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Sören KIERKEGAARD (Copenhagen 1813-1855)

Come Schopenhauer, il pensiero di K. rappresenta una alternativa irrazionalistica all’hegelismo.

VITA E OPERE. La sua vita è priva di grandi avvenimenti ‘esteriori’; evidente è il suo disinteresse per le questioni
socio-politiche del tempo. Pensatore isolato (e rimasto pressoché sconosciuto fino ai primi anni del Novecento, a partire
dai quali il suo pensiero esercitò una enorme influenza sull’Esistenzialismo), K. visse adolescenza e giovinezza
immerso in un profondo senso di disagio, perseguitato da quella “spina nelle carni” che lo accompagnò per gran parte
della sua vita. Il carattere malinconico e il sentimento di colpa e di angoscia furono ereditati -come lo stesso K.
afferma- dal padre, cupo pastore luterano. I pochi accadimenti biografici assunsero nel suo pensiero una rilevanza
simbolica assai consistente. La sua filosofia ha indubbie e profonde radici autobiografiche.
Da ricordare la rottura del fidanzamento con Regina Olsen, una rottura senza alcuna ragione concreta apparente,
vissuta in termini drammatici da K. come impossibilità personale di aderire alla VITA ETICA del matrimonio.
Significativo anche il rifiuto di intraprendere una qualche via professionale, addirittura il rifiuto di diventare pastore
(per quanto fosse uno spirito profondamente religioso).
Dopo aver frequentato a Berlino le lezioni di Schelling e letto le opere di Hegel, K. si allontana dalla filosofia
idealistica, accusata di fornire una risposta illusoria e falsa ai problemi concreti dell’esistenza. Entra poi in polemica con
la chiesa luterana danese del suo tempo (contro i pastori Martensen e Mynster) accusandola di “GIOCARE AL
CRISTIANESIMO”, di proporre una religiosità accomodante e pacifica, che mette a tacere coscienza e borsellino, e
difende l’ipocrisia mentale, senza alcun rispetto per la serietà tremenda del messaggio di Cristo.

Tra le sue opere ricordiamo i PAPIRER (“Carte” o “Diari”), utilissimi per la comprensione del pensiero di K.
Poi AUT-AUT (ENTEN-ELLER, opera composta da più scritti pseudonimi, tra cui LE CARTE DELL’ASSESSORE
GUGLIELMO, DIARIO DEL SEDUTTORE, DON GIOVANNI etc.), pubblicata nel 1843. Nel 1843, ancora,
TIMORE E TREMORE. Nel 1844 BRICIOLE DI FILOSOFIA e IL CONCETTO DELL’ANGOSCIA; nel 1845
STADI NEL CAMMINO DELLA VITA; nel 1849 LA MALATTIA MORTALE, e poi molti discorsi religiosi.
In AUT-AUT, TIMORE E TREMORE, STADI NEL CAMMINO DELLA VITA, K. esprime il suo pensiero
servendosi di figure (Don Giovanni, il marito, Abramo) più che di precisi concetti filosofici, e scrive opere di alto
valore letterario (diari, romanzi filosofici etc.) ma per nulla sistematiche.
Negli altri scritti K. fa invece ricorso a vere e proprie categorie filosofiche (esistenza, singolo, possibilità, angoscia,
disperazione etc.) nell’intento di chiarire con ordine i suoi temi di fondo.

ALLE RADICI DEL PENSIERO DI K. : “CAPIRE SE’ STESSI”.


Dai PAPIRER:
“Ciò che veramente mi manca è di capire veramente me stesso, quello che devo fare, non quello che devo conoscere …
Trovare l’idea per la quale devo vivere e morire! … Bisogna imparare a conoscere sé stessi prima di ogni altra cosa”
Dunque K. riprende quella sensibilità filosofica che da Socrate giunge sino a Agostino e Pascal: quella che pone al suo
centro l’esigenza del “conosci te stesso” (Socrate) e del “noli foras ire” (S. Agostino). Conoscersi è l’esigenza
fondamentale. Conoscersi per capire come vivere.
‘Chi è’ K.?
“Io sto qui come Ercole, e non a un bivio ma a un crocevia, davanti al quale tanto più difficile è scegliere la via giusta.
Forse è proprio questa la mia disgrazia: mi interesso di tantissime cose senza decidermi per alcuna” (PAPIRER).
E ancora:
“Ciò che io sono è un nulla; questo procura a me e al mio genio la soddisfazione di conservare la mia esistenza al punto
zero, tra il freddo e il caldo, tra la saggezza e la stupidaggine, tra il qualche cosa e il niente come un semplice forse”
(STADI NEL CAMMINO DELLA VITA, ma lo stesso concetto è anche nei PAPIRER).

