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Soren Kierkega!

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Studia per i primi anni della sua vita a Copenhagen teologia, facendo una tesi su Socrate e sul concetto
di ironia. Il rapporto con il padre rende la sua vita tormentata. Innanzitutto il giovane Kierkegaard fu
educato sui dettami religiosi e la relazione clandestina del padre con una governante è per il filosofo la
grande scheggia che alimenta il grande terremoto della sua vita.
In gioventù si innamora di Reghine ma è costretto a lasciarla, seppur innamorato, in quanto era
incompatibile quell’amore con l’amore per la religiosità.
Subì molte critiche, espresse talvolta in caricature su giornali satirici danesi ed entrò in polemica con la
società e gli intellettuali,

Secondo Kierkegaard il filosofo deve abbandonare l’anonimato. Per Kierkegaard fare filosofia ed
essere anonimi è come costruire un Castello per poi dormire in un pagliaio. Il pensiero infatti non si
oggettivizza da chi lo pensa , se il filosofo pensa che il suo pensiero possa vivere indipendentemente da
lui fa una riflessione astratta. Invece lui vuole una riflessione concreta, ed è per questo che si
appassiona a socrate e alla sua ironia.
Socrate infatti era ironico nel dissimulare il proprio sapere e costringe l’interlocutore a simulare il
sapere che diviene astratto, poiché abbandona colui che lo enuncia e ha la pretesa di diventare
universale.
Socrate fa così capire che ogni verità che ha lo scopo di essere universale è in realtà estremamente
fragile. La verità deve avere sede in me, nella soggettività.
Hegel aveva pensato di poter pensare indipendentemente da se stesso, di pensare in se,
indipendentemente dalla realtà. Per Kierkegaard invece il pensiero è per me, cioè dipendente dal
soggetto.

Perciò, la ricerca della realtà non può più riguardare l’essenza e il generale, bensì l’esistenza riguarda
direttamente il singolo, che si definisce per come è attraverso la scelta. Attraverso la scelta è possibile
definire la propria esistenza.
Tuttavia, la scelta è anticipata da un forte sentimento di angoscia perché ci fa stare di fronte alla
possibilità che si presenta come un infinito negativo, ovvero l’infinita possibilità che dalla nostra scelta
possa derivare solo disperazione e perciò considerare tutto ciò che potrebbe far stare male.
L’angoscia è per Kierkegaard la vertigine di possibilità, cioè quando il singolo è posto dinanzi all’infinito.

-AUT
AUl ET ET
-

La scelta significa rinunciare a Dialettica di Hegel secondo la quale gli


qualcosa. opposti possano convivere nell’idea di
superamento. Tuttavia, essi possono
Solamente quando la filosofia è convivere solamente nel pensiero e non
qualcosa di personale, del soggetto, nella realtà . È questa la filosofia
diventa grande. È per fare ciò che dell’essenza.
Kierkegaard ricorre alla filosofia
dell’esistenza.
In aut aut scrive prendendo la voce
di una persona che non è lui, sotto
uno pseudonimo.

La possibilità è per Kierkegaard un insieme che va a definire l’esistenza umana, che pone l’uomo dinanzi
a continue scelte, all’ aut-aut e quindi anche all’angoscia.
Ogni possibilità infatti, oltre alla possibilità che si, è anche possibilità che no.
Kierkegaard chiama punto zero l’indecisione permanente, l’equilibrio stabile tra due alternative.
Critica all’anti-hegelismo
Kierkegaard non condivide con Hegel;

1- la tendenza a ritenere il genere umano come più importante del singolo. L’essenza per Hegel viene
prima ancora dell’esistenza.

2- la concezione di filosofia come scienza oggettiva e non come una riflessione soggettiva in cui il
singolo è direttamente coinvolto attraverso la possibilità. La verità, riprendendo socrate, deve
essere per me e non in se come per Hegel, dissimulando tutte le verità che pretendono di essere
oggettive.

3- la concezione che il pensiero possa vivere indipendentemente dal filosofo, poiché è una riflessione
totalmente astratta.

