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GIULIO RAIO
37
SE, O, p. 71 (KGA, in, 1, p. 381) (c.n.) (cfr p. 424 in questo voi.).
38
SE, O, p. 71 (KGA, in, 1, p. 381) (cfr. p. 42 in questo voi.).
39
«Ma alla fine a che ci serve l'esistenza di uno Stato, l'incremento dele università, se è in-
nanzitutto in gioco l'esistenza della filosofia sulla terra!» SE, O, p. 102 (KGA\ ni, 1, p. 421)
(cfr. p. 446 in questo voi.).
1.
Un viaggiatore che aveva visto molti paesi e popoli e più continenti, in-
terrogato su quale qualità degli uomini avesse ovunque ritrovato rispose:
essi sono inclini alla pigrizia. A molti parrà che, più giustamente e più vali-
damente, avrebbe potuto dire: sono tutti pavidi. Si nascondono dietro co-
stumi e opinioni. Ogni uomo, in fondo, sa bene di essere al mondo solo per
una volta, come un unicum, e che nessun caso, per quanto straordinario,
riuscirà una seconda volta a mescolare insieme quella molteplicità così ec-
centricamente variopinta nell'unità che egli è; questo l'uomo lo sa, ma lo
nasconde come una cattiva coscienza — perchè? Per paura del prossimo
che esige la convenzione e in essa si nasconde. Ma cosa costringe il singolo
a temere il prossimo, a pensare e agire come il gregge, a non essere lieto di
se stesso? Per alcuni, ma sono rari, forse il pudore. Per la grande maggio-
ranza è poltroneria, indolenza, in breve quell'inclinazione alla pigrizia di
cui il viaggiatore parlava. Egli ha ragione: gli uomini ancor prima che pavi-
di sono pigri e soprattutto temono gli incomodi che procurerebbe loro una
nudità e una sincerità incondizionata. Soltanto gli artisti odiano questo in-
dolente incedere ostentando maniere d'accatto e opinioni posticce e svela-
no il segreto, la cattiva coscienza di ognuno, il principio cioè che ogni uo-
mo è un miracolo irripetibile; essi soltanto osano mostrarci l'uomo nella
sua peculiarità e unicità fin nel più piccolo movimento muscolare e, ancor
più, osano mostrarci come, in questa rigorosa coerenza della sua unicità, è
bello e degno di osservazione, nuovo e incredibile come ogni opera della
natura, e niente affatto noioso. Il grande pensatore che disprezza gli uomi-
ni, ne disprezza la pigrizia: poiché a causa di questa essi appaiono simili a
prodotti di fabbrica, indifferenti, indegni di contatti e di ammaestramenti.
L'uomo che non voglia far parte della massa non ha che da smettere di es-
sere accomodante con se stesso; segua piuttosto la propria coscienza che gli
grida: «sii te stesso! Tu non sei certo ciò che fai, pensi e desideri ora».
Ogni giovane anima sente giorno e notte questo appello e ne trema; in-
fatti presagisce, rivolgendo il pensiero alla sua reale liberazione, la misura
di felicità destinatale dall'eternità; felicità che non riuscirà mai a raggiun-
gere se incatenata dalle opinioni e dalla paura. E quanto assurda e desolata
può divenire l'esistenza senza questa liberazione! Nella natura non c'è
creatura più vuota e ripugnante dell'uomo che è sfuggito al suo genio e ora
volge di soppiatto lo sguardo a destra e a sinistra, indietro e ovunque. Un
tale uomo alla fine non lo si può neppure attaccare: è solo esteriorità senza
nucleo, un marcio costume, pitturato e rigonfio, un fantasma agghindato
che non può ispirare paura e tanto meno compassione. E se a ragione si di-
ce del pigro che ammazza il tempo, allora ci si deve preoccupare sul serio
che un tempo che pone la propria salvezza nelle opinioni pubbliche, e cioè
nelle pigrizie private, sia ucciso una buona volta: venga, intendo dire, can-
400 SCHOPENHAUER COME EDUCATORE [1]
celiato dalla storia della vera liberazione della vita. Con quanta ripugnanza
si occuperanno le generazioni future dell'eredità di un'epoca in cui a go-
vernare non erano uomini viventi ma parvenze di uomini con un'opinione
pubblica; per questo forse la nostra epoca apparirà a una qualche lontana
posterità il periodo della storia più oscuro e più ignoto perché più inuma-
no. Vado per le nuove strade delle nostre città e penso che di tutte queste
orribili case, che la generazione dell'opinione pubblica si è costruita, tra un
secolo non rimarrà nulla, e che saranno finalmente crollate anche le opi-
nioni dei costruttori di tali case. Quante speranze debbono nutrire, invece,
tutti coloro che non si sentono cittadini di questo tempo; se lo fossero, in-
fatti, si adoprerebbero a uccidere il proprio tempo e a perdersi con esso —
mentre vogliono piuttosto ridestare alla vita il tempo per continuare essi
stessi a vivere in questa vita.
Ma anche se il futuro non ci lasciasse speranze — la nostra straordinaria
esistenza proprio nel suo ora ci dà forza più di ogni altra cosa a vivere se-
condo una legge e una misura nostra: quel qualcosa d'inesplicabile per cui
noi viviamo, proprio oggi, pur avendo avuto il tempo infinito per nascere,
per cui nuli'altro possediamo se non un oggi brevissimo e in esso dobbia-
mo mostrare perché e a che scopo siamo nati proprio ora. Noi siamo re-
sponsabili davanti a noi stessi della nostra esistenza; quindi vogliamo esse-
re i veri timonieri di questa esistenza e non permettere che assomigli a pura
accidentalità senza pensiero. Con essa bisogna saper trattare con audacia,
esponendosi al rischio: tanto più che, sia nel migliore che nel peggiore dei
casi, la perderemo. Perché allora essere attaccati a questa zolla, a questo
mestiere, perché drizzare le orecchie per sentire ciò che dice il prossimo? È
così provinciale sentirsi vincolati a opinioni che a distanza di qualche centi-
naio di miglia già non sono più vincolanti. Oriente e occidente sono segni
di gesso che qualcuno traccia davanti ai nostri occhi per prendersi gioco
della nostra pavidità. Voglio tentare di raggiungere la libertà, si dice la gio-
vane anima: ed ecco che dovrebbero impedirglielo due nazioni che per caso
si odiano e si combattono, o un mare che divide due continenti, o il fatto
che ovunque si insegna una religione che duemila anni fa ancora non esi-
steva. Tu non sei tutto questo, si dice la giovane anima. Nessuno può co-
struirti il ponte sul quale tu devi attraversare il fiume della vita, nessuno se
non tu stessa. Ci sono sì infiniti sentieri e ponti e semidei pronti a portarti
oltre il fiume; ma solo al prezzo di te stessa: tu daresti in pegno te stessa e ti
perderesti. Nel mondo esiste una sola strada che nessuno, se non tu, può
percorrere: dove conduce? Non domandare, ma seguila! Di chi era la frase
«Mai uomo si innalza tanto come quando non sa dove può condurlo la sua
strada»?
Ma come possiamo ritrovare noi stessi? Come può l'uomo conoscersi? È
una cosa oscura e velata; e se la lepre ha sette pelli l'uomo può toglierne
sette volte settanta e neppure allora potrà dire: «questo ora sei realmente
tu, non è più scorza». Inoltre, scavare se stessi in questo modo e sprofon-
dare così per la via più diretta nel pozzo della propria esistenza, è un inizio
tormentoso e azzardato. Con che facilità ci si possono produrre cosi delle
ferite che nessun medico può sanare. E per giunta: a che scopo ciò sarebbe
necessario, quando tutto testimonia del nostro essere: le nostre amicizie e
le nostre inimicizie, il nostro sguardo, la nostra stretta di mano, la nostra
memoria e ciò che dimentichiamo, i nostri libri e i tratti della nostra penna.
Ma ecco il mezzo per realizzare l'interrogatorio più importante. Guardi la
giovane anima indietro nella propria vita, e si chieda: che cosa hai vera-
mente amato finora, che cosa ha attratto la tua anima, che cosa l'ha domi-
SCHOPENHAUER COME EDUCATORE [2] 401
nata e allo stesso tempo resa felice? Allinea davanti a te questi venerati og-
getti ed essi, forse, con il loro essere e la loro successione, ti daranno una
legge, la legge fondamentale di te stesso. Confronta questi oggetti e osser-
va come l'uno completi l'altro, lo ampli, lo superi e lo trasfiguri fino a for-
mare una scala su cui tu finora ti sei arrampicato alla conquista di te stes-
so; la tua vera essenza infatti non sta profondamente celata dentro di te,
ma smisuratamente al di sopra di te o, almeno, al di sopra di ciò che tu sei
solito considerare il tuo io. I tuoi veri educatori e formatori ti svelano il
senso originario e la materia fondamentale del tuo essere, qualcosa che
non si può assolutamente educare né formare, ma in ogni caso di difficile
accesso, perché legato, paralizzato: i tuoi educatori non possono essere
nient'altro che i tuoi liberatori. E questo è il segreto di ogni formazione:
essa non dà membra artificiali, nasi di cera, occhi occhialuti — doni che
solo la falsa immagine dell'educazione può dare. Essa è vera liberazione,
rimozione di tutte le erbacce, rifiuti e parassiti che minacciano i delicati se-
mi delle piante, è emanazione di luce e di calore, tenero scroscio di pioggia
notturna, essa è imitazione e venerazione della natura, quando questa si
mostra materna e misericordiosa, e ne è perfezionamento, quando ne pre-
viene gli attacchi terribili e spietati volgendoli al bene, quando stende un
velo sulle manifestazioni del suo animo matrigno e della sua triste follia.
Certo esistono altri mezzi per ritrovarsi, per rinvenire dall'intontimento
in cui, come in una fosca nube, si vive normalmente: io però non conosco
nulla di meglio che ricordarsi dei propri educatori e formatori. Pertanto
oggi voglio essere memore di quell'educatore e maestro severo, del quale
posso vantarmi, che fu Arthur Schopenhauer, per ricordarne, in seguito,
altri.
2.
Per descrivere quale avvenimento fu per me il primo sguardo gettato agli
scritti di Schopenhauer mi sia concesso soffermarmi su un'immagine che,
nella mia gioventù, fu frequente e insistente come nessun'altra. Quando un
tempo mi abbandonavo, a mio piacimento, ai desideri, pensavo che il de-
stino mi avrebbe esonerato dalla tremenda fatica e dal dovere di autoedu-
carmi purché trovassi, al momento giusto, un filosofo come educatore, un
vero filosofo, a cui si potesse ubbidire senza ulteriori ripensamenti, perché
si sarebbe riposta in lui una fiducia più grande di quella in se stessi. Così
mi chiedevo: quali saranno mai i princìpi secondo cui ti educherà? e riflet-
tevo su che cosa avrebbe detto circa le due massime dell'educazione che so-
no in voga nel nostro tempo. La prima richiede che l'educatore riconosca
subito la forza precipua dei suoi allievi e, quindi, indirizzi tutte le energie e
tutte le linfe, e ogni raggio di sole proprio in quella direzione, per aiutare
quell'unica virtù a raggiungere la giusta maturazione e fecondità. La se-
conda massima, invece, richiede che l'educatore faccia crescere tutte le for-
ze a disposizione, le curi e le porti a un rapporto armonico tra loro. Ma per
questo si dovrebbe forse costringere alla musica chi ha una spiccata attitu-
dine all'arte dell'orafo? Si deve dunque dare ragione al padre di Benvenuto
Cellini che affliggeva di continuo il figlio con il «lascivissimo cornetto» che
il figlio chiamava «quel maledetto sonare»? Nel caso di attitudini sì forti e
che si manifestano decisamente non si può considerare giusto questo tipo
di educazione; e forse allora quella massima dell'educazione armonica sarà
da applicarsi alle nature più deboli in cui è sì presente un'intera nidiata di
bisogni e inclinazioni che, però, presi nella loro complessità o singolarmen-
402 SCHOPENHAUER COME EDUCATORE [2]
te, non vogliono poi significare molto. Ma dove troviamo in un'unica na-
tura quella totalità armonica e consonanza polifonica, dove ammiriamo
più armonia, se non proprio in quegli uomini, del tipo di Cellini, nei quali
tutto, conoscere, desiderare, amare, odiare, tende verso un centro, verso
una forza radicale, dove appunto per il sovrappotere cogente e dominante
di questo centro vitale si forma un sistema armonico di movimenti in tutte
le direzioni? E così forse le due massime non sono affatto dei contrari?
