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SOREN KIERKEGAARD 

(1813-1855)                 
 
VITA E OPERE
 
Copenhagen (1813-1855). La sua vita è priva di grandi avvenimenti 'esteriori'; evidente è il suo
disinteresse per le questioni socio-politiche del tempo. Pensatore isolato (e rimasto pressoché
sconosciuto fino ai primi anni del Novecento, a partire dai quali il suo pensiero esercitò una enorme
influenza sull'Esistenzialismo), Kierkegaard visse adolescenza e giovinezza immerso in un profondo
senso di disagio, perseguitato da quella "spina nelle carni" che lo accompagnò per gran parte della sua
vita. Il carattere malinconico e il sentimento di colpa e di angoscia furono ereditati - come lo stesso
Kierkegaard afferma - dal padre, cupo pastore luterano. I pochi accadimenti biografici assunsero nel suo
pensiero una rilevanza simbolica assai consistente. La sua filosofia ha indubbie e profonde radici
autobiografiche.
Da ricordare la rottura del fidanzamento con Regina Olsen, una rottura senza alcuna ragione concreta
apparente, vissuta in termini drammatici da Kierkegaard come impossibilità personale di aderire alla
VITA ETICA del matrimonio. Significativo anche il rifiuto di intraprendere una qualche via professionale,
addirittura il rifiuto di diventare pastore (per quanto fosse uno spirito profondamente religioso).
Dopo aver frequentato a Berlino le lezioni di Schelling e letto le opere di Hegel, Kierkegaard si allontana
dalla filosofia idealistica, accusata di fornire una risposta illusoria e falsa ai problemi concreti
dell'esistenza. Entra poi in polemica con la chiesa luterana danese del suo tempo (contro i pastori
Martensen e Mynster) accusandola di "GIOCARE AL CRISTIANESIMO", di proporre una religiosità
accomodante e pacifica, che mette a tacere coscienza e borsellino, e difende l'ipocrisia mentale, senza
alcun rispetto per la serietà tremenda del messaggio di Cristo.
 
Tra le sue opere: i PAPIRER ("Carte" o "Diari"), utilissimi per la comprensione del pensiero di
Kierkegaard; AUT-AUT (ENTEN-ELLER, opera composta da più scritti pseudonimi, tra cui LE CARTE
DELL'ASSESSORE GUGLIELMO, DIARIO DEL SEDUTTORE, DON GIOVANNI etc.), pubblicata nel
1843. Nel 1843, ancora, TIMORE E TREMORE. Nel 1844 BRICIOLE DI FILOSOFIA e IL CONCETTO
DELL'ANGOSCIA; nel 1845 STADI NEL CAMMINO DELLA VITA; nel 1849 LA MALATTIA MORTALE, e
poi molti discorsi religiosi. In AUT-AUT, TIMORE E TREMORE, STADI NEL CAMMINO DELLA VITA,
Kierkegaard esprime il suo pensiero servendosi di figure (Don Giovanni, il marito, Abramo) più che di
precisi concetti filosofici, e scrive opere di alto valore letterario (diari, romanzi filosofici etc.) ma per nulla
sistematiche.
Negli altri scritti Kierkegaard fa invece ricorso a vere e proprie categorie filosofiche (esistenza, singolo,
possibilità, angoscia, disperazione etc.) nell'intento di chiarire con ordine i suoi temi di fondo.
 
ALLE RADICI DEL PENSIERO DI KIERKEGAARD : "CAPIRE SE' STESSI"
 
"Ciò che veramente mi manca è di capire veramente me stesso, quello che devo fare, non quello che
devo conoscere [...] Trovare l'idea per la quale devo vivere e morire! [...] Bisogna imparare a conoscere
sé stessi prima di ogni altra cosa" (PAPIRER).
 
Dunque Kierkegaard riprende quella sensibilità filosofica che da Socrate giunge sino a Agostino e
Pascal: quella che pone al suo centro l'esigenza del "conosci te stesso" (Socrate) e del "noli foras ire" (S.
Agostino). Conoscersi è l'esigenza fondamentale. Conoscersi per capire come vivere.
Chi è' Kierkegaard?
"Io sto qui come Ercole, e non a un bivio ma a un crocevia, davanti al quale tanto più difficile è scegliere
la via giusta. Forse è proprio questa la mia disgrazia: mi interesso di tantissime cose senza decidermi
per alcuna" (PAPIRER).
"Ciò che io sono è un nulla; questo procura a me e al mio genio la soddisfazione di conservare la mia
esistenza al punto zero, tra il freddo e il caldo, tra la saggezza e la stupidaggine, tra il qualche cosa e il
niente come un semplice forse" (STADI NEL CAMMINO DELLA VITA, ma lo stesso concetto è anche nei
PAPIRER).
Kierkegaard ha dunque sofferto di paralisi psicologica? Una persona incapace di decidere, di imboccare
una via, di scegliere una delle possibilità dell'esistenza (matrimonio, carriera professionale,
accattonaggio etc.)? Una persona in condizione di perpetua indecisione? Secondo Abbagnano sarebbe
proprio così, e questa sua paralizzante perplessità costitutiva sarebbe appunto la SCHEGGIA NELLE
CARNI che ha angustiato la sua vita.
Ma negli STADI NEL CAMMINO DELLA VITA (e anche nei PAPIRER) Kierkegaard sembra aver superato
l’indecisione:
"Ma io ho scelto la categoria religiosa [...], attaccato ad essa ho potuto e posso ancora sopportare di
vivere".
Dunque Kierkegaard ha compiuto una scelta precisa, è uscito da una esistenza paralizzata e vissuta
come PUNTO ZERO e SEMPLICE FORSE. La sua è stata una scelta religiosa (anche se non pastorale-
professionale). E la sua filosofia è una filosofia religiosa, costruita per testimoniare le verità tremende del
Cristianesimo. Solo la fede può vincere quella angoscia e quella disperazione che caratterizzano
l'esistenza del singolo. La fede cristiana è l'ancora di salvezza che sottrae l'uomo dall'angoscia e dalla
disperazione di esistere (Abbagnano, Fornero).
 
