto, nel quadro di una determinata relazione sociale, ha di
realizzare i propri scopi mediante le possibili resistenze”. Il potere è la facoltà di imporre ad
altri il proprio volere. Le caratteristiche di un soggetto di questo tipo possono essere il
carisma, ossia l’ascendente che un individuo ha sui propri seguaci o sulla massa; oppure
l’autorità spirituale o religiosa che costui e altri individui come lui detengono; o, ancora, il
fatto di essere in grado di esercitare una coercizione di un qualche tipo; fisica, morale,
economica eccetera. Il potere è per Weber una forma più o meno esplicita di coercizione. Il
potere tende a produrre rappresentazioni di sé stesso.
Il potere “in scena”: il be di murua degli Agni della Costa d’Avorio (prima metà del secolo XX):
Il potere non disdegna, per imporsi, di produrre l’“ironia di sé stesso”. Presso di loro, alla
morte del sovrano, un finto re (uno schiavo) ne assumeva le insegne e, parodisticamente, ne
recitava la parte sino alla proclamazione del “vero” successore. Il rito, chiamato be di murua,
era celebrato in occasione della morte del sovrano agni, e di altri importanti figure come la
regina, i capi di villaggio, il capo dei guerrieri e il principale dei notabili della corte, una specie
di primo ministro. Era una messa in scena “rovesciata” del rapporto dominatore/dominato. Il
finto re godeva di tutte le prerogative che sono tipiche del sovrano. Doveva anche sottostare
alle medesime proibizioni di cui era circondato il vero re. Lo schiavo-re non era il solo a
recitare la parte, ma anche tutta la sua famiglia prendeva parte al rito. Restava un fatto
“simbolico”. Il risultato di tutto ciò era che la funzione del falso re veniva in qualche modo
confinata all’interno di un contesto simbolico, un fatto che avrebbe conferito al rituale un
carattere eminentemente “parodistico”. Al termine dell’interregno il falso re e la sua famiglia
venivano messi a morte. Tuttavia, se aveva “recitato bene” la parte assegnatagli, la sua vita
poteva anche essere risparmiata, ed egli poteva riprendere il suo posto tra gli schiavi di corte.
Da un lato il rito di inversione sarebbe un artificio per “spostare” su un falso obiettivo gli
eventuali influssi nefasti derivanti dalla morte del re e risparmiare così il successore. Ma il be
di murua avrebbe anche un’altra finalità, di natura sociologica. Dal momento che la morte del
re è considerata dagli Agni come l’inizio di un periodo di caos, la società metterebbe in scena il
be di murua, che altro non sarebbe se non la caricatura della società stessa, in modo tale che
“lo spettacolo di questo mondo caotico non può far altro che ispirare il desiderio di far ritorno
a un mondo ordinato, a un mondo governato”. Un’altra ipotesi può essere che la figura del re
doveva essere considerata immortale. L’effetto di questa messa in scena parodistica del
potere sarebbe pertanto quello di produrre un rafforzamento indiretto del potere stesso.
Arena politica, attori politici e prospettiva processuale:
Che cosa mette in condizioni individui e gruppi di agire politicamente allo scopo di ottenere
potere e di imporlo? Individui e gruppi agiscono politicamente nella misura in cui possono
gestire delle risorse che, se adeguatamente impiegate allo scopo, conferiranno loro il potere
di controllare altre e più importanti risorse, di natura simbolica e materiale. Per partecipare
alla “lotta per il potere” bisogna comunque disporre di risorse di un tipo o dell’altro, meglio
di tutti e due. Ciò non esclude che individui o gruppi che controllano meno risorse di altri
possano avere più potere di questi ultimi. Le strategie, gli stratagemmi, le astuzie e gli
inganni fanno molto spesso parte della “lotta per il potere”. Arena politica, cioè uno spazio
ideale occupato da tutti gli elementi che controllano il confronto politico: tutti elementi che
sono manovrati dagli attori politici nel confrontarsi con il potere. Gli attori politici sono
quanti si confrontano nell’arena politica.
Considerare la politica come uno spazio, un’arena, in cui si disputa la partita per il potere,
svincola la politica stessa dall’immagine eccessivamente statica che ha caratterizzato gran parte
della riflessione passata dell’antropologia sul tema del potere. Aspetti dinamici. Prospettiva
processuale. Tale prospettiva ritiene che motivazioni e interessi trovino espressione
nell’attuazione di determinate strategie. Essa è stata chiamata “processuale” in quanto mira a
cogliere i fenomeni politici nel loro “divenire”, e in ciò si distingue da quella che descrive i
sistemi politici sul piano esclusivamente istituzionale e formale.
Capitolo 2: Forme di vita economica:
La produzione e la circolazione delle risorse:
Controllare risorse non significa soltanto poter decidere della loro destinazione; può voler dire
anche esercitare un controllo sulla produzione di esse. Non possiamo certo fare a meno di
controllare la produzione e la distribuzione delle risorse immateriali che permettono di
controllare quella materiali. Le società e le culture non sono mai uniformi al loro interno, né le
conoscenze e i saperi sono distribuiti in modo uniforme.
Il principio di reciprocità e la dimensione sociale dell’economia:
La produzione, la distribuzione e la circolazione delle risorse materiali sono i temi costitutivi
dell’antropologia economica. Fu verso la metà del Novecento che emerse come un
sottosettore distinto della disciplina. Ciò fu soprattutto in seguito al lavoro di Karl Polanyi, un
economista ungherese trasferitosi in Gran Bretagna nel 1940 per sfuggire ai nazisti.
Malinowski aveva notato ad esempio come gran parte della vita sociale si basasse su atti di
natura reciproca. La reciprocità la si ritrovava ovunque nella vita dei Trobriand, negli scambi
pacifici come nel conflitto. Essa aveva un carattere sociale, obbligatorio e cogente che, se non
rispettato, produceva riprovazione, sanzioni ed esclusione. Secondo Mauss erano tre le
regole che stavano alla base della pratica del dono e dell’idea stessa di reciprocità: dare,
ricevere e ricambiare.
