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Elementi di antropologia culturale:

Parte prima: Genesi e natura dell'antropologia culturale

Capitolo 1: Origine e significato dell’antropologia:


Antropologia significa..:
Il termine antropologia significa, letteralmente, “studio del genere umano”. È vaga perché sono
molte le scienze che studiano il genere umano: la filosofia, la psicologia, la sociologia, la storia,
la demografia, la genetica, eccetera. Ed è anche imprecisa, in quanto non ci dice di quale
aspetto del genere umano essa si occupi in maniera specifica. Studio del genere umano dal
punto di vista culturale ovvero delle idee e dei comportamenti espressi dagli esseri umani in
tempi e luoghi distanti tra loro. L’antropologia culturale, ossia l’insieme delle riflessioni che
sono state condotte intorno a tali comportamenti e idee, ha preso spunto dal fatto che gli
esseri umani si rivelano, da questo punto di vista, molto diversi oggi rispetto a un tempo, “qui”
rispetto a “laggiù”.
Le condizioni della comparsa dell’antropologia:
Le origini dell’antropologia non sono facili da stabilire. Quelle più lontane risalgono forse al
viaggiatore e scrittore greco Erodoto, diversità tra Greci e barbari nel corso dei suoi viaggi in
Asia e in Egitto. Le radici dell’antropologia più immediatamente riconoscibili risalgono piuttosto
all’umanesimo europeo, al Quattrocento e ai dibattiti che fecero seguito, durante il secolo
successivo, alla scoperta del Nuovo Mondo e dei suoi abitanti, della cui esistenza nessuno, in
Europa, avrebbe mai sospettato. L’erudito nordafricano Ibn Khaldun nel secolo XIV tracciò una
visione della storia umana ampiamente svincolata dalla teologia musulmana. Gli umanisti
posero infatti il genere umano al centro della riflessione filosofica dell’arte e della letteratura,
nonché della scienza medica. Rimasero legati a un’idea di umanità idealizzata. La scoperta e poi
la conquista dell’America ruppero l’incanto umanistico e posero, all’Europa cristiana, quesiti
precedentemente poco considerati o addirittura inimmaginabili. Gli europei cominciarono a
interrogarsi circa la natura di queste popolazioni definite ora selvagge e ora barbare. Con
l’espansione coloniale e i traffici commerciali, con la conquista e l’opera missionaria, i contatti
degli europei con questi altri popoli si intensificarono in maniera sempre più rapida. Alla fine
del Settecento, scienziati naturali e filosofi comunicarono ad elaborare una teoria “unitaria” del
genere umano, concepito come un’unica specie naturale e come complesso di individui
potenzialmente dotati delle stesse facoltà mentali. Fine del XVIII secolo. In quanto disciplina
accademica, le origini dell’antropologia culturale sono ancora più recenti, dal momento che
l’istituzione dei primi insegnamenti di questa materia nelle università europee e americane
risale per lo più all’ultimo quarto dell’Ottocento. Nel corso dell’Ottocento l’interesse per i
popoli “esotici” andò crescendo molto rapidamente. Gli antropologi si distinsero dai
colonizzatori proprio per la volontà di stabilire rapporti di reciproca comprensione con le
popolazioni da loro studiate.
Etimologia e distinzioni:
Antropologia deriva dai termini della lingua greca antica ànthropos e lògos. Il termine
ànthropos significa “uomo”, ma nel senso di “umanità”, “genere umano”. Lògos è traducibile
con “discorso”, “ragionamento”, “sapere”, “studio”. Sembra più giusto dire che l’antropologia
è lo “studio del genere umano”. Oggi la parola antropologia sta per “antropologia culturale”.
Esiste per esempio un’antropologia filosofica. Antropologia sociale ed etnologica. Antropologia
sociale è un termine che si è affermato soprattutto in Gran Bretagna intorno al 1920, mentre
etnologia stava a indicare lo studio delle culture extraeuropee in Francia, Germania e Italia
fino agli anni Sessanta-Settanta. Oggi i termini antropologia culturale, antropologia sociale ed
etnologia sono appartenenti alla stessa area disciplinare. All’area delle “scienze
antropologiche” appartengono anche discipline come la storia delle tradizioni popolari o il
folklore.
La Sociètè des observateurs de l’homme:
Furono i tardo-illuministi della Sociètè des observateurs de l’homme, un’associazione fondata a
Parigi nel 1799, i primi a lanciare un programma di ricerca che conteneva alcuni dei punti
fondamentali di quell’antropologia che si sarebbe sviluppata in seguito. I loro ispiratori erano i
maestri dell’Encyclopèdie: Diderot, D’Alembert, Rousseau. Primo vero tentativo di pensare una
scienza del genere umano fondata sull’osservazione diretta e lo studio comparato delle
istituzioni e dei costumi dei popoli della Terra, e non più sulla speculazione di tipo filosofico.
Furono i primi a comprendere seriamente che per studiare il genere umano dal punto di vista
scientifico bisognava viaggiare, un’idea già espressa indirettamente dal filosofo Jean-Jacques
Rousseau.
Cosa fanno gli antropologi:
Gli antropologi si sono occupati dello studio dei popoli loro contemporanei ma
geograficamente lontani. Gli antropologi si sono dedicati, fino a pochi decenni fa, allo studio
dei popoli che per molto tempo sono stati chiamati “selvaggi” o “primitivi” perché ritenuti una
volta i rappresentanti di fasi arcaiche della storia del genere umano. Si trattava di popoli
abitanti in sperdute isole del Pacifico, nel fitto delle foreste africane o all’interno di deserti
come quelli dell’Australia. Con il tempo però a questi popoli “primitivi” se ne sono aggiunti
altri, geograficamente più “vicini”. Oggi gli antropologi non studiano più solo queste
popolazioni. Clifford Geertz, “noi antropologi abbiamo il mondo a nostra disposizione”. Quando
l’antropologia era una scienza agli albori, gli studiosi avevano raramente occasione di visitare di
persona i popoli di cui scrivevano. Essi si avvalevano delle testimonianze di viaggiatori,
esploratori, militari e funzionari coloniali. Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del secolo XX
gli antropologi cominciarono a recarsi personalmente presso i popoli che volevano studiare.
Essi inaugurarono cioè la pratica della ricerca sul campo. Prevede che le conoscenze relative a
una popolazione derivino dall’osservazione diretta di un ricercatore professionale. Essi si
servono anche delle osservazioni e delle considerazioni dei loro colleghi, o di altri osservatori
che antropologi non sono. Fare antropologia significa innanzitutto voler affrontare l’incontro
con esseri umani con abitudini e concezioni del mondo diversi dai propri, coniugando le
conoscenze teoriche della disciplina con la personale esperienza di osservazione, riflessione e
ricerca.
I “primitivi” e il mondo moderno:
Quelle società che spesso e volentieri erano indicate come primitive non esistono più oppure
molti dei loro membri hanno cambiato “stile di vita”. Questi cambiamenti non sono stati,
purtroppo, sempre “per il meglio”. Se vi sono ancora popoli che mantengono una certa
continuità nelle loro forme di vita sociale e culturale e che non si sono lasciati travolgere con
l’impatto della “civiltà delle macchine”, si deve anche all’opera di molte associazioni che si
adoperano per il riconoscimento dei loro diritti. Spesso, grazie alla dotazione di strumenti
tecnologicamente avanzati, alcuni gruppi riescono a preservare il loro ambiente. È
fondamentale una collaborazione tra quanti hanno interesse allo sfruttamento dell’ambiente e
i locali, collaborazione resa a volte possibile anche con la consulenza degli antropologi. Ma
l’uso di tecnologie da parte delle culture “più deboli” del pianeta non proviene esclusivamente
dalla generosità delle culture “più forti”. Spesso sono proprio le prime a interrogarsi per far
fronte alla situazione o migliorare le relazioni con l’ambiente. Oggi alcuni popoli nativi,
soprattutto nel continente americano e in Oceania, collaborano attivamente con gli
antropologi in iniziative di recupero e conservazione della propria memoria culturale. La
ricerca antropologica prosegue mettendo al centro del proprio progetto il dialogo, sebbene in
maniera “adeguata” ai tempi, con i gruppi umani di cui si vogliono studiare la vita e la
produzione culturale.
Un nuovo contesto per il mestiere di antropologo:
Lo sfruttamento degli esseri umani è in aumento. Non solo nei paesi poveri ma anche nei paesi
occidentali e in quelli asiatici e sudamericani, sebbene alcuni di questi ultimi siano oggi in
pieno sviluppo economico.
Nuove forme di schiavitù. In molti paesi è ancora impossibile sconfiggere la malaria o il colera,
entrambi debellati in Occidente ormai un secolo fa. E le religioni, invece di essere un
messaggio di fratellanza e di pace, si trasformano in armi di confronto e di scontro, ideologico
e politico. Oggi gli antropologi si trovano, di conseguenza, a fare spesso ricerca in contesti
caratterizzati da povertà, malattie endemiche, guerre e conflitti di vario genere.
Lewis Henry Morgan:
Fu tra i primi studiosi ad avere una conoscenza diretta e sistematica delle società indiane
dell’America settentrionale. Sviluppò importanti teorie relative al modo in cui non solo questi
nativi del Nordamerica, ma tutti i popoli della Terra chiamano i loro parenti. I suoi studi hanno
sviluppato un momento decisivo per lo sviluppo della disciplina.
Quante sono le antropologie?:

Lucy Mair, “non esiste popolo che non si sia mai chiesto: come saranno fatti quelli che vivono
dall’altra parte del fiume e della collina?”. Il fatto di pensare l’umanità con le sue somiglianze e
le sue differenze, così come i rapporti che legano gli esseri umani al mondo animale e vegetale,
non è affatto una prerogativa esclusiva delle grandi civiltà storiche. I popoli “primitivi” ci sono
apparsi come dei veri e propri filosofi.
L’antropologia di cui stiamo parlando sarebbe una delle tante “antropologie”. Tale idea ha
senza dubbio il vantaggio di ricordarci che gli occidentali non detengono il monopolio sulla
riflessione del genere umano, e ha senz’altro il merito di accumulare culture e società diverse
in uno sforzo, tipicamente e universalmente umano, che consiste nel riflettere sulla nostra
natura e sulla nostra esistenza. L’antropologia di cui stiamo parlando è tuttavia un’attività di
ricerca legata a un contesto storico che ne ha reso possibile lo sviluppo; si tratta cioè di un
sapere che è andato trasformandosi nel tempo in mutazione ai cambiamenti della società
euro-americana e delle relazioni tra quest’ultima e i popoli della Terra. L’antropologia culturale
è però anche un sapere che riflette criticamente su sé stesso, sulle proprie categorie, le nozioni
e i metodi che le sono propri, nonché sui risvolti etico-politici che accompagnano la sua stessa
pratica. La visione dell’antropologia è infatti comparativa e globale perché il progetto di questo
sapere è quello di comprendere il senso dell’esperienza e della vita di un singolo popolo nel
confronto con l’esperienza e la vita di molti altri, spesso ben “al di là del fiume e della collina”.
L’antropologia è un fatto universale che accumuna tutti i popoli.
L’antropologia culturale costituisce un sapere particolare, frutto di una storia particolare e con
una sua storia
altrettanto particolare.
Gli esordi dell’antropologia in Italia:
Contemporaneo a quello delle grandi tradizioni britannica, francese e statunitense. Nella
seconda metà dell’Ottocento alcune importanti figure dell’antropologia italiana furono Paolo
Mantegazza, Tito Vignoli e Giuseppe Pitrè. Mantegazza era un convinto sostenitore
dell’evoluzionismo in campo biologico. Fu il fondatore del museo di antropologia e di etnografia
di Firenze nel 1869, e titolare della prima cattedra di antropologia nel 1871. Tito Vignoli fu
invece professore di Antropologia alla Accademia Reale di Milano e direttore del Museo di
storia naturale nella stessa città. Giuseppe Pitrè era invece un medico. La sua notevole opera di
documentazione relativa a costumi, usanze e credenze degli abitanti dell’isola fu all’origine
degli studi sul folklore meridionale. Lamberto Loria: grande viaggiatore, esploratore e
collezionista, fondò la Società italiana di etnografia nel 1910 e il Museo nazionale di arti e
tradizioni popolari di Roma nel 1911.
Capitolo 2: Oggetti e metodi dell’antropologia culturale:
È possibile definire la “cultura”?:
Non è semplice dare una definizione di “cultura”. Nel 1568 alcune navi spagnole approdarono
nell’arcipelago melanesiano, in pieno oceano Pacifico. Entrati in contatto con gli abitanti del
luogo, i marinai notarono che alcuni “selvaggi” portavano appesi al collo dei bastoni con
incastonate alle sommità delle pietre di un colore dorato. Trattandosi “evidentemente” di oro, i
marinai cercarono di procurarsi i bastoni donando agli indigeni qualcosa in cambio. Gli spagnoli
furono ben contenti del baratto poiché gli isolani, che chiamavano sé stessi Arè’ Arè,
chiedevano in cambio i loro cappelli da marinaio: segno inequivocabile, per gli europei,
dell’ingenuità di questi selvaggi. Gli spagnoli si accorsero che le pietre incastonate in cima a
quei pezzi di legno non erano oro, bensì un materiale ferroso di colore dorato, pirite. Gli Arè’
Arè desideravano i cappelli perché questi manufatti portati da un popolo temibile avevano una
forma simile ai paramenti usati dai capi locali, personaggi ricchi e potenti. Gli isolani erano
infatti convinti che possedere qualcosa che assomigliava alle insegne del potere dei loro capi
avrebbe dato loro prestigio, proprio come gli spagnoli erano convinte che avere qualcosa che
essi credevano essere oro avrebbe dato loro la ricchezza.
Quando due comunità che non si conoscono entrano per la prima volta in contatto leggono la
novità in base a “schemi mentali” già noti. Una “cultura” è un complesso di idee, di simboli, di
comportamenti e di disposizioni storicamente tramandati, acquisiti, selezionati e largamente
condivisi da un certo numero di individui, con cui questi ultimi si accostano al mondo, in senso
sia pratico sia intellettuale. Ciò che gli antropologi chiamano culture sono modi diversi in cui i
gruppi umani che condividono certe idee e certi comportamenti affrontano il mondo.
L’antropologia cerca però anche di mettere in luce quanto vi è di comune o affine tra i vari
modi in cui i diversi gruppi umani interpretano, immaginano, conoscono e
trasformano il mondo che li circonda. Tali comportamenti e idee sono espressione di
un’attitudine tipicamente umana, quella che fa dell’uomo un produttore di cultura.
Le origini del concetto antropologico di cultura:
Col tempo il termine “cultura” ha rivestito, per gli stessi antropologi, significati con sfumature
diverse. La prima definizione antropologica di cultura risale all’antropologo inglese Edward B.
Tylor, Primitive Culture del 1871. Antropologia evoluzionista. “La cultura, o civiltà, intesa nel
suo senso etnografico più ampio, è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le
credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita
dall’uomo in quanto membro della società”. Estensione del termine cultura a indicare tutte le
attività umane, fino a comprendere le manifestazioni più strane o aberranti. La cultura si
manifesta nelle singole società come cultura specifica di coloro che nascono in quella
determinata società. Tuttavia la cultura, intesa come predisposizione di particolari relazioni
umane, è un dato universale, comune all’intero genere umano. Ulf Hannerz nel 1992: “Una
cultura è una struttura di significato che viaggia su reti di comunicazione non localizzate in
singoli territori”.
Darwin e l’antropologia:
Charles Robert Darwin pubblicò nel 1859 L’origine della specie. Era giunto all’idea che le
specie viventi si trasformassero in conseguenza di due processi combinati: la selezione
naturale e la sopravvivenza del più adatto. Piccole, impercettibili variazioni casuali in alcuni
individui consentivano a questi di adattarsi all’ambiente meglio di altri, e quindi di trasmettere
alla discendenza un “vantaggio” che li avrebbe resi più adatti di altri a sopravvivere. La sua
teoria sollevò polemiche, dibattiti e scontri furibondi tra evoluzionisti (pro Darwin) e
creazionisti. Alcuni filosofi e sociologi pensarono ben presto che la teoria dell’evoluzione per
selezione e sopravvivenza del più adatto fosse trasferibile all’evoluzione della società. Si
trattava di un deliberato tentativo di giustificare le disuguaglianze sociali presenti nella
società industriale di allora, e anche di legittimare la conquista e la dominazione coloniale
allora in pieno svolgimento. Teorie antropologiche relative alla storia della cultura e della
società umana viste come risultato di una evoluzione dal semplice al complesso, dal primitivo
al barbaro e dal barbaro al civilizzato. Vennero abbandonate agli inizi del Novecento.
La cultura e la sua “natura”:
Alla nascita il genoma di un essere umano non contiene le informazioni necessarie per fargli
adottare automaticamente determinati comportamenti che sono invece indispensabili per
poter far fronte al mondo circostante. Contrariamente agli animali, l’uomo nasce “nudo”, e
non solo nel senso letterale del termine. Aristotele lo aveva già fatto presente: l’uomo nasce
incompleto. Tra tutti gli animali che popolano il nostro pianeta, l’uomo è quello che, dal
momento in cui nasce, ha bisogno per più tempo delle cure, delle attenzioni e dell’assistenza
dei propri simili adulti. Jean Piaget stabilì che il processo di formazione di tali facoltà non
giunge a compimento prima dei quindici anni. Il nostro codice genetico ci predispone a
compiere una serie di operazioni che sono infinitamente più complesse di quelle effettuabili
da qualsiasi altro animale, ma non ci indica quali operazioni dobbiamo compiere. Dipenderà
da ciò che ci è stato insegnato dal gruppo in cui siamo cresciuti. E ciò che il nostro gruppo sa e
ci insegna è a sua volta frutto di una lunga storia di relazioni con l’ambiente e, al tempo
stesso, di interazioni tra esseri umani. Il fatto che negli umani i comportamenti e le immagini
del mondo non siano geneticamente programmati non significa tuttavia che, venendo al
mondo, gli uomini siano totalmente liberi di scegliere, per esempio, di parlare una lingua
piuttosto che un’altra. Al contrario, nei pensieri come negli atti, gli esseri umani sono
determinati, dal momento che, per vivere in mezzo ai loro simili, devono adottare codici di
comportamento sia pratico sia mentale che siano riconoscibili e quindi condivisi da altri. Dire
che gli esseri umani sono determinati nelle loro scelte “culturali” non esclude però che nel
corso della loro vita essi elaborino, come di fatto accade sempre, le proprie preferenze o le
proprie idiosincrasie: non a tutti piacerà ad esempio lo stesso cibo, così come non tutti
mostreranno le stesse inclinazioni in materia religiosa, estetica o sessuale. La loro “cultura” è
poi, in definitiva, il complesso dei codici comportamentali e ideazionali riconoscibili dal gruppo
nel quale gli esseri umani vengono al mondo e nel quale sono educati. Questo progetto dura
tutta la vita.
La cultura come complesso di modelli:
Noi non ci rendiamo bene conto di come “funzioniamo” dal punto di vista culturale perché le
nostre azioni quotidiane e i nostri pensieri ci sembrano parte di un modo ovvio di comportarci,
di pensare, di sentire, di esistere. Ma noi ci comportiamo, pensiamo e sentiamo in un modo
piuttosto che in un altro perché seguiamo determinati modelli di comportamento e di pensiero
e non altri. Questi modelli possono essere qualificati come modelli per, cioè come modelli-guida
per il comportamento e per il pensiero in contesti “culturali” diversi. Tuttavia non esistono solo
modelli per fare qualcosa, esistono anche modelli di qualcosa, o meglio, i modelli per sono
anche modelli di. Senza modelli culturali per e di gli umani non sarebbero quello che sono.
Il ragazzo selvaggio dell’Aveyron:
I casi di esseri umani abbandonati subito dopo la nascita e ritrovati ancora vivi dopo alcuni
anni sono rarissimi proprio per l’estrema difficoltà che, una volta nati, gli individui della nostra
specie hanno di sopravvivere senza essere accuditi dagli adulti. “Ragazzo selvaggio
dell’Aveyron”, Francia centro- meridionale nel 1800. Privo di parola, nudo, e incapace di
camminare correttamente sulle gambe, questo “ragazzo” di età tra gli undici e i dodici anni si
nutriva di radici e frutti selvatici quando venne trovato e catturato da alcuni contadini ai
margini di una fattoria a cui si era avvicinato in cerca di cibo. Venne preso in cura da Jean
Itard. Itard accolse il ragazzo nella sua casa, gli diede un nome, Victor, e per ben cinque anni
cercò di farlo diventare un “normale ragazzo di Parigi”. Victor non imparò mai a parlare, né a
connettere in sequenze logiche gli elementi che venivano sottoposti alla sua attenzione.
L’ipotesi più probabile è che egli non avesse ricevuto assistenza dai propri simili adulti nei
primi tre anni di vita. Victor morì, “selvaggio”, nel 1828.
La cultura è operativa:
Grazie ai modelli (culturali) di cui dispongono, gli esseri umani si accostano al mondo in senso
pratico e intellettuale. Senza di essi non potrebbero pensare, agire, in pratica sopravvivere.
Alcuni antropologi, tra cui Bronislaw Malinowski, hanno visto nella cultura un complesso
sistema per far fronte alle sfide dell’ambiente e della vita associata. Tra l’impulso a soddisfare
un impulso primario e la sua soddisfazione gli esseri umani mettono la cultura. La cultura è
“operativa”, poiché mette l’essere umano nella condizione di agire in relazione ai propri
obiettivi, adattandosi sia all’ambiente naturale sia a quello sociale e culturale che lo circonda.
È come se fossimo predisposti operativamente ad affrontare il mondo fisico e il mondo
morale che ci circonda. Tale predisposizione deriva dall’assimilazione di modelli culturali e
corrisponde a ciò che il sociologo francese Pierre Bourdieu ha chiamato habitus. “È un sistema
durevole di disposizioni” sia fisiche che intellettuali, le quali sono il risultato di interiorizzazioni
di modelli di comportamento e di pensiero elaborati dalla cultura nella quale viviamo in
risposta all’ambiente fisico, sociale e culturale che ci circonda.
Selettività della cultura:
La cultura è un complesso di modelli tramandati, acquisiti ma anche selezionati. Agisce
sempre un principio di selezione. Si esercita tanto al fine di accogliere quegli elementi
culturali che si accordano con i modelli in vigore, quanto allo scopo di bloccare l’eventuale
intrusione di modelli incompatibili con quelli in atto.
Tramite la messa in atto di processi selettivi, le culture rivelano il loro carattere di sistemi
aperti e chiusi al tempo stesso. Non esistono situazioni di chiusura o di apertura totali. In
molti casi però, come hanno potuto sperimentare le popolazioni vittime del colonialismo,
alcuni modelli sono stati imposti con la violenza, con un danno irreparabile per la cultura di
coloro che li hanno subiti.
Dinamicità della cultura:
I processi di selezione tipici di tutte le culture lasciano intendere che queste ultime non sono
delle entità statiche, fisse, ma piuttosto dei complessi di idee e comportamenti che cambiano
nel tempo. Sono prodotti storici, cioè il risultato di incontri, cessioni, prestiti e selezioni. Esiste
quella che l’antropologo francese Georges Balandier chiamò “dialettica della dinamica interna
e della dinamica esterna”, intendendo dire, con questa espressione, che le culture si
trasformano tanto secondo logiche proprie, quanto in relazione agli elementi di provenienza
esterna con cui esse entrano in contatto. Tutte le culture hanno una storia, alla cui origine vi è
l’impossibilità, per ognuna, di rimanere identica a sé stessa. Questo fatto è particolarmente
evidente oggi, in un’epoca di grande diffusione di tecnologie e di mezzi di comunicazione oltre
che di grandi spostamenti di popolazioni.
L’evoluzione della cultura:

Molti antropologi dell’Ottocento, definiti evoluzionisti, ritenevano che la cultura umana fosse
sottoposta a processi di tipo cumulativo e migliorativo a cui davano il nome di evoluzione.
Sostenitori di un’idea di “progresso”. Oggi gli antropologi non parlano volentieri di evoluzione
della cultura, proprio perché questa espressione rinvia a un clima storico e ideologico in cui
diventò molto facile guardare gli altri dall’alto in basso e considerarli copie imperfette (cioè
non evolute) di quel che erano gli europei nel secolo XIX. Essi cercano di porsi il problema di
come le innovazioni culturali “utili” vengano mantenute a discapito di quelle “inutili”.
La cultura è differenziata e stratificata:
Siamo portati ad avere un’immagine omogenea della cultura in questione. In realtà sappiamo
bene che anche all’interno di una comunità esistono tanti modi diversi di percepire il mondo,
di rapportarsi agli altri e di esprimersi, di comportarsi in pubblico. Esse hanno spesso a che
vedere con il potere, la ricchezza, la posizione sociale, l’istruzione; ma anche con le
convinzioni, religiose o politiche che siano. Solo in poche realtà tali differenze erano o sono
scarsamente accentuate. In passato queste differenze di cultura o “dislivelli interni” di cultura
erano però assai più evidenti, al punto che si parlava di cultura colta e di cultura popolare: la
prima era identificata con la scienza, le arti e le lettere, mentre la seconda era quella dei
rituali e delle
feste paesane, delle credenze nei fantasmi e nelle streghe, del culto delle reliquie e di tutto
quanto era ritenuto appartenente alla sfera della superstizione. Spesso sono gli interessi, e
quindi la cultura, dei soggetti socialmente più forti a prevalere. Antonio Gramsci coniò le
espressioni “cultura egemonica” e “cultura subalterna”, la prima a indicare la cultura dei ceti
dominanti, e la seconda quella dei ceti subordinati. Roger Keesing: quando studiamo le
rappresentazioni e i comportamenti dei soggetti appartenenti a una certa cultura, dobbiamo
avere presente che le rappresentazioni e i comportamenti che ci vengono presentati come
ovvi e naturali, ossia come tipici di quella cultura, sono di fatto le idee e i comportamenti di
coloro che sono socialmente prevalenti. “Controllo” culturale. Quando studiamo una cultura
dobbiamo tenere conto del modo in cui avviene la “distribuzione” della cultura.
Comunicazione e creatività:
La cultura esiste nella capacità che gli esseri umani hanno di trasmettersi dei messaggi, cioè di
comunicare. La dimensione comunicativa è centrale in qualunque processo di tipo culturale.
Per esistere come entità operative, i modelli devono essere largamente condivisi dai
componenti di un gruppo. Essi devono cioè essere riconoscibili da tutti, e quindi comunicabili.
Devono essere riconosciuti come facenti parte di un sistema di segni condiviso. Se la cultura
esiste come insieme di “segni” riconoscibili, ciò non significa che tali segni costituiscano un
repertorio fisso e ripetibile all’infinto. I segni possono essere combinati secondo sequenze
riconoscibili ma innovative, capaci cioè di creare nuovi significati. Natura creativa della
cultura che ha riscontro in due caratteristiche del linguaggio umano: l’universalità semantica
e la produttività infinita. Universalità semantica: tutte le lingue sono in grado di informazioni
relative a eventi, qualità di cose, luoghi del presente, del passato e del futuro, vicini e lontani,
reali e immaginari: questa capacità manca ai linguaggi animali. Collocare le azioni e gli eventi
nel tempo e nello spazio. Produttività infinita: data una proposizione nulla ci dice su che cosa
potrà seguire ad essa. Esiste però un altro tipo di creatività culturale. Essa consiste nella
creazione di nuovi significati che mostri il nostro modo di intendere le cose, rappresentare il
mondo o di manipolare e modificare il mondo naturale e sociale circostante. Una cultura
“controlla” sempre la creatività degli attori sociali, nel senso che mette ad essa un freno.

Limite quando una società non è in grado di cogliere l’innovazione. Il successo della creatività,
nella cultura, sta nel dire parole, immaginare situazioni o immaginare cose che si allontanano
da ciò che una cultura già conosce, ma che non diventino per questo irriconoscibili o
inutilizzabili dai componenti della società nella quale tale creatività si manifesta.
La cultura è olistica:
I modelli interagiscono sempre con altri modelli, ed è la loro capacità di coniugarsi in un
insieme complesso più o meno coerente che dà vita a quel qualcosa che noi chiamiamo
“cultura”. Questo interagire dei modelli tra loro dà infatti luogo a un complesso integrato. Si
dice che la cultura è un’entità olistica (dal greco òlos,“intero”), cioè complessa e integrata,
formata da elementi che stanno in un rapporto di interdipendenza reciproca, anche se ciò
non significa affatto che una cultura sia “chiusa” o “isolata”. Si affermò solo negli anni a
cavallo della Prima guerra mondiale. Secondo certi antropologi alcune culture sarebbero “più
olistiche” di altre, nel senso che i loro elementi costitutivi sarebbero pensati, dai loro stessi
componenti, in un rapporto di integrazione maggiore rispetto a quanto avviene in altre
società. Noi europei stentiamo un po’ a renderci conto di come le culture siano olistiche, non
solo perché come dice Dumont siamo abituati a
pensare gli individui come autonomi e liberi sul piano giuridico, morale eccetera, ma anche
perché nella nostra storia recente abbiamo imparato a distinguere la politica dalla
religione, la vita privata da quella pubblica, il mondo dei vivi da quello dei morti. Per molte
società le distinzioni tipiche della società occidentale non valgono, o almeno non valgono
nella stessa misura.
Cultura animale:
Non è del tutto esatto dire che il comportamento animale si basa sempre e soltanto sull’istinto e
quello umano sulla cultura. Anche gli umani sono sollecitati da fattori di tipo istintivo, sebbene
tali istinti siano sempre “culturalmente guidati”. Se per cultura si intende una forma di
comportamento appreso, cioè elaborato a partire da un’esperienza e poi trasmesso da alcuni
individui ad altri, non c’è dubbio che certe specie di mammiferi e uccelli danno prova
dell’esistenza, presso di loro, di forme elementari di cultura. Gli esseri umani hanno però
l’enorme vantaggio di avere un linguaggio articolato che è in grado di esprimere sfumature
infinitamente variegate di luogo, tempo e significato.
Esistono i confini di una cultura?:
Le culture non hanno confini netti, precisi, identificabili con sicurezza. Hanno dei nuclei forti
che le distinguono da alcune ma che, al tempo steso, le assimilano ad altre. Però, se ci
allontaniamo da questi nuclei forti, le cose tendono sempre più a confondersi e le differenze
finiscono per sbiadire o per intrecciarsi. Le culture sono aperte e chiuse, sono selettive e
comunicative, dinamiche e differenziate al proprio interno; sono creative e prodotto di
processi storici di incontri, scambi e prestiti. Ciò che noi chiamiamo “cultura” non è
concepibile come un sistema di modelli totalmente coerente e integrato in riferimento ai quali
gli individui si comportano e pensano in maniera meccanica. Nella seconda metà del
Novecento si è messo in atto un intenso processo di incroci e di mutuo arricchimento e di
“inseminazione” tra forme culturali precedentemente separate.
La ricerca antropologica:
Il fatto di riconoscere il carattere olistico della cultura non ci obbliga tuttavia a riconoscerla
nella sua “totalità”, ma piuttosto a studiarla adottando una prospettiva che ci predispone a
stabilire collegamenti tra i vari aspetti della vita di coloro che vivono quella cultura stessa.
L’approccio olistico allo studio dei fenomeni culturali nasce dalla consapevolezza dell’estrema
interdipendenza esistente tra questi stessi fenomeni. Gli antropologi studiano di solito
determinati aspetti di una cultura. Qualunque sia l’oggetto privilegiato di indagine degli
antropologi, questi ultimi sono costretti a considerare un fenomeno in relazione a tutti gli altri,
o per lo meno a molti altri. Inoltre, essi devono estendere la loro ricerca al di là della
dimensione “locale”.
Pratica della ricerca. “Ricerca sul campo” o “etnografia”.