LA POLEMICA CONTRO HEGEL
 
Come Schopenhauer (di cui Kierkegaard si considerava 'spirito fratello') anche Kierkegaard si scaglia
contro il volgare ottimismo del sistema idealistico di Hegel.
a) In primo luogo, Kierkegaard si dichiara un PENSATORE SOGGETTIVO in lotta contro ogni
PENSATORE OGGETTIVO (lo stesso Hegel). Le verità che Kierkegaard cerca (e che sono verità
essenzialmente religiose) sono 'soggettive nel senso che coinvolgono i SOGGETTI UMANI, li scuotono,
dando senso alle loro vite e trasformandole; non sono verità 'oggettivè, cioè fredde, imparziali, prive di
rapporto con l'esistenza concreta degli individui (come invece quelle di Hegel).  [Secondo Reale, con
questo tema Kierkegaard anticipa, tra l'altro, le polemiche anti-positivistiche e anti-scientistiche di molti
filosofi di tardo Ottocento e primo Novecento]
b) in secondo luogo, Kierkegaard rifiuta il sistema hegeliano perché esso ha sostenuto l'illusione di una
realtà armonica nella quale ogni contraddizione, ogni lacerazione, risulta sempre superata e pacificata in
una necessaria e immancabile sintesi superiore. Il pensiero di Hegel non è in grado di spiegare le
contraddizioni insuperabili, le angosce, i disagi e il carattere realmente PROBLEMATICO dell'esistenza.
Esso è ottimistica falsità, è dialettica dell'ET – ET: LA SUPREMA Ragione, nella sua onnipotenza è in
grado di camminare su ogni strada della realtà (e questa e quella), e di giungere sempre a mediare,
conciliare e superare le alternative, le opposizioni e i contrasti della vita. Ma l'esistenza umana segue
una diversa dialettica, quella dell'AUT – AUT (o questo o quello): ai singoli si presentano alternative di
esistenza radicalmente opposte e inconciliabili e lontane l'una dall'altra, e tra di esse il singolo deve
scegliere con rischio.  Due giudizi al riguardo:
"Alla categoria hegeliana della necessità, Kierkegaard contrappone la categoria della possibilità, della
scelta, della libertà. Contro l'affermazione hegeliana della provvisorietà dell'antitesi, Kierkegaard fa
valere la forza della negazione" (Perone, Ciancio). Per Hegel la categoria con cui interpretare la realtà
tutta è la necessità dialettica che concilia ogni contraddizione. Per Kierkegaard la categoria ermeneutica
di base è quella della libertà di scelta che porta i singoli a progettare le loro vite e a imboccare alternative
(possibilità) esistenziali non conciliabili con altre (ricordarsi dell'immagine di Ercole al crocicchio).
"Kierkegaard è soprattutto il richiamo a un pensare concreto che ha le sue radici nell'esistenza, che
riconosce e accetta la contraddizione e l'irrazionalità, l'aporia [=difficoltà insolubile] e il paradosso propri
dell'esistenza, la quale è scissa tra radicali antinomie che nessun sistema concilia se non a spese della
verità […] Per Hegel il metodo di indagine è quello che [...] ravvicina, livella, armonizza, attenua le
differenze e le antitesi [...] Ma le vette dell'esistenza ci mandano un'eco sola: aut-aut, senza
compromesso!" (Remo Cantoni, LA VITA ESTETICA NEL PENSIERO DI KIERKEGAARD, 1976 , saggio
introduttivo a DON GIOVANNI).
c) Per Hegel l'unico soggetto della storia (delle stesse singole biografie) è l'Astuzia della Ragione, l'unica
e assoluta realtà; per Kierkegaard l'autore di ogni singola storia è l'individuo singolo, nella sua libertà di
scelta e azione (ciò che rende responsabile ogni uomo delle sue decisioni, rende rischiose e
drammatiche le medesime).
d) Kierkegaard si è sempre opposto all'ottimismo panteistico hegeliano, affermando la non-razionalità del
reale e "l'infinita DIFFERENZA QUALITATIVA" che separa il finito (l'uomo) dall'infinito (Dio, l'assoluto).
Dunque, prospettiva teistica di Kierkegaard, che insiste sulla trascendenza di Dio. (questo tema sarà
ripreso nel Novecento dalla teologia dialettica di Kierkegaard Barth).
 