Forse l'una dice soltanto che l'uomo deve avere un centro, mentre l'altra
afferma che deve avere anche una periferia? Quel filosofo educatore, che
vagheggiavo per me, non solo avrebbe scoperto quella forza centrale, ma
avrebbe, anche, saputo impedire che essa avesse un'azione distruttrice ri-
spetto alle altre forze: anzi, compito della sua educazione sarebbe stato —
almeno così ritenevo — trasformare l'uomo nella sua totalità fino a farne
un sistema solare e planetario vivo e in movimento e riconoscere la legge
della sua meccanica superiore.
Frattanto un tal filosofo mi mancava e io tentai invano con questo e
con quello; scoprii così quanto sia misera la nostra condizione rispetto ai
Greci e ai Romani, anche solo dal punto di vista di una concezione seria e
rigorosa dei compiti dell'educazione. Con un tal bisogno nel cuore si può
correre per tutta la Germania, andando, perfino, in tutte le università e
non si troverà ciò che si cerca; anzi, desideri molto più semplici e meno ele-
vati vi rimangono inadempiuti. Chi, per esempio, tra i Tedeschi volesse se-
riamente formarsi come oratore o chi intendesse recarsi in una scuola per
scrittori, non troverebbe né scuola né maestri; sembra che qui non si sia
mai riflettuto sul fatto che parlare e scrivere sono arti che non si possono
acquistare senza la più accurata direzione e i più faticosi anni di apprendi-
stato. Nulla rivela in modo tanto chiaro e allo stesso tempo tanto umiliante
il presuntuoso autocompiacimento dei contemporanei come la meschinità,
per metà taccagna e per metà priva di pensiero, delle loro pretese verso
educatori e maestri. Di che cosa non ci si contenta, persino tra la nostra
gente più nobile e meglio istruita, sotto il nome di precettori: quale guazza-
buglio di teste stravaganti e di istituzioni invecchiate viene spesso indicato
come ginnasio ed è considerato buono; di che cosa non ci accontentiamo
noi tutti, come supremo istituto di istruzione, come università: quali gui-
de, quali istituzioni, paragonati alla difficoltà del compito di educare un
uomo ad essere un uomo! Perfino il modo degli eruditi tedeschi di dedicar-
si alla scienza, pur se tanto ammirato, mostra soprattutto come essi, nel
far ciò, pensano più alla scienza che all'umanità, che sono addestrati a sa-
crificarsi ad essa come una perduta schiera per spingere a loro volta nuove
generazioni ad immolarvisi. Il commercio con la scienza, se non è guidato,
né limitato da una massima superiore dell'educazione, ma è sempre più
scatenato secondo il principio «tanto più tanto meglio», è certamente dan-
noso per i dotti quanto lo è la teoria economica del laisserfaire per la mo-
ralità di popoli interi. Chi sa ancora che l'educazione del dotto, la cui uma-
nità non deve essere abbandonata o fatta insecchire, è un problema di
grandissima difficoltà? — Eppure tale difficoltà salta agli occhi, basta fare
attenzione ai numerosi esemplari, che per una dedizione sconsiderata e
troppo precoce alla scienza, si sono incurviti o si distinguono per la gobba.
Ma ben altra testimonianza esiste per l'assenza di ogni educazione superio-
re, testimonianza più importante e più pericolosa, ma soprattutto più gene-
rale. Se è immediatamente chiaro perché oggi non si può educare un orato-
re o uno scrittore — appunto per il motivo che per loro non esistono edu-
catori —; se è quasi altrettanto chiaro perché oggi un dotto deve essere de-
SCHOPENHAUER COME EDUCATORE [2] 403
dovevo leggere il grande testamento in cui prometteva di fare suoi eredi so-
lo coloro che volessero e potessero essere più che suoi semplici lettori: cioè
suoi figli e discepoli.
3.
La mia valutazione di un filosofo dipende dalla misura in cui egli è in
grado di dare un esempio. Non c'è dubbio, infatti, che con l'esempio si
possa trascinare interi popoli: la storia indiana, che è quasi la storia della
filosofia indiana, lo dimostra. Ma l'esempio deve esser dato dalla vita visi-
bile e non solo dai libri, e pertanto, come insegnavano i filosofi della Gre-
cia, più con l'impressione, il comportamento, il vestito, il cibo e i costumi
che non con il parlare o addirittura con lo scrivere. Da noi, in Germania,
manca tutto per avere questa coraggiosa visibilità di una vita filosofica;
qui i corpi si liberano a poco a poco, quando sembra che già da molto gli
spiriti si siano liberati; e tuttavia è solo un'illusione che uno spirito sia libe-
ro e indipendente, se questa illimitatezza raggiunta — che in fondo è auto-
limitazione creativa — non è sempre di nuovo dimostrata da ogni sguardo
e da ogni passo, dalla mattina alla sera. Kant rimase attaccato all'universi-
tà, si sottomise ai governi, rimase nell'apparenza di una fede religiosa, la
sopportò tra colleghi e studenti: quindi è naturale che il suo esempio abbia
prodotto soprattutto professori di università e filosofia professionale.
Schopenhauer ebbe poco a che fare con le caste dei dotti, se ne separò, mi-
rò all'indipendenza dallo Stato e dalla società — ecco il suo esempio, il suo
modello — per prendere qui le mosse dagli elementi più esteriori. Ma molti
gradi della liberazione della vita filosofica tra i Tedeschi sono ancora sco-
nosciuti e non potranno rimanere tali in eterno. I nostri artisti vivono in
modo più audace e sincero; e l'esempio che più potente si offre ai nostri
occhi, quello di Richard Wagner, mostra come il genio non debba temere
di entrare nella contraddizione più ostile con gli ordinamenti e le forme esi-
stenti, se vuole mettere in piena luce l'ordine superiore e la verità che vivo-
no in lui. La «verità» però di cui i nostri professori tanto parlano, in realtà
ci appare come un qualcosa senza grandi pretese, da cui non c'è da aspet-
tarsi né disordini né cose straordinarie: una creatura tranquilla e benevola
che si affanna a rassicurare tutti i poteri esistenti che nessuno, a causa sua,
avrà dei fastidi; in fondo non è che «pura scienza». Dunque, io volevo dire
che la filosofia in Germania deve sempre di più disimparare a essere
«scienza pura»: e appunto questo è l'esempio dell'uomo Schopenhauer.
È niente meno che un miracolo, che egli sia riuscito ad acquistare la di-
mensione di esempio per gli uomini: era assalito, infatti, dai più tremendi
pericoli, sia dall'esterno che dall'interno, pericoli da cui qualsiasi creatura
più debole sarebbe stata oppressa e mandata in frantumi. V'era tutta l'ap-
parenza, credo, che l'uomo Schopenhauer sarebbe tramontato lasciando
dietro di sé come residuo, nel migliore dei casi, «scienza pura»: ma anche
questo solo nel migliore dei casi; molto più probabilmente non sarebbe ri-
masto né l'uomo né la scienza.
Così un inglese moderno descrive il pericolo più comune per uomini
straordinari, che vivano in una società legata a ciò che è banale: «Questi
strani caratteri dapprima si piegano, poi si immalinconiscono, quindi si
ammalano e, infine, muoiono. Uno Shelley non avrebbe potuto vivere in
Inghilterra, e una razza di Shelley non sarebbe stata possibile». I nostri
Hòlderlin e Kleist e tanti altri, perirono per la loro straordinarietà e non
sopportarono il clima della cosiddetta cultura tedesca; solo nature di ferro
SCHOPENHAUER COME EDUCATORE [3] 407
ovunque in modo diverso da come pensano: e, pur non volendo altro che
verità e sincerità, intorno a loro s'intreccia una rete di malintesi; e la loro
veemente aspirazione non può impedire che sulle loro azioni permanga una
nube di false opinioni, di adeguamento, di mezze ammissioni, di pietosi si-
lenzi e di interpretazioni errate. Tutto ciò addensa una nube di malinconia
sulla loro fronte: tali nature infatti più che la morte odiano l'apparenza
che diventa necessità; e l'amarezza continua che ne deriva li rende vulcani-
ci e minacciosi. Di tanto in tanto si vendicano del loro forzato nascondersi,
della riservatezza imposta. Escono dalle loro caverne con espressioni tre-
mende: allora le loro parole e le loro azioni sono esplosioni ed è possibile
che causino la loro stessa rovina. In tanta pericolosità visse Schopenhauer.
Proprio questi solitari hanno bisogno di amore, di compagni con cui poter
essere aperti e semplici come con se stessi, alla cui presenza lo spasimo del
silenzio e della finzione abbia tregua. Se togliete loro tali compagni, au-
menterete il pericolo. Heinrich von Kleist perì per non essere amato; il più
terribile antidoto contro uomini straordinari è infatti respingerli nel pro-
fondo di se stessi in modo tale che ogni nuova sortita debba avvenire come
un'esplosione vulcanica. Tuttavia c'è sempre un semidio che sopporta di
vivere a queste tremende condizioni e di vivere vittoriosamente; e se volete
ascoltare i suoi canti solitari, ascoltate la musica di Beethoven.
Il primo pericolo all'ombra del quale Schopenhauer crebbe fu dunque
l'isolamento. Il secondo è il disperare della verità. Questo pericolo accom-
pagna ogni pensatore che, partendo dalla filosofia kantiana, percorra una
strada propria, premesso che sia un uomo possente e completo, nel dolore
come nelle aspirazioni, e non soltanto una strepitante macchina per pensa-
re e calcolare. Ora noi tutti sappiamo bene in che stato vergognoso ci si
trovi con questa premessa. A me sembra addirittura che Kant sia penetrato
in modo vivo solo in pochissimi uomini trasformandone sangue e linfa.
Certo, come si può leggere ovunque, dall'epoca dell'azione di questo silen-
zioso dotto sarebbe scoppiata in tutti i campi dello spirito una vera e pro-
pria rivoluzione, ma io non posso crederci. Infatti non lo vedo con chiarez-
za in uomini, che anzitutto avrebbero dovuto essere rivoluzionati loro, pri-
ma che tale rivoluzione potesse avvenire in interi campi dello spirito. Non
appena, però, Kant dovesse incominciare ad esercitare un'influenza popo-
lare, questa la percepiremmo nella forma di uno scetticismo e relativismo
corrosivo, che manda tutto in briciole; e solo negli spiriti più attivi e più
nobili, che non sono mai riusciti a vivere nel dubbio, subentrerebbe invece
quello sgomento e quel disperare di ogni verità, quali, ad esempio, li visse
Heinrich von Kleist, come effetto della filosofia kantiana. «Di recente —
scrive in quel suo stile che coinvolge — ho fatto conoscenza con la filosofia
kantiana — e devo comunicarti un pensiero che me ne è nato, non dovendo
temere che possa scuoterti così profondamente e dolorosamente come me.