L’etnografia e la raccolta dei “dati”:

L’etnografia segna l’incontro con realtà culturali diverse da quelle dell’antropologo, e


rappresenta lo studio di tali realtà mediante l’adozione di prospettive e tecniche particolari. Il
principale compito dell’antropologo “sul campo” è quello di “raccogliere dati” utili alla
conoscenza della cultura che si vuole studiare. Gran parte dei dati che acquisisce durante la
ricerca sono frutto dell’osservazione e dell’ascolto che l’antropologo riesce a esercitare
riguardo ai comportamenti e alle parole della gente in mezzo alla quale compie le sue
ricerche. A partire dal confronto tra ciò che dicono e ciò che fanno le persone, il ricercatore
può stabilire che cosa realmente accade in una società e quanto di ciò che accade realmente
sia in conflitto con ciò che le persone pensano o dicono di pensare su un certo argomento. La
ricerca antropologica si avvale del metodo dell’intervista, di registrazioni audiovisive, della
campionatura di esemplari di ogni tipo e altro ancora. Ciò che distingue l’antropologia da altri
saperi di confine è il fatto che gli antropologi trascorrono molto tempo con le persone sulle
quali compiono ricerche, e soprattutto il modo in cui essi trascorrono questo tempo. Per
quanto possibile, una ricerca etnografica comporta che l’antropologo viva a stretto
contatto con i soggetti della sua ricerca, condivida il più possibile il loro stile di vita,
comunichi nella loro lingua o in una lingua conosciuta da entrambi, e che prenda parte alle
loro attività quotidiane. “Osservazione partecipante”.
L’osservazione partecipante:
Vivendo per periodi di tempo relativamente lunghi a contatto coi propri ospiti, l’antropologo
entra pian piano nel loro mondo: comincia a percepire il significato di gesti che prima non
comprendeva, inizia a cogliere il significato di una battuta di spirito, a capire quando si può
parlare, a chi e in che modo. Comincia a vedere il mondo dal loro punto di vista, a capire come
i suoi ospiti vedono sé stessi nel loro mondo. Comincia a “mettersi nei loro panni”. Tutto
questo non significa che l’antropologo deve diventare come i suoi ospiti.
Significa soltanto che ha imparato a “stare dentro” a una “forma di vita”. Cominciamo a
conoscere una cultura solo quando cominciamo a usare i suoi modelli. Il fatto che
l’antropologo “entri” pian piano in un mondo diverso da quello a lui noto, non significa che
egli non possa, in qualunque momento, far ritorno mentalmente al proprio mondo. Questo
andare e venire è essenziale per la ricerca antropologica, perché permette di considerare con
distacco ciò che pian piano si impara della cultura che si sta studiano. Essa è qualcosa che
permette di considerare con un certo distacco (osservazione) l’esperienza condivisa
dall’antropologo con gli appartenenti a una cultura diversa dalla sua (partecipazione).
Gli sviluppi dell’etnografia:
L’etnografia, intesa come lavoro sul campo prolungato di uno studioso che vive a contatto
con individui di una cultura diversa dalla propria, si consolidò tra la fine dell’Ottocento e gli
anni a cavallo della Prima guerra mondiale. In precedenza gli antropologi erano soprattutto
dei teorici puri che si avvalevano dei dati trasmessi loro dai cosiddetti “corrispondenti”, ossia
militari, commercianti. Anche quelli che avevano avuto esperienza di ricerca tra popolazioni
non occidentali avevano soggiornato presso di esse per periodi assai brevi e senza adottare
quel particolare stile di approccio definito “osservazione partecipante”. Chi definì lo stile
antropologico della ricerca sul campo fu l’antropologo Malinowski che visse circa due anni su
alcune isole della Melanesia: le isole Trobriand. William H. Rivers, Franz Boas, Maurice
Hocart: questi studiosi furono i primi a coniugare teoria e ricerca sul campo, dando vita alla
figura del moderno antropologo.
Centralità dell’etnografia per l’antropologia:
L’elemento partecipativo comporta una condivisione di esperienze e di situazioni che non
possono ridurre l’etnografia ad una semplice “registrazione di dati”. Per gli antropologi fare
etnografia non significa solo osservare, registrare, classificare comportamenti e punto di vista
per poi procedere all’elaborazione di modelli formali o quantitativi. Per gli antropologi “fare
etnografia” significa anche, e soprattutto, scoprire, dietro i comportamenti e idee, altri
comportamenti e altre idee connessi con i primi e che costituiscano una loro possibile
spiegazione. Quando l’antropologo sceglie come significativi per il proprio lavoro certi dati
mentre ne scarta altri, egli sta già in qualche modo interpretando i dati, li sta costruendo in
funzione di ciò che ha in mente. Quando pensiamo di raccogliere dei dati, noi stiamo in realtà
“interpretando delle interpretazioni”. Questo perché tutto ciò che dicono gli interlocutori
dell’antropologo è un modo di interpretare un certo fenomeno. Intesa invece come un’attività
di interpretazione, l’etnografia è parte costitutiva e organica dell’antropologia: non solo
perché offre alla teoria materia di riflessione, ma anche perché dà forma allo stesso stile di
ragionamento dell’antropologia. L’antropologia è un sapere che sta sulla frontiera. Sta cioè
sulla linea d’incontro tra modi di pensare caratteristici di culture diverse. Il compito
dell’antropologia è quello allora di “gettare un ponte” tra queste culture. La ricerca
etnografica comporta una serie di problemi etici e politici non trascurabili. Faticosa
“negoziazione” del ruolo dell’antropologo con soggetti, politici e non, di varia natura. Sapere
che si fonda sullo studio di contesti socio-culturali specifici e, soprattutto, un sapere basato su
esperienze dirette in contesti culturali diversi dal proprio.
Capitolo tre: le caratteristiche fondamentali del ragionamento antropologico:
“Pensare antropologicamente” è qualcosa che si può fare solo se si possiedono delle
competenze che fanno riferimento alla tradizione degli studi antropologici. Tali competenze
sono radicate da un lato nell’esperienza etnografica, cioè nella ricerca sul campo, mentre
dall’altro sono quelle acquisite mediante lo studio, la discussione e l’applicazione di ipotesi e
teorie che, per quanto in contrasto o in competizione tra loro, fanno capo a un certo numero di
assunti fondamentali. Questi assunti fondamentali caratterizzano lo stile di pensiero proprio
dell’antropologia.
La prospettiva olistica:
Importanza della dimensione olistica per la concezione che si ha della cultura e, al tempo
stesso, della ricerca sul campo. La prospettiva olistica ha indotto gli antropologi per lungo
tempo a privilegiare lo studio di comunità di piccole dimensioni, dove l’interconnessione tra i
differenti aspetti della vita sociale e culturale può essere colta meglio che altrove. La
prospettiva olistica rimane però centrale, in quanto strettamente legata alla problematica del
contesto.
La problematica del contesto:
I dati individuati, selezionati e raccolti nel corso delle diverse ricerche etnografiche devono
essere considerati in relazione al contesto di provenienza. Ma non è sempre stato così; lo stile
comparativo dei primi antropologi consisteva quasi sempre nel mettere a confronto tra loro
fenomeni provenienti da luoghi e popoli lontani nel tempo e nello spazio, senza che ci si
chiedesse quale senso essi rivestissero nel contesto di origine. Fu solo con l’affermazione
esplicita della prospettiva olistica che divenne chiaro come fosse arbitrario decontestualizzare
i fenomeni a scopo compartivo. Il ricercatore è obbligato a considerare ogni aspetto della
cultura in relazione ad altri aspetti di essa, cioè a definire il contesto in cui si collocano i
fenomeni da lui presi in considerazione. Il contesto dell’analisi culturale deve essere sempre
definito in relazione ai soggetti di cui si vuole esporre il punto di vista. Consente anche di
collegarsi ad altri contesti e ad altri fenomeni.
Lo sguardo universalista e antietnocentrico:
Fin dalle sue origini l’antropologia si è presentata come un sapere universalista, nel senso che
considera tutte le forme di produzione culturale e di vita associata degne di attenzione e utili
alla conoscenza del genere umano nel suo complesso. Un’impresa etnografica generalizzata,
consistente nello studio sul campo, diretto e partecipativo, delle più disparate comunità.
L’universalismo antropologico si oppone alle tendenze etnocentriche che si manifestano in
tutte le culture. L’etnocentrismo, cioè la tendenza istintiva e irrazionale (spesso sfociante nel
razzismo) che consiste nel ritenere i propri comportamenti e i propri valori migliori di quelli
degli altri, è un dato che accumuna senza distinzione tutti i popoli della Terra. Nemmeno
l’antropologia è del tutto libera dall’etnocentrismo, nel senso che spesso anche gli antropologi
interpretano la vita degli altri popoli attraverso il filtro delle proprie categorie culturali.
Lo stile comparativo:
Ai suoi esordi l’antropologia si prefiggeva di giungere alla scoperta delle leggi che segnano la
trasformazione della cultura e della società, dalle forme più semplici fino a quelle più
complesse. A tale scopo gli antropologi adottarono in maniera sistematica un procedimento:
confrontare fenomeni diversi per ricavare delle costanti. All’inizio il loro modo di procedere
era piuttosto semplice, per non dire approssimativo. Si trattava di un metodo illustrativo di
tesi la cui validità era spesso data per scontata in partenza. Nel corso del secolo XX gli
antropologi hanno progressivamente abbandonato questo programma comparativo. Sono
venuti così emergendo due principali stili comparativi. Il primo si esercita su società e culture
che sono storicamente interrelate o geograficamente vicine. Il vantaggio di questo metodo è
la precisione descrittiva, mentre il suo limite è che non consente grandi generalizzazioni. Il
secondo stile comparativo prende invece in considerazione società prive di legami storici
reciproci e cerca, attraverso l’accostamento di fenomeni simili per forma e struttura, di
pervenire all’elaborazione di tipologie e conclusioni più ampie di quanto non faccia il primo
stile comparativo. I limiti di questo secondo stile sono la mancanza di precisione e il rischio,
sempre presente, di generalizzazioni indebite. Il suo vantaggio consiste invece nel fatto di
offrire ampie e sintetiche visioni dei fenomeni considerati. Ultimamente tuttavia è prevalsa la
tendenza a effettuare comparazioni soprattutto per elaborare nozioni capaci di descrivere in
maniera unitaria, anche se provvisoria, atteggiamenti e comportamenti rilevanti dal punto di
vista della disciplina.
L’ispirazione dialogica e il compito della traduzione:
Gli antropologi per poter raggiungere una qualche conoscenza delle comunità alle quali si
accostano, devono prestare un’attenzione particolare al modo di esprimersi di coloro che di tali
comunità fanno parte.
L’antropologia deve praticare una “cultura dell’ascolto”, un atteggiamento intellettuale che
mette in
condizione l’antropologo di intendere la voce degli altri. Dà rilievo al fatto che anche gli altri
sono produttori di significati, di valori, di senso, tutti aspetti che non sarebbe possibile
cogliere se gli antropologi non prestassero orecchio alle loro parole. Il carattere dialogico è
rilevante in quanto consente a due universi culturali più o meno distanti tra loro di trovare
uno spazio di incontro comune. Per comunicare bisogna pur trovare qualche punto di
riferimento condiviso. La ricerca di un punto di riferimento comune non si scontra solo con il
problema costituito dalle diversità linguistiche, ma anche e soprattutto con il senso che le
parole rivestono all’interno di codici culturali diversi. Dedicarsi a un lavoro di traduzione. Non
ci si riferisce soltanto a un processo di tipo linguistico ma anche, e soprattutto, a una
traduzione di tipo concettuale. Sul piano etico l’atteggiamento improntato all’ascolto è di
grande rilievo poiché molte comunità del mondo contemporaneo non hanno la possibilità di
fare intendere la loro voce se non attraverso alcuni individui che, soggiornando tra loro per
periodi abbastanza lunghi, vengono a conoscenza dei loro problemi, delle loro frustrazioni,
delle loro speranze.
L’inclinazione critica e l’approccio relativista:
L’antropologia è nata in un contesto storico di dominio che tuttavia ha consentito di entrare
in una relazione di dialogo con le popolazioni delle terre controllate dalle potenze coloniali.
Opponendosi intellettualmente alla pressione esercitata su queste popolazioni dai governi
coloniali prima, e da quelli postcoloniali in seguito, l’antropologia ha esercitato una potente
funzione critica nei confronti di quegli atteggiamenti di sopraffazione e di sottovalutazione
delle culture più deboli messi in atto dai gruppi di interesse più disparati. L’antropologia
tuttavia non mira a preservare le culture in un’astratta autenticità. La funzione critica
dell’antropologia consiste nell’individuare le trasformazioni delle culture nei contesti storici
che le hanno poste in contatto con le forze del colonialismo e che oggi le espongono a quelle
della globalizzazione.
L’antropologia è un sapere critico anche nei confronti di sé stesso. 1955, in Tristi tropici Claude
Lèvi-Strauss sostenne che l’antropologo tende ad essere critico a casa propria e conformista in
casa d’altri. Intendeva dire che l’antropologo, mentre è disposto ad essere severo verso i
costumi della propria società, mostrandone i limiti, gli aspetti ridicoli o disumani, quando si
trova di fronte ai costumi degli altri, tende invece ad accettarli come dati di fatto e molto
spesso anche a sorvolare su quelli che, se fossero presenti nella sua cultura, egli
condannerebbe, o addirittura combatterebbe. Relativismo culturale: atteggiamento che
consiste nel ritenere che comportamenti e valori, per poter essere compresi, debbano essere
considerati all’interno del contesto complessivo entro cui prendono vita e forma.
L’antropologia è “relativista”. Volontà, da parte dell’antropologia, di mostrare come possano
esistere forme di vita culturali che, pur diverse da quelle occidentali, sono nondimeno dotate
di senso. Il relativismo culturale, tuttavia, non deve essere inteso come un abile trucco per
giustificare tutto e tutti. Il relativismo va inteso come un atteggiamento intellettuale che mira
a comprendere, dove comprendere non significa giustificare, ma collocare il senso delle cose
al posto giusto, nel loro contesto. Lo scopo del relativismo è quello di “trovare modi difendibili
per far posto alla diversità”.
Un sapere con molti paradigmi:
Le scienze funzionano “per paradigmi”. Paradigma è una parola che viene dal greco
paràdeigma, che significa qualcosa come “idea”, “modello”, “punto di riferimento”, il quale ci
serve per effettuare confronti e per poter ragionare e agire secondo procedure stabilite dal
paradigma medesimo. Da questo punto di vista gli stessi modelli culturali potrebbero essere
considerati dei paradigmi. I paradigmi scientifici sono gli assunti di riferimento in base ai quali
gli scienziati fanno ricerca. Anche le scienze umane hanno i loro paradigmi. In antropologia
vari paradigmi si sono succeduti nel corso degli ultimi centocinquanta anni. Tuttavia,
diversamente da quanto accade nelle scienze fisiche, chimiche e naturali, dove l’ultimo
paradigma prevale in maniera totale su quello precedente, che viene abbandonato, in
antropologia più paradigmi possono costituire contemporaneamente i punti di riferimento per
gli studiosi di questa disciplina. Natura non completamente cumulativa del sapere
antropologico. Affinamento dei dibattiti e della precisione con cui gli antropologi “cercano di
ampliare il discorso sugli esseri umani”. Si può dire che l’antropologia sia un sapere pluri (o
multi-) paradigmatico. Ciò è una conseguenza del fatto che l’antropologia è un sapere radicato
nell’esperienza etnografica.
Il versante applicativo:
Sin dagli inizi l’antropologia si presentò come un sapere dai risvolti applicativi. Alla fine del
Settecento si riteneva che lo studio dell’uomo avrebbe potuto rappresentare uno strumento
utile per la costruzione di una società migliore. Nella seconda metà dell’ottocento
l’antropologia fu considerata uno strumento per “riformare” la società, eliminando le sacche
di pregiudizio, superstizione e ignoranza. Nello stesso tempo fu però concepita dai governi
europei come uno strumento per meglio conoscere i popoli delle colonie, e quindi per meglio
controllarli. Negli Stati Uniti l’antropologia si impegnò, con finalità non molto diverse, ma in
una situazione diversa, nello studio degli indiani delle riserve ma fu anche in prima linea nella
lotta contro il pregiudizio razzista. Tra la fine dell’Ottocento e per tutta la prima metà del
Novecento furono condotte molte importanti ricerche sui popoli dell’Africa, dell’Asia,
dell’America meridionale e dell’Oceania. Verso la metà del Novecento l’antropologia ha poi
vissuto una lunga stagione di dibattiti interni, mirati a stabilire quanta parte la disciplina
avesse avuto nel stabilire l’impresa coloniale. L’antropologia non può “chiamarsi fuori” dalla
vicenda coloniale. Dalla seconda metà del Novecento in avanti gli antropologi sono stati
spesso implicati in progetti di sviluppo di varia natura: economici, educativi, sanitari. In alcuni
paesi, come gli Stati Uniti, la Francia o la Gran Bretagna, gli antropologi lavorano ormai da
molto tempo in strutture e servizi, prestando la loro opera di consulenza tra gli immigrati in
materia sanitaria. Anche in Italia la presenza di antropologi in questo tipo di servizi si va
diffondendo, pur tra molte difficoltà e resistenze. Nonostante questi approcci pratici e
applicativi, l’antropologia culturale resta un sapere accademico-applicativo. Un dovere degli
antropologi è però quello di far sì che le conoscenze da loro stessi elaborate non vengano
usate per dominare, opprimere, discriminare, sfruttare parti di umanità. L’antropologia,
proprio perché abituata al confronto con la diversità dei costumi, deve usare gli strumenti
metodologici che ha sviluppato in tale confronto per impegnarsi sul piano etico, denunciando
tutte le situazioni in cui tutti gli esseri umani sono sfruttati, oppressi e discriminati in nome
della presunta “superiorità” di altri. Ma il compito dell’antropologia resta fondamentalmente
quello di riflettere sulle differenze e le somiglianze culturali che fanno dell’essere umano, il
rappresentante di un’unica specie.
L’antropologia razzista:
L’antropologia non è andata esente da inclinazioni di tipo marcatamente etnocentrico e
razzista. Molti studiosi dell’epoca inclinavano per un’influenza della “razza” sulla cultura. In
America, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento gli antropologi
ingaggiarono una vera e propria battaglia antirazzista, e in generale fecero la stessa cosi i
britannici e i francesi, spesso in aperta contrapposizione con le idee dominanti nell’ambiente
delle rispettive amministrazioni coloniali. Ma quando gli antropologi accademici si trovarono
ad operare, negli anni 1930-1940, in paesi come l’Italia e la Germania retti da regimi autoritari
come il fascismo e il nazismo, alcuni di loro, per opportunità o per necessità, si ritrovarono ad
elaborare tesi che, sebbene prive di fondamento, divennero le teorie antropologiche ufficiali
dei regimi in questione. In Italia alcuni antropologi stilarono, su indicazione del regime
fascista, il celebre Manifesto della razza, base per le leggi discriminatorie del 1938 rivolte
soprattutto contro ebrei, zingari e popolazioni delle colonie. In Germania altri antropologi
contribuirono alla teoria dell’ “inferiorità” degli ebrei, degli zingari, degli omosessuali e in
genere di tutti i popoli non germanici. Altri ancora, in Francia, collaborarono con i nazisti negli
anni dell’occupazione.
La riflessività e il decentramento dello sguardo:
Disciplina riflessiva. L’incontro con soggetti appartenenti a culture diverse dalla propria
consente agli antropologi di esplorare la propria cultura. L’incontro con l’alterità produce
sempre, in chi lo sperimenta, un tentativo di comprensione che induce a riflettere su sé stessi e
sul modo di agire del proprio gruppo.
L’antropologia applica la dimensione riflessiva ma non per fare dell’incontro con le altre
culture un’esperienza “personale”, bensì una vicenda produttiva sul piano della conoscenza e
che possa essere messa a disposizione di un vasto pubblico. Nel 1949 Clyde Kluckhohn parlò
dell’antropologia come di uno “specchio” in cui gli esseri umani potevano riflettersi. È
osservando le caratteristiche positive delle altre culture che noi possiamo apprezzare le
caratteristiche positive della nostra, così come è attraverso la conoscenza dei limiti delle altre
culture che possiamo più facilmente prendere coscienza dei limiti della nostra. Dobbiamo
insomma “decentrare” il nostro sguardo, cercare di osservare noi stessi attraverso lo sguardo
degli altri. Vedere sé stessi attraverso gli altri, o “vedere noi stessi come gli altri ci vedono”.
Parte seconda: Unità e varietà del genere umano:
Capitolo 1: “Razze”, geni, lingue e culture:
Apparentemente diversi ma del tutto simili:
Non può non colpire la grande varietà che caratterizza l’umanità attuale. Tale varietà si
manifesta a più livelli. Da un punto di vista fisico gli esseri umani si differenziano per la
statura, il colore della pelle e degli occhi, per la forma di questi ultimi, nonché per quella dei
capelli e dei tratti facciali. A livello linguistico la varietà si esprime in almeno cinquemila lingue
oggi parlate nel mondo e in un numero infinitamente superiore di “dialetti”. Sul piano
culturale, infine, esiste una grande varietà di comportamenti e di idee che contraddistingue
persino quanti condividono gli stessi modelli culturali. A fronte di questa grande varietà del
genere umano possiamo costatare però elementi di forte unità. I gruppi umani fanno tutti
parte di un’unica specie. Nella seconda metà dell’Ottocento gli antropologi culturali
dimostrarono che gli esseri umani sono tali proprio perché sono tutti produttori di cultura e,
all’incirca nello stesso periodo, i linguisti giunsero alla conclusione che le lingue parlate dalle
diverse popolazioni della Terra possiedono, al di là delle enormi differenze che le
contraddistinguono, strutture grammaticali paragonabili dal punto di vista della complessità.
Per lungo tempo l’aspetto degli esseri umani ha costituito il principale fattore di
riconoscimento della differenza. In varie epoche storiche le differenze fisiche di supporto a
ideologie e pratiche di discriminazione. Il razzismo ha preteso di stabilire un nesso causale tra
aspetto fisico e cultura, e di giustificare, sulla base delle differenze somatiche, la dominazione
di alcuni gruppi su altri. Questo e altri atteggiamenti analoghi presero particolarmente piede
nell’Europa dell’Ottocento. Il razzismo, un atteggiamento di autocelebrazione della propria
superiorità da un lato e di disprezzo per coloro che sono ritenuti inferiori dall’altro, ruota
intorno alla nozione di razza. Gli studiosi tuttavia hanno dimostrato che non si può parlare di
razze umane come nel caso dei cani e dei cavalli. Il razzismo consiste infatti, molto spesso, in
un atteggiamento istintivo di rifiuto e di chiusura di fronte alla diversità. La “razza” è
innanzitutto una costruzione culturale. Non è possibile tracciare distinzioni nette tra gruppi
umani basandosi sulle caratteristiche somatiche degli individui. La nozione di “razza” oltre a
costituire un prodotto del senso comune, rappresenta un veicolo di stereotipi diffusi e
persistenti in base ai quali lo stesso senso comune opera distinzioni che sono quasi sempre
connesse a pregiudizi, xenofobia, interessi politici e problemi sociali. L’unico tipo di analisi
scientificamente valida sulle differenze tra gruppi umani è quella che si fonda sull’esame del
DNA e dei suoi componenti di base, i geni “classici” che determinano gruppi sanguinei,
proteine ed enzimi. Le ricerche confermano infatti che le differenze somatiche tra gli esseri
umani, anche quelle più evidenti, sono superficiali e relativamente recenti nella storia della
nostra specie. Fu a partire da
50.000 anni fa che gli esseri umani cominciarono a differenziarsi somaticamente, in seguito al
processo
migratorio e di dispersione della specie che avrebbe portato Homo sapiens sapiens a
occupare la quasi totalità del pianeta nel giro di circa 10-15.000 anni. Gli esseri umani
possiedono un corredo genetico (DNA) del tutto simile. Più recentemente i genetisti hanno
sviluppato nuovi metodi di indagine centrati sull’eredità del DNA mitocondriale e del
cromosoma Y. Sembra che quanto più tempo è trascorso dalla separazione di due
popolazioni, tanto più grande è la distanza genetica tra di esse. La distanza genetica tra due
popolazioni potrebbe diventare così una specie di strumento con cui riconoscere il processo e
i tempi di allontanamento dei gruppi umani nel corso della colonizzazione del pianeta. È però
importante osservare che se la distanza genetica tra le popolazioni è frutto di migrazioni,
queste ultime traggono a loro volta origine da fattori ambientali e/o culturali.
Popolazioni genetiche e famiglie linguistiche:
L’idea di famiglia linguistica risale alla seconda metà del secolo XVIII, quando il giurista inglese
William Jones notò notevoli somiglianze tra il sanscrito, il latino, il greco, il celtico e il gotico.
Questo gruppo di lingue, non più parlate ma ricostruibili a partire dai testi scritti, divenne nota
come la famiglia indoeuropea. Alcuni studiosi cominciarono a intravedere somiglianze e
affinità tra altri gruppi di lingue. Alfredo Trombetti riteneva che il genere umano fosse
comparso in un punto determinato della Terra (monogenismo) e che lì si fosse sviluppata la
prima forma di linguaggio. “Unitariste”. Le ricostruzioni operate dai ricercatori unitaristi sulla
distanza e sul processo di differenziazione delle lingue sembra corrispondere largamente a
quello di distanziazione delle popolazioni genetiche a cui appartengono i soggetti che parlano
quegli idiomi. Non tutti linguisti sono però oggi d’accordo con questa visione unitarista. La
presenza di una lingua in una certa parte del pianeta può essere il frutto di almeno quattro
processi: a) l’occupazione iniziale di una regione disabitata;
b) la divergenza; c) la convergenza; d) la sostituzione di una lingua che, per qualche ragione, è
rimpiazzata in tempi più o meno brevi da una lingua proveniente dall’esterno. Processo a)
colonizzazione della Polinesia da parte di popolazioni provenienti dal Sud-est asiatico a partire
dal I millennio a.C. Il caso b) può verificarsi in conseguenza di diversi fattori tra cui le
migrazioni, i conflitti, la deriva linguistica. La situazione c) è illustrata dai prestiti linguistici. La
situazione d), infine, è quella in cui un gruppo conquistatore, spesso un’élite politico-militare,
impone la propria lingua, e ad essa la popolazione conquistata a volte si conforma per motivi
di praticità e convenienza.
Capitolo 2: Forme storiche di adattamento. Le società “acquisitive”:
Homo sapiens sapiens, il colonizzatore:
Nel corso degli ultimi 50.000 anni l’uomo “anatomicamente moderno” è andato
diversificandosi non solo sul piano somatico, linguistico e culturale, ma anche dal punto di
vista delle forme di adattamento all’ambiente. La storia dell’umanità è stata caratterizzata da
un lento e a volte faticoso processo di adattamento finalizzato all’ottenimento di risorse vitali
per la nostra specie. Durante questi 50.000 anni la specie umana ha dovuto per tanto
elaborare strategie di adattamento altamente diversificate. Queste forme di adattamento
sono il risultato di un processo lungo quanto la storia dell’uomo anatomicamente moderno,
che ha al suo centro il costante investimento di energie fisiche e intellettuali allo scopo di
trasformare l’ambiente circostante per trarre da esso i mezzi per la propria sopravvivenza: il
lavoro. Per circa quattro quinti di questa storia lunga
50.000 anni Homo sapiens sapiens ha fondato il proprio adattamento su un’unica opzione: la
caccia-raccolta e la pesca con strumenti tecnologicamente semplici ma ingegnosamente
concepiti. Le società di questo periodo sono state definite “acquisitive” per sottolineare il
fatto che essi “realizzano la propria sussistenza attraverso il prelievo di risorse spontanee
dall’ambiente”. È solo nell’ultimo quinto di questa storia che il genere umano ha compiuto la
“rivoluzione agricola”. La rivoluzione agricola si impose nel giro di pochi millenni in gran parte
del pianeta e fu accompagnata da un incremento demografico straordinario e da una diversa
forma di adattamento all’ambiente con la quale sarebbe rimasta in simbiosi per lungo tempo:
la pastorizia nomade. Con la rivoluzione industriale prodottasi in Europa alla fine del XVIII
secolo l’umanità ha conosciuto un’ulteriore accelerazione precedentemente impensabile nel
campo della produzione e dell’innovazione tecnologica.
I cacciatori-raccoglitori: passato e presente:
Parlare oggi di popoli cacciatori-raccoglitori significa evocare scenari primordiali, forme
elementari di vita sociale e modi assai semplici di sfruttamento delle risorse naturali. Forse
significa anche rinviare a forme rozze di rapporti interpersonali o, all’opposto, a idilliaci
rapporti tra uomo e natura. Attualmente i cacciatori- raccoglitori rappresentano una frazione
percentualmente infinitesima del totale degli abitanti del pianeta: meno dello 0,0003%. Non
sono più di quarantamila. Alle soglie della rivoluzione agricola essi costituivano invece la
totalità della popolazione mondiale. Alla viglia della scoperta del Nuovo Mondo essi non era
già più dell’1% del totale. Nel 1970 essi erano lo 0,001%. È pertanto evidente che la caccia-
raccolta ha conosciuto una progressiva e radicale ritrazione di fronte all’incontenibile avanzata
di altre forme storiche di adattamento, in primo luogo l’agricoltura. Al suo interno vengono
fatti rientrare tanto i cacciatori-raccoglitori dell’Europa preistorica, quanto gli attuali pigmei
BaTwa e BaMbuti della foresta equatoriale camerunese e congolese, i boscimani !Kung San
della Namibia e gli Hadza della Tanzania. Anche molti gruppi nativi del Nuovo Mondo,
scomparsi recentemente o assorbiti dalla società moderna, vengono considerati tali. È lo
stesso per alcuni sparuti gruppi di aborigeni australiani, per alcuni popoli dell’area
circumpolare, del Sud-est asiatico e dell’India. Questi popoli mostrano tra loro differenze
spesso notevolissime. Cacciavano grandi prede. La caccia forniva a queste popolazioni la
maggior parte del cibo, e dagli animali essi traevano gran parte del materiale per la
fabbricazione di vesti, utensili, armi, ripari e suppellettili varie. I cacciatori- raccoglitori attuali
invece catturano per lo più piccole prede. I popoli cacciatori-raccoglitori attuali ricavano oltre
il 70% dei prodotti alimentari dalla raccolta dei frutti selvatici, radici, tuberi, miele, crostacei,
pesci e molluschi. I popoli della preistoria erano piuttosto stanziali e formavano gruppi di varie
centinaia di individui. I cacciatori-raccoglitori attuali sono invece assai mobili e vivono in
gruppi di venti-trenta individui al massimo. I popoli della fascia costiera che corre dagli Stati
Uniti settentrionali al Canada e all’Alaska meridionale, tra cui ad esempio i Kwakiutl,
fondavano la loro sussistenza soprattutto sulla pesca del salmone, vivevano in villaggi stabili,
erano popoli bellicosi, avevano gerarchie di capi e conoscevano l’istituzione della schiavitù. I !
Kung San del deserto africano del Kalahari, e gli stessi Inuit polari sono invece noti per il loro
comportamento pacifico, l’esiguità numerica dei gruppi e la sostanziale uguaglianza che
contraddistingue la loro società.
I !Kung San, cacciatori-raccoglitori del Kalahari (1960-1990):
Anni Sessanta, Richard Lee. I boscimani !Kung, parlanti una lingua della famiglia kohisanide,
erano circa quattrocentocinquanta, dispersi in vari accampamenti occupati in media da trenta
individui ciascuno. Erano privi di armi da fuoco, di bestiame e di agricoltura. Interamente
dipendenti dalla caccia-raccolta tranne che per il latte bovino. Ogni accampamento era
associato a una “buca d’acqua”. Gli accampamenti andavano incontro a cambiamenti per
quanto riguarda le dimensioni e le persone che ne facevano parte; erano il risultato di un
flusso di individui abbastanza continuo. Ogni accampamento costituiva un’unità
autosufficiente per quanto riguarda la produzione di cibo. Gli individui partivano
dall’accampamento al mattino in cerca di prede animali e vegetali per fare ritorno al calar del
sole. Qui radunavano il cibo e lo ripartivano equamente tra i membri dell’accampamento. In
media un individuo passava un terzo del proprio tempo accanto ai parenti stretti, un terzo a
visitare altri accampamenti e un terzo ad accogliere visitatori di altri campi. Non
accumulavano cibo conservabile per più di due otre giorni. Il cibo vegetale rappresentava circa
il 70% del volume alimentare, ed era assicurato dalle donne mediante un lavoro di due o tre
giorni alla settimana. “Le donne procuravano una quantità di cibo superiore di due-tre volte
rispetto a quella fornita dagli uomini”. Il territorio dei !Kung abbondava di noci mongongo,
capaci di fornire un’adeguata copertura alimentare. Non si dedicavano all’agricoltura. Le
condizioni generali di vita non erano particolarmente dure. Sembravano ben nutriti e afflitti da
malattie meno gravi dei loro vicini agricoltori. Anche l’aspettativa di vita, che si supponeva
bassissima tra i cacciatori-raccoglitori, si rivelò qui assai più alta: su 450 individui un decimo
avevano più di sessanta anni. Gli anziani erano le vere autorità. Anziani ciechi e storpi erano
mantenuti dagli altri, smentendo così l’idea che nelle società di caccia-raccolta i vecchi e gli
infermi vengano abbandonati. Gli individui non diventavano “produttori” se non
relativamente tardi, non prima dei quindici- vent’anni le donne e dei venti-venticinque gli
uomini, in media l’età di matrimonio tra i !Kung per femmine e maschi rispettivamente. I
rapporti tra i sessi erano improntati a una sostanziale parità di diritti e doveri. Le donne erano
molto libere e trascorrevano la maggior parte del tempo in visita presso altri accampamenti. I
compiti domestici non le assorbivano che poche ore al giorno. Gli uomini avevano però ritmi
disomogenei. Alla natura aleatoria della caccia, sopperiva tuttavia il principio della
ridistribuzione delle risorse, per cui le famiglie non rimanevano mai sprovviste di carne. Non
disdegnavano i giochi e i divertimenti. Alla fine degli anni Novanta la società !Kung era in pieno
cambiamento. Nello spazio di una generazione si era trasformata in una società di pastori, di
salariati, di agricoltori, di artigiani, anche se i suoi componenti avevano conservato in parte le
loro attività di caccia e di raccolta. Non sono riusciti a mantenere il loro sistema adattivo
intatto o a modificarlo in funzione del nuovo contesto. Anche i loro villaggi sono cambiati:
sono arrivate le case con i muri di fango e il tetto di paglia allineate lungo le piste per varie
centinaia di metri. La caccia e la raccolta forniscono oggi loro solo il 25-30% del cibo. Intanto il
loro territorio è sempre più occupati da agricoltori e allevatori alla ricerca di nuove terre.
Caratteristiche delle società acquisitive:
La caccia-raccolta si basa su tecniche di sfruttamento delle risorse naturali finalizzate
all’acquisizione di risorse spontanee, di natura animale e vegetale. Non implica alcuna forma
di intervento sulla natura che possa determinare un cambiamento della natura stessa. Gli
esseri umani prendono ciò che la natura offre. Nelle società acquisitive il lavoro umano si
presenta come un’attività a rendimento immediato. Per molti antropologi il carattere
“spontaneo” delle risorse su cui si basano le società acquisitive avrebbe ripercussioni
importanti sulla loro organizzazione sociale. La dispersione delle risorse che si registra nei
territori di questi gruppi impone un’alta mobilità degli individui che li compongono. La
mobilità favorirebbe, in questa situazione, la formazione di gruppi numericamente ridotti,
conosciuti nella letteratura antropologica con il nome di “bande”. Impossibilità di accumulare
risorse utilizzabili in altri momenti. La mancanza di “riserve” obbligherebbe quindi i cacciatori-
raccoglitori a una continua ricerca di cibo e sarebbe soprattutto all’origine dell’impossibilità di
appropriarsene a scapito di altri. Ciò spiegherebbe il fondamentale egualitarismo delle società
acquisitive, la cui sopravvivenza è resa soprattutto possibile da un forte sentimento di
cooperazione tra i loro membri. Anche i rapporti tra uomini e donne sono qui molto più
paritari che presso popoli agricoli o pastorali. La divisione del lavoro è quasi inesistente e le
donne non vengono confinate alla sfera domestica. Ciò non significa che siano prive di
differenziazioni interne. Esistono infatti individui più autorevoli di altri per avvedutezza e
visione dei problemi o più abili di altri nella caccia o nella fabbricazione di qualche arma o
monile; o, ancora, individui maggiormente ispirati e capaci di entrare in contatto con gli
“spiriti” della natura. Possono esservi uomini e donne particolarmente ferrati nelle
conoscenze del mondo naturale. Le condizioni generali di vita di questi gruppi fanno sì che le
differenze tra gli individui non siano stabili, né permanenti, né trasmissibili da una
generazione all’altra. Non si ha cioè la formazione, presso queste società, di gruppi
socialmente differenziati. Tuttavia, casi come quello dei già citati Kwakiutl della costa nord-
occidentale degli Stati Uniti e del Canada, e di altri popoli linguisticamente affini e
geograficamente
contigui ci dicono che la differenziazione sociale e la stanzialità possono di fatto esistere
anche presso i cacciatori-raccoglitori.
I Vezo, pescatori del Madagascar (fine secolo XX):
Sono un popolo di pescatori che vive lungo la costa occidentale del Madagascar. Le loro case
di legno e paglia intrecciata formano villaggi di qualche centinaio di persone e sono situati a
poche decine di metri dal mare, dal quale traggono la maggior parte delle risorse alimentari.
Sembra che i Vezo non possiedano un’identità radicata in tradizioni storiche definibili con
precisione. Lo stessi dicono che si può “diventare Vezo” se si impara a “comportarsi come un
Vezo”. “Vezo” significa “pagaiare”, un termine che a sua volta rinvia metaforicamente all’idea
di “gente che lotta con il mare e che vive sulla costa”. Parlano una lingua del gruppo
austronesiano. La pesca praticata è con la rete o con gli ami, individuale o collettiva. Usano per
lo più la canoa che ricavano scavando il tronco del farafatse, un albero locale. La grande
pescosità del mare assicura un approvvigionamento continuo di pesci, molluschi, crostacei e
tartarughe marine. La disponibilità continua di pesce non li obbliga a programmare più di
tanto la produzione. I Vezo dicono di “cercare” ciò che è disponibile e acquisibile al momento.
La mancanza di diritti di proprietà sulle risorse marine fa dei Vezo un popolo sganciato da
forme stabili di identità e di gerarchia sociale riconducibili al possesso, tanto individuale
quanto collettivo, dei mezzi di sussistenza. Non vivono in un mondo chiuso. I loro villaggi
conoscono l’influenza dei mercati. Questi contatti con i mercati consentono ai Vezo di
diversificare la loro alimentazione, cosa che possono fare grazie alla rivendita del pescato sul
mercato di Morondava o alle industrie ittiche. Il mare è visto come un luogo eterno, senza
tempo, in cui da sempre esistono i pesci e gli altri animali. Questa fiducia sembra però essere
stata intaccata negli ultimi anni dalla presenza, al largo dalle loro coste, dei pescherecci
giapponesi. Il mare e le creature che lo abitano sono oggetti di credenze e proibizioni (faly),
l’inosservanza delle quali comporta riti purificatori di vario tipo. Hanno una speciale
venerazione per i loro antenati.
Le società “acquisitive” oggi: residui del passato o moderni marginali?:
Le differenze inerenti alle società “acquisitive” rendono problematico il tentativo di leggere
nelle società acquisitive contemporanee le eredi di quelle dell’Europa preistorica. I
cacciatori-raccoglitori odierni mantengono rapporti di vario genere con le società agricole,
pastorali e, soprattutto, con le amministrazioni degli Stati centralizzati. Ritenere che i
cacciatori-raccoglitori vivano nell’isolamento rispetto ad altre forme di organizzazione
sociale, politica ed economica sarebbe un errore. Alcuni autori ritengono addirittura che i
cacciatori-raccoglitori di oggi non potrebbero sopravvivere senza interagire con società
fondate su altre forme di adattamento. Questa situazione rende dunque problematico dire
chi siano i veri cacciatori- raccoglitori. Oggi molte di queste società acquisitive sono
annoverate tra i popoli “nativi”, “autoctoni” o, come sono talvolta chiamati, “prime nazioni”.
Si tratta di gruppi come gli Inuit, gli indios amazzonici, i nativi nordamericani e altri, i quali
rivendicano uno statuto speciale nei confronti degli Stati sovrani in America, in Africa e in
Asia, nati dopo la colonizzazione.
Destini speciali per società acquisitive speciali: le isole Maldive:
Dobbiamo però considerare il caso di alcune società acquisitive “speciali”. Si può considerare il
caso delle società di pescatori delle isole Maldive, nell’oceano Indiano. Le isole Maldive
rappresentano una specie di “mito turistico” contemporaneo. Sono composte da più di trecento
isole. Queste isole, che sono state al centro di scambi millenari tra la penisola arabica e l’India,
hanno visto la comparsa di forme di organizzazione politica centralizzata fin dall’antichità, ma è
solo dal secolo XIII che esse sono state islamizzate e hanno assunto una fisionomia culturale
unitaria piuttosto definita. Tuttavia, nelle isole lontane dal centro politico, amministrativo e
religioso, gli abitanti hanno continuato a condurre per secoli una vita basata sulla pesca e sulla
raccolta delle noci di cocco. In tempio abbastanza recenti tuttavia, le Maldive si sono trovate al
centro di interessi economici e geo-strategici del tutto nuovi. Lo sviluppo della pesca d’altura
mediante pescherecci ha trasformato profondamente l’economia di sussistenza delle
popolazioni isolane, così come il turismo ha immesso nuove risorse all’interno dell’economia
maldiviana. Oggi l’economia acquisitiva di gran parte di queste isole si è trasformata in
un’economia industriale.
Capitolo 3: Forme storiche di adattamento. Coltivatori e pastori:
Orticoltori e contadini:
Le società acquisitive hanno dunque rappresentato la forma di adattamento dominante per
gran parte della storia umana. Ma il domesticamento delle piante e degli animali aprì scenari
alimentari, demografici e politici dirompenti per quel tipo di società. Selezionando specie
vegetali e animali con caratteristiche particolarmente vantaggiose sul piano alimentare, il
genere umano modificò il quadro generale delle proprie condizioni di vita. Ciò non sarebbe
stato tuttavia possibile se gli uomini non avessero imparato a osservare attentamente le
piante e gli animali. Sino alla metà del secolo scorso, oltre i due terzi della popolazione
mondiale era costituita da orticoltori e da agricoltori. Orticoltura e agricoltura si fondano
sullo sfruttamento di piante addomesticate, e implicano entrambe un investimento
lavorativo nel processo di produzione. Nelle società di coltivatori e in quelle pastorali il lavoro
costituisce invece un’attività a rendimento differito.
L’orticoltura implica l’impianto nel terreno di talee provenienti da alberi già cresciuti le quali
danno vita ad altri alberi produttori di frutti senza altro intervento che non sia la preparazione
del terreno adatto allo scopo mediante disboscamento e incendio degli alberi abbattuti. In
genere si riproducono velocemente per gran parte dell’anno, per cui il rifornimento di cibo è
abbastanza continuo. Popoli che fondano la propria sussistenza sull’orticoltura si ritrovano
specialmente nell’Africa subsahariana e nell’America meridionale. L’agricoltura vera e propria
implica operazioni e strumenti più complessi, in quanto si fonda soprattutto sulla raccolta di
legumi e di alberi da frutto, i quali hanno bisogno di un terreno preparato adeguatamente, di
cure continue, di operazioni legate a determinati ritmi stagionali quali la raccolta, la battitura,
la spelatura, la spremitura eccetera. Trattandosi di piante con tempi di crescita e di
fruttificazione abbastanza lunghi, gli agricoltori devono accumulare risorse per i periodi in cui
le culture sono improduttive e per poter poi ricominciare il ciclo produttivo. Secondo alcuni
antropologi le società che fondano la propria sussistenza sull’agricoltura contengono in sé le
premesse per la comparsa dell’autorità politica e della stratificazione sociale. Le società che
praticano l’orticoltura come principale forma di produzione del cibo avrebbero invece forme
di organizzazione sociale più egualitarie come quelle dei cacciatori-raccoglitori, ma non per
questo altrettanto equilibrate e pacifiche. Società fondate sull’agricoltura: società contadine.
Di solito si preferisce però definire “contadine” quelle comunità di agricoltori che fanno parte
di società più ampie, comprendenti insediamenti urbani e politicamente centralizzate, da cui
si distinguono per il fatto di risedere nelle campagne, ossia nel contado. Il mondo contadino
europeo ha rifornito per secoli di manodopera la società urbana, con un trasferimento
significativo della forza-lavoro dal settore agricolo a quello industriale a partire dagli inizi
dell’Ottocento. Il rapporto tra il mondo contadino e quello urbano è stato storicamente
complesso. “Agricoltura industriale”, con pochissimi lavoranti e molta tecnologia. Tuttavia nei
quattro quinti del pianeta la produzione agricola è ancora basata su metodi tradizionali, che si
rivelano sempre meno efficaci di fronte all’incremento della popolazione. Inoltre, fatto
gravissimo, le nuove sementi contenenti OGM come il mais e il grano, prodotti dalle
multinazionali a costi molto bassi, fanno sì che la produzione agricola di molti contadini sia
“fuori mercato”. Il progressivo inurbamento della popolazione del pianeta è una caratteristica
dei paesi poveri in via di sviluppo. L’inurbamento massiccio della popolazione è stato una
conseguenza della sotto produttività dell’agricoltura rispetto ai fabbisogni della popolazione
rurale in aumento. L’inurbamento ha fatto sì che si siano create enormi masse prive di lavoro,
che conducono una vita al di sotto della soglia di povertà. Le società contadine sono state
parti di sistemi sociali complessi in funzione dei quali si sono sviluppate rifornendo derrate
alimentari e manodopera per l’edilizia, l’esercito e, più tardi, l’industria.
Gli Yanomami, orticoltori amazzonici (1940-2000):
Sono un gruppo di circa 20.000 nativi amazzonici stanziati tra il Brasile e il Venezuela. Parlano
una lingua appartenente alla “superfamiglia” amerinda. Furono “scoperti” intorno al 1940.
Vivono in grandi abitativi collettivi chiamati shabono. Si tratta di ripari dotati di uno spiazzo
centrale delle dimensioni di un campo da calcio. In ciascuna sezione dell’abitato vive una
famiglia, composta da un uomo, dalle sue mogli e dai figli non sposati. Praticano l’orticoltura,
soprattutto la coltivazione dei banani. La tecnica di coltivazione è “slash and burn” (“abbatti e
brucia”). Essi coltivano anche altre piante d’uso curativo e allucinogeno. Le banae vengono di
solito schiacciate e ridotte a una specie di pappa che costituisce il loro principale alimento.
Cacciano animali come i tapiri, i pecari, i formichieri, le scimmie e una grande quantità di
volatili. La caccia è prerogativa esclusiva degli uomini, i quali elaborano una forte immagine di
sé stessi come cacciatori e guerrieri. Gli uomini si sfidano sullo spiazzo dello shabono a pugni
e a colpi di mazza per “regolare conti in sospeso”. Negli ultimi anni, a contatto con i cercatori
d’oro illegali che hanno invaso i loro territori, certi gruppi yanomami hanno acquistato armi
da fuoco. Rapire donne per farne le proprie mogli o amanti sembrava essere una
conseguenza della precarietà delle alleanze politiche e matrimoniali tra i gruppi, non
essendoci forme di autorità capaci di far rispettare le regole dello scambio matrimoniale.
Scarsità di donne. L’infanticidio riguarda soprattutto le femmine in quanto né cacciatrici né
guerriere, ma oggetto di possibili rapimenti. La nascita di un figlio, specialmente se è maschio,
è accompagnata da vari riti. La rete di fiumi e ruscelli secondari che caratterizza il loro
territorio costituisce, secondo alcuni antropologi, un sistema di comunicazione che mette in
contatto accampamenti tra loro distanti. Vengono compiuti riti funebri: il suo corpo viene
bruciato, le sue ossa, calcinate, vengono frantumate, ridotte in polvere e mescolate alla
pappa di banane che viene poi ingerita dai parenti. Anche gli Yanomami hanno subito atti di
sterminio da parte di quanti vogliono impossessarsi delle loro terre, ricche di risorse
particolarmente ricercate sul mercato: legname, oro, caucciù, diamanti.
I mezzadri toscani (metà del secolo XX):
La mezzadria è un’istituzione economica cessata definitivamente, in Italia, negli anni Sessanta,
ma che ha mostrato una longevità abbastanza eccezionale in Europa. Ebbe uno sviluppo
notevole nell’Italia centro- settentrionale a partire dalla fine del Medioevo. I contadini non
dovevano più vivere asserragliati di notte nei borghi e lavorare i campi di giorno, ma potevano
ora abitare con gli animali da lavoro in “poderi” o “case coloniche”. Queste case potevano
anche essere di notevoli dimensioni e ospitare più famiglie. Ebbe particolare sviluppo in
Toscana, dove raggiunse la sua forma “compiuta” alla fine del Settecento. Il contratto
mezzadrile prevedeva che al proprietario spettasse una certa quantità del raccolto, mentre al
contadino e alla sua famiglia spettava il resto. Il proprietario doveva fornire i mezzi di
produzione. Un podere era sia l’appezzamento di terreno dato dal padrone a “mezzadria”, sia
la casa in cui abitavano il mezzadro e la sua famiglia, e nella quale venivano anche custoditi gli
animali da lavoro e quelli domestici, attrezzi e sementi. L’alimentazione dei contadini era
composta da pane, paste, ortaggi e, molto raramente, carne bovina e poi polli, insaccati,
prodotti animali e spontanei della terra. La mancanza di disponibilità di contante in
un’economia nazionale sempre più monetizzata fu un problema a partire da un certo
momento in avanti e una delle principali cause del progressivo declino e poi della scomparsa
della mezzadria. Sistema che dipendeva da due logiche economiche: di mercato e di
autosussistenza. Era un mondo per certi aspetti “chiuso”. Nella maggior parte dei casi,
soprattutto dove esistevano grandi proprietà, i padroni della terra e dei poderi vivevano
lontani, per lo più nelle città, affidando la gestione amministrativa a degli intermediari, i
“fattori”. Il servizio militare, reso obbligatorio alla fine dell’Ottocento. Come tutte le comunità
contadine del paese, anche quella dei mezzadri toscani diede il proprio contributo in vite allo
Stato italiano. Essi erano in molto casi fedeli alla tradizione cattolica. I matrimoni erano quasi
sempre religiosi; i funerali erano regolarmente celebrati in presenza del prete. Nel sottofondo
della cultura popolare erano presenti credenze magiche e nel potere malefico/benefico di
streghe e stregoni. Il rapporto degli esseri umani con gli animali era improntato all’utilità di
questi ultimi, ma era anche soffuso di una familiarità che le popolazioni urbane hanno perso.
Le famiglie mezzadrili erano di varie dimensioni. La famiglia mezzadrile toscana era sotto la
guida di un uomo, di solito il più anziano, il padre o il fratello maggiore, il “capoccia”, che
dirigeva i lavori e gli affari della famiglia, soprattutto nelle sue relazioni con il proprietario o il
fattore. Alla “massaia”, la donna più anziana, o più capace, spettava invece l’organizzazione
della vita domestica. Era una “famiglia senza patrimonio”. Le forme di controllo padronale
sulla vita della famiglia erano varie. Un’importante occasione di incontro tra famiglie era la
stagione della trebbiatura del grano sulle aie dei diversi poderi. Dopo la fine della Seconda
guerra mondiale la mezzadria entrò nella definitiva fase di declino. Lo sviluppo dell’industria e
dei servizi, negli anni Cinquanta e Sessanta, richiamò verso i nuclei urbani manifatturieri una
quantità sempre maggiore di manodopera. Dopo il 1950 i contadini ottennero condizioni
migliori ma ciò non bastò a frenare l’esodo rurale. Un ristretto numero di mezzadri divenne
proprietario dei poderi in cui lavorava e abitava.
Popoli pastori e comunità “peripatetiche”:
La pastorizia è una forma di adattamento che, come l’agricoltura, segna il passaggio da
un’economia di tipo acquisitivo a un’economia di produzione vera e propria. Le risorse utili
all’uomo hanno bisogno, per potersi riprodurre, del lavoro umano. L’allevamento e la
coltivazione sembrano essersi sviluppati contemporaneamente. L’allevamento può riguardare
animali di vario tipo ma stanziali e allevati con foraggi provenienti dalle coltivazioni, e pertanto
presenti nell’economia delle comunità contadine. La pastorizia implica invece che gli animali
vengano nutriti con il pascolo naturale, senza che gli uomini li riforniscano di biade e foraggi.
La pastorizia nacque in Medio Oriente all’epoca della rivoluzione agricola. Tutti i popoli che
fondano la propria sussistenza sulla pastorizia sembrano aver adottato questa forma di
adattamento nel periodo successivo alla conquista europea. La pastorizia riveste molte forme.
In Mongolia, e più in generale nelle steppe dell’Asia centrale e orientale, i popoli nomadi
allevano cammelli e cavalli. I pastori nomadi sono sempre stati in relazioni simbiotiche con il
mondo agricolo e urbano; fornendo mezzi di trasporto, guide, animali e prodotti derivati, i
nomadi ricevevano quello che la loro economia non era nella maggioranza dei casi in grado di
produrre, come alcuni tipi di alimenti, stoffe, armi, attrezzi, suppellettili varie. La pastorizia
nomade è infatti una forma iperspecializzata di adattamento, che non può combinare
efficacemente l’allevamento degli animali migratori con forme di produzione come
l’agricoltura e l’artigianato. Le popolazioni nomadi e pastorali sono ora dipendenti dal mondo
agricolo e urbano. Questa dipendenza si è fatta ancor più stretta con lo sviluppo degli Stati
nazionali. I pastori nomadi sono oggi sulla difensiva: anche se molti di loro scelgono le
opportunità offerte dalle economie e dai servizi degli Stati nazionali, molti altri sono restii ad
adeguarsi a situazioni che avvertono come minacciose per il mantenimento del loro stile di
vita. Oltre ai pastori esistono altre comunità che fanno del nomadismo il loro modello ideale di
esistenza. Si tratta di tutte quelle comunità “senza fissa dimora”, quali i Rom, i Sinti e altri
gruppi ancora che sono presenti in Europa fin dal Medioevo. Vivono di commerci e di piccoli
servizi, oppure fanno i giostrai nelle fiere di paese. Queste comunità sono chiamate
“peripatetiche”, cioè “in movimento”. Molti dei loro componenti vivono in condizioni precarie
al punto che alcuni di loro compiono reati. Ma come spesso accade alle minoranze “diverse”
e quindi “indesiderate”, questi episodi sono suscettibili di scatenare forme di discriminazione
e attacchi di tipo razzista.
Gli Shammar, allevatori nomadi dell’Arabia settentrionale (secoli XIX-XX):
Formano una grande qabila (“tribù nobile”) beduina dell’Arabia settentrionale. Divisi in più
“frazioni” sono attualmente distribuiti tra l’Arabia saudita settentrionale e l’Iraq sud-
occidentale, anche se ormai molti di loro vivono in paesi limitrofi come la Giordania e la Siria e
negli Stati arabi del Golfo oltre che in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Si ritiene che il loro
numero, in Arabia, non sia inferiore agli ottantamila. Oggi sono sottoposti alla ferrea autorità
dello stato centrale. Secondo alcuni autori il loro dialetto è quello che più si avvicina all’arabo
classico. Sino alla fine della Prima guerra mondiale gli Shammar vivevano in un territorio diviso
sotto l’autorità dell’impero ottomano. Per tutto l’Ottocento essi furono i sostenitori del più
potente emirato arabo del secolo XIX, quello dei Rashid. Il governo saudita ha sempre
impedito che costoro avessero un proprio shayk, “capo”, supremo; per questo motivo hanno
invece tanti shayk minori a capo delle varie frazioni che compongono la qabila. Sino agli anni
1950-1960 gli Shammar vivevano soprattutto allevando dromedari e il piccolo bestiame. I
beduini vivono ancora oggi nelle tende tessute con la lana nera delle pecore. Riuniti in grandi
accampamenti accanto ai pozzi durante la stagione estiva, i nuclei famigliari si disperdevano,
come del resto fanno ancora oggi, durante l’inverno, formando gruppi di nomadizzazione
composti dalle famiglie di più fratelli. Quando erano sostenitori dei Rashid, partecipavano,
benché senza regolarità, alla formazione dell’esercito dell’emirato. Come tutti i popoli nomadi
vivevano in forte simbiosi con le popolazioni sedentarie e agricole della regione, fornendo loro
i mezzi di trasporto e alcuni prodotti del deserto in cambio di generi alimentari. Ancora oggi la
loro alimentazione si fonda principalmente su datti, latte di dromedario e di capra, pane non
lievitato, riso, carne di pecora e di capra. Nell’ultimo mezzo secolo la vita degli Shammar è
andata incontro a profonde trasformazioni. Sono state assegnate terre e scavati pozzi per
praticare l’agricoltura irrigua, mentre il principio dell’uso comune delle risorse (pascoli e
acqua) è stato fortemente trasformato, almeno in parte, in un sistema che prevede il
possesso di queste stesse risorse su base individuale. I fondi governativi hanno consentito agli
Shammar di acquistare autocarri e camionette con cui trasportare velocemente acqua, foraggi
e bestiame da una capo all’altro del loro territorio, alternando i ritmi migratori legati alla
disponibilità dei pascoli e favorendo così l’ipersfruttamento di certe aree piuttosto che di
altre. Tutti questi fattori hanno comportato un abbandono della vita nomade in proporzioni
massicce. Molti Shammar si sono trasferiti nelle città in cerca di lavoro come autisti, tassisti, o
come impiegati del settore petrolifero della regione orientale del paese. Altri ancora sono
arruolati nella Guardia nazionale e nell’esercito. Fedeli all’islam, essi sono meno legati delle
popolazioni sedentarie d’Arabia a un’interpretazione religiosa rigida. Fondamentale tolleranza
nei confronti degli stranieri e dei non musulmani.
Parte terza: Comunicazione e conoscenza:
Capitolo 1: Oralità e scrittura:
Griot:
È un termine usato dai francesi per designare quei musici o contastorie che nell’Africa
subsahariana occidentale si dedicavano alla raccolta e alla trasmissione delle leggende.
Possono essere itineranti oppure vivere, come avviene ancora oggi, alla “corte” di qualche
personaggio importante. Il loro repertorio consiste soprattutto in canti storici, che celebrano
le genealogie di capi, re, eroi e le loro imprese.
Le componenti della parola secondo i Dogon:
Come il corpo umano è costituito da quattro elementi, così lo è la parola: l’acqua, che la
“inumidisce”; l’aria, grazie alla quale si trasforma in vibrazione sonora; la terra, che da il peso
alla parola, cioè il suo significato; il fuoco, che dà calore alla parola come riflesso dello stato
d’animo del parlante. La concezione della parola tra i Dogon è assai complicata perché mette
in gioco il “soffio” della parola stessa, il kikinu, che “designa il tono con cui essa si manifesta, e
che costituisce precisamente il nesso diretto con la struttura psichica”. Il kikinu infatti non
esiste di per sé, ma solo coniugato con la voce, dando luogo a un consistente numero di
combinazioni.
La memoria dell’incomprensibile:
Società che conservano tracce indecifrabili di un passato funzionale al presente. Un esempio
è costituito dagli Antemoro della costa sud-orientale del Madagascar. Fra tutti i popoli di
quest’isola dell’oceano indiano gli Antemoro ebbero per primi i contatti con gli Arabi,
assorbendone alcune pratiche divinatorie legate agli oroscopi individuali e collettivi.
Possiedono delle iscrizioni su cui sono tracciate formule divinatorie, di buon auspicio e
scaramantiche chiamate surabe, che gli Antemoro “leggono” senza ben conoscere il significato
delle parole. Qui la parola è solo formalmente agganciata alla scrittura, e produce degli
“effetti” solo in quanto “suono”.
Il carattere sacro della scrittura:
In molte società a oralità diffusa la scrittura possiede una forma di autorevolezza quasi
sacrale. Questo fu un tratto di molte civiltà antiche dell’Oriente e del Mediterraneo, ma
anche delle civiltà precolombiane dei Maya e degli Aztechi. Presso questi popoli la scrittura
era conosciuta da pochi individui: amministratori, ingegneri o sacerdoti. Se ne servivano per
tramandare prevalentemente formule sacre o magiche o per elaborare calcoli di tipo
matematico. I documenti scritti sono “autorevoli” in quanto riportano regole o decisioni
come la promulgazione di una legge, una prescrizione o un divieto di carattere religioso, una
transazione, un contratto, il regolamento di un gioco, eccetera. Tuttavia vi sono addirittura
casi in cui l’autorità del documento è così indiscussa che basta citarla perché lo scritto si
imponga come irrefutabile e incontestabile. Il fatto di citare un documento, tuttavia, produce
un effetto retorico che va al di là sia di ciò che è scritto nel documento, sia dell’esistenza
stessa del documento in quanto tale. Citare un documento significa riferirsi non solo, e non
tanto, a un testo scritto di per sé già autorevole, ma significa fare riferimento a un’autorità
che non può essere messa in discussione, nel senso che colui che cita tale documento è, di
per sé, nella condizione di dover essere creduto.
Capitolo 2: Percezione e cognizione:
Il pensiero “concreto” e il pensiero “astratto”:
I primi europei che si accostarono a quelli che chiamavano i “popoli primitivi” furono colpiti
dal fatto che molti di questi non avevano sistemi di numerazione e di calcolo che andassero
oltre le poche unità: uno, due, tre, tanti. In seguito anche quella che sembrava essere
l’assenza di un concetto astratto di spazio e di tempo suscitò la curiosità dei filosofi
occidentali. Sembravano interessati alla flora e alla fauna del loro ambiente solo in relazione
alle specie considerate da essi utili, mentre tutte le altre non suscitavano la minima curiosità.
Molte di queste segnalazioni erano però dovute a segnalazioni errate. Infatti, molti di questi
popoli si rivelarono in possesso di un repertorio lessicale assai ricco con cui descrivere i
fenomeni naturali. Gli Inuit non ha un termine per indicare la parola “neve”, ma ne hanno
addirittura una quarantina. Le loro classificazioni erano solo meno sistematiche di quelle che
troviamo nei volumi di botanica o di zoologia, le quali rappresentano un’elaborazione
estremamente recente della scienza moderna, e non corrispondono certo a quelle tipiche del
sapere popolare, che invece assomigliano, piuttosto, alle classificazioni di quelle popolazioni.
Tutti gli esseri umani possiedono le stesse potenzialità per ragionare in maniera astratta e
formale. La differenza principale rispetto al pensiero scientifico moderno è che tali capacità
sono esercitate solo in relazione a contesti di esperienza, e non in merito a problematiche
logiche-formali di tipo astratto, “scienza del concreto”.
La percezione del mondo fisico e gli stili cognitivi:
Le percezioni del mondo che ci circonda e in mezzo al quale viviamo coincide con i processi
mediante i quali organizziamo delle informazioni di natura prevalentemente sensoriale. Se
però tutto si riducesse solo ai sensi mediante cui “entriamo in contatto” con il mondo, ogni
problema sembrerebbe risolto. Ma non è così, perché la percezione del mondo fisico può, in
molti casi, risultare differente a seconda dei soggetti coinvolti. Lo psicologo Lev Vygotskij
distinse infatti tra processi cognitivi elementare e sistemi cognitivi funzionali. I processi
cognitivi elementari sono capacità universalmente presenti negli esseri umani, e formalmente
identiche in tutti i soggetti “normali”, cioè non colpiti da patologie o disturbi particolari.
Questi processi sono: astrazione, categorizzazione, induzione e deduzione. I sistemi cognitivi
funzionali sono invece il prodotto del contesto culturale entro cui il soggetto attiva i processi
cognitivi elementari. Tali sistemi potrebbero anche essere definiti come delle “strategie” di
organizzazione dei processi cognitivi in funzione della risoluzione di particolari problemi che
cambiano a seconda del contesto culturale. Le strategie cognitive funzionali non solo
cambiano da un contesto culturale all’altro, ma variano anche da soggetto a soggetto
all’interno della stessa cultura, a seconda dell’appartenenza a una determinata classe sociale,
del livello d’istruzione e della predisposizione personale. I diversi modi di reagire a un test
interculturale sono anche dovuti a stili cognitivi differenti. Stile cognitivo: il modo in cui
individui provenienti da ambiti culturali diversi si rapportano al mondo sul piano cognitivo.
Stile cognitivo globale: disposizione cognitiva che parte dalla totalità del fenomeno
considerato per giungere solo successivamente alla particolarità degli elementi di cui si
compone. Lo stile articolato è invece quello che parte dalla considerazione dei singoli
elementi dell’esperienza per risalire alla totalità. Qualsiasi essere umano tende infatti a
comportarsi in maniera ora “più globale” ora “più articolata”, a seconda della situazione in cui
si trova a esercitare la sua attenzione e il proprio ragionamento.
L’etnoscienza:
Tutti i popoli possiedono una conoscenza più o meno ricca del mondo naturale. L’etnoscienza
è lo studio di come le differenti culture organizzano le loro conoscenze del mondo naturale.
Tali competenze e concezioni non sono casuali e frammentate, ma possiedono gradi di
sistematicità spesso notevoli, sebbene differenti e meno “esatti” di quelli elaborati dalla
scienza moderna. Il mondo fisico percepibile dall’occhio umano è caratterizzato da forti
regolarità, ma anche da un’estrema fluidità e variabilità che pare obblighi la mente a fare
continuo ricorso a forme stabili di categorizzazione. Ad esempio, nei contesti di classificazione
del mondo fisico-naturale, la categorizzazione sembra riprodursi sempre in relazione a un
prototipo, cioè a un oggetto-rappresentazione capace di costituire il punto di riferimento
attorno al quale vengono costituite categorie o classi di oggetti. In molti casi, “la pianta” per
eccellenza sarà il vegetale che, per così dire, possiede maggiori caratteristiche di “piantità”. Se,
poniamo, una comunità vive in un ambiente ricco di vegetali, ma nel quale esiste un’unica
pianta particolarmente apprezzata per i suoi frutti, per le proprietà curative delle sue radici e
per il suo legno particolarmente adatto alla fabbricazione di utensili e suppellettili, è probabile
che essa diverrà il prototipo della “pianta”. Le classificazioni del mondo naturale sono in larga
misura il prodotto dei principi d’organizzazione che stanno alla base della cultura del soggetto
che classifica. Il carattere “culturale” delle classificazioni appare più evidente in relazione a
certe pratiche culturali.
Animali impuri, animali simbolici:
In tutte le culture è possibile trovare rappresentazioni di animali dotati di un forte valore
simbolico. Si tratta di immagini dell’animale che non hanno però niente a che vedere con la
realtà. Le proibizioni alimentari rientrano nella più ampia categoria dei tabù, interdetti che
toccano molteplici ambiti della vita di una comunità. I tabù hanno anche una funzione
discriminante, distintiva di un individuo o di un gruppo nei confronti di altri individui o gruppi.
Le abitudini alimentari sono proprio uno di questi strumenti distintivi attraverso cui i gruppi
umani, ufficialmente o informalmente, tendono a stabilire affinità e/o distinzioni tra sé stessi
e gli altri.
Dai prototipi agli schemi:
I prototipi sono dunque un modo di organizzare la percezione del mondo circostante. I
prototipi individuano particolari aspetti della realtà, ma non sono ciò che consente di mettere
concettualmente “in forma” la realtà. La possibilità di individuare e ordinare la realtà è data
dagli schemi. Lo schema del cane non è un cane particolare, né un prototipo del cane. Lo
schema, in questo caso, è la possibilità che noi abbiamo di pensare al concetto di “cane”. Che
l’attività schematica sia una proprietà universale della mente umana è indubbio, come è certo
il fatto che gran parte di questa attività è “culturalmente orientata”. “Scrivere” è una
situazione schematica “vuota”, che tuttavia consente di avere un quadro entro cui “mettere”
le idee di che cosa significhi “scrivere” in concreto, cioè un prototipo di ciò che è per noi
l’atto di “scrivere”. “Il prototipo non è la stessa cosa di uno schema: lo schema è cuna cornice
organizzata di oggetti e di relazioni che deve essere riempita di dettagli concreti, mentre un
prototipo consiste in un gruppo concreto di aspettative” culturalmente determinate. Gli
schemi sono ciò che organizza la nostra esperienza, la quale, per essere orientata, deve
procedere per prototipi e sottoprototipi, i quali vengono organizzati a loro volta da schemi e
sottoschemi. Noi non conosciamo tutta la nostra cultura, ma siamo in grado di attuarla grazie
all’attività
schematizzante. Questa è una caratteristica universale del pensiero umano e che viene
“riempita” e “messa in moto” al tempo stesso da prototipi elaborati dal contesto d’esperienza,
i quali rinviano a cose simili ma non identiche. L’analisi di questo processo è un metodo per
comprendere in che cosa consistano le diversità culturali.
La terminologia del colore. Universalismo percettivo e determinazione socio-culturale:
Alla fine degli anni Sessanta del Novecento due antropologi americani, Brent Berlin e Paul Kay,
confrontarono le terminologie dei colori di ventisei lingue e accertarono che il numero dei
termini presenti in esse variava da un minimo di due, come in alcune lingue della Nuova
Guinea, a un massimo di undici, come in certe lingue europee. Questi termini fondamentali, o
di “base”, sono quelli che riflettono fenomeni di percezione del colore senza bisogno di
ulteriore specificazione per essere compresi. Giunsero a tre conclusioni. La prima era che
“esistono, per tutti gli esseri umani, undici categorie percettive basilari del colore che servono
come referenti psicofisici degli undici, o meno, termini di colore di base in altre lingue”. Tutti
gli esseri umani sono cioè in grado di percepire le differenze dei colori di base, ma tali
differenze o vengono espresse mediante undici termini, oppure vengono ricondotte, sul piano
terminologico, ad altre categorie cromatiche. La seconda conclusione da essi raggiunta era che
la terminologia cromatica di base si sviluppa secondo una sequenza precisa. In tutti i sistemi
che possiedono solo due termini, questi sono sempre chiaro e scuro; in quelli che ne hanno
tre, sono invece bianco, nero e rosso; in quelli che ne possiedono cinque, oltre i tre elencati,
troviamo sempre il giallo e il verde, mentre il sesto termine è sempre il blu, seguito poi, in
sistemi più complessi, dal marrone, dal porpora, dal rosa, dal grigio e dall’arancione. La terza
conclusione: il numero dei termini di base impiegati da una lingua è in relazione alla
complessità culturale e tecnologica della cultura in questione, per cui più una cultura è
semplice più il suo vocabolario cromatico è povero, mentre culture particolarmente
complesse rivelano l’esistenza di un numero alto di termini cromatici di base. Quest’ultima è
assai discutibile. Non presero in considerazione i fattori culturali che entrano a costituire la
percezione del mondo fisico. Tutti gli esseri umani sono in grado di “vedere” il rosso ruggine,
ma non tutti lo chiamano in questo modo o perché non hanno mai visto la ruggine o perché
usano altri termini a seconda dei loro prototipi cromatici di riferimento. I colori rivestono
molto spesso significati diversi a seconda del contesto. Le variazioni nel significato dei colori
hanno a che vedere, almeno in parte, con il fatto che essi non vengono percepiti solo sul piano
strettamente cromatico, cioè fisico-percettivo, ma possono ricevere connotazioni che a volte
precedono la connotazione cromatica in senso stretto. Noi stessi ad esempio classifichiamo
alcuni colori come “caldi” e altri come “freddi”. Presso certi popoli, i colori sono percepiti
principalmente come “caldi” o “freddi” oppure come “secchi” o “umidi”. Sappiamo inoltre che
la percezione che gli individui hanno di un colore può dipendere da idiosincrasie e da gusti
personali. Ciò che potremmo chiamare l’ “apprezzamento sociale” di un colore è molto spesso
influenzato dagli ambiti della cultura e della società in cui gli individui sono posizionati. Lo
stesso contesto pratico in riferimento al quale il singolo colore viene valutato contribuisce a
determinare la percezione. Coloro che privilegiano la prospettiva culturale evidenziano che i
colori possono essere percepiti in base ai significati che a essi vengono contestualmente (cioè
“culturalmente”) attribuiti. Benché tutti gli esseri umani possiedano le capacità di percepire le
differenze cromatiche, tali differenze possono anche essere espresse per vie linguistiche
diverse da quelle della terminologia cromatica.
Capitolo 3: Tempo e spazio:
La correlazione tra tempo e spazio:
Le differenze tra modi culturali di percepire, rappresentare e organizzare il tempo e lo spazio
hanno suscitato grandi dibattiti e molti sono stati i tentativi di spiegare queste differenze.
Partendo dalle conclusioni raggiunte da Nilsson circa la natura del tempo qualitativo e
puntiforme tipico delle società “primitive”, l’antropologo britannico Christopher Hallpike ha
sviluppato ad esempio una teoria sulla distinzione tra “tempo operatorio” e concezione
“preoperatoria del processo temporale”. Hallpike riconduce queste due concezioni della
temporalità alla distinzione stabilita da Piaget tra pensiero “operatorio” e “preoperatorio”. Il
pensiero operatorio mette in relazione spazio e tempo considerandoli due variabili
dipendenti. Tale capacità di coordinazione è invece assente nel pensiero preoperatorio. Non
stabilisce una coordinazione tra i fattori della durata, della successione e della simultaneità; la
“coordinazione della velocità relativa”. Estese la presenza del pensiero preoperatorio a tutte
le società che non erano in possesso di una condizione lineare e misurabile del tempo e dello
spazio. C’è un pensiero fondato sulla concretezza, e non sull’astrazione, il quale non è in
grado di riflettere in maniera conoscitiva su quanto non sia un fatto d’esperienza. Alcuni
studiosi hanno mostrato invece qualche dubbio sul fatto che popoli privi di una concezione
dello spazio e del tempo come entità lineari, omogenee e misurabili possiedano sempre e
comunque un pensiero di tipo preoperatorio, sul fatto cioè che essi non siano in grado di
stabilire una “coordinazione di velocità relativa”.
La mancanza di una concezione lineare e quantificabile del tempo sembra quindi non escludere
la capacità di coordinare perfettamente durata, successione e simultaneità. La tesi di Hallpike
sembra dunque smentita.