ESSENZA ED ESISTENZA, SINGOLARITA’ E FINITEZZA DELL’ESISTENZA UMANA
 
La critica kierkegaardiana della filosofia di Hegel fu tutta incentrata intorno alla categoria della assoluta
singolarità dell’esistenza umana. L’errore fondamentale della filosofia moderna, dal cogito di Cartesio in
poi, e quindi soprattutto di quella hegeliana che ne costituiva il culmine, era stato quello di presumere di
ricavare, dedurre e giustificare l’esistenza umana, particolare e singolare, muovendo da una essenza
logica universale e astratta: tale essenza generava il singolo individuo umano, declinandosi in esso.
L’esistenza concreta e particolare degli individui umani era considerata quindi come una sorta di
predicato logico appartenente ad un’essenza astratta ed universale.
Secondo Kierkegaard invece non si poteva in alcun modo dedurre l’esistenza concreta dell’uomo
partendo da un principio logico astratto ed universale, proprio perché l’esistenza umana costituiva una
realtà irriducibile alla logica e, quindi, a qualsiasi essenza ontologica generica (quando si parla di
essenza in questo contesto non ci si riferisce alla specie biologica).
L’errore di Hegel era stato confondere il piano dell’essenza logica con quello dell’esistenza concreta, e
derivando quest’ultimo dal primo. Però la sfera del puro pensiero era dominata da una legge di necessità
(logica) che tendeva a superare e conciliare tutte le contraddizioni; quella dell’esistenza invece implicava
la possibilità, la libertà, l’imprevedibilità e la contraddizione irriducibile.
Per Kierkegaard non solo l’esistenza del singolo precedeva qualsiasi essenza, ma non esisteva
realmente alcuna essenza (ontologica, non biologica) umana. L’uomo era un ente privo di essenza, in
altre parole egli non era una realtà data e predeterminata, nessuno sapeva cosa fosse veramente
l’“umano” poichè con la sua libertà doveva scegliere di essere qualcosa, auto-determinarsi, decidere
cosa essere, come vivere, quali possibilità realizzare.
D’altra parte l’esistenza di un singolo uomo costituiva una realtà assoluta, originaria, irripetibile, ogni
uomo era un microcosmo inconfondibile e peculiare.
Secondo Kierkegaard infatti il singolo “è la categoria attraverso la quale l’epoca, la storia, l’umanità
devono passare”. Ogni singolo uomo costituiva quindi un mondo a sé, unico ed intangibile, non
paragonabile a niente e a nessuno “non c’è nulla di più grande e di più terribile che esistere in quanto
individuo…La soggettività è la verità…Il mondo interiore non può essere contemplato da nessuno che
stia al di fuori; può essere solo realizzato dal soggetto singolo il quale può sapere che cosa abita dentro
di lui”. Il singolo è un ente finito, limitato, precario, non infinito, come volevano far credere gli idealisti.
Singolarità e finitezza erano due categorie inseparabili, in quanto definivano l’autentica struttura
dell’esistenza umana.
 
L’ESISTENZA UMANA COME CONTINGENZA, POSSIBILITA’ E LIBERTA’
 
Cosa significa esistere? Secondo Kierkegaard, la condizione umana si fondava essenzialmente sulla
possibilità e sulla libertà, era pura contingenza  aperta a possibilità molteplici e imprevedibili. l’uomo
era libero nel senso che era un poter-essere, era una possibilità che tendeva a realizzarsi sulla base
delle scelte compiute; l’uomo era costretto a scegliere quello che voleva essere, era costretto cioè a
“oltrepassarsi”, dal momento che la sua vita non seguiva uno schema rigido, fisso e prestabilito, come
avveniva per gli animali. Ma questa possibilità e questa libertà implicavano il rischio, l’incertezza,
l’angoscia, dal momento che nulla era predefinito e prevedibile. Paradossalmente la libertà creava una
sorta di vuoto vertiginoso, poiché la vita si apriva a tutta una serie di possibilità e di scelte inconciliabili
ed incompatibili: l’esistenza era una scala di possibilità e di stadi (= modi di essere) che si opponevano e
si negavano tra loro. Di fronte alla possibilità indeterminata di fare tutto c’era il rischio di non fare, di non
decidersi, da qui Kierkegaard derivava
la problematicità dell’esistere: la libertà e la possibilità, tipiche dell’esistenza umana, apparivano come
una condizione più “negativa” che positiva, come una fonte di problemi esistenziali poiché le scelte si
escludevano, o si era in un modo o si era in un altro, aut…aut (non et-et come voleva la dialettica
hegeliana).
  Tutti possono diventare singoli, ma non tutti di fatto lo diventano. Il pensiero di Kierkegaard è
caratterizzato dallo sforzo costante di chiarire le possibilità fondamentali (gli "stadi della vita") che
costituiscono le alternative di fondo dell'esistenza, quelle tra le quali il singolo deve scegliere.
 