Polanyi contrappose un’idea di economia come rapporto concreto degli esseri umani con la
natura da un lato e con i propri simili dall’altro. Metteva l’accento sulla dimensione sociale.
L’economia sarebbe così un “processo istituzionalizzato”, cioè dipendente dalle strutture
sociali nelle quali tale processo è “incastonato”. Le istituzioni sono quelle al cui interno si
compiono tutte le operazioni considerate normalmente come “economiche”.
Le forme di circolazione dei beni:
Secondo Polanyi le forme di distribuzione e di scambio presenti nelle diverse società erano
fondamentalmente tre: quella retta dal principio della reciprocità; quella basata sulla
redistribuzione e, infine, quella fondata sullo scambio. Ognuna di queste forme poggia su un
diverso “supporto istituzionale”, il quale fa appunto, dell’economia, un “processo
istituzionalizzato”: la simmetria, la centralità e il mercato rispettivamente.
Reciprocità/simmetria: economie di società organizzate su gruppi di parentela, dove
prevalgono scambi di tipo paritario e simmetrico tra gruppi di parenti.
Ridistribuzione/centralità: economie in cui è presente un’autorità che concentra su di sé i
prodotti provenienti dalla periferia, beni che vengono successivamente ridistribuiti secondo
criteri di volta in volta differenti. Scambio/mercato: economie nelle quali le merci circolano in
base alla legge della domanda e dell’offerta. Questi modelli di circolazione dei beni non sono
esclusivi uno dell’altro. La vita economica delle comunità che si fondano ancora oggi sulle
forme di adattamento costituite dalla caccia-raccolta, pesca, coltivazione e pastorizia nomade
e stanziale, è sempre più influenzata dall’economia di mercato. La monetarizzazione
dell’economia ha alterato molti sistemi fondati sulla simmetria e la centralità, anche se non
sono rari i casi di quelle società che riservano al denaro e alla produzione finalizzata al
mercato circuiti e spazi separati. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, la monetarizzazione e i
cambiamenti tecnologici introdotti coi “piani di sviluppo” hanno provocato alterazioni
significative sullo stesso assetto sociale delle comunità interessate.
La produzione sociale dei beni e il concetto di “modo di produzione”:
La riflessione di Polanyi si concentrò soprattutto sulla circolazione, non sulla produzione. La
circolazione dei beni è un fenomeno sociale poiché lo scambio, l’acquisto e la vendita di tali
beni pongono in relazione tra loro individui e gruppi. Anche la produzione è una relazione
sociale, poiché oggetti e beni prodotti “incorporano” anch’essi delle relazioni sociali. L’idea
che gli oggetti fabbricati vadano analizzati come prodotti che incorporano delle relazioni
sociali storicamente determinate risale a Karl Marx. “Modo di produzione” forma storica di
esistenza sociale. Un modo di produzione era determinato dalla combinazione di tre fattori: i
mezzi di produzione, la manodopera e i rapporti di produzione. I mezzi di produzione sono la
materia prima, il sapere e la tecnologia di cui una società dispone. La manodopera è l’energia
umana impiegata nel processo produttivo, ossia il lavoro. I rapporti di produzione sono infine
la relazione sociale che articola la connessione tra mezzi di produzione e manodopera. Se
cambiano i rapporti di produzione cambia anche il modo di produzione. A seconda cioè di
come mezzi di produzione e manodopera entrano in relazione si ha l’emersione di un modo di
produzione particolare. Modo di produzione “schiavista”.
Produzione feudale. Nella società capitalista lavoro salariato, cioè “remunerato”. I beni
materiali sono dei prodotti che “incorporano” molti elementi. Mette l’accento sulle
condizioni sociali della produzione. Se non li si considera da questo punto di vista, i beni-
merci diventano dei “feticci”, qualcosa che pervade il mondo in cui noi viviamo ma di cui non
riusciamo a vedere la vera natura.
L’analisi antropologica delle forme di vita economica:
Aspetti centrali del processo produttivo inteso come fenomeno sociale: la natura dei mezzi di
produzione; i loro possessori legittimi; la relazione che si instaura tra possessori dei mezzi di
produzione e quanti lavorano; la destinazione sociale dei prodotti eccetera. Hanno prestato
particolare attenzione al modo in cui forme di vita economica fondate su relazioni produttive
“tradizionali” entrano in rapporto con l’economia di mercato e con logiche economiche che
hanno origine altrove.
La comunità domestica:
Studi condotti negli anni Sessanta-Ottanta da antropologi europei e americani sulle
popolazioni dell’Africa subsahariana e del Sudamerica. “Comunità domestiche”, cioè gruppi di
individui, per lo più consanguinei e alleati coresidenti, i quali contribuiscono allo svolgimento
delle attività di sussistenza di interesse comune. La comunità domestica si fonda su un
accesso paritario di tutti gli individui al mezzo di produzione per eccellenza, la terra. Tuttavia
all’interno di tale comunità vige il principio dell’anzianità sociale come fondamento
dell’autorità. Sono infatti gli “anziani”, cioè uomini sposati con una prole in grado di lavorare
la terra, a detenere il controllo delle risorse. In questo caso le risorse sono piuttosto le donne,
l’accesso alle quali è regolato dagli anziani delle varie comunità domestiche. In queste
circostanze il controllo delle donne è il fattore-chiave da cui deriva il potere: le donne sono la
risorsa fondamentale grazie alla quale gli individui possono diventare a loro volta
indipendenti, sposandole e avendo da loro dei figli. La relazione sociale che determina il modo
di produzione è il rapporto giovane-anziano. I giovani devono obbedire agli anziani.