Parte quarta: Sistemi di pensiero:


Capitolo 1: Sistemi “chiusi” e sistemi “aperti”:
La ricerca della coerenza e lo studio delle cosmologie:
Nel 1935 un gruppo di etnologi francesi intraprese lo studio di una popolazione destinata a
diventare famosa: i Dogon. Questo popolo di agricoltori vive all’interno dell’attuale Stato del
Mali, a quel tempo parte dell’Africa coloniale francese. Marcel Griaule fu in grado di
ricostruire quella che egli chiamò “cosmologia dogon”, una complessa e affascinante visione
dell’ordine del mondo dalla sua creazione. Rivelava un carattere di sistematicità e di coerenza
che la avvicinava per certi aspetti alle costruzioni teoriche e alle spiegazioni fornite dalla
filosofia e dalla scienza occidentali. In verità sono stati in seguito avanzati dubbi. Negli anni
che seguirono la pubblicazione dello studio, gli antropologi iniziarono a parlare di “sistemi di
pensiero”. Cominciarono cioè a studiare in una nuova prospettiva l’attività speculativa dei
popoli sino ad allora ritenuti poco votati alla riflessione pura. Così, gli antropologi poterono
dimostrare come molti di quei popoli avessero una visione complessa, articolata e coerente
del mondo umano e naturale. In realtà nessuna visione del mondo è totalmente coerente.
Tuttavia si può dire che il pensiero umano, per quanto non sia affatto coerente in assoluto,
“tende” comunque sempre alla ricerca di una coerenza, e questa è una caratteristica di tutti i
“sistemi di pensiero”. I “sistemi di pensiero”, come sono state appunto chiamate questo
cosmologie in senso lato, comprendono ambiti di riflessione assai diversi tra loro.
Differenze e somiglianze:
Alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso l’antropologo inglese Robin Horton mise a
confronto quelli che chiamò i “sistemi di pensiero tradizionali africani” con il pensiero
scientifico sviluppatosi in Europa nell’età moderna. Riteneva che questi due “modi di pensare”
avessero però anche qualcosa in comune, cioè una medesima funzione esplicativa che era
tuttavia quasi impossibile cogliere da un soggetto occidentale abituato a pensare in maniera
“scientifica”. Entrambi i principi sono alla ricerca di una spiegazione del mondo, dove
“spiegare” significa 1) oltrepassare il senso comune (fermo alle apparenze), e la diversità dei
fenomeni per 2) ricercare l’unità dei principi e delle cause. Spiegare significa anche 3)
semplificare al di là della complessità dei fenomeni, e 4) superare l’apparente disordine per
trovare un principio d’ordine del mondo. Infine spiegare significa 5) cogliere la dimensione
della regolarità dietro l’anomalia e della casualità dei fenomeni. I sistemi di pensiero africani
affrontano questi problemi in termini di concetti religiosi e di divinità, mentre quello
scientifico moderno fa la stessa cosa in termini di forze fisiche. La difficoltà con cui gli
occidentali tendono ad accostarsi a questi sistemi di pensiero dipende dal fatto che non li
considerano per quello che sono: dei tentativi di prendere le distanze dal senso comune.
D’altra parte, se noi ci poniamo dal punto di vista del senso comune, le stesse teorie della
scienza moderna possono, molte volte, sembrare assurde, poiché stabiliscono connessione
che il senso comune non si sognerebbe mai di stabilire.
L’uso delle analogie esplicative: malattia e relazioni sociali:
Quando gli indovini di certe popolazioni cercando le cause di una malattia o di una morte
improvvisa, e l’attribuiscono all’azione di una qualche divinità o di un qualche antenato
adirato con i suoi discendenti, essi cercano anche e soprattutto di vedere quali forze abbiano
spinto quella divinità o quell’antenato a comportarsi in quel modo. Noi non riusciamo a
cogliere tanto facilmente come per molti popoli sia possibile causale tra tensioni e disagi nelle
relazioni interpersonali e sociali da un lato, e certe malattie o sventure dall’altro. Tuttavia,
abbiamo iniziato anche noi a introdurre nel nostro orizzonte mentale l’idea che il
malfunzionamento die rapporti interpersonali o particolari stati psicologici dovuti a
insuccesso, incomunicabilità e mancanza di autostima possano avere un ruolo importante
nell’insorgere di certe malattie organiche. Ciò non significa che una malattia organica ha
sempre origine in un disagio psico-fisico. È stato osservato che mentre il pensiero occidentale,
da un certo momento in poi, si è rivolto alle “cose” per costruire le proprie analogie
esplicative, altri sistemi, tra cui quello dell’Africa subsahariana, hanno privilegiato il mondo
sociale. La loro “stranezza” (per noi) deriverebbe proprio dal fatto che essi si sono allontanati
dai riferimenti empirici (le cose) che invece costituiscono i parametri di riferimento dei
modelli scientifici moderni. In Africa e altro, invece, le analogie esplicative si sono espresse
nel linguaggio della “persona”. Le spiegazioni vengono cioè date in termini di relazioni sociali
e interpersonali.

