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SFI-Società Filosofica Italiana

Protagonisti della filosofia italiana del Novecento


21 dicembre 2017
Villa del Palco, Prato

Il neoidealismo: Benedetto Croce e Giovanni Gentile

Marcello Mustè

1. L’argomento di questa relazione presenta due insidie. La prima insidia


riguarda la congiunzione, la «e» che unisce i due nomi propri di Croce e
Gentile: questa «e» ci invita a interrogare le ragioni della collaborazione e le
differenze che, come vedremo, condussero a una rottura irreparabile. La se-
conda insidia riguarda la categoria sotto la quale, in omaggio a una lunga
tradizione, li presentiamo: «neo-idealismo» o «idealismo italiano». Via via
che studiamo questi autori, che nuovi documenti e nuove edizioni vengono
resi disponibili (da ultimo il terzo volume del loro carteggio, apparso nel
2017 per l’editore Aragno), appare sempre più chiaro che il pensiero di Cro-
ce, e in parte anche quello di Gentile, non possono essere del tutto risolti nel-
la categoria di idealismo. Lo osservò Eugenio Garin, a proposito di Croce,
nella intervista del 1997 a Mario Ajello, quando disse così: «esiterei
nell’etichettare, come spesso si è fatto, e si fa, il pensiero crociano come
“idealismo”». D’altronde Croce stesso, in un famoso articolo del 1943
(l’articolo si intitolava: Una denominazione filosofica da abbandonare:
l’idealismo), arrivò a rifiutare tale denominazione, preferendovi quelle di
«storicismo» o «spiritualismo» assoluto.
Certo è che, rievocando i rapporti tra Croce e Gentile, entriamo in un ca-
pitolo particolarmente complesso della nostra storia intellettuale. La loro co-
noscenza (sia pure solo epistolare) risale al giugno del 1896, quando Gentile
inviò a Croce l’estratto di un articolo su Antonfrancesco Grazzini detto il La-
sca e Croce ricambiò con la seconda edizione del volumetto sulla Critica let-
teraria, che era appena apparso per l’editore Loescher. Ma ben presto, as-
sieme alla sintonia e alla stima reciproca, le loro conversazioni si fecero in-
tense e anche problematiche; per un lungo periodo, fino alla fondazione della
rivista «La Critica», toccarono soprattutto due questioni: da un lato lo studio
di Marx e del materialismo storico, d’altro lato i problemi dell’estetica filo-
sofica, con particolare riferimento alla relazione tra forma e contenuto
nell’arte. Questi due aspetti – il marxismo e l’estetica – furono quelli dove
l’influenza dell’idealismo sulla cultura italiana risultò forse più profonda e
duratura.
In primo luogo, dunque, Marx e il marxismo. L’importanza degli studi
che Croce e Gentile condussero sul materialismo storico non può essere còlta
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senza richiamare il rapporto che entrambi intrattennero, in misura diversa,


