Sei sulla pagina 1di 5

Nichilismo o nihilismo (ingl. Nihilism; franc. Nihilisme; ted. Nihilismus).

Il termine — dal
latino nihil, nulla — indica in generale una concezione o una dottrina in cui tutto ciò che è — gli enti, le
cose, il mondo e in particolare i valori e i principi — viene negato e ridotto a nulla. La storia del
concetto mette in luce tuttavia diversi significati che vanno tenuti distinti: 1° alcune sporadiche
occorrenze, con accezioni oscillanti, si trovano anzitutto nella trattatistica teologica; 2° il primo impiego
filosofico specifico del termine si registra tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento nelle
controversie che caratterizzano la nascita dell’idealismo tedesco; 3° nella Russia della seconda
metà dell’Ottocento il N. esplode come movimento di ribellione ideologica e sociale, imponendosi su
scala generale; 4° la teorizzazione principale del N. è elaborata da Nietzsche e 5° essa esercita una vasta
influenza sul pensiero del Novecento, soprattutto tedesco (Ernst Jünger, Martin Heidegger) ma anche
francese e italiano.
1° Se si prescinde da una primissima, ma non meglio attestata occorrenza in S. Agostino, che apo-
strofa come nihilisti coloro che negano Dio, il termine compare per la prima volta nella variante nihi-
lianisrnus in Gualtiero di San Vittore, che lo usa per indicare l’eresia cristologica che nega la natura
umana di Cristo. Solo molto più tardi compare la forma nihilismus nel trattato di F.L. Goetzius De
nonismo et nihilismo in theologia (1733). Nelle lingue moderne, la prima occorrenza si trova in
francese, nella pamphlettistica della Rivoluzione. L’attributo nihiliste o rienniste venne impiegato
allora per qualificare chi non era «né per, né contro la Rivoluzione ». Anacharsis Cloots, un membro
della Convenzione nazionale che finì poi ghigliottinato, affermava che «la Repubblica dei diritti
dell’uomo non è né teista né atea, è nichilista» (discorso del 27 dicembre 1793). Occorrenze molto
precoci del termine si riscontrano anche in italiano. Pasquale Galluppi lo impiega incidentalmente nelle
Considerazioni filosofiche sull’idealismo trascendentale e sul razionalismo assoluto (1845) per
definire la posizione filosofica di Zenone di Elea che nega il movimento. Anche Carlo Cattaneo lo usa
all’incirca negli stessi anni, sia pure solo come designazione spregiativa. Ma è soprattutto Francesco
De Sanctis che se ne serve per qualificare la posizione filosofica di Leopardi che eleva il nulla a
principio di tutte le cose. Mettendo in rilievo la contraddizione tra lo struggimento poetico di
Leopardi nel nulla, da un lato, e il suo radicamento nel razionalismo illuministico, dall’altro, egli
afferma del grande poeta: «La sua volontà debole e scissa non lo lascia venire a conclusione stabile, a
coerenza filosofica, sospeso e scisso tra un N. assoluto e disperato e velleità individuali e umanitarie».
2° Un primo vero uso filosofico generalizzato del termine si registra verso la fine del XVIII secolo nelle
controversie intorno all’idealismo. Nella contrapposizione dell’idealismo al realismo e al dogmatismo, il
termine N. viene impiegato — in senso positivo o negativo, a seconda dei punti di vista — per caratte-
rizzare l’operazione filosofica mediante la quale l’idealismo intende «annullare», nella riflessione,
l’oggetto del senso comune e mostrare che esso è il prodotto di una invisibile e inconscia attività del sog-
getto. Il N. significa allora, nell’accezione positiva, la distruzione filosofica di ogni presupposto; in quella
negativa, invece, la distruzione delle evidenze e delle certezze del senso comune e l’annientamento
della realtà oggettiva. Friedrich Heinrich Jacobi accusa in questo senso l’idealismo di essere un N. La
prima esplicita occorrenza del termine è contenuta in una sua missiva a Fichte, stesa nel marzo e
pubblicata nell’autunno del 1799, nella quale egli afferma: «In verità, mio caro Fichte, non deve
infastidirmi se Lei, o chicchessia, vuole chiamare chimerismo quello che io contrappongo
all’idealismo, a cui muovo il rimprovero di N. ».