— Noi non possiamo decidere se ciò che chiamiamo verità sia veramente
verità o se solo ci sembri tale. Se si tratta della seconda ipotesi allora la ve-
rità che noi qui raccogliamo, dopo la morte che non è più nulla e ogni aspi-
razione e affanno per conquistarci una proprietà, che ci segua anche nella
tomba, è vano. — Se la punta di questo pensiero non ti trafigge il cuore,
non sorridere di chi invece se ne sente ferito nel più sacro del suo intimo. II
mio unico e massimo fine è caduto ed io non ne ho più alcuno.» Sì, quan-
do di nuovo gli uomini sentiranno in questo modo kleistianamente natura-
le, quando impareranno di nuovo a misurare il senso di una filosofia sulla
loro «più sacra intimità»? Eppure tutto ciò è della massima necessità per
poter valutare cosa significhi per noi, dopo Kant, proprio Schopenhauer
SCHOPENHAUER COME EDUCATORE 13] 409
— la guida, cioè, che dalle caverne del malumore scettico e della rinuncia
critica conduce in alto, verso la sommità della contemplazione tragica, —
il cielo notturno con le sue stelle infinitamente sopra di noi — e che, per
primo, ha condotto su questa strada se stesso. Questa è la sua grandezza:
nell'essersi posto di fronte al quadro della vita come di fronte ad un tutto,
per interpretarlo come un tutto; mentre le teste più acute non riescono a li-
berarsi dall'errore che a questa interpretazione si possa giungere solo ana-
lizzando minuziosamente i colori e la materia su cui questo quadro è stato
dipinto; col solo risultato, forse, che si tratta di una tela dalla tessitura in-
tricatissima e di colori che non si possono analizzare chimicamente. Biso-
gna indovinare il pittore per poterne intendere il quadro, — e Schopen-
hauer questo lo sapeva. Ora tutta la congrega di tutte le scienze si sforza di
capire quella tela e quei colori, ma non il dipinto; si può, anzi, dire che so-
lo colui che ha compreso e fissato nei suoi occhi il quadro generale della vi-
ta e dell'esistenza, potrà servirsi, senza suo danno, delle varie scienze, giac-
ché senza questo quadro d'insieme regolatore, esse non sono che fili che
non portano mai alla fine e rendono lo svolgersi della nostra vita ancor più
confuso e labirintico. Proprio in questo — come ho detto — Schopenhauer
è grande, perché persegue quel quadro come Amleto lo spirito, senza farsi
mai distrarre, come fanno gli eruditi, o senza rimanere impigliato nella
scolastica concettuale, sorte questa dei dialettici sfrenati. Lo studio di tutti
i mezzi-filosofici è attraente soltanto per conoscere che essi, nella costru-
zione di grandi filosofie, si fermano subito dove è accademicamente il prò
e il contro, dove è permesso rimuginare, dubitare, contraddire, e, così,
sfuggono all'esigenza di ogni grande filosofia che, in quanto totalità, af-
ferma sempre e soltanto: questo è il quadro di tutta la vita, e da ciò impara
il senso della tua. E per converso: leggi soltanto la tua vita e da essa com-
prendi i geroglifici della vita universale. E così anche dovrebbe essere, in
primo luogo, interpretata la filosofia di Schopenhauer: individualmente
dal singolo, cioè, solo per se stesso, per prendere coscienza della propria
miseria e dei propri bisogni nella propria limitatezza, per imparare a cono-
scere i rimedi e le consolazioni: cioè sacrificio dell'Io, sottomissione ai più
nobili scopi, soprattutto a quelli della giustizia e della misericordia. Egli ci
insegna a distinguere tra le fonti reali e quelle illusorie della felicità umana:
come né l'arricchirsi, né l'essere onorati, né l'essere dotti possa sollevare il
singolo dalla amarezza per la mancanza di valore della propria esistenza, e
come, invece, l'aspirazione a questi beni abbia senso solo se inserita in uno
scopo globale superiore e trasfigurante: conquistare potere per aiutare con
esso la physìs, correggendone un po' le follie e goffaggini. Dapprima certo
ancora per se stessi soltanto; ma attraverso se stessi, infine, per tutti. È
un'aspirazione questa che certo porta, nel profondo del cuore, alla rasse-
gnazione: che cosa, infatti, e di quanto, può ancora esser migliorato sia nel
singolo che nel generale!
Se applichiamo queste parole proprio a Schopenhauer, tocchiamo il ter-
zo e più caratteristico pericolo in cui egli visse e che era insito in tutta la
struttura e ossatura del suo essere. Ogni uomo è solito trovare in se stesso
una limitazione sia della sua attitudine che della sua volontà morale, che Io
riempie di struggente desiderio e di malinconia; e, come dal sentimento
della propria inclinazione al peccato aspira al Santo, così in quanto essere
intellettuale, ha in sé un profondo anelito al Genio. Ecco la radice di ogni
vera cultura; e intendendo con questo l'anelito degli uomini a rinascere co-
me Santi o come Geni, so perfettamente che non c'è bisogno di essere bud-
disti per intendere questo mito. Quando troviamo il talento senza quell'a-
410 SCHOPENHAUER COME EDUCATORE (3]
physis trasfigurata. Questo anelito è però anche il loro pericolo, in essi il ri-
formatore della vita combatte con il filosofo, vale a dire con il giudice della
vita. Qualunque sia la parte verso cui la vittoria inclina, si tratta sempre di
una vittoria che include una sconfitta. E come potè dunque Schopenhauer
sfuggire anche a questo pericolo?
Se ogni grande uomo, di preferenza, è considerato proprio come l'auten-
tico figlio del suo tempo — e comunque soffre di tutti i suoi malanni con
maggiore intensità e sensibilità di tutti gli altri uomini più piccoli — la lotta
di un tale grande contro la sua epoca è solo apparentemente una battaglia
insensata e deleteria contro se stesso. Ma appunto solo apparentemente;
poiché nel suo tempo egli combatte ciò che gli impedisce di essere grande, e
ciò in lui non significa altro che essere liberamente e completamente se
stesso. Ne consegue che la sua inimicizia in fondo è indirizzata contro ciò
che è sì in lui stesso, ma che però non è propriamente lui stesso, cioè contro
l'impuro mescolarsi e coesistere di ciò che è immescolabile e non unificabi-
le in eterno, contro la falsa saldatura dell'attuale al suo inattuale; e alla fi-
ne il presunto figlio si rivela figliastro del suo tempo. Così Schopenhauer
fin dalla prima gioventù si ribellò a quella falsa, vana e indegna madre che
era la sua epoca, e mentre, per così dire, la cacciava via da sé, purificava e
sanava il suo essere e ritrovava se stesso nella salute e nella purezza che gli
erano proprie. Perciò gli scritti di Schopenhauer si debbono utilizzare co-
me specchio del tempo: e certamente non dipende da un difetto dello spec-
chio se in esso ogni attualità appare solo come una malattia deturpante,
come magrezza o pallore, come occhi incavati e volti spossati, quasi soffe-
renze riconoscibili di quell'essere figliastro. La nostalgia per una natura
forte, per una umanità sana e semplice, in lui era nostalgia di se stesso; e
non appena in sé ebbe vinto il tempo, dovette anche vedere, con occhio an-
che stupito, il Genio che era in lui. Ora il segreto del suo essere gli era sve-
lato, resa vana l'intenzione di quella matrigna — l'epoca — di nasconder-
gli il Genio: il regno della physis trasfigurata era scoperto. Ora volgendo lo
sguardo impavido alla domanda: «qual è il valore in assoluto dell'esisten-
za?» non doveva più condannare un'epoca confusa e sbiadita insieme alla
sua vita torbida e ipocrita. Ben sapeva che su questa terra si può trovare e
raggiungere qualcosa di più alto e più puro di una simile vita attuale e che
chiunque giudichi e conosca l'esistenza solo sulla base di questa odiosa for-
ma, le fa una amara ingiustizia. No, ora il genio stesso viene invocato per
sentire se questo, il supremo frutto della vita, possa forse giustificare la vi-
ta in generale; l'uomo magnifico e creatore dovrà rispondere alla doman-
da: «approvi tu dunque, nel profondo del tuo cuore, questa esistenza? Ti è
sufficiente? Vuoi esserne il difensore e il redentore? Soltanto un unico e
sincero sì! dalla tua bocca — e la vita così pesantemente sotto accusa sarà
libera». —
Quale sarà la sua risposta? — Quella di Empedocle.
4.
Non ha importanza se quest'ultimo accenno rimarrà per ora incompre-
so: ora mi interessa qualcosa di molto più accessibile, e cioè spiegare come
noi tutti attraverso Schopenhauer possiamo educarci contro il nostro tem-
po — poiché abbiamo il vantaggio, grazie a lui, di conoscerlo veramente.
Ammesso che sia un vantaggio! È certo tuttavia che tra un paio di secoli
ciò non sarebbe proprio più possibile. Mi diverto all'idea che gli uomini
ben presto saranno finalmente stufi di leggere e così pure gli scrittori; che
SCHOPENHAUER COME EDUCATORE [4] 413
cupo di un tipo di uomini la cui teleologia addita un po' oltre il bene di uno
Stato, cioè dei filosofi, e anche di questi solo riguardo a un mondo a sua
volta abbastanza indipendente dal bene dello Stato, quello della cultura.
Dei molti anelli che, messi alla rinfusa, formano la comunità umana, alcu-
ni sono d'oro altri di similoro.
Com'è dunque che il filosofo considera la cultura nella nostra epoca?
Certo in modo diverso da quei professori di filosofia soddisfatti del loro
Stato. Se considera la fretta generale, la crescente velocità di caduta, la fi-
ne di ogni contemplatività e semplicità, è quasi come se avvertisse i sintomi
di una completa distruzione e sradicamento della cultura. Le acque della
religione si ritirano lasciando acquitrini e paludi; di nuovo le nazioni si di-
vidono nella massima ostilità e bramano dilaniarsi. Le scienze, esercitate
senza alcuna misura e nel più cieco laisser faire, sminuzzano e dissolvono
ogni salda credenza; i ceti e gli stati civili vengono travolti da una econo-
mia del denaro enormemente spregevole. Mai il mondo fu più mondo, più
povero di amore e di bontà. I ceti colti non rappresentano più il faro o l'a-
silo in mezzo a tutta questa inquietudine di secolarizzazione; essi stessi,
giorno per giorno, si fanno più irrequieti, privi di pensiero e di amore. Tut-
to serve alla barbarie ventura, comprese l'arte e la scienza attuali. La per-
sona colta è degenerata ormai nel nemico più grande della cultura, perché
vuole negare la malattia generale ed è di impedimento ai medici. Questi po-
veri diavoli, ormai allo stremo delle forze, si amareggiano se si parla della
loro debolezza o se ci si oppone al loro dannoso spirito menzognero. An-
che troppo volentieri vorrebbero far credere di aver riportato la vittoria su
tutti i secoli e si muovono con artificiosa allegria. Il loro modo di fingere
felicità ha intanto qualcosa di toccante, perché la loro felicità è del tutto in-
concepibile. Non si vorrebbe neppure porre loro la domanda di Tannhàu-
ser a Biterolf: «Che cosa hai mai goduto tu, disgraziato?». Infatti, ohimè,
noi stessi già sappiamo tutto meglio e diversamente! Su di noi incombe un
giorno invernale, e noi abitiamo sugli alti monti, pericolosamente e nella
miseria. Breve è ogni gioia e pallido ogni raggio di sole che sulle bianche
montagne scivola fino a noi. Ma ecco risuonare della musica: un vecchio
gira un organetto, i ballerini volteggiano — a questa vista il viandante è
sconvolto: così selvaggio, così chiuso, così incolore, così privo di speranza
è il tutto, ed ecco, qui, un suono di gioia, di vera gioia spensierata! Ma già
avanzano furtive le nebbie della prima sera, il suono si smorza, il passo del
viandante scricchiola; fin dove il suo sguardo si spinge, non vede che il vol-
to desolato e terribile della natura.
