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Simone D’Agostino

Sistemi filosofici moderni


Descartes, Spinoza, Locke, Hume
www. edizioniet s.com

Volume pubblicato con un contributo della Facoltà di Filosofia


della Pontificia Università Gregoriana, Roma.

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ISBN 978-884673721-2
IN TR O D U ZIO N E

La prima Regola, secondo Descartes, è che «Il fine degli studi


deve essere la direzione dell’ingegno nel portare giudizi solidi e veri su
tutto ciò che si presenta»1. A un primo sguardo, sembra essere una
prescrizione tanto ovvia quanto innocua: studiare serve a conoscere
scientificamente ogni cosa. Tuttavia, sin dalle prime righe del commen­
to che il filosofo offre a tale Regola, si scopre che essa solleva in realtà
un problema di non poco conto. Che cos’è la scienza? Descartes ci fa
notare anzitutto una consuetudine erronea: quando gli uomini ritengo­
no che due cose si somigliano, tendono ad attribuire indifferentemente
prerogative dell’una all’altra. Accade così anche nella somiglianza tra
scienze e arti. Sebbene esse siano formalmente differenti tra loro, dato
che le scienze «consistono interamente in una conoscenza dell’animo
{animi cognitione)», mentre le arti «ricercano un qualche uso e disposi­
zione del corpo (corporis usum habitumque)», si tende a trattare le pri­
me alla stessa stregua delle seconde. Infatti, constatando che nelle arti
si diventa tanto più abili quanto più se ne pratica una sola, si è indotti a
pensare che ciò debba valere anche per le scienze. Pertanto, si ritiene
che le scienze vadano «distinte le une dalle altre secondo la diversità
degli oggetti»2, e che sia quindi più fruttuoso coltivarle ciascuna per sé,
trascurando le altre. Ma questo è un inganno. In verità, ribatte Descar­
tes, «tutte le scienze non sono altro che l’umana sapienza, che resta
sempre unica e medesima per quanto applicata a differenti soggetti».
Le Regulae ad directionem ingenti, redatte negli anni Venti del
’600 allo scopo di stabilire un metodo universale nelle scienze, hanno
come loro interlocutore principale Aristotele. Ciò è ben evidente sin
dalla prima Regola, come ha ampiamente mostrato J.-L. Marion3. L’in­

1 AT X: 359 (trad. it., R. D escartes , Regole per la direzione dell’ingegno, in Id.,


Opere postume. 1630-2009, a cura di G. BELGIOIOSO, Bompiani, Milano 2009, 685).
2 AT X: 360 (trad. it., cit., 685).
3 J.-L. MARION, Sur l’ontologie grise de Descartes. Science cartésienne et savoir
aristotélicien dans les Regulae, Vrin, Paris 19923, 25-34.
8 Sistemi filosofici moderni

dipendenza degli ambiti scientifici è, notoriamente, uno dei capisaldi


dell’epistemologia aristotelica e, di conseguenza, anche di larga parte di
quella scolastica d’impronta peripatetica contro la quale Descartes indi­
rizza la sua riforma del sapere. Negli Analitici posteriori Aristotele so­
stiene: «Poiché nell’ambito di ciascun genere sussistono di necessità
tutte le cose che sussistono per sé e in quanto [nell’ambito di] ciascu­
no, è evidente che le dimostrazioni scientifiche concernono le cose che
sussistono per sé e procedono da questo tipo di cose»4. La celebre con­
clusione che lo Stagirita trae da questa premessa è che «non è possibile
dimostrare passando da un altro genere (ex allou genous metabanta)»5.
Ciascuna scienza è delimitata dalle definizioni dei generi di enti che ha
in oggetto, dai quali desume principi a essa propri, i quali non possono
né essere assunti dai principi di un’altra scienza, né dimostrarli in alcun
modo. Nello stabilire questo assunto epistemologico di base, Aristotele
si opponeva alla tendenza platonizzante che mirava a una scienza uni­
versale unica, capace di dimostrare i principi di tutte le altre scienze.
Pertanto, egli giungeva a escludere nettamente la possibilità di «dimo­
strare i principi propri di ciascuna cosa: infatti essi saranno principi di
tutte le cose, e la scienza di essi superiore a tutte»6. Al contrario, non è
un caso che, per descrivere meglio la natura indivisa della scienza nella
sua indipendenza dai generi di oggetti ai quali si rivolge, nel commento
alla prima Regola Descartes proponga una metafora che evoca proprio
quella utilizzata da Platone nel libro VI della Repubblica: l’umana sa­
pienza non riceve dai suoi oggetti «una maggiore distinzione di quella
che la luce del Sole riceve dalla varietà delle cose che illumina»7.
Nonostante il divieto posto da Aristotele, il fascino esercitato
dall’ideale di trovare una scienza superiore a tutte attrasse molti dei
suoi commentatori antichi e medievali, da Temistio ad Averroè, da Al­
berto Magno a Tommaso d’Aquino, sfociando infine, con l’epoca Ri­
nascimentale, in un vero e proprio rovesciamento di prospettiva. Il
commento dell’aristotelico padovano Giacomo Zabarella agli Analitici
posteriori di Aristotele, pubblicato nel 1582, reinterpreta il passo ari­
stotelico appena succitato in una chiave assai illuminante. Come
E. Berti ha attentamente documentato8, Zabarella non aveva difficoltà

4 Anal. Post., I 6, 75a 28-31 (traci, it., ARISTOTELE, Organon, a cura di M. Z a -


NATTA, 2 voli., Utet, Torino 1996, II, 23).
5 Anal. Post., 1 7, 75a 38 (trad. it., cit., II, 24).
6 Anal. Post., I 9, 76a 16-18 (trad. it., cit., II, 27).
7 AT X: 360 (trad. it., cit., 685).
8 E. BERTI, Metafisica e dialettica nel Commento di Giacomo Zabarella agli
Introduzione 9

nelTidentificare in quella «scienza superiore a tutte» la metafisica, in­


tesa come la scienza divina che contempla i principi primi di tutte le
cose. Il filosofo padovano non faceva altro che far convergere due
aspirazioni di lungo corso: da un lato, la tendenza neoplatonizzante
presente nella maggior parte dei commentatori, i quali si sforzavano di
armonizzare Platone e Aristotele; dall’altro lato, la tendenza impressa
dalla riflessione teologica di vedere nella metafisica la «madre e signo­
ra» di tutte le altre scienze. Così, Zabarella, tradendo il dettato aristo­
telico, si spingeva fino a ritenere che «la metafisica è in grado di dimo­
strare i principi propri delle altre scienze, sia pure non all’interno di
queste ultime, ma per così dire, per conto proprio, cioè al proprio in­
terno, partendo dai propri principi (e dunque mediante una dimostra­
zione a priori)»9. Secondo Berti, questa impostazione gettava le pre­
messe del modello cartesiano della filosofia, nel quale essa è raffigura­
bile «come un albero, le cui radici sono la metafisica, il tronco è la fisi­
ca e i rami che escono da questo tronco sono tutte le altre scienze»10.
Pochi anni più tardi, un altro grande commentatore di Aristotele
pubblicava l’opera che, forse, più di ogni altra ha segnato la transizio­
ne alla filosofia dell’epoca moderna. Nel 1597 vedono la luce le Dispu-
tationes metaphysicae del gesuita Francisco Suàrez. Nel suo magistrale
saggio incentrato attorno a quest’opera, J.-F. Courtine ha evidenziato
come Suàrez abbia volutamente lasciato alle sue spalle la forma classi­
ca del commentario alla Metafisica libro per libro e questione per que­
stione, che vincolava l’indagine alla scansione prestabilita del testo,
per intraprendere la via ben più ardua e innovativa del trattato auto­
nomo di metafisica, che invece smonta e rimonta daccapo l’intero im­
pianto dell’opera aristotelica originaria11. Tra le ragioni che mossero
l’ex professore del Collegio Romano a questa storica svolta, c’erano
anche le coordinate pedagogiche della Compagnia di Gesù. Ignazio di
Loyola e quasi tutti i suoi primi compagni erano magistri in filosofia,
formatisi alla Sorbona secondo il cosiddetto modus parisiensis. Questo
evento ebbe di certo influsso sulle Costituzioni e sulla successiva Ratio

Analitici posteriori, in Id., Nuovi studi aristotelici, 4 voli., Morcelliana, Brescia 2004-
2010, IV/1, 239-254.
9 BERTI, Metafisica e dialettica nel Commento di Giacomo Zabarella, cit., 242.
10 AT IX/2: 14 (trad. it., R. DESCARTES, Principi della filosofia, in Id., Opere.
1637-1649, a cura di G. BELGIOIOSO, Bompiani, Milano 2009,2231).
11 J.-F. COURTINE, Suarez et le systèrne de la métaphysique, Presses Universitaires
de France, Paris 1990 (trad. it., Il sistema della metafisica. Tradizione aristotelica e svolta
di Suàrez, a cura di C. ESPOSITO, Vita e Pensiero, Milano 1999).
10 Sistemi filosofici moderni

studiorum, che venne pubblicata in forma definitiva nel 1599. In effet­


ti, per la formazione dei futuri gesuiti erano previsti tre anni d’inten­
sissimo studio della filosofia, nei quali era data l’indicazione di «segui­
re la dottrina di Aristotele»12.
In conseguenza di ciò, si comprende meglio perché Suàrez, nel
rivolgersi Al lettore all’inizio delle Disputationes, giustifichi la novità
della sua impresa così: «Ho sempre pensato che la capacità d’intende­
re e di penetrare una cosa risieda in gran parte nel metodo d’indagine
e di valutazione ad essa conveniente, metodo che potrei seguire solo a
stento, o per nulla affatto, se trattassi tutte le questioni incidentalmen­
te e quasi a caso (obiter et veluti casu), così come si prè^entano in rife­
rimento al testo del Filosofo»13. Insomma, per meglio seguire Aristote­
le è meglio non seguire Aristotele. Infatti, se si rimane legati alla se­
quenza dei libri della Metafisica - come ad esempio in quegli stessi an­
ni avrebbe fatto in modo esemplare il gesuita Pedro da Fonseca14 - si
rischia di perdersi negli intricati percorsi diaporetici che attraversano
quel testo15. «Ho perciò reputato - continua Suàrez - che fosse più
funzionale e più utile, conservando l’ordine dottrinale (.servato doctri-
nae ordine), indagare e mettere davanti agli occhi del lettore tutto
quello che si poteva ricercare e studiare dell’intero oggetto di questa
sapienza». L’istanza pedagogica cede dunque il passo a una ragione
ben più cogente. Come giustamente fa notare Courtine, il vero obietti­
vo di Suàrez è quello di salvaguardare Yordo doctrinae: «quello che ci
verrebbe da chiamare un ordo pre-cartesiano, o quasi, nella misura in
cui decide anticipatamente delle res ipsae»16. Qui Courtine si riferisce
evidentemente a quell’ordine in cui, secondo le Regulae cartesiane,
consiste tutto il metodo17. Ordine che il metodo non mira a estrarre
dagli oggetti che vuole esaminare, quanto piuttosto a stabilire in essi18.

12 «Nella logica, nella filosofia naturale e morale e nella metafisica, si seguirà,


come anche nelle arti liberali, la dottrina di Aristotele» (Const. S.I., 473 [trad. it., Costi­
tuzioni della Compagnia di Gesù, a cura di G. SILVANO, Ancora, Milano 1969, 200]).
13 F. S uàrez , Disputazioni metafisiche, a cura di C. ESPOSITO, Bompiani, Milano
2007,55.
14 P. DA FONSECA, Commentariorum in Metaphysicorum Aristotelis libros, Co-
loniae 1615.
15 Cf. Metaph., B 1.
16 COURTINE, Suarez et le systèrne de la métaphysique, cit., 327 (trad. it., cit.,
277-278).
17 «Tutto il metodo consiste nell ordine e nella disposizione di ciò cui deve essere ri­
volto l’acume della mente per trovare una qualche verità» (AT X: 379 [trad. it., cit., 709]).
18 Cf. M a rio n , Sur Vontologie grise de Descartes, cit., 71-111.
Introduzione 11

Siamo così tornati al punto di partenza. Tuttavia, questo corto­


circuito tra un aristotelico tardo-scolastico come Suàrez e un filosofo
moderno anti-peripatetico come Descartes non deve poi stupirci più
di tanto. Anzitutto, perché da tempo abbiamo imparato che il proposi­
to dichiarato da molti filosofi moderni di costruire la loro filosofia fa­
cendo tabula rasa della tradizione precedente, soprattutto scolastica,
appartiene più al mito che alla realtà dei fatti19. Sia sufficiente ram­
mentare che la formazione filosofica del giovane Descartes avvenne
proprio in un collegio della Compagnia di Gesù, i cui professori si era­
no a loro volta formati sulle opere di Suàrez e più in generale su quei
manuali dei Coninbricenses, che conobbero una straordinaria e dura­
tura diffusione in gran parte dell’Europa, cattolica e riformata. Ma, so­
prattutto, perché Suàrez e Descartes appaiono in verità accomunati da
una ben più profonda istanza.
Tirando le somme del percorso fin qui tratteggiato, appare come
nel frangente tra tardo Rinascimento e prima modernità emerga una
tensione di fondo. L’idea che esista effettivamente una «scienza supe­
riore a tutte», la metafisica, i cui principi fungono da presupposto di
quelli di tutte le altre scienze; unita all’esigenza di svincolare questa
scienza dalla struttura diaporetica del testo aristotelico, per trattarla in
modo autonomo, privilegiando Yordo doctrinae\ sommata, infine, all’i­
dea che tale ordo non dipenda dagli oggetti ai quali tale scienza si ri­
volge, ma dall’umana sapienza in sé, la quale resta sempre unica e me­
desima; tutto ciò attesta la crescente tensione della filosofia verso un
modello di sapere scientifico unificato e totalizzante, ovverosia, secon­
do il termine che gli stessi moderni eleggeranno20, verso un sistema.
Quando si parla di sistema, nel senso moderno del termine, il
pensiero corre spontaneamente alla filosofia del XIX secolo e in par-
ticolar modo a quella di Hegel21. Nel suo recente saggio, in cui tenta
di rileggere la Scienza della logica hegeliana proprio alla luce dell’idea
di sistema, F. Chiereghin, indagando i presupposti immediati di una

19 Cf. É. GlLSON, Index scolastico-cartésien, Vrin, Paris 1913, 19792.


20 Classicamente si ritiene che l’uso moderno del termine sistema appaia nella
storia della filosofia nel 1695, con il Système nouveaux de la nature di Leibniz, ma Cour­
tine retrodata tale uso al 1604, con il suareziano Metaphysicae systerna methodicum di
Clemens Timpler; cf. COURTINE, Suarez et le système de la métaphysique, cit., 418-432
(trad. it., cit., 353-365).
21 Per uno sguardo complessivo, cf. R.-P. HORSTMANN, The unity of reason and
thè diversity oflife. The idea of a system in Kant and in nineteenth-century philosophy, in
A.W. WOOD (ed.), The Cambridge History of Philosophy in thè Nineteenth Century
(1790-1870), Cambridge University Press, Cambridge-New York 2012, 61-91.
12 Sistemi filosofici moderni

tale concezione, individua una «tensione verso il sistema che percorre


larga parte del pensiero moderno e che giunge al suo più alto grado
di consapevolezza in Kant»22. Sin dalla prima edizione della Critica
della ragion pura, infatti, non solo l’idea di sistema è definita esplicita­
mente, ma, soprattutto, emerge la concezione che la ragione, per sua
natura, tende a conferire una forma sistematica alla conoscenza stes­
sa. Scrive Kant: «Con sistema io intendo l’unità di molteplici cono­
scenze sotto un’idea. Quest’ultima è il concetto razionale della forma
di un tutto, in quanto mediante tale concetto viene determinata a
priori l’estensione del molteplice, come pure la collocazione delle
parti tra di loro»23. Detto in altri termini, c’è sistema quando le mol­
teplici parti di un insieme formano un tutto, tale per cui la determina­
zione e l’organizzazione delle parti non deriva da nessuna di esse sin­
golarmente e neppure dalla loro somma, bensì da un principio forma­
le unificante superiore.
In base a ciò, prosegue Kant, «Il concetto scientifico della ragio­
ne contiene quindi il fine e la forma del tutto, congruente con quel fi­
ne». Al termine di un lungo tragitto, i cui presupposti abbiamo visto
essere presenti agli albori della filosofia moderna, scienza e sistema fi­
nalmente convergono in modo esplicito. Affinché si possa parlare di
scienza non è sufficiente sommare rapsodicamente diverse conoscenze
derivanti dall’analisi di singoli ambiti, giacché la conoscenza che ne
deriverebbe non solo non sarebbe qualitativamente superiore a quella
delle sue singole parti, ma nemmeno sarebbe in grado di determinare
quali parti siano mancanti. Per Kant, la scienza può darsi solo se pos­
siede una forma sistematica. Ciò è possibile grazie alla ragione, la qua­
le soltanto è capace di concepire l’ideale della conoscenza come un
tutto. Tale ideale è poi il fine al quale tutte le parti sono ordinate, giac­
ché la scienza non è un qualcosa di dogmaticamente già dato e com­
piuto. Ecco perché, nella prospettiva kantiana, il sistema non potrà es­
sere che qualcosa di futuro, da realizzare.
Sulla scorta di diversi studi specialistici24, Chiereghin si spinge

22 F. CHIEREGHIN, Rileggere la Scienza della logica di Hegel. Ricorsività, retroa­


zioni, ologrammi, Carocci, Roma 2011, 16.
23 A 832/B 860 (trad. it., I. K a n t , Critica della ragion pura, a cura di C. ESPOSI­
TO, Bompiani, Milano 2004, 1169).
24 Tra gli altri, il voi. IV della collana Studien zum System der Philosophie: K.
G lo y - W. NEUSER - P. REISINGER (edd.), Systemtheorie. Philosophische Betrachtungen
ihrer Anwendungen, Bouvier, Bonn 1998; L. U rbani U livi (ed.), Strutture di mondo. Il
pensiero sistematico come specchio di una realtà complessa, Il Mulino, Bologna 2010.
Introduzione 13

poi fino a individuare tre proprietà sistemiche principali, emergenti


nella Scienza della logica di Hegel: ricorsività, retroazioni, ologrammi.
La ricorsività caratterizza quei processi in cui ogni nuovo elemento ri­
sulta da una precisa interrelazione tra i precedenti. La retroazione qua­
lifica quei sistemi dinamici capaci di modificare se stessi in funzione
dei propri risultati. Un ologramma è tale per cui ogni singola parte in­
terferisce con il tutto. Sebbene queste caratteristiche appartengano a
un sistema altamente complesso e sofisticato come quello hegeliano e,
pertanto, siano difficilmente attribuibili nel loro insieme ad altri siste­
mi filosofici, tuttavia esse confermano un’idea di fondo. Per capire un
sistema non è sufficiente analizzare le sue parti sommando infine i sin­
goli risultati; nemmeno è sufficiente analizzare le parti una dopo l’altra
nella sequenza gerarchica in cui sono disposte; ma è indispensabile co­
gliere le interazioni strutturali e processuali delle parti tra di loro e con
il tutto. In altre parole, ciò che caratterizza un sistema è che esso ri­
sponde a logiche organizzative complesse, ovvero non riducibili a se­
quenze di tipo lineare tra le diverse parti25.
Se è vero che Kant, per primo, giunge alla piena consapevolezza
dell’idea di sistema e, sulla sua scia, Hegel è colui che perviene al più
alto grado di elaborazione della filosofia come sistema, è anche vero
che «Alla realizzazione dell’idea di sistema - ammette Chiereghin -
hanno mirato, con gradi diversi di consapevolezza e, conseguentemen­
te, di itinerari, i vari tentativi di organizzazione del sapere esperiti nel
corso del pensiero moderno»26. Ciò significa che, sia se si guarda al
pensiero moderno a partire dai suoi prodromi (Zabarella, Suàrez), sia
se lo si guarda dal punto di vista dei suoi esiti (Kant, Hegel), appare ef­
fettivamente sensata l’ipotesi che l’epoca moderna sia il luogo dove la
filosofia viene ad assumere la forma del sistema. La verifica di questa
ipotesi non può che passare per l’esperimento di ri-leggere effettiva­
mente come sistemi quelle opere del pensiero filosofico moderno che
hanno tentato un’organizzazione del sapere unificata e totalizzante.
A mio giudizio, tra queste opere vanno annoverate non solo

25 «il sistema come complessità organizzata può essere riconosciuto per la pre­
senza di interazioni forti, non lineari, e la sua totalità definisce un tipo logico superiore
rispetto alla relazione analisi-somma» (V. D e ANGELIS, La logica della complessità. Intro­
duzione alle teorie dei sistemi, Bruno Mondadori, Milano 1996, 2); cf. il classico saggio
di L. VON BERTALANFFY, General System Theory. Foundations, Development, Applica­
tions, Braziller, New York 1968 (trad. it., Teoria generale dei sistemi, a cura di E. BELLO­
NE, Isedi, Milano 1971).
26 CHIEREGHIN, Rileggere la Scienza della logica di Hegel, cit., 17.
14 Sistemi filosofici moderni

YEtica di Spinoza, che è certo l’esempio che per primo salta alla mente
quando si pensa a un’opera filosofica dell’età moderna che non solo se­
gue una metodologia altamente gerarchizzata, ma soprattutto elabora
una visione onnicomprensiva; poi anche le Meditazioni di Descartes, le
quali, sebbene non esplicitamente destinate a essere un sistema, tratta­
no di «tutte le cose prime» in un rigoroso percorso analitico, nel quale
è illuminato ciascuno degli ambiti della filosofia cartesiana (Dio, uomo,
mondo); e anche il Saggio di Locke, che propone un’indagine filosofica
integrale dell’intelligenza umana e di tutto ciò che, di conseguenza, ca­
de sotto la sua lente; nonché il Trattato di Hume, che pretende di com­
prendere l’orizzonte dell’esperienza, indagando scientificamente la na­
tura umana sotto ogni suo aspetto (cognitivo, passionale, sociale).
Dopo aver analizzato questi quattro sistemi filosofici moderni,
ho ritenuto di dover quantomeno aprire lo sguardo verso il rapporto
sussistente tra la filosofia critica e l’idea di sistema in Kant. Per fare
ciò, ho scelto di analizzare la Prefazione alla seconda edizione della
Critica della ragion pura, giacché quel testo - scritto quando oramai la
Critica della ragion pratica era stata redatta - non solo ci consente di
afferrare alcuni degli elementi basilari della filosofia critica, ma anche
di cogliere la difficoltà in cui Kant viene a trovarsi, nel dover ulterior­
mente aprire e ridefinire il suo sistema.
Come il lettore potrà notare, io non mi arrischio nel ricostruire i
sistemi filosofici di questi autori moderni dall’esterno, cioè mettendo
insieme per ciascuno di costoro scritti di diversa natura, redatti e pub­
blicati in epoche diverse. Tento, invece, di leggere come sistema quella
singola opera di ciascuno, che non solo rappresenta un’unità testuale
compiuta in sé, ma che ha anche la pretesa di articolare l’intero oriz­
zonte del sapere all’interno di un discorso unitario. Ecco perché alcuni
importanti pensatori moderni, come ad esempio Hobbes o Berkeley,
Leibniz o Malebranche non avendo lasciato nessuna opera che - per
quanto io vedo - possa essere adeguatamente letta come un sistema fi­
losofico, non cadono dentro la mia indagine.
Sebbene l’ordine dei capitoli rispecchi la cronologia di pubblica­
zione delle opere in questione e queste coprano più o meno l’arco
temporale dell’età moderna, il percorso che traccio in questo libro non
ha la minima pretesa di essere una storia della filosofia moderna. Una
storia, per essere tale, deve possedere continuità tra le sue parti crono­
logicamente ordinate. Il che comporterebbe la necessità di occuparsi
non solo dei grandi pensatori ma anche di quelli ritenuti minori, non
solo delle opere più note ma anche di quelle meno conosciute, e non
Introduzione 15

solo degli scritti più direttamente ed esplicitamente filosofici ma anche


degli altri: scientifici, politici, letterari, storici ecc.
Ciò nonostante, mi auguro che questo mio lavoro possa contri­
buire ad arricchire la comprensione della filosofia dell’età moderna,
soprattutto per coloro che si accostano per la prima volta allo studio
di essa a livello accademico. L’interpretazione del pensiero di un auto­
re dispiegata secondo lo sviluppo diacronico della sua produzione - il
ben noto metodo bio-dossografico - tende giustamente a evidenziare
le questioni che nel tempo sono state maggiormente recepite e discus­
se. Tali questioni sono quasi sempre determinate da una lettura ten­
denzialmente parziale - in tutti i sensi - degli scritti che le hanno su­
scitate. Ecco perché i profili bio-dossografici, normalmente compen­
diati dalla manualistica e dalla storiografia, andrebbero integrati dallo
studio strutturale e sincronico delle opere dei filosofi. E se ciò è vero
in generale, a maggior ragione deve essere vero qualora le opere siano
state ideate e composte come dei sistemi.
Ciascun capitolo inizia inquadrando l’opera in questione e, dopo
una nota circa le edizioni e le traduzioni, prosegue con un’analisi det­
tagliata del testo, nella quale ho cercato, per quanto possibile, di spie­
garlo nella sua interezza, evidenziando le interazioni sistemiche. Al ter­
mine di ogni capitolo si trova una bibliografia essenziale, che elenca
anzitutto le opere principali dell’autore nonché alcuni degli studi più
recenti. Indicazioni bibliografiche più specifiche sono offerte nelle no­
te a piè di pagina, nelle quali il lettore troverà anche numerosi riman­
di, utili per una lettura trasversale dei capitoli.

Ringrazio la Pontificia Università Gregoriana per aver concesso e


finanziato un periodo di ricerca, indispensabile per redigere questo
mio lavoro. Desidero ringraziare i proff. Maurizio Merlo, Leonardo
Messinese, Roberto Presiila e Pina Totaro per essersi resi disponibili a
leggere e discutere singoli capitoli. Sono grato al prof. Adriano Fabris,
non solo per aver accolto questo libro nella collana che dirige, ma so­
prattutto per i preziosi suggerimenti che mi ha dato per renderlo più
fruibile. Un grazie speciale devo all’amico e collega Georg Sans, che mi
ha accompagnato lungo l’intera progettazione e stesura. Per la pazien­
za con cui la mia famiglia mi ha supportato, infine, non ci sono parole.

Roma, Pasqua 2013


SIGLE

Opere
A Kritik der reinen Vernunft, 1781 (AA IV).
B Kritik der reinen Vernunft, 1787 (AA III).
EI-IV Essay concerning Human Understanding.
E 1-5 Ethica, ordine geometrico demonstrata (OP; G II; OS).
M Meditationes de prima philosophia (AT VII; OB I).
O Objectiones (AT VII; OB I).
R Responsiones (AT VII; OB I).
T Treatise of Human Nature (SB; OPT).

Edizioni
AA Kants gesammelte Schriften, hrsg. von der Kòniglich Preufiischen,
Deutschen, Berlin-Brandenburgischen Akademie der Wissenschaften,
28 voli., Berlin 1900-.
AT CEuvres de Descartes, par C. A d am - P. TANNERY, 12 voli., Paris 1897-
1913.
G Spinoza Opera, ed. C. GEBHARDT, 4 voli., Heidelberg 1925.
LB R. D e s c a r t e s , Tutte le lettere. 1619-1630, a cura di G. BELGIOIOSO,
Milano 2005.
OBI R. D e s c a r t e s , Opere. 1637-1649, a cura di G. BELGIOIOSO, Milano
2009.
OB II R. D e s c a r t e s , Opere postume. 1650-2009, a cura di G. BELGIOIOSO,
Milano 2009.
OP B.d.S. [Benedictus de Spinoza], Opera posthuma, [Amsterdam] 1677.
OPT D. H um e, A Treatise of Human Nature, ed. D.F. NORTON - M.J. NOR­
TON, Oxford 2000.
OS B. S p in o z a , Tutte le opere, a cura di A. SANGIACOMO, Milano 2010.
SB D. Hume, A Treatise of Human Nature, ed. L.A. SELBY-BlGGE, rev.
P.H. NlDDlTCH, Oxford 1978.
Capitolo Primo
LE MEDITAZIONI DI DESCARTES

Nel 1641 vengono pubblicate a Parigi le Meditationes de prima


philosophia di René Descartes (1596-1650). Una seconda edizione
emendata e corretta, nella quale l’autore ha aggiunto in appendice una
settima serie di obiezioni e risposte alle sei già presenti nella prima edi­
zione, andrà alle stampe nei Paesi Bassi già nel 1642.
Si tratta di un’opera ampia e multiforme, che nella stampa in
12° del 1642 arriva a contare più di 700 pagine, comprendenti in
realtà non un testo unico, ma un complesso di testi, redatti da diversi
autori. L’opera è articolata anzitutto in due macrotesti principali, di
impari dimensioni: da un lato le Meditazioni vere e proprie, 89 pagine
scandite lungo sei giorni; dall’altro le sette serie di Obiezioni e Rispo­
ste alle precedenti meditazioni, per 538 pagine. Al primo macrotesto
sono anteposti poi tre testi più brevi: una Epistola, indirizzata al deca­
no e ai dottori della Facoltà di teologia di Parigi, una Prefazione e una
Sinossi delle sei Meditazioni; al secondo macrotesto è posposta - a
partire dalla seconda edizione - la lunga Lettera a Dinet, allora Pro­
vinciale della Compagnia di Gesù in Francia. Il primo macrotesto è
direttamente scritto da Descartes, mentre le Obiezioni sono per mano
di «alcuni dotti» per lo più anonimi (Caterus, Mersenne, Hobbes, Ar-
nauld, Gassendi, Bourdin e altri)1 ai quali l’autore replica puntual­
mente nelle Risposte.
Perciò quel testo che il lettore comune si trova tra le mani - nor­
malmente un libro di un centinaio di pagine intitolato Meditazioni me­
tafisiche - è ben lungi dal rispecchiare l’ampiezza e complessità dell’o­
pera originale. Se, per un verso, è vero che la parte più importante del­
l’opera, la più letta e influente nei secoli, è la prima, ovvero quella con­
tenente le sei Meditazioni, e che senza di questa le relative Obiezioni e
Risposte nemmeno avrebbero senso di esistere; è anche vero che - come

1 Cf. R. A riew - M. G rene (edd)., Descartes and his Contemporaries. Medita-


tions, Objections, and Replies, University of Chicago Press, Chicago 1995; G. MORI, Car­
tesio, Carocci, Roma 2010, 151-196.
20 Sistemi filosofici moderni

J.-L. Marion ha cercato di mostrare2 - le Meditazioni sono esse stesse


in parte già una risposta alle obiezioni che proprio Descartes aveva
sollecitato circa quelle «prime meditazioni [...] così metafisiche e po­
co comuni»3 che si era trovato costretto a introdurre nella parte IV del
Discorso sul metodo (1637)4. Ciò significa che la forma “responsoriale”
dell’opera era stata voluta e iniziata dal suo autore prima ancora che
essa venisse concretamente redatta in tal modo. In effetti, la storia del­
la redazione attesta che Descartes aveva fatto circolare un manoscritto
delle Meditazioni già durante il 1640, allo scopo di ricevere immediata­
mente osservazioni e critiche; inoltre, nello stesso periodo, alcune del­
le tesi sostenute nel volume del 1637 avevano ricevuto duri attacchi,
dai quali l’autore intendeva difendersi, anche attraverso la sua nuova
opera5. Da tutto ciò comprendiamo come le Risposte di Descartes non
possano essere considerate alla stregua di una mera aggiunta accesso­
ria alle Meditazioni, bensì debbano essere assunte come una parte inte­
grante di esse. Inoltre, è necessario comprendere l’insieme dell’opera
come il prodotto di più autori, di cui Descartes è il principale, nel du­
plice senso di colui che dà origine all’impresa e ne assume il ruolo pre­
ponderante, ma non l’unico, e allo stesso tempo oltre a essere autore è
anche editore dei testi degli altri autori6.
Quell’opera che siamo soliti chiamare Meditazioni metafisiche
prende questa denominazione dal titolo dell’edizione francese7 del

2 Cf. J.-L. MARION, Le statuì originairement responsorial des Méditations, in ].-


M. B ey ssade - J.-L. M arion (edd.), Descartes. Objecter et répondre, Presses Universitai-
res de France, Paris 1994, 3-19.
3 AT VI: 31 (O B I: 59).
4 C f.A T V I:7 5 (O B I: 111-113).
5 Sulla storia della complessa redazione ed edizione delle Meditationes, cf. la
Nota, in R. DESCARTES, Opere filosofiche, a cura di E. LOJACONO, 2 voli., Utet, Torino
1994, I, 637-649; Nota introduttiva in OB I: 661-677; D. KAMBOUCHNER, Les Médita­
tions métaphysiques de Descartes. I. Introduction générale. Méditation I, Presses Universi-
taires de France, Paris 2005, 53-61.
6 Marin Mersenne, dell’Ordine dei Minimi, andrebbe quasi menzionato come
co-editore dell’opera, giacché i suoi interventi, sia a livello di contenuti che di forma, fu­
rono tutt’altro che marginali, e soprattutto perché fu lui ad agire da tramite tra Descar­
tes e i suoi diversi obiettori e interlocutori.
7 Louis Charles d’Albert duca di Luynes nel 1642 tradusse in francese le Medi­
tationes e poco dopo Claude Clerselier le Objectiones e Responsiones, il testo, rivisto da
Descartes, fu pubblicato nel 1647 con l’intricato titolo Les méditations metaphysiques de
René Des-Cartes, touchant la premiere philosophie dans lesquelles l’existence de Dieu, et
la distinction réelle entre l’àme et le corps de l’homme, sont dèmos trées\ seconda edizione
1661; terza 1673 (cf. OB I: 676-677).
Le Meditazioni di Descartes 21

1647, ma è documentato da una lettera a Mersenne, che Descartes


preferì il titolo «Meditationes de prima Philosophia*\ infatti, non vi
tratto solamente di Dio e dell’Anima, ma in generale di tutte le prime
cose (toutes les premières choses) che si possono conoscere filosofando
con ordine (en philosophant par ordre)»9. Questa indicazione merita di
essere approfondita, in quanto evoca due temi basilari: anzitutto quel­
lo delVordine del filosofare, e poi quello relativo a ciò che per primo
s’incontra in tale ordine. Il sottotitolo dell’edizione 1641 recita: «nella
quale [filosofia prima] si dimostra l’esistenza di Dio e l’immortalità
dell’anima»10; mentre quello del 1642: «nelle quali [Meditazioni] si di­
mostrano l’esistenza di Dio e la distinzione dell’anima umana dal cor­
po». Al di là dell’opportuna correzione che il sottotitolo della seconda
edizione apporta rispetto a quello della prima - giacché l’immortalità
non vi era dimostrata se non tangenzialmente11 - entrambi i sottotitoli
focalizzano l’attenzione del lettore verso due temi “classici” della me­
tafisica, Dio e l’anima, spingendolo così a comprendere il testo come
una sorta di trattato di metafisica, nuovo nella forma ma non nei con­
tenuti12. Il titolo dell’edizione francese, poi, rinforzerà questa convin­
zione, non a caso imponendosi in seguito come quello prevalente. Tut­
tavia, nella succitata lettera a Mersenne, Descartes è molto chiaro, l’o­
pera non tratta «soltanto» di questi due temi. Quali siano però «tutte
le prime cose» di cui complessivamente dichiara di voler trattare, qui
non è specificato. Per capirlo meglio, è necessario chiarire l’altro pun­
to essenziale, cioè l’ordine del filosofare. Nella Prefazione Descartes
offre due istruzioni preziose su come leggere il suo testo:
non solleciterò alcuno a leggere tutto ciò, se non coloro [...] che sa­
pranno e vorranno meditare seriamente con me e staccare la mente dai sensi

8 In italiano: Meditazioni di filosofia prima (OB I: 679), o Meditazioni sulla filo­


sofia prima (DESCARTES, Opere filosofiche, cit., 635).
9 A Mersenne, 11 novembre 1640 (AT III: 239 [LB: 1329]; cf. AT III: 235
[LB: 1325]); nella Prefazione dichiarerà di voler affrontare «le questioni di Dio e della
mente umana e, insieme, gli inizi di tutta la filosofia prima (totius primae Pilosophiae ini-
tia)» (AT VII: 9 [OB I: 691]).
10 È assai probabile che il sottotitolo sia stato aggiunto da Mersenne (OB I: 672);
Descartes designa sovente la propria opera con l’espressione «ma Métaphysique».
11 Cf. quanto Descartes dice al proposito nella Sinossi (AT VII: 12-14 [OB
I: 695-697]).
12 Per un’approfondita analisi lessicale del termine metafisica in Descartes, cf.
J.-L. MARION, Sur le prisme métaphysique de Descartes. Constitution et limites de l’onto-
théo-logie dans la pensée cartésienne, Presses Universitaires de France, Paris 1986, 7-72,
nonché l’attenta replica di KAMBOUCHNER, Les Méditations métaphysiques, cit., 39-52.
22 Sistemi filosofici moderni

{mentem a sensibus abducere) e, insieme, da ogni pregiudizio. Quanto invece


a coloro che, incuranti di comprendere la serie e il nesso dei miei argomenti
{rationum mearum seriem et nexum), s’impegneranno [...] ad arzigogolare
contro i singoli punti, essi non ricaveranno gran frutto dalla lettura di questo
scritto13.