4- la tendenza a mediare e conciliare (filosofia dell’et-et) nel momento sintetico del processo dialettico.
Hegel concilia ciò che nella vita concreta bon è assolutamente conciliabile in quanto frutto di una scelta
(aut-aut). Per il danese la scelta prevede l’esclusione ed è attraverso la scelta che si determina la
propria natura.

5- l’identificazione panteistica dell’uomo in dio. C’è infatti grande differenza tra uomo e dio, tra finito e
infinito (diverso dall’assoluto di Hegel o Schelling).

6- Hegel abolisce totalmente l’individuo, privandolo della capacità di pensare, facendo sì che sia il
pensiero a pensare se stesso per mezzo dell’individuo. Per Kierkegaard il singolo è la cosa più
importante in quanto:
- è legato all’irripetibile, compiendo la scelta ha eliminato qualcosa
- la storia è da intendersi come il farsi dell’individuo e perciò il singolo si impone anche sulla storia.
Essere significa scegliere (diverso dallo scegliere in nome di ciò che si è hegeliano o fichtiano)

7- la filosofia di Kierkegaard è collegata con il futuro, l’angoscia si prova in connessione col possibile,
cioè ciò che è l avvenire.
La filosofia di Hegel è collegata col passato in quanto l’uomo è il prodotto di ciò che è stato.

L’angoscia
Il rapporto del singolo con se stesso è tuttavia molto diverso dal rapporto del singolo col mondo.
L’angoscia è la condizione esistenziale generata dalla vertigine della possibilità di scelta e dalla libertà.
Il primo a provare angoscia è stato per Kierkegaard Adamo, che aveva infinite possibilità nell’Eden.
Quando dio gli ha imposto il divieto ha provato angoscia, chiedendosi se voleva essere colui che aveva
obbedito a dio o colui che gli aveva disobbedito.
Dinanzi all’angoscia, l’uomo si sente annichilito e ha angoscia dell’ indeterminato.
Come già detto poi, essa è radicata nel futuro poiché la scelta determina ciò che l’uomo è.

La malattia mortale è la possibilità dell’uomo dinanzi a se stesso. La disperazione è la condizione


provata dall’uomo nella sua interiorità, ossia verso se stesso (diverso dall’angoscia, che è la
condizione che prova l’uomo dinanzi al mondo)

Kierkegaard dice che l’io è un rapporto tra finito e infinito, tra necessità e possibilità. Tuttavia non ci
si può fermare a dire che l’uomo è rapporto perché non si dice niente se non il rapporto e l’io non è
solamente un rapporto. Infatti, deve esserci un ritorno dell’io in quanto rapporto. L’io è il rapporto
che si rapporta col rapporto.

Posto ciò, l’io può volere o non volere essere se stesso, e ciò porta disperazione.
Infatti, l’io che vuole essere se stesso fallisce perché nel rapportarsi con se stesso si riduce
all’essere finito e non in rapporto con altro.
L’io che non vuole essere se stesso fallisce perché nel rapportarsi con se stessi si vuole essere infiniti
e non l’essere se stessi, finiti.
Dunque, entrambe le soluzioni portano a disperazione.

La stessa identica cosa accade con necessità e possibilità, oltre che con essere se stesso o non
esserlo.
Nel primo caso a mancare è la possibilità. Infatti se l’io è finito si esclude tutto ciò che l’io potrebbe
essere potenzialmente, manca la scelta. L’io si sente così soffocato per la necessità di essere finito e
la possibilità è il motore dell’uomo.
Nel secondo caso invece l’io non vuole essere se e si apre l’infinito possibile, l’abisso che ingoia l’io.
Per eliminare la disperazione occorre ricorrere alla fede, ovvero l’essere dipendenti da dio. Avere
fede significa accettare la condizione paradossale in cui l’uomo, se vuole essere, deve dipendere da
dio.
La fede è scandalo, paradosso, poiché è ammissione della finitezza e dell’impotenza umana dinanzi a
dio, ma è abbandono totale ad essa per sfuggire alla disperazione.

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