Ammesso, però, che mettere in risalto solo la debolezza delle linee e l'ot-
tusità dei colori nel quadro della vita moderna sia troppo unilaterale, l'al-
tro lato non è affatto più rallegrante, ma anzi tanto più inquietante. Vi so-
no certo forze, forze enormi, ma selvagge, primordiali e del tutto impieto-
se. In angosciosa attesa si guarda ad esse come al crogiuolo della cucina di
una strega: da un momento all'altro può esserci un sussulto o un lampo ad
annunciare apparizioni tremende. Da un secolo siamo preparati a vere e
proprie scosse dalle fondamenta; e se di recente si è cercato di contrappor-
re a questa profondissima tendenza moderna a rovinare o a esplodere, la
forza costitutiva del cosiddetto Stato nazionale, anche questo, per molto
tempo ancora, non sarà altro che un incremento alla insicurezza e alla mi-
naccia generale. Che i singoli si comportino come se non sapessero nulla di
queste angosce, non ci induce in errore: la loro inquietudine è testimonian-
za di quanto invece ne siano pienamente consapevoli; essi pensano a se
stessi con una furia ed una esclusività con cui mai degli uomini hanno pen-
SCHOPENHAUER COME EDUCATORE [4] 415
sato a se stessi. Essi costruiscono e piantano per il loro giorno, e la caccia
alla felicità non potrà mai essere più grande di quando dev'essere afferrata
tra l'oggi e il domani: perché dopo domani, forse, la stagione della caccia
sarà definitivamente chiusa. Noi viviamo l'epoca degli atomi, del caos ato-
mistico. Le forze ostili nel medioevo furono, più o meno, tenute insieme
dalla Chiesa e, per la forte pressione esercitata da questa, assimilate in
qualche modo l'una all'altra. Quando il vincolo si spezza e la pressione di-
minuisce, ognuno insorge contro l'altro. La Riforma dichiaro molte cose
come adiaphora, àmbiti cioè che non dovevano essere determinati dal pen-
siero religioso; questo fu il prezzo a cui le venne concesso di vivere: come
già il cristianesimo, opponendosi alla ben più religiosa antichità, affermò
la sua esistenza a un pari prezzo. Da quel momento (a spaccatura andò al-
largandosi sempre di più. Ora quasi tutto sulla terra è determinato dalle
forze più rozze e peggiori, dall'egoismo degli affaristi e dai tiranni militari.
Lo Stato, nelle mani di questi ultimi — così come l'egoismo degli affaristi
— fa certo il tentativo di riorganizzare tutto di sua iniziativa ed essere,
quindi, vincolo e pressione per tutte quelle forze ostili: desidera, cioè, che
gli uomini abbiano verso di lui la stessa idolatria che prima riservavano al-
la Chiesa. Ma con quale successo? È ancora da vedersi; ancora ci troviamo
in ogni caso nella corrente trascinatrice di ghiacci del Medioevo; è comin-
ciato il disgelo e un violento movimento devastatore ha avuto inizio. La-
stre di ghiaccio precipitano su lastre di ghiaccio, tutte le rive sono inonda-
te, minacciate. Non si può assolutamente evitare la rivoluzione, quella ato-
mistica; ma quali sono gli elementi più piccoli e indivisibili della società?
Non c'è dubbio che con l'avvicinarsi di tali periodi l'umano è forse in un
pericolo maggiore che non durante il crollo e il vortice caotico stesso, e che
questa angosciosa attesa e lo sfruttamento avido del minuto fanno emerge-
re tutte le viltà e i più egoistici istinti dell'anima. Mentre la reale calamità
e, soprattutto, la generalità di una grande calamità, di solito, migliora e ri-
scalda gli uomini. Chi dunque, in questi pericoli della nostra epoca, dedi-
cherà i suoi servigi di guardia e di cavaliere sàY umanità, al sacro e inviola-
bile tesoro del tempio, che le più diverse generazioni, a poco a poco, hanno
raccolto? Chi terrà alta Yìmmagine dell'uomo, mentre tutti gli altri sento-
no in sé soltanto il verme dell'egoismo e la vile paura, e tanto sono decadu-
ti da quell'immagine da ridursi alla bestialità o addirittura alla rigida mec-
canicità?
Tre sono le immagini dell'uomo che la nostra epoca moderna ha innal-
zato, l'una dopo l'altra, e dalla cui vista i mortali, certo per molto tempo
ancora, prenderanno l'impulso per una trasfigurazione della propria vita:
queste sono l'uomo di Rousseau, l'uomo di Goethe e infine l'uomo di
Schopenhauer. Di queste, la prima immagine ha il fuoco maggiore e certa-
mente l'effetto più popolare; la seconda è fatta solo per pochi, cioè per
quelle nature contemplative in grande stile, mentre è fraintesa dalla massa.
La terza pretende di essere considerata dagli uomini più attivi: solo costoro
la possono contemplare senza danni; infatti estenua i contemplativi e terro-
rizza la massa! Dalla prima immagine è venuta fuori una forza tale da
spingere, allora e tuttora, a tempestose rivoluzioni; in qualsiasi sommovi-
mento o terremoto socialista, infatti, è sempre l'uomo di Rousseau che si
muove come il vecchio Tifone sotto l'Etna. Oppresso e quasi schiacciato
da caste superbe, da una ricchezza spietata, guastato dai preti e da una cat-
tiva educazione, umiliato davanti a se stesso da ridicoli costumi, l'uomo
nel suo bisogno invoca la «santa natura» e improvvisamente sente che essa
è lontana da lui quanto una qualche divinità epicurea. Le sue preghiere
416 SCHOPENHAUER COME EDUCATORE [4]
5.
Tuttavia ho promesso di rappresentare Schopenhauer come educatore
secondo le mie esperienze, a tal scopo non basta certo che io dipinga, per
di più con espressione imperfetta, quell'uomo ideale che domina dentro e
intorno a Schopenhauer, quasi fosse la sua idea platonica. Rimane ancora
la cosa più difficile: cioè, come si possa acquisire da questo ideale un nuo-
vo ambito di doveri e come ci si possa mettere in relazione con uno scopo
così esaltante mediante una attività regolare: dimostrare in breve che quel-
l'ideale, appunto, educa. Si potrebbe altrimenti pensare che non si tratti al-
tro che di quella visione beatificante e inebriante che alcuni momenti ci ri-
servano, per poi, subito dopo, abbandonarci di nuovo e lasciarci in balia di
una scontentezza ancor più profonda. È pur certo che così inizia il nostro
rapporto con questo ideale, con questi improvvisi stacchi di luce e oscurità,
di rapimento e di ripugnanza, ripetendosi così un'esperienza che è antica
quanto gli ideali stessi. Ma non dobbiamo indugiare oltre sulla porta, e ve-
loci dobbiamo bensì oltrepassare la soglia. E così si deve chiedere con se-
rietà e determinazione: è possibile avvicinarsi tanto a quel fine incredibil-
mente alto, in modo che esso ci educhi mentre ci innalza? — Affinché in
noi non si compia la grande massima di Goethe: «l'uomo è nato per una
condizione limitata, riesce a scorgere fini determinati, semplici e vicini, e si
abitua a utilizzare i mezzi che gli sono a portata di mano; ma non appena si
spinge oltre non sa né quel che vuole né quel che deve, e per lui è del tutto
indifferente che sia distratto dalla quantità degli oggetti o che l'altezza e la
dignità di questi lo pongano al di fuori di sé. La sua sventura sta sempre
nell'essere indotto ad aspirare a qualcosa con cui riesce a collegarsi me-
diante un'attività autonoma e regolare». E questo, con una certa parvenza
di ragione, si potrebbe obiettare proprio a quell'uomo di Schopenhauer:
che la sua dignità e grandezza possono solo porci al di fuori di noi stessi, e
quindi al di fuori anche da tutte le società degli uomini attivi; connessione
dei doveri, flusso della vita, sono finiti. Forse qualcuno finirà per abituarsi
a scindersi a malincuore e a vivere secondo due direttive, cioè in contraddi-
zione con se stesso, vagando incerto qua e là, e quindi ogni giorno più de-
bole e sterile; mentre qualcun altro rinuncia, addirittura in linea di princi-
pio, ad operare con gli altri e a malapena sta ancora a guardare gli altri che
agiscono. I pericoli sono sempre grandi quando per l'uomo il compito di-
venta troppo difficile ed egli non è più in grado di adempiere ad alcun do-
420 SCHOPENHAUER COME EDUCATORE [5]
vere; anche le nature più forti ne possono essere distrutte, le più deboli e le
più numerose sprofondano in una ignavia contemplativa e alla fine, sem-
pre per ignavia, perdono anche la capacità di contemplare.
A tali obiezioni, ora, voglio opporre solo che il nostro lavoro è appena
all'inizio e che, dopo le mie esperienze, solo una cosa vedo e so già con de-
terminatezza: partendo da quell'immagine ideale è possibile attaccare sia a
me che a te una catena di doveri assolvibili, e alcuni di noi già ne sentono il
peso. Ma per esprimere senza esitazioni la formula con cui vorrei riassume-
re quella nuova cerchia di doveri, ho bisogno delle seguenti considerazioni
preliminari.
Gli uomini più profondi hanno sempre provato compassione per gli ani-
mali, perché essi soffrono della vita e tuttavia non possiedono la forza di
volgere contro se stessi l'aculeo della sofferenza e intendere la propria esi-
stenza metafisicamente; certo vedere la sofferenza insensata, suscita indi-
gnazione nel più profondo dell'anima. Perciò nacque, e non in un solo luo-
go della terra, la supposizione che le anime degli uomini colpevoli, fossero
nascoste in questi corpi animali e che quel dolore senza senso, che al primo
sguardo suscita indignazione, acquisti pieno significato alla luce della giu-
stizia eterna, cioè come pena e espiazione. È certo una pena ben grave vive-
re così, come una bestia, tra fame e cupidigia, e senza giungere mai ad al-
cuna consapevolezza di questa vita; né si potrebbe pensare sorte più dura
di quella della bestia da preda che è spinta nel deserto da un tormento che
la rode al massimo; di rado è appagata, ma se lo è, lo è solo nel momento
in cui l'appagamento diventa pena, cioè nella lotta dilaniante con altri ani-
mali o per l'avidità e la sazietà più disgustose. Essere così ciecamente e
stoltamente attaccati alla vita, senza alcuna prospettiva di un premio supe-
riore, ben lontani dal sapere che così si è puniti e perché, bensì anelare a
questa pena, come a una felicità con la stoltezza di una orribile brama —
questo significa essere una bestia; e se è vero che tutta la natura tende al-
l'uomo, essa così ci fa capire che l'uomo è necessario alla sua liberazione
dalla condanna della vita bestiale e che, infine, l'esistenza in lui ha dinanzi
a sé uno specchio, sul cui fondo la vita non appare più senza senso, ma in
tutto il suo significato metafisico. Riflettiamo dunque: dove finisce la be-
stia e dove comincia l'uomo? Quell'uomo che solo importa alla natura!