La strada che porta frutto si divide nettamente da quella che non


ne porta alcuno: la prima è quella del meditare, asceticamente e inte­
gralmente; la seconda è quella àeN accusare, in modo pregiudiziale e
parziale. La vera meditazione richiede perciò allo stesso tempo distac­
co e adesione: bisogna staccarsi dall’immediatezza dei sensi e dal sape­
re che da questi deriva, e bisogna lasciarsi alle spalle i giudizi già ac­
quisiti; al contempo, però, bisogna aderire alla serie ordinata delle ra­
gioni, seguendone la concatenazione argomentativa anello dopo anel­
lo, senza saltarne nessuno. Ma come riuscire a combinare queste due
esigenze? La meditazione sembra in effetti tutt’altra faccenda rispetto
all’argomentazione ordinata e deduttiva. Se l’autore avesse voluto ve­
ramente stabilire l’ordine, il “sistema” della sua filosofia prima, non
avrebbe fatto meglio a esporlo secondo un procedimento deduttivo? E
quanto gli verrà chiesto nelle Obiezioni Ih «sarebbe importante se, in
calce alle vostre soluzioni [Risposte], dopo aver premesso definizioni,
postulati ed assiomi, poteste conchiudere il tutto secondo l’ordine
geometrico {more geometrico)»1*. Descartes risponderà positivamente,
offrendo, in meno di una decina di pagine, le sue «Ragioni che prova­
no l’esistenza di Dio e la distinzione dell’anima dal corpo disposte in
ordine geometrico»15. Qualche anno più tardi, Spinoza farà di queste
pagine il modello argomentativo della sua Ethica ordine geometrico de­
mostrata (1677)16.
Il punto più interessante, però, sta all’inizio della risposta di De­
scartes dove, a proposito dell’invocato ordine geometrico, egli contro­
batte: «è importante che io spieghi qui in che misura l’abbia già seguito
e in che misura ritengo debba essere seguito d’ora in poi. Nel metodo
geometrico distinguo due cose: l’ordine e la maniera di dimostrare

13 AT VII: 9-10 (OB I: 691-693); cf. anche AT VII: 158-159 (OB I: 889).
14 AT VI: 128 (OB I: 851); per more geometrico si intende il modo di esporre
dei trattati di geometria, sul modello degli Elementi di Euclide, che cominciavano con
una serie di definizioni (punto, linea, superficie ecc.) cui seguivano diversi postulati, as­
siomi e infine teoremi dimostrabili ricorrendo a tutti gli assunti precedenti.
15 AT VII: 160-170 (OB I: 893-907).
16 Infray92-93
Le Meditazioni di Descartes 23

(<ordinem et rationem demonstrandi)»11. L’autore perciò rivendica il fatto


che le Meditazioni seguono già lordine geometrico, infatti Yordine non
consiste in altro se non nel fatto che le premesse devono essere cono­
scibili senza alcun aiuto da parte delle conseguenze e che queste deri­
vano solo da quelle. Tuttavia, questo stesso ordine può essere percorso
in due sensi: «L’analisi mostra la vera via attraverso la quale una cosa è
stata scoperta metodicamente e come a priori [...]. La sintesi, al con­
trario, attraverso una via opposta, e indagata come a posteriori» 18. Fa­
cilmente capiamo che la via sintetica è quella esemplificata nelle Rispo­
ste II, laddove Descartes ripropone le sue tesi geometricamente, ovvero
secondo il modello degli Elementi di Euclide; mentre la via analitica è
quella percorsa nelle Meditazioni, laddove le questioni e le risposte so­
no scoperte progressivamente lungo la linea temporale di sei giorni di
“esercizi” ascetico speculativi19. Più difficile invece capire cosa c’entri­
no qui a priori e a posteriori, in quanto saremmo spontaneamente por­
tati a ritenere il modo di procedere geometrico a priori (dai principi al­
le conseguenze), mentre quello meditativo, che parte dalla nostra espe­
rienza personale, piuttosto a posteriori (dagli effetti alle cause). De­
scartes invece sembra rovesciare questa prospettiva20. Perché?
Per chiarire questo punto decisivo è necessario rifarsi a un’opera
composta, ma non terminata né pubblicata, da Descartes alcuni anni
addietro, le cosiddette Regole per la direzione dell’ingegno21. Al centro

17 AT VII: 155 (OB I: 885); la questione delVordine delle ragioni è stata al cen­
tro di un esteso dibattito acceso da M. GUEROULT, Descartes selon l’ordre des raisons. I.
LAme et Dieu. II. UAme et le corps, Aubier, Paris 1953; cf. Cahiers de Royaumont. 2.
Descartes, Minuit, Paris 1957; J.-M. BEYSSADE, La philosophie première de Descartes. Le
temps et la cohérence de la métaphysique, Flammarion, Paris 1979, 14-19; MARION, Sur le
prisme métaphysique, cit., 43-59; S. Di BELLA, Le Meditazioni metafisiche di Cartesio. In­
troduzione alla lettura, La Nuova Italia Scientifica-Carocci, Roma 1997, 13-31; KAMBOU-
CHNER, Les Méditations métaphysiques, cit., 113-136.
18 AT VII: 155-156 (OB I: 885); trad. modificata.
19 Per il parallelismo tra le Meditazioni e gli Esercizi spirituali di s. Ignazio di
Loyola, cf. G. HATFIELD, The senses and thè Fleshless Eye: thè Méditations as cognitive
exercises, in A. OKSENBERG R orty (ed.), Essays on Descartes’ Méditations, University of
California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1986,45-79.
20 Questa apparente inversione è puntualmente analizzata da J.-M. BEYSSADE,
Lordre dans les Principia, in J.-L. M arion (ed.), Descartes, Bayard, Paris 2007, 101-104.
21 L’opera è menzionata per la prima volta nèh’Inventario di Stoccolma così:
«Nove quaderni rilegati insieme contenenti parte di un trattato di regole utili e chiare per
la direzione della mente nella ricerca della verità» (AT X: 9; OB II: 19). Nella corrispon­
denza di quegli anni Descartes non fa mai menzione di questo testo, che venne pubbli­
cato postumo in nederlandese nel 1684 e poi in latino nel 1701 nell’edizione di Amster-
24 Sistemi filosofici moderni

di questo scritto stanno quelle «nature pure e semplici che è possibile


intuire, primariamente e per sé, indipendentemente da ogni altra, ma
mediante le esperienze o per un qualche lume insito in noi»22. Descar­
tes intende per nature semplici le nozioni terminali alle quali giungono i
diversi procedimenti di scomposizione ordinata dei problemi concer­
nenti la conoscenza della realtà23. Non si tratta di definizioni che espri­
mono l’essenza di un qualcosa, come le idee platoniche, e nemmeno di
predicati generalissimi che stanno a capo delle diverse colonne di realtà
in cui è suddiviso l’essere, come le categorie aristoteliche, bensì di «ato­
mi d’evidenza»24, che costituiscono il limite estremo della visione intel­
lettuale umana, al di là del quale nulla è ulteriormente intuibile25.
Solo dal punto di vista delle nature semplici - il cui ruolo nelle
Meditationes sarà assunto dalle «idee»26 - è possibile allora compren­
dere in che senso la via meditativa sia analitica. Mentre la geometria
euclidea può pretendere di partire da nozioni facili, in quanto imme­
diatamente intuibili (es. punto, linea, superficie ecc.), tutt’altra faccen­
da accade con la metafisica, le cui nozioni appaiono invece del tutto
remote e difficili27. Per Descartes tale difficoltà è data da una deforma-

dam degli Opuscola posthuma, sotto il titolo Regulae ad directionem ingenti. L’assenza di
un orizzonte metafisico esplicito lascia supporre che il testo possa essere stato redatto da
Descartes tra il 1619-1628; cf. J.L . B e c k , The Method of Descartes. A Study of thè Regu­
lae, Clarendon Press, Oxford 1952; J-L. M a rio n , Sur l’ontologie grise de Descartes.
Science cartésienne et savoir aristotélicien dans les Regulae, Vrin, Paris 1975.
22 Regola VI (AT X: 383 [OB II: 713)].
23 Cf. Regola X (AT X: 403-406 [OB II: 737-741]); Regola XII (AT X: 419-420.
425-426 [OB II: 757-759. 765]); per un’esemplificazione dei processi di risoluzione e
composizione di problemi empirici come l’anaclastica o l’arcobaleno, cf. D. GARBER, De­
scartes et la méthode en 1637, in N. GRIMALDI - J.-L. M arion (edd.), Le discours et sa
méthode. Colloque pour le 350e anniversaire du Discours de la Méthode, Presses Univer-
sitaires de France, Paris 1987, 65-87.
24 «Atomes d’évidence» (O. H a m elin , Le système de Descartes, Alcan, Paris
1911,86).
25 Nella Regola XII Descartes ci offre una tassonomia generale delle nature
semplici, dividendole anzitutto in quelle intellettuali (es. la conoscenza, il dubbio, l’i­
gnoranza, la volizione ecc.) e materiali (es. la figura, l’estensione, il movimento ecc.); poi
in comuni (es. l’esistenza, l’unità, la durata ecc.) e le logiche (es. la proprietà transitiva, le
regole della deduzione ecc.), cf. AT X: 419-420 (OB II: 757-759).
26 Cf. J.-L. MARION, Quelle est la méthode dans la métaphysique? Le róle des na-
tures simples dans les Meditationes, in J.-L. MARION, Questions cartésiennes, Presses
Universitaires de France, Paris 1991, 75-109; I d ., Cartesian metaphysics and thè role of
thè simple natures, in J. COTTINGHAM (ed.), The Cambridge Companion to Descartes,
Cambridge University Press, Cam bridge 1992, 115-139.
27 «Al contrario, invece, qui, nelle cose metafisiche, nulla richiede più impegno
Le Meditazioni di Descartes 25

zione connaturata alla conoscenza umana, quella di assentire sponta­


neamente al sapere fornito dai sensi, come se questi fossero capaci di
fornirci una semplice e immediata adesione all’essere della realtà.
Però, semplici non sono affatto le percezioni sensibili, che anzi sono
complicate e ingannevoli, bensì le nozioni immediatamente oggettivate
dall’intelletto. Le nature semplici della metafisica, tuttavia, non sono
subito a disposizione dell’intelletto, è necessario conquistarle faticosa­
mente, seguendo un percorso ordinato di emendazione, selezione e at­
tenta fecalizzazione: la meditazione.
Da tutte queste considerazioni traiamo alcune indicazioni basila­
ri. (a) Dalla necessità che Descartes pone di leggere integralmente le
Meditazioni, escludendo che si possano comprendere i singoli temi
staccati dal loro contesto argomentativo, capiamo che l’opera è a tutti
gli effetti da leggere come un sistema, per quanto la sua forma stilistica
spinga a pensare il contrario. Questa considerazione è ulteriormente
rafforzata dal fatto che il filosofo rivendica di aver composto le medita­
zioni more geometrico, ovvero seguendo un rigoroso ordine delle ragio­
ni (ordo), sebbene la strategia dimostrativa {ratio demonstrandi) sia
quella analitica e non quella sintetica, (b) Comprendiamo ora in che
senso la via analitica secondo Descartes è «scoperta come a priori {tan-
quam a priori inventa)». Dal momento che le nozioni che riguardano la
metafisica sono del tutto remote, in quanto offuscate dai pregiudizi
sensibili, dobbiamo sempre e comunque iniziare dalla complessità del­
l’esperienza con tutte le sue difficoltà (come vedremo questa sarà la fa­
se del dubbio) e, senza assumere alcun presupposto, ricercare il punto
archimedeo che possa permettere di venirne fuori (come vedremo que­
sto punto di partenza sarà il cogito) e da lì avanzare alla progressiva sco­
perta ed elaborazione delle altre nozioni (l’anima, Dio ecc.). Ciò signifi­
ca anche che la via analitica precede sempre la via sintetica, e che di
conseguenza il “primo” sistema metafisico cartesiano rimane quello
delle Meditationes e non quello stabilito in calce alle Risposte II o, più
tardi, nella prima parte dei Principi della filosofia (1644)28. (c) Si chiari­
sce così anche meglio l’affermazione dalla quale siamo partiti, ovvero
che le Meditationes de prima philosophia riguardano «tutte le prime co­
se che si possono conoscere filosofando con ordine». Queste prime no-

del percepire chiaramente e distintamente le prime nozioni» (AT VII: 157 [OB I: 887]);
cf. quanto Descartes afferma nella Epistola dedicatoria, AT VII: 4-5 (OB I: 685).
28 Cf. S. GAUKROGER, Descartes' System of Naturai Philosophy, Cambridge Uni­
versity Press, Cambridge 2002.
26 Sistemi filosofici moderni

zioni saranno, infatti, non solo e nemmeno anzitutto l’esistenza di Dio e


la separazione dell’anima dal corpo, ma prima ancora di esse il cogito, o
meglio Yego sum, e più oltre il modo di conoscere i corpi, il fondamen­
to della verità matematica, l’essenza e l’esistenza del mondo materiale29.
Con la sua opera, perciò, Descartes non intende offrire esclusi­
vamente una metafisica speciale (riguardante le sole sostanze sovrasen-
sibili, ovvero Dio e l’anima) e nemmeno una metafisica generale (ri­
guardante l’essere in quanto essere, cioè un’ontologia), quanto piutto­
sto mira a gettare le basi filosofiche dei rapporti tra le sostanze immate­
riali e quelle materiali30. Per un verso, la scoperta delle nature semplici
immateriali contribuirà a comprendere anche quelle materiali, ponen­
do così i presupposti della fisica cartesiana31; per altro verso, l’analisi
dei rapporti tra la mente e le cose materiali aiuterà a stabilire le coor­
dinate basilari dell’antropologia.

29 «Si ces premières choses restent indéterminées et ne s’identifient pas d ’em­


blée à Dieu et à l’àme, c’est que leur primauté ne s’appuie sur aucune excellence onti-
que, mais dépend de la disposition de l’ordre suivant la mise en évidence; et selon cet
ordre, la primauté, méme celle d’étants effectivement existants, ne recouvre pas les
objets habituels de la métaphysique; d’autres primautés s’organisent, mais plusieurs di-
sparaissent» (MARION, Sur le prisme métaphysique, cit., 71).
30 Secondo D. Kambouchner, le Meditationes sono la «réinvention cartésienne
de la métaphysique», ovvero un tentativo di ricostruire dall’inizio la metafisica {philo-
sophia prima), stabilendo al contempo le fondamenta di tutta la sua filosofia, cf. Kam-
BOUCHNER, Les Méditations métaphysiques, cit., 13-61.
31 A Mersenne, 11 novembre 1640: «vi dirò infatti che quel poco di Metafisica
che vi invio contiene tutti i principi della mia fisica» (AT III: 233 [LB: 1323]); cf. K am -
BOUCHNER, Les Méditations métaphysiques, cit., 76-90.
Le Meditazioni di Descartes 27

BQS Edizioni e traduzioni delle Meditationes

L’edizione di riferimento delle Meditationes è quella pubblicata da


C. Adam e P. Tannery (sigla AT), i quali hanno riprodotto il testo del 1642,
immettendo i capoversi assenti nell’originale, in CEuvres de Descartes. VII. Me­
ditationes de prima philosophia, Cerf, Paris 1904; nuova edizione con integra­
zioni, Vrin, Paris 1964; rprt. 1996. F. Alquié ha curato un’edizione e traduzio­
ne corredata di note nel secondo volume delle (Euvres philosophiques, Gar-
nier, Paris 1967, 169-235,375-1097.
La prima e unica traduzione italiana delle Meditationes, condotta sul te­
sto latino originale e completa di tutte le Objectiones e Responsiones, è quella
di I. Agostini, nel primo dei due volumi delle opere di Descartes pubblicate
dall’editore Bompiani (sigla OB I), Opere. 1637-1649, testo francese e latino
a fronte, a cura di G. BELGIOIOSO, con la collaborazione di I. AGOSTINI -
F. M a r r o n e - M. SAVINI, Bompiani, Milano 2009, 659-1475. Un’ottima tradu­
zione dal latino, sebbene riporti solo una scelta di obiezioni e risposte, è in
Opere filosofiche, a cura di E. LOJACONO, 2 voli., Utet, Torino 1994,1, 635-902.
L’edizione francese (Luynes-Clerselier) delle Meditationes si trova in AT
IX/1. Questa è integralmente tradotta in italiano in Opere filosofiche. II. Medi­
tazioni metafisiche, Obiezioni e risposte, a cura di E . G a r in , 4 voli., Laterza,
Roma-Bari 1986.
Per le citazioni dal testo originale latino seguirò l’edizione AT così come
questa è graficamente aggiornata e riprodotta in OB I, edizione che userò an­
che per la traduzione italiana. D ’ora in avanti, per le citazioni dell’opera userò
i seguenti rapidi criteri di riferimento: Meditazioni = M seguito dal numero
della meditazione e dal numero della paginazione AT (es. M2: 27 = Meditazio­
ne II, pagina 27 di AT VII); Obiezioni - O (es. 0 4 : 196 = Obiezioni IV, pagina
196 di AT VII); Risposte = R (es. R5: 350 = Risposte alle obiezioni V, pagina
350 di AT VII); OR nel caso in cui siano inframezzate in un unico testo (es.
OR3: 179 = Obiezioni III con Risposte dell’autore, pagina 179 di AT VII). Solo
per questi riferimenti rapidi non riporterò la corrispondente pagina della tra­
duzione OB I, però facilmente rintracciabile tramite quella AT VII che lì è
continuamente indicata in margine.
Per le citazioni di tutti gli altri testi cartesiani indicherò sempre in nota
la pagina AT e la relativa traduzione in OB I-II o in LB.
28 Sistemi filosofici moderm

1. Liberare la mente
Descartes antepone alle Meditazioni una Epistola dedicatoria indi­
rizzata al decano e ai dottori della Sorbona, dai quali aveva tentato, in­
vano, di ricevere approvazione per la propria pubblicazione32. Segue
una breve Prefazione per il lettore, nella quale l’autore pone il presente
scritto in relazione con il precedente Discorso sul metodo, nel quale te­
mi metafisici analoghi erano stati saggiati, ma non trattati accuratamen­
te. Infine, Descartes offre una Sinossi delle sei meditazioni che seguono,
scritta quando egli aveva già redatto le Meditazioni e potuto prendere
visione delle Obiezioni collezionate da padre Mersenne; da qui l’ampio
spazio dedicato in essa alla questione dell’immortalità dell’anima33.
Nell’incipit della Meditazione I Descartes sceglie immediatamen­
te il tono intimo della prima persona e, soprattutto, pone la sua deci­
sione iniziale nell’ora dell’atto meditativo:
oggi ho liberato la mente da ogni preoccupazione; mi sono preso un si­
curo tempo libero; mi ritiro in solitudine; mi dedicherò finalmente, sul serio e
in libertà, a questo generale rovesciamento delle mie opinioni34 (MI: 17-18).

Il lettore, così, non è posto di fronte a una presentazione ordina­


ta di teorie filosofiche, ma viene personalmente coinvolto nella situa­
zione e nell’azione del filosofo meditante, il cui itinerario di trasforma­
zione viene narrato per poter essere ripercorso35. Il movente di questo
ingresso nel meditare è duplice: uno più remoto, il fatto che da tempo
Descartes si è accorto della falsità di molto di ciò che prima aveva rite­
nuto vero; un secondo più recente, il sopraggiungere di quella matu­
rità intellettuale necessaria a un’impresa così ardua come quella di
«rovesciare tutto sino in fondo e ricominciare dalle prime fondamen­
ta» (MI: 17). Già, perché da Platone a Descartes il problema è sempre
quello deH’episteme o, come qui si legge, «stabilire qualcosa di solido e
di duraturo nelle scienze». Tutta la strategia del dubbio messa in opera
nella Meditazione I è sin dall’inizio subordinata allo scopo di trovare
tale fondamento epistemico e, nonostante la filosofia cartesiana sia in

32 Cf. KAMBOUCHNER, Les Méditations métaphysiques, cit., 67-76.


33 Cf. 0 2 : 128.
34 «à détruire généralement toutes mes anciennes opinions» (AT IX /1: 13); la
trad. italiana da OB I: 703 è modificata.
35 Cf. L.A. KOSMAN The naive narratori Meditation in Descartes' Méditations, in
O k senberg R orty (ed.), Essays on Descartes' Méditations, cit., 21-43; Di BELLA, Le Me­
ditazioni metafisiche, cit., 21-25.
Le Meditazioni di Descartes 29

seguito finita sotto l’incauta divisa de omnibus dubitandum est (di ogni
cosa si deve dubitare), venendo ridotta di fatto a una forma moderna
dello scetticismo antico36, all’origine dello sforzo filosofico delle Medi-
tationes «non c’è una rinuncia, ma una volontà strenua di verità»37.
Sottoporre tutto l’opinabile (doxa) ai duri colpi del dubbio, serve a
provare se nell’edificio del sapere umano vi sia qualcosa che non si la­
scia distruggere e nemmeno incrinare, qualcosa d’indubitabile e per
questo non imputabile di falsità. Si tratta evidentemente di una forza­
tura, di cui Descartes è ben consapevole, ma, a suo giudizio, solo con­
ducendo questo esperimento speculativo fino in fondo, sarà possibile
trovare un argomento anti-scettico assolutamente inoppugnabile.
Per fare ciò Descartes - in una sorta di dialogo fittizio evocato
dall’interno del suo soliloquio meditante - attacca anzitutto l’origine
stessa del sapere comune: i sensi. Dal momento che talvolta sperimen­
tiamo la loro fallacia, cosa ci impedisce di considerarli in se stessi inaf­
fidabili? E viceversa, in base a quale certezza possiamo affermare che
in questo stesso istante i sensi non ci stiano ingannando? Si potrebbe
rispondere che capita d’ingannarsi sulle cose difficili e lontane, ma
certo non su quelle più semplici e prossime. Eppure, ribadisce il filo­
sofo, chi di noi non ha fatto l’esperienza del sogno, nella quale credia­
mo che eventi, anche banali, ci accadano esattamente come se fossimo
svegli? Il fatto è che non possediamo alcun criterio sensibile in grado
di distinguere con certezza il sogno dalla veglia38. A questo punto De­
scartes solleva un’ulteriore e più raffinata obiezione: ammettiamo pure
che le percezioni sensibili non ci offrano alcun appiglio per uscire dal
dilemma del sogno o della veglia, ma che dire di ciò che nelle cose ge­
nerali e composte ne rappresenta la natura «più semplice e universale»
(MI: 20), come ad esempio l’estensione, la figura, il numero, il luogo,
il tempo ecc.? Non possiamo negare che queste nature semplici e tutte
le scienze che di esse si occupano, cioè la matematica, la geometria e
simili, godano di un’indubbia certezza.
Di fronte a questa obiezione, apparentemente insuperabile, De­
scartes risponde con un colpo di teatro che spiazza il lettore, in quanto

36 Cf. KAMBOUCHNER, Les Méditations métaphysiques, cit., 90-105. 217-226; C.


LARMORE, Descartes and Skepticism, in S. GAUKROGER (ed.), The Blackwell Guide to De­
scartes' Méditations, Blackwell, Malden (MA)-Oxford-Victoria 2006, 17-29.
37 D i B e l l a , Le Meditazioni metafisiche, cit., 34.
38 «la veglia non può mai essere distinta dal sogno con indizi certi (certis indi-
ciis)» (M i: 19).
30 Sistemi filosofici moderni

va a colpire lo statuto della conoscenza alla sua radice. Se noi soggetti


conoscenti siamo stati creati come tali da un «Dio che può tutto»
(Mi: 21), cosa può mai impedire a costui di far sì che tutto ciò che co­
nosciamo, non solo le cose generali ma persino le nature semplici o le
verità matematiche39, non esista ma sia solo una mia illusione? La con­
troreplica si muove su un duplice fronte opposto: teistico e ateo. Da
un lato, qualcuno potrebbe sostenere che Dio è sommamente buono e
quindi non può volerci ingannare; ma allora, risponde il filosofo, come
spiegare il fatto che talvolta ci inganniamo? Dall’altro lato, qualcuno
potrebbe invece negare che esista un Dio tanto potente; ma in tal caso
non aumenterebbe bensì diminuirebbe la perfezione della nostra origi­
ne, rendendoci ancor più fallaci ed effimeri. L’ipotesi atea lungi dal ri­
solvere la nostra sete di verità, sembra farla naufragare definitivamen­
te. La conclusione di Descartes giunge molto chiara, chiudendo in
qualche modo il cerchio della Meditazione I:
sono infine costretto a riconoscere che non c’è nulla di cui non sia lecito
dubitare rispetto a quel che un tempo ritenevo vero, e ciò non per sventatezza, o
per leggerezza, ma per valide e meditate ragioni; e che quindi anche su tutto ciò,
non meno che su quel che è palesemente falso, debba, di qui in avanti, essere ac­
curatamente sospeso l’assenso, se voglio scoprire qualcosa di certo (MI: 21-22).

A questo punto sembrerebbe che si possa passare alla meditazio­


ne successiva, eppure Descartes aggiunge due ultimi paragrafi nei qua­
li rilancia ulteriormente la questione: «aver osservato questo ancora
non basta, perché devo aver cura di ricordarmene» (MI: 22). Infatti
l’aver compreso razionalmente la dubitabilità di tutte le mie certezze,
non garantisce che poi io effettivamente mantenga tale atteggiamento
di dubbio radicale. Come l’autore testimonia alla fine della meditazio­
ne: «questo progetto è laborioso, ed una certa pigrizia mi risospinge
verso le consuetudini della vita» (MI: 23).
Per contrastare l’inerzia del senso comune, Descartes escogita
l’espediente psicologico di «supporre non un Dio ottimo, fonte della
verità, ma un certo Genio maligno, e che questi, sommamente potente
ed astuto, abbia impiegato tutta la sua abilità a farmi sbagliare»
(MI: 22). A differenza del precedente Dio onnipotente, che nella sua
assolutezza può trascendere le stesse verità da lui create, questo Genio

39 Su questa dottrina, detta della libera creazione divina delle verità eterne e sul­
l’ampio, complesso dibattito che ha sollevato, cf. J.-L. MARION, Sur la théologie bianche
de Descartes. Analogie, création des vérités éternelles et fondement, Vrin, Paris 19912.
Le Meditazioni di Descartes 31

è direttamente ingannatore (ut me fallerei)'®. Il ruolo di questo perso­


naggio fittizio è quello d’interpretare la volontà stessa d’ingannarci,
volontà che in verità origina nella decisione radicale del meditante di
sospendere il suo assenso circa tutti i possibili contenuti di conoscenza
che non siano capaci di dimostrare la propria certezza al di là di ogni
ragionevole dubbio. Nelle ultime righe, Descartes confessa il disagio
di sentirsi come lo schiavo della caverna di Platone, tentato di tornare
ai pallidi riflessi del sapere probabile, nell’incapacità di sapere se l’i­
gnoto percorso intrapreso lo condurrà alla fine verso la luce.

Obiezioni e risposte
Le obiezioni direttamente dedicate alla Meditazione I sono tre:
Hobbes (OR3: 171-172), Gassendi (05: 257; R5: 348-349) e Bourdin
(OR7: 454-477). Thomas Hobbes riduce l’intero contenuto della Medi­
tazione I alla questione dell’oggettività sensibile, poi ne riconosce la
«verità» e, infine, bolla il tutto come «vecchie cose», note sin da Plato­
ne, che Descartes avrebbe fatto meglio a non mischiare con le sue nuo­
ve speculazioni41. Al primo punto Descartes non replica, mentre si pre­
mura di precisare che «Le ragioni di dubitare che qui il filosofo am­
mette come vere non sono state da me proposte se non come verosimi­
li» (OR3: 171). Il fatto è che per Hobbes tutta la faccenda del dubbio
si riduce in fondo alla teoria platonica del fenomeno sensibile, che a lui
appare come qualcosa di ovvio. La Meditazione I invece, ha lo scopo di
«preparare gli animi dei lettori a considerare le cose intellettuali e a di­
stinguerle dalle corporee» (OR3: 172), ossia ad aiutare il lettore a sca­
valcare il senso comune per accedere alla riflessione filosofica.
Le Obiezioni VII, a opera del gesuita Pierre Bourdin, redatte
sotto forma di una lunga dissertazione, sono quelle che pongono in as­
soluto più argomenti contro il dubbio, ma purtroppo muovendo da un
punto di vista vetero scolastico così distante dall’argomentare cartesia­
no da generare di fatto un «dialogo tra sordi»42.
Tutto il contrario con il filosofo e astronomo Pierre Gassendi, il
quale avanza delle obiezioni che si situano nel pieno solco della mo­

40 Sulla differenza tra «Dio onnipotente», «Genio maligno» e «Dio ingannatore»,


cf. Di B ella , Le Meditazioni metafisiche, cit., 54-57.
41 Cf. J. S a le s , Le choc avec Hobbes et Gassendi sur le doute, in B ey ssa d e -M a -
RI0N (edd.), Descartes. Objecter et répondre, cit., 96-103.
42 R. ARIEW, Sur les Septièmes Réponses, in BEYSSADE-MARION (edd.), Descar­
tes. Objecter et répondre, cit., 123.
32 Sistemi filosofici moderni

dernità43. Questi apprezza pienamente l’obiettivo della Meditazione I,


liberare la mente da ogni pregiudizio, ma obietta a Descartes l’oppor­
tunità della sua strategia: anzitutto la radicalizzazione del dubbio, giac­
ché il voler considerare tutto falso, ha comportato di fatto il «rivestirvi
di un nuovo pregiudizio invece di spogliarvi di uno vecchio»
(05: 258). Nessuno, poi, crederà che egli abbia sinceramente aderito a
un congegno speculativo così artificiale come il dubbio, «più degno
del candore di un filosofo e dell’amore della verità dire le cose come
stanno», ovvero, facendo appello al senso comune, rammentare la li­
mitatezza della mente umana. Le obiezioni di Gassendi danno a De­
scartes l’opportunità di precisare e approfondire la sua posizione sul
dubbio. La risposta dell’autore è tutta imperniata nel ribadire l’oppor­
tunità, anzi la necessità dell’artificio del dubbio radicale, infatti la si­
tuazione in cui si trovano gli uomini, immersi sin dall’infanzia nel sa­
pere comune, è quella di una blanda critica dei pregiudizi unita a una
sostanziale inerzia di fronte a essi. Ecco perché il proponimento di De­
scartes è che almeno «una volta nella vita» (MI: 17) si provi a sgombe­
rare seriamente e fino in fondo la mente dai propri pregiudizi; al pun­
to che «per illustrare la verità è spesso utile prendere così, come vero,
ciò che è falso (falsa prò veris utiliter sic assumi)» (R5: 349). Questo ro­
vesciamento, esplicitamente paradossale, ha senso però solo nella con­
sapevolezza dell’artificio speculativo, perché altrimenti nulla sarebbe
così lontano dall’amore per la verità e dalle intenzioni di Descartes che
assentire al falso come tale.

2. Io sono
Nel secondo giorno il filosofo riprende la meditazione dal
profondo del gorgo in cui il dubbio lo aveva gettato. L’unica speranza
a questo punto è quella di trovare «qualcosa di certo (aliquid certi)»
(M2: 24), fosse anche soltanto il fatto che nulla è certo. Ma forse - si
chiede il meditante - esiste un che di divino che mette in me tutti que­
sti pensieri? e come sapere che questo non sia a sua volta un mio pro­
dotto? Eppure anche in questo caso - autoreplica Descartes - devo
pur esistere io che produco questo qualcosa che suppongo esterno a

43 Come dimostra bene J. RAMIREZ, Sur un passage des Cinquièmes Réponses


(AT VII, 347-330), in BEYSSADE-MARION (edd.), Descartes. Objecter et répondre, cit.,
111-122; cf. B. BRUNDELL, Pierre Gassendi. From Aristotelianism to a New Naturai Phi-
losophy, Springer, Dordrecht 1987; A. L o L o rd o , Pierre Gassendi and thè Birth ofEarly
Modem Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 2006.
Le Meditazioni di Descartes 33

me stesso: «Non sono forse, allora, almeno io qualcosa (saltem ego ali-
quid sum)ì»AA. Ma come qualificare e situare questa esistenza se, nella
Meditazione I, si è preso congedo dalla certezza delle percezioni sensi­
bili? Infatti, «mi sono persuaso che assolutamente nulla esiste al mon­
do: né cielo, né Terra, né menti, né corpi; forse che, allora, non esisto
neanch’io (etiam me non esse)}» (M2: 25). E questa l’estrema sospen­
sione di assenso tentata dal dubbio: forse, io non sono.
Giunti a questo punto, assistiamo a una virata completa del flus­
so meditativo fin qui intrapreso. Tutto il processo di rovesciamento in­
tentato sin dall’inizio della Meditazione I si rovescia esso stesso, perché
la risposta di Descartes, stavolta, appare inattaccabile dalla corrosione
del dubbio: «Al contrario, esistevo certamente (certe ego eram) se mi
sono persuaso di qualcosa». Ma forse è il Genio maligno a indurre
questa falsa certezza? Qui la risposta rovescia il dubbio estremo in
un’estrema certezza:
Senza dubbio allora esisto anch’io, se egli mi fa sbagliare; e, mi faccia sba­
gliare quanto può, mai tuttavia farà sì che io non sia nulla, fino a quando pen­
serò di essere qualcosa. Così, dopo aver ben bene ponderato tutto ciò, si deve
infine stabilire che questo enunciato, Io sono, io esisto, è necessariamente vero
ogni volta che viene da me pronunciato, o concepito con la mente (M2: 25)45.