con Antonio Labriola, cioè con il pensatore che, fin dal primo saggio marxi-
sta del 1895 (In memoria del Manifesto dei comunisti), aveva dato l’avvio al
«comunismo critico», come lo definì. Croce conosceva Labriola fin dal gen-
naio del 1884, quando, svogliato studente della Sapienza di Roma (non si
laureò mai), ne frequentò le lezioni di filosofia morale, per poi incoraggiare,
e persino finanziare, circa un decennio dopo, gli studi che Labriola, scoperto
il socialismo, dedicò al materialismo storico. I rapporti tra il maestro e l’indi-
sciplinato allievo furono, fin dall’inizio, difficili. Labriola non mancò di cri-
ticare in Croce l’atteggiamento da «letterato», la scarsa passione politica; per
poi esprimere un dissenso più aperto quando Croce, dapprima in una nota al
saggio su Loria dedicata all’economia pura, poi con le Tesi di estetica del
1900, cominciò a delineare una propria filosofia. E bisogna aggiungere che i
rapporti tra Labriola e Croce si fecero più difficili anche per l’intromissione
di Gentile: il quale, fin dall’inizio, operò per approfondire le differenze tra i
due studiosi, quasi per dividerli, fino all’episodio dell’ottobre 1903 del con-
corso per la cattedra di Filosofia Teoretica a Palermo, dove Labriola era
commissario e Gentile candidato; e che esasperò Labriola, fino a indurlo a
pronunziare durissime invettive contro Gentile. Invettive dovute, anche qui,
non solo all’episodio concorsuale, ma alla consapevolezza del fatto che gli
studi di Gentile delineavano (anche per l’influsso del suo maestro, di Donato
Jaja) un rapporto con l’eredità di Bertrando Spaventa e dello hegelismo na-
poletano del tutto diverso da quello che lui aveva prospettato.
Il «triangolo», per così dire, tra Labriola, Croce e Gentile (a cui occorre-
rebbe aggiungere almeno il nome di Sorel) rappresenta dunque un passaggio
singolare nella storia intellettuale di quegli anni. Rimane il fatto che entrambi,
sia Croce sia Gentile, svolsero i loro studi sul marxismo a partire da Labriola,
spesso adottandone il lessico e i concetti fondamentali. Nel caso di Croce, il
debito è evidente, sin dal primo articolo del 1895 Intorno al comunismo di
Tommaso Campanella; poi negli scritti successivi, che in effetti vennero
spesso apprezzati da Labriola, dove Croce non mancò, spesso alterandone il
significato, di riprendere spunti che provenivano dai primi due saggi di La-
briola sul materialismo storico, come nei casi della teoria dei fattori storici,
della riduzione del materialismo storico a «canone» per l’interpretazione del-
la storia e all’intera problematica del valore-lavoro come «paragone ellittico».
Ma in generale la riflessione di Croce su Marx si muoveva in un’altra dire-
zione: che mirava sì a valorizzare l’apporto del marxismo per la conoscenza
storica, ma anche a separarlo da ogni possibile programma politico del socia-
lismo e soprattutto a enuclearne, con la mediazione del marginalismo, un
principio filosofico, quello (come poi diremo) dell’utile-economico.
Gli studi di Gentile si mossero in una direzione molto diversa rispetto a
quella di Croce. A Marx, Gentile dedicò due scritti, raccolti poi, nel 1900,
nel libro intitolato La filosofia di Marx. Già nel primo di essi, Gentile svol-
geva la sua critica fondamentale al marxismo: di avere unito, in maniera con-
traddittoria, il principio hegeliano della dialettica a un contenuto inappropria-
to, materiale e sensibile, che proveniva dalla filosofia di Feuerbach. Ma que-
sta critica raggiunse una superiore chiarezza nel secondo scritto, dedicato a
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La filosofia della prassi. Questo studio di Gentile era distruttivo nei confronti
della filosofia di Marx, eppure esercitò una discreta influenza nella storia del
marxismo italiano, a cominciare dai due scritti di Rodolfo Mondolfo su
Feuerbach e Marx del 1909. Anche la sua genesi è caratteristica. Nel gennaio
del 1898 Gentile aveva ricevuto in dono da Croce l’edizione italiana del ter-
zo saggio marxista di Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia, che
in due luoghi indicava nella filosofia della praxis (adoperando per la prima
volta questa espressione) il «nocciolo» o il «midollo» del materialismo stori-
co. Gentile diede il massimo rilievo a tale indicazione, rendendo esplicite
due premesse che Labriola non aveva dichiarate. In primo luogo la relazione
tra la filosofia della praxis e la filosofia di Bertrando Spaventa, che proprio
in quei giorni Gentile cominciava a studiare sistematicamente per l’edizione
degli Scritti filosofici, che apparve nel 1900 per l’editore Morano con una
lunga e importante introduzione. In secondo luogo, Gentile collegò la filoso-
fia della praxis alle Tesi su Feuerbach del giovane Marx, proponendone la
prima (assai discutibile) traduzione italiana, nella versione (per altro non
coincidente con il manoscritto di Marx) che Engels aveva resa disponibile
nella «Neue Zeit» nel 1886, poi in appendice al Ludwig Feuerbach nel 1888.
Labriola, che aveva ricevuto le Tesi su Feuerbach in dono da Engels, non
aveva dato particolare rilievo a questo testo del giovane Marx. Gentile invece
lo considerò come l’alfa e l’omega del marxismo teorico, inaugurando una
tradizione di pensiero (da Mondolfo a Gramsci e oltre) che aveva al suo cen-
tro il concetto del «rovesciamento della prassi».