Concedendo al momento opportuno ai giovani delle mogli, essi consentono loro di dare inizio
a un nuovo “ciclo domestico”.
La schiavitù del coltan:
La schiavitù fu ufficialmente abolita tra il 1830 e il 1840 dalla Gran Bretagna. Ma negli Stati
Uniti rimase in vigore ancora per altri vent’anni. Oggi è ufficialmente proibita ovunque, ma
altre forme di dipendenza simili alla schiavitù si sono sviluppate nel corso del tempo. Ne è un
esempio il caso dei ricercatori di coltan, un materiale davvero speciale. Le quantità maggiori
esso provengono dall’Africa, soprattutto dal Congo orientale. È diventato un materiale
straordinariamente ricercato. Il suo prezzo è cresciuto a dismisura nel giro di breve tempo. Nel
1998 meno di mezzo chilo di coltan grezzo costava tra i 3 e i 4 dollari USA; l’anno successivo
costava già dieci volte di più e neanche un anno dopo, cioè all’inizio del 2000, ben cento volte
di più: circa 380 dollari. Poi il prezzo cominciò a scendere. Si ottiene frantumando pietre.
Migliaia e migliaia di uomini hanno scavato e polverizzato rocce ricche di coltan in cunicoli a
continuo rischio di crollo. La schiavitù ha assunto nuove forme. E tra le nuove forme di
dipendenza c’è anche quella che potremmo chiamare la “schiavitù del coltan”. Questa
umanità è prigioniera dei vari schieramenti di soldati e miliziani che sono i veri beneficiari
dell’impresa, oltre naturalmente agli intermediari e ai trafficanti internazionali.
L’articolazione dei modi di produzione:
La comunità domestica è stata sempre “funzionalmente incorporata” dalle forme
economiche e sociali che l’hanno inglobata nel corso della storia. Tutte queste forme hanno
infatti sfruttato la capacità della comunità domestica di svolgere la sua fondamentale
funzione di luogo di riproduzione della manodopera, ossia di esseri umani in grado di
prestare il proprio lavoro. Il modo di produzione tradizionale dominante nelle società
africane è entrato in un rapporto di articolazione e di dipendenza da quello capitalista. In
conseguenza di questo fatto però la comunità domestica delle società africane si è
indebolita, con tutti i fenomeni di disgregazione sociale e culturale che l’inurbamento e
l’emigrazione ha portato con sé. Tali
conclusioni sono applicabili, seppure con le dovute correzioni, anche alla famiglia nel mondo
occidentale. Questa, da allargata e patriarcale che era, si è ridotta, con lo sviluppo
dell’industria e del lavoro salariato, a un nucleo sempre meno in grado di riprodurre la
manodopera necessaria al mondo del lavoro, il quale deve fare sempre più ricorso a fonti
esterne di manodopera.
Le economie dell’ “affezione” e “politiche di sviluppo”:
L’articolazione dei modi di produzione comporta il progressivo coinvolgimento dei sistemi
“locali” in sistemi più ampi e, molto spesso, una forma di “dipendenza strutturale” dei primi
dai secondi. Le trasformazioni possono essere rapide e rilevanti. Molto dipende da quanto il
sistema locale è in grado di resistere alla pressione esterna. Questi casi sono stati considerati
esempi di una “economia dell’affezione” come contrapposta a una “economia del valore”.
L’economia “dell’affezione” non è un’economia di per sé “sottosviluppata”. L’economia
dell’affezione sarebbe quella che corrisponde a un modello produttivo e di scambio che può
esistere accanto a quello basato sulla logica del mercato oppure che può rifiutare
quest’ultimo perché giudicato dagli interessati intrusivo e socialmente dirompente. È difficile
per una comunità sottrarsi completamente all’impatto di una logica economica come quella
dominata dal mercato. Queste resistenze costituiscono la ragione principale del fallimento
dei progetti di sviluppo ideati da operatori europei, nordamericani, indiani o cinesi che
spesso conoscono poco o nulla della realtà sociale e culturale delle popolazioni coinvolte.
La modernizzazione dell’agricoltura, il mercato e la fine della reciprocità: i contadini di Bijapur,
India (fine secolo XX):
L’impatto di nuove tecniche agricole legate all’introduzione di nuove sementi ha comportato
in molti casi profonde modificazioni sia nella struttura delle relazioni sociali sia nella
concezione che alcune comunità rurali hanno di loro stesse e dei loro rapporti con la terra. Il
caso die contadini della regione di Bijapur, India centro-meridionale. La terra, considerata
come un soggetto vivo e dispensatore di risorse. Le colture sono di vario tipo e vengono
condotte diversamente a seconda del genere di sementi, dei suoi coltivatori e delle tecniche
impiegate. Le sementi sono il sorgo, il miglio e il riso “tradizionali”; le operazioni agricole sono
effettuate con l’impego della trazione animale, dell’energia umana, e con metodi irrigui resi
possibili dalla presenza di pozzi scavati a mano, di sorgenti naturali o dalle precipitazioni
stagionali. L’insieme di tutti questi elementi forma l’hada. Particolarmente importante è la
nozione di hulighe, la quale rinvia all’idea dei frutti della terra come “connessione” da parte di
quest’ultima agli esseri umani. Distribuzione dei prodotti tra i nuclei domestici. Riti periodici in
onore della terra. Società, rito e produttività della terra risultano così interconnessi. Nel corso
degli anni Ottanta si sono verificati tuttavia dei cambiamenti importanti nell’agricoltura di
questa regione. È stata ad esempio introdotta una nuova varietà di riso, per la cui irrigazione
si è reso necessario scavare pozzi profondi, dai quali l’acqua può essere attinta solo grazie alle
pompe a motore. L’idea di hulighe ha cominciato pian piano a essere rimpiazzata, nei discorsi
dei contadini, da quella di utpati, ossia di produttività calcolata in termini puramente
quantitativi. Il nuovo tipo di riso è infatti destinato al mercato. L’idea di sistam individua infatti
un atteggiamento del tutto nuovo per i contadini. Esso si riflette nel desiderio di raggiungere
nuovi obiettivi solo grazie all’adozione di metodi atti allo scopo. I contadini dichiarano
apertamente il loro “disprezzo” per le sementi “ibride”. I contadini parlano di sé stessi come
di gente fragile, debole, vulnerabile alle malattie, proprio come delicate, deboli ed esposte
alle malattie sono le sementi. Modi di esprimere un passaggio e una condizione che sono
percepiti dai contadini come risultato della pressione, sul contesto locale, di forze estranee ed
egemoniche provenienti dall’esterno. Essi denunciano la perdita di quei legami morali e sociali
da loro stessi connessi con un’idea di produttività e di forza della terra. Dalla “santità delle
colture”, frutto della generosità della terra, si è passati al disprezzo per le sementi ibride.