Che il termine entrasse allora in circolazione, lo conferma il fatto che esso viene usato anche da altri
autori dell’età romantica. Per esempio da Friedrich Schlegel e Jean Paul. Soprattutto quest’ultimo, nella
Clavis Fichtiana (1800) e poi in un intero capitolo della Propedeutica all’estetica (1804), critica i
«nichilisti poetici», cioè i romantici: ebbri del loro io, radicalmente «egoisti», essi celebrano
unicamente il libero gioco della fantasia, cioè l’attività spontanea dell’io creatore, e finiscono per
annientare ogni non-io, la materia, l’intero universo, Dio compreso, annegandoli nelle «onde leteiche
dell’eterno nulla». Ma siffatto ateismo spezza l’intero universo in una miriade di io isolati, senza unità
e connessione, in cui ogni io sta solo di fronte a quel Nulla al cui cospetto perfino Cristo deve disperare
dell’esistenza di Dio-padre — come Jean Paul immagina nel Discorso del Cristo morto, dall’alto
dell’universo, sulla non esistenza di Dio (1796).
Il termine N. si trova poi nel giovane Hegel. Nel saggio Fede e sapere (1802) egli prende

1
posizione in merito alla controversia tra Jacobi e Fichte, e li critica entrambi, assieme a Kant,
come dualisti, in quanto non riescono a risolvere completamente l’essere nel pensiero e rimangono
fermi a una dicotomia ontologica. Ebbene, in questo contesto Hegel afferma — contro Jacobi —
che il «N. della filosofia trascendentale» di Fichte è un passo metodologico inevitabile, ma al tempo
stesso — contro Fichte — che il suo N. è meramente relativo ed è incapace di giungere a quel
pensiero puro in cui l’opposizione all’essere è completamente superata. «Primo compito della
filosofia», «compito del N.». è di arrivare a «conoscere il nulla assoluto», cioè giungere alla
«compiutezza del vero nulla» — dove va notato che a differenza di quanto accadrà nella Scienza
della logica (1812) qui è il nulla, non l’essere, a fungere da punto di partenza. Hanno qui la loro
origine la diagnosi nichilistica della transizione al mondo moderno che Hegel sviluppa in
termini di «morte di Dio», «ateismo», «fatalismo», «pessimismo», «egoismo», «atomismo», e
la dichiarazione della necessità che la dialettica attraversi la negatività e il N., cioè il «sentimento
che Dio è morto», pur riconoscendolo come mero momento nella vita dello spirito.
In una accezione diversa il termine si trova impiegato in Franz von Baader. Nell’articolo Su
cattolicesimo e protestantesimo (1824) Baader sostiene che il protestantesimo avrebbe dato
origine, da un lato, a un «N. scientifico, distruttivo» e, dall’altro, a un «pietismo (misticismo)
non scientifico, separatista», e che il cattolicesimo deve combattere entrambe le tendenze per
ripristinare «il concetto di autorità in senso ecclesiastico, politico e scientifico contro ogni dubbio o
protesta, antichi o nuovi». Due anni dopo, nella prolusione accademica Sulla libertà dell’intelli-
genza (1826), egli definisce il N. come l’«abuso dell’intelligenza distruttivo per la religione» e lo
contrappone all’«oscurantismo», cioè alla «altrettanto riprovevole inibizione del suo uso, derivante
in parte dal timore per il sapere, in parte dal disprezzo del sapere». N. e oscurantismo, identificati
rispettivamente con l’uso troppo libero o troppo inibito della ragione, vengono entrambi
stigmatizzati come sintomi degenerativi e disgregatori della vita religiosa, sociale e civile.
Il N. è ormai una categoria di analisi e critica sociale, e tale accezione si afferma in Juan
Donoso Cortés. Nel Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo (1851) egli
considera il N. come una delle perversioni del razionalismo, cioè dell’illuminismo, affermando che
bisogna combatterne gli effetti disgregatori che portano alla negazione del governo divino e umano
delle cose.
Sta invece a sé, e viene sostanzialmente ignorato dai suoi contemporanei, il nomadismo
speculativo dell’Unico e la sua proprietà (1844) di Max Stirner, che ha un esito apertamente
nichilistico, anche se il termine non vi compare mai come tale. Stirner compendia la sua posizione
nella massima: «Io non ho fondato la mia causa su nulla» e si scaglia con furore iconoclastico contro
tutte le concezioni, le astrazioni e le idee che pretendono di rappresentare l’ineffabilità
dell’individuo.
3° Nella Russia della seconda metà dell’Ottocento il N. divenne la denominazione per indicare un
importante movimento di ribellione sociale. A rivendicare la paternità del termine in questa
accezione fu Turgenev, che nel romanzo Padri e figli (1862) definisce «nichilista» il personaggio
di Bazarov, nel quale egli dà corpo a un tipo di uomo e di atteggiamento, teorico e pratico, che
andava imponendosi nella realtà storica del suo tempo. Bazarov, che appartiene alla generazione
dei figli, incarna la figura del giovane ribelle che non crede in nulla, e che lotta contro l’ordine
inveterato e i vecchi principi dei padri; è l’«uomo nuovo» che sa di dover negare, di dover
passare sopra i frantumi delle credenze e dei valori tradizionali, per poter affermare il nuovo.