È questo il celebre argomento del cosiddetto cogito cartesiano46,


dalla formulazione che esso aveva originariamente ricevuto nel Discor­
so sul metodo'47 e, soprattutto, da quella che riceverà nei Principi della

44 «Per la prima volta l’ego, finora solo implicitamente (grammaticalmente) pre­


sente nella forma in prima persona della meditazione, emerge tematicamente, come ulti­
mo residuo dell’esperienza naturale non ancora messo in discussione» (Di BELLA, Le
Meditazioni metafisiche, cit., 60).
45 «Haud dubie igitur ego etiam sum, si me fallit; et fallat quantum potest,
numquam tamen efficiet, ut nihil sim quamdiu me aliquid esse cogitabo. Adeo ut, omni­
bus satis superque pensitatis, denique stauendum sit hoc pronunciatum, Ego sum, ego
existo, quoties a me profertur, vel mente concipitur necessario esse verum» (M2: 25).
46 Cf. P. M a rkie , The Cogito and its importarne, in COTTINGHAM (ed.), The
Cambridge Companion, cit., 1992: 140-173; Di B el l a , Le Meditazioni metafisiche, cit.,
59-66; E. CURLEY, The Cogito and thè foundations of knowledge, in GAUKROGER, The
Blackwell Guide, cit., 30-47; A. KEMMERLING, Das Existo und die Natur des Geistes, in
A. KEMMERLING (ed.), René Descartes. Meditationen ùber die Erste Philosophie, Akade-
mie, Berlin 2009,31-42.
47 «E notando che questa verità Io penso, dunque io sono era così ferma e certa
che tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici non erano in grado di scuoterla, ri­
tenni che potevo accoglierla, senza scrupolo, come il primo principio della filosofia che
cercavo {Et remarquant que cette vérité: je pense, donc je suis, était si ferme et si assurée,
34 Sistemi filosofici moderni

filosofia (I, art. 7)48 e che verrà consacrata dalla posterità: cogito ergo
sum. Di questo argomento notiamo almeno tre elementi immediati: (a)
il suo procedere dal dubbio, (b) la sua forma metalinguistica e (c) il
suo valore necessario di verità. Analizziamoli.
(a) Uno dei difetti ricorrenti nella spiegazione dell’argomento
del cogito è quello di isolarlo da quanto lo precede, come se si trattasse
di un argomento a sé stante, indipendente dal processo dubitativo
messo in atto nella Meditazione I. Invece, non dobbiamo dimenticare
di trovarci all’interno, meglio al limite estremo di un esperimento spe­
culativo assai particolare, quello di distruggere ogni certezza allo sco­
po di verificare se ve n’è almeno una che risulti inattaccabile da ogni
fronte possibile. Al vertice di questo esperimento sta l’ipotesi di un
Genio maligno sommamente potente che impiega ogni sua capacità
nel farmi sbagliare, personificazione della risoluzione massima di voler
negare ogni valore di verità alle proprie certezze. Oggetto del dubbio,
dunque, non sono tanto le cose del mondo, quanto i miei contenuti di
pensiero, meglio i miei giudizi, visto che la sua azione distruttiva con­
cerne propriamente la capacità di verità dei miei contenuti mentali, (b)
Questo dato è ulteriormente rafforzato dalla forma metalinguistica che
assume l’argomento in tutti e tre i testi principali nei quali Descartes lo
espone, infatti parla nel primo caso di «questa verità (cette vérité)»,
poi di «questo enunciato (hoc pronunciatum)», e infine di «questa co­
gnizione (haec cognitio)», oggettivando ogni volta la relativa formula­
zione «je pense, donc je suis», «Ego sum, ego existo» ed «ego cogito, er­
go sum»49. (c) Infine, notiamo come si tratti di un giudizio del tutto ec­
cezionale, in quanto non solo è inattaccabile persino dal più sottile ar­
gomento scettico, ma soprattutto ci impedisce anche solo di supporre
che noi siamo nulla, ponendo quindi come «necessariamente vero (ne­
cessario esse verum)» non tanto una certa proprietà del soggetto, bensì
la sua stessa esistenza.
Ma come funziona l’argomento del cogito? Dal momento che in

que toutes les plus extravagantes suppositions des Sceptiques nétaient pas capables de l’é-
branler, je jugeai que je pouvais la recevoir, sans scrupule, pour le premier principe de la
Philosophie, que je cherchais)» (AT VI: 32 [OB I: 61]).
48 «E pertanto questa conoscenza: io penso, dunque sono, è tra tutte la prima e
la più certa che si presenti a chi filosofi con ordine (Ac proinde haec cognitio, ego cogito,
ergo sum, est omnium prima et certissima, quae cuilibet ordine philosophanti occurrat)»
(AT V ili: 7 (OB I: 1715]).
49 Sulla formulazione metalinguistica, cf. BEYSSADE, La philosophie première,
cit., 249-253.
Le Meditazioni di Descartes 35

due formulazioni su tre Descartes introduce un elemento inferenziale


(,donc, ergo) già alcuni degli interlocutori contemporanei ritennero che
si trattasse di una struttura sillogistica di questo tipo: (M) Tutto ciò
che pensa esiste; (m) Io penso; ( ) Io esisto. Ma lo stesso Descartes
replica chiaramente:
quando ci accorgiamo di essere cose pensanti, questa è una nozione pri­
ma, che non viene conclusa in base a sillogismo alcuno; e neanche quando
qualcuno dice, io penso, dunque sono, ossia esisto (ego cogito, ergo sum, sive
existo), egli deduce dal pensiero l’esistenza attraverso un sillogismo, ma la vie­
ne a conoscere per semplice intuito della mente come una cosa per sé nota
(tamquam rem per se notam simplici menti intuitu agnoscit) (R2: 140).

Tutto ciò è comprovato dal fatto che se qualcuno deducesse Ye-


go sum mediante un sillogismo, dovrebbe già conoscere per vera la
premessa maggiore; ma come potrebbe accertarsi che è vera se non a
partire dalla conclusione stessa, ovvero anzitutto «a partire dal fatto
che esperisce in sé che non è possibile che pensi se non esiste {apud se
experiatur, fieri non posse ut cogitet, nisi existat)»?
In un articolo del 1962, che ha suscitato un ampio dibattito, il lo­
gico finlandese J. Hintikka ha estremizzato la posizione di Descartes,
arrivando a sostenere che l’argomento del cogito non è un sillogismo
perché non è in generale un’inferenza logica, bensì una performanza50.
Alla base di questa tesi sta il fatto che la proposizione io non sono è in
se esistenzialmente inconsistente in quanto si autodistrugge o, secondo
l’espressione di Hintikka, è selfdefeating, nella misura in cui dire di
non essere non fa che manifestare l’essere di colui che pronuncia tale
negazione. Questa interpretazione pone l’argomento del cogito nella li­
nea della confutazione/ritorsione (elenchos) esercitata da Aristotele
nella dimostrazione del principio fermissimo (bebaiotate arche), mèglio
noto come principio di non contraddizione, nel libro Gamma della
Metafisica?1, ove il negatore del principio nell’atto di togliere non fa

50 J. HINTIKKA, Cogito ergo sum: inference or performance?, in «Philosophical


Review» 71 (1962), 3-32; in un articolo successivo, nel quale risponde a diverse osserva­
zioni m osse al precedente, l’autore cerca di non escludere l’inferenza dalla performanza,
I d . Cogito ergo sum as an inference and a performance, in «Philosophical Review» 72
(1963), 487-496. Per una discussione critica della posizione di Hintikka, cf. J.C . PAREN­
TE, Problèmes logiques du Cogito, in GRIMALDI-MARION (edd.), Le discours et sa métho-
de, cit., 236-245.
51 Per un’approfondita disamina dell’argomentazione elenctica del principio di
non contraddizione in Aristotele e s. Tommaso, cf. P. PAGANI, Contraddizione performa­
tiva e ontologia, Franco Angeli, Milano 1999, 333-356.
36 Sistemi filosofici moderni

che porre il principio stesso, o, come dice Aristotele, «proprio per di­
struggere il ragionamento si avvale di un ragionamento (.anairon logon
hupomenei logon)»52. Tuttavia, una differenza basilare intercorre tra un
principio come quello di non contraddizione e un “principio” come
Yego existo. Certo, anche Descartes si esprime nettamente sul cogito
come principio nel Discorso sul metodo, definendolo «il primo princi­
pio della filosofia che cercavo»53. Similmente, nei Principi della filoso­
fia, il cogito ergo sum «è fra tutte [le cognitiones] la prima e la più certa
che si presenti a chi filosofi con ordine»54; tuttavia, più sotto, precisa di
non aver mai negato che prima di esso si possiedano delle nozioni sem­
plici, come «cosa sia il pensiero, cosa l'esistenza, cosa la certezza»55, e
persino proposizioni, quali «che non può essere che ciò che pensa non
esista» (corrispondente alla maggiore del sillogismo di cui abbiamo po-
canzi discusso), ma subito chiarisce che «sono nozioni semplicissime, e
tali che da sole non ci fanno conoscere alcuna cosa esistente»56.
Quest’ultima affermazione è della massima importanza57, perché
focalizza con precisione il contenuto del nostro principio e il suo valo­
re veritativo: l’esistenza singolare di me attualmente pensante. Non si
tratta dunque di una legge universale, ma a tutti gli effetti di un’infe­
renza particolare. Di certo io penso è vero, perché performativamente
io non penso equivale immediatamente a penso che io non penso; ma,
dal momento che io sono non è identico a io penso, in quanto l’essere
non coincide e non è riducibile al pensare, è necessario che questa se­
conda affermazione sia inferita dalla precedente58. Tale inferenza si dà
e si dà immancabilmente, dal momento che così come io non posso
dubitare che io penso, ugualmente non posso dubitare che io che at­
tualmente penso sono, dal momento che mi è del tutto impossibile
pensare che io che sto pensando non sono. Il fatto che io sono, però, è
impossibile da cogliere indipendentemente dall’esercizio effettivo del

52 Metaph., T4, 1006a 26 (trad. it., ARISTOTELE, Metafisica, a cura di G. REALE,


3 voli., Vita e Pensiero, Milano 1993, II, 147).
53 AT VI: 32 (O B I: 61).
54 AT V ili: 7 (O B I: 1715).
55 AT V ili: 8 (O B I: 1717).
56 AT VIII: 8 (O B I: 1719).
57 Cf. l’analisi dettagliata di questo aspetto in PARIENTE, Problèmes logiques du
Cogito, cit., 246-251.
58 «L e nature semplici “ pensiero” ed “esistenza” (per usare il lessico delle Rego­
le) non si connettono come due nozioni astrattamente intese: il pensiero viene “m esso in
atto” , e solo in questo esercizio permette di cogliere l’esistenza in atto» (Di BELLA, Le
Meditazioni metafisiche, cit., 63).
Le Meditazioni di Descartes 37

io penso, come se si trattasse di un fatto qualunque di cui è possibile o


meno accertarsi, perciò Yio sono non fa che esprimere il presupposto
ontologico immediatamente implicato nellVo penso; ed è solo nella mi­
sura in cui è indubitabilmente vero che io penso che è necessariamente
vero che io sono.
Tornando ora ai tre aspetti che prima avevamo rilevato sull’argo­
mento del cogito, possiamo coglierne più a fondo la portata, (a) Il cogi­
to è «principio» nel senso che nessuna conoscenza funge da suo pre­
supposto, ma lo è quanto all’ordine analitico inventivo, che viene av­
viato dall’esperimento del dubbio radicale. Nell’ordine sintetico, infat­
ti, il primo principio di tutte le cose è Dio, la cui esistenza «si conosce
in base alla sola considerazione della sua natura» (R2: 166). (b) L’argo­
mento del cogito ha una formulazione metalinguistica, perché in esso
la riflessione filosofica muove anzitutto dall’auto-oggettivazione del
pensiero a se stesso, capace di cogliere la prima immediata istanza
d’indubitabilità, costituita dalla performanza dell’atto di pensare: mi è
impossibile dubitare di essere pensante, (c) Ma, il punto decisivo sta
nel fatto che all’interno stesso dell’auto-oggettivazione del cogito emer­
ge necessariamente un’implicazione ontologica, che non appartiene più
semplicemente all’ordine della lingua-oggetto bensì all’essere, ovvero
alla posizione, alTaver luogo effettivo dell’esistenza singolare del sog­
getto pensante59. Ciò che Descartes intende mostrare è la necessità
dell’apertura del pensiero nei confronti dell’essere: nel cogito l’atto di
pensare non può evitare di cogliersi già da sempre implicato nell’esi­
stenza. Il che non significa in alcun modo racchiudere l’essere nei con­
fini del pensiero - come qualcuno ha erroneamente inteso confonden­
do l’ordine della scoperta con l’ordine delle cose - ma al contrario mo­
strare come il pensiero giunga a cogliersi come già da sempre incluso
nell’orizzonte dell’essere.
Detto ciò, il meditante giunge a interrogarsi su «chi mai sia io,
quell’io che già necessariamente sono (quisnam sim ego ille, qui jam
necessario sum)» (M2: 25), una domanda assai ardua, che nella sua
complessa formulazione introduce la terza persona {ille) pur mante­

59 «Le cogito est en effet d ’une part horizon de tout ce qui est pensé, “limite du
monde”, comme le dira Wittgenstein [Tractatus logico philosophicus, n. 5], mais d’autre
part il est lui-mème un événement, un objet dans le monde, mème si le monde consiste
seulement en cet unique objet» (R. SPAEMANN, Le sum dans le cogito sum, in GRIMALDI-
M arion (edd.), Le discours et sa méthode, cit., 276; l’articolo è stato poi pubblicato an­
che in tedesco, Id., Das Usuma im “cogito sum \ in «Zeitschrift fùr philosophische For-
schung» 41 [19871,377).
38 Sistemi filosofici moderni

nendosi esclusivamente dal punto di vista della prima (sim ego, qui
sum). La legittimità di un tale passaggio si basa sulla consapevolezza
che Vego existo è emerso come residuo dell’eversione delle certezze ope­
rata dal dubbio, certezze che ora, facendo leva sul punto archimedeo
del cogito, il meditante può progressivamente tentare di recuperare:
«Mediterò ora di nuovo, quindi, su cosa io credevo un tempo di esse­
re». Questa seconda fase della meditazione, non rappresenta però un
mero corollario della prima, bensì, come il titolo della Meditazione II
esplicita, il suo primo obiettivo: «La natura della mente umana; che essa
è più nota del corpo» (M2: 23 )60. Tra le cose che il meditante può recu­
perare, nel tentativo di definire la propria natura, vi è «anzitutto, che
avevo volto, mani, braccia [...]» (M2: 26), insomma un corpo, e poi che
«mi nutrivo, camminavo, sentivo e pensavo [...]», tutte azioni riferibili
a un qualcosa comunemente chiamato anima. Su tutti questi aspetti
continua comunque a esercitare la sua funzione catartica il dubbio, an­
cora impersonato dal Genio maligno, e ogni cosa sembra svanire nuo­
vamente, tranne una: «il pensiero; esso soltanto non può essermi tolto
via» (M2: 27). Da qui il meditante può giungere a questa conclusione:
Nulla ammetto, adesso, se non ciò che è necessariamente vero; precisa-
mente, dunque, sono soltanto una cosa pensante, ossia una mente, o animo, o
intelletto, o ragione; parole di cui prima mi era ignoto il significato. Però sono
una cosa vera, e veramente esistente; ma quale cosa? L’ho detto: pensante
(M2: 27)61.

Molti sono gli aspetti interessanti di questa affermazione epocale62,


ne sottolineo soltanto alcuni: (a) la verità della natura dell’ago è neces­

60 S. Di Bella nota acutamente come «il rilievo teorico del Cogito non risieda
tanto nella prova della propria esistenza contro lo scetticismo radicale (così inteso, è
tutt’altro che un’invenzione originale), quanto nel decisivo contributo all’indagine sulla
“natura della mente”. E attorno ad una certa intuizione del nesso tra conoscenza dell’e­
sistenza e conoscenza della natura dell’io, che si organizza e trova unità tutto l’impianto
della IIMeditazione [ ...] » (Di BELLA, Le Meditazioni metafisiche, cit., 68). Questa ope­
razione manifesta anche il preciso intento di Descartes di ribaltare la dottrina tradizio­
nale, peripatetico scolastica, sull’anima, cf. J.P. CARRIERO, The Second Meditation and
thè essence o f thè mind, in OKSENBERG RORTY (ed.), Essays on Descartes’ Méditations,
cit., 199-221.
61 «Nihil nunc admitto nisi quod necessario sit verum; sum igitur praecise tan­
tum res cogitans, id est, mens, sive animus, sive intellectus, sive ratio, voces mihi prius
significationis ignotae. Sum autem res vera, et vere existens; sed qualis res? Dixi, cogi­
tans» (M2: 27).
62 Cf. S. LANDUCCI, La mente in Cartesio, Franco Angeli, Milano 2002; L. A la -
NEN, Descartes’s Concept ofMind, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2003.
Le Meditazioni di Descartes 39

saria come la verità dell’i o existo stesso, perché si tratta di due verità
coessenziali e inscindibili63; (b) dicendo di essere una cosa pensante,
ovvero «una cosa che dubita, intende, afferma, nega, vuole, non vuole,
immagina, inoltre, e sente» (M2: 28), Descartes non intende porre una
qualche sostanza al di sotto dell’atto di pensare, tanto meno un sostra­
to di tipo psicofisico, bensì individuare nel pensare stesso, con tutta la
varietà dei suoi modi, la capacità di essere sostanza64; (c) dicendo poi
di essere soltanto un che di pensante, pone i presupposti per il cosid­
detto dualismo tra mente e corpo, rovesciando la concezione peripate­
tico scolastica basata da sempre sul primato dell’esperienza sensibile, e
gettando di fatto le basi per la fondazione della scienza cartesiana, ba­
sata sull’intuito delle nature semplici65.
Sebbene il meditante abbia raggiunto questa nuova ulteriore
certezza, nella terza e ultima fase della Meditazione II si riaffaccia la
questione dei corpi: «ancora mi sembra e non posso impedirmi di
credere che le cose corporee [...] sono conosciute molto più distinta-
mente di questo non so che di me che cade sotto l’immaginazione»
(M2: 29). Questo tratto argomentativo va a toccare il secondo obietti­
vo annunciato nel titolo della meditazione: la maggiore notorietà della
mente rispetto al corpo. Per fare ciò il filosofo si serve di un esempio
- divenuto molto celebre - che pone al centro della sua riflessione:
«questa cera, appena estratta dall’alveare» (M2: 30), con il suo sapo­
re, odore, colore, figura, grandezza, consistenza ecc. Appena però la
si avvicina al fuoco, tutte le precedenti qualità mutano: svanisce l’o­
dore, la figura si deforma, diventa liquida, trasparente ecc. Dal che ci
chiediamo, rimane o non rimane ancora la medesima cera? Rimane, a
detta di tutti, ma allora cosa ci ha permesso di definirla? «Certo, nulla
di ciò che coglievo con i sensi: infatti, tutto ciò che cadeva sotto il gu­
sto, o l’odorato, o la vista, o il tatto, o l’udito, è ormai mutato, mentre
la cera rimane». Ma se nessuna delle indefinitamente mutevoli qualità

63 «Mi meraviglio che voi, qui, riconosciate che tutto ciò che considero nella ce­
ra dimostra bensì che io conosco distintamente di esistere, non, però, chi o quale io sia,
poiché l’una cosa non si dimostra senza l’altra» (R5: 359); sulla distinzione e relazione
tra essenza reale ed essenza epistemica, cf. KEMMERLING, Das Existo und die Natur des
Geistes, cit., 44.
64 Sul valore di sostanza (termine non presente in M2) dell 'ego cogito disquisi­
sce a lungo MARION, Sur le prisme métaphysique, cit., 137-216.
65 Cf. P.A. SCHOULS, Descartes and thè Possibility of Science, Cornell University
Press, Ithaca (NY)-London 2000, 25-62; E. SCRIBANO, Guida alla lettura delle Medita­
zioni metafisiche di Descartes, Laterza, Roma-Bari 2000, 33-58.
40 Sistemi filosofici moderni

sensibili può stare alla base delTidentificare questa cera in se stessa,


ciò significa che non possiamo «immaginare» cos’è questa cera, bensì
«percepire con la sola mente» (M2: 31), tenendo presente che tale
percezione «non consiste né in una visione, né in un contatto, né in
un’immaginazione [...], ma è lo sguardo della sola mente (solius men­
tis inspectio)»66.
Capiamo quanto fosse decisivo per la fondazione della scienza
cartesiana raggiungere e mantenere questo puro sguardo della mente,
costantemente minacciato da quell’abitudine di confidare nei sensi,
così radicata nel sapere comune e avvalorata dalla teoria della cono­
scenza di matrice peripatetico scolastica, la quale si basa sul principio
secondo cui nihil est in intellectu, quod non fuerit in sensu (nulla è nel­
l’intelletto, se non è stato nei sensi). Principio che qui Descartes inten­
de rovesciare da capo a piedi67.

Obiezioni e risposte
Le obiezioni alla Meditazione II sono ben più numerose e consi­
stenti di quelle mosse alla precedente. Le principali sono per mano di
diversi teologi, raccolte da Mersenne, ma in verità redatte da costui
(02: 122-123; R2: 129-133), di Hobbes (OR3: 172-179), di Arnauld
(04: 197-199; R4: 219), di Gassendi (05: 258-277; R5: 350-361) e di
Bourdin (OR7: 477-535).
Tra quelle che hanno fatto discutere maggiormente troviamo an­
zitutto il dibattito con Hobbes, il quale, all’inizio della sua Obiezione
seconda, solleva un punto che non viene colto da Descartes, malaugu­
ratamente portato a sottovalutare le argomentazioni del suo interlocu­
tore d’oltremanica68. Il filosofo inglese, dopo aver ammesso che dal
fatto che io penso segue necessariamente che sono pensante, sostiene

66 II termine latino inspectio viene da in-spicio, «guardo dentro, osservo attenta­


mente, esamino»; il termine di una lingua moderna che mi sembra maggiormente avvici­
narsi al significato di ispectio è l’inglese insight. Sul rapporto tra semplice apprensione e
giudizio nella Meditazione II, cf. E. ANGELINI, Le idee e le cose. La teoria della percezione
in Descartes, Edizioni ETS, Pisa 2007, 141-205.
67 Alla fine della Meditazione II si legge: «in se stessi i corpi non sono propria­
mente percepiti dai sensi, o dalla facoltà di immaginare, ma dal solo intelletto, e non
vengono da esso percepiti in quanto sono toccati, o visti, ma solo in quanto sono intesi
{intelligantur)» (M2: 34); cf. CARRIERO, The Second Meditation and thè essence o f thè
mind, cit., 208-211. 214-217; SCRIBANO, Guida alla lettura, cit., 49-50; M. ROZEMOND,
The nature o f thè mind, in GAUKROGER, The Blackwell Guide, cit., 49-54.
68 Cf. A Mersenne, 21 aprile 1641 (AT III: 360 [LB: 1447]); MORI, Cartesio, cit.,
166-172.
Le Meditazioni di Descartes 41

che «Dal fatto che sono una cosa pensante segue Io sono perché ciò
che pensa non è un nulla» (OR3: 172). Però, dire non nulla non signifi­
ca immediatamente dire io, potrebbe anche voler dire un certo qualco­
sa, e quindi saremmo bensì autorizzati a dire ciò pensa, senza che que­
sto qualcosa sia necessariamente un anima, un io, e non piuttosto qual­
cosa d’impersonale, come un corpo69. E prosegue: «Io sono pensante,
dunque sono pensiero, non sembra un’argomentazione corretta. E nep­
pure questa: sono uno che intende, dunque sono un intelletto. Nello
stesso modo potrei infatti affermare: sono uno che passeggia, dunque
sono una passeggiata» (OR3: 173); dal momento che tutti ammettono
che bisogna distinguere il soggetto dai suoi atti o dalle sue potenze.
La risposta di Descartes è invero assai sbrigativa, a sottolineare
che la domanda gli appare così fuorviante da non meritare una lunga
disamina: «Né affermo come identiche la cosa che intende e l’intelle­
zione [atto], e neppure la cosa che intende e l’intelletto, se si prende
l’intelletto per la facoltà [potenza], ma solo quando lo si prende per la
cosa stessa che intende (re ipsa quae intelligit)» (OR3: 174). Sembra un
mero quiproquò, eppure l’obiezione di Hobbes è più raffinata e pene­
trante di quello che sembra, perché in effetti accusa la Meditazione II
di non essere riuscita a dimostrare che sia possibile concepire un sog­
getto pensante privo di estensione, ovvero non corporeo, e perciò on­
tologicamente distinto dai suoi atti o potenze, come invece Descartes
rivendica70.
Una delle più note critiche al cogito la troviamo all’inizio delle
Obiezioni V, gettata lì come fosse un’owietà: «non mi sembra che ave­
ste bisogno di tutto questo apparato, quando eravate d’altronde certo,
ed era vero, che voi siete, e sareste potuto arrivare alla medesima con­
clusione anche a partire da qualsiasi altra vostra azione» (05: 259), co­
me ad esempio «io cammino dunque sono» (R5: 352) oppure «respiro,
dunque sono»71. Descartes rimase molto deluso dalla trivialità di que­
sta obiezione e in generale dalle argomentazioni di Gassendi, assu­
mendo verso di lui un tono di scherno esageratamente polemico72. Ma
il problema è tutt’altro che irrilevante, e può essere formalizzato come

69 Su questo punto cf. BEYSSADE, La philosophie première, cit., 228-230.


70 Su questa “vulnerabilità” dell’argomentazione cartesiana evidenziata da
Hobbes, cf. E. CURLEY, Hobbes contre Descartes, in BEYSSADE-MARION (edd.), Descartes.
Objecter et répondre, cit., 149-162; Id., Hobbes versus Descartes, in ARIEW-GRENE (edd.),
Descartes and bis Contemporaries, cit., 97-109.
71 A Reneri per Pollo t, aprile o maggio 1638 (AT II: 37 [LB: 651)].
72 Sul dibattito tra Descartes e Gassendi, cf. MORI, Cartesio, cit., 181-189.
42 Sistemi filosofici moderni

segue: «se la massima per camminare (respirare) bisogna essere è una


proposizione che ha lo stesso statuto di per pensare bisogna essere, per­
ché è legittimo inferire io sono da io penso, ma non da io cammino (re-
spiroJ?»73. Descartes risponde da un lato che «la coscienza di cammi­
nare è un pensiero» (R5: 352) e che quindi io cammino si riduce di fat­
to a io penso di camminare, ma soprattutto rileva la circolarità conte­
nuta nella deduzione di io sono da io respiro (cammino), infatti: «biso­
gnerebbe prima aver dimostrato che è vero che si respira [cammina], e
questo non è possibile se non si è anche dimostrato che si esiste»74, ov­
vero il solo fatto che io possa pensare di camminare (respirare), indi­
pendentemente dal fatto che io sia in grado di provare che è vero o so­
lo una mia illusione, presuppone comunque che io esista per poter
produrre questo pensiero.
Nel seguito del testo, Gassendi dirige la sua disamina contro il
dualismo cartesiano nel suo complesso, abbracciando progressivamen­
te i contenuti della Meditazione II, III e VI. La sua argomentazione
può essere riassunta in questi termini: il dualismo cartesiano, che si
pone non solo al livello dell’indipendenza della res cogitans da ogni
estensione, ma coinvolge anche il dislivello epistemico tra sensazione e
immaginazione, da un lato, e intellezione, dall’altro, rende impossibile
qualunque comunicazione tra corpo e anima. Perciò, Gassendi propo­
ne di passare dal dualismo radicale di Descartes (basato sul paralleli­
smo oppositivo anima/infinito vs corpo/finito)75 al dualismo relativo
tra corpi grossolani e corpi sottili (ispirato all’epicureismo) capace - a
suo dire - di salvare al contempo la divisione e l’unione dei due poli.
Descartes replicherà che così facendo si viene a confondere una diffe­
renza d'essenza con una differenza di grado, inoltre è inopportuno por­
re il problema del dualismo a livello della Meditazione II, in quanto lì
esso non è ancora tematizzato e lo diverrà solo con la VI. Ma la que­
stione della relazione tra l’anima e il corpo resta, anzi diverrà uno dei
temi più complessi della filosofia cartesiana e più discussi di tutta la fi­
losofia moderna.

73 «si la maxime pour ?narcher (respirer) il faut ètre est une proposition de mème
statut que pour penser il faut ètre, pourquoi est-il légitime d’inférer Je suis de Je pense,
mais non de Je marche (respire)}» (PARIENTE, Problèmes logiques du Cogito, cit., 253
[trad. mia]).
74 A Reneri per Pollot, aprile o maggio 1638 (AT II: 37 [LB: 651)].
75 Su questo aspetto cf. J.L . C h ÉDIN, Descartes et Gassendi: le dualisme à l’é-
preuve, in BEYSSADE-MARION (edd.), Descartes. Ohjecter et répondre, cit., 163-178.
Le Meditazioni di Descartes 43

3. Dio esiste

Il filosofo apre la Meditazione III, come di consueto, con una


rassegna dei risultati guadagnati con la precedente, finora «io sono
certo di essere una cosa pensante» (M3: 35), ma forse - si chiede il
meditante con una domanda che inaugura e guida di fatto il nuovo iti­
nerario riflessivo - in me ci sono anche «altre cose cui ancora non ho
volto lo sguardo». Anzitutto, insieme al fatto di essere certo delego
sum ho anche ricavato il criterio generale in base al quale appurare la
certezza di qualcosa, infatti, dal momento che quel principio lo perce­
pivo in modo chiaro e distinto, ne deduco la regola generale in base al­
la quale «è vero tutto quello che percepisco molto chiaramente e di­
stintamente». Nella Meditazione 7, però, era stato messo in dubbio tut­
to quello che prima pareva certo, come la Terra, il cielo e in generale
gli oggetti dell’esperienza sensibile. Un’unica cosa si poteva percepire
chiaramente di tutto ciò, ovvero che «le idee, ossia i pensieri, di tali
cose erano presenti alla mia mente (talium rerum ideas, sive cogitatio-
nes, menti meae obversari)».
Qui Descartes introduce esplicitamente uno dei termini più im­
portanti della sua opera: le idee. A partire da Platone, le idee designa­
vano il modello archetipo e il fondamento ontologico delle cose espe­
ribili fenomenicamente, al punto che il neoplatonismo giunse a identi­
ficarle con quei contenuti dell’intelligenza divina che fungono da para­
digma per la creazione76. Il significato che invece Descartes attribuisce
alle idee - con una svolta che segnerà l’intera filosofia moderna - è
quello di pensieri (cogitationes) che la mente oggettiva (obversari) nel
senso che stanno di fronte ad essa, ossia ogni possibile oggetto imme­
diato della coscienza (es. percezioni, rappresentazioni, nozioni, affe­
zioni, volizioni ecc.)77. Il dubbio non poteva certo contestare che tali
idee fossero nella mente, ma poteva, anzi doveva sospendere quell’as­

76 Cf. F. F ronterotta - W. L eszl (edd.), Eidos - Idea. Platone, Aristotele e la


tradizione platonica, Academia, Sankt Augustin 2005; Descartes si dichiara ben consape­
vole del significato “tradizionale” del termine idea in OR3: 181.
77 Dobbiamo precisare che qui Descartes restringe l’ambito delle idee soltanto a
quelle riferite a cose, «l’uomo, o la chimera, o il cielo, o un angelo, o Dio» (M3: 37); più
oltre nel testo estenderà il significato di idee a «tutto ciò che è percepito immediatamen­
te dalla mente» (OR3: 181; cf. R2: 160), quindi anche affezioni, volizioni ecc.; cf. A Mer­
senne, 28 gennaio 1641 (AT III: 295 [LB: 1393]). Sulle idee in Descartes, cf. S. N a d ler ,
The doctrine of ideas, in GAUKROGER, The Blackwell Guide, cit., 86-103; sull’evoluzione
del termine idea da Descartes in poi, cf. M. FATTORI - M .L. BIANCHI (edd.), Idea. VI Col­
loquio internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1990.
44 Sistemi filosofici moderni

senso che ci portava a ritenere spontaneamente che fuori di noi ci fos­


sero «cose dalle quali tali idee derivano, ed alle quali erano in tutto si­
mili», ossia oggetti extramentali corrispondenti alle idee.
A questo punto il filosofo inverte il flusso meditativo, assumen­
do l’ipotesi del Dio ingannatore come spunto per la soluzione della
questione concernente gli oggetti extramentali, con un’affermazione
per certi versi sorprendente per il lettore che cominciava ad assuefarsi
alla visone iperbolica del dubbio: «poiché non ho alcun motivo di rite­
nere che ci sia un Dio ingannatore, e neppure so ancora se ci sia un
Dio, la ragione di dubbio che dipende esclusivamente da quell’opinio­
ne è molto tenue e, per così dire, metafisica» (M3: 36). Ovverosia, le
ragioni dell’evidenza delle percezioni immediate delle cose invece di
essere messe in questione dall’ipotesi del Dio ingannatore, stavolta
sembrano mettere esse stesse in questione tale ipotesi e il suo fonda­
mento, cioè l’esistenza stessa di Dio. Con ciò intuiamo che Descartes,
con un’operazione molto complessa che richiederà diversi rovescia-
menti riflessivi, intende usare la dimostrazione dell’esistenza di Dio
per fondare la certezza nei giudizi sugli oggetti extramentali. Ma prima
di fare ciò, deve dimostrare che tutte le altre strade sono impraticabili.
Il meditante decide di partire dal punto più semplice e ovvio, os­
sia da un’analisi riflessiva del nostro pregiudizio spontaneo di ritenere
che i contenuti mentali si riferiscano, ovvero derivino e siano simili a
cose esterne a noi e, per fare ciò, procede a una enumerazione dei con­
tenuti mentali, allo scopo di vedere se esista un genere di essi tale da
richiedere e garantire il riferimento a cose esterne78. Anzitutto, da un
lato ci sono le semplici «immagini di cose» (M3: 37) - le idee in senso
stretto (es. idea di uomo, chimera, cielo ecc.) - dall’altro ci sono conte­
nuti mentali più complessi che si riferiscono a tali immagini, come vo­
lizioni, affetti e giudizi. Le idee però, prese in se stesse, non possono
essere false (sia che io immagini una capra che una chimera), e ugual­
mente volizioni e affetti (es. “voglio la luna” è un desiderio vero anche
se è irrealizzabile), solo i giudizi possiedono un valore veritativo e per
questo sono soggetti all’errore, dal momento che pretendono di riferi­
re a esistenze extramentali determinate idee della mente.
Le idee, poi, possono essere o innate, o avventizie, o fattizie a se­
conda che sembrino aver origine dalla mia stessa natura, o provenire
da qualcosa ritenuto fuori di me, o essere da me liberamente prodotte.