Cambiamento nei riti propiziatori: mentre prima era la terra a costituire l’oggetto di questi riti,
ora si offrono primizie ai pozzi e alle pompe a motore e le si orna con fiori e nastri colorati.
Le strutture della dipendenza:
L’articolazione tra sistemi e modi di produzione locali con l’economia di mercato potrebbe
essere definita come “struttura della dipendenza”. Situazione di subordinazione funzionale
che si instaura tra economie del centro ed economie della periferia, tra economie fondate
sulla produzione industriale e agricola altamente tecnologizzata da un lato ed economie
fondate sulla manodopera a basso costo e a bassa produttività dall’altro. Le economie più forti
hanno la possibilità di estrarre dalle economie più deboli risorse che, in tal modo, non possono
essere impiegate localmente. Le economie del centro orientano a proprio vantaggio le
economie più deboli della periferia facendo produrre loro ciò che conviene alle economie del
centro.
I fabbri di Kaedi, Mauritania meridionale (fine secolo XX):
Vi sono anche casi in cui l’economia di certe comunità del pianeta rimane al di fuori delle
strutture del mercato globale in quanto non è in grado di produrre nulla che interessi
quest’ultimo. “Società vernacolari”. Sono presenti laddove, dopo la fase di “deculturazione”
prodotta dal cannibalismo, le comunità cercano di formulare nuovi modelli di relazioni sociali,
nuove immagini di sé e, naturalmente, nuovi modi di ottenere uno standard accettabile di
vita materiale. I componenti di queste società: “naufraghi planetari”. Sul piano tecnico-
economico la società vernacolare, che non ha nulla da offrire al mercato e nulla dal mercato
può di conseguenza prendere, produce soluzioni alternative. Ciò avviene soprattutto grazie al
riciclaggio dei “rifiuti della modernità”, ossia mediante il procacciamento e l’utilizzo di
materiali di scarto recuperati a costi bassissimi. Esemplare sembra essere il caso dei fabbri di
Kaedi, una città della Mauritania meridionale ai confini con il Senegal. Qui un aspetto
importante dell’ “economia di recupero” è l’autoproduzione degli strumenti necessari alla
fabbricazione di oggetti e di altri utensili, sia agricoli che d’uso quotidiano. Tale
autosufficienza si accorda con la messa in atto di estese reti di cooperazione fondate sulla
struttura familiare, amicale e di vicinato. L’assenza di lavoro salariato in ragione della
disponibilità di manodopera familiare fa sì che i costi di produzione siano praticamente nulli.
L’unico costo, per altro assai basso, è rappresentato dal trasporto del materiale ferroso.
“Razionalità” e “irrazionalità” nell’economia:
Nella tradizione di pensiero occidentale moderno, anche l’economia è concepita come un
settore dell’agire umano dominato dal calcolo e dal profitto. Questo è il motivo per cui molti
occidentali si stupiscono ancora del fatto che certi popoli scelgano soluzioni “economiche” che
agli occidentali tali non sembrano.
Pianificatori e consulenti per lo sviluppo ritengono che questi siano due esempi dell’
“irrazionalità” con cui molte popolazioni del pianeta sembrerebbero comportarsi: invece di
“investire” le risorse di cui dispongono in attività che potrebbero migliorando il loro livello di
vita, le “sprecano” devolvendole a scopi puramente “simbolici”. Alcuni antropologi ritengono
che tali comportamenti non possano essere giudicati “economicamente” irrazionali, in quanto
rispondono effettivamente al soddisfacimento di un bisogno considerato da loro come
primario. Sarebbe insomma il codice culturale di una determinata comunità a decidere che
cosa è irrazionale e che cosa non lo è. Sono imprecisi nel definire il “parametro della
razionalità”. Nel caso dei Malgasci da un lato non si sa che cosa altro potrebbero fare dei loro
denari e delle loro risorse in una situazione economica molto depressa qual è quella in cui
vivono, se non appunto “investirli” sul piano simbolico. Ma è anche vero che non si può
considerare “razionale” qualsiasi azione per il solo fatto che viene rappresentata come
tendente a un fine. Considerare la dimensione del consumo. Non è evidentemente esclusiva
delle società a economia capitalistica, poiché tutti gli esseri umani “consumano” dei beni,
tanto che si tratti di alimenti quanto di oggetti d’uso. Il funzionamento delle economie
capitaliste si basa tuttavia su un sistema di consumi allargato, in quanto il consumo sempre
maggiore di beni costituisce ormai la condizione basilare dell’esistenza di quelle stesse
economie. È dunque molto difficile stabilire quali possano essere i criteri assoluti della
razionalità economica. Essendo le società tutt’altro che omogenee, differenti gruppi di
ciascuna possano perseguire finalità diverse, avere ineguale accesso alle risorse e quindi
interessi nient’affatto identici. Per capire come gli esseri umani si muovono in ambito
economico bisogna anche tenere conto di una pluralità di fattori che vanno dall’utile
materiale alla soddisfazione morale, dal consumo di beni concreti al consumo di beni
materiali, dal controllo di risorse finanziarie al prestigio.