K. ha dunque sofferto di paralisi psicologica? Una persona incapace di decidere, di imboccare una via, di scegliere una
delle possibilità dell’esistenza (matrimonio, carriera professionale, accattonaggio etc.)? Una persona in condizione di
perpetua indecisione? Secondo Abbagnano sarebbe proprio così, e questa sua paralizzante perplessità costitutiva
sarebbe appunto la SCHEGGIA NELLE CARNI che ha angustiato la vita del nostro autore.
Ma negli STADI NEL CAMMINO DELLA VITA (e anche nei PAPIRER) troviamo anche scritto:
“Ma io ho scelto la categoria religiosa … , attaccato ad essa ho potuto e posso ancora sopportare di vivere”.

Dunque K. ha compiuto una scelta precisa, è uscito da una esistenza paralizzata e vissuta come PUNTO ZERO e
SEMPLICE FORSE. La sua è stata una scelta religiosa (anche se non pastorale-professionale). E la sua filosofia è una
filosofia religiosa, costruita per testimoniare le verità tremende del Cristianesimo Solo la fede –come vedremo- può del
resto vincere quella angoscia e quella disperazione che caratterizzano l’esistenza del singolo. La fede cristiana è
l’ancora di salvezza che sottrae l’uomo dall’angoscia e dalla disperazione di esistere (Abbagnano, Fornero).
LA POLEMICA CONTRO HEGEL.
Come Schopenhauer (di cui K. si considerava ‘spirito fratello’) anche K. si scaglia contro il volgare ottimismo del
sistema idealistico di Hegel.
a) In primo luogo, K. si dichiara un PENSATORE SOGGETTIVO in lotta contro ogni PENSATORE OGGETTIVO (lo
stesso Hegel). Le verità che K. cerca (e che sono verità essenzialmente religiose) sono ‘soggettive nel senso che
coinvolgono i SOGGETTI UMANI, li scuotono, dando senso alle loro vite e trasformandole; non sono verità
‘oggettive’, cioè fredde, imparziali, prive di rapporto con l’esistenza concreta degli individui (come invece quelle di
Hegel). [Secondo il prof. Reale, con questo tema K. anticipa, tra l’altro, le polemiche anti-positivistiche e anti-
scientistiche di molti filosofi di tardo Ottocento e primo Novecento]
b) in secondo luogo, K. rifiuta pregiudizialmente il sistema hegeliano perché esso ha sostenuto l’illusione di una realtà
armonica nella quale ogni contraddizione, ogni lacerazione, risulta sempre superata e pacificata in una necessaria e
immancabile sintesi superiore. Il pensiero di Hegel non è in grado di spiegare le contraddizioni insuperabili, le angosce,
i disagi e il carattere realmente PROBLEMATICO dell’esistenza. Esso è ottimistica falsità, è dialettica dell’ET – ET:
LA SUPREMA Ragione, nella sua onnipotenza è in grado di camminare su ogni strada della realtà (e questa e quella), e
di giungere sempre a mediare, conciliare e superare le alternative, le opposizioni e i contrasti della vita. Ma l’esistenza
umana segue una diversa dialettica, quella dell’AUT – AUT (o questo o quello): ai singoli si presentano alternative di
esistenza radicalmente opposte e inconciliabili e lontane l’una dall’altra, e tra di esse il singolo deve scegliere con
rischio. Due giudizi al riguardo:
a1. – “Alla categoria hegeliana della necessità, K. contrappone la categoria della possibilità, della scelta, della libertà.
Contro l’affermazione hegeliana della provvisorietà dell’antitesi, K. fa valere la forza della negazione” (Perone,
Ciancio). Per Hegel la categoria con cui interpretare la realtà tutta è la necessità dialettica che concilia ogni
contraddizione. Per K. la categoria ermeneutica di base è quella della libertà di scelta che porta i singoli a progettare le
loro vite e a imboccare alternative (possibilità) esistenziali non conciliabili con altre (ricordarsi dell’immagine di Ercole
al crocicchio).
A2. – “Kierkegaard è soprattutto il richiamo a un pensare concreto che ha le sue radici nell’esistenza, che riconosce e
accetta la contraddizione e l’irrazionalità, l’aporia [=difficoltà insolubile] e il paradosso propri dell’esistenza, la quale è
scissa tra radicali antinomie che nessun sistema concilia se non a spese della verità” E ancora:
“Per Hegel il metodo di indagine è quello che … ravvicina, livella, armonizza, attenua le differenze e le antitesi… Ma le
vette dell’esistenza ci mandano un’eco sola: aut-aut, senza compromesso!”
(Remo Cantoni, LA VITA ESTETICA NEL PENSIERO DI KIERKEGAARD, 1976 , saggio introduttivo a DON
GIOVANNI)
c) Per Hegel l’unico soggetto della storia (delle stesse singole biografie) è l’Astuzia della Ragione, l’unica e assoluto
realtà; per K. l’autore di ogni singola storia è l’individuo singolo, nella sua libertà di scelta e azione (ciò che rende
responsabile ogni uomo delle sue decisioni, rende rischiose e drammatiche le medesime).
d) K. si è sempre opposto all’ottimismo panteistico hegeliano, affermando la non-razionalità del reale e “l’infinita
DIFFERENZA QUALITATIVA” che separa il finito (l’uomo) dall’infinito (Dio, l’assoluto). Dunque, prospettiva
teistica di K., che insiste sulla trascendenza di Dio. (questo tema sarà ripreso nel Novecento dalla teologia dialettica di
K. Barth).