LE MODALITÀ’ DELL’ESISTENZA
 
Kierkegaard individuò tre stadi (possibilità) di esistenza, all’interno delle quali era possibile collocare le
singole scelte degli individui.
1. LA VITA ESTETICA
2. LA VITA ETICA
3. LA VITA RELIGIOSA
Le prime due sono presentate in AUT-AUT; la terza è presentata (e consigliata) in TIMORE E
TREMORE.
 
1. LA VITA ESTETICA
 
Lo stadio estetico dell'esistenza è caratterizzato dall'essere vita vissuta nell'ISTANTE,
nell'IMMEDIATEZZA, nella ESTERIORITà. (L'ESTETICA di cui ci parla Kierkegaard non è, come invece
in Schopenhauer e nel senso moderno del termine, una dottrina sull'arte e la bellezza artistica o
naturale; è una ANALISI DELLA VITA VISSUTA NELL'IMMEDIATEZZA, "ballando il valzer dell'istante").
"L'estetica è ciò per cui l'uomo è immediatamente ciò che è"
L'esteta è quel singolo che ha scelto di vivere cogliendo al volo ogni possibilità di godimento, cogliendo
l'attimo (carpe diem, carpe horam); è colui che vuole fare della sua vita un'opera d'arte, una vita
d'eccezione, traendo piacere da ogni circostanza e allontanando da sé tutto ciò che è banalità,
ripetizione, monotonia.
"L'estetica insegna: godi la vita e vivi il tuo desiderio"
In questo senso, la vita estetica è l'espressione non normalizzata e non socializzata della vita. L'esteta
rifiuta tutto ciò che può legarlo, vincolarlo, impedirgli di vivere il presente, l'attimo.  [per dirlo con Albert
Camus, ha "orrore del definitivo"]. In fondo è un uomo assetato di assoluto, un uomo che vorrebbe vivere
TUTTO, ogni possibile esperienza, e non può accontentarsi di vivere una sola particolare situazione per
tutta la vita. Egli teme di rimanere incapsulato nelle pieghe di un'unica, finita situazione esistenziale.
Proprio per questo, per poter essere sempre libero, svincolato, e godere l'istante, l'esteta rifiuta ogni
legame. Rifiuta il matrimonio, l'amicizia, una professione, ogni forma di obbligo sociale. Rifiuta la
speranza, per essere libero dal futuro (sperare in qualcosa significa infatti caricarsi di ansie e
preoccupazioni per il futuro e non vivere il presente!). Rifiuta il ricordo (che ingenera rimorsi e rimpianti
intorno al nostro passato, e impedisce di vivere il presente)
Kierkegaard ha utilizzato molte figure letterarie per esprimere la sua concezione della vita estetica. Ci
sono molti modi di 'ballare il valzer dell'istantè: quello di FAUST (che incarna la LIBIDO SCIENDI, il
desiderio di sapere tutto, passando di scienza in scienza, senza mai accontentarsi di una di esse); quello
di DON GIOVANNI (che incarna la CONCUPISCIENTIA CARNIS: è il seduttore sensuale che, incapace
di restare legato a una donna in particolare, incapace di amare per desiderio di possedere l'essenza
femminile tutta, ricerca l'assoluto femminile; quello di GIOVANNI IL SEDUTTORE (da non confondersi
con Don Giovanni), che incarna l'EXACERBATIO CEREBRI, l'arte della seduzione intellettuale: seduce
con le doti dello spirito e della parola. Vuole portare la donna al cedimento; non è interessato all'aspetto
sessuale della faccenda. Egli non ama se non sé stesso e le sue capacità ammaliatrici. Gode della sua
superiorità intellettuale.
Ma la somma concezione di vita estetica, "la più fine e aristocratica di tutte", presentata nelle CARTE
DELL'ASSESSORE GUGLIELMO, è quella di chi ha "penetrato la vanità del tutto". 'Panta rei', tutto
passa, tutto scorre, niente ha valore assoluto, niente ha senso. Si vive, si muore, tutto lì. Non c'è altro.
Dunque non bisogna sperare né avere rimpianti o rimorsi. Tutto ciò che si può fare è godere l'attimo
senza remore psicologiche, in perfetta indifferenza nei confronti del prossimo. Nessuna cosa, nessuna
situazione ha valore totale, è sufficientemente seria da dover essere presa sul serio. Questo sommo
esteta, giunto a pensare che tutto è vano, desidera tutto, vivere ogni esperienza possibile; proprio per
questo disprezza con IRONIA ogni singola situazione.
[L'esteta di Kierkegaard sembra vicino all'uomo romantico che vive con ironia, quell'ironia teorizzata da
F. Schlegel. Egli è una personalità anarcoide che niente può accettare, e preferisce vivere on the road, al
modo di tanti eroi della letteratura del Novecento (vedi ad esempio il Dean Moriarty di ON THE ROAD di
Jack Kerouac, o certi personaggi di D'Annunzio o Wilde, con il loro esasperato e scandaloso estetismo;
lo stesso oltre-uomo di Nietzsche ha alcuni dei caratteri dell'esteta di Kierkegaard.)]
Nonostante le apparenze, la vita estetica è esistenza inautentica: nella vita estetica il singolo non ha più
possibilità di scelta né reale libertà. Il singolo si disperde nell'esteriorità, cioè nelle mille circostanze e
occasioni; la sua vita perde unità; egli non progetta più nulla, non si progetta più.  L'esteta non sceglie;
lascia che le circostanze (la curiosità momentanea, il sorriso di una fanciulla, una sfida di carattere
lavorativo etc.) decidano per lui. Il caso sceglie per lui. L'esteta è colui che, per 'orrore del definitivo', ha
scelto di non scegliere, vive come un semplice forse
L'esteta finisce dunque con il provare la disperazione. La disperazione dell'esteta è il segno del
fallimento della sua concezione di vita. A questo riguardo, l'assessore Guglielmo (che incarna la figura
del marito, dell'uomo impegnato, e che dialoga con l'esteta 'penetrato dalla vanità del tutto') scrive:
"Perciò, tu non aspiri a nulla, non desideri nulla; l'unica cosa che potresti desiderare è una bacchetta
magica che ti potesse dare tutto, e poi la useresti per pulirti la pipa"
Assetato di assoluto, di totale pienezza di vita ma incapace di vivere con serietà, l'esteta si rivela figura
fortemente romantica. In lui vive una brama insoddisfatta di infinito. Ma per lui:"quando le battute di
spirito taceranno, rimane ancora l'acqua della Senna o la polvere da sparo nelle botteghe"
E' la disperazione!
Ecco allora il consiglio dell'assessore Guglielmo: "Dispera!". Alla fine, solo soffrendo l'esteta potrà
partorire in sé un uomo nuovo: un nuovo sé stesso, responsabile, serio, impegnato.
"Non disprezzare la vita, onora [...] ogni modesta attività [...] e abbi un po' più di rispetto per la donna;
credimi, è proprio da lei che viene la salvezza, come è certo che la perdizione viene dall'uomo"
In che senso la donna 'salva'?
Kierkegaard dice che "L'uomo rappresenta il principio intellettivo dello spirito, la donna rappresenta il
principio vegetativo della natura". Cioè l'uomo anela l'infinito, tende a perdere concretezza; la donna
àncora al finito, dà senso, spegne l'ansia spirituale dell'uomo, legandolo al quotidiano.
La disperazione è la consapevolezza del proprio malessere esistenziale, del contrasto tra ciò che si è  il
rifiuto di se stessi. La disperazione è uno stato interiore molto più profondo del dubbio di cui aveva
parlato Cartesio:“la disperazione è un movimento molto più ampio di quello del dubbio. Essa è
l’espressione di tutta la personalità, il dubbio solo del pensiero”. La disperazione pertanto induce l’uomo
a scegliere, a decidere di sé, costringe l’uomo al passaggio alla vita etica.
 