La stregoneria degli Azande:


Un esempio di sistema di pensiero “chiuso” può essere rappresentato da quello azande
relativo alla stregoneria. Abitano tra il Sudan e il Congo. Qualunque tipo di disgrazia è
attribuita a un atto di magia o di stregoneria. Chiunque patisca una disgrazia consulta un
indovino o gli oracoli per conoscere l’origine del male ed eventualmente prendere le
contromisure rivolgendosi a un antistregone. Esiste inoltre un gran numero di tecniche e di
conoscenze magiche a cui fare ricorsoi per proteggere gli individui e le loro azioni da un
possibile attacco di stregoneria. Tale “sistema” risulta essere un intreccio di nozioni e di
concetti interconnessi in cui ogni nozione e ogni concetto dipende dagli altri. Di fronte a
eventuali fallimenti, gli Azande fanno ricorso a spiegazioni secondarie, le quali non
consentono di “uscire” dalla verità e dalla coerenza del sistema. Tutto ciò rende il pensiero
azande “prigioniero di sé stesso”. Contrariamente a quanto avviene nel caso dei sistemi
“chiusi”, nei sistemi di pensiero “aperti” lo scollamento tra parole e cose renderebbe invece il
pensiero più “dinamico”, più disposto ad aprirsi a possibili alternative riguardo alla
spiegazione degli eventi.
Capitolo 2: Pensiero metaforico e pensiero magico:
Le credenze “apparentemente irrazionali” e il pensiero metaforico:
Certamente molti popoli studiati dagli antropologi hanno cosmologie e sistemi di pensiero
diversi dai nostri. Molto spesso il pensiero degli altri popoli è stato interpretato “alla lettera”,
come si cioè quanto gli altri popoli affermano corrispondesse davvero a una concezione
“ultima” e definitiva della realtà da essi ritenuta “vera”. Parlare metaforicamente.
Considerare sé stessi come dei pappagalli rossi può avere lo stesso significato che ha presso
di noi proclamarsi tifosi di una certa squadra di calcio o appartenenti allo stesso circolo
ricreativo; oppure aderenti a un certo credo religioso o “vegetariani”. Anche noi nel nostro
parlare quotidiano facciamo continuamente uso di espressioni metaforiche. Ma perché solo
noi dovremmo pensare in questo modo e non gli altri? Infatti le espressioni metaforiche non
sono esclusive del nostro modo di pensare. Animali “simbolo”.
La magia e le sue interpretazioni:
Per “magia” si intende comunemente un insieme di gesti, atti e formule verbali mediante cui
si vuole influire sul corso degli eventi e sulla natura delle cose. Un atto magico sarebbe
un’azione compiuta da un soggetto nell’intento di esercitare un’influenza di qualche tipo su
qualcuno o qualcosa. La cosiddetta “magia nera” consiste ad esempio in una serie di
operazioni materiali e verbali su qualcosa che è appartenuto o che è stato in contatto con la
persona che si vuole colpire. È lo stesso per la “magia bianca”, o magia curativa, che, invece,
ma sempre in base allo stesso tipo di ragionamento, mira a produrre effetti benefici sul
soggetto prescelto. I primi antropologi interpretarono la magia come una specie di
“aberrazione intellettuale” tipica dell’uomo primitivo, oppure come una “scienza imperfetta”.
Nel primo caso si sarebbe trattato di una clamorosa mancanza, nei primitivi, di coerenza
logica; nel secondo caso di un tentativo di manipolare, sebbene in maniera sbagliata, la natura
di cui pur si intuivano regolarità e costanti. Frazer riteneva che esistessero due tipi
fondamentali di magia: la magia imitativa e la magia contagioso. La prima si risolveva nell’idea
che imitando la natura la si sarebbe potuto influenzare. La magia contagiosa invece si
fonderebbe sull’idea che due cose, per il fatto di essere state a contatto, conserverebbero,
anche una volta allontanate, il potere di agire l’una sull’altra. I primi antropologi ritenevano
che vi fosse un legame stretto tra la magia e la scienza, e la religione. Legate dall’eterno
tentativo dell’uomo di spiegare l’origine dei fenomeni e le relazioni tra di essi. Secondo
Frazer, in un primo tempo l’uomo si sarebbe dedicato alla magia nell’illusoria speranza di
manipolare il corso degli eventi. Poi, quando si accorse che la magia non era efficace, si
sarebbe rivolto a esseri spirituali a lui superiori per ingraziarseli e ottenere da loro ciò che egli
non era stato capace di ottenere con i propri mezzi. A questa fase, quella della religione,
sarebbe infine subentrata la fase della scienza, il ragionamento fondato sulla logica razionale,
l’osservazione e l’esperimento. Malinowski: egli assunse una posizione molto diversa da
quella dei suoi colleghi, distinguendo nettamente la magia sia dalla religione sia dalla scienza.
La religione non è chiamata a spiegare l’origine dei fenomeni, ma a fornire certezze di fronte
ai grandi “misteri” della vita. La magia, invece, ha finalità eminentemente pratiche. La magia
non ha relazioni nemmeno con la scienza, la quale esiste tra i primitivi anche solo in forma
elementare. La magia era dunque una cosa a sé stante. Riteneva che la magia fosse un mezzo
per rispondere a situazioni generatrici di ansia. La magia consiste infatti in una serie di “atti
sostitutivi”, come quando sferriamo un pugno nell’aria per colpire un nemico assente
placando così per un istante la nostra ira e la nostra tensione. La magia “mette l’uomo in
grado di compiere con fiducia i suoi compiti importanti, di mantenere il suo equilibrio. La sua
funzione è quella di ritualizzare l’ottimismo dell’uomo”. Ricerca di rassicurazioni di fronte
all’incertezza e all’imprevedibilità degli eventi.
La prospettiva intellettualista:
Si intende un modo di considerare i fenomeni che riguardano il pensiero umano e l’uso dei
simboli, che si rifà al punto di vista dell’osservatore “scientifico”. Cerca di spiegare tali
fenomeni su basi razionali. Tuttavia, laddove non c’è coerenza, c’è errore. Ma la logica
razionale non è l’unica cosa che guida le scelte umane. Vi sono infatti altri fattori.
Magia e “presenza”:
Ernesto De Martino, etnologo studioso del Mezzogiorno d’Italia. L’universo umano può essere
compreso solo in relazione all’angoscia, tipicamente umana, della “perdita della presenza”. La
“presenza” è un concetto complesso. La presenza a cui De Martino fa riferimento è una
condizione che l’essere umano non cessa di immaginare e di costruire per sottrarsi all’idea,
angosciosa, di non esserci. Pensiero magico come primo tentativo coerente di affermare la
presenza umana nel mondo. Il mago è la figura centrale di questo drammatico tentativo di
superare l’annientamento, tentativo che coincide con l’affermazione del mondo magico come
spazio di pensiero e di azione in cui l’uomo realizza la propria “volontà di esserci di fronte al
rischio di non esserci”. La faticosa conquista della presenza non si traduce mai in
un’acquisizione definitiva. L’esigenza di affermare la presenza era particolarmente viva presso
il “mondo subalterno”, il mondo povero e illetterato del Mezzogiorno. Dimensione magica
come caratteristica degli esclusi e dei subalterni. In molte circostanze diventa difficile
distinguere gli atti magici da atti di altro tipo. Sebbene la religione abbia sempre combattuto
la magia, in molti riti religiosi, si trovano ad esempio inseriti gesti e formule che hanno lo
scopo dichiarato di influenzare gli spiriti o le divinità inducendoli a comportarsi nel modo
desiderato dagli uomini. La ritroviamo anche nelle religioni monoteiste. In altre regioni del
pianeta, nel corso di cure sui malati condotte mediante l’uso di rimedi e tecniche realmente
efficaci, il curante pronuncia formule magiche le quali non hanno nulla a che vedere con
l’efficacia terapeutica in quanto tale. Molti malati si sentono tuttavia confortati dalle parole
del “mago”, e ciò può favorire “psicologicamente” l’ammalato dandogli fiducia in una rapida
guarigione.
Magie contemporanee. I buoni auspici della magia:
Il pensiero magico, inteso come modo di accostare cose e azioni sulla base di principi che non
hanno un fondamento reale, è una costante della storia dell’umanità. Compiere gesti
considerati beneauguranti o ritenere che tali gesti ci proteggano dalla sfortuna sono
atteggiamenti che riguardano ognuno di noi. Leggere l’oroscopo è un’altra azione a cui
cedono anche persone diffidenti circa l’influsso degli astri. Difficilmente gli esseri umani
potranno rinunciare all’idea che sia possibile trovare “qualcosa” con cui rassicurarsi di fronte
alle incertezze della vita. Vi sono però anche persone che fanno regolarmente ricorso a maghi,
cartomanti e indovini. La magia è dunque qualcosa che assume forme diverse, secondo le
epoche. Nel nostro tempo, più la vita diventa incerta nelle relazioni economiche, sociali,
affettive, lavorative, più si fa ricorso alla magia. Si moltiplicano anche i casi di truffa. Anche nel
campo dei “nuovi culti” religiosi si verificano a volte casi di estorsioni.
Capitolo 3: Il pensiero mitico:
Il pensiero mitico:
I miti della creazione, cioè i “racconti” relativi all’origine del mondo fisico, della società, dei riti,
delle tecniche, della distinzione tra i sessi, eccetera. I riti fanno spesso riferimento a dei miti.
La celebrazione di un rito è spesso collegata al racconto di un fatto accaduto in un tempo
indeterminato e che è ritenuto responsabile dello stato attuale delle cose e della condizione
degli esseri umani. Esiste tuttavia un gran numero di miti che non hanno riti collegati, così
come esistono, al contrario, riti che non fanno riferimento ad alcun mito. Pare che esistano
anche popoli privi di miti ma ricchi di riti.
Caratteristiche e protagonisti del racconto mitico:
I miti fanno spesso riferimento a eventi che avrebbero dato origine al mondo e all’aspetto
che quest’ultimo possiede attualmente. Può trattarsi di cosmologie, ossia di teorie
sull’origine dell’universo; oppure di teogonie, cioè storie di lotte tra divinità o spiriti dal cui
esito sarebbero dipese le sorti del mondo e dell’umanità; oppure di vicende accadute in un
passato senza tempo e che giustificherebbero lo stato delle relazioni tra gli uomini e le
divinità, tra gli esseri umani e gli animali, tra gli esseri umani stessi oppure quelle tra i sessi.
Alcuni studiosi hanno ritenuto che i miti fossero un modo “inesatto” di ricostruzione o di
giustificazione storica di eventi o fatti realmente accaduti. In realtà, anche nelle società in cui
i miti sono importanti esistono a volte forme di narrazione storica riconosciute come
indipendenti e autonome dal racconto mitico come tale. Il mito ignora in primo luogo lo
spazio e il tempo. Le azioni dei protagonisti dei miti non tengono infatti conto dell’anteriorità
e della successione temporale. I personaggi del mito agiscono o abitano in luoghi impossibili
da frequentare per la maggior parte o per la totalità degli esseri viventi. Si annullano le
differenze tra regni, generi e specie, tra mondo sensibile e mondo invisibile. In linea generale
il mito produce un antropomorfizzazione della natura, poiché attribuisce ad animali, piante e
cose caratteristiche fondamentalmente umane come il linguaggio, i sentimenti, le emozioni
eccetera. È però vero anche il contrario, è cioè che talvolta gli esseri umani presenti nei miti
hanno caratteristiche tipiche degli animali. Questa comunanza di esseri umani, spiriti, animali
e cose viene descritta nei miti come una situazione originaria di equilibrio cosmico e di unità,
la cui fine, spesso raccontata nel mito, avrebbe dato origine al mondo attuale. La creazione
del mondo viene quasi sempre rappresentata come il risultato di un processo di successive
separazioni e allontanamenti tra gli elementi costitutivi dell’unità originaria. In tutte le aree
del pianeta, ma specialmente presso le culture dei nativi nordamericani, in Europa, e in Africa
subsahariana, questa rottura dell’equilibrio originario è spesso raffigurata come il frutto
dell’azione di un personaggio particolare, un essere mezzo uomo e mezzo animale, oppure
un uomo semidivino, un eroe.
Nella letteratura antropologica questo personaggio prende il nome di trickster. Il trickster è
ambiguo nel comportamento come nella sua natura.
Mito e inversione rituale: i koyemshis degli Zuni:
Presso alcuni gruppi nativi nordamericani esistevano alcune associazioni i cui componenti
svolgevano la funzione di “buffoni rituali”. Presenti nella comunità degli Zuni nel sud-ovest
degli Stati Uniti, chiamati koyemshis. Sembrano voler evocare il comportamento del trickster.
Viene spontaneo connettere con il mito greco di Prometeo: solo l’infrazione del divieto divino
consente all’umanità di fondare la cultura, la quale è allontanamento dall’ordine originario di
tutte le cose. Il compito dei buffoni si rivestirebbe cioè di una funzione cognitiva e pedagogica:
mostrare ciò che è “culturalmente impossibile” e tenere sempre vivo, negli spettatori, il senso
di questa impossibilità da loro messa in scena.
Le “funzioni” del mito:
Probabilmente il mito ha tutte queste funzioni: speculativa, pedagogica, sociologica,
classificatoria, e gli antropologi hanno cercato di argomentare ognuna di queste possibili
interpretazioni. Malinowski riteneva che il mito fosse una specie di “autorizzazione” a
compiere certi riti, la “giustificazione dell’ordine esistente”. Il mito sarebbe inoltre qualcosa in
cui le società possono leggere “una morale” dei rapporti tra gli uomini e tra i gruppi, qualcosa
che “fissa” un codice di comportamento, di pensiero e di disposizioni. Gli animali compaiono
sempre in coppia. Ogni animale mitico si presenta sempre associato a un determinato gruppo
sociale come suo simbolo (totem). Radcliffe-Brown giunse alla conclusione che “il mondo della
vita animale è rappresentato [nei miti] in termini di relazioni sociali simili a quelle della società
umana; e che le coppie d’opposizione costituite dagli animali-simbolo esprimono
l’applicazione di un determinato “principio strutturale”. Tale principio consiste nella
combinazione delle due idee di “contrario” e di “opponente”. La prima caratterizza come
contrarie due specie sulla base di certe caratteristiche. L’idea di opponente, invece, mette in
risalto la loro relazione complementare che tuttavia appare come tale solo se messa in
rapporto con l’organizzazione sociale. Le due specie sono tra loro rivali o in un rapporto di
“opposizione complementare”. Esprime l’opposizione di gruppi che sono rivali ma
strutturalmente uniti in una relazione funzionale.
Funzione di “rappresentare” la realtà sociale nei suoi aspetti complementari, funzionali e
contraddittori.
Parte quinta: Il Sè e l’Altro:
Capitolo 1: Identità, corpi, “persone”:
Dai confini del Sé alla rappresentazione dell’Altro: identità e alterità:
L’attenzione degli umani non si è soffermata soltanto sul mondo della natura. Essa si è rivolta
da sempre anche all’umanità stessa, ossia al “Sé” e all’ “Altro” intesi sia come soggetti
individuali sia come soggetti collettivi. Riguarda in maniera tanto implicita quanto esplicita il
modo in cui individuo e gruppi percepiscono e pensano la propria relazione con l’alterità. Il
problema di sapere “chi siamo noi” e chi invece “siano loro” è ricorrente. Anche il problema
del saper leggere quali sono i tratti del “carattere” femminile o maschile, o quello di stabilire
la differenza tra un bambino e un adulto, o anche quello di distinguere una “persona” da una
pianta o da una roccia, sono presenti in tutte le culture. L’appartenenza di un individuo a un
gruppo è resa possibile dalla condivisione, almeno parziale, di determinati modelli culturali.
L’idea di far parte di un Sé collettivo, di un “Noi”, si realizza attraverso comportamenti e
rappresentazioni che contribuiscono a tracciare dei confini, delle frontiere nei confronti degli
“altri”. L’idea di appartenere a un sé collettivo e quella di essere ciò che siamo come individui
rinviano entrambe a ciò che si è soliti chiamare come identità. Sappiamo anche quanto siano
fragili queste certezze. Più viviamo in ambienti concorrenziali e conflittuali più si sviluppa, per
contro, la “retorica dell’identità” intesa come dimensione irriducibile dell’ “Io” o del “Noi”. Si
acuisce il senso del confine tra sé e l’altro, tra “noi” e “loro”. In un’epoca in cui i contatti tra i
gruppi umani si intensificano e gli spostamenti diventano sempre più frequenti, i confini
tendono a moltiplicarsi. Gli “incontri con la differenza” sono un tratto sempre più costitutivo
della nostra vita. La “cultura occidentale” è ad esempio una di quelle che più ha enfatizzato la
dimensione dell’identità, soprattutto della propria identità come contrapposta ad altre
identità. Non si valuta sufficientemente quanta parte l’espansione coloniale abbia avuto nel
plasmare l’idea di un “Occidente” come contrapposto ad altri mondi, ma nemmeno quanto,
di questi mondi “altri”, sia entrato a far parte dell’identità dell’Occidente. Se la cultura
occidentale ha un’idea piuttosto rigida della propria identità, non è sempre così presso altri
popoli.
Cibo, cultura, identità e salute:
Possiamo ritenere che la stessa idea di mangiare “le stesse cose” produca un’idea di
similitudine, ma forse fu a partire dalla rivoluzione agricola, la quale cambiò radicalmente le
abitudini alimentari delle popolazioni umane, che questo rapporto cibo-identità conobbe
importanti sviluppi. Iniziarono a comparire cibi adatti per una determinata occasione e cibi
adatti per occasioni diverse. Si svilupparono usanze alimentari diverse da gruppo a gruppo, da
regione a regione. Ben presto il modo di preparare il cibo divenne un segno di distinzione e di
differenza, di confine tra un gruppo e un altro. Elemento simbolico. Idea che ciò che noi
mangiamo può renderci diversi da ciò che siamo. Mangiare le stesse cose rinsalda il legame
tra i membri di una comunità; mentre il dover mangiare cose che non siamo abituati a
mangiare può darci la sensazione di subire una pressione non voluta dall’esterno. Il gusto per
la cucina etnica o la sperimentazione di nuove pietanze è un fenomeno molto recente. Il cibo,
insomma, è un vero meccanismo di conservazione culturale anche se, con il contatto sempre
più frequente tra i popoli del pianeta, molte usanze alimentari tendono a viaggiare, a
fondersi, a scambiarsi… Per il cibo, come per le culture, la vera minaccia non è il loro incontro,
ma la produzione standardizzata di alimenti di bassa qualità contenti sostanze dannose per
l’organismo e capaci di mettere a repentaglio la salute di milioni di persone.
Corpi:
Aspetto particolare, ma fondamentale, della dimensione identitaria: il rapporto degli individui
con il corpo, proprio e altrui. Il corpo è infatti una specie di mediatore tra noi e il mondo, un
mezzo attraverso il quale entriamo in relazione con l’ambiente circostante. Il corpo è disposto
ad anticipare tali regolarità in comportamenti che mettono in moto ciò che Pierre Bourdieu
ha chiamato appunto una “conoscenza attraverso il corpo”. Conoscenza incorporata.
Reagiamo “istintivamente” agli stimoli esterni, siano essi di natura fisica o di natura culturale.
Questa conoscenza “incorporata” del mondo sta alla base di ciò che lo stesso Bourdieu ha
chiamato habitus, cioè il complesso degli atteggiamenti psicofisici mediante i quali gli esseri
umani “stanno nel mondo”. Anche le emozioni e i sentimenti sono “incanalati” dal corpo
mediante modelli culturali precisi. Questo “essere nel mondo” attraverso il corpo è
culturalmente orientato. Il corpo è infatti “disciplinato”, come ha sottolineato Foucault. Il
corpo degli esseri umani è sempre “culturalmente disciplinato”, nel senso che le tecniche che
sono preposte all’attuazione di tale disciplina dipendono dai modelli culturali in vigore. La
società cerca di imprimere nel corpo dei suoi componenti i “segni” della propria presenza.
Secondo alcuni antropologi tutte le società si adopererebbero a sottolineare questo fatto
“plasmando”, “fabbricando” i loro membri secondo un proprio modello ideale di umanità.
Antropopoiesi, cioè “fabbricazione dell’umano” da parte della società. Il corpo è anche un
veicolo privilegiato per manifestare la propria “identità”, sociale e individuale. “È un luogo di
messa in scena del Sé”. Il corpo può, in determinate circostanze, essere un mezzo per
rivendicare non solo una identità o una “diversità” individuale; esso può diventare l’oggetto di
discorsi “identitari”. Il corpo è anche qualcosa in cui si riflettono
valori e disposizioni culturali. Certi aspetti della ritualità contemporanea sembrano persino
indicare come il corpo possa diventare oggetto di un discorso finalizzato al riscatto “politico” di
intere culture.
Corpi sani e corpi malati:
Il corpo può essere infatti uno strumento di “resistenza” e di “risposta”, tanto consapevole
quanto inconscia, nei confronti delle situazioni esterne. Gli individui “incorporano” il disagio
sociale dando luogo a patologie di vario tipo. Salute e malattia. È ovvio che in tutte le culture
vi sia una distinzione precisa tra cosa significa “stare bene” e il suo opposto, “stare male”.
Tuttavia non è affatto scontato che l’elaborazione sociale e culturale dello “stare bene” e
dello “stare male” sia ovunque la stessa. Prendere atto che tutte le culture hanno una
concezione complessa del disagio fisico e psichico, e che tali concezioni, “sistemi medici”,
rispondono a un tentativo più o meno coerente di spiegare e curare i disturbi sia fisici che
mentali. Molte culture hanno elaborato terapie efficaci basate sull’utilizzo di sostanze ricavate
dalle piante e dagli animali. Questi stati del corpo e della mente si intrecciano con vari piani
della vita e dell’ordine sociale e rinviano costantemente alle concezioni locali del corpo e della
persona. Manifestazioni del disagio psicologico possono essere curate, in molte società,
mediante sedute pubbliche di musicoterapia. Nell’area del Salento, la “taranta”, un disturbo
così chiamato perché si riteneva che fosse provocato dal morso di una tarantola. Si tratta in
realtà di una forma di nevrosi scatenata da un disadattamento psico-sociale che si manifesta
con convulsioni e spasmi corporei e che veniva curata facendo ascoltare della musica ai
pazienti, i quali si sottoponevano volontariamente a sedute di questo tipo. Non vi è una
medicina che possa considerarsi svincolata dal contesto sociale e culturale entro la quale
viene praticata. In Occidente prevale nettamente il cosiddetto paradigma “biomedico”, cioè
l’idea che lo stato di malattia fisica abbia solo cause di tipo organico, ossia biologico.
“Medicalizzazione del paziente”. Una volta diagnosticata la malattia, soprattutto se si tratta di
una malattia di una certa gravità, l’ammalato viene inquadrato come soggetto “altro”,
separato dalla comunità famigliare e lavorativa, una cosa, questa, inconcepibile presso molte
culture extraeuropee.
Nella medicina occidentale ha preso piede ormai da tempo l’idea della “prevenzione” che si
ispira a un’idea di cura che tiene conto del contesto “ambientale” entro cui le patologie hanno
più probabilità di manifestarsi. Spesso il paradigma biomedico occidentale entra in conflitto
con il “sistema medico” locale.
Lo ihamba degli Ndembu:
Ihamba, un rito praticato dagli Ndembu dello Zambia. Gli Ndembu fanno risalire certe malattie
all’azione di un qualche antenato adirato con un individuo o con la sua famiglia. Chi cade
ammalato deve quindi essere sottoposto a un trattamento che lo liberi dalla sofferenza che
l’antenato gli infligge allo scopo di vendicarsi. L’antenato si è manifestato in forma di dente
che lo “morde” sotto la pelle. La cura-rito dello ihamba consiste in una specie di “terapia di
gruppo” durante la quale i parenti del paziente devono esplicitare pubblicamente
i loro contrasti reciproci e/o il proprio risentimento nei confronti del paziente. Questa “ha
successo” quando il dente dell’antenato viene “estratto” con l’aiuto di una radice dell’albero
musoli, la cui funzione è appunto quella di “far venir fuori le cose nascoste” facendo sì che la
gente “parli apertamente”. La sofferenza fisica è qui interpretata come l’effetto di un
“disordine” sociale che, per essere ricomposto, deve implicare il coinvolgimento della famiglia
dell’ammalato.
La “persona” e il “soggetto”:
Alcuni popoli dell’Africa occidentale tendono a ritenere che gli individui ereditino il potere di
esercitare la stregoneria solo per via materna. Nelle isole Trobriand i neonati sono considerati
“reincarnazioni” degli spiriti dei morti dei gruppi di discendenza della madre, mentre presso
alcune popolazioni del Nepal un individuo non prende la sua “forma” nel ventre della madre,
ma nella testa del padre. “Bioetica”, ossia lo studio degli atteggiamenti e delle idee che sono
implicite nel nostro modo di trattare il corpo umano nella sua relazione con la sfera della
persona, della dignità dell’individuo, della sua libertà, del suo diritto alla vita eccetera. Culture
diverse hanno bioetiche differenti. L’individuo è pensato come ricettacolo di motivazioni e di
aspetti e come un soggetto capace di capire e interpretare il mondo. Le nozioni di individuo e
persona non dovrebbero essere usate come intercambiabili. Mentre la nozione di individuo
rinvia al singolo in quanto unico esemplare, diverso da tutti gli altri, la nozione di persona
rinvia al modo in cui l’individuo entra in relazione con il mondo sociale di cui fa parte. In
quanto “persona” l’individuo condivide con altre molte caratteristiche riconosciute dalla
società come proprie di tutti gli individui. In Occidente parlare di “persona” può voler dire
evocare il tema del rispetto, della dignità, della “persona” come di un soggetto meritevole di
attenzione e di cura. Nella tradizione cristiana ed ebraica, come in quella musulmana, un
“persona” è sempre un essere “speciale”, poiché in lui aleggia lo spirito divino. Il soggetto è
pensato ovunque come un’entità largamente “coerente”. La differenza sta proprio nel modo
in cui i vari elementi che compongono l’idea di “che cosa sia un essere umano” in
contrapposizione a una pianta o a una roccia si combinano tra loro per produrre una
definitiva, distinta e irriducibile idea di “persona”.
La “persona” tra i Samo (Burkina Faso):
Una popolazione di agricoltori del Burkina Faso. Ritengono che l’essere umano sia costituito
da nove componenti, alcuni dei quali possono essere il segno della presenza di altri, ma la cui
associazione è la condizione perché si possa parlare dell’esistenza di una “persona”. Il corpo,
il sangue, l’ombra, il sudore, il soffio, la vita, il pensiero, il “doppio” e il “pensiero individuale”.
Il “doppio” è una specie di “anima” posta dal dio creatore nel seno della madre dell’individuo.
Abbandona il corpo durante il sonno, e nel corso delle sue peregrinazioni fa delle esperienze
di cui può ritrasmettere il contenuto all’individuo. Può contrarre delle malattie che “riporta”
all’individuo, e può essere lo strumento degli attacchi di stregoneria. Secondo i Samo il mere
abbandona il corpo dell’individuo tre o quattro anni prima della sua morte, qualora non si
tratti di morte violenta. Il “destino”, lepere, significa letteralmente “la bocca che parla”.
Quando il feto è ancora nel ventre della madre il dio creatore chiede all’individuo di
pronunciare il proprio destino. È legato a quello della madre. Alle nove componenti si
aggiungono gli “attributi”: il nome, la potenza extraumana da cui derivano i bambini, la parte
di un antenato che può incararsi in un neonato preciso e non in un altro, la presenza di
coppie di spiriti del bosco o domestici che scelgono un individuo come proprio ricettacolo.
Componenti “sociali”.
Capitolo 2: Il sesso, il genere, le emozioni:
Femminile e maschile:
Forse il confine identitario più netto presente in tutte le società umane è quello tra “maschile”
e “femminile”. Vigono potenti confini tra il maschile e il femminile. In questi ultimi decenni,
ma solo in Occidente e neppure in tutti i paesi occidentali, la distinzione netta tra femminile e
maschile è andata incontro ad aspre contestazioni. L’emersione di una realtà alquanto diversa
da quella istituzionalmente riconosciuta, dove alcune persone tendono a dichiararsi
omosessuali oppure transgender, ha innescato un nuovo modo di considerare le differenze
sessuali e di genere. Esistono e sono sempre esistite. Alcuni studiosi ritengono che la
differenza tra femminile e maschile costituisca una specie di “ultimo limite del pensiero”, ed è
forse per questo che in molte società l’omosessualità è stigmatizzata come “anomalia”. Il
rapporto identico/differente è alla base del rapporto di opposizione tra rappresentazioni e
valori sia astratti che concreti, i quali rinviano al modo di parlare del femminile e del maschile
come categorie oppositive. L’Androgino di Platone è identico a se stesso e al tempo stesso
differente, in quanto nel suo corpo sono inscritti i caratteri di entrambi
i sessi, femminile e maschile. La differenza femmina/maschio è presente in tutti i sistemi di
pensiero, tanto in quelli tradizionali quanto in quelli scientifici. Il linguaggio della scienza
moderna che ha per oggetto la riproduzione umana descrive l’incontro tra l’ovulo e lo
spermatozoo come l’incontro tra una materia inerte e vegetativa (l’ovulo femminile) e un
principio portatore di vita (lo spermatozoo maschile). L’universalità dell’opposizione
femminile/maschile non implica che in tutte le culture si abbiano rappresentazioni analoghe
delle relazioni tra i sessi. “Costruzione sociale” della distinzione femminile/maschile.
Il sesso e il genere:
Vi sono culture presso le quali l’identità “sessuale” di un individuo può anche non essere
legata al suo sesso anatomico. Tali casi sono fatti socialmente costruiti, riconosciuti e
appropriati. Allo scopo di distinguere tra identità sessuale “anatomica” e identità sessuale
“socialmente costituita”, gli antropologi usano i termini sesso e genere rispettivamente. Le
differenze sessuali sarebbero allora quelle legate alle caratteristiche anatomofisiologiche di
un individuo; le differenze di genere, invece, risulterebbero dal diverso modo di concepire
“culturalmente” la differenza sessuale. Nelle nostre società i ragazzi e le ragazze ricevono
un’educazione “di genere” differente. Tuttavia sappiamo bene quanto l’educazione e i
comportamenti di genere siano cambiati nel corso dell’ultimo secolo. Oggi femmine e maschi
si comportano e si vestono in modi che avrebbero fatto inorridire i nostri bisnonni, i quali
avrebbero appunto stigmatizzato l’impossibilità di distinguere tra maschi e femmine secondo
quelli che erano i loro modelli culturali, ossia sulla base di ciò che era consono all’identità di
maschi e femmine rispettivamente. I tratti della femminilità e della mascolinità sembrano
essere delle costruzioni sociali.
Il sesso, il genere e le relazioni sociali:
Le donne sarebbero individui preposti “naturalmente” alla riproduzione. In realtà, non c’è
niente di meno naturale della riproduzione umana. Le pratiche anticoncezionali e abortive, ad
esempio, sono sempre state note a tutte le società umane, e oggi nelle nostre società
tecnologicamente avanzate conoscono sviluppi, da molti giudicati eticamente inaccettabili,
come l’aborto selettivo, che consentirebbe di scegliere se far nascere un maschio o una
femmina. L’infanticidio è un’altra pratica che ha ben poco di “naturale”. Il baliatico, cioè
l’usanza di dare “a balia”, in vigore dei tempi più remoti in moltissime società, era sovente
all’origine di instaurazioni di relazioni sociali tra i “fratelli di latte” destinati a protrarsi per
tutta la vita. L’allattamento artificiale, la riproduzione assistita, le banche dello sperma, la
fecondazione in vitro, gli “uteri in affitto” e la manipolazione genetica e la clonazione sono
tutte pratiche che non fanno certo della funzione riproduttiva della donna una pratica
“naturale”. Il controllo delle capacità riproduttive delle donne costituisce un elemento
cruciale di tutti i sistemi sociali e della comparsa di certe forme di potere. Molto spesso i
rapporti tra i sessi sono fatti oggetto di vere e proprie norme giuridiche codificate, in alcuni
case soffuse in suggestioni di tipo religiose. Molte culture hanno costruito dei veri e propri
“spazi di genere”. Inoltre, in alcune società le parti della casa sono simbolicamente associate
alle persone di sesso differente che vi abitano. La separazione, l’esclusione, la distinzione tra i
sessi sono realizzate mediante la messa in opera di simboli, pratiche e attribuzioni di ruoli,
tanto reali quanto immaginari. Quasi sempre il modo di esporre il corpo è connessa a una
concezione precisa della sessualità e della “libertà sessuale”. Vi sono popoli presso i quali la
verginità prematrimoniale di una donna non è tenuta in gran conto e presso i quali mostrare il
proprio corpo nudo è, per costei, una cosa normale. Per contro vi sono popoli presso i quali il
corpo femminile deve rimanere nascosto, celato il più possibile allo sguardo degli individui
dell’altro sesso. Alcune culture hanno costruito delle vere e proprie “barriere”, tattili e/o
visive. In molte società si ritiene che uomini e donne abbiano “personalità” differenti: più
razionali e lucide quelle degli uomini, più istintive ed emotive quelle delle donne; più
distaccate quelle maschili, più effettivamente ed emotivamente coinvolte quelle femminili.
Queste sono però delle distinzioni che riflettono più delle costruzioni di genere che delle
differenze di natura sessuale. I tratti del carattere maschile e femminile sono determinati più
dall’educazione e dai modelli appresi che non da una predisposizione naturale, e i diversi
valori espressi da culture differenti tendono a produrre ciascuno un carattere “tipico medio”,
maschile e femminile.
L’uso del “velo” e i suoi significati nel mondo musulmano:
Il “velo islamico” nella tradizione araba-musulmana ha il nome di hijab. Letteralmente
“protezione”, “condizione di spirito” o uno “stato mentale” che si esprime in comportamenti
imperniati sull’autocontrollo, la modestia e l’evitare gli sguardi “altri”. Il “velo” non è affatto
un capo di vestiario sempre uguale, ma conosce una varietà di fogge e di usi “contestuali”
molto ampia. Il “velo” può assumere anche un significato di contestazione e di rivendicazione
di uno stato di parità con il sesso maschile. Indossare lo hijab significa affermare la duplice
natura della donna e cambiare di conseguenza il significato della presenza femminile nei
luoghi di lavoro. L’atteggiamento autoprotettivo delle donne islamiste potrebbe
preannunciare sviluppi interessanti.