ESISTENZA, SINGOLO, POSSIBILITA’.


L’esistenza è il modo d’essere proprio del singolo, di colui che sceglie e progetta la sua vita attuando una delle
possibilità fondamentali che gli si aprono dinanzi.
Non tutti sono singoli. Il singolo è colui che si assume la responsabilità di scegliere in prima persona la sua vita. Egli
non ha niente da spartire con il bruto e con l’animale. L’animale ha già una sua essenza determinata che lo costringe a
comportarsi e a vivere in un determinato modo. Il regno dell’animale è il regno della necessità istintuale. Ma il singolo
è libero, può scegliere la sua strada e ‘costruirsi’. L’esistenza del singolo -diranno gli esistenzialisti del Novecento –
precede e determina l’essenza, e non viceversa. Tutti possono diventare singoli, ma non tutti di fatto lo diventano.
Il pensiero di K. è caratterizzato dallo sforzo costante di chiarire le possibilità fondamentali (gli “stadi della vita”) che
costituiscono le alternative di fondo dell’esistenza, quelle tra le quali il singolo deve scegliere (Abbagnano, Fornero,
pp.165-6, 3° volume).
Tre sono gli stadi (possibilità, alternative) fondamentali dell’esistenza:
- LA VITA ESTETICA
- LA VITA ETICA
- LA VITA RELIGIOSA.
Le prime due sono presentate in AUT-AUT; la terza è presentata (e consigliata) in TIMORE E TREMORE.
LA VITA ESTETICA.
Lo stadio estetico dell’esistenza è caratterizzato dall’essere vita vissuta nell’ISTANTE, nell’IMMEDIATEZZA, nella
ESTERIORITA’.
L’ESTETICA di cui ci parla K. non è, come invece in Schopenhauer e nel senso moderno del termine, una dottrina
sull’arte e la bellezza artistica o naturale; è una ANALISI DELLA VITA VISSUTA NELL’IMMEDIATEZZA,
“ballando il valzer dell’istante”.
“L’estetica è ciò per cui l’uomo è immediatamente ciò che è”.
L’esteta è quel singolo che ha scelto di vivere cogliendo al volo ogni possibilità di godimento, cogliendo l’attimo
(carpe diem, carpe horam); è colui che vuole fare della sua vita un’opera d’arte, una vita d’eccezione, traendo piacere da
ogni circostanza e allontanando da sé tutto ciò che è banalità, ripetizione, monotonia.
“L’estetica insegna: godi la vita e vivi il tuo desiderio”.
In questo senso, la vita estetica è l’espressione non normalizzata e non socializzata della vita. L’esteta rifiuta tutto ciò
che può legarlo, vincolarlo, impedirgli di vivere il presente, l’attimo. [Egli, per usare una espressione di Albert
Camus, ha “orrore del definitivo”] Egli, mens momentanea, è, in fondo, un uomo assetato di assoluto, un uomo che
vorrebbe vivere TUTTO, ogni possibile esperienza, e non può accontentarsi di vivere una sola particolare situazione per
tutta la vita. Egli teme di rimanere incapsulato nelle pieghe di un’unica, finita situazione esistenziale. Proprio per
questo, per poter essere sempre libero, svincolato, e godere l’istante, l’esteta rifiuta ogni legame. Rifiuta il matrimonio,
l’amicizia, una professione, ogni forma di obbligo sociale. Rifiuta la speranza, per essere libero dal futuro (sperare in
qualcosa significa infatti caricarsi di ansie e preoccupazioni per il futuro e non vivere il presente!). Rifiuta il ricordo
(che ingenera rimorsi e rimpianti intorno al nostro passato, e impedisce di vivere il presente)
[“Of all the words of mice and men, the saddest are: J might have been”, da GHIACCIO NOVE, di K. Vonnegut.
Conoscete? Se volete essere esteti, buttate i diari e bruciate gli album dei ricordi e tutte le fotografie etc.]
Kierkegaard ha utilizzato molte figure letterarie per esprimere la sua concezione della vita estetica. Ci sono molti modi
di ‘ballare il valzer dell’istante’: quello di FAUST (che incarna la LIBIDO SCIENDI, il desiderio di sapere tutto,
passando di scienza in scienza, senza mai accontentarsi di una di esse); quello di DON GIOVANNI (che incarna la
CONCUPISCIENTIA CARNIS: è il seduttore sensuale che, incapace di restare legato a una donna in particolare,
incapace di amare per desiderio di possedere l’essenza femminile tutta, ricerca l’assoluto femminile; quello di
GIOVANNI IL SEDUTTORE (da non confondersi con Don Giovanni), che incarna l’EXACERBATIO CEREBRI,
l’arte della seduzione intellettuale: seduce con le doti dello spirito e della parola. Vuole portare la donna al cedimento;
non è interessato all’aspetto sessuale della faccenda. Egli non ama se non sé stesso e le sue capacità ammaliatrici. Gode
della sua superiorità intellettuale.