Finché si aspira alla vita come a una felicità, non si è ancora sollevato lo
sguardo al di sopra dell'orizzonte della bestia, si vuole soltanto con mag-
giore consapevolezza ciò che la bestia cerca spinta da cieco istinto. Ma così
succede a noi tutti per la maggior parte della vita: in genere non usciamo
dalla bestialità, noi stessi siamo le bestie che sembrano soffrire senza sen-
so.
Ci sono momenti, però, in cui ce ne rendiamo conto: allora le nuvole si
squarciano e vediamo come, insieme con la natura, tendiamo verso l'uo-
mo, come verso qualcosa che è al di sopra di noi. Rabbrividendo, in quel-
l'improvviso chiarore ci guardiamo indietro e intorno: là corrono le raffi-
nate bestie da preda e noi in mezzo a loro. L'immenso agitarsi degli uomini
sul grande deserto della terra, il loro fondare città e Stati, il loro guerreg-
giare, il loro instancabile adunarsi e disperdersi, il loro correre confusa-
mente, il loro apprendere l'uno dall'altro, il loro reciproco ingannarsi e
calpestarsi, il loro gridare nella disgrazia e il loro ululare di gioia nella vit-
toria — tutto è continuazione della bestialità: come se l'uomo dovesse in-
tenzionalmente essere educato alla rovescia ed essere defraudato della sua
disposizione metafisica, come se anzi la natura, dopo aver desiderato e la-
vorato tanto a lungo per l'uomo, adesso si ritiri tremante da lui e preferisca
SCHOPENHAUER COME EDUCATORE [5J 421
ritornare all'inconsapevolezza dell'istinto. Oh, essa ha bisogno di conosce-
re, ma inorridisce davanti alla conoscenza che le è veramente necessaria;
così la fiamma vacilla inquieta qua e là, quasi spaventata di se stessa, e af-
ferra mille cose prima di afferrare ciò per cui la natura in generale ha biso-
gno della conoscenza. Noi tutti sappiamo, in singoli momenti, che le più
vaste imprese della nostra vita vengono realizzate solo per sfuggire al no-
stro vero compito, e che volentieri nasconderemmo da qualche parte la no-
stra testa, come se, così, la nostra coscienza dai cento occhi non potesse co-
glierci; che, frettolosamente, doniamo il nostro cuore allo Stato, al guada-
gno, alla socievolezza o alla scienza soltanto per non possederlo più, e che
ci abbandoniamo al pesante lavoro quotidiano con più impeto e sconside-
ratezza di quanto non sia necessario per vivere: perché ci sembra più neces-
sario non giungere alla riflessione. Generale è la fretta perché ciascuno è in
fuga da se stesso, generale è anche il pavido nascondere questa fretta, per-
ché si vorrebbe apparire contenti e ingannare gli osservatori più acuti circa
la propria miseria; generale il bisogno di nuove sonanti parole, adornata
delle quali la vita dovrebbe ricevere un po' di clamore e solennità. Ognuno
di noi conosce quella particolare condizione in cui, improvvisamente, ri-
cordi spiacevoli si affollano e noi ci sforziamo, con gesti e suoni violenti, di
scacciarli dalla mente: ma i gesti e i suoni della vita comune lasciano indo-
vinare che noi tutti ci troviamo sempre in una condizione del genere, nel ti-
more del ricordo e dell'interiorizzazione. Ma cos'è che ci aggredisce così
spesso, quale zanzara non ci lascia dormire? Intorno a noi c'è un'atmosfe-
ra spettrale, ogni attimo della vita vuol dirci qualcosa, ma noi non voglia-
mo ascoltare queste voci di fantasmi. Temiamo, quando siamo soli e in si-
lenzio, che qualcosa ci venga bisbigliato all'orecchio e così odiamo il silen-
zio e ci stordiamo con la vita in società.
Di tanto in tanto, come ho detto, capiamo tutto questo e ci meraviglia-
mo molto di tutta la vertiginosa paura e furia, di tutta la condizione di so-
gno della nostra vita, che sembra aver orrore del risveglio e che sogna con
tanta più vivacità e inquietudine quanto più si avvicina a questo risveglio.
Ma allo stesso tempo sentiamo di essere troppo deboli per sopportare a
lungo quei momenti del più profondo raccoglimento e di non essere mai
quegli uomini, verso cui tutta la natura tende per la sua redenzione; già è
molto se, in qualche modo, riusciamo a emergere un po' con la testa e ci
accorgiamo in quale corrente siamo profondamente immersi. Ma anche
questo non ci riesce con la nostra propria forza — questo emergere e sve-
gliarsi per un fugace momento — dobbiamo bensì essere sollevati — e chi
sono coloro che ci sollevano?
Sono quei veri uomini, quei non-più-bestie, i filosofi, gli artisti e i santi;
al loro apparire e per il loro apparire, la natura, che non fa mai salti, fa il
suo unico salto e cioè un salto di gioia, perché per la prima volta si sente vi-
cina alla mèta, là dove, cioè, intende che deve disimparare ad avere mète, e
che ha giocato troppo alto il gioco della vita e del divenire. In questa cono-
scenza essa si trasfigura ed una soave stanchezza serale, ciò che gli uomini
- chiamano «la bellezza», riposa sul suo volto. Quanto essa ora esprime con
questi lineamenti trasfigurati è la grande illuminazione sull'esistenza; e il
massimo desiderio, che mai mortali possano avere, è di partecipare di con-
tinuo e con orecchie bene aperte a questa illuminazione. Se si riflette, per
esempio, a tutto ciò che Schopenhauer, nel corso della sua vita, deve aver
udito, si può ben dire dopo a se stessi: «Ah, le tue sorde orecchie, la tua ot-
tusa testa, il tuo vacillante intelletto, il tuo cuore raggrinzito, tutto ciò che
io chiamo mio! Come lo disprezzo! Non poter volare, ma solo sbattere le
422 SCHOPENHAUER COME EDUCATORE [5]
tendiamo più la parola «io»; al di là del nostro essere c'è qualcosa che in
quei momenti diventa un al di qua e perciò dal più profondo del cuore noi
bramiamo il ponte tra qui e là. Nella nostra condizione abituale non pos-
siamo certo contribuire in niente alla generazione dell'uomo redentore,
perciò in questa condizione ci odiamo, un odio che è la radice di quel pessi-
mismo che solo Schopenhauer doveva insegnare di nuovo nella nostra epo-
ca, ma che è antico quanto lo è l'anelito alla cultura. Le sue radici, ma non
i suoi bocci, in un certo modo il suo piano più basso, ma non il suo fronto-
ne, l'inizio del suo cammino, ma non il suo fine; infatti, in un dato mo-
mento, dobbiamo pur imparare a odiare qualche altra cosa, qualcosa di
più generale, non più il nostro individuo e la sua misera limitatezza, i suoi
mutamenti e la sua inquietudine: in quello stato elevato in cui ameremo an-
che qualche cosa diversa da ciò che ora possiamo amare. Solo quando, nel-
l'attuale nascita o in una fortuna, noi stessi faremo parte di quel sublime
ordine dei filosofi, degli artisti e dei santi, sarà noi dato anche un nuovo
scopo al nostro amore e al nostro odio — per il momento noi abbiamo il
nostro compito e la nostra cerchia di doveri, il nostro odio e il nostro amo-
re. Infatti sappiamo cos'è la cultura. Essa vuole, per applicarla all'uomo di
Schopenhauer, che ne prepariamo e ne favoriamo una sempre nuova gene-
razione, imparando a distinguere e eliminando dal nostro cammino tutto
ciò che le è ostile — in breve vuole che noi combattiamo instancabilmente
contro tutto ciò che ci ha fatto perdere il massimo adempimento della no-
stra esistenza, impedendoci di divenire uomini schopenhaueriani.
6.
Talvolta è più difficile ammettere un fatto che comprenderlo; ed è ap-
punto quanto può accadere a molti che riflettono sulla frase: «l'umanità
deve adoperarsi di continuo per generare singoli grandi uomini — questo e
nessun altro è il suo compito». Quanto volentieri si vorrebbe applicare alla
società e ai suoi scopi un insegnamento, che si può ricavare dall'osserva-
zione di una qualsiasi specie del regno animale o vegetale, che, cioè, in que-
sta specie ciò che importa è soltanto il singolo esemplare superiore, più
straordinario, potente, complicato e fecondo — quanto sarebbe bello tutto
ciò, se illusorie idee, inculcate con l'educazione, sulle finalità della società,
non vi si opponessero con tenacia! In verità è facile comprendere che là,
dove una specie giunge ai suoi confini e al suo trapassare in una specie su-
periore, c'è lo scopo del suo sviluppo, non però nella massa degli esemplari
e del loro benessere, o addirittura negli esemplari che, in ordine di tempo,
sono gli ultimi, bensì, proprio in quelle esistenze apparentemente disperse e
casuali che, talvolta, in condizioni favorevoli si realizzano qua e là: e al-
trettanto di facile comprensione dovrebbe essere anche l'esigenza che l'u-
manità, per giungere a essere consapevole del proprio fine, deve ricercare e
produrre quelle condizioni propizie, in cui possono nascere quei grandi
uomini redentori. Ma non so quante cose si oppongono a ciò: qui que-
st'ultimo fine dovrebbe trovarsi nella felicità di tutti o dei più, là nello
sviluppo di grandi collettività; e così colui che velocemente si decide a
sacrificare la propria vita, ad esempio, a uno Stato, si comporterebbe inve-
ce con lentezza e cautela se tale sacrificio lo pretendesse non uno Stato ma
un singolo. Sembra una cosa insensata che un uomo possa esistere per un
altro uomo: «piuttosto per tutti gli altri, o almeno per il maggior numero
possibile!». O galantuomo! come se fosse più sensato far decidere al nu-
mero, laddove si tratta di valore e di significato! Il problema infatti è: co-
424 SCHOPENHAUER COME EDUCATORE [6]
sia la massa delle energie che si consumano al suo servizio. Ci si chiede stu-
piti: forse questo sapere non è affatto necessario? Forse la natura raggiun-
ge anche così il suo fine, anche se, cioè, i più sbagliano nel porre uno scopo
al loro proprio affannarsi? Chi si è abituato ad avere una grande conside-
razione della finalità inconsapevole della natura, potrà forse rispondere
senza alcuna esitazione: «Sì, e così! Lasciate che gli uomini pensino e dica-
no ciò che vogliono sul loro ultimo fine, nel loro oscuro impulso però ben
sanno qual è la retta via!». Per poter qui controbattere, bisogna avere vis-
suto qualcosa; chi però è realmente convinto che scopo della cultura sia fa-
vorire la nascita dei veri uomini e niente altro, e ora osservi a paragone co-
me, ancor oggi, nonostante tutto lo sfarzo e lo sfoggio di cultura, la nasci-
ta di tali uomini sia poco diversa da un maltrattamento continuo di anima-
li, troverà di massima necessità che, in luogo di queh"«oscuro impulso»,
sia posta una volontà consapevole. E questo anche per un secondo motivo:
perché non sia più possibile adoperare questo istinto impreciso circa la sua
finalità, cioè quel famoso oscuro impulso, per scopi di tutt'altro genere e
indirizzarlo su strade che mai condurranno al raggiungimento di quel som-
mo fine: la generazione del genio. Esiste infatti un tipo di cultura abusata e
asservita — basta guardarsi intorno! E proprio le potenze che, con mag-
gior zelo, ora favoriscono la cultura, lo fanno con secondi fini e non la
praticano con sentimenti puri e disinteressati.