2. Già il 23 novembre del 1898 Croce comunicava a Gentile di non voler-


si più occupare del pensiero di Marx, per dedicarsi agli studi di estetica e, in
generale, di filosofia. Dal marxismo, spiegò, aveva tratto quanto lo interessa-
va, cioè la nuova categoria dell’utile-economico, che aggiunse a quelle tradi-
zionali del bello, del vero, del bene. Intorno all’utile, che indicava la volizio-
ne economica elementare, il semplice agire, distinto dal momento teoretico e
ancora privo di specificazioni morali, nasceva il suo sistema dello spirito,
cioè una filosofia fondata sulla distinzione tra sfera teoretica e sfera pratica e
incardinata sulle quattro forme fondamentali della realtà: estetica, logica,
economica ed etica. Questa fu la scoperta principale di Croce, quella che aprì
la costruzione della sua filosofia. La volizione economica, infatti, arrivava a
spiegare tutti i prodotti empirici, a cominciare da quelli delle scienze, del di-
ritto, della politica. E conservava un legame, non sempre dichiarato, con il
pensiero di Marx (Gramsci parlerà nel Quaderno 10 di una «trascrizione»
speculativa della filosofia della praxis) e con il modo in cui, nel terzo saggio,
Labriola lo aveva sviluppato. Eppure, questo concetto trovò subito due critici
radicali: da un lato lo stesso Labriola, che lo intese come una banale ricaduta
nell’idealismo tradizionale; d’altro lato Gentile, che subito rifiutò la distin-
zione del momento economico, negando che si trattasse di una forma spiri-
tuale, di una struttura fondamentale della realtà.
Ma l’utile rappresentò il fulcro di tutto lo sviluppo della filosofia di Croce,
fino alle ultime meditazioni sulla vitalità, a partire dagli anni Trenta del No-
vecento, quando certo cambiò volto e si radicalizzò, restando comunque al
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centro della sua riflessione. Dopo avere chiarito questo principio nelle due
lettere a Vilfredo Pareto del maggio e dell’ottobre del 1900, Croce si dedicò
all’elaborazione della sua estetica, che venne svolta dapprima nelle Tesi di
estetica del 1900, poi nella grande Estetica del 1902, dove per la prima volta
compariva il principio dell’intuizione e la tesi dell’identità di estetica e lin-
guistica. Insieme ai saggi di critica sulla letteratura della nuova Italia, che
vennero pubblicati nella «Critica» a partire dal 1903, i nuovi princìpi di este-
tica inaugurarono il periodo della maggiore collaborazione con Gentile e di
una profonda influenza sulla cultura italiana. Una influenza non sempre lim-
pida, di cui lo stesso Croce si accorse, specie quando, nel 1907, con l’articolo
Di un carattere della più recente letteratura italiana, segnò un severo punto
di confine, richiamando al «metodo storico o metodo filologico» nella lette-
ratura e arrivando a rifiutare con nettezza ogni tendenza irrazionale.
D’altronde, gli scritti sulla estetica e sulla critica letteraria erano stati pen-
sati e scritti da Croce, fra il 1900 e il 1904, quando sostanzialmente ignorava
la filosofia di Hegel. Come egli stesso chiarì nel Contributo alla critica di me
stesso (1915), fu solo nel 1905 che si immerse nello studio delle opere di
Hegel, con la traduzione della Enciclopedia delle scienze filosofiche e con il
libro su Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel, che uscì per
Laterza nello stesso 1906. Come Marx (attraverso la mediazione di Labriola)
aveva rappresentato il punto di avvio del loro pensiero, così il confronto con
Hegel significò, sia per Croce che per Gentile, il passaggio decisivo della ri-
spettiva evoluzione intellettuale. Nel caso di Croce, il confronto con Hegel e
la sua critica, modificò profondamente la struttura del sistema: la critica degli
aspetti «sistematici» dello hegelismo – la filosofia della storia, la filosofia