2. VITA ETICA
La disperazione dell'esteta lo prepara alla possibilità del passaggio (non necessario, solo possibile) alla
vita etica, attraverso una scelta (un salto) che implica un radicale mutamento dello stile di vita. Il singolo
diventa uomo etico in quanto SCEGLIE NON LE COSE INTORNO A LUI MA SCEGLIE Sè STESSO, SI
ACCETTA NELLA SUA FINITEZZA, RINUNCIANDO AL DESIDERIO DI UNA VITA 'SUPERIORE' E
DIVERSA (Perone, Ciancio). Ma il passaggio richiede il coraggio del salto, di un mutamento radicale.
Dialettica dell'aut-aut: tra vita estetica e vita etica non v'è alcuna mediazione e conciliazione; nessuna
possibilità di compromesso! O questo o quello, due strade diverse!
La vita etica è simboleggiata dalla figura del marito, l'uomo che possiede il tempo invece di esserne
posseduto; l'uomo che si progetta, sceglie sé stesso, si afferma nella continuità dei rapporti; egli sceglie
l'impegno (verso una donna, una professione, degli amici), non la fuga dalla responsabilità. Egli accetta
la RIPETIZIONE, cioè l'impegno ad amare la stessa donna, ad avere gli stessi amici, ad esprimersi nella
stessa professione. Kierkegaard, in LA RIPRESA (uno scritto del 1843) afferma: "Per chi non possiede la
categoria [...] della ripetizione, tutta la vita si dissolve in uno strepito vano e vuoto"
L'uomo etico, attraverso la ripetizione, si lega agli altri, accetta la legge del generale, l'inserimento
nell'ordine della comunità. Ma anche l'uomo etico va incontro a un senso di smarrimento che segna
l'insufficienza e il fallimento del suo tipo di esistenza. Infatti,
1)  come uomo etico egli ha il dovere di CONFORMARSI, adeguarsi alla legge che vale per tutti gli
uomini della sua comunità, ma proprio per questo egli rischia di perdere la sua personalità e la sua
singolarità nell'ANONIMATO e nella "FOLLA", "in cui il singolo è un nulla". La folla è distinta dalla
comunità, ma rappresenta il rischio della degenerazione della comunità, la folla è l'orrore di un insieme di
esseri spersonalizzati.
[ricordo che alcuni hanno visto nel concetto kierkegaardiano di 'folla' una anticipazione della critica della
società di massa e della Vermassung (=massificazione) attuale; di quel mondo che Heidegger chiamerà
'mondo del man', del 'si': si dice, si pensa etc., del mondo in cui nessun singolo più pensa e dice etc.; il
mondo della chiacchiera, del 'niente di singolare]
2) in quanto si inserisce nella comunità in maniera attiva e responsabile come uno dei suoi membri, egli
è costretto a riconoscersi come elemento di una comunità che nella storia ha riversato la sua crudeltà e il
suo dolore. L'uomo etico è costretto ad accettare la colpa dei suoi antenati.
(egli è portato a sentirsi a disagio nel riconoscersi membro di una nazione, l'Italia ad esempio, che ha
conquistato e massacrato libici, etiopi etc.]
In questo senso, dice Kierkegaard, l'uomo etico viene colto dal PENTIMENTO. Il pentimento segna lo
scacco della vita etica e prepara ad un ultimo salto in un'altra alternativa esistenziale: la vita religiosa.
Dal pentimento si può passare al salto nella fede.
Il simbolo dell’esistenza etica venne identificato nel matrimonio, in cui, come aveva già visto Hegel,
l’individuo usciva dalla propria soggettività per legarsi indissolubilmente agli altri.
 