78 Cf. Regola VII (AT X: 387-392 [OB II: 717-723]).


Le Meditazioni di Descartes 43

Ma, a questo livello della meditazione, non sapendo ancora se esista o


meno una qualche realtà extramentale: «posso forse pensare che esse
sono tutte avventizie, o tutte innate, o tutte fatte da me» (M3: 38). Tra
queste idee, però, le avventizie sono quelle che più delle altre appaiono
in grado di provenire e di essere simili a cose esterne. Infatti, da un lato
siamo naturalmente spinti a ritenerle originate dall’esterno, inoltre esse
non dipendono dalla volontà e quindi da noi stessi (es. ora sento caldo,
che io lo voglia o no, e perciò riferisco questo caldo a qualcosa d’altro
da me, come il sole); tuttavia - replica Descartes - un impulso naturale
non è un criterio certo di verità e l’involontarietà non mi dice nulla cir­
ca la reale origine di tali idee. Inoltre, anche ammettendo che queste
idee provengano da cose fuori della mente, nulla garantisce la loro si­
militudine con tali cose: ad esempio l’idea avventizia del Sole che mi
formo attraverso i sensi è assai diversa dall’idea del Sole che mi formo
mediante le nozioni matematiche innate che applico all’astronomia,
giacché in un caso mi appare molto più piccolo della Terra, nell’altro
so che è di molte volte più grande79. Perciò il filosofo giunge a questa
desolante conclusione: «Tutto ciò dimostra a sufficienza che non è sta­
to per un giudizio certo, ma solo per un cieco impulso, che ho sinora
creduto che esistano cose diverse da me che, attraverso gli organi dei
sensi, o in qualsiasi altro modo, immettono in me le loro idee o imma­
gini» (M3: 40). Il meditante sembra così destinato a restare chiuso nel­
l’orizzonte solipsistico del cogito, nel quale è certo solo e soltanto della
propria esistenza. A meno che non gli si apra un’altra via.
Le idee, considerate come abbiamo fatto sinora, cioè in base alla
loro origine, non differiscono sostanzialmente tra di loro: tutte in fon­
do derivano da me, incapaci di mostrare alcuna intrinseca relazione
extramentale. Ma le stesse idee, considerate sotto una nuova prospetti­
va, ovvero in base alVoggetto che rappresentano, risultano affatto diffe­
renti l’una dall’altra. E proprio riflettendo su questo aspetto, il medi­
tante trova che:
senza dubbio, le idee che mi fanno vedere delle sostanze sono qualcosa
di più grande e, per così dire, contengono in sé più realtà obiettiva (plus reali-
tatis objectivae) di quelle che rappresentano soltanto modi, ossia accidenti; e,
ancora, quella attraverso cui intendo un Dio sommo, eterno, infinito, onni­

79 L’esempio che qui porta Descartes è solo apparentemente illustrativo, in


realtà riflette una problematica di fondo sottesa a tutte le Meditationes, ovvero l’impossi­
bilità di basare la scienza certa sulle percezioni sensibili e la necessità di elaborare un al­
tro fondamento.
46 Sistemi filosofici moderni

sciente, onnipotente e creatore di tutte le cose che sono fuori di lui, ha senz al­
tro in sé più realtà obiettiva di quelle attraverso le quali mi vengono fatte ve­
dere delle sostanze finite (M3: 40).

Questa affermazione sarebbe difficilmente comprensibile, se


non tenessimo presente che - secondo una terminologia tratta da Suà­
rez - Descartes distingue in ciascuna idea, da un lato la sua realtà for­
male e dall’altro la sua realtà obiettiva, ovvero rispettivamente il suo at­
to di essere (dalla forma nel senso aristotelico) e il suo contenuto (ciò
che il pensiero oggettiva)*®. Ulteriormente strano in questo testo è poi
il fatto che, basandosi sulla sola realtà obiettiva delle idee, ovvero sul
loro puro contenuto noematico, Descartes distingua un più e un meno
e quindi tracci una scala di tre gradi di realtà (modi o accidenti, so­
stanze finite, sostanza infinita), per poi introdurre, subito dopo, una
nozione altrettanto decisiva, che viene a completare questo vero e pro­
prio punto di svolta nelle Meditazioni cartesiane: la causalità. Il medi­
tante nota immediatamente che «è manifesto per lume naturale che in
una causa efficiente e totale ci deve essere almeno tanta realtà quanta
ce n’è nell’effetto della stessa causa». Dobbiamo prendere atto che,
con l’«altra via» che abbiamo intrapreso dopo che la precedente si era
rivelata inaccessibile, da uno scenario puramente “cogitativo” tutto
fatto di pensieri e idee che tentavano inutilmente di accedere alla
realtà extramentale, abbandonandoci a una deriva solipsistica, siamo
passati a uno scenario in cui riappaiono i termini più classici della me­
tafisica, ovvero sostanza e causa. E questo forse il passaggio più diffici­
le e nevralgico dell’opera, dove Descartes compie una vera riappro­
priazione e rifondazione della metafisica81.

80 Questa distinzione, già complicata dal fatto che in genere noi oggi usiamo il
termine oggettivo (vs. soggettivo) per indicare la realtà extramentale di qualcosa, è ulte­
riormente complicata dal fatto che talvolta Descartes chiama realtà materiale quella che
qui chiama formale, (es. AT VII: 8 [O B I: 691]), cf. V. CHAPPELL, The theory ofideas, in
O k senberg R orty (ed.), Essays on Descartes’ Méditations, cit., 177-198.
81 A proposito del ruolo della causalità nella Meditazione III, J.-L. Marion parla
di un «nuovo principio» (dopo il cogito) e quindi di un «secondo inizio» delle Medita­
zioni: «L a causalité, efficiente en tant que totale, ne doit intervenir qu’au moment précis
où Yego lui-méme se met en quète du fondement de sa propre existence cogitative. Et
pour transiter d’une existence d’étant cogitatif à une existence absolument fondée, lego
doit cesser de se définir à partir de l’essence de 1’ens ut cogitatum, et en appeler à une
parole plus essentielle sur l’étant dans son ètre: Yens ut causatum, dont la formulation in­
tervieni alors et alors seulement, comme une incontournable évidence. Posée comme
nouveau principe, voire comme le second commencement des Meditationes, la causa dé-
ploie immédiatement et directement son autorité sur ce qu’il s’agit de surpasser, la cogi-
Le Meditazioni di Descartes 47

Il principio di causalità comporta che un effetto non può deriva­


re dal nulla e nemmeno da qualcosa che possiede meno realtà di esso,
ma - con un vero colpo da maestro, foriero di un acceso dibattito82 -
il meditante precisa che «ciò è vero in modo perspicuo non solo per
quegli effetti la cui realtà è attuale, ossia formale, ma anche per le idee
nelle quali si considera la sola realtà obiettiva» (M3: 41). Ad esempio,
una pietra non può venire dal nulla né da qualcosa di dotato di una
realtà formale inferiore a essa, ma anche l’idea della pietra deve neces­
sariamente essere stata «posta in me da una qualche causa in cui vi sia
almeno tanta realtà quanta concepisco esserne [...] nella pietra», ovve­
ro la realtà obiettiva di un’idea deve derivare da una causa che possie­
de almeno tanta realtà formale quanta ne possiede quella obiettiva. A
ciò si potrebbe controbattere che un’idea può benissimo derivare la
sua realtà obiettiva dalla realtà obiettiva di un’altra idea, senza neces­
sariamente dover coinvolgere una qualche realtà formale. La risposta
di Descartes segna un punto decisivo, anche se non conclusivo, del­
l’argomentazione:
E sebbene, forse, un’idea possa nascere da un’altra, qui non si dà tutta­
via un regresso all’infinito, ma si deve infine giungere ad una prima idea la cui
causa sia, per così dire, l’archetipo (archetypi) in cui è contenuta formalmente
tutta la realtà che nelle idee è soltanto obiettivamente (M3: 42).

Dobbiamo però fare attenzione a due aspetti di questa risposta,


tenendo ben presente che noi non sappiamo ancora se tale realtà for­
male sia extramentale o meno, quello che qui Descartes giunge a di­
mostrare è soltanto (a) il fatto che la realtà obiettiva di un’idea deve
necessariamente rimontare a una causa formale archetipa e che (b)
questa causa formale non può possedere meno realtà del suo effetto.
Difatti, la domanda che subito dopo il meditante si pone è se ci sia al­
meno una delle sue idee che possieda una realtà obiettiva tale da esclu­
dere categoricamente che lui ne sia la causa, perché solo così potrà es­
sere certo non solo della propria esistenza, ma anche dell’esistenza di
una cosa diversa da se stesso.

tatto méme» (MARION, Sur le prisme métaphysique, cit., 119). Giustamente si tratta di un
«secondo inizio» perché così come l’atto di pensare non potendo provenire dal nulla ri­
chiedeva l’esistenza dell’ago - includendo implicitamente la causalità o «dal nulla non
viene nulla» - così ora, su un livello esplicito, il principio di causalità emerge nel supera­
mento riflessivo col quale Yego s’interroga sul fondamento della propria esistenza.
82 Vedi l’obiezione di Caterus (O l: 92-94; RI: 102-106), di cui parleremo più
avanti.
48 Sistemi filosofici moderni

Da una rapida rassegna delle idee che «si trovano» nella mente,
oltre all’idea dell’io, scopriamo le idee di cose corporee, inanimate o
animate, l’idea di uomini simili a noi, di angeli e l’idea di Dio. Descartes
esamina quindi la realtà obiettiva di ciascuna di queste idee, giungendo
a dimostrare che non è possibile escludere che tali idee appartengano
formalmente all'ego, ovvero siano modi di esso. Tutte tranne una. L’idea
di Dio, inteso come «una sostanza infinita, indipendente, sommamente
intelligente, sommamente potente, e dalla quale siamo stati creati sia io
stesso, sia ogni altra cosa, se qualche altra cosa c’è, quale che sia»
(M3: 45)83, tanto più vi si pone attenzione, tanto meno sembra proveni­
re da noi stessi. Da tutto ciò, «si deve concludere che Dio esiste neces­
sariamente (Deum necessario existere, est concludendum)».
E questa la prima84 dimostrazione dell’esistenza di Dio che tro­
viamo nelle Meditazioni, la cui struttura, in sintesi, è la seguente: la
realtà obiettiva delle idee deve essere sempre riconducibile a una
qualche causa formale; ma tutte le idee che trovo nella mia mente so­
no formalmente riconducibili a me stesso tranne una, l’idea di Dio, in
quanto per definizione (infinito) non può avere la sua causa formale
in me (finito); quindi Dio esiste necessariamente. Il filosofo era ben
conscio che, per quanto desiderasse ridurre la sua argomentazione al
numero di passaggi minore possibile, questa necessitava di essere ul­
teriormente spiegata, soprattutto tenendo conto delle resistenze che
avrebbe sollevato nei suoi lettori contemporanei: tanto nei materialisti
atei, quanto in quei “materialisti credenti” che agli occhi di Descartes

83 Qualche riga prima Descartes aveva definito sostanza: «una cosa atta ad esi­
stere per sé {per se apta est existere)» (M3: 44); nei Principia I, art. 51: «Per sostanza non
possiamo intendere altro se non una cosa che esiste in maniera tale da non aver bisogno
di alcun’altra cosa per esistere {ut nulla alia re indigeat ad existendum)» (AT V ili: 24
[OB I: 1745]); cf. J.-L. M ario n , Sostanza e sussistenza. Suàrez e il trattato della substan­
tia nei Principia, I, 31-34, in J.-R. ARMOGATHE - G. BELGIOIOSO (edd.), Descartes: Prin­
cipia Philosophiae (1644-1994), Vivarium, Napoli 1996, 231-254; J. SECADA, The doctri-
ne of substance, in GAUKROGER, The Blackivell Guide, cit., 67-85. Sulla definizione di
Dio come substantia infinita e sul suo confronto con le altre, ens summe perfectum e cau­
sa sui, cf. J.-L. MARION, The essential incoherence of Descartes’ definition of divinity, in
B ey ssa d e -M arion (edd.), Descartes. Objecter et répondre, cit., 297-338; per un esame
capillare dell’idea chiara e distinta di Dio, cf. I. AGOSTINI, Lidea di Dio in Descartes.
Dalle Meditationes alle Responsiones, Le Monnier, Milano 2010.
84 Nelle Meditationes troviamo tre argomenti per provare l’esistenza di Dio, due
detti “a posteriori” o “argomenti causali”, uno detto “a priori” o - a partire da Kant -
“argomento ontologico” : il primo, è in genere localizzato nel testo immediatamente se­
guente la conclusione appena dichiarata da Descartes (M3: 45-48); il secondo occupa la
parte finale della meditazione (M3: 48-52); il terzo lo troveremo in M5: 65-69.
Le Meditazioni di Descartes 49

erano i filosofi e teologi scolastici85. Perciò, dopo la conclusione che


abbiamo appena letto, assistiamo a due ondate successive di chiari­
menti e spiegazioni, che di fatto sono risposte anticipate alle obiezioni
e resistenze più probabili: la prima basata sull’idea di infinito, la se­
conda sulla causa di sé.
La nozione d’infinito era stata introdotta - quasi come ovvia -
nella definizione dell’idea di Dio, sostanza infinita, ma il filosofo è con­
sapevole che si tratta di una nozione tanto decisiva quanto problemati­
ca86. Anzitutto è decisiva, perché «quand’anche l’idea di sostanza fosse
in me per il fatto stesso che io sono sostanza, non per questo, tuttavia,
vi sarebbe l’idea della sostanza infinita, perché sono finito, a meno che
essa non provenisse da una sostanza che fosse infinita in realtà»
(M3: 45), e quindi l’idea di Dio, che trovo in me, deve avere la sua cau­
sa formale in una sostanza attualmente infinita, quale io non solo e qua­
le solo Dio è. Ma è anche problematica, perché per lo più è ritenuta una
nozione negativa, e perciò vuota, derivata e confusa; mentre Descartes
pretende che essa sia positiva, e quindi piena, primaria e intellegibile:
infatti, intendo manifestamente che c’è più realtà nella sostanza infinita
che in quella finita e che, quindi, in me, la percezione dell’infinito viene prima
di quella del finito, ossia quella di Dio prima di quella di me stesso. In che mo­
do, infatti, intenderei di dubitare, di desiderare, vale a dire che mi manca
qualcosa e non sono interamente perfetto, se non ci fosse in me alcuna idea di
un ente più perfetto, paragonandomi al quale riconoscere i miei difetti?

Questo testo è - a mio giudizio - uno dei passaggi cruciali del­


l’opera. In esso mi sembra essere racchiusa la cifra sistematica delle
Meditazioni, svelata dal meditante laddove si chiede: come potrei in­
tendere di dubitare se non fossi capace d’intendere già una perfezione
maggiore della mia? Si tratta in effetti di una riflessione che mostra il
proprio superamento, giacché il dubitante nell’atto di riflettere sulle
condizioni di possibilità del suo stesso dubitare, vede che tale dubitare
è già da sempre compreso all’interno dell’orizzonte di una perfezione,
la quale è da un lato trascendente, nella misura in cui con la sua infini­
tezza anticipa e conferisce significato alla finitezza del dubitare, e dal­
l’altro lato è immanente nella misura in cui emerge nel desiderio di essa

85 Dal punto di vista di Descartes, scolastici e libertini sono «Due avversari ap­
parentemente opposti, per lui accomunati alla radice nel primato erroneamente assegna­
to alla conoscenza sensibile» (Di B el l a , Le Meditazioni metafisiche, cit., 99-100).
86 Cf. I. AGOSTINI, I! infinità di Dio. Il dibattito da Suàrez a Caterus (1597-1641),
Editori Riuniti, Roma 2008.
50 Sistemi filosofici moderni

che il dubitante scopre in se stesso87. Ebbene, dubbio e infinito sono


di fatto il punto di partenza e il punto d’arrivo dell’intero itinerario
meditativo sin qui percorso.
Come R. Spaemann ha ben messo in luce88, dall’uno all’altro
estremo di questo itinerario si passa attraverso un movimento riflessivo
nel quale ogni nuovo grado emerge come orizzonte e condizione del
precedente: (a) all’inizio siamo partiti dal sapere comune, costituito da
quella «coscienza ingenua» che funge da orizzonte quotidiano della
nostra comprensione del mondo, (b) il dubbio non ha fatto altro che
oggettivare questo orizzonte, mostrando che l’evidenza ingenua delle
nostre opinioni non è che una «idiosincrasia possibile»; (c) il dubbio a
sua volta è stato sussunto dalla cogitatio, giacché «il dubbio, divenen­
do oggetto del dubbio, scompare», nella misura in cui non è in grado
di eliminare l’atto stesso con cui esso tenta di eliminarsi, ovvero negan­
dosi conferma performativamente l’orizzonte cogitativo dal quale ten­
ta invano di sottrarsi; (d) la riflessione del cogito su se stesso, quindi,
lascia emergere il sum come sua implicazione ontologica ineludibile, e
Yego appare finalmente come un «fatto», una res, res cogitans\ (e) infi­
ne, la riflessione sull’evento stesso della res cogitans, circa il suo stesso
accadere o aver luogo nell’essere, fa sì che il sum divenga oggetto a se
stesso, ovvero ponga la domanda circa il «senso» che ha dire io sono.
Ebbene, proprio tale domanda svela l’orizzonte assoluto che compren­
de il sum senza poter essere da lui adeguatamente compreso.
Siamo tornati così al testo da cui eravamo partiti, e che Spae­
mann spiega così: «ciò che rende possibile il dubbio e ciò che rende
possibile Poltrepassamento definitivo del dubbio sono la stessa cosa,
ossia l’anticipazione di una coscienza assoluta e, con essa, di un mon­
do definitivamente vero. Se non ci fosse un mondo vero, il sospetto
che il mio mondo possa essere falso non avrebbe senso»89. Il cogito
scopre l’idea di Dio come cooriginaria e concomitante a sé, non solo

87 Sulle evidenti ascendenze agostiniane di questa argomentazione, cf. S. M e n n ,


Descartes and Augustine, Cam bridge University Press, Cam bridge 2002, 245-299; C.
WlLSON, Descartes and Augustine, in J. BROUGHTON - J. CARRIERO (edd.), A Companion
to Descartes, Blackwell, M alden (MA) 2008, 33-51.
88 Riprendo qui le considerazioni di SPAEMANN, Le sum dans le cogito sum, cit.,
276-281; Id., Das “sum” im “cogito sum” , cit., 378-382.
89 «ce qui rend possible le doute et ce qui rend possible le dépassem ent défini-
tif du doute, c’est la mème chose, à savoir l’anticipation d ’une conscience absolue et,
avec cela, d ’un m onde définitivement véritable. S ’il n ’y a pas de monde véritable, le
soupgon que mon m onde pourrait ètre faux n ’a pas de sens» (SPAEMANN, Le sum dans le
cogito sum, cit., 279 [trad. m ia]; Id., Das “sum” im ucogito sum”, cit., 379]).
Le Meditazioni di Descartes 51

perché - come detto - la sua finitezza e fallibilità non possono che sta­
gliarsi sullo sfondo della verità, ma soprattutto perché il cogito prende
coscienza di non avere egli stesso posto tale orizzonte veritativo, bensì
di accadere in esso, ovvero di essere da esso giudicabile come vero o
come falso. In questa relazione d’alterità, la domanda di senso trova la
sua risposta: «Non è soltanto per me che io sono per me. Questo signi­
fica: io sono»90.
Dal punto di vista sistemico, Dio svolge nelle Meditazioni un
ruolo primario e centrale. All’inizio della Meditazione I, l’opinione di
un «Dio che può tutto» era stato il pungolo che aveva smascherato de­
finitivamente la doxa della coscienza ingenua, spingendo il meditante a
radicalizzare il dubbio; al termine della Meditazione III, l’idea di Dio
proietta la finitezza del cogito sullo sfondo assoluto della verità, met­
tendolo in relazione con la certezza di una causa extramentale, che
può ora fungere da prima pietra per la ricostruzione dcWepisteme.
Dio, dunque, sta tanto all’inizio dell’itinerario decostruttivo, quanto al­
l’inizio dell’itinerario ricostruttivo che - come vedremo - prenderà pie­
de dalla Meditazione V in avanti.

Obiezioni e risposte
Le obiezioni sollevate verso la Meditazione III sono tra le più no­
tevoli di tutta l’opera, tra esse vanno annoverate quelle di Caterus
(Ol: 91-101; RI: 101-121), di teologi vari [Mersenne] (02: 123-126;
R2: 133-145), di Hobbes (OR3: 179-189), di Arnauld (04: 206-208;
R4: 231-235) e di Gassendi (05: 277-307; R5: 361-374)91. Tra queste
una serie in particolare ha destato un approfondito dibattito, quella a
cura dell’arciprete olandese Johannes Caterus, il quale non era certo
un pensatore di grande spessore e tuttavia replica sobriamente a De­
scartes, partendo proprio da quella scolastica che il filosofo francese
intendeva superare e, così facendo, lo costringe a precisare e approfon­
dire ulteriormente il suo pensiero92. La prima obiezione riguarda la
realtà obiettiva delle idee: «Ma che cosa significa essere obiettivamente
nell’intelletto? L’ho appreso tanto tempo fa: terminare l’atto dell’intel­

90 «Ce n’est pas seulement pour moi que je suis pour moi. Cela veut dire: je
suis» (SPAEMANN, Le sum dans le cogito sum, cit., 281 [trad. mia]; I d ., Das “sum” im “co­
gito sum”, cit., 381).
91 Sul ruolo dell’idea di Dio in tale dibattito, cf. AGOSTINI, L’idea di Dio in Descar­
tes, cit., 89-130 (Caterus); 131-179 (Mersenne); 180-200 (Hobbes); 201-245 (Gassendi).
92 Cf. T. V er bee k , The First Objections, in A riew -G ren e (edd.), Descartes and
his Conte?nporaries, cit., 21-33; MORI, Cartesio, cit., 151-157.
52 Sistemi filosofici moderni

letto stesso al modo di un oggetto. Il che è sicuramente una denomina­


zione estrinseca, ed un nulla rispetto alla cosa» (Ol: 92). Per il teologo,
la realtà obiettiva non è che un mero nome (pura denominano) asse­
gnato alla cosa, pertanto non è un qualcosa in atto di cui abbia senso
ricercare la causa. La risposta di Descartes è molto istruttiva. Il suo av­
versario considera la realtà obiettiva immediatamente in senso “realisti­
co”, ovvero in relazione con una qualche cosa che si trova fuori dell’in­
telletto, realtà che il meditante non aveva ancora provato: «io parlo in­
vece dell’idea che non è mai fuori dell’intelletto e rispetto alla quale es­
sere obiettivamente non significa altro che essere nell’intelletto nel mo­
do in cui gli oggetti sono soliti essere in esso» (Ri: 102). Mentre Cate-
rus pensa spontaneamente a una struttura a tre termini, realtà formale -
realtà obiettiva - cosa, Descartes si limita per ora a una concezione a
due termini, dal momento che la cosa non è ancora stata accertata.
Caterus passa poi ad attaccare la seconda prova dell’esistenza di
Dio avanzata nella Meditazione IIP3. Descartes dice di proporre que­
sta ulteriore prova per ovviare a quell’offuscamento della mente pro­
vocato dalle cose sensibili, che ci impedisce d’intendere la «causa delle
idee»; in realtà, per prevenire quelle difficoltà che un tipico lettore
scolastico - vedi Caterus - avrebbe incontrato circa la teoria delle idee
posta a base della prima prova. Descartes allora - seguendo più da vi­
cino la dinamica a posteriori delle classiche prove tomiste - parte da
una domanda rivolta non più alla causa dell’idea di Dio, bensì alla
causa dell’i o in quanto tale: «Da chi dunque verrei? O da me, o dai
miei genitori, o da chiunque altro meno perfetto di Dio: nulla, infatti,
può essere pensato, o finto, più perfetto di lui, e neanche ugualmente
perfetto» (M3: 48). La causa dell’ago, perciò, risiederà nell’évo stesso o
in altro? Ma Yego certo non può darsi l’esistenza da sé, perché altri­
menti non avrebbe dubbi né desideri e sarebbe perfetto: «infatti, mi sa­
rei dato tutte le perfezioni di cui c’è in me un’idea e così sarei Dio in
persona». A ciò si potrebbe controbattere che Yego potrebbe essere
sempre esistito quale è ora, e che pertanto non sia necessario ricercare
una causa della sua esistenza. Descartes, rifacendosi alla tesi tradizio-

93 Questa prova era stata già formulata nel Discours (AT VI: 34 [OB I: 63]) e
verrà ripresa nei Principia I, art. 20-21 (AT V ili 12-13 [OB I: 1725-1727]); cf. SCRIBA-
NO, Guida alla lettura, cit., 72-81; G . HATFIELD, Routledge Philosopby Guidebook to De­
scartes and thè Méditations, Routledge, Abingdon 2003, 164-181; L. N o lan - A. N e l -
SON, Proofs for thè existence ofGod, in GAUKROGER, The Blackwell Guide, cit., 105-112;
sulle obiezioni di Caterus, cf. J.-R. ARMOGATHE, Caterus Objections to God, in ARIEW-
GRENE (edd.), Descartes and his Contemporaries, cit., 34-43.
Le Meditazioni di Descartes 53

naie della creazione continua, dimostra che Vego per essere causa di sé
dovrebbe avere la forza di sostenere la propria esistenza in ogni istan­
te, ma «se una tale forza fosse in me, ne sarei senz’altro cosciente»
(M3: 49). Dunque, conclude il filosofo, se la causa dell 'ego non può
essere da sé, deve essere in altro e questo altro non può che essere Dio
stesso, perché nulla meno perfetto di Dio (es. i genitori) può aver fatto
Yego tale da possedere in sé l’idea di Dio.
Di fronte a tale prova, Caterus nota immediatamente che «Que­
sta è esattamente la stessa famosa via percorsa anche da san Tommaso,
che la chiamava via dalla causalità efficiente94 e che aveva desunto dal
Filosofo [Aristotele]» (Ol: 94), e poi avanza la sua obiezione: «La pa­
rola da sé viene infatti presa in due modi. In un primo modo, positiva-
mente, ossia da se stesso come da una causa [...]. In un secondo sen­
so, la parola da sé viene presa negativamente, così da significare la stes­
sa cosa di per se stesso, ovvero non da altro\ ed è in questo modo che,
per quanto io ricordi, essa è intesa da tutti» (Ol: 95). La tradizione era
concorde nel ritenere assurdo il senso positivo delVessere da sé (in lati­
no a se), per non creare il cortocircuito di qualcosa che dovrebbe veni­
re prima di se stesso95 ed essere diverso da sé; perciò era ammesso solo
il senso negativo della aseità.
Descartes risponde che l’impossibilità che qualcosa sia causa ef­
ficiente di se stesso è palese e vale, tuttavia, solo se si restringe il signi­
ficato di causa efficiente alle cause che avvengono nel tempo o in cui
causa ed effetto sono diversi. Ma subito aggiunge che «Il lume natura­
le detta però senz’altro che non esiste cosa alcuna della quale non sia
lecito domandare perché esista» (Ri: 108), infatti ragione non coincide
con causa efficiente. Cosicché, nel caso di Dio la normale dottrina cau­
sale va ribaltata, perché in Dio «si trova una potenza così grande e così
inesauribile da non aver avuto bisogno d’alcun sostegno per esistere, e
neanche da averne bisogno ora per essere conservato, così da essere in
qualche modo causa di sé (sui causa)» (RI: 109)96. Per Descartes Dio

94 «Secunda via est ratione causae efficientis» (STh I, q. 2, a. 3, c).


95 «nec est possibile, quod aliquis sit causa efficiens sui ipsius, quia sic esset
prius seipso» {STh I, q. 2, a. 3, c).
96 Queste obiezioni di Caterus e le relative risposte di Descartes verranno ripre­
se da Arnauld, generando un ulteriore dibattito sulla causa sui (04: 208-214; R4: 235-
245). Descartes formulerà una nuova risposta, nella quale tenterà di conciliare Ximpossi­
bilità della auto-causa efficiente, da un lato, e la legittimità della domanda circa il perché
Dio esiste, dall’altro, giungendo a parlare dell’essenza di Dio come di una «quasi causa
efficiente» (R4: 243). Sulla complessa questione della causa sui in Descartes, cf. J.-L.
54 Sistemi filosofici moderni

può esser detto causa di sé in quanto conserva indefinitamente e da


sempre se stesso, e non in quanto causa efficiente di se stesso, ma sol­
tanto perché «la essenza di Dio è tale da non poter non esistere sem­
pre». Con questa argomentazione, Descartes viene a sovvertire uno dei
cardini della filosofia scolastica, aprendo la via agli ulteriori e, allora,
imprevedibili sviluppi della nozione di causa sui, che Spinoza assu­
merà come nozione prima del suo sistema filosofico97.

4. Cosa devo evitare e cosa devo fare per raggiungere la verità


La Meditazione IV inizia ribadendo la fiducia, guadagnata al ter­
mine della giornata precedente, di cominciare a «intravedere una via
attraverso la quale, a partire dalla contemplazione del vero Dio [...] si
giunga alla conoscenza di tutte le altre cose» (M4: 53). La prima cosa
che, secondo Descartes, s’incontra lungo questa via è la certezza che
non è possibile che Dio mi faccia sbagliare, ovvero che non esiste un
Dio ingannatore, giacché l’inganno o l’errore sono chiaramente imper­
fezioni che non possono appartenere all’«ente sommamente perfetto»
(M4: 54). La seconda cosa che s’incontra è lo sperimentare di possede­
re una qualche «facoltà di giudicare»; è possibile infatti affermare «io
sono» e «Dio esiste», e negare che «Dio possa essere ingannatore». E
siccome tale facoltà viene da Dio, non si dovrebbe mai cadere in erro­
re. Eppure chiunque sa di essere esposto a innumerevoli errori. Come
tenere insieme questi due aspetti?
E questa la domanda che apre la Meditazione IV, una domanda
tesa a trovare una spiegazione a come sia possibile conciliare la certez­
za in un Dio non ingannatore con l’esperienza dell’errore98. In un pri­
mo momento, Descartes tenta la via di considerare l’errore un «non
ente», partendo dalla considerazione che l’uomo è un essere sospeso
{tanquam medium) tra Dio e il nulla (inteso come «ciò che è lontano
da ogni perfezione») e la sua facoltà di giudicare non è infinita bensì
limitata. Tuttavia, questo approccio si rivela insufficiente, giacché -
come insegna la tradizione - l’errore «non è una pura negazione, ma
una privazione» (M4: 55), e la privazione è per definizione l’assenza di

MARION, Entre analogie et principe de raison: la causa sui, in B ey s SADE-Marion (edd.),


Descartes. Objecter et répondre, cit., 305-334.
97 Infra, 99-100.
98 La teodicea si chiede «se Dio è giusto, da dove il male?», analogamente De­
scartes si chiede «se Dio è verace, da dove l’errore?»; cf. S. LANDUCCI, La teodicea nel­
l’età cartesiana, Bibliopols, Napoli 1986, 17-68.
Le Meditazioni di Descartes 55

un qualcosa di dovuto. Eppure, sembra difficile che Dio abbia creato


l’uomo privo di una perfezione dovuta, quando avrebbe potuto benis­
simo crearlo senza tale privazione. Se fosse così, si arriverebbe al para­
dosso che Dio avrebbe creato l’uomo ponendo in lui volutamente l’er­
rore e questo sarebbe per l’uomo come una perfezione, al punto che il
meditante arriva a chiedersi: «Sbagliarmi è dunque forse cosa migliore
del non sbagliarmi?».
Le vie per uscire da questa impasse potrebbero essere due: pun­
tare sulla incomprensibilità della natura divina, traendone la necessità
di non poter indagare oltre sui «fini di Dio»99, e nemmeno dunque sul
perché ci abbia fatti capaci di errare; oppure puntare sullo sguardo
universale col quale è possibile considerare le cose nel loro insieme,
nel quale l’uomo non è che una parte del tutto, e pertanto ciò che rela­
tivamente a tale parte sembra errore, forse in relazione al tutto non lo
è. Ma entrambe queste soluzioni non offrono una vera spiegazione del
perché sbagliamo, semmai giustificano solo la nostra incapacità di ca­
pirlo. Descartes tenta una terza via.
Riflettendo più attentamente su se stesso, il meditante vede che i
propri giudizi dipendono dalla concomitanza di due cause: «dalla fa­
coltà di conoscere che è in me e dalla facoltà di scegliere, ossia dalla li­
bertà dell’arbitrio» (M4: 56). In ogni giudizio, da un lato spetta all’in­
telletto percepire le idee, ma dall’altro lato spetta alla volontà asserire
tale percezione. Se nella tradizione peripatetico scolastica spetta all’in­
telletto pronunciare il sì o il no del giudizio, mentre alla volontà spetta
la determinazione delle azioni per conseguire i fini pratici, anche in
questo caso Descartes introduce una novità, in quanto vede nella vo­
lontà la «facoltà di scegliere» tanto in ambito teoretico che pratico100.
Ciascuna delle due facoltà poi - è questa la chiave dell’argomentazione
di Descartes - relativamente al proprio ambito è priva di errore, owe-

99 In questo frangente troviamo, en passant, una notazione degna della massima


attenzione: «poiché so che la mia natura è molto fragile e limitata, la natura di Dio inve­
ce immensa, incomprensibile e infinita, so anche abbastanza, proprio per questo, che so­
no in suo potere innumerevoli cose di cui io ignoro le cause; e per questa sola ragione ri­
tengo che quel genere di cause che si è soliti ricavare dal fine non abbia alcuna funzione
in Fisica» (M4: 55); con ciò Descartes estromette l’indagine delle cause finali dalla fisica,
cf. D. G arber , Descartes' Metaphysical Physics, Chicago University Press, Chicago-Lon-
don 1992; SCRIBANO, Guida alla lettura, cit., 93-96.
100 Cf. A. KENNY, Descartes on thè tvill, in R.J. BUTLER (ed.), Cartesian Studies,
Blackwell, Oxford 1972, 1-31; D .M . ROSENTHAL, Will and thè theory o f judgment, in
O ksenberg R orty (ed.), Essays on Descartes' Méditations, cit., 405-434; M. DELLA ROC­
CA, Judgment and will, in GAUKROGER, The Blackwell Guide, cit., 142-159.
56 Sistemi filosofici moderni

ro mi è stata data da Dio in modo perfetto e irreprensibile. Infatti, spe­


rimentiamo che la facoltà di conoscere è limitata, in quanto non sap­
piamo tutto, ma certo non fallace; mentre sperimentiamo che la vo­
lontà «non è circoscritta da limite alcuno» e dunque è perfetta, al pun­
to di essere l’aspetto che più di ogni altro manifesta il nostro essere a
immagine e somiglianza di Dio:
La volontà, ossia la libertà dell’arbitrio, [...] consiste infatti in questo
soltanto, che possiamo fare o non fare (ossia, affermare o negare, ricercare o
fuggire) una stessa cosa, o, piuttosto, in questo soltanto, che siamo portati verso
quel che Tintelletto ci propone di affermare o di negare, ossia di ricercare, o di
fuggire, in modo tale da non sentirci determinati a ciò da alcuna forza esterna
(M4: 51).