Vi è in primo luogo l'egoismo degli affaristi che ha bisogno del sostegno
della cultura e che, per ringraziamento, a sua volta l'aiuta ma in pari tem-
po vorrebbe, in ciò, prescriverle sia lo scopo che la misura. Da questa parte
deriva quell'affermazione e quella concatenazione di concetti, oggi molto
in voga, che più o meno dice così: quanta più conoscenza e istruzione pos-
sibili, e quindi quanto più bisogno possibile, e quindi quanta più produzio-
ne possibile, e quindi quanto più guadagno e felicità possibili — così suona
la formuletta tentatrice. L'educazione verrebbe definita dai suoi stessi so-
stenitori come quel discernimento per cui si diventa completamente attuali,
nei bisogni e nella loro soddisfazione, con cui, però allo stesso tempo, si
può disporre di tutti i mezzi e di tutte le vie per guadagnare denaro nel mo-
do più facile possibile. Formare il maggior numero possibile di uomini
courant, nel senso in cui diciamo courant di una moneta, sarebbe dunque
lo scopo, e un popolo, stando a questa concezione, sarà tanto più felice
quanti più uomini courant possiede. Perciò l'intento dei moderni istituti di
istruzione deve senz'altro consistere nell'incoraggiare ognuno, per quello
che è nella sua natura, a divenire courant, nell'educare ognuno in maniera
tale che abbia dal proprio grado di conoscenza e sapere la massima misura
possibile di felicita e di guadagno. Il singolo dovrebbe, così si pretende,
con l'aiuto di una tale istruzione generale, saper valutare esattamente se
stesso, per sapere ciò che deve esigere dalla vita; e infine si afferma che esi-
ste un'alleanza naturale e necessaria tra «intelligenza e possesso» tra «ric-
chezza e cultura», anzi, ancor di più, che questa alleanza è una necessità
morale. Così ogni educazione che isoli, che ponga dei fini al di là del dena-
ro e del profitto, che consumi molto tempo, è esecrata; si è soliti, anzi, vi-
tuperare questi più seri tipi di educazione come «un più sottile egoismo»,
come «un immorale epicureismo educativo». Certo, secondo la moralità
attualmente in vigore, è apprezzato proprio il contrario, cioè una istruzio-
ne rapida per diventare presto un essere che guadagna denaro, e tuttavia
un'educazione approfondita quel tanto sufficiente a diventare un essere
che guadagna moltissimo denaro. All'uomo si concede quel tanto di cultu-
ra quanto è nell'interesse del profitto generale e del commercio mondiale,
426 SCHOPENHAUER COME EDUCATORE [6J
Quali siano le condizioni della nostra epoca, se sia sana o malata, chi sa-
rebbe abbastanza medico da saperlo? Certo anche oggi in molte cose la
considerazione di cui gode lo scienziato è troppo alta e quindi ha effetti
dannosi, soprattutto per tutto ciò che concerne il divenire del genio. Per le
necessità del genio Io scienziato non ha affatto cuore, e lo liquida parlan-
done con voce fredda e aspra, e anche troppo velocemente, scrolla le spal-
le, come di fronte a un palazzo originale e per cui non ha né tempo né inte-
resse. Neppure in lui si trova la consapevolezza del fine della cultura.
Ma, infine, da tutte queste considerazioni che cosa ci si è chiarito? Che
ovunque, dove ora la cultura sembra essere incoraggiata con maggiore ala-
crità, non si sa nulla di quel fine. Per quanto lo Stato faccia valere ad alta
voce i suoi meriti verso la cultura, la promuove per promuovere se stesso e
non comprende un fine che sia superiore al suo benessere e alla sua esisten-
za. Ciò che gli affaristi vogliono quando incessantemente chiedono istru-
zione e cultura, è alla fin fine proprio un affare. Se coloro che hanno biso-
gno delle forme si ascrivono il vero e proprio lavoro per la cultura e, per
esempio, credono che tutta l'arte sia cosa loro e debba servire alle loro esi-
genze, è chiaro allora che essi, nel momento in cui affermano la cultura,
affermano solo se stessi: e cioè neppure loro sono usciti da un equivoco.
Dello scienziato è stato parlato abbastanza. Per quanto zelo le quattro po-
tenze dimostrino nel riflettere tra loro su come giovare a se stesse con l'aiu-
to della cultura, altrettanto fiacche e prive di idee si dimostrano quando
non viene eccitato questo loro interesse. Questo è il motivo per cui nell'e-
poca moderna non si sono migliorate le condizioni per la nascita del genio,
mentre l'ostilità nei confronti degli uomini originali è aumentata talmente
che Socrate tra noi non avrebbe potuto vivere, e in ogni caso non avrebbe
raggiunto i settanta anni.
Adesso voglio ricordare ciò che ho detto nel terzo capitolo: tutto il no-
stro mondo moderno ha un'apparenza nient'affatto solida e duratura tan-
to che si possa profetizzare al suo concetto di cultura una esistenza eterna.
Si deve addirittura ritener verosimile che il prossimo millennio avrà un
paio di nuove idee, per le quali a ogni vivente di oggi gli si rizzerebbero i
capelli in testa. La fede in un significato metafisico della cultura alla fine
non sarebbe poi tanto terrificante: ma certo alcune conseguenze si potreb-
bero trarre per l'educazione e l'istituzione scolastica.
È necessario compiere uno straordinario sforzo di riflessione, distoglien-
do una buona volta lo sguardo dalle attuali istituzioni educative e guardare
oltre, verso istituzioni di genere del tutto diverso ed estraneo, quali forse
appariranno necessarie a una seconda o terza generazione. Mentre infatti
con gli sforzi degli attuali educatori accademici si produce o lo scienziato o
il funzionario statale, o l'affarista, o il filisteo della cultura o infine e di so-
lito una mescolanza di tutti questi, quelle istituzioni, ancora da scoprire,
avrebbero certo un compito più difficile — in verità non più difficile in sé,
poiché sarebbe comunque il compito più naturale e in quanto tale anche
più semplice; e per esempio può qualcosa essere più difficile dell'ammae-
strare contro natura, come accade oggi, un giovane per farne un erudito?
Ma per gli uomini la difficoltà consiste nell'imparare daccapo e porsi un
nuovo fine; e costerà fatica indicibile cambiare con una nuova idea fonda-
mentale i princìpi del nostro attuale sistema educativo, che ha le sue radici
nel medioevo e che vede, come scopo della perfetta educazione, proprio il
dotto medioevale. Già ora è tempo di porsi davanti agli occhi questi con-
trasti; infatti una generazione dovrà pure cominciare la lotta nella quale
SCHOPENHAUER COME EDUCATORE [6] 433
una generazione successiva vincerà. Già oggi il singolo che ha inteso quella
nuova idea fondamentale della cultura, è posto di fronte ad un bivio: per-
correndo una strada è ben accetto alla sua epoca, non gli mancheranno co-
rone e ricompense, potenti partiti lo sosterranno e alle sue spalle, come da-
vanti a sé, vi saranno tanti che la pensano allo stesso modo, e quando il ca-
pofila pronuncia la parola d'ordine, essa riecheggia in tutte le file. Il primo
dovere qui è: «combattere allineati», il secondo, trattare come nemici colo-
ro che non vogliono allinearsi. L'altra strada gli offre più rari compagni di
viaggio, è più ardua, contorta, ripida: coloro che percorrono la prima Io
deridono perché là avanza con più fatica e spesso si trova in pericolo, e
tentano di attirarlo sul loro cammino. Se le due strade si incrociano, egli
viene maltrattato, gettato da parte, oppure isolato con un timoroso trarsi
da parte. Che significa dunque per questi diversi viandanti delle due strade
una istituzione della cultura? Quella enorme folla che sulla prima strada
preme verso il suo fine, intende per cultura istituzioni e leggi, grazie a cui
essa stessa è mantenuta in ordine e può avanzare, e per cui tutti i ribelli so-
litari, tutti coloro che guardano a fini superiori e più lontani, sono messi
al bando. Per quest'altra più piccola schiera una istituzione dovrebbe cer-
to adempiere a uno scopo del tutto diverso: essa stessa vuole prevenire, al
riparo di una salda organizzazione, di essere sopraffatta e dispersa da
quella folla, vuole che i suoi singoli individui non vengano meno per un
precoce esaurimento o siano sviati dal loro grande compito. Questi singoli
devono compiere la loro opera — questo è il senso della loro coesione; e
tutti coloro che partecipano alla istituzione devono adoperarsi con una
continua purificazione e con una reciproca premura a preparare, in sé e at-
torno a sé, la nascita del genio e la maturazione della sua opera. Non po-
chi, anche tra coloro che sono dotati di un talento di secondo o terzo ordi-
ne, sono destinati a coadiuvare, e solo assoggettandosi a questa destina-
zione, giungono a sentire di vivere per un dovere e di vivere con uno scopo
e un significato. Ma adesso proprio questi talenti vengono distolti dalla lo-
ro strada proprio dalle voci tentatrici della «cultura» alla moda e resi
estranei al loro istinto; questa tentazione si rivolge alle loro tendenze egoi-
stiche, alle loro debolezze e vanità; lo spirito del tempo sussurra loro con
insinuante assiduità: «Seguitemi e non andate là! Infatti lì siete servi sol-
tanto, aiuti, strumenti, offuscati da nature superiori, mai contenti della
vostra personalità, tirati per il filo, messi in catene, come schiavi, anzi au-
tomi; con me invece voi godete, da padroni, la vostra libera personalità, le
vostre doti possono risplendere per se stesse, voi stessi potrete stare nelle
prime file, un grandissimo seguito vi corteggerà e l'acclamazione della
pubblica opinione dovrebbe rallegrarvi assai più dell'approvazione aristo-
cratica elargita dalla fredda, eterea sommità del gemo». A tali seduzioni
perfino i migliori soggiacciono: e qui in fondo decide poco la varietà e la
forza dell'inclinazione, ma l'influenza di una certa fondamentale disposi-
zione eroica e il grado di intima affinità e congenialità con il genio. Ci so-
no uomini infatti che, quando vedono il genio lottare con fatica e col ri-
schio di distruggersi, o quando le sue opere vengono messe da parte con
indifferenza dall'egoismo miope dello Stato, dalla superficialità degli affa-
risti, o dall'arida sufficienza degli scienziati, sentono tutto ciò come la
propria disgrazia: e così spero che esista anche qualcuno in grado di com-
prendere ciò che voglio dire presentando la sorte di Schopenhauer e a che
cosa, secondo la mia rappresentazione, Schopenhauer come educatore de-
ve propriamente educare.
434 SCHOPENHAUER COME EDUCATORE [7]
7.
Ma lasciando da parte, per una volta, tutti i pensieri di un lontano futu-
ro e di un possibile rovesciamento del sistema educativo, che cosa si do-
vrebbe attualmente augurare e, in caso di necessità, procurare a chi diventa
filosofo, affinché possa almeno respirare e, nel caso più favorevole, giunga
almeno all'esistenza, certo non facile, ma almeno possibile di Schopen-
hauer? Che cosa inoltre si dovrebbe trovare per rendere più probabile la
sua influenza sui contemporanei? E quali ostacoli dovrebbero essere ri-
mossi, affinché il modello raggiunga prima di tutto una piena efficacia e il
filosofo educhi altri filosofi? A questo punto la nostra considerazione si
svia in ciò che è pratico e urtante.