della natura, la filosofia dell’arte – lo portò a enucleare il centro speculativo
della sua filosofia, opponendo alla dialettica hegeliana, al suo «panlogismo»
(come scrisse), la realtà delle forme distinte: le categorie, insomma, portava-
no dentro di sé l’energia dialettica degli opposti, ma la dialettica, a differenza
di quanto aveva ritenuto Hegel, non poteva essere considerata la regola della
relazione reciproca tra le categorie stesse. Questa acquisizione cambiava la
stessa trama concettuale dell’Estetica, anche se Croce (pur introducendo im-
portanti quanto per lui faticose revisioni per la terza edizione dell’opera, che
apparve nel 1908) non ne avviò mai la riscrittura. Ma le novità, derivanti dal
confronto con Hegel, pesarono sui volumi successivi della Filosofia dello
spirito: sulla Logica, anzi tutto, dove Croce arrivò a cogliere nel giudizio in-
dividuale, storico e percettivo, cioè nella sintesi a priori di intuizione e con-
cetto, il supremo atto teoretico. Quindi sulla Filosofia della pratica, dove la
struttura della realtà era ripensata come un circolo del teoretico e del pratico,
come un presupporsi reciproco dell’azione e del conoscere, della prassi e del
giudizio. Fino al quarto volume della Filosofia dello spirito, cioè Teoria e
storia della storiografia, che precisava le tesi della contemporaneità di ogni
storia e dell’identità di filosofia e storiografia. Insomma il suo storicismo.
Lo stesso discorso deve ripetersi per Gentile. Anche qui, come era acca-
duto a proposito di Marx, le loro analisi si mossero in una direzione diversa,
anche se parallela e, dirò così, in costante conversazione reciproca. Fin
dall’articolo del 1909 sulle forme assolute dello spirito – arte, religione, filo-
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sofia – Gentile negò alla radice il concetto crociano della distinzione: come
aveva insegnato Hegel, ciascuna forma dello spirito arrivava a contraddirsi,
fino a mostrarsi, nella sfera conclusiva della filosofia, solo come un momen-
to dell’assoluto. Però il confronto con Hegel cominciò a prendere quota con
la costruzione dell’attualismo, cioè con la memoria del 1911 su L’atto del
pensare come atto puro e nel saggio del 1912 su La riforma della dialettica
hegeliana. Qui Gentile insisté sulla incapacità di Hegel di giustificare la de-
duzione trascendentale del determinato e, riprendendo la linea che era stata
di Kuno Fischer e di Bertrando Spaventa, arrivò a concepire la dialettica
nell’atto del pensare, nella perenne dialettica del concreto e dell’astratto,
dell’actus e dell’actum. Nessuna distinzione, dunque, e nessuna tetrade delle
categorie: ma infinite categorie, sempre sgorganti dall’energia originaria del
pensare. Era la linea del formalismo assoluto, che Gentile compirà nelle ope-
re teoretiche maggiori, dalla Teoria generale del 1916 alla seconda edizione
del Sistema di logica del 1922.
Da questi brevi cenni appare chiara la differenza di fondo tra le filosofie
di Croce e di Gentile. E questo spiega le tensioni che più volte si determina-
rono nel loro carteggio e nel corso del lavoro comune per la «Critica». E
inoltre le tensioni e le insofferenze che sorgevano, nei confronti di Croce,
nell’àmbito della prima scuola gentiliana. Ma soprattutto spiega come si ar-
rivò, nel 1913, alla prima polemica pubblica sulla «Voce» di Prezzolini, alla
controversia tra i «filosofi amici» a proposito dell’unità e delle distinzioni
dello spirito, con le accuse di misticismo e di positivismo empirico che allora
si scambiarono. Ma a questa pubblica discussione del 1913, se ne sovrappose
presto un’altra, che ebbe conseguenze più distruttive, quella sull’intervento
italiano nella grande guerra, che cominciò a rivelare in maniera sempre più
netta la diversa visione che essi avevano della storia d’Italia.