Ma la somma concezione di vita estetica, “la più fine e aristocratica di tutte”, presentata nelle CARTE
DELL’ASSESSORE GUGLIELMO, è quella di chi ha “penetrato la vanità del tutto”. ‘Panta rei’, tutto passa, tutto
scorre, niente ha valore assoluto, niente ha senso. Si vive, si muore, tutto lì. Non c’è altro. Dunque non bisogna sperare
né avere rimpianti o rimorsi. Tutto ciò che si può fare è godere l’attimo senza remore psicologiche, in perfetta
indifferenza nei confronti del prossimo. Nessuna cosa, nessuna situazione ha valore totale, è sufficientemente seria da
dover essere presa sul serio. Questo sommo esteta, giunto a pensare che tutto è vano, desidera tutto, vivere ogni
esperienza possibile; proprio per questo disprezza con IRONIA ogni singola situazione (quelle stesse che sta vivendo).

[L’esteta di K. sembra decisamente vicino all’uomo romantico che vive con ironia, quell’ironia teorizzata da F.
Schlegel. Egli è una personalità anarcoide che niente può accettare, e preferisce vivere on the road, al modo di tanti eroi
della letteratura del Novecento (vedi ad esempio il Dean Moriarty di ON THE ROAD di Jack Kerouac, o certi
personaggi di D’Annunzio o Wilde, con il loro esasperato e scandaloso estetismo; lo stesso OLTRE-UOMO di
Nietzsche ha alcuni dei caratteri dell'esteta di K., come vedremo.)]

Ma in realtà, nonostante le apparenze, la vita estetica è esistenza inautentica: nella vita estetica il singolo non ha più
possibilità di scelta né reale libertà. Il singolo si disperde nell’ESTERIORITA’, cioè nelle mille circostanze e occasioni;
la sua vita perde unità; egli non progetta più nulla, non si progetta più. L’esteta non sceglie; lascia che le circostanze
(la curiosità momentanea, il sorriso di una fanciulla, una sfida di carattere lavorativo etc.) decidano per lui. Il caso
sceglie per lui.