La natura vuole sempre essere di utilità comune, ma non è in grado di
trovare, a questo scopo, i mezzi e gli strumenti migliori e più adatti. Questa
è la sua grande sofferenza, e perciò è malinconica. Che volesse, con la ge-
nerazione e del filosofo e dell'artista, rendere l'esistenza agli uomini chiara
e significativa è certo, dato il suo impulso assetato di redenzione; ma quan-
to incerto, quando debole e opaco è l'effetto che essa per lo più ottiene con
i filosofi e gli artisti! Quanto di rado, in generale, giunge a un effetto! So-
prattutto rispetto al filosofo grande è il suo imbarazzo nell'utilizzarlo a
vantaggio della comunità; i suoi mezzi appaiono come tentativi disorienta-
ti, idee casuali, così come innumerevoli volte fallisce nella sua intenzione e
la maggior parte dei filosofi non divengono di utilità comune. Il procedi-
mento della natura ha l'aspetto di uno spreco; tuttavia non è lo spreco di
una oltraggiosa abbondanza, ma dell'inesperienza; si deve ammettere che
se essa fosse un uomo non riuscirebbe a superare la stizza per sé e per la
propria inettitudine. La natura scaglia il filosofo tra gli uomini come una
freccia, non prende la mira, ma spera che la freccia rimanga infissa da
qualche parte. Moltissime volte però si sbaglia e se ne indispettisce. Con Io
stesso spreco si comporta nel campo della cultura, come nel piantare e se-
minare. Adempie ai suoi scopi in un modo generico e goffo, sacrificando
in ciò troppe energie. L'artista e, dall'altra parte, i conoscitori e gli appas-
sionati della sua arte, stanno tra loro nello stesso rapporto di un grossola-
no pezzo di artiglieria e uno sciame di passeri. È opera di semplicioneria
spostare una grande slavina per spazzar via un po' di neve, uccidere un uo-
mo per colpire la mosca sul suo naso. L'artista e il filosofo sono prove
contro la finalità della natura nei suoi mezzi, pur essendo allo stesso tempo
la miglior prova della saggezza dei suoi fini. Essi riescono a centrare solo
pochi, mentre dovrebbero centrare tutti — ma anche questi pochi non ven-
gono colpiti con la forza con cui filosofo e artista sparano il loro colpo. È
triste dover valutare in modo così diverso l'arte come causa e l'arte come
effetto: quanto immensa essa è come causa tanto è paralizzata e fievole co-
me effetto! L'artista compie la sua opera secondo la volontà della natura
per il bene degli altri uomini, su questo non c'è dubbio alcuno: tuttavia sa
che, a sua volta, nessuno di questi uomini saprà intendere e amare la sua
opera come lui l'ama e l'intende. Quell'alto e unico grado di amore e di
comprensione è necessario, secondo la disposizione maldestra della natura,
perché vi sia un grado inferiore; e il più grande e il più nobile è usato come
mezzo per la nascita del minore e dell'ignobile. La natura non governa con
saggezza, le sue spese sono molto maggiori del profitto che ricava: con tut-
ta la sua ricchezza, a un certo momento dovrà andare in rovina. Molto più
saggiamente si sarebbe organizzata se la regola della sua amministrazione
SCHOPENHAUER COME EDUCATORE [7] 435
fosse stata: pochi costi e ricavi centuplicati; se per esempio vi fossero sol-
tanto pochi artisti e questi fossero di più deboli energie, ma, in compenso,
numerosi coloro capaci di accogliere e ricevere l'arte e, proprio questi di
tempra più forte e potente di quella degli artisti stessi: cosicché l'effetto
dell'opera d'arte, in rapporto con la causa, sarebbe un'eco cento volte am-
plificato. O ci si dovrebbe aspettare che almeno causa e effetto fossero di
uguale forza: ma quanto la natura delude questa aspettativa! Spesso sem-
bra che un artista o, ancor più un filosofo, capiti per caso nel suo tempo,
come eremita o come un viandante disperso o rimasto indietro. Si provi so-
lo a sentire veramente con il cuore quanto grande, in tutta la sua persona e
in tutto, è Schopenhauer — e quanto piccolo e assurdo il suo effetto! Per
un uomo di questo tempo che sia onesto nulla può essere più mortificante
del rendersi conto di quanto sia casuale l'apparizione di Schopenhauer in
questa epoca e da quali forze e non forze sia dipeso, sinora, che il suo ef-
fetto sia stato tanto limitato. Per prima cosa, e a lungo, gli fu ostile la
mancanza di lettori — il che sia di perenne vergogna per la nostra epoca
letteraria! —, poi, quando i lettori vennero, l'inadeguatezza dei suoi primi
pubblici seguaci: ancor più, come mi sembra, l'ottusità di tutti gli uomini
moderni verso libri, che essi non vogliono assolutamente più prendere sul
serio; inoltre, a poco a poco, si è aggiunto un nuovo pericolo, nato dai vari
tentativi di adattare Schopenhauer alla debolezza dell'epoca e di usarlo co-
me si usa una droga stupefacente e eccitante, quasi come una specie di pepe
metafisico. E così, pian piano, è certamente divenuto noto e famoso e cre-
do che già oggi vi siano più persone che conoscono il suo nome di quante
conoscono quello di Hegel: ciò nonostante è ancora un eremita, e il suo ef-
fetto ancora non si è avvertito! Meno di tutti, i veri e propri oppositori let-
terari e coloro che abbaiano contro di lui, hanno l'onore di aver impedito
finora questo effetto: in primo luogo, perché ci sono pochi uomini che
sopportano di leggerli e, in secondo luogo, perché essi portano colui che
riesce a leggerli immediatamente a Schopenhauer; infatti chi si farà convin-
cere da un asinaio a non montare un bel cavallo per quanto questo esalti il
suo asino ai danni del cavallo?
Chi dunque ha riconosciuto l'irragionevolezza nella natura di questa
epoca, dovrà pensare ai mezzi per porvi qualche rimedio; il suo compito
sarà allora di far conoscere Schopenhauer agli spiriti liberi, a coloro che
profondamente soffrono per il nostro tempo, di riunirli e con loro creare
una corrente con la cui forza si dovrà superare l'inettitudine che la natura,
di solito e anche oggi, mostra nell'utilizzare il filosofo. Tali uomini si ren-
deranno conto che sono gli stessi ostacoli, quelli che impediscono l'effetto
di una grande filosofia e che si oppongono alla generazione di un grande
filosofo; ecco perché devono stabilire come loro fine di preparare la rina-
scita di Schopenhauer, cioè del genio filosofico. Ma ciò che fin dal princi-
pio si oppose all'effetto e alla diffusione della sua dottrina, ciò che infine
con tutti mezzi tenta di rendere vana anche una tale rinascita del filosofo è,
per dirla in breve, la stortura della natura umana attuale: perciò tutti colo-
ro che diventano grandi uomini debbono sprecare un'energia incredibile
solo per salvare se stessi da questa stortura. Il mondo, in cui oggi fanno il
loro ingresso, è avvolto nelle fandonie: non necessariamente dogmi religio-
si, ma anche concetti bubboleschi come «progresso», «educazione univer-
sale», «nazionale», «Stato moderno», «Kulturkampf»: si può dire anzi
che tutte le parole generali oggi portano in sé un addobbo artificioso e in-
naturale; pertanto una posterità più illuminata rimprovererà al nostro tem-
po soprattutto di essere contorto e deforme — per quanto andiamo così su-
436 SCHOPENHAUER COME EDUCATORE [7]
perbi della nostra «salute». La bellezza degli antichi vasi — dice Schopen-
hauer — deriva dal fatto che essi esprimono in modo così ingenuo la loro
funzione e la loro essenza, e lo stesso vale per tutti gli altri strumenti del-
l'antichità; si ha l'impressione che se la natura avesse prodotto vasi, anfo-
re, lampade, tavoli, sedie, elmi, scudi, corazze ecc., quello sarebbe stato il
loro aspetto. Al contrario, chi oggi osserva come quasi tutti armeggiano
con l'arte, lo Stato, la religione, la cultura — per tacere, per ovvi motivi
dei nostri «vasi» — trova gli uomini abbandonati ad un arbitrio quasi bar-
barico e in un eccesso di espressioni e il maggior ostacolo per il divenire del
genio sta nel fatto che nel suo tempo siano di moda concetti così strampa-
lati ed esigenze così capricciose da costituire quel peso di piombo che spes-
so, non visto e inspiegabile, blocca la sua mano, che vuole condurre l'ara-
tro. E così anche le sue opere maggiori, poiché sono state ottenute con la
violenza, debbono portare con sé in una certa misura l'espressione di que-
sta violenza.
Se cerco ora di riassumere tutte le condizioni, con l'aiuto delle quali, nel
caso più felice, un filosofo nato almeno non venga schiacciato dalla stortu-
ra dell'epoca ora descritta, osservo qualcosa di strano: in parte, almeno da
un punto di vista generale, si tratta proprio delle condizioni in cui Scho-
penhauer stesso crebbe. Certo non gliene mancarono di condizioni contra-
rie: ad esempio in sua madre vanitosa e amante delle belle lettere, la stortu-
ra dell'epoca gli fu paurosamente vicina. Ma il carattere fiero e di libero re-
pubblicano del padre lo salvò, per così dire, dalla madre e gli diede la pri-
ma cosa di cui un filosofo ha bisogno: una virilità rude e inflessibile. Que-
sto padre non era né un funzionario né uno scienziato; col figlio adolescen-
te viaggiò più volte in paesi stranieri — tutto ciò costituisce una condizione
fortemente favorevole per chi deve conoscere non libri ma uomini e deve
onorare non un governo ma la verità. Ben presto egli divenne insensibile
alle grettezze nazionali o anche troppo sensibile: visse in Inghilterra, in
Francia e in Italia non diversamente da come avrebbe vissuto nel suo paese
e nutrì una non piccola simpatia per lo spirito spagnolo. Insomma non
considerava un onore l'essere nato proprio tra i Tedeschi: e non so se l'a-
vrebbe pensata diversamente nelle nuove condizioni politiche. Dello Stato
— come è noto — pensava che i suoi unici scopi fossero la difesa verso l'e-
sterno, la difesa verso l'interno e la difesa dai difensori, e che se qualcuno
gli voleva attribuire altre finalità oltre quella della difesa, ciò avrebbe po-
tuto compromettere seriamente il suo vero scopo —: perciò lasciò, con
grande scandalo di tutti i cosiddetti liberali, il suo patrimonio ai familiari
dei soldati prussiani caduti nel 1848 nella lotta per l'ordine. È probabile
che d'ora in poi sarà sempre più segno di superiorità spirituale, se qualcu-
no saprà intendere in maniera semplice lo Stato e i suoi doveri: infatti colui
che ha in corpo il furor phiiosophicus non troverà mai il tempo per il furor
politicus e saggiamente si guarderà dal leggere ogni giorno i giornali o ad-
dirittura dal servire un partito: pur non esitando un momento, nel caso di
reale necessità della patria, ad essere al suo posto. Tutti gli Stati infatti in
cui, oltre agli uomini politici, altri si debbono occupare di politica, sono
male organizzati e meritano, proprio a causa dei numerosi politicanti, di
andare in malora.
Schopenhauer ebbe anche un altro grande vantaggio: non fu, fin dall'i-
nizio, destinato ed educato per essere uno studioso, ma lavorò realmente
per un po' di tempo, anche se malvolentieri, in un ufficio commerciale e,
comunque, per tutto il tempo della sua gioventù respirò l'aria più libera di
una grande ditta commerciale. Uno studioso non può mai diventare un fi-
SCHOPENHAUER COME EDUCATORE [8] 437
losofo, lo stesso Kant non ci riuscì, ma, fino alla fine, rimase, nonostante
l'innato impeto del suo genio, quasi nello stato di una crisalide. Chi pensa
che io con queste parole faccio torto a Kant, non sa che cosa è un filosofo,
e cioè non solo un grande pensatore, ma anche un vero uomo; e quando
mai da uno studioso si sarebbe sviluppato un vero uomo? Chi lascia che tra
se stesso e le cose si frappongano concetti, opinioni, antichità, libri, chi in-
somma è nato, nel senso più ampio, per la storia, non vedrà mai le cose per
la prima volta, né sarà mai egli stesso una tale cosa vista per la prima volta.