3. LA VITA RELIGIOSA (in Timore E Tremore e in La Malattia Mortale)
 
Il fallimento etico deriva in ultima analisi dal fatto che l'uomo etico, scegliendo sé stesso, ha pensato di
poter essere autosufficiente in quanto uomo, di non aver bisogno della salvezza e dell'aiuto gratuito
(grazia) di Dio. L'uomo etico ha pensato di potersi salvare nella storia, con l'aiuto degli altri uomini. La
fede è un rapporto intimo, personale e diretto con Dio; il salto nella fede pone l'uomo religioso in una
situazione radicalmente differente da quella etica.
[Enrico Berti, grande filosofo italiano scomparso di recente, ha notato che "mentre nell'opera più
giovanile l'etica veniva contrapposta alla religione, in quella più matura –vedi POSTILLA [...] -
Kierkegaard rivaluta l'impegno etico come momento indispensabile della religione stessa", anche se
impegno che ha senso solo in quanto deriva dal rapporto del singolo di fronte a Dio. Il rapporto con Dio
non deve seguire, ma precedere quello con gli altri. Solo a partire dalla fede può avere senso e valore il
nostro rapporto etico, maritale, professionale etc.]
La vita religiosa ha, per Kierkegaard, un carattere incerto, rischioso. Essa è una vita vissuta come
scandalo e paradosso.
L'uomo religioso, ponendosi di fronte a Dio, rischia la sua vita mondana (estetica ed etica) per entrare in
una nuova dimensione dell'esistenza. Abramo è l'eroe religioso, il simbolo della vita religiosa. Egli
accetta il rischio della prova impostagli da Dio: il sacrificio di Isacco, il figlio tanto atteso e tanto amato.
Dal punto di vista etico, dal punto di vista della legge morale, Abramo è soltanto un folle, e il suo gesto
non è per nulla giustificabile: se sacrifica Isacco, è solo un assassino. Inoltre Abramo rischia suo figlio, il
bene più amato. Egli non è certo che Dio fermerà la sua mano. Agli occhi del mondo il suo gesto
religioso è assurdo, anzi, criminale. Ma Dio ferma la mano di Abramo, l'uomo di fede (anche se l'azione
salvifica di Dio è del tutto gratuita, e non è certo che Dio ci salvi, così come Abramo non è sicuro che Dio
gli impedisca all'ultimo istante di sacrificare il figlio).
La fede consiste proprio in questo rischio, nell'accettare la prova, anche a costo di venir derisi o
perseguitati per la propria profonda convinzione. La fede non è cosa facile, accomodante, pacificante
[vedi la polemica contro la chiesa danese che 'gioca al cristianesimo']. Eppure, nonostante l'incertezza e
il rischio, la vita religiosa costituisce per Kierkegaard l'unica via per eliminare la disperazione e l'angoscia
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del singolo (esteta o etico che sia). Solo essa è per Kierkegaard l'esistenza autentica. L'uomo religioso è
infatti un singolo che sceglie di essere sé stesso (in quanto tale, non è più un esteta), ma non si illude
della sua autosufficienza, ed anzi riconosce la sua colpevolezza, finitezza e dipendenza da Dio (in
quanto tale, non è più uomo etico).  La fede restituisce senso alla vita, altrimenti vuota, inutile e
fallimentare.
Certo, la vita religiosa è paradossale. Il PARADOSSO consiste nel fatto che l'uomo vuol riconoscersi
come un essere finito, limitato nello spazio e nel tempo e nelle potenzialità, , e riconoscersi comunque
come dotato di valore, e tuttavia è costretto a riconoscersi peccatore e dipendente da Dio. Certo, la vita
religiosa è scandalosa. Lo SCANDALO consiste nel fatto che l'uomo si riconosce come un nulla salvato
da Dio.
"Per amore di quest'uomo [...] Dio viene al mondo, nasce, soffre e muore; e questo Dio sofferente prega
e quasi supplica l'uomo di accettare l'aiuto che gli viene offerto! In realtà, se c'è qualcosa da far perdere
il cervello, è certamente questo! Chiunque non abbia abbastanza coraggio umile per osare di credervi, si
scandalizzerà!" (da LA MALATTIA MORTALE).
Infatti, perché Dio dovrebbe incarnarsi in Cristo, soffrire, venire inchiodato a un pezzo di legno e morire?
Per salvare l'uomo? Ma l'uomo è un niente! La vita nella fede cristiana è SCANDALO
DELL'INTELLETTO, ASSURDITA'.
[già San Paolo diceva che "la sapienza cristiana è follia agli occhi del mondo", dei 'greci', cioè della
ragione, dell'intelletto. Le verità cristiane sono illogiche, irrazionali Come può Dio morire, Lui che è
l'Onnipotente? E poi, perché dovrebbe morire per noi? Torna in Kierkegaard il tema della follia della
croce; il cristianesimo è dolce follia (Erasmo da Rotterdam –ELOGIO DELLA FOLLIA), follia positiva]
Eppure, dobbiamo avere il coraggio e l'umiltà di credere nonostante l'assurdità. [ 'CREDO QUIA
ABSURDUM di Tertulliano] Dunque la filosofia di Kierkegaard è un invito a porsi sul cammino della vita
religiosa; è una apologetica religiosa (Abbagnano) che non offre prove e dimostrazioni dell'esistenza di
Dio, che non vuol chiarire i misteri della religione servendosi della ragione, che rifiuta per questo ogni
TEOLOGIA SPECULATIVA o 'scientifica'. La scelta religiosa conduce a una 'metànoia' (=rivoluzione
interiore, termine paolino) che spegne l'insensatezza del vivere.  La fede è  un salto mortale oltre la
ragione, oltre l’etica, oltre il mondo, verso l’infinito, verso l’incognito, verso il mistero.
 