[potremmo dire che l’esteta è colui che, per ‘orrore del definitivo’, ha scelto di non scegliere. In questo senso egli resta
paralizzato, non assume mai alcun impegno concreto, vive come un semplice ‘forse’]

L’esteta finisce dunque con il provare la disperazione. La disperazione dell’esteta è il segno del fallimento della sua
concezione di vita. A questo riguardo, l’assessore Guglielmo (che incarna la figura del marito, dell’uomo impegnato, e
che dialoga con l’esteta ‘penetrato dalla vanità del tutto’) scrive:
“Perciò, tu non aspiri a nulla, non desideri nulla; l’unica cosa che potresti desiderare è una bacchetta magica che ti
potesse dare tutto, e poi la useresti per pulirti la pipa”.
Assetato di assoluto, di totale pienezza di vita ma incapace di vivere con serietà, l’esteta si rivela figura fortemente
romantica. In lui vive una brama insoddisfatta di infinito. Ma per lui
“quando le battute di spirito taceranno, rimane ancora l’acqua della Senna o la polvere da sparo nelle botteghe”.
E’ la disperazione!
Ecco allora il consiglio dell’assessore Guglielmo: “Dispera!”. Alla fine, solo soffrendo l’esteta potrà partorire in sé un
uomo nuovo: un nuovo sé stesso, responsabile, serio, impegnato.
“Non disprezzare la vita, onora … ogni modesta attività … e abbi un po’ più di rispetto per la donna; credimi, è proprio
da lei che viene la salvezza, come è certo chela perdizione viene dall’uomo”.
In che senso la donna ‘salva’?
K. dice che “L’uomo rappresenta il principio intellettivo dello spirito, la donna rappresenta il principio vegetativo della
natura”. Cioè l’uomo anela l’infinito, tende a perdere concretezza; la donna àncora al finito, dà senso, spegne l’ansia
spirituale dell’uomo, legandolo al quotidiano. [mi sembrano scemenze, ma quello che penso io conta poco]

LA VITA ETICA.
La disperazione dell’esteta lo prepara alla possibilità del passaggio (non necessario!) alla vita etica, attraverso una
scelta (un salto) che implica un radicale mutamento dello stile di vita..
Il singolo diventa uomo etico in quanto SCEGLIE NON LE COSE INTORNO A LUI MA SCEGLIE SE’ STESSO, SI
ACCETTA NELLA SUA FINITEZZA, RINUNCIANDO AL DESIDERIO DI UNA VITA ‘SUPERIORE’ E
DIVERSA (Perone, Ciancio). Ma il passaggio richiede il coraggio del SALTO, di un mutamento radicale. Dialettica
dell’aut-aut: tra vita estetica e vita etica non v’è alcuna mediazione e conciliazione; nessuna possibilità di
compromesso! O questo o quello! Due strade diverse!
La vita etica è simboleggiata dalla figura del marito, l’uomo che possiede il tempo invece di esserne posseduto; l’uomo
che si progetta, sceglie sé stesso, si afferma nella continuità dei rapporti; egli sceglie l’impegno (verso una donna, una
professione, degli amici), non la fuga dalla responsabilità. Egli accetta la RIPETIZIONE, cioè l’impegno ad amare la
stessa donna, ad avere gli stessi amici, ad esprimersi nella stessa professione.
K., in LA RIPRESA (uno scritto del 1843) afferma:
“Per chi non possiede la categoria … della ripetizione, tutta la vita si dissolve in uno strepito vano e vuoto”.
L’uomo etico, attraverso la ripetizione, si lega agli altri, accetta la legge del generale, l’inserimento nell’ordine della
comunità.

Ma anche l’uomo etico va incontro a un senso di smarrimento che segna l’insufficienza e il fallimento del suo tipo di
esistenza. Infatti,
1) come uomo etico egli ha il dovere di CONFORMARSI, adeguarsi alla legge che vale per tutti gli uomini della sua
comunità, ma proprio per questo egli rischia di perdere la sua personalità e la sua singolarità nell’ANONIMATO e
nella “FOLLA”, “in cui il singolo è un nulla”. La folla è distinta dalla comunità, ma rappresenta il rischio della
degenerazione della comunità, la folla è l’orrore di un insieme di esseri spersonalizzati.
[ricordo che alcuni hanno visto nel concetto kierkegaardiano di ‘folla’ una anticipazione della critica della società
di massa e della Vermassung (=massificazione) attuale; di quel mondo che Heidegger chiamerà ‘mondo del man’,
del ‘si’: si dice, si pensa etc., del mondo in cui nessun singolo più pensa e dice etc.; il mondo della chiacchiera, del
‘niente di singolare’]
2) Inoltre, in quanto si inserisce nella comunità in maniera attiva e responsabile come uno dei suoi membri, egli è co-
stretto a riconoscersi come elemento di una comunità che nella storia ha riversato la sua crudeltà e il suo dolore.
L’uomo etico è costretto ad accettare la colpa dei suoi antenati.
[Per intenderci, egli è portato a sentirsi a disagio nel riconoscersi membro di una nazione, l’Italia (o qualunque
altra) che ha conquistato e massacrato libici, etiopi etc.]
In questo senso, dice K., l’uomo etico viene colto dal PENTIMENTO.
Il pentimento segna lo scacco della vita etica e prepara ad un ultimo salto in un’altra alternativa esistenziale: la vita
religiosa. Dal pentimento si può passare al salto nella fede.