Tutti e due gli aspetti sono invece certamente presenti nel filosofo, poiché
egli deve trarre da se stesso la maggior parte degli insegnamenti e poiché
serve a se stesso come immagine e compendio di tutto il mondo. Se qualcu-
no si osserva servendosi di opinioni altrui, non c'è da meravigliarsi se in sé
non vedrà altro che opinioni altrui! Così sono, vedono e vivono gli studio-
si. Schopenhauer ebbe invece l'indescrivibile fortuna, non solo di osservare
da vicino il genio in sé, ma anche al di fuori di sé, in Goethe: mediante
questo duplice rispecchiamento, egli fu radicalmente istruito e reso saggio
su tutte le culture e le finalità degli studiosi. Grazie a questa esperienza sa-
peva come deve essere fatto l'uomo forte e libero, a cui aspira ogni cultura
artistica; poteva mai, dopo questa visione, avere ancora molta voglia di oc-
cuparsi della cosiddetta «arte» alla maniera dotta o ipocrita dell'uomo mo-
derno? Inoltre aveva visto qualcosa di più elevato: una terribile scena ul-
tramondana del Giudizio in cui ogni vita, anche la più alta e perfetta, era
pesata e trovata troppo leggera: aveva visto il Santo come giudice dell'esi-
stenza. Non si può affatto stabilire quanto precocemente Schopenhauer
debba aver contemplato questa immagine della vita, quale tentò, più tardi,
di riprodurre in tutti i suoi scritti; si può dimostrare che l'adolescente, e, si
potrebbe credere, già il fanciullo, abbia avuto questa tremenda visione.
Tutto ciò che poi egli apprese dalla vita e dai libri, da tutti i campi della
scienza, per lui fu quasi soltanto colore e mezzo espressivo; la stessa filoso-
fia kantiana fu da lui utilizzata soprattutto come uno straordinario stru-
mento retorico, grazie a cui credeva di potersi esprimere in modo ancor più
chiaro su quell'immagine: così come, allo stesso scopo, occasionalmente si
servì anche della mitologia buddhista e cristiana. Per lui esisteva un solo
compito e centomila mezzi per adempierlo: un solo significato e innumere-
voli geroglifici per esprimerlo.
Faceva parte delle splendide condizioni della sua esistenza il fatto che
potè veramente vivere per questo compito secondo la sua massima: vitam
impendere vero e che nessuna delle vere e proprie volgarità della miseria
della vita l'abbia prostrato: — è noto quanto, per questo, fosse grande la
sua gratitudine verso il padre — mentre in Germania l'uomo teoretico at-
tua la sua destinazione scientifica per lo più a spese della purezza del suo
carattere, come uno «straccione pieno di riguardi», avido di posti e di ono-
ri, cauto e duttile, adulatore verso le persone influenti e i superiori. Pur-
troppo niente ha più offeso gli scienziati del fatto che Schopenhauer non
somigliasse a loro.
8.
Così abbiamo elencato alcune condizioni in cui il genio filosofico, nella
nostra epoca può, nonostante i nocivi effetti contrari, almeno nascere: la
franca virilità del carattere, una precoce conoscenza degli uomini, niente
educazione dotta, nessuna grettezza patriottica, nessuna costrizione a gua-
dagnarsi il pane, nessun rapporto con lo Stato — in breve libertà e ancora
438 SCHOPENHAUER COME EDUCATORE [8]
della filosofia delle università e di quegli esami — per non parlare poi delle
perplessità in cui possono cadere giovani teologi in tale occasione, e di con-
seguenza estinguersi in Germania, come gli stambecchi nel Tirolo. — So
bene quali potevano essere le obiezioni dello Stato a quanto ho appena det-
to, finché la bella hegelianeria lussureggiava verde su tutti i prati; ma dopo
che la grandine ha bruciato questo raccolto e, di tutto quanto ci si attende-
va da questa filosofia, nulla si è adempiuto e tutti i granai sono rimasti
vuoti — è meglio non ribattere nulla e distogliere l'interesse dalla filosofia.
Ora si ha il potere; allora, al tempo di Hegel, si voleva averlo — questa è
una grande differenza. Ormai lo Stato non ha più bisogno della sanzione
della filosofia e perciò essa gli è divenuta superflua. Se Io Stato non man-
terrà più le sue cattedre, o, come presumo che succederà in un prossimo fu-
turo, lo farà solo apparentemente e con trascuratezza, ne avrà la sua utilità
— tuttavia mi sembra più importante che anche l'università ci veda un pro-
prio vantaggio. Almeno dovrei pensare che un luogo di vera scienza do-
vrebbe sentirsi favorito dall'essere liberato dalla promiscuità con scienze
che sono tali solo per metà o per un quarto. Inoltre la rispettabilità delle
università è diventata qualcosa di troppo raro, per non doversi augurare in
linea di principio l'abolizione di quelle discipline che gli stessi accademici
non stimano. I non accademici, infatti, hanno buoni motivi per un certo
disprezzo generale verso le università; essi rimproverano loro di essere vili,
che le piccole temono le grandi, e che le grandi temono l'opinione pubbli-
ca, che in tutte le questioni di cultura superiore non sono all'avanguardia,
ma seguono zoppicando lentamente e in ritardo; che non è perfino più ri-
spettata la direttiva fondamentale di autorevoli scienze.
Per esempio non ci si è mai così alacremente curati di studi linguistici co-
me oggi, senza però considerare necessaria per se stessi una severa educa-
zione allo scrivere e al parlare. L'antichità indiana ci ha aperto le sue por-
te, e i suoi conoscitori hanno con le opere immortali degli Indiani e con la
loro filosofia un rapporto poco diverso da quello degli animali con la lira;
sebbene Schopenhauer reputasse la conoscenza della filosofia indiana uno
dei maggiori vantaggi che il nostro secolo aveva sugli altri. L'antichità
classica è diventata un'antichità qualsiasi e non agisce più come classica ed
esemplare; come lo dimostrano i suoi seguaci, che, certo, non sono uomini
esemplari. Dove è finito lo spirito di Friedrich August Wolf, di cui Franz
Passow poteva dire che sembrava un puro spirito autenticamente patriotti-
co e umano, che avrebbe avuto la forza di mettere in fermento e in fiamme
un continente — dov'è questo spirito? Di contro lo spirito dei giornalisti si
insinua sempre più nelle università e spesso sotto il nome della filosofia:
una esposizione piana e abbellita, Faust e Nathan il Saggio sulle labbra, il
linguaggio e le opinioni dei nostri ributtanti giornali letterari, di recente
anche chiacchiere sulla nostra sacra musica tedesca, e perfino la richiesta
di cattedre per Goethe e Schiller — tutti segni questi che indicano come lo
spirito dell'università continui a confondersi con lo spirito del tempo. Per-
ciò mi sembra del massimo valore che al di fuori delle accademie sorga un
tribunale superiore, che sorvegli e giudichi anche queste istituzioni in rela-
zione al tipo di educazione che esse promuovono; e non appena la filosofia
abbandonerà le università, purificandosi così da tutti gli indegni scrupoli e
mascherature, essa non potrà essere altro che un simile tribunale: senza po-
tere statale, senza stipendi e onori, saprà rendere il suo servizio libera dallo
spirito del tempo e dalla paura di questo, per dirla in breve, vivendo come
Schopenhauer, quale giudice della cosiddetta cultura che lo circondava.
SCHOPENHAUER COME EDUCATORE [8] 445
Così il filosofo può essere utile anche all'università se non si mescola ad es-
sa, ma la guarda da una certa, dignitosa distanza.
Ma alla fine — a che ci serve l'esistenza di uno Stato, l'incremento delle
università, se è innanzitutto in gioco l'esistenza della filosofia sulla terra! o
— per non lasciare più alcun dubbio su ciò che intendo — quando importa
indicibilmente di più che sulla terra nasca un filosofo, piuttosto che conti-
nuino ad esistere uno Stato o un'università. Nella misura in cui l'asservi-
mento alle opinioni pubbliche e il pericolo per la libertà aumentano, può
elevarsi la dignità della filosofia; essa raggiunse il suo apice durante il ter-
remoto della repubblica romana morente o nell'epoca imperiale in cui il
suo nome e quello della storia divennero ingrata princibus nomina. Bruto
testimonia più di Platone per la sua dignità; sono queste le epoche in cui
l'etica smise di contenere luoghi comuni. Se oggi la filosofia non è molto
rispettata, ci si chieda soltanto come mai nessun grande condottiero o uo-
mo di Stato si proclami oggi suo seguace — soltanto perché quando la cer-
cò gli si fece incontro solo un fantasma infiacchito col nome di filosofia,
quella erudita saggezza e circospezione della cattedra, insomma perché,
ben presto, per lui la filosofia diventò una cosa ridicola. Mentre avrebbe
dovuto essere una cosa terribile; e gli uomini che sono chiamati a cercare il
potere dovrebbero sapere quale fonte di eroismo scorra in essa. Un ameri-
cano può dir loro che cosa significa un grande pensatore che venga su que-
sta terra come un centro di forze immense: «State bene attenti — dice
Emerson — quando il gran Dio fa scendere sul nostro pianeta un pensato-
re! Tutto allora è in pericolo. È come se sia scoppiato un incendio in una
grande città, dove nessuno sa sicuramente che cosa sia e quando finirà. Al-
lora non c'è nulla nella scienza che non possa domani essere capovolto,
non vale più alcuna reputazione letteraria e tanto meno le cosiddette cele-
brità eterne: tutto ciò che è caro e prezioso per l'uomo in quel momento lo
è solo in base alle idee che si sono affermate sul suo orizzonte spirituale e
che sono la causa dell'attuale ordinamento delle cose, così come un albero
porta i suoi frutti. Un nuovo grado di cultura sottoporrebbe in un attimo a
un rovesciamento l'intero sistema delle aspirazioni umane». Dunque, se
questi pensatori sono pericolosi, allora è certamente chiaro perché i loro
pensieri crescono così pacificamente nella tradizione, come soltanto un al-
bero ha portato i suoi frutti; essi non incutono timore, essi non scardina-
no; e di tutto il loro darsi da fare si dovrebbe dire ciò che Diogene da parte
sua obiettò, una volta che gli si facevano le lodi di un filosofo: «Che cosa
di grande può mai mostrare, se da tanto si occupa di filosofia, e non ha an-
cora turbato nessuno?». Proprio così si dovrebbe scrivere sulla lapide della
filosofia delle università: «Non ha turbato nessuno». Ma questa è più la lo-
de di una anziana donna che di una dea della verità, e non c'è da stupirsi se
coloro che conoscono questa dea solo come una vecchietta sono essi stessi
poco uomini e perciò, a buon diritto, non vengono più tenuti in alcuna
considerazione dagli uomini del potere.
Ma se questa è la situazione nel nostro tempo, allora la dignità della filo-
sofia è calpestata nella polvere: sembra che essa stessa sia diventata qual-
cosa di ridicolo o indifferente: cosicché tutti i suoi veri amici sono tenuti a
render testimonianza contro questo equivoco o, per lo meno, a mostrare
che soltanto quei falsi servitori e quegli indegni rappresentanti della filoso-
fia sono ridicoli e indifferenti. Meglio ancora se con l'azione dimostrano
che l'amore per la verità è qualcosa di terribile e violento.
Questo e quello dimostrò Schopenhauer — e lo dimostrerà ogni giorno
di più.