Situazioni ambientali, psicologiche, e soprattutto culturali, tendono a orientare il
comportamento e le aspettative “economiche” degli individui stessi. Gli esseri umani,
piuttosto che essere “economicamente razionali” sembrano “lottare perennemente per
riuscire a vedere ciò che sta davanti al loro naso”.
Nuovi vampiri in Sudamerica:
Situazioni caratterizzate da ciò che abbiamo indicato come violenza strutturale, sfruttamento
e insicurezza per il futuro possono tradursi in immagini fantastiche, demoniache e risvegliare
antiche paure. Chipaya degli altipiani della Bolivia. La figura del kharisiri (“vampiro”) esiste
sugli altipiani della Bolivia dall’epoca della Conquista. È rappresentato come un personaggio
caratterizzato dall’aspetto di un uomo bianco o di un meticcio. È un uomo che si aggira con un
coltello e un laccio di pelle umana in cerca delle sue vittime, che addormenta lanciando su di
loro con una cerbottana una polvere di ossa umane tritate. Succhia il grasso della vittima.
Nella seconda metà del Novecento queste credenze hanno però subito importanti e
significative trasformazioni. Nel 1990 a Lima si sparse ad esempio la voce che dei gringos
armati di mitraglietta erano entrati in una scuola e avevano rapito dei bambini allo scopo di
espiantare loro gli occhi allo scopo di rivenderli all’estero. Nonostante le smentite e
l’intervento delle autorità, si diffuse un notevole terrore tra la popolazione di Lima. Le figure
tradizionali del kharisiri si sono trasformate in quelle dei gringos con mitraglietta, camici
bianchi e dollari. La cecità provocata dalle aggressioni dei gringos è una metafora dell’oscurità
nella quale vivono i poveri, e della volontà di mantenerli in tali condizioni.
Una struttura della dipendenza agli albori del colonialismo: gli Uroni del Canada e la loro
scomparsa (secolo XVII):
Forme di dipendenza di popolazioni extraeuropee dalle economie di mercato cominciarono a
costituirsi già nei primissimi tempi della colonizzazione. Un esempio è quello degli Uroni,
agricoltori del Canada alla metà del secolo XVII. Fino agli inizi del Seicento essi mantennero coi
loro vicini relazioni ora pacifiche ora bellicose, ma senza mire di conquista da parte degli uni o
degli altri. Nei Seicento arrivarono i francesi.
Presero accordo con gli Uroni i quali cominciarono a rifornire il mercato di pellicce. Per
soddisfare la richiesta crescente gli Uroni abbandonarono progressivamente le attività
tradizionali di sussistenza e si dedicarono sempre di più alla caccia degli animali da pelliccia.
Così, alla metà del XVII secolo, l’economia degli Uroni si fondava ormai in larga misura sulla
caccia degli animali da pelliccia e sul commercio con i francesi. Fecero la loro comparsa i
mercanti olandesi. Essi si rivolsero agli irochesi, vicini degli Uroni, per ottenere da loro lo
stesso tipo di beni: le pellicce. Uroni e Irochesi divennero concorrenti. Così si giunse a una
situazione per cu gli Uroni non avevano più alternative: o affermarsi sui loro vicini irochesi e
monopolizzare il commercio delle pellicce, oppure riconvertirsi all’agricoltura. Francesi e
olandesi avevano cominciato a dotare di armi da fuoco i loro rispettivi alleati. Ne seguì una
lotta all’ultimo sangue. Poco oltre la metà del Seicento gli Uroni furono in pratica sterminati.
La “razionalità” economica dei Pigmei dell’Ituri, Congo (fine secolo XX):
I Pigmei sono circa 200.000 e vivono in sette paesi dell’Africa centrale. I gruppi più numerosi
abitano la foresta dell’Ituri, Africa orientale. Tuttavia, come è il caso di molte società
acquisitive, anche i Pigmei vivono da secoli a contatto degli agricoltori della regione ai margini
della foresta entrando, attraverso essi, in “reti economiche” assai estese. La loro lingua è
fortemente influenzata da quella dei loro vicini agricoltori Bantu. Prima che il commercio
dell’avorio fosse messo fuori legge i Pigmei erano tra i principali procacciatori di questo
materiale per il mercato europeo e asiatico. Con questi agricoltori di lingua bantu i Pigmei
intrattengono relazioni di scambio grazie alle quali ottengono anche oggi beni di scambio
fondamentali per la loro stessa sopravvivenza. I Pigmei scambiano coi Bantu i prodotti della
foresta ricevendo in cambio prodotti agricoli, oggetti e utensili metallici e altri prodotti.
Forniscono anche la loro manodopera nell’agricoltura. I Pigmei, cacciatori, sono così diventati
i principali fornitori di carne per queste popolazioni di agricoltori. L’economia dei Pigmei ha
circoscritto notevolmente l’economia del denaro.
Mantengono il sistema del baratto perché è in grado di assicurare un “tasso di scambio”
notevolmente stabile. Il baratto è la forma che meglio risponde a una logica del “ritorno
immediato” tipico delle società acquisitive. Il fatto che i Pigmei abbiano mantenuto nella
maggior parte delle loro transazioni economiche la forma del baratto ha funzionato come una
specie di “cuscinetto” tra il sistema del mercato e la monetizzazione degli scambi da un lato e
le risorse e l’equilibrio ambientale della foresta dall’altro. Se i Pigmei si fossero fatti prendere
dalla logica dell’economia monetaria, avrebbero compromesso l’equilibrio dell’ambiente in
cui vivono.