Le emozioni:
Lo studio delle emoziono costituisce un settore di ricerca sviluppato solo recentemente
nell’antropologia. Sono tutti elementi costitutivi della persona e della sua maniera di “essere
nel mondo”. Tali stati d’animo fanno parte di una più generale sfera dell’ “interiorità” in cui
non è sempre facile distinguere tra emozioni, sentimenti e sensazioni. I sentimenti sono in
genere i concetti che una cultura possiede di un determinato stato d’animo, per esempio
“essere innamorati”. L’emozione implicita nel fatto di “essere innamorati” è tuttavia qualcosa
di diverso dal concetto di “amore” mediante cui viene espresso questo stato d’animo
particolare. Gli stati d’animo non sono universali, o meglio, non sono espressi ovunque nella
stessa maniera. Sono concepiti ed espressi da “soggetti culturali”, cioè in base a modelli
culturali interiorizzati durante
l’infanzia e riplasmati continuamente nel corso della vita di un individuo. Le emozioni sono
responsabili della nostra “fabbricazione”. Nel caso del lutto è spesso il corpo a essere
chiamato in causa, come avviene nel caso del “pianto rituale” e dei gesti di disperazione che
mirano, ripetendo un modello prestabilito, a mostrare in pubblico e a socializzare il dolore di
chi ha persona una persona cara. Molte culture mancano di un termine unico per indicare
quell’insieme di stati d’animo e di sentimenti che noi chiamiamo emozioni. Le emozioni
vengono modulate in relazione a una serie complessa di fattori. L’espressione dell’ “amore”
nei beduini egiziani trova un canale privilegiato nella poesia orale. Molti degli studi condotti
dagli antropologi sulle emozioni hanno cercato di mettere in risalto il rapporto di queste
ultime con il sistema delle interazioni personali e delle relazioni sociali. Vi sono molti stati
d’animo, emozioni e sentimenti connessi con espressioni corporee che mutano da cultura a
cultura. Tali espressioni sono apprese dagli individui. Tutte le culture hanno un modo
“razionale” di parlare delle emozioni, poiché possiedono nozioni e concetti atte a descriverle.
Le emozioni “non sono qualcosa che si oppone al pensiero, ma cognizioni che interessano un
Io corporeo, pensieri incorporati”.
Capitolo 3: Le caste, le classi, le etnie:
Le caste:
Il termine casta viene oggi utilizzato in maniera fluida e generica in riferimento a gruppi sociali
ritenuti, per una qualche ragione, superiori o inferiori ad altri e che, per questa loro
caratteristica, tendono a condurre una vita in qualche modo separata da questi ultimi. “Casta”
è un termine che in lingua portoghese significa “casata”, “stirpe”. Quando nel secolo XV i
navigatori portoghesi giunsero in India lo applicarono indistintamente a due criteri per
distinguere le popolazioni sottoposte all’autorità dei principi (raja): il sistema dei varna e
quello degli jat. I varna sono le quattro categorie sociali principali della tradizione indù:
sacerdoti, guerrieri, commercianti, artigiani e, infine, contadini (oltre ai “fuori-casta” o
“intoccabili”, i paria). I varna si suddividono a loro volta in una marea di jat e sotto-jat, ognuno
corrispondente, almeno in via teorica, a uno specifico gruppo occupazionale. Si presentano
come entità sociali tendenzialmente ripiegate su sé stesse. Le unioni matrimoniali devono in
principio avvenire tra individui appartenenti allo stesso varna o allo stesso jat. Non
consentono ai membri delle caste “superiori” di entrare in contatto con i membri delle caste
“inferiori”. Le caste sono infatti disposte gerarchicamente. Esempio particolarmente
esasperato di “stratificazione sociale” fondato sulla disparità di accesso alle risorse. In molti
casi individui di casta superiore si sono impoveriti, mentre altri di casta inferiore si sono
arricchiti. La concezione tradizionale della diversa purezza rituale è entrata così in conflitto
con la sfera delle competenze, della ricchezza e dell’istruzione. Il sistema castale si fonda su
un’idea di gerarchia che è profondamente diversa da quella di gerarchia e potere che gli
occidentali hanno in mente. La gerarchia castale è una gerarchia di purezza rituale la cui logica
informa l’interno pensiero indù, e non solo l’ambito delle relazioni economiche e di potere. Ha
subito un processo di forte irrigidimento con la colonizzazione. Lèvi-Strauss ritenne che le
caste indù siano un tipico esempio delle tendenze classificatrici della mente umana. Gli indù
obbligano gli individui a sposarne altri della stessa casta. Il sistema castale distingue gli esseri
umani sulla base della loro occupazione, quindi sulla base di un elemento culturale. Le
differenze tra gruppi occupazionali vengono assimilate a delle differenze naturali. Il sistema
delle caste concepisce la cultura attraverso la natura. Le caste indù poiché si
autopercepiscono come gruppi naturali, sono unità chiuse sul piano matrimoniale e separate
le une dalle altre sulla base di precisi divieti riguardanti il contatto fisico, il matrimonio, la
preparazione del cibo eccetera.
Le classi:
Karl Marx riteneva che la storia della società (europea) fosse caratterizzata da ciò che chiamo
“lotta di classe”: cioè lo scontro tra gruppi sociali con interessi economici e politici diversi e
conflittuali. Così la società moderna era nato dallo scontro tra borghesia e aristocrazia, e dal
trionfo della prima sulla seconda. La rivoluzione industriale aveva però creato una classe
prima sconosciuta, il proletariato urbano industriale. Si legano tra loro le classi sociali in un
rapporto conflittuale da un lato e funzionale dall’altro. Oggi le teorie di Marx tornano utili per
leggere i processi di espansione dei mercati e del capitale a livello globale, e per tutte quelle
forme di diseguaglianza e di emarginazione che tali fenomeni comportano a livello planetario.
Le distinzioni di classe non si risolvono in differenze di tipo economico. Tali distinzioni erano il
frutto, oltre che di disparità oggettive nell’accesso alle risorse, anche della rappresentazione
che ogni gruppo aveva di sé stesso in relazione alle altre classi. “Coscienza di base”,
consapevolezza che una classe come il proletariato doveva acquisire circa la propria
condizione di sfruttamento che la subordinava alla borghesia capitalista. La subalternità
culturale non si esprime sempre e comunque in forme coscienti e consapevoli, ma sotto forma
di un “folklore di contestazione”, spesso lontano dalla “coscienza di classe” marxiana, come
avviene in certe feste popolari, di natura sia sacra sia profana.
Gli studi culturali:
Sono affrontate dalla tradizione di ricerca che va sotto il nome di “studi culturali” (cultural
studies). Negli anni Sessanta si verificarono in Gran Bretagna le condizioni per dover ripensare
il rapporto tra il concetto di classe sociale e quello di cultura e poi, successivamente, tra quelle
che apparivano come le nuove emergenze identitarie e la dimensione culturale.
L’immigrazione dalle ex-colonie era un fatto rilevante già a partire dagli anni successivi alla
Seconda guerra mondiale, e problemi quali le distinzioni etiche e quelle basate sul colore della
pelle si aggiungevano ai problemi posti dalla differenza di classe e dalle nascenti discussioni sul
genere e l’identità sessuale. Nacquero negli ambienti della sinistra politica. La cultura fu
piuttosto pensata come un’arena, un luogo di incontro-scontro e di disputa-dibattito per
affermare le proprie idee e i propri diritti.
Cultura come discorso che si costruisce socialmente intorno ai diversi gruppi e come
rappresentazione della loro esperienza nel mondo. La nozione di agency sintetizza la capacità
che gli individui hanno di investire di significato eventi e rappresentazioni, accogliendoli o
rifiutandoli per adattarsi e/o “resistere” nel momento stesso in cui promuovono, grazie allo
sviluppo proveniente da tali eventi e rappresentazioni, una propria forma di soggettività.
L’appartenenza di classe non è “ascrittiva”, nel senso che, nel contesto delle moderne società
industriali, nulla impedisce in via teorica al proletariato di diventare egli stesso capitalista (e
viceversa). La divisione della popolazione in classi ha naturalmente a che vedere con la
divisione del lavoro, ma non coincide con quest’ultima. Gruppi occupazionali diversi possono
infatti appartenere alla stessa classe sociale. Dove non esiste “coscienza di classe” non
sembrerebbe legittimo parlare di classi sociali. Il capitalismo va estendendosi pressoché
ovunque.
Le etnie e l’etnicità:
Il termine etnia, etnico, etnicità sono oggi alquanto utilizzati nel linguaggio dei media e della
politica. Etnia: un gruppo umano identificabile mediante la condivisione di una medesima
cultura, di una medesima lingua, di una stessa tradizione e di uno stesso territorio.
I significati del termine “etnia”:
Alcuni antropologi hanno fortemente criticato l’equazione cultura = lingua = territorio perché
sembra dare per scontata l’idea che dietro ogni etnia vi sia un’origine comune, e che
quest’ultima assegni all’etnia un fondamento “naturale”. Infatti, questo modo di intendere le
etnie corrisponde a un sentimento identitario (l’etnicità) che dà per scontato il carattere
assoluto, statico, eterno del gruppo in riferimento al quale tutte queste cose vengono
pensate. Etnicità: il sentimento di appartenenza a un gruppo definito culturalmente,
linguisticamente e territorialmente in maniera rigida e definita. Tutti i gruppi umani, le loro
culture e le loro lingue sono il frutto di un più o meno lento processo di interazione con altri.
L’uso politico dell’etnicità:
Nella contrapposizione etnica ciò che agisce più di ogni altra cosa è infatti la volontà di
enfatizzare uno o più elementi differenziali reali, o immaginari, dimenticando tutti gli altri che
invece accomunano. Lo scopo dello scontro etnico è la negazione dell’altro, il suo
annullamento fisico, per allontanamento o sterminio. Il fattore etnico può anche essere
manipolato allo scopo di ottenere vantaggi sul piano economico per alcuni gruppi di interesse.
Secondo l’ipotesi di Cohen l’etnicità e la coscienza di base sono esclusive l’una dell’altra. Se c’è
una non ci può essere l’altra. Non è però che le differenze di classe spariscano. Esse passano in
secondo piano. L’etnicità può essere funzionale al mantenimento della divisione della società
in classi, anche se, inibisce la comparsa di una “coscienza di classe”. L’etnicità deve essere
letta come il prodotto di un’interazione tra gruppi con interessi diversi spesso innescati da
soggetti politici esterni.
Il conflitto etnico “perfetto”: Hutu e Tutsi in Rwanda:
Uno dei più violenti conflitti etnici divampati nella seconda metà del Novecento. È costato circa
due milioni di vite. Fu in realtà uno strascico perverso dell’epoca coloniale e della
radicalizzazione delle differenze tra due “comunità” che hanno sempre condiviso la stessa
lingua, lo stesso territorio, la stessa religione, gli stessi “valori” e le stesse istituzioni politiche. È
di fatto quasi sempre impossibile determinare l’appartenenza di un individuo a uno o all’altro
gruppo sulla base delle sue caratteristiche fisiche. In Rwanda vigeva, sino all’arrivo degli europei
nella seconda metà dell’Ottocento, un sistema politico elaborato, fondato sulla
complementarietà di tre gruppi: pastori, agricoltori e cacciatori-raccoglitori. I pastori erano in
prevalenza Tutsi; gli agricoltori erano Hutu. I cacciatori-raccoglitori erano pigmei Twa. I
colonizzatori attribuirono a questa ripartizione un significato “raziale” di tipo gerarchico: Tutsi,
Hutu e Twa. Prima della colonizzazione i Tutsi erano il gruppo politicamente preminente.
Dall’aristocrazia Hutu provenivano tuttavia i sacerdoti preposti ai rituali che assicuravano il
benessere del sovrano (tutsi) e dell’intera popolazione del regno.
Quando i colonizzatori europei si impadronirono della regione, abolirono, oltre alla monarchia
tutsi, anche il ruolo rituale degli Hutu. Quando l’aristocrazia tutsi si convertì al cattolicesimo,
acquisì sul resto della popolazione un nuovo potere, fondato sul rapporto esclusivo e
complice con i colonizzatori. I belgi affidarono ai Tutsi posti e incarichi nell’amministrazione.
Gli Hutu rimasero invece tagliati fuori da tutto ciò. Gli Hutu si ritrovarono ad essere una
semplice massa politicamente ininfluente di contadini sfruttati dai dominatori tutsi. Questa
situazione si protrasse sino alla fine degli anni Cinquanta quando, con l’indipendenza, venne
instaurata una repubblica controllata per motivi numerici dagli Hutu. La presa di potere da
parte degli Hutu segnò l’inizio di un periodo di violenza intermittente culminato con le stragi
degli anni Novanta. Nel 1930 i belgi idearono un censimento allo scopo di identificare, tassare,
sottoporre a leva obbligatoria eccetera la popolazione della loro colonia. Nelle loro intenzioni
erano Tutsi coloro che avevano tanti animali, Hutu chi ne aveva pochi. Il nome di Tutsi o di
Hutu venne riportato sulle carte di identità, e l’appartenenza a una o all’altra “etnia” poteva
determinare il diritto di accesso, o meno, all’istituzione e a ogni altro privilegio concesso dai
colonizzatori ai Tutsi.
Parte sesta: Forme della parentela:
Capitolo 1: La parentela: relazione e rappresentazione. Le nozioni

fondamentali: Il khandan dei Baluch:


Presso gli agricoltori Baluch del Pakistan meridionale l’idea di discendenza è espressa dal
vocabolo zat. Zat
sono chiamati i gruppi di discendenza patrilineare i cui membri non sono però in grado di
stabilire con precisione i legami di discendenza con l’antenato dal quale sostengono tuttavia di
discendere. Il gruppo di riferimento concreto è invece il khandan, un nucleo centrale
egocentrato assimilabile al parentado, il quale è formato da tutti parenti consanguinei viventi
di un individuo, sia da parte di padre, sia da parte di madre. È acquisito alla nascita e solo in
teoria comprende tutti i parenti consanguinei di un individuo. Infatti solo una cerchia di
individui fa parte del khandan. Solo ai livelli superiori la nozione di khandan ha un riscontro a
livello pratico. Nei casi dei livelli inferiori della scala sociale, la nozione di khandan rimane un
fatto prevalentemente nominale e teorico.

Levirato e sororato:
Con il termine levirato si indica il costume in base al quale la moglie di un defunto va in sposa
al fratello di quest’ultimo, il quale diventa in tal modo tutore della donna medesima e della
sua prole. Sororato è invece il termine con cui si indica il costume di dare in moglie a un uomo
rimasto vedovo la sorella della donna defunta, soprattutto quando questa muore senza prole.
Lo scopo di questa unione è quello di rimpiazzare le facoltà riproduttive della donna
scomparsa a vantaggio del gruppo del marito con il quale era stato stipulato un accordo
matrimoniale.
I matrimoni poliandrici dei Nayar:
Altre forme di unione matrimoniale contribuiscono a rendere problematica la definizione di
matrimonio corrente nelle società occidentali. I Nayar praticano la poliandria e la loro società
si fonda su gruppi di parenti interrelati dalla comune discendenza matrilineare. Questi gruppi
sono chiamati tavari. Poco prima di raggiungere la pubertà le ragazze sono sottoposte alla
cerimonia del tali, che rende legittimo per una donna avere rapporti sessuali con un uomo.
Tra i Nayar una donna può avere più relazione contemporanee o successive. Neppure la
ragazza è vincolata da obblighi nei confronti dell’uomo. Successivamente può verificarsi che
alcuni degli uomini mantengano una relazione permanente con la donna, relazione chiamata
sambandham e che coinvolge i due individui in un rapporto di tipo formale: l’uomo deve
offrire doni alla donna tre volte l’anno. Ciò lo autorizza a passare la notte in casa della donna
quando vuole e ad avere diritti sessuali permanenti (ma non esclusivi) su di lei. Una donna
può avere questo tipo di relazione con più di un uomo contemporaneamente. Quando la
donna è incinta però, un uomo di condizioni pari o superiori alla sua deve riconoscere la
paternità del nascituro, pena l’espulsione della donna dal suo tavari. Senza contrarre obblighi
di sorta nei confronti del figlio della donna. Altre unioni poliandriche sono in vigore presso i
Tibetani del Nepal, dove però più fratelli prendono una moglie in comune, contraendo quindi
un matrimonio in senso “collettivo”.

Sistemi a lezioni:
Lo scambio delle sorelle è stato osservato anche presso società prive di veri e propri gruppi di
discendenza, le quali però riconoscono il sistema della discendenza per creare “sistemi a
sezioni” matrimoniali. È il caso di quei gruppi di aborigeni australiani. I sistemi a sezioni
costituiscono un ulteriore meccanismo di assegnazione dei nuovi nati a dei gruppi che si
formano in base al criterio della discendenza, ma che non sono essi stessi gruppi di
discendenza.
I matrimoni endogamici dei beduini d’Arabia:
È massima espressione il matrimonio tra cugini paralleli. Anche oggi questi nomadi si
disperdono durante la stagione fresca in piccole unità di nomadizzazione composte da alcune
cellule familiari costituite ciascuna da un uomo, sua moglie e i loro figli. Un metodo semplice
per risolvere le unioni dei componenti di queste unità di nomadizzazione, isolate per gran
parte dell’anno, potrebbe essere stato quello di far sposare tra loro i figli maschi e le figlie
femmine dei vari fratelli, cose che effettivamente accade ancor oggi che gli spostamenti
all’interno del deserto sono diventati molto più rapidi e i contatti tra unità domestiche assai
più frequenti di una volta.
Capitolo 2: Le terminologie di parentela:
Terminologie di “parentela” o di “relazioni”?:
Una terminologia di parentela è il complesso dei termini di cui una società dispone per
designare gli individui in relazione di consanguineità e di alleanza (o affinità). Alcuni però
preferiscono parlare di “terminologie di relazioni”. La ragione di ciò dipende dal fatto che in
molte culture gli individui che vengono designati mediante termini che noi riteniamo essere
“di parentela” possono in alcuni casi non evocare l’idea di un legame né di sangue né di
alleanza. Un termine, oltre a indicare uno o più individui, porta con sé un significato profondo,
in quanto il suo impiego implica una serie di atteggiamenti, valori e aspettative nei confronti
degli individui così designati che altri termini non implicano.
I tre assunti di Morgan:
Il primo: terminologie di parentela costituiscono dei sistemi. Ciò significa che a ogni termine
con cui un individuo designa un suo “parente” ne corrisponde sempre un altro usato da
quest’ultimo per designare il primo. Si parla di sistemi terminologici di parentela o, ancor più
brevemente, di sistemi di parentela. “Legge di coerenza interna dei reciproci”. Il secondo: i
sistemi terminologici di parentela rientrano in poche categorie fondamentali. Il terzo assunto:
sistemi molto diversi possono trovarsi in regione geograficamente vicine, mentre sistemi tra
loro simili possono essere rintracciati in località del pianeta lontanissime le une dalle altre.
I sei sistemi terminologici di parentela:
Gli antropologi hanno isolato sei tipi principali di sistemi terminologici di parentela e hanno
assegnato loro i seguenti nomi: hawaiano, eschimese, omaha, crow, irochese e sudanese.
Prendono semplicemente il nome da popoli o da regioni presso cui tali sistemi furono individuati
o studiati per la prima volta. Sono raggruppati di solito in tre differenti categorie:
Sistemi non lineari o

bilaterali; Sistemi lineari;


Sistemi descrittivi.
Sistemi non lineari o bilaterali: hawaiano ed eschimese:
Non fa distinzione (sul piano terminologico) tra parenti dal lato paterno e partenti dal lato
materno. Non applicano il criterio detto della biforcazione. Sembra riflettere la stessa
importanza data a entrambe le linee di discendenza. Il sistema hawaiano fa uso
esclusivamente dei principi della generazione e del sesso.
Distingue solo i maschi dalle femmine e la loro generazione di appartenenza. Il sistema
eschimese, di cui il nostro è una variante, distingue i membri della famiglia nucleare da tutti
gli altri, mentre raggruppa tutti i discendenti dei fratelli e delle sorelle dei propri genitori sotto
il termine “cugini”. La principale differenza tra i sistemi di tipo hawaiano e quelli di tipo
eschimese consiste nel fatto che questi ultimi distinguono terminologicamente i consanguinei
in linea diretta da quelli in linea collaterale.
Sistemi lineari:
Presso società con gruppi di discendenza unilaterali, distingue terminologicamente i cugini
incrociati da quelli paralleli e i parenti consanguinei da parte di padre dai parenti
consanguinei da parte di madre.
Adottano il principio della biforcazione. Però “fondono” i parenti dello stesso sesso e della
stessa linea di discendenza. Fusione biforcata. Sistema irochese. Il sistema crow adotta il
criterio della biforcazione e “fonde” terminologicamente le sorelle della madre con la madre,
e i fratelli del padre con il padre. Per cogliere le differenze con il sistema irochese bisogna
tenere presente che il sistema crow:
Sono tipici di società matrilineari;
Distinguono tra i parenti del matrilignaggio della madre e i parenti del matrilignaggio del padre;
Usano lo stesso termine per indicare tutti gli individui maschi del matrilignaggio della madre e
uno stesso termine per indicare i figli di costoro.
Indipendentemente dalla generazione. Il sistema omaha è speculare a quello crow. Nelle
società patrilineari. I membri del patrilignaggio della madre si distinguono
terminologicamente solo in base al sesso, ma non alla generazione. Tutti i figli delle donne del
patrilignaggio del padre sono distinti solo in base al sesso, ma non alla generazione.
Sistemi descrittivi:
Uso di un termine differente per ogni parente, appartenente alla propria generazione, a quella
dei genitori e a quella dei propri figli. Sistemi a “massima distinzione terminologica”. Definiti
anche sudanesi. In gran parte del Medio Oriente arabo e nell’Africa settentrionale e orientale.
La ragione di questa situazione potrebbe essere ricondotta alla prossimità linguistica tra le
lingue indoeuropee parlate in Europa e quelle parlate in Asia.
Capitolo 3: La parentela come pratica sociale:
La parentela non consiste soltanto in un sistema coerente di termini con cui gli individui
designano i consanguinei e gli alleati: essa è costituta tanto da uomini e donne in carne e
ossa, quanto da individui defunti (o che stanno per nascere). La dimensione della “relazione”
tra esseri umani ha assunto maggiore importanza alla luce senza dubbio delle mutazioni che
l’idea di parentela ha subito, nella pratica, nella stessa società occidentale. Fenomeni come la
convivenza, le unioni tra individui dello stesso sesso, l’omogenitorialità, e poi le possibilità
offerte da nuove tecniche mediche hanno contribuito a creare un nuovo sguardo sulla
“parentela”. Problematiche che sono esclusivamente occidentali, tipiche di società
tecnologicamente avanzate. Qui gli individui sono in grado di operare sempre più spesso
scelte individuali. Questa situazione non poteva avere delle ripercussioni sul modo in cui lo
studio della parentela si è sviluppato in rapporto ad altri contesti culturali. La conseguenza è
stata l’adozione di una prospettiva centrata sulle possibilità che gli individui hanno di generare
rapporti sociali, “reti di relazioni”, che possono non avere nulla a che fare con la
consanguineità e l’alleanza, ma con forme di “relazionalità” che si sottraggono tanto alla
dimensione biologica quanto a quella socialmente approvata.
La parentela in azione:
Si tratta di una umanità in grande espansione demografica che sta riproducendo non solo sé
stessa, ma anche le proprie istituzioni e il modo di concepire le relazioni sociali e familiari. I
diversi modi di intendere la parentela non si riducono alla diversità dei sistemi terminologici
usati, ma consistono anche, e soprattutto, nell’uso per così dire pratico che i popoli fanno di
essa. Presso molte società i parenti costituiscono una cerchia di individui con cui
intraprendere iniziative economiche, con cui svolgere determinati riti, con cui formare delle
fazioni politiche. Come la parentela agisce in diversi contesti culturali, storici e soprattutto
pratici: per contesti pratici intendiamo quelle situazioni, o aspetti della vita sociale, che
coincidono con le condizioni della riproduzione sociale.

La parentela nelle società unilaterali (patri e matrilineari):


Le società unilaterali sono di due tipo: patri e matrilineari.
La formazione di gruppi di discendenza unilineari presenta il vantaggio di poter stabilire chi
siano stati, chi siano e quali saranno i membri del gruppo di discendenza o del lignaggio.
Consente la costituzione di gruppi i quali possono gestire risorse e stabilire i criteri d’accesso a
queste ultime. Sul piano pratico vi sono tuttavia delle discendenze notevoli tra gruppi a
discendenza patrilineare e gruppi a discendenza matrilineare.
Gruppi patrilineari:
Sono quelli che ricorrono più frequentemente. Si è pensato che la residenza patrilocale sia
emersa per effetto della tendenza a far restare i maschi di un gruppo in un luogo e ad
“allontanare” le donne verso un altro gruppo (cedendole in matrimonio). Mentre in tal modo
i neonati maschi rimarrebbero presso i genitori, le neonate femmine sarebbero destinate a
lasciare il gruppo di origine. Regole dell’esogamia e della residenza patrilocale. Costruire dei
gruppi corporati, cioè dei gruppi interessati allo sfruttamento collettivo di risorse e alla
trasmissione di queste risorse ai loro discendenti. Alcuni ritengono che il criterio della
patrilinearità potrebbe essere il prodotto di una forma di divisione del lavoro che vede gli
uomini impegnati congiuntamente in attività le quali necessitano di una cooperazione intensa
e continuata. Eccezioni alla norma secondo la quale a gruppi di discendenza patrilineare
corrisponderebbe sempre una residenza di tipo patrilocale. È comunque assodato che più i
due principi della patrilinearità e della patrilocalità vengono a sovrapporsi, più un gruppo di
discendenza svolge un ruolo importante nella vita degli individui. Nelle loro scelte devono
tener conto non di uno Stato burocratico o di un sistema giuridico valido per tutti, ma di un
gruppo, quello di discendenza.
Poliandria adelfica ed eredità tra i Tibetani del Nepal:
I Tibetani del Nepal praticano varie forme di unione matrimoniale, ma la più diffusa era
quella di una donna con un gruppo di fratelli. Poliandria “adelfica”. Sono patrilineari.
Sposandosi, la donna va a vivere con i mariti-fratelli. I figli della donna sono trattati tutti allo
stesso modo dai loro “padri”, e anche se i figli sanno chi è di preciso il loro genitore,
chiamano tutti gli uomini allo stesso modo. La terra è scarsa perché non è facilmente
dissodabile a causa del gelo che la indurisce gran parte dell’anno. Gli individui tendono quindi
a restare sulla terra ereditata dalla generazione precedente. Rimanere sulla terra ereditata
sarebbe anche un modo per prevenire la frammentazione della proprietà. Efficace
meccanismo di adattamento.
Il controllo della progenitura:
Preoccupazione di avere maschi che ne assicurino la continuità. Molte culture enfatizzano
l’elemento maschile, lo esaltano. Le società patrilineari hanno istituzioni e regole che sono
finalizzate all’acquisizione di prole maschile. Si tratta di istituzioni e regole che si applicano al
controllo delle facoltà riproduttive degli individui di sesso femminile. Istituzioni del levirato e
del sororato.
La compensazione matrimoniale: Nascita di complessi sistemi di scambio matrimoniale i quali
prevedono il coinvolgimento di numerosi gruppi. Impossibilità di trovare sempre un partner
matrimoniale di età adeguata da scambiare immediatamente con un gruppo da cui si riceve una
donna. Hanno visto lo sviluppo di istituzioni e di meccanismi che hanno la funzione di
“stabilizzare” il sistema, di rendere cioè gli scambi prevedibili e non casuali. Tra queste istituzioni
vi è quella conosciuta con l’espressione “prezzo della sposa” ma che noi preferiamo chiamare
piuttosto “compensazione matrimoniale”. Una quantità di beni, di solito privi di un valore d’uso
immediato, che il gruppo del futuro sposo cede al gruppo della promessa sposa. Non
costituiscono il prezzo pagato per un acquisto. Se una donna venisse davvero “comperata”
vorrebbe dire che l’acquirente potrebbe disporre di costei a suo piacimento, anche rivenderla.
Ma non è così nel caso delle transazioni matrimoniali. Il gruppo della donna conserva sempre la
possibilità di intervenire in caso di contrasti o maltrattamenti ai danni della donna o ai figli di lei.
Mutazioni nell’uso della compensazione matrimoniale:
La monetarizzazione dell’economia ha “svincolato” la compensazione matrimoniale del suo
impiego originario, innalzando in molti casi l’età media dei mariti e cambiando i modi della
sua acquisizione. Tra i beduini, ad esempio, già alla fine degli anni Sessanta non era raro che la
compensazione matrimoniale, versata al padre della sposa, venisse reinvestita in attività
produttive procrastinando, anche di vari anni, il matrimonio dei fratelli della donna data in
moglie. I Nuer del Suda considerano il denaro liquido “sterile” e quindi inservibile nelle
transizioni matrimoniali.
Gruppi matrilineari:
Anche qui non sono le donne a “comandare”. Il potere e l’autorità sono appannaggio degli
uomini e non delle donne. Trasmissione della discendenza per via femminile, dell’autorità
per via maschile. L’autorità si trasmette dal fratello di una donna al figlio maschio di
quest’ultima. Sovente è associata la residenza avuncolocale, l’usanza per cui una nuova
coppia si stabilisce nella o nei dintorni della dimora del fratello della madre dello sposo.
La questione del matriarcato:
Le società matrilineari esistenti rappresentavano i residui di un modello di organizzazione
sociale un tempo dominante: infatti, la successione per via patrilineare sarebbe stata
posteriore, frutto del progresso e della civiltà. Ipotesi di una promiscuità originaria, in cui
l’accesso sessuale non era sottoposto a regole, e da cui si sarebbero poi sviluppate tutte le
forme di matrimonio a noi note. Dedusse dall’evidenza del riconoscimento della maternità la
priorità storica di una discendenza femminile e l’antecedenza di un potere femminile, o
“diritto materno”, matriarcato, rispetto al “diritto paterno”, o patriarcato. Il matriarcato non è
probabilmente mai esistito.
L’avuncolato:
Avuncolato è il nome dato a un complesso di elementi culturali che caratterizzano la relazione
tra un individuo e il figlio di sua sorella. Malinowski poté accertare che in questa società
matrilineare lo zio materno di un giovane, oltre a provvedere al sostentamento della famiglia
della propria sorella, esercitava sul figlio maschio di quest’ultima l’autorità, gli trasmetteva i
beni, le conoscenze sacre e profane e le eventuali cariche politiche e rituali. Supponiamo che
lo zio materno non sia in grado di ereditare, il principio della discendenza matrilineare
consente di ovviare a questo problema “deviando” la linea di trasmissione presso la
discendenza di una sorella della madre di Ego, e precisamente verso i figli della cugina
parallela di Ego.
Residenza o discendenza? Il dilemma delle società matrilineari:
Come risolvere la tensione tra il potere e la discendenza. Troviamo infatti il fratello di una
donna e il marito di quest’ultima che si contendono il controllo sulla prole della stessa. Tale
tensione si manifesta soprattutto in relazione alla scelta del modello di residenza. Gli uomini
devono contemporaneamente i propri figli lascino il villaggio sotto una pressione analoga, ma
speculare, esercitata su di loro dagli zii materni, i quali abitano altrove. Questi obiettivi sono
contraddittori e generatori di tensioni e conflitti. Altre società a discendenza matrilineare
adottano infatti modelli di residenza matrilocale oppure avuncolocale. Nel primo caso il
problema del controllo dei figli maschi della sorella rimane. Un delle soluzioni adottate è
quella di vivere in gruppi non lontani da quelli del proprio matrilignaggio. Adottare un modello
di residenza uxorilocale che non comporti l’allontanamento degli uomini dalle loro famiglie
d’origine. Stabilendosi nella metà delle mogli, gli uomini conservano tuttavia i loro doveri nei
confronti della famiglia d’origine composta dalla madre, delle sorelle e dai figli di queste
ultime che risiedono nell’altra metà. La residenza avuncolocale sembra la più frequentemente
adottata nelle società matrilineari. I figli maschi di una coppia vanno a vivere, dopo il
matrimonio, presso il fratello della madre. Residenza natolocale: qui la prole di una donna
resta con la famiglia di quest’ultima.
L’atomo di parentela:
Lèvi-Strauss chiamò “atomo di parentela” la configurazione costituita da quattro individui: una
donna e il figlio maschio di lei, il fratello della donna e il marito di quest’ultima. A suo giudizio
tale configurazione costituisce l’unità minima parentale. L’importanza dell’atomo di parentela
poteva essere compresa a partire dall’istituzione dell’avuncolato nelle società matrilineari. La
figura dello zio materno è centrale. Lo zio materno rappresenta il gruppo di origine della
donna in tutte le società. Questo individuo detiene sempre un’autorità inversamente
proporzionale a quella esercitata dal padre nei confronti del figlio e della moglie. Quanto più i
rapporti tra padre e figlio e tra marito e moglie sono improntati a confidenza e affetto anziché
sull’autorità, tanto maggiore sarà l’autorità dello zio materno sul figlio di sua sorella e su
quest’ultima. Sta a indicare che la parentela è, innanzitutto, alleanza tra gruppi, non tra
individui isolati. L’atomo di parentela è il riflesso primario del principio esogamico. Conferire
all’alleanza matrimoniale un ruolo altrettanto rilevante di quello della discendenza.
Il destino delle società matrilineari:
Le società matrilineari erano, alla metà del Novecento, il 15-20% del totale. Sembra che, con il
tempo, il loro numero si sia progressivamente ridotto. La progressiva riduzione delle società
matrilineari sembra essere piuttosto l’effetto dell’espansione coloniale. Si trovano infatti
localizzate in aree che hanno subito più a lungo di altre l’impatto delle culture arabo-islamiche
e cristiano-europee: Americhe, Oceania, Africa subsahariana. Probabilmente sono più “fragili”.
Non è da escludere che la colonizzazione prima, e l’urbanizzazione e le migrazioni poi, abbiano
contribuito ad acutizzare tali problemi, sintetizzabili nel dilemma discendenza-autorità.
Danneggiate sul piano demografico. Hanno inoltre sofferto per l’imposizione del diritto
europeo da parte dei colonizzatori. La legge dei “bianchi” è andata in senso opposto a quella
di molte comunità native d’America, contribuendo in maniera decisiva a turnarne l’equilibrio e
la stabilità.
La condizione delle donne nelle società matrilineari:
Matrilinearità non significa matriarcato. Si può valutare la posizione della donna in base
all’autorità maggiore o minore che su di lei esercitano il marito da un lato e il fratello
dell’altro. La donna non gode di grande libertà. Sembra che la condizione della donna sia
migliore laddove l’autorità del marito e del fratello sono pari, nel senso che si bilanciano
consentendo alla donna di appoggiarsi ora all’uno ora all’altro, ma a condizione che il marito
e il fratello della donna appartengano a due diversi gruppi di discendenza. Nelle società
unilineari e patrilineare l’autonomia e la libertà della donna è inferiore, e tale inferiorità
raggiunge il punto massimo in quelle società nelle quali vige l’ideale dell’endogamia lignatica.
Gruppi a discendenza doppia:
I gruppi di discendenza doppia sono quelli dove Ego appartiene a due linee di discendenza:
quella stabilita attraverso il patrilignaggio e quella stabilita attraverso il matrilignaggio.
Entrambe le linee di discendenza danno origine ad altrettanti gruppi corporati. I gruppi a
discendenza doppia sono possibili solo perché ciascun gruppo ha funzioni diverse da quelle
dell’altro. La discendenza doppia non sembra evocare, negli interessati, le rappresentazioni
delle due linee di discendenza tali da attribuire a entrambe lo stesso peso. Sono piuttosto
rare e le si ritrova soprattutto nell’Africa subsahariana.
Gruppi di discendenza cognatica:
Le società a discendenza cognatica dovrebbero esserci più famigliari, in quanto i loro membri
tracciano la propria linea di discendenza da un antenato sia attraverso individui di sesso
maschile sia attraverso individui di sesso femminile. Si fondano su gruppi di discendenza
corporati. Sono infatti rare le comunità che in Europa possiedono o hanno posseduto una
simile forma di organizzazione. Forse le più note tra queste erano i clan scozzesi. Un individuo
può far parte di linee differenti, le quali tuttavia non possono avere, per Ego, tutte la stessa
importanza. Infatti, un gruppo di discendenza può funzionare come criterio di reclutamento di
un gruppo in vista di un certo obiettivo, per “lasciare il passo” a un altro gruppo in un’altra
circostanza.
Il numaym dei Kwakiutl:
Costa nord-occidentale dell’America settentrionale. Tra le varie caratteristiche della loro
organizzazione sociale vi è il numaym, che potremmo tradurre con i termini di “casa” o
“casata”. Ilo numaym è un nucleo di individui imparentati per via cognatica che possiede
determinati beni e determinati privilegi, titoli e cariche. Era particolarmente importante tra gli
aristocratici. Queste “case” avevano un loro nome, le proprie insegne araldiche, i propri titoli
“nobiliari” e i loro miti che, accanto alle proprietà, venivano così trasmessi ai discendenti per
via patrilineare o, in mancanza di eredi maschi, ai nipoti attraverso le figlie. Questo tipo di
organizzazione fondato sulla “casa” lo si ritrova in Polinesia, Sud-est asiatico, Melanesia, Africa
e forse in Asia meridionale.
Nuove prospettive:
In tempi recenti lo sguardo dell’antropologia si è spostato dalla struttura delle relazioni
socialmente riconosciute attraverso i criteri della discendenza e dell’alleanza per mezzo
dell’istituzione matrimoniale, alle forme di relazione che gli individui costruiscono al di fuori
delle istituzioni così come normalmente le si intende. Hanno portato a un nuovo modo di
considerare come questi ultimi costruiscono la trama delle proprie azioni.
Parte settimana: Esperienza religiosa e pratica rituale:
Capitolo 1: Concetti e culti:
Cos’è la religione?:
Sembra riferirsi a un complesso di credenze che si fondano da un lato su dogmi e dall’altro su
riti, cerimonie e liturgie che hanno lo scopo di avvicinare i fedeli a delle entità soprannaturali;
un unico dio, se si tratta di una religione monoteista; tanti dei, nel caso di una religione
politeista. Riteniamo che dogmi e riti siano insegnati e coordinati da “specialisti” come i
sacerdoti. E riteniamo infine che la religione ha dei luoghi particolari dove viene praticata. È
tuttavia sufficiente compiere un rapido giro d’orizzonte etnografico per trovare popoli che
non hanno dogmi della fede, altri che non hanno delle vere e proprie divinità, e altri ancora
che non hanno né templi né individui specializzati nelle attività di culto. Troviamo sempre
esseri umani che immaginano una vita dopo la morte, che pensano il corpo come “animato”
da un soffio vitale, che si manifestano il mondo come percorso da “forze” invisibili le quali
possono, o debbono, essere invocate, evitate, manipolate, accolte o respinte. Una religione
non è comprensibile al di fuori della considerazione del rapporto tra potere e verità, ossia del
rapporto che si crea tra coloro che sono in grado di produrre discorsi autorizzati su ciò che è
“vero” e coloro che sono chiamati a rispettare quella autorità. Se noi spostiamo l’attenzione
dagli aspetti formali e istituzionali della religione a quelli motivazionali, avremo forse la
possibilità di avere una visione più unitaria del fenomeno e di cogliere la natura dell’
“esperienza religiosa”. Una religione potrebbe essere definita come un complesso più o meno
coerente di pratiche e di rappresentazioni che riguardano i fini ultimi e le preoccupazioni
estreme di una società, di cui si fa garante una forza superiore all’essere umano. La
dimensione del significato sta proprio nei valori esprimenti i “fini ultimi” e le “preoccupazioni
estreme” di una società. La dimensione del potere, invece, risale nell’idea che vi sia qualcosa o
qualcuno che ha l’autorità incondizionata di sanzionare tali valori. Questo qualcosa o
qualcuno è in genere identificato come un ente soprannaturale che si manifesta direttamente
oppure tramite i suoi “rappresentati” umani. La religione ha il compito di “spiegare”
l’importanza irriducibile di questi valori stessi. Svolge una duplice funzione: normativa e
integrativa. La religione riveste anche una funzione protettiva delle certezze di quest’ultima,
mettendo al riparo gli individui dalle ansie e dalle insicurezze connesse con la vita personale e
collettiva (funzione integrativa). Ma al tempo stesso si cura di tenere sotto controllo quanti
non si adeguano ai principi morali, etici eccetera, indicati come appropriati della religione
medesima (funzione normativa). Molto spesso essa esprime la cultura di un popolo. Non
bisogna confondere cultura e religione, ma certo è che in molte occasioni i valori espressi dalla
religione sono “congrui” con quelli condivisi dai membri di una certa società. Le due funzioni
della religione si esplicano in concreto attraverso simboli, riti e miti. I simboli veicolano
concetti, i quali costituiscono i significati dei simboli; i riti sono le azioni che mettono “in
scena” i concetti, li rappresentano a coloro che eseguono il rito e a coloro che vi assistono;
infine, i miti sono i “racconti” che organizzano i concetti in discorsi dotati di una propria
coerenza.
Le origini dello studio antropologico della religione:
L’antropologia culturale si sviluppò in un periodo caratterizzato da forti contrasti tra la
mentalità positivista, laica e materialista della scienza dell’Ottocento, da un lato, e i dogmi
biblici della creazione e l’autorità delle gerarchie religiose, dall’altro. Le prospettive con cui
l’antropologia si avvicinò allo studio della religione sono essenzialmente due. La prima,
definita “intellettualista”, si caratterizza per il fatto di esaminare la religione come frutto della
riflessione umana sul mondo circostante, sulla vita e sulla morte. Edward B. Tylor definì la
religione come “la credenza in essi spirituali” e riteneva che le sue origini coincidessero con ciò
che egli chiamò animismo. Con l’evoluzione della cultura questa idea di anima si sarebbe
trasformata nell’idea di spirito e poi di divinità. L’altra prospettiva, definita di solito
“sociologica”, parte da premesse per certi aspetti opposte a quelle di Tylor. William Robertson
Smith propose un nuovo approccio dello studio del rito e del sacrificio. Presentò la religione
come un fattore socialmente coesivo, e i rituali vennero da lui considerati come lo strumento
attraverso cui gli individui riaffermavano periodicamente la loro appartenenza alla stessa
comunità. Tutte le religioni prevedono offerte alle potenze invisibili, siano queste divinità,
spiriti o “forze della natura”. Il sacrificio è inteso dai credenti come un atto capace di
sollecitare la benevolenza della potenza spirituale invocata, ma nella prospettiva di Smith esso
fu soprattutto un atto capace di rinsaldare il senso di comunione tra i fedeli. La religione era
per Smith qualcosa che esiste “non per la salvezza delle anime, ma per la conservazione e il
benessere della società”. Marcel Mauss e Henri Hubert, avevano
stabilito la differenza tra religione e magia. La prima sarebbe un “fatto collettivo”, mentre la
seconda un fatto strettamente individuale e privato.
Alcune nozioni antropologiche relative alla religione:
Esistono diversi termini e nozioni che sono specifici dello studio antropologico

della religione. I culti individuali:


I culti individuali sono quelli praticati dal singolo individuo ma sempre all’interno di un codice di
rappresentazioni culturalmente e socialmente

condiviso. I culti sciamanici:

Sono chiamati sciamanici quei culti tipici di società nelle quali il contatto con le potenze
invisibili è assicurato dall’opera di una particolare figura, uomo o donna, definita sciamano.
Caratteristica dello sciamano è quella di essere un individuo come gli altri nella vita di tutti i
giorni, e che solo occasionalmente veste i panni della sua funzione. Talvolta le pratiche
sciamaniche sono accompagnate da musica e dall’assunzione di sostanze psicotrope atte a
provocare nello sciamano stati di tipo allucinatorio. Possibilità di entrare in stati di semi-
incoscienza (trance) durante i quali stabilisce un contatto con i poteri sovrannaturali.
Possessione:
Indica l’idea che spiriti di defunti, di eroi, di divinità, di animali o non meglio definite forze
sovrannaturali possano impossessarsi di determinati individui per parlare e agire attraverso di
essi. Queste forme di possessione consistono in “esibizioni” organizzate di soggetti
predisposti, spesso psichicamente “instabili”, ma non necessariamente patologici, che danno
luogo a manifestazioni sussultorie e scoordinate del corpo, perdita del senso del tempo e dello
spazio, nonché della normale sensibilità al dolore e alla fatica. Il corpo diventa “ricettacolo2
dell’essere che se ne impossessa, funzionando come una specie di “ponte” tra il mondo degli
umani e quello degli esseri soprannaturali. Casi particolarmente noti sono quelli legati ai culti
vudu di Haiti; quelli legati alla credenza nel morso della tarantola e tipici dell’area salentina
della Puglia; o quelli presenti tra le popolazioni etiopiche della regione di Gondar. Si hanno
anche casi di possessione istituzionalizzata, dove cioè gli individui dotati di identità sociali
specifiche, di genere o di classe, danno luogo a manifestazioni socialmente approvate da tutta
la società.
Mana:
Il mana è stato concepito come una sostanza, un medium invisibile che gli uomini cercano di
procurarsi attraverso gli antenati morti, gli spiriti e gli dei. Una specie di benedizione o di una
protezione.
I culti comunitari:
Si tratta di tutte quelle pratiche religiose che prevedono la partecipazione di gruppi di
individui, che si riuniscono temporaneamente per questo preciso scopo senza alcun aspetto di
permanenza e continuità delle funzioni culturali. Possono avvalersi della partecipazione di
sciamani, gruppi di danza, suonatori eccetera. Sovente sono praticati con fini terapeutici. Culti
comunitari sono poi quelli praticati dagli appartenenti alle classi d’età o alle società segrete.
Il totemismo:
Un tipo speciale di culto comunitario è quello chiamato totemico, ritenuto una volta come
connesso con la prima forma di religione. Il termine totem significa qualcosa come “egli fa
parte della mia parentela”. Questa espressione era applicata anche a una specie animale. I
primi studiosi parlarono di totemismo, ritenendo che tutto ciò che potesse segnalare l’uso di
termini di animali o piante in relazione a individui o a gruppi di essi dovesse essere
considerato una forma di religione primitiva, anzi secondo alcuni la forma più primitiva di
religione. Alcuni gruppi di nativi nordamericani erigevano pali con incise le figure dei loro
antenati mitici.
Levi-Strauss dimostrò che si era di fronte a un fenomeno molto diverso da quello a cui si
era per molto tempo pensato. Egli spiegò che quello che gli antropologi avevano ritenuto
essere una forma di religione altro non era che un modo di classificare gruppi e individui
basato sul repertorio delle specie animali e vegetali. Relazione simbolica tra esseri umani e
specie animali (o vegetali).
I culti ecclesiastici:
I culti ecclesiastici sono quelli che prevedono l’esistenza di gruppi di individui specializzati nel
culto. Le varie chiese cristiane possiedono queste caratteristiche. Esistono individui che si
dedicano solo ed esclusivamente al culto. Testi quasi sempre scritti, i quali vengono
tramandati in luoghi speciali come scuole, seminari, conventi, istituiti nei quali la classe
sacerdotale riproduce un modello di autorità e di conoscenza “teologica”. Forti sono le
connessioni tra i gruppi sacerdotali specializzati nel culto e i detentori del potere politico.
Tabu:
Con la parola tabù gli antropologi hanno chiamato tutte le proibizioni relative a esseri umani o
cose speciali che, per questo motivo, sono essi stessi tabu. Tutte le religioni prevedono
oggetti, esseri animati o persone tabu. Qualcosa che è off-limits, tapu, lo è sempre per
qualcuno, e non in sé o per sé. Implica l’esistenza di un contesto.
Capitolo 2: I simboli e i riti:
L’efficacia dei simboli sacri:
Alla base di ogni rappresentazione religiosa vi sono dei “simboli sacri [i quali] servono a
sintetizzare l’ethos di un popolo”. I simboli “significano” dei concetti che rinviano ai valori
fondamentali e ultimi di una società. Per questo motivo si dice spesso che la religione coincide
con una visione del mondo o con una cosmologia, che si riveste di un’aura di “sacralità”. I
simboli sono infatti “sacri”. Emile Durkheim definì le cose sacre come “separate” e
“interdette”: separato da quelle profane e vietate a chi non è “consacrato”, cioè posto in uno
stato tale da poter accedere a esse. Le cose sacre sono quelle che suscitano negli esseri umani
sospetto e timore reverenziale, al punto da essere concepite come “pericolose” per chiunque
le avvicini senza essersi posto preventivamente nella condizione appropriata per poterlo fare.
Agiscono su coloro che li percepiscono mettendoli nella condizione di predisporsi a un’azione
e/o suscitando in loro un particolare stato d’animo.
Producono un’idea “rappacificante” di ordine. Riguarda la certezza che vi è pur sempre una
realtà sicura, vera e immutabile alla quale costoro possono affidarsi. I simboli sacri sono ciò che
consente alla religione di svolgere la sua duplice funzione: integrativa e normativa. Per far sì che
un simbolo sia riconoscibile come sacro bisogna che la sua sacralità si “imponga” alla sensibilità
e alla mente dei soggetti. Gli esseri umani, per poter riconoscere il carattere sacro di un simbolo
devono essere “addestrati” a riconoscerlo come tale. Ora, tale addestramento si realizza
attraverso i riti.
‘Id al kabir:
Una delle più importanti ricorrenze festive della religione musulmana. Cade una volta
all’anno nel decimo giorno del mese del pellegrinaggio alla Mecca, la principale città santa
dell’Islam. Culmina con il sacrificio di un animale che viene sgozzato dal capofamiglia in
ricordo del sacrificio compiuto da Abramo. La sua drammaticità consiste anche e soprattutto
nel ricordare all’uomo il suo essere “in bilico” tra la tentazione di perseguire i propri istinti e i
propri affetti particolari da un lato e la sottomissione alla volontà di Dio dall’altro. ‘Id al kabir
è quindi una sequenza di atti simbolici in cui il fedele “riconosce” la verità della sua religione.
I riti nella religione:
Un rito può essere inteso come un complesso di azioni la cui sequenza è prestabilita da una
formula fissa. Si tratta di sequenze di azioni mediante cui vengono evocati dei simboli i quali,
proprio perché evocati in un contesto “separato” dalla vita ordinaria, svelano il loro carattere
sacro ai partecipanti. Probabilmente è la ripetizione, in un contesto “speciale”, di queste
sequenze verbali, gestuali e sonore a far sì che dal rito scaturisca una forma di autorità
“religiosa”. I riti, inoltre, sono di solito officiati da personaggi speciali in qualche modo dotati
di autorità. Si genera un principio di autorità. I riti sono ciò che rende “evidenti” le verità di
una religione, ossia i valori, i fini ultimi, l’ordine del cosmo e delle società. Vi sono però riti
che evocano solo in parte rappresentazioni di tipo religioso e che, nondimeno, ribadiscono il
carattere sacro di alcuni simboli sacri ma non strettamente religiosi. Di solito in queste
cerimonie il simbolo sacro per eccellenza è costituito dalla bandiera nazionale o da qualche
simbolo ripescato ad hoc. Tali riti mettono in primo piano simboli che, come tali, non hanno
niente di religioso, ma hanno molto di “sacro”.
Churinga e rombi:
Gli aborigeni d’Australia avevano una concezione abbastanza simile dell’origine del mondo.
Quest’ultimo era per loro il frutto di una creazione intrapresa in un tempo mitico dagli
antenati. Usciti dalla terra, gli antenati avrebbero percorso il territorio e avrebbero creato le
montagne, le piante, le rocce, gli animali e gli esseri umani con un canto, con la “voce”.
Percorso e canto degli antenati sono rappresentati in due simboli sacri: i churinga e i rombi. I
churinga, assicelle di legno o di pietra incise o dipinte, riportano in maniera stilizzata il
percorso degli antenati sul territorio nel tempo della creazione. I rombi, invece, sono
tavolette di legno incise o dipinte che, legate all’estremità di una corda, venivano fatte
roteare nell’area in occasioni speciali. Emanano un suono cupo, una specie di muggito. Per gli
aborigeni australiani essi erano “la voce degli antenati”. I rombi potevano essere toccati, e il
loro suono udito, solo dagli iniziati maschi. Allo stesso modo, solo gli iniziati potevano vedere
rappresentato nei churinga il cammino degli antenati nell’opera di creazione del mondo.
La molteplicità dei riti:
Poiché i simboli sacri rimandano differenti aspetti della realtà sociale, venendo a significare,
come abbiamo visto, cose diverse, non è possibile passare in rassegna tutti i tipi di riti. Vi
sono però dei riti che si distinguono per alcune caratteristiche particolari.
Riti di passaggio:
I riti di passaggio sono quelli che sanzionano pubblicamente i riti di passaggio di un individuo
da una condizione sociale o spirituale a un’altra: battesimi, circoncisioni rituali, matrimoni
eccetera. Siccome il mondo sociale è ordinato in ambiti definiti di attività e di posizioni sociali,
ogni cambiamento all’interno di questi ambiti specifici produce una “perdita di equilibrio” che
deve essere tuttavia compensata per poter pensare il mondo come “ordinato”. Tutto deve
essere accompagnato da riti di passaggio atti a scandire la transizione da una condizione a
un’altra. Sono presenti anche nella nostra società. Van Gennep distinse, all’interno di ciascun
rito di passaggio, tre fasi, ciascuna caratterizzata da rituali specifici: separazione (riti
preliminari), margine (riti liminari) e aggregazione (riti postliminari), attribuendo la massima
importanza a quella centrale, o di margine. La fase di margine viene infatti dopo il “distacco”
di un individuo dalla sua condizione precedente, e prima di quella in cui l’individuo in
questione assumerà una nuova identità. Il mondo primitivo era profondamente segnato
dall’opposizione tra sacro e profano, e ogni variazione o passaggio da un’opposizione all’altra
provocherebbe, secondo l’idea che queste società avevano del mondo, un’alterazione delle
forze che stavano alla base del mondo medesimo. Questa teoria si rivelò aderente alla realtà
in relazione all’articolazione di tutti i rituali in tre fasi.
Melilla: il giuramento della bandiera:
Esempio di come un rito nazionalista usi simboli tanto sacri quanto profani. Nel 1983 la
comunità cattolica di Melilla, una enclave spagnola della costa mediterranea del Marocco,
decise di celebrare un rito mai tenutosi prima: il jura de bandera, il “giuramento della
bandiera”. Melilla era allora una città di frontiera, con una popolazione composta in
prevalenza da spagnoli cattolici, arabi musulmani, e indù originari del subcontinente indiano.
Di fronte alle incertezze del momento, gli spagnoli vollero riaffermare, a livello simbolico-
rituale, la loro supremazia. Il jura de bandera aveva lo scopo di sortire tre effetti sulle
comunità ispano-cattolica locale. Doveva suscitare l’orgoglio nazionale e un sentimento di
superiorità nei confronti delle altre componenti della popolazione delle città. Doveva
rafforzare il senso della comunità cattolica rendendola “presente a sé stessa”. Doveva essere
un atto di legittimazione di propiziazione del dominio dei cattolici spagnoli di Melilla sulle
altre componenti della popolazione attraverso l’invocazione della protezione divina, con
l’aiuto però, se fosse stato necessario, di una forza militare.
I rituali funerari:
La morte è ovunque un evento dirompente e drammatico. Le società devono far fronte a
quello che esse ritengono essere un vero e proprio “scandalo”. Poste di fronte alla morte,
tutte le comunità chiamano a raccolta le proprie energie al fine di attenuare lo shock della
perdita. Di fronte alla morte le comunità fanno riferimento ai “valori ultimi” sui quali esse si
fondano. I riti funebri contengono pertanto gesti, azioni e parole che richiamano, nella mente
di coloro che vi partecipano, i valori e i significati su cui la comunità in questione fonda
l’ordine del mondo e di sé medesima. Molte differenze dipendono dalla complessità della
società in questione nonché, come è naturale, dalla “struttura emotiva” che questi riti
mettono in gioco. Se la morte è una transizione che tutte le società rappresentano grazie alla
messa in scena di riti speciali, essa è anche, come è ovvio, l’evento che più di ogni altro si
contrappone alla vita. Proprio perché antitetica alla vita. La morte appare agli esseri umani
come “priva di senso”, un dramma assurdo, una lacerazione totale. Per continuare a esistere,
le società devono “rendere ragionevole” la morte. La vita in effetti si ricrea di continuo,
generazione dopo generazione, ed è proprio su questo fatto che si concentrano, presso alcuni
popoli, i rituali funebri. Presso le società che considerano l’ordine del cosmo come retto dagli
antenati, e in cui questi ultimi sono i garanti dell’ordine e la discendenza assicura la
continuità del legame tra gli antenati e i vivi, i temi della fertilità femminile e maschile, e della
sessualità vengono a caratterizzare sovente i riti funebri. In altre culture tra il sesso e la morte
e tra la morte e la nascita esiste una relazione che è sottolineata di continuo, dal momento
che la morte e i riti che l’accompagnano sono ciò che esplicita gli elementi stessi dell’ordine
ancestrale il quale, a sua volta, è il cuore stesso del sistema normativo. L’espressione rituale
del lutto e il lutto come “vissuto” non sono la stessa cosa, e pertanto non devono essere
confusi. Tra rituale funebre e lutto non c’è rapporto di reciproca inclusione, né ciascuno dei
due più spiegare completamente l’altro.
Liminalità:
La nozione di liminalità, ossia di sospensione di status che secondo van Gennep è tipica della
fase di margine, è stata sviluppata da Victor Turner. I riti comportano una fase con
caratteristiche che la oppongono in maniera radica alla situazione di “normalità” sociale.
Turner riferì la nozione di liminalità alle situazioni in cui si crea uno spirito comunitario, in cui
un insieme di individui viene a formare una communitas. Per Turner una communitas è una
“condizione collettiva” che determina l’insorgere di un intenso spirito di appartenenza. Turner
vide nella contrapposizione di normalità e di liminalità quella che chiamò l’opposizione tra
struttura e antistruttura, la quale non è esclusivamente caratteristica della fase rituale ma
può, in alcuni casi, diventare una caratteristica permanente di alcuni gruppi, specialmente
all’interno di contesti sociali stratificati e differenziati. Ne sono un esempio gli eremiti del
mondo tardoantico e medioevale. Ma anche dei gruppi laici possono costituire, secondo
Turner, casi di liminalità: per esempio gli hippies degli anni Sessanta del Novecento o, su un
altro piano, i punk-a-bestia dei nostri giorni. La finalità esprime una situazione di rottura, di
contrasto, di rovesciamento della situazione normativa che le regole sociali e culturali
impongono ai componenti di un gruppo. La liminalità esprime la volontà di “essere differenti”
in un mondo regolato da norme, una volontà di porsi “al di là” della convenzione in maniera
assoluta e radicale.
Robert Hertz: lo studio antropologico della morte:
Robert Hertz fu il primo studioso ad occuparsi della morte in una dimensione antropologica.
Per lui lo studio della morte costituiva infatti un aspetto di uno studio più vasto, quello dei
meccanismi grazie ai quali una società conserva la propria coesione e la propria identità di
fronte agli eventi più devastanti e drammatici.
Notò che alcune popolazioni del Borneo, di cui studiò i riti funebri, usavano celebrare due
funerali: uno subito dopo la morte di un individuo, e un altro qualche tempo dopo, a volte
alcuni anni dopo. Mise in evidenza che i riti funebri appartenevano a quella particolare
categoria di riti che van Gennep avrebbe poi chiamato “di passaggio”. Le prime esequie, un
periodo intermedio di “elaborazione” del lutto e poi le seconde esequie scandivano,
rispettivamente, il distacco dai vivi, la sospensione e la riaggregazione al mondo degli
antenati.
Morte, vita e struttura sociale in Madagascar:
Le popolazioni del Madagascar interno celebrano riti funebri la cui importanza supera quella
di tutte le altre loro istituzioni. Natura “licenziosa” del comportamento dei partecipanti allo
scopo di intrattener l’anima del defunto mentre questo è in attesa di ricongiungersi con la
comunità degli antenati. I Bara ritengono che la vita di un individuo sia il risultato di un
equilibrio delicato tra due principi: il “principio d’ordine” e il “principio della vitalità”. Per loro
l’identità fisica di un individuo si genera quando, al momento del concepimento, il seme
dell’uomo “mette ordine” nel ventre della donna, dando forma al sangue mestruale.
L’identità sociale di un individuo dipende invece dal rapporto equilibrato che questi sa
instaurare con il gruppo dei parenti in linea paterna da un lato e quelli in linea materna
dall’altro. Si mostrano festosi e “licenziosi” in occasione delle seconde esequie, poiché è
come se in questo modo introducessero “un incremento di vitalità” corrispondente al lato
materno della vita dell’individuo. I Bara vedono, infatti, la morte come “eccesso di ordine”.
Gli atti di licenziosità e il comportamento trasgressivo dei Bara in occasione dei riti funebri
mirerebbero pertanto a constatare simbolicamente il sopravanzare dell’ordine assoluto su
qualsiasi forma di vitalità, ossia la vittoria della morte sulla vita.
I riti di iniziazione:
Sono chiamati così i rituali che sanciscono il passaggio degli individui da una condizione
sociale o spirituale a una diversa dalla precedente. Anche l’investitura di un cavaliere
medioevale come elevazione di rango era un rito di iniziazione. In quanto riti che sanciscono
un cambiamento, la transizione da una situazione precedente ad una successiva, quelli di
iniziazione sono forse quelli che aderiscono meglio allo schema di van Gennep relativo ai riti
di passaggio. Essi sono la dichiarazione pubblica, socializzata, dell’assunzione di un nuovo
status da parte di un individuo e della responsabilità che questo nuovo status comporta. I riti
della pubertà sottolineano per esempio l’entrata di giovani, ragazzi e ragazze, nell’età fertile.
Hanno però sempre assunto una speciale importanza negli individui di sesso femminile. Altri
riti di iniziazione possono riguardare il passaggio dallo stato di adolescente a quello di giovane
guerriero e, da questo, a quello di adulto e padre di famiglia. Ma riti di iniziazione sono anche
quelli che sanciscono l’affiliazione degli individui a gruppi malavitosi, a logge massoniche, o a
società segrete. I riti di iniziazione hanno lo scopo di “situare” ufficialmente l’individuo in
posizioni adeguate alla sua età sociale e quindi sancire i diritti e i doveri che gli competono in
epoche diverse della sua vita. Poiché in molte culture l’anzianità è qualcosa che evoca
l’autorità suprema degli antenati, ecco che i riti che sanciscono l’acquisizione progressiva
dell’autorità possono essere considerati connessi con la dimensione “religiosa” delle culture in
questione. “Riti di iniziazione” esistono anche in società nelle quali, non essendo essi
riconosciuti pubblicamente come validi, si presentano in forma meno strutturata di altri riti
ufficialmente riconosciuti. Nelle moderne società occidentali certi riti di iniziazione possono
consistere, ad esempio, nel compiere certe azioni pericolose o violente mediante cui gli
individui danno “prova di coraggio” e si fanno così accettare dal gruppo.
Capitolo 3: Religioni e identità nel mondo globalizzato:
La secolarizzazione e le nuove religioni:
Processo di secolarizzazione: un fenomeno che coinciderebbe con la “ritrazione progressiva
dal sacro” dalla vita sociale e dalla sensibilità individuale. Non pare essere una tendenza
inarrestabile. Il fiorire di movimenti religiosi e di nuovi culti in tutto il mondo contemporaneo
ci dice piuttosto il contrario, e sembra indicare che tali movimenti e tali culti sembrano
nascere in risposta a eventi e a dinamiche relativamente recenti. Forse ciò che sta avvenendo
non è tanto la scomparsa o il ritorno del sacro, ma una sua riformulazione in molteplici
direzioni. Al tempo stesso la religione pare andare incontro a un processo di
“essenzializzazione”. Manifestazioni religiose di massa: fenomeni che portano al
concentramento periodico di molti individui in luoghi “sacri”. Per privatizzazione si deve
invece intendere una sempre più diffusa religiosità in stile “fai da te”, sintesi personale di
credenze, riti, rappresentazioni provenienti da tradizioni diverse. “Essenzializzazione” della
religione, il quale consiste in una riduzione della fede a un discorso di pura contrapposizione
politica, etnica e culturale. Oggi sono gli squilibri tra le aree del pianeta a essere sovente
all’origine di nuovi culti o del rafforzamento di quelli nati in epoca coloniale. Sorti in risposta
alle mutazioni sociali e culturali. Per definire questi culti e queste religioni gli antropologi
hanno impiegato il termine di movimenti, diversamente qualificati di volta in volta come di
revitalizzazione, millenaristici, nativistici e messianici. I culti di revitalizzazione sono quelli in
cui un gruppo o una comunità dichiarano di puntare a un miglioramento delle proprie
condizioni di vita, e nei quali sia i riti sia le rappresentazioni hanno come fine quello di
rivitalizzare il senso di identità del gruppo o della comunità medesima. I culti millenaristici
sono invece quelli che accentuano le rappresentazioni relative all’avvento di un’epoca di pace
e di felicità, avvento che può essere favorito, incoraggiato e preparato mediante appropriate
attività rituali e grazie a un particolare atteggiamento interiore da parte dei partecipanti. Nei
contesti extraeuropei il termine “millenaristico” serve a indicare i movimenti religiosi nati in
risposta al dominio coloniale e che hanno come scopo la trasformazione totale delle
condizioni presenti avvertite come insopportabili. I culti nativistici sono quelli che fanno
propria la protesta contro le condizioni di svantaggio sofferte dalle popolazioni native e che
mirano a riaffermare e far rinascere aspetti culturali come strumenti di rivendicazione della
propria identità, in opposizione alla cultura del gruppo dominante. I culti messianici, infine,
sono quelli a sfondo carismatico, legati cioè alla presenza di una forte personalità e che sono
sorti dall’incontro fra culti locali e cristianesimo o islam. Si caratterizzano quasi sempre per il
fatto di fondarsi sull’attesa di un rivolgimento socio-politico radicale. Nel complesso si può
dire che ogni tipo di movimento tende a fondere quelli che sono gli elementi caratteristici di
tutti gli altri.
Profeti:
Oggi il termine è riferito a individui che, sulla base di una particolare ispirazione, sono ritenuti
avere visioni o rivelazioni da parte di esseri soprannaturali o divinità che li scelgono come
propri messaggeri. Ancorano il proprio discorso alla tradizione culturale e religiosa in vigore o
preesistente, al quale si richiamano però allo scopo di fondarne una versione nuova e
rinnovatrice dell’etica e della spiritualità. Presso i popoli colonizzati i profeti hanno fondato
movimenti, chiese, confraternite, congregazioni i cui membri si raccolgono intorno a culti
particolari che spesso fondono elementi della religione tradizionale con quella dei
colonizzatori o dei dominatori. Questi profeti hanno spesso rappresentato un pericolo per i
detentori del potere politico e religioso.
Le religioni e la globalizzazione:
Alcuni culti nati nel contesto degli sconvolgimenti prodotti dal colonialismo possiedono i
caratteri di movimenti organizzati, con obiettivi che hanno spesso finito per assumere una
coloritura politica di portata più o meno decisa; altri culti sono invece assai più circoscritti ad
ambienti specifici o possiedono finalità molto particolari. Altri ancora, infine, possiedono un
carattere transnazionale e persino virtuale.
Culti legati a trasformazioni economiche: El Tio:
Un culto riconducibile ad un gruppo occupazionale è ad esempio il culto di El Tio, diffusosi ormai
da molto tempo tra i minatori boliviani dello stagno. I minatori boliviani dello stagno avevano
sviluppato in chiave “demoniaca” l’idea del proprio rapporto con il lavoro. Ufficialmente
cristiani, praticavano tuttavia il culto degli spiriti della fertilità e delle divinità dell’antica
religione andina. Spiriti e divinità abitano nel sottosuolo e sono dispensatrici di vita e di morte.
Una di queste divinità, ribattezzata dai minatori “El Tio”, è molto importante perché controlla le
risorse del sottosuolo, e appunto lo stagno. L’immagine di Tio viene posta dai minatori
all’ingresso delle gallerie della miniera e i minatori le sacrificano piccoli animali domestici e le
rivolgono preghiere affinché Tio consenta loro di trovare lo stagno. Gli antropologi ritengono
che Tio sia per i minatori il punto di mediazione e di passaggio concettuale fra un’idea del
delicato equilibrio che presiede al rinnovamento ciclico della natura e dei suoi frutti e il peso di
una logica di sfruttamento all’infinito delle risorse naturali. Mentre essi sono dipendenti dalla
natura per la propria sopravvivenza, di fatto, per poter sopravvivere, contribuiscono alla sua
distruzione in quanto agenti impotenti di una logica di sfruttamento della natura che considera
quest’ultima come qualcosa di illimitato.
Religione, sincretismo e resistenza in un rituale di iniziazione: gli Ngaing della Papa-Nuova
Guinea:
Esempio di fusione tra rappresentazioni religiose locali, religione cristiana e resistenza alla
dominazione coloniale. Un rito di iniziazione maschile praticato oggi dagli Ngaing della Nuova
Guinea nord-orientale. Hanno introdotto, come parte essenziale di loro riti di iniziazione
maschile, la circoncisione. Venne introdotta tra gli Ngaing alla fine della Seconda guerra
mondiale da uno di loro che l’aveva vista praticare dai medici bianchi in un ospedale presso cui
aveva lavorato come inserviente. Dopo la resezione del cordone ombelicale il sangue materno
rimane nel corpo di un giovane e, poiché è impuro, deve essere espulso. La circoncisione
è il momento in cui questo sangue impuro viene fatto defluire. È solo così che un giovane
diverrà un uomo adulto. La fase di preparazione consiste nella pulitura degli strumenti e la
composizione di nuovi “brani” per strumenti musicali. L’iniziazione vera e propria comincia
con il ritiro e la “confessione” degli iniziandi in un luogo isolato e nascosto. Gli iniziandi
“confessano” al loro guardiano i rapporti sessuali eventualmente avuti. Hanno l’effetto di
indebolire gli uomini a vantaggio delle donne. Con la circoncisione il sangue impure,
“materno”, fuoriesce e, con esso, anche il sangue ritenuto puro, il quale è raccolto in speciale
contenitori che, uniti ad altri oggetti rituali, vengono consegnati all’iniziato affinché il tutto gli
assicuri forza e salute per il futuro. Durante le tre-quattro settimane di ritiro gli iniziandi sono
messi al corrente di conoscenze esoteriche, e il ritiro si conclude in pratica con l’accesso degli
iniziati alla visione degli oggetti sacri. Il mattino seguente, vestiti all’europea, coi loro rombi, i
contenitori del sangue e altri oggetti rituali, gli iniziati vengono presentati alla gente del
villaggio e ai parenti. Gli Ngaing dichiarano che il battesimo di Gesù da parte di Giovanni
Battista coincide con la pulitura con l’acqua del fiume degli strumenti rituali. Essi sanno
inoltre che Gesù fu circonciso, e così essi considerano la sua crocifissione alla stregua della
circoncisione rituale.
Giuda non è l’apostolo traditore, bensì il fratello della madre di Gesù, il quale affidò
quest’ultimo a Ponzio Pilato. Pilato avrebbe interrogato Gesù sui suoi rapporti
prematrimoniali ma, pur non avendo potuto stabilire se egli avesse peccato o meno, lo avviò
comunque alla crocifissione, ossia alla circoncisione e all’iniziazione. I tre giorni di sepoltura di
Cristo dopo la morte sarebbero l’equivalente della loro reclusione rituale, e la sua
resurrezione corrisponderebbe, secondo gli Ngaing, alla loro presentazione in pubblico al
termine rituale. La resistenza degli Ngaing ai bianchi mirò pertanto a ricostruire un corpo
diverso ai corpi funzionali al progetto e all’ideologia dei colonizzatori.
Culti legati a perdita di identità sociale: Mami Wata:
Mami Wata è una dea bella e seducente, con lunghi capelli e con la pelle chiara. Si tratta di
una divinità femminile dell’acqua, il cui culto sorse agli inizi del XX secolo nella Nigeria
meridionale. L’importanza di Mami Wata è andata aumentando col tempo. La sua funzione è
molto simile a quella del “diavolo” delle Ande, Tio. Mami Wata è ciò che rende pensabile il
“disagio della modernità” tra gli africani inurbati e tra quelli emigrati in Europa, ciò che
giustifica il loro essere tra due mondi, quella della traduzione rurale e quello della metropoli.
Il culto di Mami Wata è esso stesso un intreccio complicato di tradizioni e rappresentazioni
africane, occidentali e indiane. Gli altari dedicati in Africa alla dea sono ricoperti da una
varietà di oggetti che ben simboleggiano la sua natura di divinità urbana e moderna: che sono
poi i beni “superflui” ma considerati essenziali da una donna di città. I suoi fedeli ritengono
che la dea li ricompensi con ricchezze improvvise, ma che anche li punisca con la miseria e la
pazzia nel caso ne provochino la collera. È raffigurata simile a una sirena, con la coda di
pesce. Mami Wata risulta anche essere volubile di umore, riflettendo in ciò l’insicurezza e
l’incertezza che caratterizzano, per molte donne, la vita urbana. Con l’emigrazione la
presenza di Mami Wata è arrivata nelle città europee. La sua immagine ricorre per esempio
nei soggetti con disturbi psicologici dovuti allo sradicamento e alla posizione ambigua a cui li
costringe la scelta migratoria.
Culti in rete: figure sacre su Internet:
Nuovo livello di comunicazione religiosa. Visionarismo religioso: “fotografie” dell’aldilà, del
volto dei santi, di Cristo e di Maria affollano i siti Web dedicati al tema religioso. Internet
diventa il potente veicolo di queste forme di visionarismo “tecnologico”: ci si scambiano
messaggi in cui si parla di visioni, si trasmettono le foto di una nuvola nella cui forma si ritiene
di vedere il profilo di Cristo eccetera. La rete permette di stabilire dei gruppi di preghiera, di
celebrare riti comunitari, e di visitare siti come se fossero luoghi di pellegrinaggio. Produce
una radicale deterritorializzazione della religione. La figura di Dio sembra scomparire nella
virtualità della comunicazione tra i fedeli.
Religione, media e politica:
Nel mondo attuale la religione tende a subire un processo di “essenzializzazione”. L’idea che
l’identità si fondi sulla religione, che la cultura addirittura sia sinonimo di religione, è in parte
sbagliata, oltre che “pericolosa”. Rappresentazione della religione come dato monolitico,
assolutamente coerente, totalizzante e capace di definire intere identità culturali. Le strategie
planetarie emerse alla fine del secolo XX hanno trovato estremamente comoda e
semplificatrice l’idea della religione come qualcosa che esaurisce la molteplicità delle
espressioni culturali di popoli con culture, tradizioni, costumi, strutture sociali e sensibilità
estetiche tra loro molto differenti. Questa teoria, non tiene troppo conto della “natura della
cultura”.
L’immagine del mondo diviso in “religioni” non soltanto corrisponde a una visione
semplicistica del carattere variegato, multiforme e complesso della dimensione spirituale, ma
è anche una pericolosa mossa ideologica e politica suscettibile di produrre forme di
contrapposizione irriducibile e di scontro laddove, invece, vi sono, o possono esserci, spazi di
ascolto, comprensione reciproca e dialoghi tra culture. Quando la religione diventa un modo
per rappresentare gli altri, è possibile che essa diventi motivo di confronto politico,
soprattutto se la differenza religiosa, equiparata alla differenza culturale, diventa strumento
di manipolazione ideologica da parte di qualcuno.
Il fondamentalismo religioso:
Fondamentalismo religioso: descrivere uno stile di pensiero e di comportamento religioso che
consiste nel prospettare un “ritorno” a quelli che si pensa siano i fondamenti di una certa fede
religiosa. Tali fondamenti sono i testi sacri che vengono letti e interpretati in maniera letterale
e dogmatica. I fondamentalisti cristiano americani, per esempio, ritengono che il mondo sia
stato veramente creato in sei giorni. I fondamentalisti musulmani ritengono che la vita delle
persone debba ispirarsi al Corano. Anche se nel Corano non si trova niente, o quasi, che
corrisponda alle idee dei fondamentalisti musulmani, i fondamentalisti ritengono di operare
conformemente a precetti ritenuti assoluti e irrinunciabili. I fondamentalisti ebraici vogliono
ricostruire il Tempio di Gerusalemme distrutto dai Romani nel 70 d.C. I fondamentalisti indù,
concentrati in India, ritengono per contro che si è “veri indiani” solo se si è induisti. Il
fondamentalismo si contraddistingue per un’interpretazione rigida e ideologica della
tradizione religiosa e per un atteggiamento oppositivo e intollerante nei confronti di chi non
ha le stesse idee in materia di fede. Negli ultimi vent’anni le posizioni fondamentaliste in
campo religioso si sono diffuse un po’ ovunque, minacciando in molti casi la libertà di
pensiero, di espressione e di scelta da parte degli individui. Molti episodi di violenza degli
ultimi anni sono motivati da forme di fondamentalismo religioso al servizio della politica.
Le radio/telechiese e i radio/telepredicatori:
Proliferazione della religione mediatica. Nella società nordamericana, specialmente quella
statunitense, sono fiorite negli ultimi decenni delle “religioni televisive” grazie ai cosiddetti
“telepredicatori”, ministri del culto che si rivolgono ai fedeli attraverso i canali televisivi.
Questi telepredicatori diffondo un’immagine della religiosità molto semplificata. Fanno
sempre riferimento quasi esclusivamente al tema del successo personale. Quando la religione
diventa il modo prevalente di rappresentare gli altri e se stessi, è possibile che essa diventi un
motivo di confronto politico, soprattutto se si trasforma in una “radio/telereligione”. E,
soprattutto, quando le differenze religiose diventano strumento di manipolazione politica da
parte di qualcuno. I media come la televisione permettono facilmente di manipolare l’identità
o il messaggio di una religione.
Parte ottava: Creatività culturale ed espressione estetica:
Capitolo 1: La creatività culturale:
Le storyboards di Kambot, Papua-Nuova Guinea (fine secolo XX):
Assi di legno intagliate e dipinte di cui vanno pazzi i turisti e mercanti d’arte occidentali e
asiatici. A partire dalla fine del XIX secolo, i Papua vennero ridotti in una situazione di
subordinazione e, in pratica, di schiavitù. Il processo di decadenza coinvolse anche le attività
artistiche, attività che erano condotte nelle case degli uomini e degli spiriti degli antenati,
luoghi legati soprattutto ai rituali di iniziazione maschile, e perciò bollati dai missionari come
“infernali”. Nella seconda metà del Novecento si è assistito, in tutta l’isola, all’insorgenza di
espressioni identitarie nuove, per una serie di ragioni che vanno dall’alfabetizzazione della
popolazione per opera dei missionari all’arrivo delle merci europee, ai contatti, alla radio, ai
giornali eccetera. Rinascita culturale legata soprattutto al rifiorire dell’arte locale. Il turismo
fece la sua comparsa in queste regioni verso il 1970. Di questa nuova produzione artistica
profana fanno parte le storyboards. Recano incise e dipinte scene della vita quotidiana e
composizioni che si riferiscono alla tradizione mitologica locale. Scene di vita quotidiana o
animali o esseri fantastici facilmente riconoscibili dall’occhio del turista. Per i turisti le
storyboards rappresentano la vita dei Papua così come possono immaginarsela. Confermano
infatti gli stereotipi della Nuova Guinea: un’immagine di primitività, autenticità ed esotismo.
Per i Papua le storyboards hanno un significato economico. I turisti, i mercanti, pagano bene.
Costituiscono peri Papua anche i veicoli dell’immagine della loro terra all’estero. Le
storyboards sarebbero un modo per inviare una rappresentazione di sé stessi al di là del
proprio villaggio e della Nuova Guinea.
Il naven degli Iatmul (Nuova Guinea): festa e rito di travestimento:
A proposito della festa come occasione creativa si potrebbe ricordare il naven degli Iatmul
della Nuova Guinea. Era celebrato in onore di un giovane che avesse compiuto per la prima
volta qualcosa di socialmente lodevole e rispondente all’ideale del maschio iatmul, come ad
esempio il ferimento o l’uccisione di un nemico; oppure dopo che il giovane fosse stato
sottoposto a un rito di iniziazione. Essi si travestivano e adottavano comportamenti che
richiamavano quelli dell’altro sesso. Lo zio materno si travestiva da donna e parodiava la
commozione delle donne per le imprese del giovane. Al contrario, i parenti di sesso femminile
del ragazzo tenevano un comportamento di fierezza. Tra gli Iatmul il “tono emotivo” del sesso
maschile consisteva in atteggiamenti fieri e aggressivi, esattamente il contrario dei
comportamenti teneri e affettuosi ritenuti essere caratteristici dell’ethos femminile.
“Arte” preistorica: Francia meridionale e Spagna settentrionale (30-15.000 a.C.):
Siti paleolitici di Lascaux e Vallon-Pont-d’Arc nella Francia meridionale, e di Altamira nella
Spagna settentrionale. Nulla conosciamo della cultura e dell’organizzazione sociale di queste
popolazioni vissute tra i trenta e i quindicimila anni fa. Raffigurano animali e, più raramente,
umani. Sembrano cogliere gli animali nei loro movimenti e atteggiamenti, mentre gli esseri
umani raffigurati paiono inserirsi in scene di caccia o di danza. Gli animali, più degli umani,
sono raffigurati con grande realismo, un fatto che non lascia alcun dubbio sulle capacità
osservative, cognitive e immaginative di questi nostri “antenati europei”. Sono tracciate per
lo più lungo corridoi stretti e completamente bui. I disegni sono spesso sovrapposti. Gli
uomini del paleolitico abitavano periodicamente nelle caverne, ma non nelle profondità del
sottosuolo, per cui non avrebbero potuto fruire dello spettacolo offerto dalle pitture. A Cap
Blanc, nella Francia occidentale, sotto uno spuntone di roccia all’aperto è rimasto un fregio
lungo quindici metri raffigurante una serie di animali. Si presume che molte di quelle culture
avessero uno scopo “rituale”. Che i soggetti preferiti dai pittori della preistoria avessero un
legame stretto con lo stile di vita di queste popolazioni è indubbio.
L’ispirazione dell’artista: il writing come forma di contestazione (Nordamerica ed Europa
urbane, fine secolo XX-inizi XXI):
Un esempio attuale di cosa possa significare l’espressione “motivazione e ispirazione
dell’artista” ci è offerto da una tipica “arte di strada” molto diffusa in ambiente urbano: il
writing. Si sviluppò nelle città americane alla fine degli anni Settanta. Parente stretta dei
murales. Il writing è una tipica “arte povera”, che si esercita con pochi mezzi tecnici ma che
coinvolge una serie di elementi del tutto particolari. È una forma di “ribellione” che sceglie la
via del linguaggio visivo. Lancia messaggi sulla condizione presente, sul disagio, il degrado, la
sofferenza. I Writers cercano di operare in segreto, preferibilmente di notte, anche perché i
supporti della loro arte sono i muri dei palazzi pubblici e privati, i vagoni delle metropolitane e
dei treni.
L’opinione media bolla il writing come un atto di vandalismo al limite del teppismo, un
attentato alla proprietà. Un’attività carica di suspense, di rischio e di un senso di sfida da
parte di chi lo pratica. Per loro “scrivere” è una sorta di comportamento trasgressivo in
contrapposizione a un ordine sociale avvertito come qualcosa che impedisce una forma di
identificazione.
Capitolo 3: L’arte “tribale” nel contesto occidentale:
I musei e le arti “primitive”:
Nel corso del secolo XIX i musei antropologici ed etnologici vennero moltiplicandosi in Europa
come negli Stati Uniti. L’enorme quantità di oggetti provenienti dai mondi “primitivi” e
“arcaici” dei cinque continenti andò accumulandosi. In accordo con i principi
dell’evoluzionismo ottocentesco tale oggetti venivano spesso raggruppati in categorie
omogenee e presentati in ordine di “complessità crescente”. Ad un certo punto si cominciò a
raggruppare gli oggetti per aree culturali, al fine di presentare le caratteristiche delle culture
tipiche di determinate regioni del pianeta. A partire dagli anni successivi alla Seconda guerra
mondiale: in alcune occasioni vengono ad esempio allestite mostre temporanee “a tema”.
Altre volte i pezzi posseduti da un museo possono venire integrati da oggetti provenienti da
altri musei e che hanno un’affinità con i primi. In certi musei si tende a privilegiare il criterio
documentaristico; in altri, a volte, quello estetico. Dove prevale il criterio estetico i pezzi sono
posti per lo più “decontestualizzati”, ossia considerati da un punto di vista che ne mette in
risalto il valore artistico indipendentemente dalla loro origine e funzione sociale. Questi
tendono ad essere “inglobati” nella categoria occidentale di “arte”. A tale inglobamento
hanno concorso due motivi.
Arte moderna e oggetti “selvaggi”:
Il primo motivo dell’inclusione della produzione estetica “primitiva” nella categoria di arte è
rappresentato dal fatto che, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, i pittori
e gli scultori europei appartenenti alla corrente di avanguardia cominciarono a prestare una
particolare attenzione agli oggetti provenienti dall’Africa, dell’Oceania e dalle Americhe. Vi
furono artisti che sentirono il bisogno di opporre, alla frantumazione dell’universo sociale
prodotto dalla modernità industriale, il recupero di modelli non competitivi, armonici e
sottratti al flusso della modernità stessa. “Primitivista”. Paul Gauguin. In seguito si
affermarono altre tendenze, raggruppate sotto il nome di “modernismo”, le quali ripresero le
“arti esotiche” come motivo di ispirazione. Picasso, Derain, Léger. Questi artisti pensavano
che fosse necessario dar vita a una produzione grafica e plastica capace di esprimere principi
atti a “trascendere”, a superare la cultura, la politica e la storia. Il modernismo considerava
pertanto le opere “primitive” come il riflesso di intuizioni estetiche “originarie”, prive di
connessioni con la realtà, opere “senza tempo” e dunque dei “prototipi” artistici allo stato
puro. In conseguenza di questa “convergenza” dell’arte modernista con l’arte “primitiva”
divenne normale parlare di “primitivismo dell’arte” includendo in questa categoria tanto i
prodotti dell’ “arte tribale” quanto quelli dei pittori e degli scultori dei primi decenni del
Novecento. Probabilmente questo accostamento tra arte primitiva e arte moderna è un
effetto di un’ “illusione ottica”. Tanto l’opera “tribale” quanto quella contemporanea si
discostano dal naturalismo che ha invece dominato la produzione artistica europea tra il