LA VITA RELIGIOSA. (tema sviluppato in TIMORE E TREMORE e in LA MALATTIA MORTALE)


Il fallimento etico deriva in ultima analisi dal fatto che l’uomo etico, scegliendo sé stesso, ha pensato di poter essere
autosufficiente in quanto uomo, di non aver bisogno della salvezza e dell’aiuto gratuito (grazia) di Dio. L’uomo etico ha
pensato di potersi salvare nella storia, con l’aiuto degli altri uomini. Follia!

La fede è un rapporto intimo, personale e diretto con Dio; il salto nella fede pone l’uomo religioso in una situazione
radicalmente differente da quella etica.
[Ma ricordo che Enrico Berti ha notato che “mentre nell’opera più giovanile l’etica veniva contrapposta alla religione,
in quella più matura –vedi POSTILLA… - K. rivaluta l’impegno etico come momento indispensabile della religione
stessa”, anche se impegno che ha senso solo in quanto deriva dal rapporto del singolo di fronte a Dio. Il rapporto con
Dio non deve seguire, ma precedere quello con gli altri. Solo a partire dalla fede può avere senso e valore il nostro
rapporto etico, maritale, professionale etc.]

La vita religiosa ha, per K., un carattere incerto, rischioso. Essa è –come vedremo- una vita vissuta come scandalo e
paradosso.
L’uomo religioso, ponendosi di fronte a Dio, rischia la sua vita mondana (estetica ed etica) per entrare in una nuova
dimensione dell’esistenza. ABRAMO è l’eroe religioso, il simbolo della vita religiosa. Egli accetta il RISCHIO della
prova impostagli da Dio: il sacrificio di Isacco, il figlio tanto atteso e tanto amato. Dal punto di vista etico, dal punto di
vista della legge morale, Abramo è soltanto un folle, e il suo gesto non è per nulla giustificabile: se sacrifica Isacco, è
solo un assassino. Inoltre Abramo rischia suo figlio, il bene più amato. Egli non è certo che Dio fermerà la sua mano.
Agli occhi del mondo il suo gesto religioso è assurdo, anzi, criminale. Ma –come sappiamo- Dio ferma la mano di
Abramo, l’uomo di fede (anche se, lo ripeto, l’azione salvifica di Dio è del tutto gratuita, e non è certo che Dio ci salvi,
così come Abramo non è sicuro che Dio gli impedisca all’ultimo istante di sacrificare il figlio).
La fede consiste proprio in questo rischio, nell’accettare la prova, anche a costo di venir derisi o perseguitati per la
propria profonda convinzione. La fede non è cosa facile, accomodante, pacificante. (vedi la polemica contro la chiesa
danese che ‘gioca al cristianesimo’)
Eppure, nonostante l’incertezza e il rischio, la vita religiosa costituisce per K. l’unica via per eliminare la disperazione e
l’angoscia del singolo (esteta o etico che sia). Solo essa è per K. “l’esistenza autentica” (Reale, Antiseri).
L’uomo religioso è infatti un singolo che sceglie di essere sé stesso (in quanto tale, non è più un esteta), ma non si
illude della sua autosufficienza, ed anzi riconosce la sua colpevolezza, finitezza e dipendenza da Dio (in quanto
tale, non è più uomo etico).
La fede restituisce senso alla vita, altrimenti vuota, inutile e fallimentare.
Certo, la vita religiosa è paradossale. Il PARADOSSO consiste nel fatto che l’uomo vuol riconoscersi come un essere
finito, limitato nello spazio e nel tempo e nelle potenzialità, , e riconoscersi comunque come dotato di valore, e tuttavia
–per attribuire valore e positività alla sua esistenza- è costretto a riconoscersi peccatore e dipendente da Dio.
Certo, la vita religiosa è scandalosa. Lo SCANDALO consiste nel fatto che l’uomo si riconosce come un nulla salvato
da Dio.
“Per amore di quest’uomo … Dio viene al mondo, nasce, soffre e muore; e questo Dio sofferente prega e quasi supplica
l’uomo di accettare l’aiuto che gli viene offerto! In realtà, se c’è qualcosa da far perdere il cervello, è certamente
questo! Chiunque non abbia abbastanza coraggio umile per osare di credervi, si scandalizzerà!” (da LA MALATTIA
MORTALE).
Infatti, perché Dio dovrebbe incarnarsi in Cristo, soffrire, venire inchiodato a un pezzo di legno e morire? Per salvare
l’uomo? Ma l’uomo è un niente! La vita nella fede cristiana è SCANDALO DELL’INTELLETTO, ASSURDITA’.