Capitolo 3: Forme di vita politica:
politica:
Potere e autorità possono essere incarnate da figure sociali particolari che rivestono, per
eredità, elezione, consenso esplicito o imposizione, determinate cariche. Vi sono però società
in cui le cariche sono assenti, così come assenti possono essere istituzioni o ruoli politici
istituzionalizzati. Il rispetto dell’autorità, l’esercizio del potere, la difesa di interessi di un
certo gruppo di individui o dell’intero corpo sociale, possono essere ottenuti per vie
differenti. Nella maggior parte di queste società la parentela e l’età hanno costituito dei
fattori importanti per assicurare il rispetto dei diritti e delle regole sociali. Anche la religione
può svolgere un’analoga funzione coesiva. Quasi tutte le culture prevedono sanzioni
soprannaturali per i trasgressori delle “regole sociali”.
La classificazione tipologica:
Gli antropologi hanno considerato per molto tempo le organizzazioni politiche concrete come
se fossero disposte su una lingua continua, dalle forme più “semplici” a quelle più
“complesse”. Negli ultimi decenni le forme di organizzazione politica tendono a sfumare
impercettibilmente le une nelle altre. Un’utile tipologia
è quella che parte da sistemi politici non centralizzati e sistemi politici centralizzati. All’interno
dei sistemi politici non centralizzati si può operare un’ulteriore distinzione tra bande da un
lato e tribù dall’altro e “Big Man”. All’interno dei sistemi politici centralizzati si possono invece
distinguere due forme principali: i potentati e gli Stati, questi ultimi distinguibili a loro volta in
Stati dinastici e Stati nazionali.
Sistemi non centralizzati:
La banda:
È stata ritenuta dagli antropologi la forma più elementare di organizzazione “politica”,
probabilmente la più antica e sicuramente oggi la meno diffusa. È caratteristica dei gruppi di
cacciatori-raccoglitori nomadi. Sono sottoposte a flusso, un fattore che, unitamente alle
condizioni generali di vita economica e sociale, costituisce a fare di esse degli aggregati socio-
politici fondamentalmente ugualitari. Organizzazione politica della banda come “una struttura
ristretta, informale e priva di una gerarchia decisionale”.
Le società tribali:
L’etichetta “tribale” è stata assegnata alla quasi totalità delle società studiate in passato dagli
etnologi e dagli antropologi. Gli antropologi riservano però l’uso del termine “tribù” a un
preciso tipo di organizzazione socio-politica, il quale è prevalentemente riscontrabile presso
popolazioni agricole e/o pastorali. Tribali vengono infatti definite quelle società in cui sono
presenti più gruppi di discendenza che si considerano l’un l’altro come a loro volta discendenti
da un comune antenato. Bisogna che l’organizzazione politica così definita sia acefala, cioè
priva di un potere centrale permanente. I gruppi di discendenza sono dei “corpi politici”
pronti a costituirsi in unità solidali al proprio interno e a contrapporsi ad altri. Hanno uguale
accesso alle risorse vitali e strategiche per cui formano delle unità pronte a lottare perla difesa
delle risorse comuni. “Gruppi corporati”. Hanno capi e rappresentati scelti di solito in base a
criteri che fanno per lo più riferimento a caratteristiche personali. Pongono grande enfasi
sull’eguaglianza dei gruppi che le compongono, nonché sulla parità degli stessi individui che di
tali gruppi fanno parte. Tuttavia sono società piuttosto “instabili”, suscettibili di produrre i
germi di una differenziazione sociale interna. I capi tribali sono quasi sempre scelti all’interno
di una qualche “famiglia” o gruppo di discendenza che “per tradizione” detiene il privilegio di
assegnare tale carica a uno dei propri componenti.
Usi e ambiguità del termine “tribale”:
Quella di “tribale” è stata sempre una qualificazione generica delle società studiate
dall’antropologia. In passato l’utilizzazione di questo termine ha consentito di distinguere
facilmente i “primitivi” dai “civilizzati”, e anche oggi questo termine evocato dai profani per
indicare qualcosa di “originario”, “primitivo”, “autenticamente esotico”, sia nella vita sociale
sia nella moda. Il “tribalismo”, invece, è quasi sempre una risposta alla dissoluzione di
istituzioni e di ideologie unificanti, e non un “ritorno alla tradizione”.
Lignaggi segmentari:
I lignaggi segmentari sono in pratica i gruppi di discendenza unilaterali costitutivi di una tribù.
Segmentari perché sono suscettibili di frazionarsi o di aggregarsi in “segmenti” di minore o
maggiore estensione. È rappresentabile come un albero rovesciato. I componenti dei lignaggi
si riconoscono spesso idealmente come discendenti da un stesso antenato. È posta grande
enfasi sulla parentela consanguinea. Così come i lignaggi tendono, in base a una dinamica di
alleanze, a fondersi in segmenti sempre più ampi, il conflitto e l’opposizione possono portare
alla progressiva “segmentazione” delle unità più grandi in segmenti più ridotti. Nella pratica le
cose vanno molto raramente in questo modo. Infatti, nonostante la visione egualitaria della
dinamica politica tipica di queste società, vi sono lignaggi che non hanno interesse a farsi
trascinare in un conflitto per semplice spirito di “solidarietà” da altri con cui sono
strettamente “imparentati”. Al tempo stesso vi sono lignaggi che hanno interesse ad allearsi
con altri “più lontani” contro “lignaggi più vicini”. Vi sono poi molto spesso lignaggi
politicamente preminenti.