Rinascimento e la fine dell’Ottocento. Gli artisti europei trassero ispirazione da certe opere
“primitive” per esprimere le loro idee estetiche di rivolta nei confronti dell’accademia e dei
canoni del loro tempo.
Il mercato dell’arte “tribale”: come un oggetto “selvaggio” diventa un’opera d’arte:
La seconda ragione dell’inglobamento degli oggetti “esotici” nel sistema estetico occidentale fu
il mercato dell’arte. Gli objets sauvages costavano pochi soldi. Tuttavia nel corso dei decenni
successivi, e soprattutto negli ultimi del Novecento, molti di questi pezzi hanno raggiunto cifre
ragguardevoli. Era successo semplicemente che l’arte “tribale”, “primitiva” o “etnica”, aveva
cominciato ad avere un proprio mercato. Erano richiesti inizialmente dai musei etnografici.
Parallelamente però si sviluppò un mercato privato che andò sempre più affermandosi con il
moltiplicarsi delle mostre, dei collezionisti e naturalmente dei galleristi e delle riviste
specializzate. Ciò che determina il valore economico è il fatto che questi oggetti possono essere
legittimamente giudicati “arte”. A loro volta, però, questi oggetti vengono considerati “artistici”
perché hanno un valore, perché possono cioè entrare nel “mercato dell’arte”. Valutazioni
estetiche e valutazioni economiche interagiscono tra loro nel determinare la considerazione di
un oggetto in quanto “opera d’arte” o meno. Il mercato dell’arte tribale ha d’altronde bisogno di
rifornirsi di articoli sempre nuovi, ed è per questo motivo che tende a inglobare
progressivamente anche oggetti che precedentemente non sarebbero stati considerati degni di
attenzione. Questo allargamento del mercato dell’arte tribale è una conseguenza del fatto che a
partire da un certo periodo le opere ritenute autentiche e originali non sono state più
riprodotte. Molti degli oggetti raccolti erano stati riprodotti a scopi religiosi o rituali. In molte di
queste società il fine per cui tali oggetti erano fabbricati non esiste più. Sono passati da una
“sfera di consumo” a un’altra, con una conseguente trasformazione della natura del loro valore,
da simbolico ad “artistico” ed economico. A volte le rivendicazioni dei popoli nativi si sono
spinte fino a chiedere la restituzione di oggetti conservati nei musei occidentali.
Arte e politiche dell’identità:
I contrasti che sorgono al giorno d’oggi intorno alla gestione delle opere d’arte e del
patrimonio culturale non riguardano solo le istituzioni occidentali come i musei da un lato e i
popoli nativi da un altro. Conflitti, disaccordi e tensioni possono verificarsi anche all’interno di
uno stesso paese, quando ad entrare in gioco sono sentimenti d’orgoglio locale, oppure, come
quando entrano in gioco motivi identitari.
Il patrimonio culturale:
Oggi per patrimonio culturale si intende tutto ciò che appartiene alla cultura materiale,
artistica e culturale in senso antropologico, a cui un certo gruppo o società guarda come a
elementi del proprio passato, della propria “identità”. Ogni regione, provincia o città è in
grado di esibire una propria “tradizione culturale”.
Sono sempre più frequenti i casi in cui un’amministrazione comunale o uno Stato tentano di
ottenere un riconoscimento ufficiale dell’importanza di un proprio monumento, di un
paesaggio o di una tradizione da parte degli organismi internazionali affiliati all’ONU (per
esempio l’UNESCO). Tale riconoscimento si traduce infatti con l’iscrizione di un monumento,
di un paesaggio o di una tradizione nella lista dei beni “patrimonio dell’umanità”. Gli interessi
che ruotano attorno a questo riconoscimento sono numerosi.
Innanzitutto economici, perché avere un luogo riconosciuto a livello nazionale come
“patrimonio culturale” attira turisti, sovvenzioni da parte di governi o di organismi
internazionali; ha poi effetti di “rinforzo” del senso identitario di una comunità o di un paese;
fa inoltre sì che il paese che si adopera per veder riconosciuti i propri beni culturali si adegui a
standard internazionali di valutazione che fanno salire il prestigio di quel paese nel contesto
internazionale eccetera. Nella seconda metà del Novecento c’è stata una specie di corsa alla
patrimonializzazione. Dietro la nozione di patrimonio culturale ci sono quindi delle “forze” che
si disputano, che si oppongono, che si appropriano di un qualche monumento, paesaggio o
tradizione al fine di vedere riconosciuta la propria “originalità”. Il patrimonio culturale può
essere anche qualcosa di non strettamente “materiale”. In questo caso si parla pertanto di
beni culturali “intangibili”, come una festa, un canto, o una ricetta di cucina.
La nascita del concetto di patrimonio culturale:
L’idea di patrimonio culturale nacque nell’Inghilterra della metà dell’Ottocento con il nome di
cultural heritage che significa, letteralmente, “eredità culturale”. La sua comparsa coincise
con il tentativo di far fronte alle profonde mutazioni che avevano investito il paese per
effetto della rivoluzione industriale. Il paesaggio di certe regioni era stato messo sotto sopra
dall’industria mineraria che si era sviluppata per l’estrazione del carbone necessario a far
funzionare le macchine industriali. Strade, ponti, ferrovie avevano sconvolto, insieme alle
miniere, ai cantieri industriali e urbani, il paesaggio di tranquille contrade agricole svuotate
dalle loro popolazioni. I riformisti di allora sentirono il bisogno di “fissare” degli ancoraggi per
la memoria del paese, allo scopo di affermare una forma di continuità (culturale) in cui gli
abitanti dell’Inghilterra e di altre regioni della Gran Bretagna potessero riconoscersi. Un
patrimonio comune di monumenti, tradizioni, libri, paesaggi, opere d’arte, al quale gli
abitanti di allora potessero guardare come a qualcosa che affermasse la loro unità e la
continuità della comunità sociale nel tempo.
Parte nona: Risorse e potere:
Capitolo 1: Il potere delle risorse e risorse del potere:
Risorse e potere: un’inscindibile relazione:
Lo studio della produzione e della gestione delle risorse, da un lato, e quello della costruzione
e dell’esercizio del potere, dall’altro, competono per tradizione a due branche distinte
dell’antropologia culturale: l’antropologia economica e l’antropologia politica. Le società
umane hanno probabilmente conosciuto da sempre l’intima relazione tra risorse e potere,
relazione che è andata tuttavia plasmandosi e modificandosi a seconda delle epoche e delle
situazioni, e che ha fatto oggetto di pratiche e di rappresentazioni culturalmente orientate.
Risorse materiali e risorse simboliche:
Per risorsa si deve intendere tanto un bene materiale, concreto, tangibile come l’acqua, il
denaro, il grano, quanto un bene “volatile” come un sapere o una conoscenza tecnica, una
certa idea, un’ideologia politica o una visione religiosa del mondo. Le risorse possono essere
di natura tanto materiale quanto simbolica. È anche qualunque cosa il cui controllo consente
a un individuo o a un gruppo di perseguire scopi di ordine tanto materiale quanto simbolico.
L’acquisizione e la disponibilità di una risorsa non sono mai completamente disgiunte da una
relazione di potere, ossia dal fatto che tale acquisizione e tale disponibilità influiscono
sempre sulla possibilità che un individuo o un gruppo di individui hanno, grazie a esse, di
imporsi o di prevalere su altri individui o altri gruppi. Viceversa, tale possibilità di prevalere è
sempre associata al controllo di una qualche risorsa, materiale o simbolica che sia.
Economia e politica:
Presso le società industriali e postindustriali europee e americane ad esempio, si riconosce
esplicitamente solo da poco tempo che le risorse possono essere tanto di natura materiale
quanto di natura simbolica.
Risorsa immateriale. Tuttavia resta ben radicata l’idea che tutto ciò che riguarda la
produzione, la gestione, lo scambio, la distribuzione e il controllo delle risorse materiali rientri
nelle sfere dell’economia, mentre tutto quanto riguarda le relazioni tra individui e gruppi
sociali mossi da progetti e interessi diversi ricada nel dominio della politica. Anche se è
evidente che nemmeno in Occidente i due ambiti sono separati, per lungo tempo questa idea
di economia e politica come di due sfere distinte è stata proiettata anche sulle società diversa
da quella europea. Un primo risultato di questa situazione fu che agli occhi degli europei la
maggior parte dei popoli “altri” sembravano privi sia di organizzazione economica che di
organizzazione politica, non potendo rintracciare presso molti di loro né un mercato con i suoi
supporti e le sue regole né istituzioni politiche riconoscibili come tali.
Oggetti di prestigio e beni di consumo:
Con lo sviluppo dell’etnografia divenne chiaro che anche gli altri popoli avevano vari modi di
produrre risorse, di farli circolare, nonché di fissare i criteri di accesso a esse, cioè di
controllarne l’utilizzazione da parte di certi individui e di determinati gruppi piuttosto che di
altri. Economie “arcaiche”. Malinowski ebbe modo di studiare una particolare forma di
scambio, chiamato kula dai Trobriand e dai popoli degli arcipelaghi vicini, una forma di
scambio che lui stesso definì “rituale” in quanto legato a regole apparentemente prive di un
significato economico immediato. Circolavano due tipi di oggetti: collane di conchiglie rosse
(soulava), e braccialetti di conchiglie bianche (mwali). Le conchiglie circolano ancora oggi in
senso orario, e i braccialetti in senso inverso. Malinowski chiamò questo circuito “anello kula”
(kula ring). Gli oggetti appartenenti a una categoria potevano essere scambiati solo con
oggetti dell’altra categoria: soulawa in cambio di mwali e mwali in cambio di soulawa.
Restavano nelle mani di chi li riceveva o dei suoi eredi anche per molti anni, ma alla fine
venivano sempre nuovamente scambiati. Erano seguiti da scambi “profani” durante i quali i
gruppi trattavano la cessione di oggetti d’uso corrente: strumenti, armi, reti da pesca, alimenti
eccetera. Gli oggetti cerimoniali e quelli profani che venivano scambiati durante le spedizioni
dei Trobriand costituivano dunque due diversi tipi di oggetti: beni di prestigio e beni di
consumo rispettivamente.
La “vita” e la funzione degli oggetti:
Tali oggetti venivano scambiati dopo lunghi discorsi da parte dei partecipanti al kula. Non tutti
i Trobriand però potevano entrare nel circuito kula secondo le stesse modalità. Era insomma
una prerogativa di pochi. Nell’area delle Trobriand e degli arcipelaghi vicini, c’è un termine,
keda, con il quale i locali si riferiscono al cammino percorso dai beni che entrano nello
scambio kula. Keda è un termine che infatti rinvia al cammino degli oggetti, alle relazioni che
essi “incorporano” (la memoria dei loro passaggi) e alla ricchezza, al potere e alla reputazione
di coloro che li possiedono. Un keda “ben riconosciuto” corrisponde a relazioni stabili di
scambio. Tali relazioni, proprio perché ruotano attorno a beni che sono “segni” di distinzione
sociale, ricchezza e reputazione, sono suscettibili di rafforzare sempre la posizione di prestigio
di coloro che possono vantare la propria appartenenza a un keda molto ampio e complesso. I
keda tuttavia possono anche dissolversi per i più svariati motivi. Cambiando circuito, beni con
lunghe storie di scambio alle spalle possono vedere azzerata la propria “memoria” e così
perdere valore. Tentano di rendere sempre più stabili e durature le relazioni.
La manipolazione delle risorse e le trasformazioni dello scambio:
Il sistema kula è un sistema multicentrico di natura transculturale. Gli oggetti in esso coinvolti
entrano in realtà nelle compensazioni matrimoniali, nell’acquisto di maiali o per pagare il
diritto di coltivare appezzamenti di terreno. Con l’arrivo dei colonizzatori all’inizio
dell’Ottocento, molti beni di provenienza occidentale come utensili in acciaio e armi hanno
cominciato a entrare nel circuito kula. Queste trasformazioni del sistema kula suggeriscono
non soltanto che siamo di fronte a una situazione economico- cerimoniale influenzata da
eventi storici, ma che tale istituzione è stata ed è attualmente oggetto di manipolazioni e
nuove strategie messe in atto dai partecipanti allo scambio. Chi vi si dedicava in passato, e chi
vi partecipa attualmente, poteva e può farlo solo in quanto capace di controllare altre risorse.
Con la monetizzazione dell’economia, “buttarsi” nel circuito kula significa sempre più
controllare risorse legate al possesso e alla circolazione del denaro. Kitoum: indica un “bene
kula” che è stato acquisito al di fuori del circuito cerimoniale e che quindi è ritenuto proprietà
personale e definitiva del possessore. Se questi lo immette nel circuito cerimoniale, ogni
bene ottenuto in cambio diventa di sua proprietà, cioè svincolato dal circuito cerimoniale da
cui proviene.
Sfere di scambio:
“Sfere di scambio”, cioè “spazi” separati di circolazione di beni di natura differente.
Transazioni matrimoniali tra i Nuer. Queste popolazioni del Sudan non fanno entrare il denaro
(qualificato in questa circostanza come “sterile”) nella composizione delle compensazioni
matrimoniali. La “sterilità” del denaro potrebbe essere la “rappresentazione trasformata” di
una relazione di potere soggiacente al loro sistema matrimoniale. Il bestiame è ottenuto dai
giovani uomini che lo ricevono solo dagli individui più anziani della loro famiglia. Questi
sanciscono anche il momento in cui questi ultimi possono diventare “adulti”. Il bestiame
diventa di fatto una risorsa tanto materiale quanto simbolica con cui questi ultimi esercitano il
proprio potere sui “giovani”. Ma perché ciò risulti essere un metodo efficace di fronte alla
monetarizzazione progressiva dei sistemi economici, i primi devono escludere il denaro dalla
sfera dello scambio matrimoniale e far rientrare in quest’ultima il solo bene che essi possono
controllare grazie alla loro autorità, cioè il bestiame.
Le nature del potere:
Elementi costitutivi del potere stesso, i modi della sua presenza e le possibilità della sua
efficacia sul piano sociale e culturale. Tali teorie sono diverse dalle idee che altre culture
hanno del potere e del modo in cui quest’ultimo può essere esercitato. Le teorie del potere
sviluppate in Occidente durante l’età moderna e sino all’inizio del Novecento avevano
cercato di coglierne più che altro la “sostanza”: il potere come facoltà di sovrani “delegati”
dal popolo; come espressione di una “volontà generale”; come prerogativa di monarchi per
garanzia divina; come attività esercitata da parlamenti funzionanti in qualità di “comitati
d’affari di borghesia”. Le teorie più recenti hanno messo invece l’accento sul carattere
pervasivo del potere, sulla sua natura non istituzionale ma inscritta nelle relazioni stesse tra
gli individui, i gruppi e, soprattutto nei “discordi” da essi prodotti. Michel Foucault: non
definisce il potere come una “sostanza”, ma cerca di vedere come esso funzioni, agisca e
costringa gli esseri umani a comportarsi in un certo modo. Il potere è ovunque. Il potere può
sì essere rappresentato con istituzioni parlamentari rappresentative di esso, ma la sua
efficacia si realizza per lo più in maniera invisibile, sotterranea. Entità pervasiva di cui gli
esseri umani non potranno mai liberarsi definitivamente. È chiaro che non solo i rapporti
sociali ed economici in generale, ma anche quelli tra sessi, generazioni e culture medesime
possono essere analizzati in termini di azioni e discorsi nei quali il potere è “incorporato”. Il
potere perde la sua connotazione strettamente politica. Max Weber: definì il potere come la
“probabilità che un soggetto, nel quadro di una determinata relazione sociale, ha di
realizzare i propri scopi mediante le possibili resistenze”. Il potere è la facoltà di imporre ad
altri il proprio volere. Le caratteristiche di un soggetto di questo tipo possono essere il
carisma, ossia l’ascendente che un individuo ha sui propri seguaci o sulla massa; oppure
l’autorità spirituale o religiosa che costui e altri individui come lui detengono; o, ancora, il
fatto di essere in grado di esercitare una coercizione di un qualche tipo; fisica, morale,
economica eccetera. Il potere è per Weber una forma più o meno esplicita di coercizione. Il
potere tende a produrre rappresentazioni di sé stesso.
Il potere “in scena”: il be di murua degli Agni della Costa d’Avorio (prima metà del secolo XX):
Il potere non disdegna, per imporsi, di produrre l’“ironia di sé stesso”. Presso di loro, alla
morte del sovrano, un finto re (uno schiavo) ne assumeva le insegne e, parodisticamente, ne
recitava la parte sino alla proclamazione del “vero” successore. Il rito, chiamato be di murua,
era celebrato in occasione della morte del sovrano agni, e di altri importanti figure come la
regina, i capi di villaggio, il capo dei guerrieri e il principale dei notabili della corte, una specie
di primo ministro. Era una messa in scena “rovesciata” del rapporto dominatore/dominato. Il
finto re godeva di tutte le prerogative che sono tipiche del sovrano. Doveva anche sottostare
alle medesime proibizioni di cui era circondato il vero re. Lo schiavo-re non era il solo a
recitare la parte, ma anche tutta la sua famiglia prendeva parte al rito. Restava un fatto
“simbolico”. Il risultato di tutto ciò era che la funzione del falso re veniva in qualche modo
confinata all’interno di un contesto simbolico, un fatto che avrebbe conferito al rituale un
carattere eminentemente “parodistico”. Al termine dell’interregno il falso re e la sua famiglia
venivano messi a morte. Tuttavia, se aveva “recitato bene” la parte assegnatagli, la sua vita
poteva anche essere risparmiata, ed egli poteva riprendere il suo posto tra gli schiavi di corte.
Da un lato il rito di inversione sarebbe un artificio per “spostare” su un falso obiettivo gli
eventuali influssi nefasti derivanti dalla morte del re e risparmiare così il successore. Ma il be
di murua avrebbe anche un’altra finalità, di natura sociologica. Dal momento che la morte del
re è considerata dagli Agni come l’inizio di un periodo di caos, la società metterebbe in scena il
be di murua, che altro non sarebbe se non la caricatura della società stessa, in modo tale che
“lo spettacolo di questo mondo caotico non può far altro che ispirare il desiderio di far ritorno
a un mondo ordinato, a un mondo governato”. Un’altra ipotesi può essere che la figura del re
doveva essere considerata immortale. L’effetto di questa messa in scena parodistica del
potere sarebbe pertanto quello di produrre un rafforzamento indiretto del potere stesso.
Arena politica, attori politici e prospettiva processuale:
Che cosa mette in condizioni individui e gruppi di agire politicamente allo scopo di ottenere
potere e di imporlo? Individui e gruppi agiscono politicamente nella misura in cui possono
gestire delle risorse che, se adeguatamente impiegate allo scopo, conferiranno loro il potere
di controllare altre e più importanti risorse, di natura simbolica e materiale. Per partecipare
alla “lotta per il potere” bisogna comunque disporre di risorse di un tipo o dell’altro, meglio
di tutti e due. Ciò non esclude che individui o gruppi che controllano meno risorse di altri
possano avere più potere di questi ultimi. Le strategie, gli stratagemmi, le astuzie e gli
inganni fanno molto spesso parte della “lotta per il potere”. Arena politica, cioè uno spazio
ideale occupato da tutti gli elementi che controllano il confronto politico: tutti elementi che
sono manovrati dagli attori politici nel confrontarsi con il potere. Gli attori politici sono
quanti si confrontano nell’arena politica.
Considerare la politica come uno spazio, un’arena, in cui si disputa la partita per il potere,
svincola la politica stessa dall’immagine eccessivamente statica che ha caratterizzato gran parte
della riflessione passata dell’antropologia sul tema del potere. Aspetti dinamici. Prospettiva
processuale. Tale prospettiva ritiene che motivazioni e interessi trovino espressione
nell’attuazione di determinate strategie. Essa è stata chiamata “processuale” in quanto mira a
cogliere i fenomeni politici nel loro “divenire”, e in ciò si distingue da quella che descrive i
sistemi politici sul piano esclusivamente istituzionale e formale.
Capitolo 2: Forme di vita economica:
La produzione e la circolazione delle risorse:
Controllare risorse non significa soltanto poter decidere della loro destinazione; può voler dire
anche esercitare un controllo sulla produzione di esse. Non possiamo certo fare a meno di
controllare la produzione e la distribuzione delle risorse immateriali che permettono di
controllare quella materiali. Le società e le culture non sono mai uniformi al loro interno, né le
conoscenze e i saperi sono distribuiti in modo uniforme.
Il principio di reciprocità e la dimensione sociale dell’economia:
La produzione, la distribuzione e la circolazione delle risorse materiali sono i temi costitutivi
dell’antropologia economica. Fu verso la metà del Novecento che emerse come un
sottosettore distinto della disciplina. Ciò fu soprattutto in seguito al lavoro di Karl Polanyi, un
economista ungherese trasferitosi in Gran Bretagna nel 1940 per sfuggire ai nazisti.
Malinowski aveva notato ad esempio come gran parte della vita sociale si basasse su atti di
natura reciproca. La reciprocità la si ritrovava ovunque nella vita dei Trobriand, negli scambi
pacifici come nel conflitto. Essa aveva un carattere sociale, obbligatorio e cogente che, se non
rispettato, produceva riprovazione, sanzioni ed esclusione. Secondo Mauss erano tre le
regole che stavano alla base della pratica del dono e dell’idea stessa di reciprocità: dare,
ricevere e ricambiare.
Polanyi contrappose un’idea di economia come rapporto concreto degli esseri umani con la
natura da un lato e con i propri simili dall’altro. Metteva l’accento sulla dimensione sociale.
L’economia sarebbe così un “processo istituzionalizzato”, cioè dipendente dalle strutture
sociali nelle quali tale processo è “incastonato”. Le istituzioni sono quelle al cui interno si
compiono tutte le operazioni considerate normalmente come “economiche”.
Le forme di circolazione dei beni:
Secondo Polanyi le forme di distribuzione e di scambio presenti nelle diverse società erano
fondamentalmente tre: quella retta dal principio della reciprocità; quella basata sulla
redistribuzione e, infine, quella fondata sullo scambio. Ognuna di queste forme poggia su un
diverso “supporto istituzionale”, il quale fa appunto, dell’economia, un “processo
istituzionalizzato”: la simmetria, la centralità e il mercato rispettivamente.
Reciprocità/simmetria: economie di società organizzate su gruppi di parentela, dove
prevalgono scambi di tipo paritario e simmetrico tra gruppi di parenti.
Ridistribuzione/centralità: economie in cui è presente un’autorità che concentra su di sé i
prodotti provenienti dalla periferia, beni che vengono successivamente ridistribuiti secondo
criteri di volta in volta differenti. Scambio/mercato: economie nelle quali le merci circolano in
base alla legge della domanda e dell’offerta. Questi modelli di circolazione dei beni non sono
esclusivi uno dell’altro. La vita economica delle comunità che si fondano ancora oggi sulle
forme di adattamento costituite dalla caccia-raccolta, pesca, coltivazione e pastorizia nomade
e stanziale, è sempre più influenzata dall’economia di mercato. La monetarizzazione
dell’economia ha alterato molti sistemi fondati sulla simmetria e la centralità, anche se non
sono rari i casi di quelle società che riservano al denaro e alla produzione finalizzata al
mercato circuiti e spazi separati. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, la monetarizzazione e i
cambiamenti tecnologici introdotti coi “piani di sviluppo” hanno provocato alterazioni
significative sullo stesso assetto sociale delle comunità interessate.
La produzione sociale dei beni e il concetto di “modo di produzione”:
La riflessione di Polanyi si concentrò soprattutto sulla circolazione, non sulla produzione. La
circolazione dei beni è un fenomeno sociale poiché lo scambio, l’acquisto e la vendita di tali
beni pongono in relazione tra loro individui e gruppi. Anche la produzione è una relazione
sociale, poiché oggetti e beni prodotti “incorporano” anch’essi delle relazioni sociali. L’idea
che gli oggetti fabbricati vadano analizzati come prodotti che incorporano delle relazioni
sociali storicamente determinate risale a Karl Marx. “Modo di produzione” forma storica di
esistenza sociale. Un modo di produzione era determinato dalla combinazione di tre fattori: i
mezzi di produzione, la manodopera e i rapporti di produzione. I mezzi di produzione sono la
materia prima, il sapere e la tecnologia di cui una società dispone. La manodopera è l’energia
umana impiegata nel processo produttivo, ossia il lavoro. I rapporti di produzione sono infine
la relazione sociale che articola la connessione tra mezzi di produzione e manodopera. Se
cambiano i rapporti di produzione cambia anche il modo di produzione. A seconda cioè di
come mezzi di produzione e manodopera entrano in relazione si ha l’emersione di un modo di
produzione particolare. Modo di produzione “schiavista”.
Produzione feudale. Nella società capitalista lavoro salariato, cioè “remunerato”. I beni
materiali sono dei prodotti che “incorporano” molti elementi. Mette l’accento sulle
condizioni sociali della produzione. Se non li si considera da questo punto di vista, i beni-
merci diventano dei “feticci”, qualcosa che pervade il mondo in cui noi viviamo ma di cui non
riusciamo a vedere la vera natura.
L’analisi antropologica delle forme di vita economica:
Aspetti centrali del processo produttivo inteso come fenomeno sociale: la natura dei mezzi di
produzione; i loro possessori legittimi; la relazione che si instaura tra possessori dei mezzi di
produzione e quanti lavorano; la destinazione sociale dei prodotti eccetera. Hanno prestato
particolare attenzione al modo in cui forme di vita economica fondate su relazioni produttive
“tradizionali” entrano in rapporto con l’economia di mercato e con logiche economiche che
hanno origine altrove.
La comunità domestica:
Studi condotti negli anni Sessanta-Ottanta da antropologi europei e americani sulle
popolazioni dell’Africa subsahariana e del Sudamerica. “Comunità domestiche”, cioè gruppi di
individui, per lo più consanguinei e alleati coresidenti, i quali contribuiscono allo svolgimento
delle attività di sussistenza di interesse comune. La comunità domestica si fonda su un
accesso paritario di tutti gli individui al mezzo di produzione per eccellenza, la terra. Tuttavia
all’interno di tale comunità vige il principio dell’anzianità sociale come fondamento
dell’autorità. Sono infatti gli “anziani”, cioè uomini sposati con una prole in grado di lavorare
la terra, a detenere il controllo delle risorse. In questo caso le risorse sono piuttosto le donne,
l’accesso alle quali è regolato dagli anziani delle varie comunità domestiche. In queste
circostanze il controllo delle donne è il fattore-chiave da cui deriva il potere: le donne sono la
risorsa fondamentale grazie alla quale gli individui possono diventare a loro volta
indipendenti, sposandole e avendo da loro dei figli. La relazione sociale che determina il modo
di produzione è il rapporto giovane-anziano. I giovani devono obbedire agli anziani.
Concedendo al momento opportuno ai giovani delle mogli, essi consentono loro di dare inizio
a un nuovo “ciclo domestico”.
La schiavitù del coltan:
La schiavitù fu ufficialmente abolita tra il 1830 e il 1840 dalla Gran Bretagna. Ma negli Stati
Uniti rimase in vigore ancora per altri vent’anni. Oggi è ufficialmente proibita ovunque, ma
altre forme di dipendenza simili alla schiavitù si sono sviluppate nel corso del tempo. Ne è un
esempio il caso dei ricercatori di coltan, un materiale davvero speciale. Le quantità maggiori
esso provengono dall’Africa, soprattutto dal Congo orientale. È diventato un materiale
straordinariamente ricercato. Il suo prezzo è cresciuto a dismisura nel giro di breve tempo. Nel
1998 meno di mezzo chilo di coltan grezzo costava tra i 3 e i 4 dollari USA; l’anno successivo
costava già dieci volte di più e neanche un anno dopo, cioè all’inizio del 2000, ben cento volte
di più: circa 380 dollari. Poi il prezzo cominciò a scendere. Si ottiene frantumando pietre.
Migliaia e migliaia di uomini hanno scavato e polverizzato rocce ricche di coltan in cunicoli a
continuo rischio di crollo. La schiavitù ha assunto nuove forme. E tra le nuove forme di
dipendenza c’è anche quella che potremmo chiamare la “schiavitù del coltan”. Questa
umanità è prigioniera dei vari schieramenti di soldati e miliziani che sono i veri beneficiari
dell’impresa, oltre naturalmente agli intermediari e ai trafficanti internazionali.
L’articolazione dei modi di produzione:
La comunità domestica è stata sempre “funzionalmente incorporata” dalle forme
economiche e sociali che l’hanno inglobata nel corso della storia. Tutte queste forme hanno
infatti sfruttato la capacità della comunità domestica di svolgere la sua fondamentale
funzione di luogo di riproduzione della manodopera, ossia di esseri umani in grado di
prestare il proprio lavoro. Il modo di produzione tradizionale dominante nelle società
africane è entrato in un rapporto di articolazione e di dipendenza da quello capitalista. In
conseguenza di questo fatto però la comunità domestica delle società africane si è
indebolita, con tutti i fenomeni di disgregazione sociale e culturale che l’inurbamento e
l’emigrazione ha portato con sé. Tali
conclusioni sono applicabili, seppure con le dovute correzioni, anche alla famiglia nel mondo
occidentale. Questa, da allargata e patriarcale che era, si è ridotta, con lo sviluppo
dell’industria e del lavoro salariato, a un nucleo sempre meno in grado di riprodurre la
manodopera necessaria al mondo del lavoro, il quale deve fare sempre più ricorso a fonti
esterne di manodopera.
Le economie dell’ “affezione” e “politiche di sviluppo”:
L’articolazione dei modi di produzione comporta il progressivo coinvolgimento dei sistemi
“locali” in sistemi più ampi e, molto spesso, una forma di “dipendenza strutturale” dei primi
dai secondi. Le trasformazioni possono essere rapide e rilevanti. Molto dipende da quanto il
sistema locale è in grado di resistere alla pressione esterna. Questi casi sono stati considerati
esempi di una “economia dell’affezione” come contrapposta a una “economia del valore”.
L’economia “dell’affezione” non è un’economia di per sé “sottosviluppata”. L’economia
dell’affezione sarebbe quella che corrisponde a un modello produttivo e di scambio che può
esistere accanto a quello basato sulla logica del mercato oppure che può rifiutare
quest’ultimo perché giudicato dagli interessati intrusivo e socialmente dirompente. È difficile
per una comunità sottrarsi completamente all’impatto di una logica economica come quella
dominata dal mercato. Queste resistenze costituiscono la ragione principale del fallimento
dei progetti di sviluppo ideati da operatori europei, nordamericani, indiani o cinesi che
spesso conoscono poco o nulla della realtà sociale e culturale delle popolazioni coinvolte.
La modernizzazione dell’agricoltura, il mercato e la fine della reciprocità: i contadini di Bijapur,
India (fine secolo XX):
L’impatto di nuove tecniche agricole legate all’introduzione di nuove sementi ha comportato
in molti casi profonde modificazioni sia nella struttura delle relazioni sociali sia nella
concezione che alcune comunità rurali hanno di loro stesse e dei loro rapporti con la terra. Il
caso die contadini della regione di Bijapur, India centro-meridionale. La terra, considerata
come un soggetto vivo e dispensatore di risorse. Le colture sono di vario tipo e vengono
condotte diversamente a seconda del genere di sementi, dei suoi coltivatori e delle tecniche
impiegate. Le sementi sono il sorgo, il miglio e il riso “tradizionali”; le operazioni agricole sono
effettuate con l’impego della trazione animale, dell’energia umana, e con metodi irrigui resi
possibili dalla presenza di pozzi scavati a mano, di sorgenti naturali o dalle precipitazioni
stagionali. L’insieme di tutti questi elementi forma l’hada. Particolarmente importante è la
nozione di hulighe, la quale rinvia all’idea dei frutti della terra come “connessione” da parte di
quest’ultima agli esseri umani. Distribuzione dei prodotti tra i nuclei domestici. Riti periodici in
onore della terra. Società, rito e produttività della terra risultano così interconnessi. Nel corso
degli anni Ottanta si sono verificati tuttavia dei cambiamenti importanti nell’agricoltura di
questa regione. È stata ad esempio introdotta una nuova varietà di riso, per la cui irrigazione
si è reso necessario scavare pozzi profondi, dai quali l’acqua può essere attinta solo grazie alle
pompe a motore. L’idea di hulighe ha cominciato pian piano a essere rimpiazzata, nei discorsi
dei contadini, da quella di utpati, ossia di produttività calcolata in termini puramente
quantitativi. Il nuovo tipo di riso è infatti destinato al mercato. L’idea di sistam individua infatti
un atteggiamento del tutto nuovo per i contadini. Esso si riflette nel desiderio di raggiungere
nuovi obiettivi solo grazie all’adozione di metodi atti allo scopo. I contadini dichiarano
apertamente il loro “disprezzo” per le sementi “ibride”. I contadini parlano di sé stessi come
di gente fragile, debole, vulnerabile alle malattie, proprio come delicate, deboli ed esposte
alle malattie sono le sementi. Modi di esprimere un passaggio e una condizione che sono
percepiti dai contadini come risultato della pressione, sul contesto locale, di forze estranee ed
egemoniche provenienti dall’esterno. Essi denunciano la perdita di quei legami morali e sociali
da loro stessi connessi con un’idea di produttività e di forza della terra. Dalla “santità delle
colture”, frutto della generosità della terra, si è passati al disprezzo per le sementi ibride.
Cambiamento nei riti propiziatori: mentre prima era la terra a costituire l’oggetto di questi riti,
ora si offrono primizie ai pozzi e alle pompe a motore e le si orna con fiori e nastri colorati.
Le strutture della dipendenza:
L’articolazione tra sistemi e modi di produzione locali con l’economia di mercato potrebbe
essere definita come “struttura della dipendenza”. Situazione di subordinazione funzionale
che si instaura tra economie del centro ed economie della periferia, tra economie fondate
sulla produzione industriale e agricola altamente tecnologizzata da un lato ed economie
fondate sulla manodopera a basso costo e a bassa produttività dall’altro. Le economie più forti
hanno la possibilità di estrarre dalle economie più deboli risorse che, in tal modo, non possono
essere impiegate localmente. Le economie del centro orientano a proprio vantaggio le
economie più deboli della periferia facendo produrre loro ciò che conviene alle economie del
centro.
I fabbri di Kaedi, Mauritania meridionale (fine secolo XX):
Vi sono anche casi in cui l’economia di certe comunità del pianeta rimane al di fuori delle
strutture del mercato globale in quanto non è in grado di produrre nulla che interessi
quest’ultimo. “Società vernacolari”. Sono presenti laddove, dopo la fase di “deculturazione”
prodotta dal cannibalismo, le comunità cercano di formulare nuovi modelli di relazioni sociali,
nuove immagini di sé e, naturalmente, nuovi modi di ottenere uno standard accettabile di
vita materiale. I componenti di queste società: “naufraghi planetari”. Sul piano tecnico-
economico la società vernacolare, che non ha nulla da offrire al mercato e nulla dal mercato
può di conseguenza prendere, produce soluzioni alternative. Ciò avviene soprattutto grazie al
riciclaggio dei “rifiuti della modernità”, ossia mediante il procacciamento e l’utilizzo di
materiali di scarto recuperati a costi bassissimi. Esemplare sembra essere il caso dei fabbri di
Kaedi, una città della Mauritania meridionale ai confini con il Senegal. Qui un aspetto
importante dell’ “economia di recupero” è l’autoproduzione degli strumenti necessari alla
fabbricazione di oggetti e di altri utensili, sia agricoli che d’uso quotidiano. Tale
autosufficienza si accorda con la messa in atto di estese reti di cooperazione fondate sulla
struttura familiare, amicale e di vicinato. L’assenza di lavoro salariato in ragione della
disponibilità di manodopera familiare fa sì che i costi di produzione siano praticamente nulli.
L’unico costo, per altro assai basso, è rappresentato dal trasporto del materiale ferroso.
“Razionalità” e “irrazionalità” nell’economia:
Nella tradizione di pensiero occidentale moderno, anche l’economia è concepita come un
settore dell’agire umano dominato dal calcolo e dal profitto. Questo è il motivo per cui molti
occidentali si stupiscono ancora del fatto che certi popoli scelgano soluzioni “economiche” che
agli occidentali tali non sembrano.
Pianificatori e consulenti per lo sviluppo ritengono che questi siano due esempi dell’
“irrazionalità” con cui molte popolazioni del pianeta sembrerebbero comportarsi: invece di
“investire” le risorse di cui dispongono in attività che potrebbero migliorando il loro livello di
vita, le “sprecano” devolvendole a scopi puramente “simbolici”. Alcuni antropologi ritengono
che tali comportamenti non possano essere giudicati “economicamente” irrazionali, in quanto
rispondono effettivamente al soddisfacimento di un bisogno considerato da loro come
primario. Sarebbe insomma il codice culturale di una determinata comunità a decidere che
cosa è irrazionale e che cosa non lo è. Sono imprecisi nel definire il “parametro della
razionalità”. Nel caso dei Malgasci da un lato non si sa che cosa altro potrebbero fare dei loro
denari e delle loro risorse in una situazione economica molto depressa qual è quella in cui
vivono, se non appunto “investirli” sul piano simbolico. Ma è anche vero che non si può
considerare “razionale” qualsiasi azione per il solo fatto che viene rappresentata come
tendente a un fine. Considerare la dimensione del consumo. Non è evidentemente esclusiva
delle società a economia capitalistica, poiché tutti gli esseri umani “consumano” dei beni,
tanto che si tratti di alimenti quanto di oggetti d’uso. Il funzionamento delle economie
capitaliste si basa tuttavia su un sistema di consumi allargato, in quanto il consumo sempre
maggiore di beni costituisce ormai la condizione basilare dell’esistenza di quelle stesse
economie. È dunque molto difficile stabilire quali possano essere i criteri assoluti della
razionalità economica. Essendo le società tutt’altro che omogenee, differenti gruppi di
ciascuna possano perseguire finalità diverse, avere ineguale accesso alle risorse e quindi
interessi nient’affatto identici. Per capire come gli esseri umani si muovono in ambito
economico bisogna anche tenere conto di una pluralità di fattori che vanno dall’utile
materiale alla soddisfazione morale, dal consumo di beni concreti al consumo di beni
materiali, dal controllo di risorse finanziarie al prestigio.
Situazioni ambientali, psicologiche, e soprattutto culturali, tendono a orientare il
comportamento e le aspettative “economiche” degli individui stessi. Gli esseri umani,
piuttosto che essere “economicamente razionali” sembrano “lottare perennemente per
riuscire a vedere ciò che sta davanti al loro naso”.
Nuovi vampiri in Sudamerica:
Situazioni caratterizzate da ciò che abbiamo indicato come violenza strutturale, sfruttamento
e insicurezza per il futuro possono tradursi in immagini fantastiche, demoniache e risvegliare
antiche paure. Chipaya degli altipiani della Bolivia. La figura del kharisiri (“vampiro”) esiste
sugli altipiani della Bolivia dall’epoca della Conquista. È rappresentato come un personaggio
caratterizzato dall’aspetto di un uomo bianco o di un meticcio. È un uomo che si aggira con un
coltello e un laccio di pelle umana in cerca delle sue vittime, che addormenta lanciando su di
loro con una cerbottana una polvere di ossa umane tritate. Succhia il grasso della vittima.
Nella seconda metà del Novecento queste credenze hanno però subito importanti e
significative trasformazioni. Nel 1990 a Lima si sparse ad esempio la voce che dei gringos
armati di mitraglietta erano entrati in una scuola e avevano rapito dei bambini allo scopo di
espiantare loro gli occhi allo scopo di rivenderli all’estero. Nonostante le smentite e
l’intervento delle autorità, si diffuse un notevole terrore tra la popolazione di Lima. Le figure
tradizionali del kharisiri si sono trasformate in quelle dei gringos con mitraglietta, camici
bianchi e dollari. La cecità provocata dalle aggressioni dei gringos è una metafora dell’oscurità
nella quale vivono i poveri, e della volontà di mantenerli in tali condizioni.
Una struttura della dipendenza agli albori del colonialismo: gli Uroni del Canada e la loro
scomparsa (secolo XVII):
Forme di dipendenza di popolazioni extraeuropee dalle economie di mercato cominciarono a
costituirsi già nei primissimi tempi della colonizzazione. Un esempio è quello degli Uroni,
agricoltori del Canada alla metà del secolo XVII. Fino agli inizi del Seicento essi mantennero coi
loro vicini relazioni ora pacifiche ora bellicose, ma senza mire di conquista da parte degli uni o
degli altri. Nei Seicento arrivarono i francesi.
Presero accordo con gli Uroni i quali cominciarono a rifornire il mercato di pellicce. Per
soddisfare la richiesta crescente gli Uroni abbandonarono progressivamente le attività
tradizionali di sussistenza e si dedicarono sempre di più alla caccia degli animali da pelliccia.
Così, alla metà del XVII secolo, l’economia degli Uroni si fondava ormai in larga misura sulla
caccia degli animali da pelliccia e sul commercio con i francesi. Fecero la loro comparsa i
mercanti olandesi. Essi si rivolsero agli irochesi, vicini degli Uroni, per ottenere da loro lo
stesso tipo di beni: le pellicce. Uroni e Irochesi divennero concorrenti. Così si giunse a una
situazione per cu gli Uroni non avevano più alternative: o affermarsi sui loro vicini irochesi e
monopolizzare il commercio delle pellicce, oppure riconvertirsi all’agricoltura. Francesi e
olandesi avevano cominciato a dotare di armi da fuoco i loro rispettivi alleati. Ne seguì una
lotta all’ultimo sangue. Poco oltre la metà del Seicento gli Uroni furono in pratica sterminati.
La “razionalità” economica dei Pigmei dell’Ituri, Congo (fine secolo XX):
I Pigmei sono circa 200.000 e vivono in sette paesi dell’Africa centrale. I gruppi più numerosi
abitano la foresta dell’Ituri, Africa orientale. Tuttavia, come è il caso di molte società
acquisitive, anche i Pigmei vivono da secoli a contatto degli agricoltori della regione ai margini
della foresta entrando, attraverso essi, in “reti economiche” assai estese. La loro lingua è
fortemente influenzata da quella dei loro vicini agricoltori Bantu. Prima che il commercio
dell’avorio fosse messo fuori legge i Pigmei erano tra i principali procacciatori di questo
materiale per il mercato europeo e asiatico. Con questi agricoltori di lingua bantu i Pigmei
intrattengono relazioni di scambio grazie alle quali ottengono anche oggi beni di scambio
fondamentali per la loro stessa sopravvivenza. I Pigmei scambiano coi Bantu i prodotti della
foresta ricevendo in cambio prodotti agricoli, oggetti e utensili metallici e altri prodotti.
Forniscono anche la loro manodopera nell’agricoltura. I Pigmei, cacciatori, sono così diventati
i principali fornitori di carne per queste popolazioni di agricoltori. L’economia dei Pigmei ha
circoscritto notevolmente l’economia del denaro.
Mantengono il sistema del baratto perché è in grado di assicurare un “tasso di scambio”
notevolmente stabile. Il baratto è la forma che meglio risponde a una logica del “ritorno
immediato” tipico delle società acquisitive. Il fatto che i Pigmei abbiano mantenuto nella
maggior parte delle loro transazioni economiche la forma del baratto ha funzionato come una
specie di “cuscinetto” tra il sistema del mercato e la monetizzazione degli scambi da un lato e
le risorse e l’equilibrio ambientale della foresta dall’altro. Se i Pigmei si fossero fatti prendere
dalla logica dell’economia monetaria, avrebbero compromesso l’equilibrio dell’ambiente in
cui vivono.
Capitolo 3: Forme di vita politica:

Attività politica e organizzazione

politica:

Invece di rappresentare il potere in

termini di istituzioni o di ruoli politici,

l’antropologia ha imboccato la via

che consiste nello studio degli

aspetti dinamici del confronto

politico. L’attività politica è così

l’aspetto istituzionale del


comportamento individuale e

collettivo mediante il quale i singoli o

i gruppi manipolano le regole e le

istituzioni vigenti nella loro società.

Organizzazione politica: l’insieme

delle regole, delle istituzioni e delle

pratiche che contribuiscono a

definire il quadro entro il quale si

svolge l’attività politica.

Potere e autorità possono essere incarnate da figure sociali particolari che rivestono, per
eredità, elezione, consenso esplicito o imposizione, determinate cariche. Vi sono però società
in cui le cariche sono assenti, così come assenti possono essere istituzioni o ruoli politici
istituzionalizzati. Il rispetto dell’autorità, l’esercizio del potere, la difesa di interessi di un
certo gruppo di individui o dell’intero corpo sociale, possono essere ottenuti per vie
differenti. Nella maggior parte di queste società la parentela e l’età hanno costituito dei
fattori importanti per assicurare il rispetto dei diritti e delle regole sociali. Anche la religione
può svolgere un’analoga funzione coesiva. Quasi tutte le culture prevedono sanzioni
soprannaturali per i trasgressori delle “regole sociali”.
La classificazione tipologica:
Gli antropologi hanno considerato per molto tempo le organizzazioni politiche concrete come
se fossero disposte su una lingua continua, dalle forme più “semplici” a quelle più
“complesse”. Negli ultimi decenni le forme di organizzazione politica tendono a sfumare
impercettibilmente le une nelle altre. Un’utile tipologia
è quella che parte da sistemi politici non centralizzati e sistemi politici centralizzati. All’interno
dei sistemi politici non centralizzati si può operare un’ulteriore distinzione tra bande da un
lato e tribù dall’altro e “Big Man”. All’interno dei sistemi politici centralizzati si possono invece
distinguere due forme principali: i potentati e gli Stati, questi ultimi distinguibili a loro volta in
Stati dinastici e Stati nazionali.
Sistemi non centralizzati:
La banda:
È stata ritenuta dagli antropologi la forma più elementare di organizzazione “politica”,
probabilmente la più antica e sicuramente oggi la meno diffusa. È caratteristica dei gruppi di
cacciatori-raccoglitori nomadi. Sono sottoposte a flusso, un fattore che, unitamente alle
condizioni generali di vita economica e sociale, costituisce a fare di esse degli aggregati socio-
politici fondamentalmente ugualitari. Organizzazione politica della banda come “una struttura
ristretta, informale e priva di una gerarchia decisionale”.
Le società tribali:
L’etichetta “tribale” è stata assegnata alla quasi totalità delle società studiate in passato dagli
etnologi e dagli antropologi. Gli antropologi riservano però l’uso del termine “tribù” a un
preciso tipo di organizzazione socio-politica, il quale è prevalentemente riscontrabile presso
popolazioni agricole e/o pastorali. Tribali vengono infatti definite quelle società in cui sono
presenti più gruppi di discendenza che si considerano l’un l’altro come a loro volta discendenti
da un comune antenato. Bisogna che l’organizzazione politica così definita sia acefala, cioè
priva di un potere centrale permanente. I gruppi di discendenza sono dei “corpi politici”
pronti a costituirsi in unità solidali al proprio interno e a contrapporsi ad altri. Hanno uguale
accesso alle risorse vitali e strategiche per cui formano delle unità pronte a lottare perla difesa
delle risorse comuni. “Gruppi corporati”. Hanno capi e rappresentati scelti di solito in base a
criteri che fanno per lo più riferimento a caratteristiche personali. Pongono grande enfasi
sull’eguaglianza dei gruppi che le compongono, nonché sulla parità degli stessi individui che di
tali gruppi fanno parte. Tuttavia sono società piuttosto “instabili”, suscettibili di produrre i
germi di una differenziazione sociale interna. I capi tribali sono quasi sempre scelti all’interno
di una qualche “famiglia” o gruppo di discendenza che “per tradizione” detiene il privilegio di
assegnare tale carica a uno dei propri componenti.
Usi e ambiguità del termine “tribale”:
Quella di “tribale” è stata sempre una qualificazione generica delle società studiate
dall’antropologia. In passato l’utilizzazione di questo termine ha consentito di distinguere
facilmente i “primitivi” dai “civilizzati”, e anche oggi questo termine evocato dai profani per
indicare qualcosa di “originario”, “primitivo”, “autenticamente esotico”, sia nella vita sociale
sia nella moda. Il “tribalismo”, invece, è quasi sempre una risposta alla dissoluzione di
istituzioni e di ideologie unificanti, e non un “ritorno alla tradizione”.
Lignaggi segmentari:
I lignaggi segmentari sono in pratica i gruppi di discendenza unilaterali costitutivi di una tribù.
Segmentari perché sono suscettibili di frazionarsi o di aggregarsi in “segmenti” di minore o
maggiore estensione. È rappresentabile come un albero rovesciato. I componenti dei lignaggi
si riconoscono spesso idealmente come discendenti da un stesso antenato. È posta grande
enfasi sulla parentela consanguinea. Così come i lignaggi tendono, in base a una dinamica di
alleanze, a fondersi in segmenti sempre più ampi, il conflitto e l’opposizione possono portare
alla progressiva “segmentazione” delle unità più grandi in segmenti più ridotti. Nella pratica le
cose vanno molto raramente in questo modo. Infatti, nonostante la visione egualitaria della
dinamica politica tipica di queste società, vi sono lignaggi che non hanno interesse a farsi
trascinare in un conflitto per semplice spirito di “solidarietà” da altri con cui sono
strettamente “imparentati”. Al tempo stesso vi sono lignaggi che hanno interesse ad allearsi
con altri “più lontani” contro “lignaggi più vicini”. Vi sono poi molto spesso lignaggi
politicamente preminenti.
Stratificazione rituale:
Esiste una distinzione importante tra lignaggi, la quale si riflette nella funzione politico-
religiosa svolta da alcuni di essi. È possibile trovare alcuni individui che, pur non essendo
specializzati nelle funzioni politiche, possono incarnare un’autorità largamente rispettata e
ascoltata per motivi extrapolitici. La figura del santo mediatore è particolarmente diffusa
nell’area arabo-musulmana. Questi “santi” trasmettevano la propria santità e le proprie
funzioni alla loro discendenza, fondando dei veri e propri lignaggi ritualmente e politicamente
distinti. Riuscivano talvolta ad acquisire posizioni politicamente dominanti.
Consigli di villaggio:
Dove le popolazioni tribali abitano in villaggi permanenti ogni gruppo di discendenza ha
propri rappresentanti che si riuniscono periodicamente dando vita ai cosiddetti “consigli di
villaggio”. Tali “consigli” si hanno soprattutto laddove la popolazione sedentaria è
relativamente numerosa, e dove la contiguità delle varie aree sfruttate dai gruppi di
discendenza pone seri problemi di rivalità e di attrito tra i gruppi. Amministrare le relazioni
con altri villaggi e altre tribù.
Sodalizi, classi d’età, società segrete:
Esistono forme associative fondate sull’età e sul sesso. Sodalizi, forme associative le quali
“tagliano” trasversalmente i gruppi di discendenza che costituiscono la tribù e che hanno la
funzione di organizzare una parte della popolazione secondo progetti d’azione specifici. Classi
d’età. Si accede successivamente mediante specifici rituali di iniziazione officiati dai membri
della classe più anziana. Età “sociale”. Società segrete: erano costituite da individui affiliati
mediante riti di iniziazione.
Il “Big Man”:
I capi di comunità prive di istituzioni politiche centralizzate si caratterizzano per la loro
costante opera di ridistribuzione di beni e di benefici, oltre che di supporto e assistenza nei
confronti dei membri del proprio lignaggio. Figure politiche di primo piano presso alcune
società acefale della Nuova Guinea sono infatti il tonowi e il mumi, “Big Man”. Questi
individui possono non avere alle spalle un forte gruppo di discendenza o non appartenere a
una famiglia di capi. Sono obbligati a manifestare periodicamente la loro supremazia sociale
attraverso una ridistribuzione di beni precedentemente accumulati grazie all’aiuto di altri
individui. Gruppi provenienti da villaggi diversi si sfidano distribuendo anch’essi dei beni. Se le
loro performance si rivelano superiori a quelle del Big Man ospitante, quest’ultimo decadrà.
Capi africani e capi mediorientali:
Il potere dei capi può variare in maniera notevole. Vi sono capi che riescono ad avvalersi del loro
seguito. Tuttavia, anche nei confronti del proprio seguito, i capi devono mostrarsi “generosi”,
“avveduti”, “fortunati”. Possono a volte essere molto più ricchi della gente comune, mentre in
altri casi ciò non si verifica. Tra gli individui riconosciuti e designati come autorevoli vi sono quelli
che fanno parte dei consigli di villaggio delle società agricole africane. Oggi l’autorità di simili
individui è per molti aspetti mutata. Tuttavia in molti casi la loro autorità permane. Tra i beduini
la carica di sheik non è trasmissibile di padre in figlio. Criterio della collateralità: quando il re
muore, sia il fratello immediatamente più giovane a prenderne il posto.
Caratteristica è anche, presso i beduini d’Arabia, la presenza di un incaricato del governo
chiamato dai beduini kabir, cioè “grande”, che in pratica affianca i piccoli sheik e funge da
doppio “binario” di collegamento con le strutture del potere centrale.
Sistemi centralizzati:
Non esiste oggi terra al mondo che non sia sotto la sovranità di uno Stato nazionale. Diffusosi
con l’espansione europea, e affermatosi definitivamente con la decolonizzazione, il modello
dello Stato nazionale domina il panorama politico del mondo attuale.
Un mondo di Stati:
La maggior parte di questi Stati pretende di legittimare la propria sovranità sul fatto che le
popolazioni che rientrano sotto la loro giurisdizione sono omogenee: o dal punto di vista
culturale, o dal punto di vista religioso o linguistico. Ciò non corrisponde mai a verità. Sono
numerose le aree del pianeta contese tra Stati. Lo Stato è l’istituzione ufficialmente
riconosciuta come preposta al governo dei popoli. Sino all’epoca della decolonizzazione, la
maggior parte delle comunità umane era organizzata su basi non statuali. Almeno fino
all’epoca della colonizzazione, le società erano assai più di oggi al di fuori dell’influenza diretta
di questi Stati. Oggi alcune di queste società si sono dissolte, altre sono sopravvissute.
Prima degli Stati: i potentati:
L’antropologia è tuttavia interessata allo studio delle trasformazioni scoiali e culturali e, di
conseguenza, a quelle dell’organizzazione politica. Tra le forme di organizzazione politica che
possono essere considerate antecedenti allo Stato, vi sono quelle che gli studiosi di lingua
inglese definiscono chieftainship, e quelli di lingua francese chefferie. Nella letteratura
antropologica di lingua italiana, si potrebbe adottare quello di “potentato”. Il potentato
costituirebbe una specie di condizione politica “intermedia” fra la tribù e lo Stato. L’esercizio
del potere tende a rivestire un carattere più formale che in una tribù, e l’autorità di un capo
tende a non fondersi più sul consenso, mentre le funzioni politiche tendono a conformarsi in
cariche più o meno stabili a carattere ereditario. Entità politiche comprendenti più gruppi
spazialmente localizzate. Ogni potentato potrebbe essere rappresentato come l’insieme di
più insediamenti o segmenti, ciascuno dei quali corrisponde a uno o più gruppi di
discendenza, patri o matrilineari, o a discendenza doppia o cognatica. Può costituire un
nucleo politico intratribale o sovratribale. Nel primo caso, quando un potentato sorge in seno
a una tribù, quest’ultima perde quella coesione che aveva quando essa era costituita da
segmenti autonomi ma pronti a unirsi in caso di minaccia esterna. Nel secondo caso, invece, il
potentato piò costituire una struttura inglobante comunità segmentate e non, tribali oppure
fondate su altre forme di organizzazione. Anche il potentato ha subito profonde modificazioni
o è scomparso del tutto. Importanza dei legami di parentela e dell’anzianità.
Lo sviluppo di un netto accesso differenziale alle risorse;
La comparsa del principio di ridistribuzione delle risorse stesse;
Il fatto che quella di capo cessa di essere qui una pura funzione per diventare una vera e

propria carica. Accesso differenziale alle risorse e stratificazione sociale:

Si assiste a un processo di differenziazione tra i gruppi di discendenza, per cui la carica di capo
tende ad essere trasmessa definitivamente all’interno di uno stesso gruppo o lignaggio.
Comparsa di lignaggi aristocratici. I lignaggi non sono tutti “giuridicamente” eguali. I lignaggi
tendono invece a disporsi in una gerarchia di rango a seconda della distanza che, attraverso la
linea di discendenza, li separa dall’antenato fondatore. Questa differenza di rango
corrispondeva a una forma di controllo sulle risorse esercitata dai lignaggi di rango inferiore.

Ridistribuzione:

Si ha una prima forma di distribuzione dei beni regolata da un’autorità centrale. In una prima
fase una parte dei beni prodotti dai gruppi inclusi nel potentato vengono convogliati verso il
capo che, in una seconda fase, ne ridistribuisce la maggior parte alla comunità. La
“ridistribuzione” ha qui anche un aspetto funzionale, nel senso che permette di regolare il
flusso dei beni tra comunità che non sempre avrebbero la tendenza a sviluppare relazioni di
scambio in maniera spontanea. La ridistribuzione è un “dovere morale” del capo. Allo stesso
modo l’offerta di beni al capo è considerata un dovere morale da parte dei suoi sottoposti.
Un potere embrionale tra gli Shahsevan, allevatori nomadi e pastori sedentari
dell’Azerbaigian iraniano (metà secolo XX):
Dediti all’allevamento di pecore, cavalli e all’agricoltura. Parlano un dialetto iraniano e sono
musulmani sunniti. La vita delle popolazioni non urbanizzate si regge anche oggi su un sottile
equilibrio tra pastorizia e agricoltura. Le esigenze delle due sfere produttive possono essere
ripensate solo mediante una rigida programmazione degli spostamenti. I capi dei vari lignaggi
e tribù nomadi e/o sedentarie hanno sviluppato la funzione di preordinare gli spostamenti
delle tribù e assegnare le aree di pascolo da utilizzare in periodi diversi dell’anno. I capi hanno
così sviluppato una funzione importante. Negli anni Venti il sovrano persiano decise però di
imporre la propria autorità bloccando il potere dei capi tribali. L’appartenenza a una tayfa non
era stabilita dal fattore della discendenza, ma dal fatto di riconoscere l’autorità di un capo di
una tayfa e non di un’altra.
Gli Stati:
E’ la forma di organizzazione politica oggi dominante. Caratteristiche peculiari:

Un’autorità altamente centralizzata;

Un apparato burocratico-amministrativo

sviluppato; La prerogativa esclusiva di

emanare leggi;

Il monopolio della forza come mezzo per far rispettare le leggi sul piano interno e come mezzo
di confronto con entità ostili esterne.
Le società organizzate su base statuale presentano:
Un accesso alle risorse ancor più differenziato che nelle forme di organizzazione politica sin

qui considerate; Una stratificazione sociale accentuata;

La sostituzione di legami di parentela come criterio regolatore delle relazioni sociali con rapporti
di tipo “impersonale”.
Molti degli Stati esistenti fuori dall’Europa in epoca precoloniale erano Stati dinastici. In essi
dominavano delle élite ereditarie. Anche oggi esistono Stati che potrebbero a buon diritto
essere considerati dinastici. Sono retti da stirpi ereditarie fortemente autocratiche. La stessa
idea di Stato nazione ha avuto diverse interpretazioni: una di questa si fonda sull’idea di
omogeneità linguistico-etnico-culturale della popolazione abitante entro i confini dello Stato
medesimo. Idea che lo Stato nasce da un “patto” tra diverse componenti culturali e
linguistiche ma che promuove una propria politica ispirantesi a leggi valide per tutti. Lo Stato
non ammette alcuna forma di autorità che, dall’interno, si ponga in concorrenza con esso.
Lo Stato e le altre forme di organizzazione politica:
Uno Stato può di fatto incorporare di potentati, e anche delle tribù e delle bande. Nelle
formazioni politiche precoloniali lo Stato poteva limitarsi a imporre a tribù e potentati tributi
periodici, e considerarli alleati o nemici a seconda delle circostanze. “Stato segmentario”. Man
mano che ci si allontanava dal centro le caratteristiche della struttura statuale si
riproducevano nei vari segmenti. In molti casi le potenze coloniali europee conservarono
appositamente alcuni Stati e potentati presenti sui territori da esse conquistati. “Libertà
controllata” e “guida indiretta”. Oggi le cose sono tuttavia assai più difficili per quegli Stati
“nazionali” postcoloniali a cui sfugge il controllo di parti più o meno estese dei loro
territori.
Un racconto sulle risorse e sul potere:
In un mondo sempre più “globale”, nel quale le risorse del pianeta sono sfruttate all’infinito
spesso a vantaggio di una minoranza dei suoi abitanti, ripensare il rapporto tra gestione delle
risorse e gestione del potere significa, in un certo senso, riconsiderare il futuro stesso del
genere umano. I miti, in qualsiasi modo li si voglia interpretare, hanno sempre la straordinaria
capacità di fissare, in una storia, aspetti della “condizione umana”. Sono modi in cui gli esseri
umani cercano di attribuire un senso alla propria condizione, alle proprie speranze, ansie e
paure. Gli esseri umani inventano racconti ogni giorno. La maggior parte di questi racconti
vengono dimenticati, altri restano, e alcuni finiscono per diventare “i miti” per eccellenza.

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