Nella figura di Bazarov — scrive Turgenev — «si compendiava ai miei occhi quell’insieme di
princìpi che fu poi chiamato N. [...] Della parola da me creata: “nichilista”, si sono valsi allora
molti che non attendevano che l’occasione, il pretesto per arrestare il movimento da cui era
trascinata la società russa». Effettivamente il N. divenne un fenomeno di portata generale che
impregnò l’atmosfera culturale dell’intera epoca. Fuoriuscendo dall’ambito delle discussioni
filosofiche esso si innestò nel tessuto della società, fondendosi a componenti anarchiche e liberta-
rie, e mettendo in moto un vasto e profondo processo di trasformazione. I teorici del N. russo
(N. A. Dobroljubov, D. Pisarev, S. G. Nečaev, M. A. Bakunin) si impegnarono in una rivolta anti-
romantica e anti-metafisica dei «figli contro i padri», contestando l’autorità e l’ordine esistente,

2
specialmente i valori della religione, della metafisica e dell’estetica tradizionali, considerate come
«nullità», come illusioni che andavano dissolte. L’elaborazione letteraria più alta della
problematica nichilista si ebbe con Dostoevskij, che diede corpo nelle figure e nelle situazioni
esistenziali create dai suoi romanzi — specialmente Delitto e castigo (1863), I demoni (1873) e I
fratelli Karamazov (1879-80) — a intuizioni e motivi filosofici che misero in circolazione l’esperienza
nichilistica e, insieme a Nietzsche, la trasmisero al pensiero novecentesco.
4° È soprattutto nell’opera di Nietzsche — specialmente nei frammenti degli anni Ottanta
pubblicati postumi nella dubbia compilazione La volontà di potenza (1901, seconda edizione più
che raddoppiata 1906) — che il N. viene fatto oggetto di una esplicita riflessione filosofica. Ma per
quale via Nietzsche arriva al problema del N.?
Da un punto di vista storico, a richiamare la sua attenzione sul fenomeno fu certamente la circo-
stanza che in quegli anni, in seguito agli attentati in Russia che portarono l’opinione pubblica a
equiparare N. e terrorismo, tutta l’Europa ne parlava. Dal punto di vista propriamente filosofico ciò
che spinse Nietzsche a occuparsene intensamente, e che ne influenzò la comprensione, furono, oltre
a Padri e figli di Turgenev, soprattutto due letture: gli Essais de psychologie contemporaine (1883)
di Paul Bourget, nei quali il N. è descritto come «male del secolo», come uno degli effetti tipici
della decadenza della società moderna e della sua vita cosmopolitica; e Dostoevskij, che
Nietzsche scoperse molto tardi, solo nel 1887, nel pieno del febbrile lavoro alla progettata Volontà
di potenza.
Ma che cos’è propriamente il N. per Nietzsche? Nel porsi egli stesso la domanda, Nietzsche
risponde: «N.: manca il fine; manca la risposta al “perché?”; che cosa significa N.? — che i valori
supremi si svalutano» (VIII, II, 12). Il N. è dunque il processo storico nel corso del quale i supremi
valori tradizionali — Dio, la verità, il bene — perdono il loro valore e periscono. Tale processo è il
tratto più profondo che caratterizza la storia del pensiero europeo come storia di una decadenza: il
suo atto originario è la fondazione della dottrina dei due mondi a opera di Socrate e Platone, vale a
dire la postulazione di un mondo ideale, trascendente, in sé, che in quanto mondo vero è
sovraordinato al mondo sensibile, considerato invece come mondo apparente. Posta questa
dicotomia che spacca l’essere in due, è già data con essa la condizione perché il mondo vero,
ideale, perda il suo valore e si svaluti fino a essere distrutto e annullato. Nietzsche distingue
diverse forme di N:
I) il N. incompleto, nel quale i vecchi valori vengono distrutti, ma i nuovi che a loro subentrano
vanno a occupare il medesimo posto dei precedenti, cioè conservano un carattere soprasensibile,
ideale. Non scompare dunque del tutto la distinzione tra mondo vero e mondo apparente. Nel N.
incompleto rimane ancora operante una fede; per rovesciare il mondo dei valori si deve ancora
credere in qualcosa, in un ideale, si ha ancora un «bisogno di verità». Come forme di N.
incompleto Nietzsche nomina: a) in ambito politico il nazionalismo, lo chauvinismo, il socialismo e
l’anarchismo; b) in ambito scientifico lo storicismo e il positivismo; c) in ambito artistico il
naturalismo e l’esteticismo francesi.