3. Tutte queste controversie, però, non erano giunte a mettere in discus-


sione la collaborazione e l’amicizia. Che invece si spezzò di fronte al fasci-
smo, in particolare di fronte all’adesione che Gentile aveva dato al regime.
Come Croce scrisse nell’ultima lettera a Gentile del 24 ottobre 1924, al «dis-
sidio mentale» se ne era «aggiunto un altro di natura pratica e politica, e anzi
il primo si è convertito nel secondo: e questo è più aspro». L’interruzione dei
rapporti personali fu dunque irreparabile, nonostante i tentativi di mediazione
che da più parti (da Francesco Gaeta, poi da Adolfo Omodeo) vennero tentati.
E il conflitto si acuì negli anni successivi: con l’opposizione dei due manife-
sti tra l’aprile e il maggio 1925, con la pubblicazione nel 1928 della Storia
d’Italia di Croce (che conteneva parole molto dure contro Gentile e contro
l’attualismo), con la vicenda del giuramento dei professori universitari (diret-
tamente ispirato da Gentile) del 1931. Ed ebbe riflessi gravosi anche sul pia-
no della discussione filosofica: con la pubblicazione, per fare alcuni esempi,
della Filosofia dell’arte di Gentile nel 1931, dove si leggeva la definizione
sprezzante della filosofia di Croce come «filosofia delle quattro parole» e la
replica che Croce vi oppose con un articolo nella «Critica»; e ancora quando
uscì la Storia come pensiero e come azione di Croce e Gentile reagì sul
«Giornale critico». Fino all’ultimo episodio, che fu segnato dalla morte vio-
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lenta di Gentile il 15 aprile 1944, e dalla reazione di Croce, che venne affida-
ta a una travagliata pagina dei suoi Taccuini di lavoro: una pagina drammati-
ca, che Croce scrisse in tre diverse versioni, e che solo ora conosciamo nella
sua genesi e nelle diverse varianti.
Il vero motivo della rottura fu dunque politico. Ma la diversa scelta poli-
tica, che entrambi maturarono tra il 1923 e il 1925, ebbe conseguenze di ri-
lievo anche sullo sviluppo delle loro filosofie. Come è noto, Gentile aderì al
Partito Nazionale Fascista, di cui accettò la tessera ad honorem, con una let-
tera a Mussolini del 31 maggio 1923, dopo l’esperienza come ministro della
Pubblica Istruzione e dopo avere dedicato allo stesso Mussolini, nel marzo, il
libro sui Profeti del Risorgimento italiano. Per tutti gli anni Venti, almeno
fino alla vicenda del concordato, acquistò nel regime una posizione di asso-
luto rilievo, come presidente della commissione dei quindici (poi allargata a
diciotto membri) per la riforma dello Statuto Albertino, come presidente
dell’Istituto nazionale fascista di cultura, come direttore scientifico della En-
ciclopedia Italiana. I motivi che lo avvicinarono al fascismo, e soprattutto
alla figura di Mussolini (a cui confermò la sua fedeltà ancora il 17 novembre
1943, nel drammatico incontro a Gardone Riviera, sul lago di Garda, quando
accettò la presidenza dell’Accademia d’Italia), – questi motivi non erano le-
gati alla struttura della sua filosofia, cioè dell’attualismo: erano legati, piutto-
sto, alla sua visione della storia d’Italia, in particolare del Risorgimento e del
post-Risorgimento. Non è un caso che molti di coloro che si erano formati
alla scuola dell’attualismo (come Giuseppe Lombardo Radice, Adolfo Omo-
deo, Guido Calogero) si trovarono subito dall’altra parte della barricata e fe-
cero una pronta scelta antifascista. L’attualismo non fu dunque (come pure
Croce ritenne) il motivo determinante della scelta fascista di Gentile. Però, a
partire dal 1923 (quando era già stata pubblicata la seconda edizione del Si-
stema di logica, e l’attualismo era ormai compiuto nelle linee fondamentali)
Gentile cercò in diverse maniere di trascrivere, per dire così, il suo attuali-
smo nella forma di una dottrina del fascismo. Come si vide non solo nel fa-
moso manifesto del 21 aprile 1925 degli intellettuali fascisti, ma poi anche
nella voce Fascismo del 1932 (scritta insieme a Mussolini) e in tanti altri
scritti di questi anni. Questo tentativo di trascrivere la filosofia
dell’attualismo in una dottrina del fascismo riuscì fino a un certo punto. Anzi,
negli sviluppi più importanti del suo pensiero, Gentile non mancò di manife-
stare novità autentiche: come si vide nella stessa Filosofia dell’arte, che, al
di là delle pagine polemiche, conteneva spunti nuovi sul tema del sentimen-
to; e come si vide, in maniera ancora più netta, nell’ultima sua opera, in Ge-
nesi e struttura della società, dove aspetti che provenivano dal fascismo e
dal corporativismo si univano a fermenti originali, che riguardavano la natu-
ra dell’individuo e il suo rapporto con la struttura sociale, fino alle pagine
conclusive sul tema della morte e dell’immortalità.
Lungo linee ovviamente diverse, lo stesso discorso dovrebbe essere ripe-
tuto per Croce. La scelta di opposizione al fascismo, che Croce compì dopo
un periodo di incertezze, che si prolungarono fra il 1922 e il 1924, comportò
novità sostanziali nella sua filosofia. Non solo per la composizione delle
grandi opere storiche – la Storia del regno di Napoli, la Storia dell’età ba-
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rocca, la Storia d’Italia e la Storia d’Europa –, ma anche per la revisione