ANGOSCIA, DISPERAZIONE, PECCATO  
 
Possibilità, scelta, libertà, disperazione, peccato e angoscia costituiscono gli aspetti strutturali
dell'esistenza del singolo, solo la fede elimina angoscia e disperazione. Negli scritti più strettamente
filosofici Kierkegaard chiarisce facendo ricorso ai concetti di cui sopra i temi della sua filosofia
dell'esistenza.
a. ANGOSCIA
Cos'è l'angoscia? E' un sentimento indefinito. Essa non è timore, paura per qualcosa di particolare
(l'esame di Stato). Inoltre essa riguarda sempre il futuro, le possibilità future del singolo. Più
precisamente, l'angoscia è il puro sentimento della possibilità. Essa è generata dalla coscienza delle
infinite possibilità di vita che si aprono dinanzi a noi e dalla contemporanea coscienza di essere limitati
nel tempo, di non avere che poco tempo a disposizione, di non essere eterni. L'angoscia è quella che
coglie 'Ercole al crocevia', è la consapevolezza di avere davanti a sé infinite possibilità (racchiuse tutte
quante nelle tre alternative fondamentali) e di rischiare sé stessi nella scelta.
Come dirà nel Novecento l'esistenzialista Sartre: "Noi siamo condannati ad essere liberi", cioè a
scegliere e ad essere responsabili delle nostre scelte e dei nostri possibili errori. Per Kierkegaard e
Sartre, se fossimo animali, non conosceremmo l'angoscia.
L'angoscia nasce dalla coscienza che scegliere vuol dire aprirsi alla possibilità del fallimento del progetto
che scelgo di attuare. Se sbagliassi a sposarmi, a fare il medico ... e se finissi per trovarmi insoddisfatto
delle mie scelte? Se fallisco, io sono responsabile del mio fallimento, giacché ho scelto il mio progetto in
libertà. E, dice Kierkegaard "Nel possibile, tutto è possibile". I miei progetti e le possibilità che ho scelto
sono sempre soggette alla minaccia dell'annientamento, OGNI POSSIBILITà CHE Sì è SEMPRE
ANCHE UNA POSSIBILITà CHE NO. Le possibilità che scegliamo di vivere possono non realizzarsi o
dimostrarsi dolorose e fallimentari: dinanzi a ogni possibilità favorevole per realizzare il progetto
esistenziale scelto, stanno infinite possibilità negative (Abbagnano, Fornero).
 