Stratificazione rituale:
Esiste una distinzione importante tra lignaggi, la quale si riflette nella funzione politico-
religiosa svolta da alcuni di essi. È possibile trovare alcuni individui che, pur non essendo
specializzati nelle funzioni politiche, possono incarnare un’autorità largamente rispettata e
ascoltata per motivi extrapolitici. La figura del santo mediatore è particolarmente diffusa
nell’area arabo-musulmana. Questi “santi” trasmettevano la propria santità e le proprie
funzioni alla loro discendenza, fondando dei veri e propri lignaggi ritualmente e politicamente
distinti. Riuscivano talvolta ad acquisire posizioni politicamente dominanti.
Consigli di villaggio:
Dove le popolazioni tribali abitano in villaggi permanenti ogni gruppo di discendenza ha
propri rappresentanti che si riuniscono periodicamente dando vita ai cosiddetti “consigli di
villaggio”. Tali “consigli” si hanno soprattutto laddove la popolazione sedentaria è
relativamente numerosa, e dove la contiguità delle varie aree sfruttate dai gruppi di
discendenza pone seri problemi di rivalità e di attrito tra i gruppi. Amministrare le relazioni
con altri villaggi e altre tribù.
Sodalizi, classi d’età, società segrete:
Esistono forme associative fondate sull’età e sul sesso. Sodalizi, forme associative le quali
“tagliano” trasversalmente i gruppi di discendenza che costituiscono la tribù e che hanno la
funzione di organizzare una parte della popolazione secondo progetti d’azione specifici. Classi
d’età. Si accede successivamente mediante specifici rituali di iniziazione officiati dai membri
della classe più anziana. Età “sociale”. Società segrete: erano costituite da individui affiliati
mediante riti di iniziazione.
Il “Big Man”:
I capi di comunità prive di istituzioni politiche centralizzate si caratterizzano per la loro
costante opera di ridistribuzione di beni e di benefici, oltre che di supporto e assistenza nei
confronti dei membri del proprio lignaggio. Figure politiche di primo piano presso alcune
società acefale della Nuova Guinea sono infatti il tonowi e il mumi, “Big Man”. Questi
individui possono non avere alle spalle un forte gruppo di discendenza o non appartenere a
una famiglia di capi. Sono obbligati a manifestare periodicamente la loro supremazia sociale
attraverso una ridistribuzione di beni precedentemente accumulati grazie all’aiuto di altri
individui. Gruppi provenienti da villaggi diversi si sfidano distribuendo anch’essi dei beni. Se le
loro performance si rivelano superiori a quelle del Big Man ospitante, quest’ultimo decadrà.
Capi africani e capi mediorientali:
Il potere dei capi può variare in maniera notevole. Vi sono capi che riescono ad avvalersi del loro
seguito. Tuttavia, anche nei confronti del proprio seguito, i capi devono mostrarsi “generosi”,
“avveduti”, “fortunati”. Possono a volte essere molto più ricchi della gente comune, mentre in
altri casi ciò non si verifica. Tra gli individui riconosciuti e designati come autorevoli vi sono quelli
che fanno parte dei consigli di villaggio delle società agricole africane. Oggi l’autorità di simili
individui è per molti aspetti mutata. Tuttavia in molti casi la loro autorità permane. Tra i beduini
la carica di sheik non è trasmissibile di padre in figlio. Criterio della collateralità: quando il re
muore, sia il fratello immediatamente più giovane a prenderne il posto.
Caratteristica è anche, presso i beduini d’Arabia, la presenza di un incaricato del governo
chiamato dai beduini kabir, cioè “grande”, che in pratica affianca i piccoli sheik e funge da
doppio “binario” di collegamento con le strutture del potere centrale.
Sistemi centralizzati:
Non esiste oggi terra al mondo che non sia sotto la sovranità di uno Stato nazionale. Diffusosi
con l’espansione europea, e affermatosi definitivamente con la decolonizzazione, il modello
dello Stato nazionale domina il panorama politico del mondo attuale.
Un mondo di Stati:
La maggior parte di questi Stati pretende di legittimare la propria sovranità sul fatto che le
popolazioni che rientrano sotto la loro giurisdizione sono omogenee: o dal punto di vista
culturale, o dal punto di vista religioso o linguistico. Ciò non corrisponde mai a verità. Sono
numerose le aree del pianeta contese tra Stati. Lo Stato è l’istituzione ufficialmente
riconosciuta come preposta al governo dei popoli. Sino all’epoca della decolonizzazione, la
maggior parte delle comunità umane era organizzata su basi non statuali. Almeno fino
all’epoca della colonizzazione, le società erano assai più di oggi al di fuori dell’influenza diretta
di questi Stati. Oggi alcune di queste società si sono dissolte, altre sono sopravvissute.
Prima degli Stati: i potentati:
L’antropologia è tuttavia interessata allo studio delle trasformazioni scoiali e culturali e, di
conseguenza, a quelle dell’organizzazione politica. Tra le forme di organizzazione politica che
possono essere considerate antecedenti allo Stato, vi sono quelle che gli studiosi di lingua
inglese definiscono chieftainship, e quelli di lingua francese chefferie. Nella letteratura
antropologica di lingua italiana, si potrebbe adottare quello di “potentato”. Il potentato
costituirebbe una specie di condizione politica “intermedia” fra la tribù e lo Stato. L’esercizio
del potere tende a rivestire un carattere più formale che in una tribù, e l’autorità di un capo
tende a non fondersi più sul consenso, mentre le funzioni politiche tendono a conformarsi in
cariche più o meno stabili a carattere ereditario. Entità politiche comprendenti più gruppi
spazialmente localizzate. Ogni potentato potrebbe essere rappresentato come l’insieme di
più insediamenti o segmenti, ciascuno dei quali corrisponde a uno o più gruppi di
discendenza, patri o matrilineari, o a discendenza doppia o cognatica. Può costituire un
nucleo politico intratribale o sovratribale. Nel primo caso, quando un potentato sorge in seno
a una tribù, quest’ultima perde quella coesione che aveva quando essa era costituita da
segmenti autonomi ma pronti a unirsi in caso di minaccia esterna. Nel secondo caso, invece, il
potentato piò costituire una struttura inglobante comunità segmentate e non, tribali oppure
fondate su altre forme di organizzazione. Anche il potentato ha subito profonde modificazioni
o è scomparso del tutto. Importanza dei legami di parentela e dell’anzianità.