In questa doppia definizione101, Descartes mette in relazione di


fatto il libero arbitrio, ovvero il potere di scegliere se fare o non fare
una certa cosa, e la libertà, ovvero la spontaneità di determinarsi per
ciò che l’intelletto riconosce come vero o di rigettare ciò che propone
come falso102.
Ma se l’errore, come detto, non viene né dall’intelletto, preso in
se stesso, né dalla volontà, presa in se stessa, allora dovrà inevitabil­
mente venire dal rapporto tra questi due; e questa è la ragione che
giunge a sostenere il filosofo: «in quanto la volontà è più vasta dell’in­
telletto, non la trattengo all’interno degli stessi confini, ma la estendo
anche a ciò che non intendo; e poiché rispetto a ciò essa è indifferente,
devia facilmente dal vero e dal buono, ed è così che sbaglio e pecco»
(M4: 58). Il meditante, facendo memoria del suo percorso riflessivo, si
accorge che rispetto a una verità come Yego sum, il suo presentarsi in
modo del tutto chiaro ed evidente, indubitabile, non lasciava certo al­
ternative, eppure non comportava una costrizione esterna, e quindi
una mancanza di libertà, ma la più spontanea adesione possibile, in
quanto quella verità si imponeva per la luce stessa dell’intelletto. Al
contrario, di fronte all’idea della natura corporea l’intelletto esita, non
sapendo ancora chiaramente se questa sia diversa o identica alla cosa
pensante, pertanto sospende il giudizio rimanendo nell’indifferenza.

101 Cf. l’eccellente analisi di BEYSSADE, La philosophie première, cit., 180-190.


102 La difficile combinazione di questi due aspetti si staglia sullo sfondo dell’ac­
cesa controversia teologica su grazia e libertà, scoppiata tra il XVI e il XVII secolo, tra
domenicani e gesuiti, tomisti e molinisti, che coinvolgerà anche i giansenisti e Pascal, cf.
E. GlLSON, La liberté chez Descartes et la théologie, Vrin, Paris 1913, rprt. 1982; MORI,
Cartesio, cit., 132-135.
Le Meditazioni di Descartes 51

Da ciò Descartes trae questa regola di metodo: «Quando non


percepisco in modo sufficientemente chiaro e distinto cosa sia vero, se,
certo, mi astengo dal giudicare, è chiaro che agisco correttamente e
non sbaglio» (M4: 60). Si tratta qui, in fondo, di una riproposizione
del primo precetto103 sancito nella Parte II del Discorso sul metodo. E
questo, però, qualcosa di più di un semplice parallelo tra testi, in effet­
ti la radice dell’errore viene individuata da Descartes nell’i o scorretto
che noi facciamo della volontà/libero arbitrio, ovvero nell’attitudine a
estendere il nostro assenso, ovvero formulare giudizi anche circa quel­
le percezioni che l’intelletto non ci propone in modo chiaro e distinto:
«Ed a quest’uso non corretto (non recto usu) del libero arbitrio ineri­
sce quella privazione che costituisce la forma dell’errore». Questa fe­
calizzazione sull’uso, ovvero sull’esercizio dell’assenso volontario o
giudizio, stava alla base tanto di quelle «Regole per dirigere l’ingegno»,
che di quel «Discorso sul metodo per ben condurre la propria ragio­
ne». La curvatura eminentemente metodologica, che assume la medita­
zione sulle cause dell’errore, è particolarmente evidente in uno degli
ultimi passaggi della Meditazione IV, laddove il meditante, a proposito
della tendenza a cadere in errore anche quando si conosce bene la sua
natura e causa, dà a se stesso il seguente “saggio” proposito:
sebbene infatti io sperimenti in me quella fragilità per cui non sono in
grado di restare sempre fisso in una stessa ed identica conoscenza, posso tutta­
via far in modo, con una meditazione attenta e più volte ripetuta, di ricordar­
mene tutte le volte che ce ne sarà bisogno e acquisire, così, un abito (habitum)
a non errare (M4: 62).

Qui Descartes assume uno dei termini tecnici più tipici della fi­
losofia aristotelica, ovvero Vabito (in greco hexis, in latino habitus), on­
tologicamente il possesso di un determinato modo di essere (es. nel
mutamento si passa dalla privazione al possesso della forma), pratica-
mente la disposizione ad agire in modo costante (es. il carattere si co­
stituisce grazie alla disposizione stabile a provare passioni uguali per
oggetti simili). Il fatto che qui il filosofo parli di una meditazione «più
volte ripetuta (saepius iterata)», lascia pensare a un vero e proprio eser­
cizio ascetico di formazione dell’abito filosofico, da intendere in que­

103 «Il primo era di non accogliere mai come vera nessuna cosa che non avessi co­
nosciuto con evidenza essere tale: vale a dire, evitare con cura la precipitazione e la pre­
venzione e non comprendere nei miei giudizi nulla più di ciò che si presentasse così chia­
ramente e distintamente alla mia mente da non aver motivo alcuno per metterlo in dub­
bio» (AT VI: 18 [OB I: 45]); cf. anche la Regola II (AT X: 362-363 [OB II: 687-689]).
58 Sistemi filosofici moderni

sto caso come una sorta di “virtù dianoetica”, ossia di disposizione


grazie alla quale «nel giudicare trattengo (contineo) la volontà in modo
tale che si estenda soltanto a ciò che l’intelletto fa ad essa vedere in
modo chiaro e distinto» (M4: 62)104, una disposizione alla continenza e
perciò negativa o quantomeno inibitiva della dissimmetria tra volontà
e intelletto105.
Si tratta con ciò di “formare” la facoltà di giudizio, cioè in fondo
la libertà, a non lasciarsi trascinare da quella prevaricazione (hubris) di
cui la volontà è sempre capace nei confronti dell’intelletto, a causa del
fatto che ne oltrepassa costitutivamente i confini. Con questa ulteriore
riflessione - che partendo dalla veracità di Dio vuole cogliere il modo
stesso di mantenersi nell’orizzonte veritativo di fronte alla connaturata
tendenza a fuoriuscirne e, così, ci offre una prospettiva metariflessiva
sull’intero progetto delle Meditazioni - Descartes non solo riprende
l’antica istanza della filosofia come esercizio spirituale106, ma anche ri­
lancia la questione del rapporto tra ragione e intelletto, che verrà ri­
presa dai filosofi posteriori.

Obiezioni e risposte
Tra le obiezioni alla Meditazione IV troviamo anzitutto il quinto
punto indicato dai teologi vari [Mersenne] (02: 126; R2: 147-149), poi
Hobbes (OR3: 190-192), Arnauld (04: 215-217; R4: 247-248), Gas­
sendi (05: 307-318; R5: 374-379) e infine il sesto scrupolo sollevato
dal circolo dei savants [Mersenne] (06: 416-417; R6: 431-433).
Sia i teologi che Arnauld invitano Descartes a sciogliere le diffi­
coltà che il suo criterio di verità potrebbe recare nei confronti dell’as­
senso di fede: «dal momento che quasi nulla conosciamo con quella
chiarezza e distinzione che voi richiedete ad una certezza non esposta
a dubbio alcuno» (02: 126) non solo la volontà non dovrebbe dare il
suo assenso agli oggetti di conoscenza in generale, ma, a maggior ra­
gione, non dovrebbe farlo nei confronti della religione. Arnauld, citan­
do s. Agostino, propone a Descartes di distinguere tra Xintendere, ba­

104 S. Di Bella ha, giustamente, definito questa teoria della libertà una «autointer­
pretazione delle Meditazioni», cf. Di BELLA, Le Meditazioni metafisiche, cit., 127-138.
105 Termini come continenza e incontinenza appartengono da sempre al lessico
dell’etica (cf. es. Eth. Nicom., VII), inoltre, quello della continenza contro la tendenza al-
Voltrepassajnento sarà uno dei temi basilari della filosofia di Hume, infra, 234.
106 Cf. P. H adot , Exercices spirituels et philosophie antique, Etudes augustinien-
nes, Paris 1981; Albin Michel, Paris 20022 (trad. it., Esercizi spirituali e filosofia antica,
Einaudi, Torino 1988, 20052).
Le Meditazioni di Descartes 59

sato sulla ragione, il credere, legittimato dall’autorità, e Yopinare, possi­


bile causa d’errore; di conseguenza il criterio stabilito nella Meditazio­
ne IV per distinguere il vero dal falso toccherebbe solo intendere e
opinare, lasciando salvo il credere.
La risposta ad Arnauld rimanda a quella fornita «espressamente,
nella Risposta alle seconde obiezioni» (R4: 248), ove il filosofo aveva
replicato anzitutto che «Sebbene, infatti, si dica che la fede riguardi ciò
che è oscuro, tuttavia ciò per cui abbracciamo la fede non è oscuro ma
possiede un chiarore che è più grande di ogni luce naturale» (R2: 147).
In tal modo Descartes distingue la materia dell’assenso, cioè il suo con­
tenuto obiettivo, dalla ragione formale «che muove la volontà a dare
l’assenso»; e se l’oggetto della fede rimane oscuro, la ragione per dare
l’assenso è chiarissima in quanto «consiste in un lume interno median­
te il quale, rischiarati soprannaturalmente da Dio, confidiamo che quel
che ci viene proposto di credere ci è rivelato da lui» (R2: 148); questo
lume è la grazia divina, più chiara ed evidente del lume stesso dell’in­
telletto. Con questa risposta Descartes cercava di mettersi al riparo da
possibili condanne ecclesiastiche. Ciò che tuttavia rimane escluso dalla
sua argomentazione è quella dimensione di ragionevolezza delle prove
storiche della religione, che non a caso assumeranno un ruolo decisivo
nell’apologià della religione cristiana di Pascal.
L’unico, però, a dedicare alla Meditazione IV un ampio e detta­
gliato esame è Gassendi. Tra i numerosi punti obiettati uno in partico-
lar modo merita di essere menzionato, in quanto va a colpire la chiave
di volta della Meditazione IV, ossia la tesi cartesiana che la volontà è
più estesa dell’intelletto107. Gassendi non ha tutti i torti a chiedere ul­
teriori spiegazioni, dal momento che l’argomento era stato proposto
da Descartes in modo assai rapido e perentorio, quasi fosse troppo ov­
vio per meritare una spiegazione (o troppo arduo per rischiarne una).
Difficile non vedere come la questione dell’oltrepassamento dei limiti
dell’intelletto da parte della volontà vada a toccare l’articolazione stes­
sa della ragione umana, dal momento che intelletto e volontà sembra­
no essere due facce della stessa medaglia: il pensiero (cogitatio) nel suo
lato passivo, la rappresentazione delle idee, e nel suo lato attivo, l’as­
senso giudicante108. Gassendi chiede anzitutto: «perché la volontà o la

107 Cf. R. IMLAY, Volontà, indifférence et mauvaise foi: Gassendi contre Descartes,
in BEYSSADE-MARION (edd.), Descartes. Objecter et répondre, cit., 337-350.
108 A Mesland, 2 m aggio 1644: «m i pare che il ricevere questa o quella idea sia
anche nell’anima una passione e che solo le sue volizioni siano azioni» (AT IV: 113 [LB:
1911]); cf. BEYSSADE, La philosophiepremière, cit., 177-179.
60 Sistemi filosofici moderni

libertà dell’arbitrio non è per voi circoscritta da limite alcuno, mentre


l’intelletto ne è circoscritto?» (05: 314). Se la volontà è in grado di
avere un oggetto è perché l’intelletto glielo fornisce, quindi queste due
facoltà devono avere almeno la stessa estensione, e semmai la volontà è
inferiore all’intelletto, e non viceversa. E più sotto incalza ancora il suo
avversario: «Ma, diteci, in poche parole: a cosa, che sfugga all’intellet­
to, si può estendere la volontà?» (05: 315), in fondo sarebbe più sem­
plice sostenere che avendo le due facoltà uguale estensione, quando
l’intelletto percepisce confusamente, la volontà giudica erroneamente.
Descartes si ferma a rispondere precisamente a quest’ultima do­
manda e lo fa con una rapidità che ha tanto il sapore della tautologia:
«E ovvio: a tutto ciò in cui ci accade di errare» (R5: 376); cioè la vo­
lontà si estende oltre l’intelletto quando assente o dissente, cioè giudi­
ca vero o falso un contenuto non fornitole da esso, ovvero si estende a
qualcosa che non viene dall’intelletto. Per rafforzare la sua risposta
porta due esempi, il secondo dei quali riguarda una mela avvelenata:
se uno giudica desiderabile da mangiare una mela che forse è avvele­
nata, formula tale giudizio intendendo che il colore e il profumo della
mela sono desiderabili, ma certo non perché intende utile da mangiare
una mela che potrebbe essere avvelenata109; e conclude: «ma così giu­
dicate perché così volete» (R5: 377). L’esempio è già sufficientemente
astruso, ma la notazione che Descartes aggiunge subito dopo ha qual­
cosa di sorprendente: «E quindi riconosco certamente che non voglia­
mo nulla di cui non intendiamo in qualche modo qualcosa, ma nego
che intendiamo e vogliamo allo stesso modo {aeque)».
La prima parte di questa frase sembra essere una negazione bella
e buona della tesi di fondo, ovvero che la volontà oltrepassa costituti­
vamente i limiti dell’intelletto, ma la precisazione successiva chiarisce
la risposta: «di un medesimo oggetto, infatti, possiamo volere molte
cose e conoscerne soltanto ben poche». Il che tradotto nel nostro
esempio significa che quando ci troviamo una mela tra le mani, noi
percepiamo alcune cose dal suo aspetto sensibile (colore, odore, consi­
stenza ecc.) e in base a esso intendiamo come desiderabili i suoi singoli
aspetti. Ma che la mela in quanto tale, non il suo odore o colore, sia
buona, questo io non lo intendo, perché relativamente alla mia perce­
zione immediata questa non mi consente un giudizio certo circa la
bontà della mela, e non dei suoi singoli aspetti110. Ecco perché Descar­

109 Lo stesso esempio già in M6: 83-84.


110 Per un’analisi dettagliata di questo esempio, cf. D. KAMBOUCHNER, Ce qui se
Le Meditazioni di Descartes 61

tes conclude che se io la intendo e giudico buona è perché voglio che


sia tale, ossia è in base alla volontà che una percezione limitata viene
estesa fino a costituire la base certa di un giudizio che riguarda la cosa
stessa. Importante notare come in tale dibattito sia in gioco lo statuto
stesso della scienza, il rapporto tra quelle che Locke chiamerà qualità
primarie e qualità secondarie111, tra conoscenza degli accidenti e della
sostanza112. Vi torneremo nella Meditazione VI.

5. Tutto ciò che è vero è qualcosa


All’inizio della Meditazione V troviamo una preziosa indicazione
sulla nuova direzione che il flusso meditativo verrà ad assumere da qui
in avanti: «ora (dopo essermi accorto di ciò che si deve evitare e di ciò
che si deve fare per raggiungere la verità) nulla mi sembra più urgente
di questo: sforzarmi di emergere dai dubbi in cui sono caduto nei gior­
ni passati e vedere se si possa raggiungere qualcosa di certo sulle cose
materiali» (M5: 63). Così dicendo, Descartes ci offre uno sguardo
d’insieme sul percorso delle Meditazioni, giacché individua un mo­
mento a partire dal quale, dopo essere caduti, è possibile invece co­
minciare a emergere.
A livello della struttura sistematica del processo meditativo, ciò
significa che dopo aver conquistato, grazie all’apertura euristica del co­
gito, il punto d’appoggio dell’esistenza e veracità di Dio, e dopo aver­
ne dedotto il criterio generale per giudicare il vero, nelle Meditazioni
seguenti il meditante riemergerà lungo la china del dubbio in cui si era
immerso nelle precedenti113. Ciò non comporta affatto che il meditan­

dolo// et ce qui se comprenda in BEYSSADE-MARION (edd.), Descartes. Objecter et répon­


dre, cit., 352-358.
111 Infra, 173-176.
112 Notiamo solo in margine che nelle obiezioni di Arnauld, immediatamente
dopo quella relativa alla verità di fede, il teologo sollevava il problema dell’incompatibi­
lità tra la filosofia cartesiana e il dogma della transustanziazione eucaristica (04: 217-
218); la lunga risposta di Descartes (R4: 248-256) nella edizione del 1641 era stata taglia­
ta (252, 1. 22-256, 1. 8) per timore di non ottenere l’approvazione ecclesiastica - cf. A
Mersenne, 22 luglio 1641 (AT III: 416 [LB: 1507]) - ed era stata reintegrata solo nella
edizione del 1642. Tuttavia, proprio questo sarà uno dei punti cardine della messa all’in­
dice idonee corrigantur) delle opere di Descartes nel 1663; cf. A. DAMIOTTI, Renè De­
scartes. La prima condanna. Tradizione e novità a confronto nelle idee del XVII secolo,
Atheneum, Firenze 2008.
113 Come ha cercato di mostrare A. Oksenberg Rorty, tale discesa negativa e cor­
rispondente ascesa ricostruttiva seguono un processo ascetico ben noto nel neoplatoni­
smo: «Stage 1: Catharsis, detachment or analysis [...]. Stage 2: Skepsis, despair o nihilism.
62 Sistemi filosofici moderni

te ritornerà sui propri passi per rivestirsi di quelle vecchie ingenue


opinioni da cui così faticosamente si è in parte spogliato, bensì che
tenterà di ristabilire ciò che era oggetto di quelle opinioni sulle basi
certe che ha finalmente guadagnato114. Questo cambio di direzione
nell’itinerario meditativo è documentato, a livello testuale, dal fatto
che la Meditazione V riprende, in ordine inverso, i temi basilari della
Meditazione III115; mentre, più avanti, la Meditazione VI arriverà a toc­
care la giustificazione filosofica dell’esistenza di quelle cose materiali
che fungono da base ovvia di quella certezza ingenua con la quale ave­
va esordito la Meditazione I.
Nel suo tentativo di vedere se si può possedere qualcosa di certo
sulle cose materiali, Descartes scandisce due tappe successive: «prima di
cercare se qualcuna di tali cose esista fuori di me [obiettivo della Medi­
tazione VT\ , devo considerare le loro idee, in quanto sono nel mio pen­
siero [obiettivo della Meditazione V], e vedere quali sono distinte, quali
confuse» (M5: 63). Il primo passo che il meditante compie, nella consi­
derazione ideale delle cose materiali, consiste perciò in un’analisi delia
propria immaginazione di tali cose e - come già sappiamo116 - la mente
immagina distintamente la loro estensione spaziale e temporale117. E,

Stage 3: reflection {peripetia), a reflection that performs a revolutionary change. Stage 4:


Recognition (anagnorisis) of thè reflective, corrective power of thè will; thè discovery of
thè law of noncontradiction as a methodological principle validating reduction argu-
ments. Stage 5: Ascension from thè psychological to thè ontological order; proofs for
thè existence of God. Stage 6: Reconstruction of thè world and thè self. The sequence of
Descartes’ Méditations clearly conforms to this traditional structure» (The structure of
Descartes’ Méditations, in OKSENBERG R orty [ed.], Essays on Descartes’ Méditations,
cit., 10-11); si tratta in effetti di una corrispondenza macrostrutturale, dal momento che i
confini tra un tema e l’altro travalicano quelli giornalieri delle singole Meditazioni (ivi,
20, n. 6).
114 «Solo cogliendo il rapporto di continuità/discontinuità tra opinio e idea vera,
è possibile affrontare le difficoltà del passaggio dal momento negativo a quello ricostrut­
tivo dell’ordine analitico, di cui Dio è la chiave di volta» (Di BELLA, Le Meditazioni me­
tafisiche, cit., 110).
115 G. Rodis-Lewis ha analizzato puntualmente questa corrispondenza di ordine
inverso, tracciandone un illuminante schema in On thè complementarity of Méditations
III and V: from thè “generai rule” o f evidence to “certain Science”, in OKSENBERG RORTY
(ed.), Essays on Descartes’ Méditations, cit., 283.
116 «io sono una cosa pensante e non estesa, la pietra invece una cosa estesa e
non pensante» (M3: 44).
117 Descartes parla qui anzitutto dell’estensione spaziale (extensio in longum, la-
tum et profundum) assegnando a essa «svariate grandezze, figure, posizioni e movimenti
locali», e a questi movimenti poi attribuisce «svariate durate», concependo in fondo l’e­
stensione temporale delle cose come legata al loro movimento, secondo la definizione
Le Meditazioni di Descartes 63

soprattutto, in tale estensione la mente è capace di «enumerare» varie


parti, distinguendo così figure, posizioni ecc. Sono questi gli oggetti di
quella conoscenza che Descartes chiama «Mathesis pura e astratta»
(M5: 65)118.
Insieme a questa considerazione «in generale» della natura cor­
porea, il meditante percepisce però anche «innumerevoli particolari»,
che riguardano figure, numero, movimento ecc. Sono questi gli oggetti
dell’aritmetica, della geometria e di altre scienze simili. Riflettendo su
questi oggetti, il meditante evidenzia anzitutto due aspetti: (a) molti
particolari non sono immediatamente evidenti all’intuizione della
mathesis, ma vengono scoperti progressivamente e, nel momento in
cui vengono scoperti, «mi sembra, più che d’apprendere qualcosa di
nuovo, di ricordarmi di quel che da tempo era in me» (M5: 64); (b)
questi oggetti hanno «loro nature vere e immutabili», cioè non sono li­
beramente manipolabili dalla mente. Detto in altri termini: (a) vede
che tali oggetti non gli provengono dall’esterno, ovvero non sono idee
avventizie; (b) vede che tali oggetti non li può modificare a proprio
piacimento, ovvero non sono idee fittizie. Immaginiamo ad esempio
un triangolo, anche supponendo che tale figura esista solo nel nostro
pensiero, nondimeno esso ha una sua natura o forma «immutabile ed
eterna», e in quanto tale non fittizia, e ciò è dimostrato dal fatto che
noi siamo in grado di dedurne una serie di proprietà (es. che la somma
dei suoi angoli interni è sempre pari a due angoli retti) che nell’atto di
immaginare tale triangolo non avevamo minimamente pensato. Inol­
tre, dire che l’idea di triangolo proviene da qualche cosa esterna che
possiede tale forma, non incide sul suo valore veritativo, perché noi
possiamo benissimo immaginare figure geometriche che non abbiamo

aristotelica del tempo come numero del moto secondo il prima e il poi. Tuttavia, come
J.-L. Marion ha dimostrato, contro l’interpretazione di Heidegger (cf. MARION, Sur le
prisme métaphysique, cit., 180-202), il tempo in Descartes non è basato anzitutto sulle
cose, con l’effetto di una reificazione del soggetto, bensì sulla cogitatio: «la durée succes­
sive d’une chose quelconque (cujuscunque) ne me devient connue (tnihi innotescit) qu’à
partir d’une durée plus originelle, que définit la succession de mes cogitationes» {ivi,
196; cf. Ad Arnauld, 29 luglio 1648, AT V: 223 [LB: 2581]); cf. N. GRIMALDI, Le temps
chez Descartes, in «Revue Internationale de Philosophie» 50 (1996), 163-191.
118 Cf. M i: 20; M5: 71; Colloquio con Burman (AT V: 160 [OB II: 1273]); si di­
scute molto sull’uso del termine mathesis da parte di Descartes, e ancor più sull’espres­
sione mathesis universalis, cf. G. CRAPULLI, Mathesis universalis. Genesi di un’idea nel
XVI secolo, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1969; D. RABOUIN, Mathesis universalis. Lidée
de «mathématique universelle» d’Aristote à Descartes, Presses Universitaires de France,
Paris 2009.
64 Sistemi filosofici moderni

mai visto fuori di noi, e nondimeno dimostrare di esse una serie di


proprietà che gli appartengono con assoluta certezza.
A questo punto ci aspetteremmo che Descartes, avendo escluso
che le idee della mathesis siano avventizie o fittizie, voglia concludere
che sono innate119, eppure - con nostra sorpresa - la conclusione è
piuttosto un’altra, ovvero che tutte queste idee e le loro proprietà:
sono di sicuro tutte vere, dal momento che sono da me conosciute chia­
ramente e, perciò, sono qualcosa, non un mero nulla: risulta infatti che tutto
ciò che è vero è qualcosa (patet enim illud omne quod verum est esset aliquid)\
e ho già ampiamente dimostrato che tutto ciò che conosco chiaramente è vero
(M5: 65).

Forse ciò significa che le idee degli oggetti geometrico matemati­


ci insieme alle loro proprietà esistono così come esiste questo libro qui
davanti a me sulla scrivania o la penna che stringo tra le dita? No, non
è questo ciò che Descartes vuole qui sostenere. Non dimentichiamo
che la Meditazione V si occupa delle essenze mentre solo con la VI si
giungerà alla questione dell’esistenza. Quello che preme a Descartes è
affermare con la massima certezza Yessere di tali essenze, ovvero che
esse sono quello che sono indipendentemente sia dalla percezione sen­
sibile che dalla libera attività dell’immaginazione. Ovverosia, le idee
che sono oggetto della matematica e della geometria sono valide in se
stesse, e non dipendono minimamente né dalla percezione dei sensi né
dalla costruzione della mente, cioè non sono prodotte né dal mondo
né dal mio cervello. Sono, nel senso che sono vere, indipendentemente
dall’esperienza e persino dai processi mentali120.
Sulla base di quanto ha appena dimostrato, il meditante, com­
piendo una svolta assai repentina, chiede: «si può forse ricavare da
qui un argomento con cui provare l’esistenza di Dio?» (M5: 65). In

119 Alcuni interpreti (es. SCRIBANO, Guida alla lettura, cit., 98-103) insistono sul
ruolo delle idee innate nella Meditazione V, tuttavia Descartes sembra sforzarsi di evita­
re il termine, «quae dudum quidem in me erant» (M5: 64), «ideas veras mihi ingenitas»
(M5: 68), forse per non cadere nel rischio di attribuire tali idee alla costituzione del sog­
getto, invece che a qualcosa che lo trascende; cf. A. NELSON, Cartesian innateness, in
BROUGHTON-CARRIERO (edd.), A Companion to Descartes, cit., 319-333.
120 «N e consegue un ampliamento dei significati di “verità” e di “essere”, poiché
il giudizio vero comporta sempre il riconoscimento dell’essere: in questo caso, dell’esse­
re dell’essenza, ovvero di una struttura intellegibile indipendente dalle procedure costi­
tutive della mente. [...] nelle Meditazioni l’essere si afferma, a tutti i livelli, attraverso
l’esperienza di una datità cogente, di una resistenza invincibile al pensiero» (Di BELLA,
Le Meditazioni metafisiche, cit., 142-143).
Le Meditazioni di Descartes 65

verità, questo argomento ha un notevole ruolo strategico, non solo in


funzione della relazione tra Dio e gli oggetti della mathesis, ma ancor
più per la relazione tra l’essenza e l’esistenza, oggetto della meditazio­
ne seguente. Questo ulteriore, terzo, argomento sull’esistenza di Dio,
a differenza dei due precedenti non partirà da un effetto dato per risa­
lire alla necessaria esistenza della sua causa, bensì partendo diretta-
mente dalla considerazione della natura di Dio ne mostrerà la neces­
sità della sua esistenza121. Come nella Meditazione III, Descartes dap­
prima formula l’argomento e poi aggiunge una serie di spiegazioni e
chiarimenti ulteriori, volti a prevenire le obiezioni maggiormente pre­
vedibili. Anzitutto la struttura dell’argomento è, in sintesi, la seguente:
secondo quanto dimostrato all’inizio della Meditazione V, «dal solo
fatto che posso trar fuori dal mio pensiero l’idea di una cosa segue che
tutto ciò che percepisco chiaramente e distintamente appartenere ad
essa le appartiene in realtà (revera)»; e senza dubbio trovo in me le
idee delle figure e dei numeri, ma non di meno trovo in me l’idea di
Dio «ossia l’idea dell’ente sommamente perfetto»; e così come com­
prendo che ad una certa figura geometrica appartiene di per sé una
determinata proprietà, non di meno comprendo chiaramente e distin­
tamente che alla natura di Dio «appartiene di esistere sempre»; quindi
«l’esistenza di Dio dovrebbe avere in me almeno {ad minimum) lo
stesso grado di certezza che hanno sinora avuto le verità matemati­
che» (M5: 65-66).
A tale argomento si potrebbe obiettare (a) che se in ogni cosa
distinguiamo l’essenza dall’esistenza, perché non farlo anche con
Dio? Risponde Descartes: come non è possibile pensare un monte
senza valle, altrettanto non è possibile pensare Dio, l’ente somma­
mente perfetto, privo dell’esistenza, ovvero imperfetto. Ma si potreb­
be ulteriormente obiettare (b) che, anche se valle e monte non sono
logicamente separabili, ciò non comporta affatto che debba esistere
una qualche valle e il relativo monte; e che con la stessa libertà con la

121 Così, ad esempio, Descartes si riferisce al proprio argomento: «lì dove ho as­
serito che l’esistenza appartiene alla natura dell’ente sommamente perfetto» (RI: 114).
Su questo tipo di prova, dopo Kant nota come «prova ontologica», e sulla sua storia da
Anseimo in poi, cf. D. HENR1CH, Der ontologische Gottesbeweis. Sein Problem und seine
Geschichte in der Neuzeit, Mohr, Tubingen 1960 (trad. it., La prova ontologica dell’esi­
stenza di Dio. La sua problematica e la sua storia nell’età moderna, Prismi, Napoli 1983);
E. SCRIBANO, L'esistenza di Dio. Storia della prova ontologica da Descartes a Kant, Later­
za, Roma-Bari 1994; K.J. HARRELSON, The Ontological Argument from Descartes to He­
gel, Humanity, Amherst (NY) 2009.
66 Sistemi filosofici moderni

quale posso unire il soggetto cavallo al predicato alato, anche se nes­


sun cavallo alato esiste, ugualmente potrei pensare Dio esistente, an­
che se nessun Dio esistesse. Risponde Descartes: certo, dal fatto che
nel pensiero non sia possibile separare valle e monte non segue mini­
mamente che essi esistano in qualche luogo, e tuttavia il fatto di non
poter pensare Dio separato dalla sua esistenza non è imposto dal mio
pensiero, «ma, al contrario, perché è la necessità della cosa stessa, os­
sia dell’esistenza di Dio, a determinarmi a pensare ciò {sed contra quia
ipsius rei’ nempe existentiae Dei, necessitas me determinat ad hoc cogi-
tandum)» (M5: 67), e come è la natura stessa del triangolo a imporre
che abbia tre lati, così è la natura stessa di Dio a imporre la propria
esistenza, in un modo del tutto indipendente dal mio pensiero. Si
tratta dunque di una necessità che il pensiero può solo riconoscere
ma non imporre. Pertanto, mentre sono libero di pensare un cavallo
con le ali, in quanto l’idea di cavallo non è di per sé incompatibile
con l’idea di alato, non sono invece libero di pensare Dio senza la sua
esistenza, giacché l’idea vera di Dio è di per sé incompatibile con l’i­
nesistenza. Si potrebbe poi ancora obiettare (c) che è solo per il fatto
di avere supposto che Dio sia l’ente sommamente perfetto che è poi
necessario affermare che sia esistente. Risponde Descartes: certo io
posso non pensare mai ad alcun triangolo, tuttavia nell’istante in cui
dovessi pensarlo non potrei pensarlo se non come una figura rettili­
nea di tre lati e, anche se non mi accorgessi immediatamente che la
somma dei suoi angoli interni è pari a due retti, ciò non toglie mini­
mamente che tale proprietà appartenga al triangolo con la massima
certezza. Come minimo, lo stesso deve valere per Dio: posso anche
non pensarlo, ma se lo penso non posso pensarlo che sommamente
perfetto e, in quanto tale, necessariamente esistente.
Ma il vero problema - conclude il filosofo - non è né Dio né la
validità degli argomenti sull’esistenza di Dio, quanto piuttosto il fatto
che «se io non fossi avvolto nei pregiudizi e le immagini delle cose
sensibili non assediassero il mio pensiero da ogni parte, non c’è nulla
che conoscerei prima o più facilmente di lui» (M5: 69). Come dire: è
inutile, caro lettore, che io insista nello spiegare e rispiegare questi
argomenti, giacché se tu non hai percorso seriamente e con attenzio­
ne l’itinerario meditativo, continuerai a tirare fuori sempre nuove
obiezioni, frutto non della tua intelligenza, bensì della tua incapacità
di emendarti dalla considerazione sensibile delle cose. Questa osser­
vazione è tutt’altro che marginale, perché lungi dall’essere un sugge­
rimento di carattere “psicologico”, rivela invece il vero senso della
Le Meditazioni di Descartes 67

prova cartesiana, e cioè che essa non è propriamente una prova122.


In verità, quello che Descartes opera è piuttosto una rimozione
degli ostacoli affinché Fautoevidenza dell’esistenza di Dio si imponga al
pensiero in tutta la sua semplicità e originarietà. La necessità dell’esi­
stenza appartiene di per sé all’idea di Dio, che noi ce ne rendiamo conto
o meno, ed è solo il nostro reiterato assenso alla certezza sensibile (cioè
il fatto che per noi esistente è solo ciò che tocchiamo con i nostri sensi)
che offusca l’evidenza di tale appartenenza. Come Descartes chiarirà
nelle Risposte II: «che si soffermino molto a lungo a contemplare la na­
tura dell’ente sommamente perfetto; [...] in base a questo soltanto, e
senza ragionamento alcuno (absque ullo discursu), conosceranno che
Dio esiste; e ciò diverrà loro non meno per sé noto di quanto lo sia che il
numero due è pari» (R2: 163-164). Dunque, solo mediante una lunga e
attenta meditazione sarà possibile che ciò che è massimamente vero in
sé divenga anche evidente per noi. Difficile non notare la paradossalità
di questa richiesta di un lungo e complesso esercizio per raggiungere
l’oggetto che «per primo e più facilmente (prius aut facilius)» ci è dato di
conoscere. Una esistenza di Dio autoevidente ma non immediata.
Il meditante stesso rivela di essere ben conscio di tale paradossa­
lità allorché, nelle pagine conclusive della Meditazione V, a proposito
della «palese» evidenza dell’esistenza di Dio, sostiene che:
sebbene per percepire questo io abbia avuto bisogno di un’attenta con­
siderazione, ora, tuttavia, non solo ne sono altrettanto certo di quant’altro mi
appaia certissimo, ma, inoltre, mi accorgo che da qui dipende la certezza di
tutte le altre cose, al punto che senza di ciò nulla mai può essere perfettamente
conosciuto (M5: 69).