Inoltre l'angoscia è generata anche dal fatto che spesso si nutrono numerosi desideri contrastanti: si
vorrebbe far questo e quello, ma la scelta di una strada esistenziale ci preclude la possibilità di vivere e
imboccare contemporaneamente altre strade (ricordarsi di Ercole al crocevia: egli non può camminare
contemporaneamente su due o tre strade che si dipartono dal crocicchio; è Ercole, e come tale sente di
poter fare tutto ciò che deciderà, ma non potrà mai camminare nello stesso tempo su tutte le strade della
vita). Questo perché siamo esseri del tempo. L'angoscia è la "vertigine della libertà", il sentimento che si
prova guardando giù, in quel vuoto che è costituito dalle infinite possibilità di scelta (Berti) è, appunto,
PURO SENTIMENTO DELLA POSSIBILITà.
L'angoscia può paralizzare ma è la condizione che PRECEDE LA SCELTA. Essa può dar luogo alla
disperazione (se si sceglie la vita estetica o quella etica) o alla fede (alla vita religiosa). Ha anche una
valenza positiva perché può preparare "il cavaliere della fede", di quella fede che spegne l'angoscia e la
disperazione.
 
b. DISPERAZIONE.
L'angoscia è una situazione psichica che riguarda il rapporto dell'uomo con il mondo, cioè la possibilità di
realizzare nel mondo determinati progetti, tenendo conto delle circostanze esterne.
La disperazione, la "malattia mortale" di cui parla Kierkegaard, è inerente al rapporto del singolo con sé
stesso. Vediamo di chiarire. “La MALATTIA MORTALE” inizia con la celebre definizione dell'essere
umano: "L'uomo è spirito [...] L'uomo è una sintesi di infinitezza e finitezza, di temporalità ed eternità,
libertà e necessità" Cioè l'uomo è limitato nel tempo ma aspira a raggiungere l'eterno, l'assoluto; è libero
ma deve fare i conti con le circostanze necessitanti della vita mondana etc. Poi Kierkegaard dice che la
disperazione nasce dal rapporto che l'uomo instaura con sé stesso: L'IO PUò VOLERE O NON VOLERE
ESSERE Sè STESSO.
1)Se vuol essere sé stesso, se vuol accettarsi per come è, poiché è una entità finita e limitata, non
raggiungerà mai l'equilibrio e il riposo, cioè cadrà nella disperazione.
2)  Se non vuole essere sé stesso, se non si accetta, se vuol essere altro-da-sé, se vuol avere la
potenza e la pienezza di vita di un dio, urta contro l'impossibilità, e anche in questo caso cadrà nella
disperazione.
La disperazione è malattia mortale nel senso che è il tentativo di vivere la morte dell'io: il pensare di
poter essere autosufficiente o il voler essere Dio (il rifiutarsi di riconoscersi come finiti). Naturalmente, la
prima forma di disperazione è quella cui giunge l'uomo etico; la seconda forma di disperazione è quella
dell'esteta. Più avanti Kierkegaard afferma che nell'uomo, "sintesi di necessità e libertà", la disperazione
nasce:
1) o "dalla deficienza (=il venir meno) della libertà", della possibilità: "Trovategli una possibilità [...] dategli
una possibilità e il disperato [...] si rianima, perché se l'uomo rimane senza possibilità è come se gli
mancasse l'aria". È evidentemente la disperazione dell'uomo etico che, radicatosi in una e una sola
situazione professionale, affettiva etc., si ritrova scontento e non riesce più a vedere vie di scampo e
altre possibilità di nuova esistenza.
 2) o "dalla deficienza della necessità". In questo caso l'io fugge verso mille esperienze e possibilità, non
sente alcuna necessità, alcun obbligo sociale verso alcuno. Qui però l'individuo diventa "un miraggio", e
le sue possibilità "non prendono piede e non si radicano in nulla". È la disperazione dell'esteta.
La fuga dalla disperazione consiste solo nell'armonia tra necessità e libertà, cioè nella fede in Gesù
Cristo. La fede radica l'uomo nella sua necessaria finitezza e nello stesso tempo gli permette di
instaurare un rapporto liberatorio con Dio.
L’esistenza umana è contrasto tra ragione e fede, tra etica e religione, tra possibilità e necessità, tra
individuo e mondo, tra condizione finita ed aspirazione all’infinito.
 
c. IL PECCATO
La libertà, intesa come potere di scelta, è all’origine del peccato. Adamo infatti aveva mangiato la mela
proprio quando aveva compreso di poter andare contro il divieto divino: peccare quindi significa scegliere
di opporsi a Dio, e, per questo, il peccato rappresenta una determinazione costitutiva dell’esistere.
Essendo collegato alla possibilità, il peccato in un certo senso non ha limiti ma maggior peccato
significava anche maggiore angoscia. Tuttavia proprio l’angoscia, conducendo l’uomo nella condizione di
massima dispersione, è l’unica possibilità di salvezza poichè svela il senso tragico della condizione
umana, il carattere illusorio ed effimero delle cose del mondo e pone le basi della salvezza, ossia della
riconciliazione con Dio. Senza peccato e quindi senza angoscia non avrebbe mai potuto comprendere il
vero significato del cristianesimo e quindi non avrebbe mai potuto salvarsi.
 
 
                                                                                                                           
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