Lo sviluppo di un netto accesso differenziale alle risorse;
La comparsa del principio di ridistribuzione delle risorse stesse;
Il fatto che quella di capo cessa di essere qui una pura funzione per diventare una vera e
Si assiste a un processo di differenziazione tra i gruppi di discendenza, per cui la carica di capo
tende ad essere trasmessa definitivamente all’interno di uno stesso gruppo o lignaggio.
Comparsa di lignaggi aristocratici. I lignaggi non sono tutti “giuridicamente” eguali. I lignaggi
tendono invece a disporsi in una gerarchia di rango a seconda della distanza che, attraverso la
linea di discendenza, li separa dall’antenato fondatore. Questa differenza di rango
corrispondeva a una forma di controllo sulle risorse esercitata dai lignaggi di rango inferiore.
Ridistribuzione:
Si ha una prima forma di distribuzione dei beni regolata da un’autorità centrale. In una prima
fase una parte dei beni prodotti dai gruppi inclusi nel potentato vengono convogliati verso il
capo che, in una seconda fase, ne ridistribuisce la maggior parte alla comunità. La
“ridistribuzione” ha qui anche un aspetto funzionale, nel senso che permette di regolare il
flusso dei beni tra comunità che non sempre avrebbero la tendenza a sviluppare relazioni di
scambio in maniera spontanea. La ridistribuzione è un “dovere morale” del capo. Allo stesso
modo l’offerta di beni al capo è considerata un dovere morale da parte dei suoi sottoposti.
Un potere embrionale tra gli Shahsevan, allevatori nomadi e pastori sedentari
dell’Azerbaigian iraniano (metà secolo XX):
Dediti all’allevamento di pecore, cavalli e all’agricoltura. Parlano un dialetto iraniano e sono
musulmani sunniti. La vita delle popolazioni non urbanizzate si regge anche oggi su un sottile
equilibrio tra pastorizia e agricoltura. Le esigenze delle due sfere produttive possono essere
ripensate solo mediante una rigida programmazione degli spostamenti. I capi dei vari lignaggi
e tribù nomadi e/o sedentarie hanno sviluppato la funzione di preordinare gli spostamenti
delle tribù e assegnare le aree di pascolo da utilizzare in periodi diversi dell’anno. I capi hanno
così sviluppato una funzione importante. Negli anni Venti il sovrano persiano decise però di
imporre la propria autorità bloccando il potere dei capi tribali. L’appartenenza a una tayfa non
era stabilita dal fattore della discendenza, ma dal fatto di riconoscere l’autorità di un capo di
una tayfa e non di un’altra.
Gli Stati:
E’ la forma di organizzazione politica oggi dominante. Caratteristiche peculiari:
Un apparato burocratico-amministrativo
emanare leggi;
Il monopolio della forza come mezzo per far rispettare le leggi sul piano interno e come mezzo
di confronto con entità ostili esterne.
Le società organizzate su base statuale presentano:
Un accesso alle risorse ancor più differenziato che nelle forme di organizzazione politica sin
La sostituzione di legami di parentela come criterio regolatore delle relazioni sociali con rapporti
di tipo “impersonale”.
Molti degli Stati esistenti fuori dall’Europa in epoca precoloniale erano Stati dinastici. In essi
dominavano delle élite ereditarie. Anche oggi esistono Stati che potrebbero a buon diritto
essere considerati dinastici. Sono retti da stirpi ereditarie fortemente autocratiche. La stessa
idea di Stato nazione ha avuto diverse interpretazioni: una di questa si fonda sull’idea di
omogeneità linguistico-etnico-culturale della popolazione abitante entro i confini dello Stato
medesimo. Idea che lo Stato nasce da un “patto” tra diverse componenti culturali e
linguistiche ma che promuove una propria politica ispirantesi a leggi valide per tutti. Lo Stato
non ammette alcuna forma di autorità che, dall’interno, si ponga in concorrenza con esso.
Lo Stato e le altre forme di organizzazione politica:
Uno Stato può di fatto incorporare di potentati, e anche delle tribù e delle bande. Nelle
formazioni politiche precoloniali lo Stato poteva limitarsi a imporre a tribù e potentati tributi
periodici, e considerarli alleati o nemici a seconda delle circostanze. “Stato segmentario”. Man
mano che ci si allontanava dal centro le caratteristiche della struttura statuale si
riproducevano nei vari segmenti. In molti casi le potenze coloniali europee conservarono
appositamente alcuni Stati e potentati presenti sui territori da esse conquistati. “Libertà
controllata” e “guida indiretta”. Oggi le cose sono tuttavia assai più difficili per quegli Stati
“nazionali” postcoloniali a cui sfugge il controllo di parti più o meno estese dei loro
territori.
Un racconto sulle risorse e sul potere:
In un mondo sempre più “globale”, nel quale le risorse del pianeta sono sfruttate all’infinito
spesso a vantaggio di una minoranza dei suoi abitanti, ripensare il rapporto tra gestione delle
risorse e gestione del potere significa, in un certo senso, riconsiderare il futuro stesso del
genere umano. I miti, in qualsiasi modo li si voglia interpretare, hanno sempre la straordinaria
capacità di fissare, in una storia, aspetti della “condizione umana”. Sono modi in cui gli esseri
umani cercano di attribuire un senso alla propria condizione, alle proprie speranze, ansie e
paure. Gli esseri umani inventano racconti ogni giorno. La maggior parte di questi racconti
vengono dimenticati, altri restano, e alcuni finiscono per diventare “i miti” per eccellenza.