II) Il N. completo, nel quale con i vecchi valori viene distrutto anche il luogo che essi
occupavano, cioè il mondo vero, ideale, soprasensibile. Tale N. può essere: a) un N. passivo, come
il pessimismo e il buddhismo, che sono il segno di un «declino e regresso della potenza dello
spirito», incapace di raggiungere i fini finora perseguiti; b) oppure un N. attivo, cioè un segnale
della «cresciuta potenza dello spirito» la quale si esplica nel promuovere e nell’accelerare il
processo di distruzione (VII, II, 12-13; 9 [35]). Nietzsche chiama anche estrema la forma di N. attivo
che toglie di mezzo non solo i valori tradizionali, ma anche il luogo soprasensibile da loro occupato
(VIII, II, 13-14). Solo con l’abolizione del luogo ideale dei valori tradizionali si fa spazio alla
possibilità di una nuova posizione di valori: in riferimento al fatto che in tal modo il N. estremo
crea spazio e viene fuori allo scoperto, Nietzsche parla pure di N. estatico (VII, III, 222). Il carattere
negativo che connota il N. come tale viene qui trasformato in senso positivo, nella misura in cui
esso rende possibile la nuova posizione di valori basata sul riconoscimento della volontà di potenza
quale carattere fondamentale di tutto ciò che è. Il N. supera allora veramente la sua incompletezza
e diventa compiuto, cioè N. classico. È questo il N. che Nietzsche rivendica come proprio quando

3
dice di essere «il primo perfetto nichilista d’Europa, che però ha già vissuto in sé fino in fondo il
N. stesso — che lo ha dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé» (VIII, II, 392-393).
5° La teorizzazione del N. e la lungimirante previsione delle sue conseguenze, prima fra tutte la
crisi dei valori e delle risorse simboliche tradizionali, hanno fatto di Nietzsche uno dei pensatori
che più profondamente hanno influenzato l’autocomprensione filosofica del xx secolo. Nella sua
scia si collocano figure come Georg Simmel, che da Nietzsche ricava il motivo del
Kulturpessimismus e della «tragedia della cultura», Oswald Spengler con il suo Tramonto
dell’Occidente, Ludwig Klages con l’ipotesi di un antagonismo tra lo spirito, principio della
ragione e della volontà, e l’anima come principio vitale. E poi Hermann Broch con la sua analisi
della «disgregazione dei valori», Robert Musil, Heinrich e Thomas Mann, ma soprattutto Gottfried
Benn, Carl Schmitt, Ernst Jiinger e Martin Heidegger. Tutti costoro si sono cimentati a fondo con
l’ingombrante presenza di quell’«ospite inquietante» che è il N.
Memorabile al riguardo è il confronto sul N., e sulle possibilità di superarlo, che ebbe luogo
negli anni Cinquanta tra Jünger e Heidegger nel dialogo Oltre la linea (1950, 1955). Oggetto del
contendere è la «linea» del N., cioè il limite cui la nostra epoca è giunta, il «meridiano zero» oltre
il quale non valgono più i vecchi strumenti di navigazione e dove, sottoposto a un’accelerazione
tecnologica sempre più veloce, lo spirito del nostro tempo è in affanno. Ora, mentre per Jünger le
élites spirituali debbono andare in avanscoperta e oltrepassare la linea, Heidegger crede che ciò non
sia ancora possibile, e richiama a una riflessione più profonda sul N. che ne sondi i fondamenti
metafisici. Così, Jünger sviluppa una penetrante fenomenologia del N. come processo dell’ormai
ubiquo e generale «svanimento dei valori»: azzardando una terapia della malattia nichilistica,
egli raccomanda la difesa dei ristretti ma inviolabili spazi dell’interiorità individuale e delle rare
oasi di libertà — l’eros, l’arte, l’amicizia, la morte — rimaste quale ultimo baluardo in cui
resistere al «vortice del N.». Heidegger invece ritiene che, prima di voler superare il N., sia
indispensabile coglierne l’essenza, e ciò significa capire che esso non è una «macchinazione»
dell’uomo, bensì un evento che appartiene alla storia dell’essere stesso, al suo donarsi e sottrarsi
nelle diverse aperture storico-epocali della metafisica. Le tracce di questo movimento di
«donazione» e di «sottrazione» dell’essere possono essere riconosciute nei tratti fondamentali della
storia della metafisica, da Platone fino alla tecnica moderna. Quest’ultima porta a compimento il
N. in quanto considera e tratta esclusivamente l’ente, dimenticando e occultando l’essere come
tale: il N. è il destino epocale in cui dell’essere non è più niente. Per Heidegger si tratta allora di
compiere un passo indietro: non stimolare la volontà di oltrepassare il N., né allestire alla meglio
una nuova strumentazione per procedere nella navigazione a ogni costo, ma pensare a una
«topologia» del N. e individuare nella storia dell’essere il luogo essenziale in cui il destino del N.