[ma vi ricordo che già San Paolo diceva che “la sapienza cristiana è follia agli occhi del mondo”, dei ‘greci’, cioè della
ragione, dell’intelletto. Le verità cristiane sono illogiche, irrazionali Come può Dio morire, Lui che è l’Onnipotente?
DEUS NON POTEST MORI!!! E poi, perché dovrebbe morire per noi? Torna in K. il tema della ‘follia della croce’; il
cristianesimo è dolce follia (Erasmo da Rotterdam –ELOGIO DELLA FOLLIA), follia positiva]

Eppure, dobbiamo avere il coraggio e l’umiltà di credere nonostante l’assurdità. [ricordate il ‘CREDO QUIA
ABSURDUM di Tertulliano?] Solo la fede salva! Dunque la filosofia di K. è un invito a porsi sul cammino della vita
religiosa; è una apologetica religiosa (Abbagnano) che non offre prove e dimostrazioni dell’esistenza di Dio, che non
vuol chiarire i misteri, della religione servendosi della ragione, che rifiuta per questo ogni TEOLOGIA
SPECULATIVA o ‘scientifica’. La scelta religiosa conduce a una ‘metànoia’ (=rivoluzione interiore, termine paolino)
che spegne l’insensatezza del vivere.

POSSIBILITA’, ANGOSCIA, DISPERAZIONE: gli aspetti costitutivi dell’esistenza.


Possibilità, scelta, libertà, disperazione e angoscia costituiscono gli aspetti strutturali dell’esistenza del singolo. Ma –
come abbiamo già detto- la fede elimina angoscia e disperazione.
Negli scritti più strettamente filosofici (vedi pag.1) K. chiarisce facendo ricorso ai concetti di cui sopra i temi della sua
filosofia dell’esistenza.
Cominciamo con il concetto dell’ANGOSCIA (da IL CONCETTO DELL’ANGOSCIA).
Cos’è l’angoscia? E’ un sentimento indefinito. Essa non è timore, paura per qualcosa di particolare (ad es. l’esame di
Stato). Inoltre essa riguarda sempre il futuro, le possibilità future del singolo. Più precisamente, l’angoscia è il puro
sentimento della possibilità. Essa è generata dalla coscienza delle infinite possibilità di vita che si aprono dinanzi a noi
(Abbagnano, Fornero) e dalla contemporanea coscienza di essere limitati nel tempo, di non avere che poco tempo a
disposizione, di non essere eterni. L’angoscia è quella che coglie ‘Ercole al crocevia’. E’ la consapevolezza di avere
davanti a sé infinite possibilità (che poi, come sappiamo, sono racchiuse tutte quante nelle tre alternative fondamentali)
e di rischiare sé stessi nella scelta.
[Come dirà nel Novecento l’esistenzialista Sartre: “Noi siamo condannati ad essere liberi”, cioè a scegliere e ad essere
responsabili delle nostre scelte e dei nostri possibili errori. Per K. e Sartre, se fossimo animali, non conosceremmo
l’angoscia]
L’angoscia nasce dalla coscienza che scegliere vuol dire aprirsi alla possibilità del fallimento del progetto che scelgo di
attuare. [e se sbagliassi a sposarmi, a fare il medico, a… e se finissi per trovarmi insoddisfatto delle mie scelte? Se
fallisco, io sono responsabile del mio fallimento, giacché ho scelto il mio progetto in libertà. E, dice K.,
“Nel possibile, tutto è possibile”
I miei progetti e le possibilità che ho scelto sono sempre soggette alla minaccia dell’annientamento. E cioè, come
sottolinea ancora il nostro autore, OGNI POSSIBILITA’ CHE SI’ E’ SEMPRE ANCHE UNA POSSIBILITA’ CHE
NO.
Le possibilità che scegliamo di vivere possono non realizzarsi o dimostrarsi dolorose e fallimentari. Dinanzi a ogni
possibilità favorevole per realizzare il progetto esistenziale scelto, stanno infinite possibilità negative (Abbagnano,
Fornero).
Inoltre l’angoscia è generata anche dal fatto che spesso si nutrono numerosi desideri contrastanti: si vorrebbe far questo
e quello, ma la scelta di una strada esistenziale ci preclude la possibilità di vivere e imboccare contemporaneamente
altre strade (ricordarsi di Ercole al crocevia: egli non può camminare contemporaneamente su due o tre strada che si
dipartono dal crocicchio; è Ercole, e come tale sente di poter fare tutto ciò che deciderà, ma non potrà mai camminare
nello stesso tempo su tutte le strade della vita). Questo perché siamo esseri del tempo.
L’angoscia è la “vertigine della libertà”, il sentimento che si prova guardando giù, in quel vuoto che è costituito dalle
infinite possibilità di scelta (Berti) E’, appunto, PURO SENTIMENTO DELLA POSSIBILITA’.
L’angoscia può paralizzare, ed è comunque la condizione che PRECEDE LA SCELTA. Essa può dar luogo alla
disperazione (se si sceglie la vita estetica o quella etica) o alla fede (alla vita religiosa).
Dunque l’angoscia ha anche una valenza positiva, perché può preparare “il cavaliere della fede”, di quella fede
che spegne l’angoscia e la disperazione.