degli assi fondamentali del suo pensiero. Revisione che non a caso cominciò
intorno al 1925 con l’elaborazione di una nuova teoria del liberalismo. Croce
era stato sempre liberale, fin da quando, nel 1883, aveva vissuto nella casa di
Silvio Spaventa, di cui poi nel 1897 (quindi nell’edizione ampliata del 1923)
aveva ristampato gli articoli sul «Nazionale»: ma il suo liberalismo, coniuga-
to con un duro realismo politico, era rimasto fondato sulla persuasione che la
libertà costituisse, nell’epoca moderna, un bene acquisito e sicuro, di fatto
irreversibile. Lo spettacolo della decadenza delle istituzioni liberali, non solo
in Italia ma via via in diverse parti d’Europa, fino alla conquista del potere
da parte del nazionalsocialismo, lo portò a ripensare i fondamenti della sua
concezione, ponendo al centro della meditazione proprio il tema della deca-
denza. Come era stato possibile il crollo delle istituzioni liberali? A questa
domanda Croce rispose con una critica del liberalismo tradizionale e con una
vera e propria inversione del suo paradigma classico. Era impossibile deriva-
re il liberalismo dalle istituzioni che ne avevano accompagnato il cammino:
quelle istituzioni (come lo Stato di diritto o il libero mercato) restavano libe-
rali solo a condizione di essere penetrate dalla energia inesauribile della li-
bertà, dalla coscienza libera degli uomini. Quando la libertà abbandona le
sue istituzioni, quando la energeia esce dai suoi erga, dai suoi prodotti storici,
allora il mondo liberale decade. Era la concezione metapolitica del liberali-
smo, che si traduceva nella critica dell’identificazione del principio liberale
con le istituzioni positive ed empiriche.
Ma la nuova concezione del liberalismo si accompagnava a un sommo-
vimento più generale della filosofia dello spirito. Cresceva, con il principio
della libertà, il peso attribuito alla forma morale, ormai concepita – fin dal
libro su La storia come pensiero e come azione – quale «potenza unificatrice
dello spirito», dotata di un privilegio di imperium sulle altre categorie, di un
primato e di una supremazia, di un’autorità – scrisse – «moderatrice e gover-
natrice». Libertà e moralità si identificavano, e questo nuovo livello della ri-
flessione culminava nella conversione del vecchio idealismo, la cui stessa
denominazione (come abbiamo detto) veniva congedata, nello «storicismo
assoluto».
Al fondo di tutta la meditazione di Croce restava il pungolo dell’utile,
della quarta forma che, studiando Marx e il marxismo, aveva aggiunto alla
triade delle antiche categorie. Fin dalla conferenza oxfordiana del 1930
sull’Antistoricismo, era indicata qui la radice della malattia morale che, dal
decadentismo del primo Novecento, aveva condotto al disastro delle libere
istituzioni. L’utile assunse sempre più il volto della vitalità, «cruda e verde»
(come scrisse adattando le parole di Leopardi nella Ginestra): un volto am-
biguo, perché da un lato potenza costruttrice della tecnica e del progresso
materiale, d’altro lato, e nello stesso tempo, distruttrice dei suoi stessi pro-
dotti. L’importanza attribuita al momento della vita condusse Croce a riapri-
re il confronto con Hegel, che sembrava chiuso fin dal 1907. Lo riaprì, tor-
nando a interrogarsi sull’origine della dialettica e del divenire, cioè ponendo
la medesima domanda che aveva acceso la riflessione di Bertrando Spaventa
e, dopo di lui, di Gentile. Domanda alla quale, tuttavia, diede risposta diversa
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e persino contraria: non nel pensiero nasceva la dialettica, ma «nella sfera