Come abbiamo già avuto modo di rilevare a proposito dell’ago


sum nella Meditazione II, dell’esistenza di Dio nella Meditazione III e
del criterio del vero nella Meditazione IV, ogni nuova scoperta riflette
l’orizzonte nel quale le nozioni elaborate nel processo euristico sono
già da sempre incluse. In questo caso, la Meditazione V ha dapprima
stabilito la consistenza ontologica degli enti veri che sono oggetto della
mathesis, poi ha tratto spunto da ciò per mostrare la quantomeno pari
evidenza dell’esistenza necessaria di Dio, per infine sancire che la per­
cezione di tale evidenza è il fondamento epistemico che opera da

122 Questo aspetto, immediatamente evidenziato da NOLAN-NELSON, Proofs for


thè existence o f God, cit., 112-121, è invece del tutto trascurato da T. ROSEFELDT, De­
scartes' ontologischer Gottesheweis, in KEMMERLING (ed.), René Descartes. Meditationen,
cit., 101-122.
68 Sistemi filosofici moderni

garante di ogni altra certezza, anche di quella degli oggetti della mathe-
sis. Secondo Descartes, la limitatezza della mente è tale per cui l’uomo
può scivolare nel dubbio anche rispetto a ciò che un tempo aveva ap­
preso chiaramente, e persino una proprietà certa, come l’uguaglianza
della somma degli angoli interni di un triangolo a due retti, se l’occhio
della mente smettesse di prestarvi attenzione e venisse sviato da altre
ragioni, potrebbe non essere più percepita chiaramente.
Invece, dopo aver percepito l’esistenza necessaria di Dio e che
tutte le altre cose dipendono da Dio, e che Dio è verace, allora il fatto
che «tutto ciò che percepisco chiaramente e distintamente è necessa­
riamente vero, anche se non prestassi più attenzione alle ragioni per
cui l’ho giudicato vero, non può essere addotta alcuna ragione contra­
ria che mi spinga a dubitarne» (M5: 70). Ciò accade perché l’esistenza
necessaria di Dio non è solo una verità particolare, alla stregua di
2 + 2 = 4, ma è anche allo stesso tempo la condizione di possibilità
dell’orizzonte veritativo stesso. Grazie a Dio so che la verità è possibi­
le, che le mie facoltà conoscitive non sono in sé fallaci e che, anche se
mi sbaglio, ho comunque la possibilità di riparare al mio errore, senza
essere consegnato a un relativismo insensato.

Obiezioni e risposte
Le obiezioni alla Meditazione V hanno dato vita a un dibattito
sostanziale, ancora oggi non sopito: Caterus (Ol: 96-100; RI: 114-
120); il sesto punto sollevato dai teologi vari [Mersenne] (02: 127;
R2: 149-152); Hobbes (OR3: 193-194); l’ultimo, decisivo, scrupolo di
Arnauld (04: 214; R4: 245-247); Gassendi (05: 318-328; R5: 379-
384); l’ottavo scrupolo del circolo dei savants [Mersenne] (06: 417-
418; R6: 435-436). Da questo scambio emergono almeno due questio­
ni talmente ampie e complesse, da non permettere qui che un rapido
disegno dei loro tratti principali: (a) la validità della prova dell’esisten­
za di Dio dalla sua natura, la cosiddetta prova ontologica; (b) il proble­
ma del circolo per cui Dio sarebbe garante del criterio dell’evidenza
presupposto nella dimostrazione della sua esistenza.
Le Obiezioni I di Caterus rinfocolano una querelle vecchia di
secoli, ossia la critica di Tommaso d’Aquino alla prova anselmiana, as­
sumendo gli argomenti avanzati dal Dottore angelico per rilanciarli
contro Descartes123. Caterus dapprima mette in parallelo il testo di

125 Cf. J.-L . MARION, Largument relève-t’il de lontologie? La preuve anselmienne


et les deux démostrations de l’existence de Dieux dans les M éditations, in MARION, Que-
Le Meditazioni di Descartes 69

Tommaso124 e quello della Meditazione V per mostrare che l’argo­


mento cartesiano viene a coincidere con quello esaminato dall’Aqui-
nate e poi ne rilancia la critica così: «anche se concediamo che l’ente
sommamente perfetto implica l’esistenza in forza del suo stesso nome
(ipso nomine suo), da ciò tuttavia non segue che quella stessa esisten­
za sia in natura qualcosa in atto (in rerum natura actu quid esse), ma
solo che sia inseparabilmente congiunta col concetto dell’esistenza
dell’ente sommo» (Ol: 99). Si tratta perciò di una mera congiunzione
di carattere logico, la quale di per sé - come lo stesso Descartes ha
ammesso - è del tutto incapace di generare una congiunzione neWes­
sere, a meno che l’esistenza in atto non sia già supposta nella defini­
zione stessa dell’ente sommo, ma ciò significherebbe supporlo già esi­
stente per poi poter dimostrare che è esistente. Il che, chiaramente, è
una petizione di principio.
Nella sua risposta, Descartes, allo scopo di chiarire ulteriormente
il proprio ragionamento, riprende anch’egli daccapo l’argomento di
Tommaso, offrendone una nuova ermeneutica125. Ma soprattutto repli­
ca all’obiezione di Caterus operando un’importante precisazione: «si
deve distinguere fra esistenza possibile e necessaria e notare che l’esi­
stenza possibile è certamente contenuta nel concetto, ossia nell’idea, di
tutto ciò che è inteso in modo chiaro e distinto, ma quella necessaria
non lo è se non nell’idea di Dio» (RI: 116). Sulla scia di Suàrez, possibi­
le è «tutto ciò che non implica contraddizione», e per Descartes tutto
ciò che percepiamo in modo chiaro e distinto non può implicare con­
traddizione (R2: 152). Perciò, aggiunge il filosofo, «se esaminassimo at­
tentamente se all’ente sommamente potente (enti summe potenti) com­
pete l’esistenza, e quale, potremmo percepire chiaramente e distinta-
mente, in primo luogo, che ad esso compete almeno l’esistenza possibi­
le» (RI: 119), in effetti esistente non è un predicato contraddittorio con
il soggetto ente sommamente potente, almeno quanto il predicato equi­
latero lo sia di triangolo. Ma, ecco il punto veramente decisivo:
poiché non possiamo pensare che la sua esistenza sia possibile senza
riconoscere anche, al tempo stesso, prestando attenzione alla sua immensa

stions cartésiennes, cit., 22-58; W. DONEY, La réponse de Descartes à Caterus, in BEYSSA-


DE-MARION (edd.), Descartes. Objecter et répondre, cit., 249-27.
124 STh I, q. 2, a. 1, ad 2.
125 Cf. K. CRAMER, Descartes interprète de l’objection de saint Thomas contre la
preuve ontologique de l’existence de Dieu dans les Premières Réponses, in BEYSSADE-MA-
RION (edd.), Descartes. Objecter et répondre, cit., 271-291.
70 Sistemi filosofici moderni

potenza, che esso può esistere per propria forza (propria sua vi posse existere),
potremmo da qui concludere che esso esiste nella realtà ed è esistito dall’eter­
nità: è infatti notissimo per lume naturale che ciò che può esistere per propria
forza esiste sempre.

Notiamo immediatamente che in questo passaggio Descartes


opera uno slittamento dal concetto usato nella Meditazione V, Dio co­
me ente sommamente perfetto, a quello di Dio come ente sommamente
potente126. Così, l’argomento dell’esistenza di Dio basato sulla consi­
derazione ideale della sua natura è ricondotto difatti all’autoevidenza
positiva della causa sui127. Il che sembra purtroppo gettarci in una
nuova petizione di principio. Infatti, se come premessa di una dimo­
strazione dell’esistenza di Dio assumiamo che Dio è sommamente po­
tente - non che può esserlo o che è incontraddittorio che lo sia, ma
che lo è effettivamente pena una contraddizione con se stesso - allora
chiaramente l’argomento è circolare. A meno che - come talvolta De­
scartes sembra intendere - non poniamo la causa sui prima e al di là di
ogni dimostrabilità, come fondamento stesso di ogni possibile dimo­
strare e, dunque, come già da sempre implicito in ogni sua possibile
dimostrazione. Il che ci conduce adesso verso il secondo problema,
quello del circolo128.
Antoine Arnauld, nelle ultime righe delle Obiezioni IV, giusto
prima di passare a segnalare Le cose che possono bloccare i teologi, sol­
leva in limine uno scrupolo che si rivelerà tra i più dirompenti dell’in­
tero dibattito sulla filosofia cartesiana. Il teologo si chiede se Descartes
non sia caduto in un «circolo» quando, alla fine della Meditazione V, è
giunto a sostenere - come abbiamo visto - che dopo aver percepito
che Dio esiste bisogna concludere che tutto ciò che si percepisce chia­
ramente e distintamente è necessariamente vero. «Ma - nota sommes­
samente Arnauld - non ci è possibile sapere che Dio esiste se non per­
ché ciò è da noi percepito chiaramente ed evidentemente; dunque pri­

126 Sul complesso intreccio delle diverse definizioni di Dio in Descartes, cf. Ma-
RION, Sur le prisme métaphysique, cit., 217-292; sinteticamente ripreso in Id., The essen-
tial incoherence of Descartes’ definition of divinity, in OKSENBERG RORTY (ed.), Essays on
Descartes’ Méditations, cit., 297-338.
127 E questa la conclusione a cui giunge E. SCRIBANO, L’existence de Dieu, in
BEYSSADE-MARION (edd.), Descartes. Ohjecter et répondre, cit., 303-304, sulla scia di
J.-L. MARION, E»tre analogie et principe de raison: la causa sui, ivi, 319-327.
128 Tralascio le importanti obiezioni di Gassendi, la cui chiave argomentativa, os­
sia che l’esistenza non può essere considerata una perfezione bensì il porsi della cosa,
senza la quale nessuna perfezione può essere posta, verrà in effetti ripresa da Kant.
Le Meditazioni di Descartes 71

ma di sapere che Dio esiste, dobbiamo sapere che è vero tutto ciò che
è da noi percepito chiaramente ed evidentemente» (04: 214).
Nel rispondere ad Arnauld (R4: 245-246), Descartes rimanda a
quanto aveva già replicato ai secondi obiettori [Mersenne] (R2: 140-
146), quando, a proposito di un passo della Meditazione III, essi ave­
vano sollevato la questione della circolarità tra la certezza di essere una
res cogitans e la necessità di provare l’esistenza di Dio per poter elimi­
nare «completamente»129 ogni dubbio (02: 124-126). Tale circolarità,
inoltre, porterebbe alla conseguenza per cui un matematico ateo, ov­
vero che nega l’esistenza di Dio, non potrebbe conoscere chiaramente
che la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a due retti e
cose simili. Il che sarebbe manifestamente assurdo. La lunga risposta
di Descartes parte da questo chiarimento:
dove ho detto che non possiamo esser certi di alcuna cosa se non abbiajno
prima conosciuto che Dio esiste, ho mostrato espressamente di non parlare se
non della scienza di quelle conclusioni che possono ritornare alla memoria, quan­
do non prestiamo più attenzione alle ragioni da cui le abbiamo dedotte (R2: 140).

Il filosofo, ribadendo quanto argomentato alla fine della Medi­


tazione V (cf. R2: 146) distingue: da un lato il puro e semplice intui­
to, mediante il quale conosciamo i principi primi o assiomi, «ad
esempio che io, mentre penso, esisto, che ciò che è accaduto una vol­
ta non sia accaduto, e altre cose simili» (R2: 145); dall’altro lato, la
scienza, intesa come conoscenza certa delle conclusioni ricavate in
base a ragionamenti che derivano dagli assiomi (es. la dimostrazione
del teorema di Pitagora). Ora, mentre la conoscenza degli assiomi è
immediata e non richiede lunghe catene di ragionamenti, ogni altra
dimostrazione di tipo discorsivo può richiedere catene più o meno
lunghe, nelle quali la mente umana può saltare o dimenticare qualche
passaggio, anche se ritiene comunque la conclusione (es. ho studiato
molti anni fa il teorema di Pitagora e so che «l’area del quadrato co­
struito sull’ipotenusa è uguale alla somma dell’area dei quadrati co­
struiti sui cateti», ma se ora qualcuno mi chiedesse di dimostrarlo po­
trei non esserne più capace).
Secondo Descartes, per la conoscenza degli assiomi non abbiamo
bisogno di un garante; ad esempio non abbiamo bisogno di aver dimo­

129 «debbo, non appena se ne darà motivo, esaminare se Dio sia e, nel caso in cui
egli sia, se possa essere ingannatore: non mi sembra infatti di poter mai essere compieta-
mente certo [piane certus esse) di alcuna cosa se ignoro questa» (M3: 36).
72 Sistemi filosofici moderni

strato la necessaria esistenza di Dio per essere certi dell 'ego sum, infatti
tale verità è di per sé inattaccabile dal dubbio. Invece la conoscenza
scientifica, data la sua natura discorsiva, è sempre esposta al dubbio di
non ricordare o mancare qualche passaggio; ed è qui che l’esistenza ne­
cessaria di un Dio verace mostra il suo ruolo determinante, in quanto
garantisce che una verità certa è comunque possibile. Tramite l’esisten­
za di Dio, Descartes non vuole affatto subordinare e con ciò relativiz­
zare il sapere scientifico ma, al contrario, fornirgli l’unica base vera­
mente certa. Egli rimane convinto che qualunque tentativo di autofon­
dazione della scienza non la renderebbe del tutto immune dal dubbio.
E una risposta convincente? Il dibattito è ancora aperto130.

6. Immagino, sento, soffro


Il meditante ci aveva abituato a riassumere i risultati raggiunti al­
l’inizio di ogni nuova giornata meditativa. La Meditazione VI invece
esordisce semplicemente così: «Mi rimane da esaminare se le cose ma­
teriali esistono» (M6: 71), ponendosi dunque in diretta continuità con
la meditazione precedente e stabilendo anche che questo sarà l’ultimo
tratto dell’itinerario meditativo. Di due oggetti della nostra mente sap­
piamo che esistono, io e Dio, il primo condizionatamente all’atto di
pensare (quoties mente concipitur [M2: 25]), il secondo incondizionata­
mente giacché è capace di esistere in forza di se stesso (propria sua vi
posse existere [RI: 119]). Ogni altro oggetto vero della mathesis è, fi­
nora, solo possibile, purché sia percepito chiaramente e distintamente.
Possibile significa che può esistere. E allora, come possiamo sapere se
effettivamente esiste? Certo non mediante la facoltà di pensare, o in­
telletto, che ci ha guidato fino alla possibilità delle cose materiali, ma
che sappiamo impotente quanto alla loro esistenza.
Perciò, l’alternativa che al meditante «sembra» anzitutto la più
sensata da verificare è quella della facoltà di immaginare, o immagina­
zione; dal momento che egli fa esperienza di usare tale facoltà quando
si rivolge alle cose materiali. Il primo passo che Descartes compie in
questa verifica è la distinzione tra «l’immaginazione e l’intellezione

130 Cf. BEYSSADE, La pbilosophie première, cit., 317-338; L.E. LOEB, The Carte­
siani circle, in C o ttin gham (ed.), The Cambridge Companion, cit., 200-235; L. N ewman
- A. NELSON, Circumventing Cartesian circles, in «N o u s» 33 (1999), 370-404; G . H at -
FIELD, The Cartesian circle, in GAUKROGER, The Blackwell Guide, cit., 122-141; J. C ar -
RIERO, The Cartesian circle and thè foundations of knowledge, in B ro u g h to n -C arriero
(edd.), A Companion to Descartes, cit., 302-318.
Le Meditazioni di Descartes 73

pura (M6: 72)». L’esempio da lui fornito è assai eloquente: quando


penso un triangolo, non solo intendo che è una figura delimitata da tre
lati, ma anche «intuisco con l’acume della mente queste tre linee come
presenti», cioè me lo immagino; invece quando penso a un chiliagono,
intendo che si tratta di un poligono di 1000 lati, ma certo non riesco a
immaginarmelo. Mentre con l’immaginazione distinguiamo facilmente
un triangolo da un quadrato o da un pentagono, non siamo invece in
grado di distinguere un chiliagono da un poligono che abbia 2000,
10.000 o più lati, per quanto impegno o «sforzo dell’animo» vi mettia­
mo. Ergo, immaginazione e intellezione pura sono facoltà distinte. Ma
in cosa consiste tale distinzione?
Anzitutto noto che io continuerei a essere quello che sono, una
res cogitans, anche se non avessi l’immaginazione: per essere certo che
io sono, che Dio esiste e che gli oggetti della mathesis sono veri enti,
non ho bisogno dell’immaginazione; «da ciò sembra conseguire che es­
sa dipende da una cosa diversa da me [ab aliqua re a me diversa)» (M6:
73). Quale? Potrebbe dipendere da un «particolare corpo cui la mente
sia così congiunta da potersi applicare ad esso a suo arbitrio, come per
guardarlo»; una formula elegante per indicare il corpo proprio e in par­
ticolare il cervello. Se un tale corpo esistesse - Descartes non lo ha an­
cora dimostrato - sarebbe lecito supporre che quando la mente pensa
si rivolge verso se stessa, considerando le idee che vi si trovano, quan­
do immagina, invece, si rivolge verso tale corpo, e «intuisce in esso
qualcosa di conforme all’idea che essa intende o che è percepita trami­
te il senso». In tal caso, proprio la via dei sensi, che sin dall’inizio della
Meditazione I avevamo sbarrato, potrebbe ora rivelarsi efficace nello
stabilire l’esistenza delle cose materiali. In effetti - nota subito il medi­
tante - oltre alle cose corporee oggetto della mathesis finora esaminate
(es. estensione, figure, movimento), immaginiamo anche molte altre
cose: «i colori, i suoni, i sapori, il dolore e simili» (M6: 74), che, sebbe­
ne non altrettanto distintamente, purtuttavia percepiamo «meglio» con
i sensi. Perciò questi meritano una nuova indagine131.
La riconquista della sensibilità si sviluppa nella Meditazione VI
in un’analisi lunga e complessa (M6: 74-80), nella quale Descartes

131 Faccio notare, solo per inciso, quanto radicale sia il ribaltamento dell'ordine
delle ragioni operato dalla metafisica cartesiana, che giunge a trattare per ultimo ciò
che Aristotele trattava per primo: «Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Se­
gno ne è l’amore per le sensazioni (xcóv alaGiìaewv àydjerjaLg)» (Metaph., A l, 980a 21
[trad. it., cit., II, 3]).
74 Sistemi filosofici moderni

riprenderà i diversi motivi critici nei confronti dei sensi già esaminati
nelle Meditazioni precedenti; non è un caso che alla fine questa risul­
terà essere la più estesa delle sei meditazioni. Nella Meditazione I, ave­
vamo visto quanto i sensi possano essere inaffidabili: non solo circa le
cose esterne (es. le illusioni ottiche), ma anche circa quelle interne (es.
il dolore che provano taluni in una parte del corpo amputata). Nella
Meditazione III, poi, avevamo escluso che le idee avventizie potessero
provare l’esistenza di qualcosa di extramentale. Infatti, avevamo nota­
to che non era in base al lume della ragione che eravamo indotti a rite­
nere avventizie le idee simili alle cose extramentali, bensì solo in base a
un «impulso naturale», cioè irrazionale. Perciò, il sorgere in noi delle
idee avventizie poteva benissimo essere generato da «una qualche fa­
coltà a noi ignota» e non dalla realtà. Tuttavia ora, visto che al termine
della Meditazione V abbiamo provato che Dio è verace e garantisce
che noi siamo capaci di verità, non possiamo più ritenere di per sé
dubbiose tutte le sensazioni e, inoltre, se possedessimo una qualche fa­
coltà nascosta certamente ne saremmo consapevoli. Quindi, il caratte­
re avventizio delle sensazioni, cioè il fatto che siamo passivi rispetto al
loro presentarsi alla mente (es. sento caldo, dolore ecc., che lo voglia o
meno), denota che dall’altra parte ci deve essere una qualche facoltà
attiva, capace di produrre tali idee:
E questa non può certo trovarsi in me, perché non presuppone assoluta-
mente intellezione alcuna e queste idee sono prodotte senza che io vi contribui­
sca [...]; rimane dunque che essa si trovi in una qualche sostanza diversa da me
e, poiché in questa deve inerire, o formalmente o eminentemente, tutta la realtà
che è obiettivamente nelle idee prodotte da questa facoltà (come ho già osserva­
to sopra132), o questa sostanza è corpo [...]; o certamente è Dio (M6: 79).

Ma Dio non può essere, perché non ha posto in me la minima co­


scienza che tali idee provengano da Lui e, invece, ha posto in me la ten­
denza spontanea a ritenere che tali idee siano provocate dalle cose cor­
poree133. E se Dio non è ingannatore, bensì garante della veracità della
mia conoscenza, non può avermi tenuta nascosta la vera origine delle

132 Cf. M3: 40-42.


133 La tesi per cui è Dio a produrre direttamente le sensazioni nella mente quan­
do il corpo viene modificato, detta “occasionalismo”, verrà elaborata contemporanea­
mente da alcuni seguaci di Descartes (es. J. Clauberg, A. Geulincx, L. de la Forge ed al­
tri) già nel decennio 1660-1670 e sarà successivamente sviluppata da Nicolas Malebran­
che, De la recherche de la vérité (1674-1675); cf. S. N adler , Occasionalism. Causation
Among thè Cartesiani, Oxford University Press, Oxford-New York 2011.
Le Meditazioni di Descartes 75

mie idee, né avermi dato una tendenza naturale a credere che tale origi­
ne sia altra da quella vera. Ergo: «le cose corporee esistono (res corpo-
reae existunt)» (M6: 80)134. Tuttavia, questa conclusione non significa
affatto sancire l’infallibilità della conoscenza sensibile, di fatto Descar­
tes si affretta a puntualizzare che «questa comprensione dei sensi è in
parecchi aspetti molto oscura e confusa». Bisogna tener presente che i
sensi ci accertano dell 'esistenza dei corpi, ma ciò non significa che essi
siano in grado di renderci accessibile la loro essenza. Su quest’ultimo,
delicato, punto il filosofo aggiunge una sentenza di non facile compren­
sione: «ma in esse [cose corporee] c’è almeno tutto quello che intendo
chiaramente e distintamente, ossia, considerato in generale, tutto ciò
che è compreso nell’oggetto della pura Mathesis»135. Ciò significa che
la conoscenza certa dei corpi - ovvero la fisica e tutte le scienze da essa
dipendenti136 - è limitata alle loro qualità primarie generali (estensione,
figura, movimento), mentre le qualità secondarie (colori, sapori, rumori
ecc.) e anche le percezioni quantitative particolari (misura, distanza, vo­
lume ecc.) non sono oggetto di scienza certa137.

134 Su questa dimostrazione, cf. Di B e lla , Le Meditazioni metafisiche, cit., 169-


175; SCRIBANO, Guida alla lettura, cit., 121-124; HATFIELD, Routledge Philosophy Guide-
book, cit., 248-263; D.M. CLARKE, Descartes proofofthe existence ofMatter, in GAUKRO-
GER, The Blackwell Guide, cit., 159-178.
135 Per un’esegesi puntuale di questo testo, cf. R. MATTERN, Descartes: «All
things wich I conceive clearly and distinctly in corporeal objects are in thejn», in OKSEN-
BERG RORTY (ed.), Essays on Descartes' Meditations, cit., 473-489; per uno sguardo più
ampio, cf. G. RODIS-LEWIS, De la physique à la métaphysique chez Descartes, in MARION
(ed.), Descartes, cit., 139-159; A. HUTTERMANN, Die Grundlegung der Cartesichen Physik
in den Meditationen, in KEMMERLING (ed.), René Descartes. Meditationen, cit., 173-193.
136 Nella Lettera Prefazione indirizzata a Claude Picot e posta in Appendice ai
Principia: «Così, tutta la filosofia è come un albero, le cui radici sono la metafisica, il
tronco è la fisica e i rami che escono da questo tronco sono tutte le altre scienze, che si
riducono a tre principali, cioè la medicina, la meccanica e la morale» (AT IX/2: 14 [OB
I: 2231]); poche righe prima la fisica è definita come la scienza «nella quale, dopo aver
trovato i veri principi delle cose materiali, si esamina in generale come è composto tutto
l’universo, e poi, in particolare, qual è la natura di questa Terra e di tutti i corpi che si
trovano comunemente attorno ad essa, come l’aria, l’acqua, il fuoco, il magnete e altri
minerali».
137 «In this way thè argument for thè existence of thè external world serves not
only to restore thè world lost to thè skeptical arguments of thè First Meditation; but also
to replace thè sensual world of colors, tastes, and sounds with thè spare geometrical
world of Cartesian physics. But, of course, this just pushes thè investigation one step
back; for this argument plainly depends on thè view that our idea of body is as
Descartes says it is, thè idea of something that has geometrical properties and geometri­
cal properties alone» (D. GARBER, Descartes physics, in COTTINGHAM [ed.], The Cam­
bridge Companion, cit., 295); cf. Id., Descartes MetaphysicalPhysics, cit., 63-93.
76 Sistemi filosofici moderni

A questo punto Descartes passa, finalmente, ad affrontare di


petto una questione fondamentale, che ha reso celebre la filosofia car­
tesiana, ma che era rimasta finora sottesa all’itinerario meditativo: la
relazione tra mente e corpo. Torniamo indietro di un paio di pagine.
In uno dei passaggi della dimostrazione dell’esistenza dei corpi, era
stato anche centrato il secondo dei due obiettivi dichiarati nel titolo
della Meditazione VI, «Inesistenza delle cose materiali e la distinzione
reale della mente dal corpo» (M6: 71)138, che poi - come sappiamo -
corrisponde a uno dei due scopi generali delle Meditazioni: «nelle qua­
li si dimostrano l’esistenza di Dio e la distinzione dell’anima dal cor­
po», come recita il sottotitolo dell’edizione del 1642. Descartes aveva
conquistato questo importante traguardo attraverso un argomento che
- come il filosofo ci ha abituato - ha la pretesa di essere tanto più forte
quanto più breve è la sua articolazione139: (a) siccome tutto ciò che in­
tendo chiaramente e distintamente è possibile, cioè può esser fatto da
Dio tale e quale a come io lo intendo; (b) è sufficiente che io intenda
chiaramente e distintamente una cosa senza un’altra «per essere certo
che l’una è diversa dall’altra» (M6: 78), in quanto almeno Dio può
aver fatto l’una senza l’altra140; (c) ma io so chiaramente e distintamen­
te che esisto e che tutto ciò che sono, la mia essenza o natura, è di esse­
re una cosa pensante (res cogitans) indipendentemente da ogni altra
cosa; (d) inoltre, anche se non so ancora se esiste, comunque possiedo
un’idea chiara e distinta del mio corpo come di una cosa soltanto este­
sa (res extensa) e non pensante; (e) ergo: «è certo che io sono realmen­
te distinto dal mio corpo e posso esistere senza di esso».
Questa dimostrazione è così stringata, quasi schematica, anche

138 Principia, I, art. 60: «L a distinzione reale propriamente intercorre solamente


tra due o più sostanze; e noi percepiamo che esse sono realmente distinte l’una dall’altra
per questo solo fatto che siamo in grado d’intendere in modo chiaro e distinto l’una sen­
za l’altra» (AT V ili: 28 [OB I: 1753]).
139 Cf. Di B e l l a , Le Meditazioni metafisiche, cit., 182-192; HATFIELD, Routledge
Philosophy Guidebook, cit., 245-258; per approfondire e reperire un’ampia rassegna del­
la letteratura sull’argomento, cf. M. ROZEMOND, Descartess Dualism, Harvard Univer­
sity Press, Cambridge (MA) 1998. Per il rapporto tra distinzione reale e immortalità del­
l’anima, cf. SCRIBANO, Guida alla lettura, cit., 119-121; o l’ampio studio di C.F. FOWLER,
Descartes on thè Human Soul. Philosophy and thè Demands of Christian Doctrine,
Kluwer, Dordrecht-Boston-London 1999.
140 In questo passaggio della dimostrazione Descartes evoca la distinzione tradi­
zionale tra una potenza assoluta e una potenza ordinata di Dio (cf. SCRIBANO, Guida alla
lettura, cit., 118-119) e tuttavia, nelle Risposte II, riformulerà il proprio argomento pre­
scindendo da questo contributo teologico (R2: 132-133).
Le Meditazioni di Descartes 77

perché Descartes è consapevole di richiamare qui diversi punti già fis­


sati in precedenza: dalla Meditazione V, la veracità divina che funge da
sfondo dell’intera dimostrazione e che garantisce anzitutto che ciò che
intendo in modo chiaro e distinto può essere stato posto da Dio effet­
tivamente come tale; dalla Meditazione 77, l’effettiva posizione dell’ago
come esistente e come qualcosa la cui essenza di pensante si lascia
concepire in modo del tutto separato da ogni altro contenuto; dalla
Meditazione V, la conoscenza della natura dei corpi come essenzial­
mente estesi e non pensanti.
La dimostrazione della distinzione reale è, tuttavia, solo un lato
del problema della relazione tra mente e corpo. L’altro lato, ancor più
problematico, è la loro unione. Descartes attacca la sua argomentazione
con una constatazione, che per un lettore normale sarebbe assoluta-
mente sbalorditiva nella sua ovvietà, ma che per colui che ha attraversa­
to l’itinerario eversivo delle Meditazioni non è meno difficile da accetta­
re: «Ora, non c’è nulla che questa natura141 mi insegni in modo più
espresso del fatto che ho un corpo, che sta male quando sento dolore,
che ha bisogno di mangiare o di bere, quando ho fame o sete, e altro di
simile» (M6: 80). E continua, in maniera ancora più sorprendente:
La natura mi insegna anche, attraverso queste sensazioni di dolore, di
fame, di sete ecc., che io non solo mi trovo nel mio corpo come un pilota si
trova nella sua nave, ma sono ad esso strettissimamente congiunto e quasi
commisto (arctissime esse conjunctum et quasi permixtum ), così da comporre
con esso un qualcosa d’uno (ut unum quid cum ilio componeam) (M6: 81).