si decide. La sola disposizione in grado di corrispondere a ciò non è la volontà di superarlo, ma la
Gelassenheit, l’«abbandono».
Il N. non è stato appannaggio solo del pensiero tedesco, ma è stato oggetto di riflessione anche
altrove, in particolare nell’esistenzialismo francese, in pensatori come Jean-Paul Sartre e Albert
Camus, nei quali il fondersi di esistenzialismo e N. ha dato un contributo fondamentale alla
chiarificazione dell’esistenza umana. Ne L’essere e il nulla (1943), per esempio, senza che il
concetto di N. venga fatto oggetto di una particolare tematizzazione, si avverte ovunque la
presenza di un atteggiamento quasi ostentatamente nichilistico, nella misura in cui il nulla e la
negatività assumono in Sartre una funzione centrale nel coglimento e nella definizione del
carattere radicalmente libero dell’esistenza umana, del per-sé, nella sua contrapposizione
all’opacità delle cose, dell’in-sé. Lo stesso vale per Camus, che ha sviluppato il tema del N. lungo
il filo conduttore dei due motivi che lo ossessionano: l’assurdo e la rivolta metafisica della
finitudine, fornendo in L’uomo in rivolta (1951) una delle analisi più illuminanti e profonde del
N.
La tematica del N. ha attecchito anche in altri luoghi e momenti del pensiero francese
contemporaneo. A dare un’idea della sua diffusa presenza sono sufficienti due nomi: George
Bataille ed Emil M. Cioran. L’opera del primo è attraversata da cima a fondo dalla lucida
consapevolezza che il N. è un’ombra costante che inevitabilmente ci accompagna quando

4
pensiamo in assenza di dèi o quando ci sforziamo di teorizzare la negatività, il limite, l’alterità.
Negli scritti del secondo vengono alla luce in maniera quasi abbagliante la disperazione e insieme
la lucidità dalle quali è sostenuto il suo N. metafisico, la malinconia e l’accanimento di cui esso si
nutre, l’empietà e al tempo stesso la devozione con cui Cioran si slancia verso quella «versione
più pura di Dio» che è per lui il Nulla.
Anche la cultura filosofica italiana è stata particolarmente sensibile al problema del N. e ha
offerto contributi di rilievo alla sua analisi. Negli anni Settanta e Ottanta si è registrata una vera e
propria efflorescenza di letteratura nichilistica, nella quale è riconoscibile l’esigenza di una
superamento del N. stesso. Ciò vale soprattutto per pensatori come Luigi Pareyson e Alberto
Caracciolo, che hanno riflettuto su tale problema a partire da una spiccata sensibilità per la
dimensione del sacro e del religioso. Ma vale, sia pure in senso diverso, anche per Gianni Vattimo,
che ha inteso valorizzare in senso positivo le potenzialità emancipative del N. (…) e per Emanuele
Severino, il quale accusa di N. l’intera filosofia occidentale in quanto essa, ammettendo il tempo e il
divenire delle cose, cioè il loro «non essere ancora» e «non essere più», pensa l’ente come se fosse
un niente .
La presenza così diffusa del N. — parola fino a qualche tempo fa riservata a poche avanguardie —
fa capire che esso è l’espressione di un profondo malessere della cultura contemporanea, il quale si
accompagna, sul piano storico-sociale, ai processi di secolarizzazione e di razionalizzazione, cioè di
disincanto e frantumazione della nostra immagine del mondo, e che ha provocato sul piano
filosofico, in merito alle visioni del mondo e ai valori ultimi, il diffondersi del relativismo e
dello scetticismo. Quale che sia l’atteggiamento che si assume nei suoi confronti, di accettazione o
di rifiuto, chiunque può vedere quanto la storia del Novecento abbia riempito questo termine, un
tempo così astratto, «di sostanza, di vita vissuta, di azioni e di dolori» (E. Jünger). [F.V.]

Tratto da Abbagnano, Fornero, Dizionario di Filosofia, UTET.

Potrebbero piacerti anche