vitale dello spirito»: e «mi avvidi – scrisse nelle Indagini su Hegel – che He-
gel non avrebbe mai potuto seguirmi su questa via».

4. Alla fine di questo breve discorso su Croce e Gentile, rimarrebbe da


rispondere alla domanda sulla loro posizione nella storia della filosofia. A
distanza di molti anni, e con strumenti critici più affinati, possiamo finalmen-
te liberarci di molti miti interpretativi: da un lato quello della loro perenne
attualità, perché abbiamo imparato a storicizzare e a mettere a una giusta di-
stanza la loro opera; d’altro lato lo stereotipo secondo cui essi sarebbero re-
sponsabili di ogni male della nostra cultura, avendo favorito (come si è detto
e ripetuto) il provincialismo, l’assenza di un sapere scientifico o addirittura
un approccio metafisico alla filosofia.
La cosa più difficile è fare i conti con il loro pensiero, che ha esercitato
(secondo la efficace formula di Gianfranco Contini) una «influenza cultura-
le» importante, che è penetrata anche in coloro che ne hanno taciuto o ne
hanno respinto con violenza verbale i princìpi costitutivi. Non proprio una
«egemonia» (forse con l’eccezione di un breve periodo della biografia di
Gentile), ma una diffusa «influenza culturale». Lo stesso Gramsci scrisse che
Croce aveva conseguito una «egemonia» sul ceto intellettuale, ma tuttavia
non aveva raggiunto una piena «egemonia», perché la sua filosofia non era
riuscita a toccare il senso comune, a operare una effettiva «riforma morale e
intellettuale». Rinascimento dunque (come lui si esprimeva), ma senza Ri-
forma. Non si può parlare, dunque, di egemonia dell’idealismo, neanche sul-
la cultura italiana. Ma certamente questi autori hanno esercitato una notevole
influenza, che arriva fino a noi e che ha contribuito in maniera sostanziale a
formare il carattere della filosofia italiana.

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