La natura mi offre contemporaneamente due dati: (a) sono come


un pilota nella sua nave142, cioè io sono una res cogitans realmente di­
stinta dal corpo in quanto res extensa\ per stare alla metafora, il pilota
non è la nave e la nave non è il pilota; (b) e tuttavia sono così intima­
mente unito (non uno) con il mio corpo che quando soffro, le sensa­
zioni di tale sofferenza (sete, fame ecc.) sono «modi confusi del pensa­
re» che sorgono dalla commistione che c’è tra mente e corpo; infatti,
per tornare alla metafora, non sono affatto come il pilota che quando

141 Nella proposizione immediatamente precedente: «per natura in generale non


intendo nuli’altro che Dio stesso, o la coordinazione che Dio ha stabilito tra le cose crea­
te; né, per natura mia particolare, altro che il complesso di tutto ciò che mi è stato ac­
cordato da Dio» (M6: 80).
142 « S ’aggiunga però che non è chiaro se l’anima sia atto del corpo come il pilota
lo è della nave» (De Anima, B l, 413a 8-9 [trad. it., ARISTOTELE, LAnima, a cura di G.
M ovia , Loffredo, Napoli 1991, 139]).
78 Sistemi filosofici moderni

la nave si rompe vede la rottura, ma non la sente come propria. Quan­


do soffro, io soffro, e di certo non mi limito a constare la sofferenza;
sebbene a un livello secondo, riflesso, tale constatazione sia sempre
possibile.
Mediante l’accostamento di queste due esperienze, Descartes
chiaramente cerca di salvare allo stesso tempo la distinzione e l’unione
tra la mente e il corpo. Da un lato il corpo è un qualcosa di esteso e di­
visibile che segue le leggi della fisica esattamente come ogni altro cor­
po esistente in natura; dall’altro lato la mente è un punto inesteso che
intuisce le nature semplici, o idee innate, che racchiudono le essenze
delle cose. Queste due res chiaramente distinte sono però tra loro col­
legate (conjunctum) così strettamente, da formare un composto (com-
poneam) nel quale sono come mischiate (permixtum) l’una nell’altra, in
modo tale che a modificazioni dell’una corrispondono modificazioni
dell’altra. Difficile non sottolineare come le cautele terminologiche qui
usate da Descartes, nonché il ricorso al linguaggio metaforico e l’ab­
bondanza di termini affini accostati per smorzarsi l’uno con l’altro, de­
notino come l’unione/distinzione tra mente e corpo rimanga uno dei
nodi più intricati della sua filosofia143.
Con la distinzione/unione tra mente e corpo potrebbero termi­
nare le Meditazioni. In fondo, l’ultimo e più arduo degli obiettivi a cui
miravano è stato raggiunto. Invece qui Descartes apre un nuovo, com­
plesso discorso, che occupa in realtà l’ultimo terzo della Meditazione
VI. L’unione (pur nella distinzione) della mente col corpo lascia pensa­
re che alle modificazioni dell’una debbano corrispondere esattamente
modificazioni nell’altra. Ma se le cose stanno così, non si capisce come
mai i nostri sensi ci ingannano. E il problema non è di poco conto, no­
nostante si trovi alla fine del testo, quando il lettore in genere si sente
appagato dai numerosi argomenti già affrontati. Si tratta con ciò di ri­
prendere daccapo e per l’ennesima volta la questione dell’errore, in­
contrata sin dalla prima pagina della Meditazione I e direttamente esa­
minata nella Meditazione IV; ma stavolta dopo aver assunto, nella

143 A Elisabetta, 28 giugno 1643: «non ritengo la mente umana capace di conce­
pire distintamente, e nello stesso tempo, la distinzione tra l’anima e il corpo, e la loro
unione; questo perché è necessario, per tal fine, concepirli come una cosa sola e al tem­
po stesso concepirli come due, il che è contraddittorio» (AT III: 693 [LB: 1783]); una
difficoltà dunque insita nella nostra comprensione, non nella cosa stessa, cf. Di BELLA,
Le Meditazioni metafisiche, cit., 198-199. Sui problemi sollevati dall’argomento cartesia­
no sull’unione mente corpo, cf. J. COTTINGHAM, The mind-body relation, in G aukro -
GER, The Blackwell Guide, cit., 183-186.
Le Meditazioni di Descartes 79

Meditazione V, la certezza della veracità di Dio come chiave di volta


dell’intero sistema. Veracità che, se dovesse rivelarsi anche solo mini­
mamente incerta, potrebbe far crollare tutto.
Il meditante rilancia così la sua riflessione partendo dalla consta­
tazione che: «C ’è però molto altro che, sebbene mi sembri essere inse­
gnato dalla natura, non ho tuttavia in realtà ricevuto da essa, bensì da
una certa consuetudine di giudicare in modo sconsiderato, e perciò
può ben accadere che sia falso» (M6: 82). Difatti, i sensi sono stati dati
all’uomo per fornirgli informazioni sufficientemente chiare e distinte,
affinché egli si capace di «fuggire ciò che arreca la sensazione di dolo­
re e a ricercare ciò che arreca la sensazione di piacere». Detto in altri
termini, i sensi sono funzionali all’autoconservazione. Tuttavia, spesso
noi travalichiamo questa loro funzione pratica per fargli svolgere un
compito teoretico, ossia «per discriminare immediatamente quale sia
l’essenza dei corpi». Questo tipo di errore è però - come già nella Me­
ditazione IV - da ricondurre a un nostro uso errato dei sensi e non a
una loro fallacia costitutiva.
La faccenda sembrerebbe risolta, se non fosse che il meditante a
questo punto solleva il problema più imbarazzante: «Qui però si in­
contra una difficoltà nuova, proprio riguardo a ciò che la natura mi
mostra come tale da ricercare o da fuggire» (M6: 83), come ad esem­
pio accade alle persone malate che desiderano bere o mangiare pro­
prio quello che gli fa male. Come è possibile giustificare che quegli
stessi sensi che la natura (cioè Dio) ci ha dato per l’autoconservazione
ci portino talvolta all’autodistruzione? Se Dio è buono, perché non
impedisce che la natura sia fallace? Per rispondere a questa domanda
Descartes offre nel finale della Meditazione VI - analogamente a quan­
to aveva fatto nella Parte VI del Discorso sul metodo - una rapida spie­
gazione del funzionamento del corpo umano: un vero e proprio com­
pendio di quella fisiologia meccanicistica che sta al centro dell’antro­
pologia cartesiana144.
Come premessa generale Descartes ci ricorda che la mente è in­
divisibile mentre il corpo è divisibile in parti. Nella fisiologia cartesia­
na, gli stimoli sensoriali sono riducibili a movimenti che percorrono i

144 Cf. G. RODIS-LEWIS, Lanthropologie cartésienne, Presses Universitaires de


France, Paris 1990; G. HATFIELD, Descartes' physiology and its relation to his psychology, in
COTTINGHAM (ed.), The Cambridge Companion, cit., 335-370; V. A ucante , La philosophie
médicale de Descartes, Presses Universitaires de France, Paris 2006; Id., Il cervello e l'ani­
ma in Descartes: metafisica e fisiologia, in P. QUINTILI (ed.), Anima, mente e cervello. Alle
origini del problema mente-corpo, da Descartes all’Ottocento, Unicopli, Milano 2009,51-69.
80 Sistemi filosofici moderni

filamenti nervosi dalla periferia fino al cervello, dove arrivano a «colpi­


re» quella sua «minuscola parte [...] in cui si dice trovarsi il senso co­
mune» (M6: 86)145. Data, tuttavia, la divisibilità del corpo, lo stimolo
nervoso può partire sia dalla periferia estrema che da qualche organo
intermedio, in modo tale però che l’estremo passa anche per l’interme­
dio ma non viceversa146. E il cervello è così fatto che i movimenti che
colpiscono direttamente la mente non arrecano in essa che una sensa­
zione alla volta, sia che essi provengano dall’estrema periferia del fila­
mento nervoso, che da uno dei tratti intermedi. Ebbene - con una tro­
vata geniale con la quale Descartes ribalta a suo favore l’intera questio­
ne - la natura ha fatto in modo tale che: «la cosa migliore che si può
escogitare qui, è che, tra tutte quelle [sensazioni] che può arrecarvi, vi
arrechi quella che conserva nel modo migliore e con la maggiore fre­
quenza, la salute dell’uomo» (M6: 87). Ciò significa che la “provviden­
za” divina ha fatto in modo tale che quando uno stimolo attraverso i
nervi colpisce la mente, vi arrechi la sensazione che meglio di altre è
funzionale all’autoconservazione del corpo. Ad esempio, lo stimolo
nervoso generato dalla secchezza della gola arreca la sensazione della
sete e spinge, opportunamente, il corpo a bere; se così non fosse, mo­
riremmo tutti di sete. Ciò avviene, purtroppo, anche quando questo
stimolo è patologico, come nel caso del malato di idropisia, nel quale
una fonte errata provoca una sensazione di sete continua, che porta il
corpo a bere in modo autodistruttivo.
Descartes conclude: «In base a ciò è del tutto manifesto che no­
nostante l’immensa bontà di Dio, la natura dell’uomo in quanto com­
posto di mente e corpo non può non essere qualche volta fallace»
(M6: 88)147. Qualcuno ha preteso di vedere in questo passo un «esito

145 Ciò che qui Descartes chiama «minuscola parte» del cervello, nelle Passioni
dell’anima I, art. 31-32. 35, descriverà come «piccola ghiandola» (AT XI: 351-353. 355-
356 [OB I: 2361. 2365-2367]), e altrove chiamerà anche «ghiandola pineale» (es. AT III:
263 [LB: 1349]), espressione con cui è universalmente conosciuta. E questo l’organo in
cui avviene la comunicazione tra mente e corpo, cf. AUCANTE, La philosophie médicale
de Descartes, cit., 239-246.
146 «Ad esempio nella corda A, B, C, D, se si tira la sua parte estrema, D, la pri­
ma, A, non si muoverà in modo diverso da come anche potrebbe muoversi nel caso in
cui venisse tirata una fra quelle intermedie, B o C, e l’ultima, D, rimanesse ferma. In mo­
do non dissimile, quanto sento dolore nel piede, la fisica m’insegna che quella sensazio­
ne avviene attraverso i nervi situati all’interno del piede che, estesi come corde da lì sino
al cervello, mentre sono tirati nel piede, tirano anche le parti interne del cervello cui
giungono e vi suscitano un certo movimento» (M6: 87).
147 L’espressione «bontà di Dio» ricorre all’inizio (Mi: 21), ma solo per sentito
dire, e alla fine, positivamente (M6: 83. 85. 87. 88).
Le Meditazioni di Descartes 81

aporetico se non tragico»148 delle Meditazioni, giacché la stessa natura,


disposta da Dio nella sua bontà, non è del tutto immune dall’inganna-
re direttamente l’uomo. Se così fosse, Descartes rimarrebbe nonostan­
te tutti i suoi sforzi un inguaribile scettico, che non avrebbe il coraggio
di professarsi tale149. Questa interpretazione mi sembra però del tutto
inadeguata, dal momento che la veracità di Dio garantisce non tanto
l’assoluta infallibilità dell’uomo, quanto piuttosto la sua reale capacità
di verità. Il fatto che la natura «può essere fallace» non impedisce af­
fatto che l’uomo «possa correggere» tale fallacia. La divisibilità di una
delle due parti del composto, cioè del corpo, fa sì che la mente possa
essere tratta in errore; è il caso delle patologie discusse nella parte fi­
nale della Meditazione VI. Ma ciò non toglie minimamente all’uomo la
capacità di scoprire, col tempo, la causa di un errore e così rimediare,
anche definitivamente, a esso. Le parole con cui si chiudono le Medita­
zioni, non decretano perciò la resa finale e il fallimento inconfessato
dell’impresa cartesiana, testimoniano semmai il giusto tributo che la
scienza deve rendere alla sapienza.

Obiezioni e risposte
Le Obiezioni alla Meditazione VI denotano in alcuni interlocuto­
ri una certa stanchezza: Caterus concede solo poche righe all’essenza
dell’anima e alla sua distinzione dal corpo, confessando: «questo gran­
de ingegno mi ha ormai così spossato che quasi non ce la faccio più»
(Ol: 100; RI: 120-121); anche Hobbes si limita ad avanzare un paio di
pallide obiezioni, ricevendo telegrafiche risposte (OR3: 194-196). Chi
invece si è gettato con passione in ampio e approfondito dibattito Sul­
la natura della mente umana è Arnauld (04: 197-205; R4: 219-231), se­
guito in ciò da Gassendi (05: 328-345; R5: 384-391). Mersenne, rac­
cogliendo e guidando dapprima le Obiezioni II e poi le VI, sottoli­
neerà a più riprese la sua perplessità circa la distinzione reale tra men­
te e corpo, inducendo Descartes a una risposta originale (02: 123;
R2: 131-133; 06: 413-414; R6: 422-427)150.

148 M o ri , Cartesio, cit., 149.


149 Sulla recezione delle Meditationes e sulle diverse immagini di Descartes tra­
mandatesi nei secoli, cf. SCRIBANO, Guida alla lettura, cit., 134-150; T.M. SCHMALZ, Se-
venteenth-Century responses to thè Méditations, in GAUKROGER, The Blackwell Guide,
cit., 193-203; BROUGHTON-CARRIERO (edd.), A Companion to Descartes, cit., 465-525;
H.P. SCHUTT, Zur Wirkungsgeschichte der Cartesischen Meditationen, in KEMMERLING
(ed.), René Descartes. Meditationen, cit., 195-213.
150 Cf. D. GARBER, Formes et qualités dans les Sixièmes Réponses, in BEYSSADE-
82 Sistemi filosofici moderni

Quando Descartes ricevette le obiezioni del Signor Arnauld - al­


lora ventottenne licenziando in teologia e non ancora diventato il
“Grande Arnauld”151 - scrisse a Mersenne: «Le considero le migliori
di tutte: non perché siano le più stringenti, ma per il motivo che egli è
penetrato più a fondo di ogni altro nel senso di quel che ho scritto»152.
Il giovane teologo elabora una lunga e complessa serie di obiezioni che
ruotano attorno all’argomento cartesiano per la distinzione reale tra
mente e corpo, giungendo infine a questa celebre accusa:
Si aggiunga che questo argomento sembra provare troppo e condurci al­
la famosa opinione dei platonici (che l’autore tuttavia respinge) secondo la qua­
le alla nostra essenza non appartiene alcunché di corporeo, così che l’uomo è
solo animo, mentre il corpo null’altro che il vascello dell’animo; ragion per cui
costoro definiscono l’uomo come un animo che si serve del corpo (04: 203).

Secondo Arnauld, perché si possa affermare la distinzione reale


tra mente e corpo, è indispensabile che la conoscenza che la mente ha
di se stessa, indipendentemente dal corpo, sia completa; e tale condi­
zione, a suo giudizio, non è soddisfatta dall’argomento cartesiano. L’o­
biezione si articola intorno a un esempio assai eloquente: qualcuno po­
trebbe ben conoscere la proprietà geometrica per cui tutti i triangoli
iscritti in un semicerchio sono rettangoli e, al tempo stesso, dubitare o
persino negare che il quadrato costruito sulla loro base sia uguale alla
somma dei quadrati costruiti sui cateti. In tal caso, percepirebbe in
modo chiaro e distinto cos’è un triangolo rettangolo, pur ignorando o
negando il teorema di Pitagora, il quale indica nondimeno una pro­
prietà necessaria di ogni triangolo rettangolo. «Dunque - conclude
Arnauld - ciò di cui dubito, anzi, ciò che può essere tolto da quella
idea senza che essa cessi di rimanere in me, non appartiene alla sua es­
senza» (04: 202). Perciò, quando pensando formo in me l’idea di esse­
re una cosa pensante, questa è certamente una nozione chiara e distin­
ta ma non necessariamente completa, di fatto posso continuare a pen­
sarla anche dubitando o negando di essere una cosa estesa.
La risposta di Descartes dapprima travisa l’obiezione di
Arnauld153, intendendo che costui abbia preteso che la conoscenza

MARION (edd.), Descartes. Objecter et répondre, cit., 449-469; e la risposta a Garber di


M. Fichant, ivi, 471-479.
151 Cf. V. CARRAUD, Arnauld: from ockhamism to cartesianism, in ARIEW-GRENE
(edd.), Descartes and bis Contemporaries, cit., 110-128; MORI, Cartesio, cit., 173-180.
152 A Mersenne, 4 marzo 1641 (AT III: 331 [LB: 1423]).
153 Come ha giustamente notato S. VOSS, Le Grand Arnauld sur la racine et le
Le Meditazioni di Descartes 83

completa equivalga a quella adeguata, ovvero alla conoscenza di «tutte


le proprietà che sono nella cosa conosciuta» (R4: 220), e di contro so­
stiene di non aver affermato che essa debba essere adeguata, «ma sol­
tanto che la cosa deve essere intesa quanto basta per sapere che è com­
pleta» (M6: 221). Dopo di ciò, il filosofo si spende in una lunga con­
troreplica all’esempio del triangolo proposto da Arnauld, nella quale
progressivamente, però, emerge sempre di più la vera questione in gio­
co: la sostanzialità dell’uomo. Infatti, secondo la tradizione peripateti­
co-scolastica l’uomo è una sostanza, meglio l’anima di un certo uomo è
la causa del suo essere una determinata sostanza; perciò Aristotele dice
che l’anima è «sostanza prima»154, ossia atto primo di un corpo orga­
nico dotato della vita in potenza. Per Descartes, invece, mente e corpo
sono due res, tra le quali vige una distinzione reale, una è cogitans e in
nulla extensa e l’altra è extensa e in nulla cogitans. Dunque due sostan­
ze, non una. Eppure, nella Meditazione VI abbiamo visto quanto l’au­
tore si sia sforzato di affermare la strettissima connessione tra mente e
corpo, giungendo a negare che la mente sia semplicemente come il pi­
lota sulla nave, ovvero rigettando la posizione platonica che Arnauld
invece torna ad attribuirgli155. Nella sua replica a questo decisivo pun­
to, Descartes dapprima ribadisce la sua estraneità alla posizione plato­
nica e poi precisa il suo pensiero così: «nella sesta Meditazione, in cui
ho trattato della distinzione della mente dal corpo, ho insieme provato
anche che essa gli è unita sostanzialmente (substantialiter illi esse uni­
tami)» (R4: 228), e più sotto:
così neppure a me sembra di aver provato troppo, mostrando che la
mente può essere senza il corpo, e neanche troppo poco, dicendo che essa è
sostanzialmente unita al corpo, poiché quell’unione sostanziale (unio illa sub-
stantialis) non impedisce che si abbia un concetto chiaro e distinto della sola
mente come cosa completa.

Qui chiaramente Descartes non parla di mente e corpo come di


una sostanza, eppure pretende che tra di essi ci sia ciò che egli chiama
una «unione sostanziale». E dunque un dualista o un unitarista? Un

fruit de l’argument cartésien pour la distinction réelle, in BEYSSADE-MARION (edd.), De­


scartes. Objecter et répondre, cit., 389.
154 «Inoltre, è evidente, anche, che l’anima è la sostanza prima (o vo ia T]
JtQO)xr|), il corpo materia, e l’uomo e l’animale l’insieme dei due in universale» (Metaph.,
Z ÌI, 1037a 5-1 [trad. it., cit., II, 337]).
155 Cf. D. FREDE - B. R eis (edd.), Body and Soul in Ancient Philosophy, Walter de
Gruyter, Berlin-New York 2009.
84 Sistemi filosofici moderni

punto è chiaro, come sottolinea nella sua accurata analisi dei testi
V. Chappell: «Descartes non dice mai, né in questo testo né altrove in
altri scritti, che le cose che sono unite sostanzialmente formino una so­
stanza, o che la mente e il corpo umani lo facciano»156. Ergo, l’uomo
non è una sostanza individuale, bensì un composto formato dall’unio­
ne sostanziale di mente e corpo. Tuttavia, il filosofo non descrive mai
direttamente le ragioni e le modalità di tale unione, quanto piuttosto la
assume come un fatto, la cui evidenza maggiore consiste nella partico­
lare interazione causale che sussiste tra mente e corpo157. La mente
non è semplicemente collocata accanto al corpo come un osservatore
estraneo, che da un momento all’altro potrebbe decidere di andarsene;
neppure è posta al di sopra di esso come uno che soltanto la dirige,
potendo imprimere qualsiasi movimento riesca a concepire; ma è an­
che posta al suo interno, dal momento che ne subisce gli stimoli anche
quando vorrebbe farne a meno. E dunque l’insieme di tutti questi
aspetti causali a determinare quella particolare «unione sostanziale»
che, a giudizio di Descartes, sussiste tra mente e corpo, e che propria­
mente qualifica ciò che è essere uomo.

Bibliografia
Opere
1637 Discours de la méthode pour bien conduire sa raison et chercher la vé-
rité dans les sciences. Plus La dioptrique, Les météores et La géomé-
trie, qui sont des essais de cete Méthode, Maire, Leyde [anonimo].
1641 Renati Des-Cartes Meditationes de prima philosophia, in qua Dei
existentia et animae immortalitas demonstratur, Soly, Paris.
1642 Renati Des-Cartes Meditationes de prima philosophia, in quibus Dei
existentia et animae humanae a corpore distinctio, demonstrantur.
His adjunctae sunt variae objectiones doctorum virorum in istas de
Deo et anima demostrationes, cum responsionibus authoris. Secunda
editio septimis objectionibus antehac non visis aucta, Elzevier, Am­
sterdam [contiene la Epistola ad P. Dinet S.I.].

156 «Descartes ne dit jamais, ni dans ce texte ni ailleurs dans ses écrits, que les
choses qui sont unies substantiellement forment une substance, ou que l’esprit et le cor-
ps humains le fassent» (V. CHAPPELL, Lhomme cartésien, in BEYSSADE-MARION [edd.],
Descartes. Objecter et répondre, cit., 409 [trad. mia]); per una diversa prospettiva, cf.
D.M. C lark e , Descartes s Theory ofMind, Clarendon Press, Oxford 2003.
157 Cf. P. HOFFMAN, The union and interaction of mind and body, in BROUGH-
TON-CARRIERO (edd.), A Companion to Descartes, cit., 390-403; J. SKIRRY, Descartes and
thè Metaphysics of Human Nature, Continuum, London-New York 2005.
Le Meditazioni di Descartes 85

1643 Epistola Renati Des-Cartes ad celeberrimum virum D. Gisbertum


Voetium, Elzevier, Amsterdam.
1644 Renati Des-Cartes Principia philosophiae, Elzevier, Amsterdam.
1644 Renati Des-Cartes Specimina philosophiae, seu Dissertatio de Metho-
do recte legenda rationis et veritatis in scientiis investigandae: Diop-
trice et Meteora, Elzevier, Amsterdam [trad. di 1637, eccetto La
ge'ométrie].
1647 Les Méditations métaphysiques de M Descartes touchant la première
philosophie dans lesquelles Vexistence de Dieu, et la distinction réel-
le entre ràme et le corps de l’homme, sont démostrées, traduites du
latin de Vauteur par Mr. le D.D.L.N.S [de Luynes]. Et les objections
faites contre ces Méditations par diuerses personnes tres-doctes, auec
les réponses de VAuteur. Traduits par Mr. C.L.R. [Clerselier], Ca-
musat-Petit, Paris [trad. di 1642].
1647 Les Principes de philosophie, écrits en latin par M. Descartes et tra­
duits en franqais par un de ses amis [Picot], Le Gras, Paris [trad. di
1644].
1648 Renati Des-Cartes Notae in programma quoddam, sub finem anni
1647 in Belgio editum, Elzevier, Amsterdam.
1649 Les Passions de l}Ame, par René Des Cartes, Elzevier, Amsterdam /
Le Gras, Paris.

Opere postume
1650 Renati Des-Cartes Musicae compendium, Zijll-Ackersdijk, Utrecht.
1664 Le Monde de Mr. Descartes, ou Traiti de la lumière et des autres
principaux objets des sens, Bobin-Le Gras, Paris.
1664 LHomme de René Descartes, et un traité de la formation du fcetus,
Angot, Paris.
1667 Lettres de Mr Descartes, par C. CLERSELIER, 3 voli., Angot, Paris
16673 (16571), 16662 (16591), 1667.
1668 Traité de la mécanique, composépar Mr Descartes, Angot, Paris.
1684 Renatus Descartes, Brieven, 3 voli., ed. J.H . GLASEMAAKER,
Rieuwertsz, Amsterdam, 1661-1684 [contiene trad. nederlandese
di Regulae ad directionem ingenti; La recherche de la vérité].
1691 La vie de Monsieur Des-Cartes, par A. BAILLET, 2 voli., Horthe-
mels, Paris [contiene testi di Descartes altrimenti perduti: Olympi-
ca; Experimenta ecc.].
1701 R. Des-Cartes Opuscula posthuma, physica et mathematica, Blaev,
Amsterdam [contiene: Excerpta mathematica; Regulae ad directio­
nem ingenti; trad. latina di La recherche de la vérité\.
86 Sistemi filosofici moderni

1903 Descartes et Burman, in AT V: 144-179.


1908 La recherche de la véritépar la lumière naturelle,in AT X: 495-527.

Edizioni moderne
1897-1913 CEuvres de Descartes, par C. A d AM et P. TANNERY, 12 voli., Cerf,
Paris; nouvelle présentation par J. BEAUDE - P. COSTABEL - A. G ab-
BEY - B. R o c h o t , 11 voli., Vrin, Paris 1964-74; anast. Vrin, Paris
1996.
1973 CEuvres, par F. A lq u iÉ , 3 voli., Garnier, Paris.
2002 La recherche de la vérité par la lumière naturelle, a cura di E. LOJA-
c o n o - E.J. Bos - F.A. M e sc h in i - F. S a it a , Franco Angeli, Milano.
2005 Tutte le lettere. 1619-1650, testo francese, latino e olandese a fron ­
te, a cura di G. BELGIOIOSO, con la collaborazione di I. AGOSTINI -
F. M a r r o n e - F.A. M e sc h in i - M . Savin i - J.R. A r m o g a th e , B o m ­
piani, M ilano [in appendice: Indice biografico dei corrispondenti,
Bibliografia, Lessico, Indice dei nomi del volum e].
2009 Opere. 1637-1649, testo francese e latino a fronte, a cura di G.
BELGIOIOSO, con la collaborazion e di I. AGOSTINI - F. MARRONE -
M . SAVINI, Bom piani, M ilano.
2009 Opere postume. 1650-2009, testo francese, latino e olandese a fronte,
a cura di G. BELGIOIOSO, con la collaborazione di I. AGOSTINI - F.
M a r r o n e - F.A. M e sc h in i - M. Savini, Bompiani, Milano [in appen­
dice: Lessico delle opere, Bibliografia, Indice dei nomi dei tre volumi].

Introduzioni e commenti alle Meditationes


1997 Di B e l l a S Le Meditazioni metafisiche di Cartesio. Introduzione
alla lettura, La Nuova Italia Scientifica-Carocci, Roma.
2000 SCRIBANO E., Guida alla lettura delle Meditazioni metafisiche di
Descartes, Laterza, Roma-Bari 1997.
2003 HATFIELD G ., Routledge Philosophy Guidebook to Descartes and
thè Méditations, Routledge, Abingdon.
2005 KAMBOUCHNER D., Les Méditations métaphysiques de Descartes. I.
Introduction générale. Méditation I, Presses Universitaires de Fran­
ce, Paris [3 volumi previsti].
2006 GAUKROGER S. (ed.), The Blackwell Guide to Descartes' Medita-
tions, Blackwell, Malden (MA)-Oxford-Victoria.
2009 KEMMERLING A. (ed.), René Descartes. Meditationen ùber die Erste
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Le Meditazioni di Descartes 87

Studi sulle Meditationes


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1981 MARION J.-L., Sur la théologie bianche de Descartes. Analogie, créa-
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France, Paris.
1986 ----, Sur le prisme métaphysique de Descartes. Constitution et limi-
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Fonti bibliografiche
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nuale, consultabile anche on-line dal 2003: www.archivesdephilo.
com].
Capitolo Secondo
L'ETICA DI SPINOZA

Nel 1677 appaiono gli Opera posthuma di B.d.S., acronimo die­


tro il quale si cela per sua stessa volontà l’autore, Benedictus de Spino­
za (1632-1677). Il nome dello stampatore (Jan Rieuwertsz) e quello del
luogo d’edizione (Amsterdam) sono omessi. La serie di opere conte­
nute nel volume, stando all’indice posto al termine della Prefazione, è
la seguente: «I. Ethica, More Geometrico demonstrata. II. Politica. III.
De Emendatione Intellectus. IV. Epistola?, & ad eas Responsiones. V.
Compendium Grammatices Lingule Hebrseas».
Quella pubblicata negli Opera posthuma è l’unica versione che -
almeno fino a poco tempo fa - possedevamo dcìl'Ethica. Spinoza, pri­
ma di morire, aveva lasciato un manoscritto dell’opera nella sua scriva­
nia, dando istruzioni ai suoi amici per la stampa1. Tale copia essendo
perduta, l’unica altra fonte che ha permesso agli editori moderni di
stabilire criticamente il testo deìTEthica è stato il confronto con la tra­
duzione nederlandese, pubblicata in contemporanea dagli stessi cura­
tori dell’edizione latina all’interno dei Nagelate Schriften van B.d.S., ma
non redatta dallo stesso Spinoza2. Solo recentemente, nel 2011, è stato
ritrovato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, l’unico manoscritto og­
gi conosciuto delYEthica, salvato dall’incuria del tempo - per ironia
della sorte - dalla Congregazione del Santo Uffizio3. Questa è proba­
bilmente solo una delle copie manoscritte deH’Ethica esistenti all’epo­
ca. Già nel 1675, infatti, la redazione dell’opera era conclusa e l’autore
aveva persino consegnato il manoscritto all’editore, ma poi, temendo

1 Cf. P. S t een ba kk er s , The textual history of Spinoza s Ethics, in O. KoiSTINEN


(ed.), The Cambridge Companion to Spinozas Ethics, Cambridge University Press, Cam­
bridge 2009, 26-41.
2 Furono Pieter Balling e Jan Hendriksz Glazemaker a tradurre YEtica in ne­
derlandese.
3 L. SPRUIT - P. TOTARO (edd.), The Vatican Manuscript of Spinozas Ethica,
Brill, Leiden-Boston 2011. Nel volume compare anche una ricostruzione puntuale della
storia e dei documenti relativi alla denuncia di Spinoza perpetrata da Niels Stensen, che
ha condotto il manoscritto delYEthica nell’archivio del Santo Uffizio il 23 settembre
1677, prima ancora che gli Opera posthuma fossero pubblicati {ivi, 1-80).
90 Sistemi filosofici moderni

la censura, aveva preferito ritirarlo. Sappiamo che Spinoza aveva ini­


ziato a lavorarci diversi anni prima, verosimilmente attorno al 1662, e
sin da subito alcune stesure preparatorie delle prime parti dell’opera
avevano cominciato segretamente a circolare all’interno della ristretta
cerchia di amici del filosofo4. In quegli stessi anni, una prima elabora­
zione dei contenuti basilari dell’Etica, ovvero Dio, l'uomo e il suo bene,
era stata da lui redatta sotto forma di un Breve trattato in nederlandese
(.Korte Verhandeling,), rimasto sino al 1862, purtroppo, inedito5.
Il lettore che apre gli Opera posthuma e, dopo la Prefazione dei
curatori6, va all’inizio dell’Etica, non trova nemmeno una riga dell’au­
tore che possa servire da introduzione al testo, non una parola sul suo
scopo, metodo, natura, stile. Niente. Se pensiamo che il lettore delle
Meditazioni cartesiane trovava comunque una Lettera dedicatoria, una
Prefazione e una Sinossi, che gli indicavano in modo succinto la giusta
strada, capiamo il senso di smarrimento che può generare l’estrema so­
brietà con la quale il lettore viene accolto ai piedi delYEtica. Infatti,
l’unico testo anteposto all’opera è il seguente laconico frontespizio,
probabilmente assemblato dai curatori:
ETHICA
Ordine Geometrico demonstrata,
ET
In quinque Partes distincta,
in quibus agitur,
I. De D eo.
II. De Natura & Origine MENTIS.
III. De Origine & Natura AFFECTUUM.
IV. De SERVITUTE Humana, seu de AFFECTUUM VlRlBUS.
V. De POTENTIA I n t e l l e c t u s , seu de LIBERIATE Humana7.

Questo testo manca nel manoscritto Vaticano, nel quale però i

4 Cf. Simon de Vries a Spinoza, 24 febbraio 1663 (Ep. 8 in G IV: 38-41 [OS:
1838-1843]).
5 Cf. B. SPINOZA, Korte Verhandeling van God, de Mensch en deszelvs Welstand
- Breve trattato su Dio, l'uomo e il suo bene, introduzione, edizione, traduzione e com­
mento di E M ig n in i , Japadre, L’Aquila 1986; E MlGNINI (ed.), Dio, l'uomo, la libertà.
Studi sul «Breve Trattato» di Spinoza, Japadre, L’Aquila 1990.
6 Verosimilmente Jarig Jellesz e Lodewijk Meyer.
7 O P [39], in italiano: «ETICA, dimostrata in ordine geometrico, e, divisa in
cinque parti, nelle quali si tratta: I. Di Dio. II. Della Natura e Origine della MENTE. III.
Dell’Origine e Natura degli AFFETTI. IV. Della SCHIAVITÙ umana, ossia delle FORZE DE­
GLI a f f e t t i . V. Della P o te n z a d e l l ’I n t e l l e t t o , ossia della L ib e rtà umana».
L'Etica di Spinoza 91

titoli presenti all’inizio di ciascuna delle cinque parti coincidono esat­


tamente con quelli qui riportati. Perciò, a essere effettivamente assente
è il solo titolo dell’opera. Da ciò, gli editori del manoscritto arguiscono
che il titolo possa essere stato dato dai curatori degli Opera posthuma8.
In effetti, l’unica occorrenza nella quale Spinoza nomina - incidental­
mente9 - YEtica è in una lettera del 13 marzo 1665; mentre altrove si
riferisce alla propria opera con l’espressione «la mia filosofia»10. In
fondo, a testimonianza dell’autenticità del titolo possediamo solo
quanto i curatori scrivono nella Prefazione agli Opera posthuma: «poco
prima di morire, egli chiese espressamente che non fosse apposto il
suo nome aiYEtica che mandava in stampa: non c’è altra ragione, come
almeno sembra, sul perché lo abbia proibito, se non quella che non
volle che la dottrina portasse il suo nome (Disciplina ex ipso haberet
vocabulum)»11. Diversi elementi di questa affermazione sono interes­
santi: (a) l’anonimato che riguarda l’insieme degli Opera posthuma de­
riva espressamente da una sola opera, cioè YEtica12; (b) alla negazione
esplicita circa la presenza del nome proprio dell’autore non corrispon­
de alcuna opposizione verso un titolo particolare per tale opera; (c)
questa opera non deve essere considerata il sistema filosofico (discipli­
na.) di qualcuno, cioè in questo caso il sistema “spinoziano”, perché
non si pensi che questo è un sistema tra agli altri, bensì il sistema.

8 «This absence is probably not accidental, nor is it inexplicable or does it


have to be attributed to a simple error on thè part of thè scriber. Rather, it may attest to
thè uncertainty of thè author himself who wavered in establishing a definite title. [...]
Indeed it seems safe to assume that thè name Ethics was possibly devised on thè basis of
thè contents of thè work, and then given to it by thè editors of thè posthumous works,
rather than being chosen by thè author himself» (SPRUIT-TOTARO (edd.), The Vatican
Manuscript, cit., 2. 4).
9 A Willelm van Blijenbergh, 13 marzo 1665: «dimostro nella mia Etica (non
ancora pubblicata)» (Ep. 23 in G IV: 151 [OS: 1963]).
10 A Johannes Bouwmeester, maggio-giugno 1665: «Per quanto riguarda la terza
parte della mia Filosofia (<quod ad 3am partem nostree philosophia attinet) te ne manderò
presto qualcosa» (Ep. 28 in G IV: 163 [OS: 1977]). A partire dal fatto che in diverse
opere Spinoza si riferisce a «la mia filosofia» intendendo con ogni probabilità proprio
YEtica, F. Mignini sostiene che: «Tutta l’opera di Spinoza trova nelYEtica il proprio bari­
centro e il termine privilegiato di riscontro e di giudizio. In tal senso, YEtica compendia
l’intero sistema filosofico di Spinoza» («Etica. Introduzione», in B. SPINOZA, Opere, a
cura di F. MlGNlNl, Mondadori, Milano 2007, 783).
11 OP: [5-6] (OS: 2541).
12 Effettivamente YEtica è l’unico testo filosofico, compiuto e pubblico degli
Opera posthuma; tutti gli altri testi o sono incompiuti (Trattato politico; Trattato sull’e­
mendazione dell’intelletto) o sono privati (Epistole) o non filosofici (Compendio di gram­
matica della lingua ebraica).
92 Sistemi filosofici moderni

Che YEtica abbia una forma sistematica, balza immediatamente


agli occhi del lettore dal fatto che essa è ordine geometrico demonstra-
tay ovvero l’argomentazione si sviluppa lungo una concatenazione or­
dinata di definizioni, assiomi, postulati, proposizioni. La stessa forma
argomentativa con la quale Descartes nelle Risposte II aveva dato, in
breve, le sue Ragioni che provano l'esistenza di Dio e la distinzione del­
l'anima dal corpo, cioè il contenuto delle Meditazioni riproposto non
più secondo la via analitica, bensì sintetica13. Spinoza non era nuovo a
questa forma espositiva, i Principi della filosofia di Descartes (Renati
Des Cartes Principiorum Philosophiae, 1663), unica opera autografa da
lui pubblicata in vita, erano anch’essi dimostrati secondo l’ordine geo­
metrico. Tuttavia, il metodo geometrico utilizzato tanto nei Principi
quanto nell 'Etica differisce sensibilmente sia da quello di Descartes
che dall’edizione originale degli Elementi di Euclide, eletta a modello
ideale da tutte queste opere. Vediamo, perciò, in dettaglio alcuni ele­
menti basilari di tale ordine geometrico14. I Principi iniziavano con
una premessa scritta da Lodewijk Meyer - fu la sua insistenza a spin­
gere Spinoza a pubblicare l’opera15 - nella quale egli esponeva le origi­
ni e le ragioni del metodo geometrico, offrendo anche questa puntuale
spiegazione di cosa sono definizioni, postulati e assiomi-.
Le definizioni, infatti, non sono altro che la spiegazione più chiara pos­
sibile dei termini e dei nomi che designano la cosa di cui si tratta; i postulati e
gli assiomi, ovvero le nozioni comuni dell’animo, sono invece asserzioni tanto
chiare e perspicue che nessuno può negar loro l’assenso, basta che abbia com­
preso rettamente il senso delle parole16.