Passiamo ora al concetto di DISPERAZIONE.


L’angoscia è una situazione psichica che riguarda il rapporto dell’uomo con il mondo, cioè la possibilità di realizzare
nel mondo determinati progetti, tenendo conto delle circostanze esterne.
La disperazione, la “malattia mortale” di cui parla K., è inerente al rapporto del singolo con sé stesso. Vediamo di
chiarire. LA MALATTIA MORTALE inizia con la celebre definizione dell’essere umano:
“L’uomo è spirito … L’uomo è una sintesi di infinitezza e finitezza, di temporalità ed eternità, libertà e necessità”
Cioè l’uomo è limitato nel tempo ma aspira a raggiungere l’eterno, l’assoluto; è libero ma deve fare i conti con le
circostanze necessitanti della vita mondana etc.
Poi K. dice che la disperazione nasce dal rapporto che l’uomo instaura con sé stesso: L’IO PUO’ VOLERE O NON
VOLERE ESSERE SE’ STESSO.
a) Se vuol essere sé stesso, se vuol accettarsi per come è, poiché è una entità finita e limitata, non raggiungerà mai
l’equilibrio e il riposo, cioè cadrà nella disperazione.
b) Se non vuole essere sé stesso, se non si accetta, se vuol essere altro-da-sé [se vuol avere la potenza e la pienezza di
vita di un dio], urta contro l’impossibilità, e anche in questo caso cadrà nella disperazione.
La disperazione è malattia mortale nel senso che è il tentativo di vivere la morte dell’io: il pensare di poter essere
autosufficiente o il voler essere Dio (il rifiutarsi di riconoscersi come finiti).
Naturalmente, la prima forma di disperazione è quella cui giunge l’uomo etico; la seconda forma di disperazione è
quella dell’esteta.
Più avanti K. afferma che nell’uomo, “sintesi di necessità e libertà”, la disperazione nasce o
a) “dalla deficienza (=il venir meno) della libertà”, della possibilità: “Trovategli una possibilità … dategli una
possibilità e il disperato … si rianima, perché se l’uomo rimane senza possibilità è come se gli mancasse l’aria”
[è evidentemente la disperazione dell’uomo etico che, radicatosi in una e una sola situazione professionale,
affettiva etc., si ritrova scontento e non riesce più a vedere vie di scampo e altre possibilità di nuova esistenza]
b) o “dalla deficienza della necessità” . In questo caso l’io fugge verso mille esperienze e possibilità, non sente alcuna
necessità, alcun obbligo sociale verso alcuno. Qui però l’individuo diventa “un miraggio”, e le sue possibilità “non
prendono piede e non si radicano in nulla”
[E’ la disperazione dell’esteta].
La fuga dalla disperazione consiste solo nell’armonia tra necessità e libertà, cioè nella fede in Gesù Cristo. La fede
radica l’uomo nella sua necessaria finitezza e nello stesso tempo gli permette di di instaurare un rapporto liberatorio con
Dio.

Ci sarebbe molto altro da dire, ma per l’esame può bastare così.


Mario Gamba, 10 dicembre 1999.

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