Dunque le definizioni riguardano singole nozioni17, delle quali


spiegano il significato in modo chiaro e distinto, ossia privo di con­

13 Supra, 22.
14 Cf. F. MlGNINI, L'Etica di Spinoza. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma
1995, 30-34; S. NADLER, Spinoza s Ethics. An Introduction, Cambridge University Press,
Cambridge 2006, 35-51; P. STEENBAKKERS, The Geometrical Order in thè Ethics, in Koi-
STINEN (ed.), The Cambridge Companion to Spinoza s Ethics, cit., 42-55.
15 Cf. S. N adler , Spinoza. A life, Cambridge University Press, Cambridge 1999,
198. 205-206 (trad. it., Baruch Spinoza e l’Olanda del Seicento, Einaudi, Torino 20092,
218. 228-229).
16 G l : 127 (OS: 371).
17 Si discute sul valore puramente nominale oppure reale delle definizioni, se­
condo una distinzione avanzata dallo stesso Spinoza in una lettera A Simon de Vries,
febbraio 1663 (Ep. 9 in G IV: 42-44 [OS: 1845]); cf. M. GUEROULT, Spinoza. I. Dieu
(Éthique, I), Aubier-Montaigne, Paris 1968, 19-40; N adler , Spinoza s Ethics, cit., 46-48.
L'Etica di Spinoza 93

traddizione. Postulati e assiomi sono invece enunciati nei quali sono


formulati principi universali e di per sé evidenti, con la sola differenza
che i primi sono finalizzati a una particolare dimostrazione, mentre i
secondi hanno carattere più generale. Le proposizioni sono ciò che ef­
fettivamente costituisce l’ossatura del sistema filosofico delYEtica1*, si
tratta di enunciati che stabiliscono l’essenza di qualcosa o delle sue af­
fezioni, ovvero di ciò che deriva o dipende da quel qualcosa, ma a dif­
ferenza di assiomi e postulati, non sono di per sé evidenti e, perciò,
hanno bisogno di essere dimostrati. I corollari sono proposizioni che
derivano immediatamente da una proposizione precedente, perciò, di
solito, non hanno bisogno di essere ulteriormente dimostrati. Infine,
Spinoza fa un ampio uso dei cosiddetti scolti, ovvero digressioni o
commenti esplicativi, a volte brevi a volte anche molto lunghi, che sce­
glie d’inserire all’interno della catena argomentativa, laddove ritiene
opportuno. Questi scolti, evidentemente, non seguono un ordine geo­
metrico e non hanno la stessa forma rigorosamente speculativa che
hanno gli altri testi, eppure costituiscono una porzione considerevole
dell’opera. In essi Spinoza devia volutamente dalla linea della concate­
nazione geometrica, per venire incontro al lettore, particolarmente ai
suoi pregiudizi ovvero alle resistenze che in costui possono nascere
dalla difficoltà a ragionare in modo puramente intellettivo e dall’abitu­
dine a farsi trascinare dall’immaginazione. Tenendo poi conto anche di
altri testi presenti néYYEtica, come tre prefazioni e tre lunghe appendici,
risulta infine che quasi metà dell’intero testo non è redatta in modo
geometrico.
Nella struttura pent apartita dell Etica - sinotticamente coglibile
nel succitato frontespizio - spicca la struttura chiastica dei titoli, o te­
mi, delle Parti IV e V, che include anche l’oggetto della III Parte:

18 Per dare un’idea della distribuzione di questi elementi nel complesso dell 'Etica:

I II III IV V Tot.
definizioni 8 711 3 8 - 27
assiomi 7 515 - 1 2 20
postulati - -16 2 - - 8
proposizioni 36 49 59 73 42 259
corollari 15 18 14 17 8 72
scolti 14 22 37 39 17 129
94 Sistemi filosofici moderni

S e r v it u t e Humana ^ ^ A ffe c tu u m VlRlBUS

P o te n tia I n te lle c tu s L i b e r t a t e Humana

In effetti, le due ultime parti costituiscono come due facce di


uno stesso problema, rappresentando di fatto l’etica nell 'Etica, come
dichiara lo stesso autore19. Giustamente P. Macherey, nel suo com­
mento alYEtica, osserva che questi titoli vengono a comporre un enun­
ciato che descrive: «il progetto globale di un’etica, di cui la schiavitù
umana (servitus humana) costituisce il punto di partenza e la libertà
umana (libertas humana) il punto d’arrivo»20. Ora affinché tale percor­
so di liberazione possa compiersi è necessario che avvenga un cambia­
mento: «bisogna che alle forze degli affetti (vires affectuum) - e qui il
plurale indica una dispersione foriera di una molteplicità di potenziali
conflitti - si sostituisca una nuova potenza {potentia), la cui presenta­
zione al singolare esprime di contro la funzione unificatrice»21; è que­
sta la potenza dell’intelletto {potentia intellectus). Possiamo così foca­
lizzare il punto d’arrivo delYEtica nella argomentazione filosofica della
natura e delle condizioni dell’uomo libero, cioè pienamente in posses­
so di se stesso e dunque capace di esprimere effettivamente la propria
natura. In altre parole, YEtica è quell’opera che cerca di rispondere al­
la domanda: in cosa consiste la perfezione dell’uomo e come egli può
effettivamente raggiungerla?

19 Nella prima riga della V Parte dell 'Etica si legge: «Transeo tandem ad alteram
Ethices partem, quae est de modo sive via quae ad libertatem ducit». Questa è l’unica oc­
correnza nel corpo del testo (titoli esclusi) in cui compare il termine Ethica (in tutto il
manoscritto Vaticano il termine appare solo in questo luogo). Tale brano può essere in­
teso in due sensi: (a) «Passo infine all’altra parte dell’etica, la quale tratta del modo o via
che conduce alla libertà», in questo caso la V Parte (libertà) è l’altra rispetto alla IV Par­
te (schiavitù), intendendo che queste due parti formano un sottoinsieme ove si trattano
temi etici; (b) «Passo infine alla seguente parte dell’Etica [...]», intendendo così la V
Parte come l’ultima nel complesso di un’opera dal nome Etica. Tuttavia, il fatto che Spi­
noza nelle righe immediatamente seguenti al passo citato parli della matematica e della
logica, per distinguere il loro oggetto da quello della V Parte, lascia decisamente propen­
dere a favore di (a).
20 «le projet global d ’une éthique, dont la servitude humaine (servitus humana)
constitue le point de départ et la liberté humaine (libertas humana) l’aboutissement» (P
MACHEREY, Introduction à /'Éthique de Spinoza, 5 voli., Presses Universitaires de France,
Paris 1994-1998, V, 29 [trad. mia]).
21 «il faut que soit substituée aux forces des affects (vires affectuum) - et ici le
pluriel désigne une dispersion dispensatrice d’une multiplicité de conflits potentiels -,
une nouvelle puissance [potentia), dont la présentation au singulier exprime à l’inverse
la fonction unificatrice» (MACHEREY, Introduction à /'Éthique, cit., V, 29 [trad. mia]).
L'Etica di Spinoza 95

Centrare e fissare attentamente questo punto è indispensabile


per una corretta lettura dell’opera nel suo complesso sistematico. Se,
da un lato, la segmentazione geometricamente scandita dei testi, con la
costante serie di rimandi interni tra di essi, secondo l’intenzione del­
l’autore vorrebbe “facilitare” la lettura, in quanto più funzionale al­
l’apprendimento; dall’altro lato, una comprensione dell’opera vera­
mente adeguata all’ordine geometrico richiede non solo di seguire la
successione strettamente lineare degli argomenti, ma anche di abbrac­
ciare con lo sguardo della mente i suoi estremi. Il lettore non dovreb­
be mai dimenticare, infatti, di avere tra le mani un’opera filosofica che,
come Spinoza affermerà nello scolio della proposizione 36 della V Par­
te, intende condurlo fino al punto di conoscere chiaramente «in che
cosa la nostra salvezza, ossia beatitudine, ovvero libertà consista», e ad
assumere una regola pratica di vita confacente a tale conoscenza.
Per poter conoscere in cosa consiste la nostra libertà e, grazie a
ciò, indicare le vie praticabili per la nostra emancipazione (V Parte), è
indispensabile indagare a fondo la condizione umana e soprattutto co­
sa tiene schiavo l’uomo impedendogli d’esercitare la propria azione
(IV Parte), ma per fare questo si deve anzitutto descrivere la natura af­
fettiva dell’uomo, dando ragione di ciò che in lui determina e distin­
gue attività e passività (III Parte), il che a sua volta richiede di posse­
dere un’adeguata concezione di cos’è l’uomo, ovvero quale sia la natu­
ra e l’origine della mente e quale sia la sua relazione col corpo (II Par­
te) e, tuttavia, non è possibile capire cos’è l’uomo se si prescinde da
una conoscenza generale della natura delle cose e di ciò che ne è la
causa unica e necessaria, cioè Dio (I Parte). Da queste poche battute -
nelle quali ho cercato di ripercorrere a ritroso l’itinerario dell’Etica22 -
è possibile intuire quantomeno la profonda coerenza interna dell’ope­
ra, che pertanto non va semplicemente letta una proposizione dopo
l’altra, quasi fosse una stratificazione nella quale elementi tra loro indi-
pendenti vengono fatti “poggiare” uno sopra l’altro. E del tutto evi­
dente, a una lettura sufficientemente critica del testo, che Spinoza pre­
para e, difatti anche, presuppone, sin dalle primissime fasi, contenuti
che spiegherà e chiarirà solo nel prosieguo dell’opera.

22 Nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto, Spinoza parte dalla propria situa­


zione esistenziale per affermare che la felicità dipende da una certa conoscenza, la quale
dipende a sua volta da una corretta comprensione di noi stessi all’interno dell’ordine na­
turale, ovvero ultimamente da Dio; cf. P.-F. MOREAU, Spinoza. Lexpérience et l’éternité,
Presses Universitaires de France, Paris 1994; N a d le r , Spinoza’s Ethics, cit., 52-53.
96 Sistemi filosofici moderni

Per lungo tempo, i lettori dell 'Etica, fermandosi alla lettura della
sola I Parte, hanno compreso l’insieme dell’opera come se fosse nul-
l’altro che un puro trattato di metafisica23. In effetti, la prospettiva top-
down che l’opera induce nel lettore sembra ridurre l’intero contenuto
a ciò che costui incontra immediatamente, cioè a Dio. E vero che se si
prescinde da quanto dimostrato nella I Parte, le seguenti mancano di
ogni fondamento argomentativo; ed è anche vero che i rimandi interni
al testo sono per lo più all’indietro, ovvero a ciò che è stato già dimo­
strato. E tuttavia, se ci limitassimo alla I Parte dell 'Etica, ovvero a sta­
bilire ciò che Dio è e fa, la domanda sorgerebbe spontanea: ma tutto
ciò, cosa ha a che fare con noi? Inoltre, tutto ciò che lì è pensato e det­
to su Dio, come è stato possibile pensarlo e dirlo? ovvero, quale rela­
zione sussiste tra la nostra intelligenza e Dio, tale da renderci in grado
di affermare tutto ciò? E perché, anche se magari comprendiamo e sia­
mo persino convinti della verità di tale dottrina su Dio, continuiamo a
vivere e a comportarci come se la ignorassimo del tutto? Queste e altre
domande mostrano quanto sia insufficiente leggere l'Etica come se fos­
se un’opera metafisica non solo nel suo oggetto ma nella sua stessa for­
ma: dotata di un inizio assoluto, totalmente autofondante. Quasi essa
non fosse stata scritta da un’intelligenza umana, ma fosse frutto di una
sorta di “autorivelazione” ontologica.

23 Nel giugno del 1678, sei mesi dopo la pubblicazione degli Opera posthuma,
un decreto degli Stati generali vietò nelle province d’Olanda YEtica e le altre opere di
Spinoza. L’accusa di ateismo, che aveva perseguitato l’autore già in vita, si abbatté sul­
l’insieme delle sue opere e persino sulla filosofia ritenuta alla base di tale pensiero, quel­
la di Descartes. Essere “spinozista” era divenuta un’accusa infamante. Da lì in avanti
YEtica divenne di fatto un’opera clandestina e il pensiero di Spinoza fu noto ai più tra­
mite soprattutto il lungo articolo che P. Bayle gli aveva dedicato nel suo Dictionnaire hi-
storique et critique (1697), coniando la celeberrima definizione di «ateo virtuoso». Tutta­
via, nel 1785, con la pubblicazione del volume Sulla dottrina di Spinoza in lettere al Si­
gnor Moses Mendelssohn, F.H. Jacobi offrì un’esposizione del sistema spinoziano, che
suscitò nella filosofia e nella letteratura tedesca un notevole clamore - sfociato nel
Pantheismusstreit (controversia sul panteismo) - ma anche una sua vera “rinascita”, ca­
pace di esercitare un profondo influsso su filosofi come Fichte, Schelling, Hegel e Scho­
penhauer. Sulla scia di questo dibattito, nel 1802-03 le opere di Spinoza furono ripub­
blicate a Jena. Cf. H. Han-D ing, Spinoza und die deutsche Philosophie. XJntersuchung
zur metaphysischen Wirkungsgeschichte des Spinozismus in Deutschland, Scientia, Aalen
1989; P.-F. MOREAU, Spinozas reception and influence, in D. Garrett (ed.), The Cambrid­
ge Companion to Spinoza, Cambridge University Press, Cambridge 1996, 408-433; Id.,
Spinoza et le spinozisme, Presses Universitaires de France, Paris 20072, 109-124; F. Ml-
GNINI, Introduzione a Spinoza, Laterza, Roma-Bari 2006, 173-208; E. SCRIBANO, Guida
alla lettura dell'Etica di Spinoza, Laterza, Roma-Bari 2008, 164-176.
L'Etica di Spinoza 97

L’Etica, invece, è come quei racconti gialli che si capiscono solo


quando si arriva all’ultima pagina. In questo caso, solo quando si co­
glie l’intima relazione che collega la fine, la nostra libertà, all’inizio,
Dio. Anzi - io ritengo - il suo senso sta tutto nel dimostrare quale rela­
zione c’è tra noi, qui e ora, e l’infinito Dio, nella sua eternità. Ecco
perché la lettura dellyEtica solo apparentemente sembra procedere da
un massimo di infinita ricchezza, Dio, verso l’insignificanza di una si­
tuazione finita e contingente, noi. Al contrario, il suo dispiegarsi argo­
mentativo si avvicina sempre di più al suo fulcro problematico centra­
le, con un progresso continuo nel quale ogni nuovo passaggio arricchi­
sce i precedenti. Tale contenuto speculativo centrale è la nostra libertà.
Ciò che la circonda di senso è Dio, nella sua eternità.
98 Sistemi filosofici moderni

£□ Edizioni e traduzioni dell'Etìlica


UEthica, ordine geometrico demonstrata, dopo l’edizione del 1677 negli
Opera posthuma (abbreviata con la sigla OP), che è e rimane a tutt’oggi Yeditio
princeps del testo, venne ripubblicata da H.E.G. Paulus nel 1802-03, in una ver­
sione identica alla precedente, anche negli errori. Solo con l’edizione di J. van
Vloten e J.P.N. Land, del 1882-83, il testo fu emendato e corredato di un minimo
apparato. Bisognerà attendere il 1925, affinché C. Gebhardt dia alla luce la pri­
ma edizione critica deWEthica, nel volume II degli Spinoza Opera (abbreviazione
G), inficiata però dalla convinzione del curatore che Spinoza stesso avesse tra­
dotto la versione nederlandese del 1677 pubblicata nei Nagelate Schriften. Nono­
stante i molti difetti, G è divenuta l’edizione di riferimento sino ai nostri giorni.
L’unica traduzione italiana completa delle opere di Spinoza, con tutti i
testi originali a fronte e l’indicazione della paginazione G al margine, è attual­
mente: Tutte le opere, a cura di A. SANGIACOMO, Bompiani, Milano 2010 (ab­
breviazione OS). La traduzione italiana ddìEthica più diffusa è quella di
G. Durante del 1963. Questa compare oggi in almeno tre diverse edizioni con
il testo latino G a fronte: Neri Pozza, Vicenza 2006; Bompiani, Milano 2007;
OS: 1141-1607. Tra le altre traduzioni italiane, merita di essere segnalata quel­
la di E Mignini, assai affidabile ma priva del latino a fronte, in Opere, Monda-
dori, Milano 2007. Di pari valore, ma posta a fronte del testo latino rivisto, è
quella di Cristofolini: Etica, edizione critica del testo latino e traduzione italia­
na a cura di P. CRISTOFOLINI, Edizioni ETS, Pisa 2010. Sia per il testo latino
delYEthica che per la traduzione italiana io mi rifarò sempre all’edizione di
Cristofolini, segnalando in nota eventuali modifiche.
I rimandi alle opere di Spinoza saranno indicati secondo l’edizione G
seguita dal numero del volume e dalla pagina; per le traduzioni mi baserò su
OS. Per brevità, i rimandi all’Etica (E) saranno indicati con le sottostanti ab­
breviazioni, seguite dai relativi numeri (es. E3p27c2 = secondo corollario della
ventisettesima proposizione della III Parte dell Etica). Tutti i rimandi interni
indicati da Spinoza nel corpo del testo, in corsivo tra parentesi, saranno ab­
breviati e mantenuti in corsivo tra parentesi: es. «hoc est {per Prop. 30 p. 4)»
diventa «ossia (E4p30)».
axioma / assioma: a
affectuum definitio / definizione affetti: ad
appendix / appendice: ap
corollarium / corollario: c
definitio / definizione: d
demonstratio / dimostrazione: dem
explicatio / spiegazione: e
lemma / lemma: 1
propositio / proposizione: p
postulatum / postulato: post
praefatio / prefazione: praef
scholium / scolio: s
L'Etica di Spinoza 99

1. Nozioni prime
La I Parte dell’E x ha, in breve, la seguente struttura: inizia
dando 8 definizioni e 7 assiomi, in base a questi dimostra 36 proposi­
zioni - divisibili in due grandi sviluppi successivi: da 1-15 quelle che
trattano di tutte le cose che «sono in Dio {in Deo sunt)», da 16-36
quelle che trattano di tutte le cose che «da Dio dipendono {a Deo de-
pendent)»24 - e si conclude infine con una lunga Appendice, dedicata a
smascherare la falsità del pregiudizio teleologico.
Le prime otto definizioni sono di estrema importanza, non solo
perché costituiscono la base speculativa originaria del sistema, ma so­
prattutto perché contengono in nuce l’itinerario complessivo del De
Deo23. Queste definizioni - delle quali, in questo caso particolare, pre­
ferisco riportare il testo - vanno lette secondo quattro blocchi succes­
sivi, dei quali il primo comprende Eldl-2:
1. Per causa di sé intendo ciò la cui essenza implica l’esistenza; ossia ciò
la cui natura non può esser concepita se non come esistente.
2. Si dice finita nel suo genere quella cosa che può essere delimitata da
un’altra della medesima natura. Per esempio, un corpo è detto finito, perché
ne concepiamo un altro sempre maggiore. Del pari, un pensiero è delimitato
da un altro pensiero. Ma un corpo non è delimitato da un pensiero, né un
pensiero da un corpo26.

Non è un caso che la prima nozione delYEtica riguardi proprio


la causalità, tutto il sistema filosofico in essa dispiegato, sia dal punto
di vista del contenuto che della forma, non è altro che l’assunzione ra­
dicale di un’idea antica come la filosofia, ovverosia che la scienza è sci-
re per causas, ossia conoscere le cause o ragioni delle cose. In E Idi la
causalità non è però il riferirsi di una cosa a un’altra27, bensì a se stessa:

24 «M a tutte le cose, che sono, sono in Dio {At omnia, quae sunt, in Deo sunt) e
da Dio dipendono a tal punto {et a Deo ita dependent), che senza di esso non possono
essere, né essere concepite {ut sine ipso nec esse, nec concipipotest)» (Elp28s). È in base
a questo testo cruciale che la I Parte dell'Etica può essere divisa in due grandi sviluppi
successivi, cf. MACHEREY, Introduction à /'Éthique, cit., I, 23-24.
25 Cf. GUEROULT, Spinoza. I. Dieu, cit., 83-84.
26 «1. Per causam sui intelligo id, cujus essentia involvit existentiam; sive id,
cujus natura non potest concipi, nisi existens. 2. Ea res dicitur in suo genere finita, quae
alia ejusdem naturae terminari potest. Ex. gr. corpus dicitur finitum, quia aliud semper
majus concipimus. Sic cogitatio alia cogitatione terminatur. At corpus non terminatur
cogitatione, nec cogitatio corpore» (E ldl-2).
27 «Quando si ricerca il perché delle cose, si ricerca sempre perché qualcosa ap­
partiene a qualcos’altro» {Metaph., Z ìi, 1041a 10-11 [trad. it., ARISTOTELE, Metafisica, a
cura di G. REALE, 3 voli., Vita e Pensiero, Milano 1993, II, 361]).
100 Sistemi filosofici moderni

«causa di sé (causa sui)». Sulla scia delle Meditazioni di Descartes28,


Spinoza assume il senso positivo della causa sur. un qualcosa (id) il cui
essere (essentia; natura) consiste nel porre necessariamente (involvit\
non potest concipi nisi) la propria esistenza attuale (existentia\ exi-
stens). Affinché tale necessaria posizione d’esistenza si dia, la sola nega­
zione di una causa esterna non è sufficiente. Bisogna, anzi, che l’esclu­
sività della negazione venga assunta pienamente dalla posizione d’esi­
stenza, in modo tale da ottenere un’affermazione assoluta di esistenza.
Dire causa sui significa dire un qualcosa che ha in se stesso tutto il pro­
prio perché e che è già piena realizzazione di tutto ciò che è nella sua
natura. In tal senso nessuna causa, nessuna ragione giace fuori di esso,
e neppure in esso vi è alcuna potenzialità da realizzare, perché la sua
natura consiste proprio nell’essere tutto ciò che è. Perciò, la definizio­
ne di causa sui è anche definizione di assoluto o infinito, nel senso di
ciò rispetto al quale nulla manca o fuoriesce e nemmeno è in fieri.
Questo aspetto è ulteriormente confermato dal fatto che la defini­
zione immediatamente seguente è quella di «cosa finita nel suo genere»;
infatti, finito è contrario di infinito; nel suo genere è contrario di in asso­
luto. Dunque, all’opposto della causa sui, il finito è semplicemente ciò
che per definizione ha la sua causa fuori di sé. Ecco perché Spinoza di­
ce che ciò che definisce la cosa finita è propriamente il suo poter essere
de-limitata (terminari) da un’altra cosa finita che appartiene allo stesso
genere: un corpo - secondo l’esempio usato da Spinoza - cioè un qual­
cosa che si estende nello spazio, termina ovvero si estende fino al limite
in cui inizia l’estensione di un altro corpo; e viceversa. Tutto l’ambito
delle cose finite è dunque caratterizzato dalla negatività ovvero - secon­
do un’espressione diventata poi una nota divisa spinoziana - «la deter­
minazione è negazione (determinalo negatio est)»29. Tuttavia, affinché
tale negazione reciproca sia possibile, è indispensabile che i termini che
si negano siano entrambi già posti affermativamente all’interno di un

28 Supra, 53-54.
29 A Jarig Jellesz, 2 giugno 1674 «Quanto al fatto che la figura sia una negazione
e non già qualcosa di positivo, è evidente ché l’intera materia, considerata indefinita­
mente, non può avere alcuna figura e che la figura può aver luogo soltanto nei corpi fini­
ti e limitati. [...] Poiché dunque la figura non è altro che la determinazione, e la deter­
minazione è negazione, [la figura] non potrà essere altro, come ho detto, che una nega­
zione» (Ep. 50 in G IV: 240 [OS: 2077]). Sarà poi Hegel a consacrare tale idea con la
nota formula: omis determinatici est negatio-, cf. Y.Y. MELAMED, «Omnis determinatio est
negatio»: determination, negation, and self-negation in Spinoza, Kant, and Hegel, in E.
F ò RSTER - Y.Y. M elam ed (edd.), Spinoza and German Idealism, Cambridge University
Press, Cambridge 2012, 175-196.
L'Etica di Spinoza 101

medesimo orizzonte comune, cioè che appartengano al medesimo gene­


re di realtà. Questo perché, come stabiliranno immediatamente Ela4-5
ed Elp3, un effetto non può derivare da una causa con la quale non ha
nulla in comune. Perciò - con una conseguenza che sarà importantissi­
ma ai fini dell’intero sistema - realtà appartenenti a generi diversi non
possono negarsi né affermarsi tra di loro.
Il secondo blocco di definizioni è formato dalle tre seguenti
(Eld3-5), nelle quali Spinoza stabilisce gli elementi basilari della sua
ontologia30: sostanza, attributo e modo.
3. Per sostanza intendo ciò che è in sé e che per sé si concepisce: ossia
ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa da cui si debba
formare.
4. Per attributo intendo ciò che l’intelletto percepisce della sostanza in
quanto costitutivo della sua essenza.
J. Per modo intendo le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro,
tramite il quale anche si concepisce31.

Alla domanda su quale sia l’idea chiave della I Parte delYEtica, la


maggior parte degli studiosi risponderebbe senza esitazione: la sostan­
za. Un termine filosofico che ha una lunghissima storia e che ancora
oggi fa discutere32. Si legge sovente che quella qui data sia «la tradizio­
nale definizione aristotelica»33. Non è esatto. Anzitutto bisogna dire
che Aristotele non ha mai dato la definizione della sostanza, bensì ha
trattato della ousia a più riprese e sotto diversi aspetti34, giungendo a

30 Puntuale la spiegazione di V. VlLJANEN, Spinoza’s ontology, in KoiSTINEN


(ed.), The Cambridge Companion to Spinoza s Ethics, cit., 56-71; altrimenti cf. G u e -
ROULT, Spinoza. I. Dieu, cit., 44-67; MACHEREY, Introduction à /'Éthique, cit., I, 37-45;
NADLER, Spinoza s Ethics, cit., 53-59.
31 «3. Per substantiam intelligo id, quod in se est, et per se concipitur: hoc est
id, cujus conceptus non indiget conceptu alterius rei, a quo formari debeat. 4. Per attri-
butum intelligo id, quod intellectus de substantia percipit, tanquam eiusdem essentiam
constituens. 5. Per modum intelligo substantias affectiones, sive id quod in alio est, per
quod edam concipitur» (Eld3-5).
32 Per farsi un’idea della complessa storia del termine, cf. il lungo lemma «Sub-
stanz; Substanz/Akzidens», in J. RlTTER - K. GRUNDER (edd.), Historisches Wòrterbuch der
Philosophie, 13 voli., Schwabe, Stuttgart 1971-2007, X, 496-553; o il più breve, D. S ac -
CHI, Sostanza, in Enciclopedia filosofica, 12 voli., Bompiani, Milano 2010, 10886-10894;
per il dibattito contemporaneo sul tema, cf. K. TRETTIN (ed.), Substanz. Neue Uberlegun-
gen zu einer klassischen Kategorie des Seienden, Klostermann, Frankfurt a.M. 2005.
33 MlGNlNl, L'Etica di Spinoza, cit., 42.
34 «L a sostanza (ovaia) viene intesa, se non in più, almeno in quattro significati
principali: infatti, si ritiene che sostanza di ciascuna cosa sia l’essenza (xò t l f|v eivcu),
l’universale (xaBóXou), il genere (yévog) e, in quarto luogo, il sostrato (i)Ji0X8i|X8V0v)»
{Metaph., 72, 1028b 33-36 [trad. it., cit., 291]).
102 Sistemi filosofici moderni

due conclusioni principali: (a) «Sostanza è quella detta nel senso più
proprio e in senso primario e principalmente, la quale né si dice di
qualche soggetto né è in qualche soggetto: ad esempio, un certo uomo
o un certo cavallo»35 (es. il predicato ‘bianco’ è in Socrate e ‘uomo’ si
dice di Socrate); (b) sostanza prima è la forma di una certa materia (es.
per Socrate è la sua anima, in quanto forma del corpo, a essere causa
dell’essere Socrate)36. Aristotele giunge alla prima conclusione nelle
Categorie, ovvero nel contesto dello studio della predicazione, dove
Yousia viene fatta precipitare verso Yhupokeimenon, cioè verso ciò che
sostiene tutte le proprietà. Egli giunge poi alla seconda conclusione nel
libro Z della Metafisica, perché consapevole dell’insufficienza dello
sguardo meramente predicativo e deciso ad andare oltre, alla ricerca
della causa dell’essere37, che trova infine nella forma individua di una
certa materia. In entrambi i casi - dobbiamo notare - la sostanza è de­
finita nella sua relazione con gli accidenti o la materia, e questo signifi­
ca che per sostanza non si intende affatto un qualcosa di perfettamen­
te completo e a se stante, sul quale verrebbero a cadere determinate
proprietà rispetto alle quali esso resterebbe del tutto indifferente, ben­
sì una relazione di sostanzialità (es. l’anima di Socrate è forma di quel
particolare corpo materiale che è il corpo di Socrate). Per Aristotele,
dunque, sostanza e accidenti sono entrambi principi che nella loro cor­
relazione spiegano perché le cose, che sono, sono ciò che sono.
Nei Principia philosophiae Descartes definisce, invece, la sostan­
za come un tutto a se stante, in sé e per sé: «Per sostanza non possia­
mo intendere altro se non una cosa che esiste di maniera tale da non
aver bisogno di alcun’altra cosa per esistere (nulla alia re indigeat ad
existendum)»^*. Da ciò egli deve immediatamente concludere che: «c’è
certo un’unica sostanza che può essere intesa come tale da non aver
bisogno di alcun’altra cosa, Dio». Con la conseguenza che Descartes è

35 Cat.y 5, 2a 11-14 (trad. it., ARISTOTELE, Le categorie, a cura di M. ZANATTA,


Rizzoli, Milano 1989, 305).
36 Cf. E. BERTI, Il concetto di 'sostanza prima’ nel libro Z della Metafisica, in Id.,
Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima, Bompiani, Milano 2004, 529-549; mi sono
interessato di questi temi in S. D ’AGOSTINO, Alla ricerca della sostanza prima, in «Grego-
rianum» 91 (2010), 725-739.
37 «Si è ora detto in sintesi che cos’è la sostanza: essa è ciò che non viene predica­
to di alcun sostrato (xjjtoxsiixévo'u), ma è ciò di cui tutto il resto viene predicato. Tuttavia
la sostanza non si deve caratterizzare solamente in questo modo, perché così non basta»
(.Metaph., Z 3, 1029a 7-10 [trad. it. cit., II, 293]); sulla polivocità della concezione aristote­
lica della sostanza, cf. il V capitolo del Saggio introduttivo di G. REALE, ivi, I, 111-138.
38 Principia, I, art. 51 (AT V ili: 24 [OB I: 1745]); supra, 48.
L'Etica di Spinoza 103

poi costretto a lambiccarsi per riuscire a estendere la dignità di sostan­


za anche ad altro alTinfuori di Dio39. Spinoza riprende la definizione
cartesiana di sostanza, specificando gli ambiti di assolutezza che la ca­
ratterizzano: (a) l’essere in sé, non in altro; (b) l’essere concepito per
sé, ovvero non ricevere da qualcosa di altro da sé la propria ragione o
causa. Ma soprattutto lega intimamente questi due aspetti tra di loro,
componendo una definizione serratissima di sostanza. Infatti, un con­
to è la differenza tra ciò che è in sé (es. un certo uomo, un certo caval­
lo) rispetto a ciò che è in altro (es. un certo bianco, una certa altezza);
un conto è l’essere da altro, ovvero avere in parte o in tutto la propria
causa fuori di sé (es. il figlio da suo padre, i viventi dal sole). Spinoza,
specificando che la sostanza non solo deve essere in sé ma anche con­
cepita per sé, fa in modo tale che la sua definizione comprenda non so­
lo la inseità ma anche la aseità. Di conseguenza, concepisce la sostanza
- già nella sua definizione - come un assoluto, ovvero come causa sui.
Esattamente opposta alla definizione di sostanza è quella di mo­
do. Con questo termine40 si intende ciò che è in altro da sé ed è conce­
pito da altro da sé. Anche se qui Spinoza non lo dice, risulta chiara­
mente che il modo per poter essere ha bisogno dell’essere di una so­
stanza, e per poter essere concepito ha bisogno della concezione che si
ha di una qualche sostanza. Tale concezione Spinoza chiama attributo.
Per attributo di una sostanza si intende la sua essenza, ovvero quella
certa natura di un qualcosa rispetto alla quale tutte le singole proprietà
di esso altro non sono se non sue determinate manifestazioni41. Ad
esempio, il pensiero è attributo di quella sostanza di cui i singoli pen­
sieri sono sue espressioni determinate; l’estensione è attributo di quel­
la sostanza di cui quella particolare figura è una sua proprietà. Perciò,
l’attributo esprime ciò che costituisce un qualcosa in se stesso, mentre
la proprietà è ciò che appartiene a qualcosa in quanto esso possiede

39 Per Tommaso d’Aquino, Dio non può essere propriamente detto sostanza,
perché in lui non vi sono accidenti, cf. STh I, q. 29, a. 3.
40 Talvolta Spinoza usa i termini ?nodificazione o affezione come sinonimi di mo­
do, mentre accidente è usato, quasi sempre, nell’espressione avverbiale per accidente vs
per sé o per natura. Per non rendere la vita troppo complicata al lettore alle prime armi,
non tratterò della questione, assai complessa, dei modi infiniti, mediati e immediati, cf.
E. GlANCOTTI, On thè problem o f infinite modes, in Y. Y o vel (ed.), God and Nature.
Spinoza s Metaphysics, Brill, Leiden 1991, 97-118; N a dler , Spinoza s Ethics, cit., 87-98.
41 Secondo quanto Descartes afferma nei Principia I, art. 53: «È ben vero che
una sostanza è conosciuta a partire da un qualunque suo attributo; ma tuttavia ogni so­
stanza ha una sola proprietà principale, che costituisce la sua essenza o natura, e alla
quale si rapportano tutte le altre sue proprietà» (AT V ili: 25 [OB I: 1747]).
104 Sistemi filosofici moderni

quella certa essenza, ovvero è ciò che è. Nella sua definizione Spinoza
riferisce l’attributo alla «percezione» che l’intelletto ha della sostanza.
Questo aspetto ha acceso un dibattito circa il ruolo da attribuire
a tale percezione, in quanto sono possibili almeno due posizioni, una
più “soggettivista”, l’altra più “oggettivista”: (a) la sostanza è di per sé
neutra e indifferente, perciò l’attributo dipende solo dalla percezione
che l’intelletto ha di essa e non è in sé qualcosa di reale; (b) l’attributo
è percezione immediata della sostanza, perciò non si dà mai alcuna
concezione di essa prescindendo dall’attributo, il quale possiede per­
tanto un proprio valore ontologico. Senza entrare nei dettagli di que­
sto annoso dibattito42, si può dire che la soluzione più equilibrata sem­
bra essere quella che comprende entrambe le posizioni: la sostanza è
l’identica unità d’esistenza degli attributi che si esprime simultanea­
mente in ciascuno di essi. Dal canto suo, l’intelletto, in quanto incapa­
ce di comprendere tale infinita simultaneità attributiva, coglie la so­
stanza sempre sotto un determinato attributo. L’infinità degli attributi
emerge più chiaramente solo con la definizione sesta:
6. Intendo Dio come ente assolutamente infinito, ossia sostanza che
sta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un’essenza eterna e infinita43.

La definizione di Dio non è la prima ad apparire nel De Deo


giacché la sua formulazione richiede le altre definizioni per poter esse­
re costruita. In essa ritroviamo tutte definizioni precedenti: infinito
(Eldl), sostanza (Eld3), attributo (Eld4), nonché indirettamente le
definizioni a queste opposte. Secondo Eld6, Dio è assoluta positività,
ovvero è privo di negatività sotto ogni possibile aspetto: (a) quanto alla
sua esistenza, in quanto è sostanza infinita priva di qualunque altra so­
stanza fuori di sé che la possa negare o delimitare; (b) quanto alla sua
concezione, in quanto consta di infiniti attributi, senza che alcuno di
essi rimanga al di fuori; (c) quanto alla sua costituzione