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Simone D’Agostino

Sistemi filosofici moderni


Descartes, Spinoza, Locke, Hume
www. edizioniet s.com

Volume pubblicato con un contributo della Facoltà di Filosofia


della Pontificia Università Gregoriana, Roma.

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ISBN 978-884673721-2
IN TR O D U ZIO N E

La prima Regola, secondo Descartes, è che «Il fine degli studi


deve essere la direzione dell’ingegno nel portare giudizi solidi e veri su
tutto ciò che si presenta»1. A un primo sguardo, sembra essere una
prescrizione tanto ovvia quanto innocua: studiare serve a conoscere
scientificamente ogni cosa. Tuttavia, sin dalle prime righe del commen­
to che il filosofo offre a tale Regola, si scopre che essa solleva in realtà
un problema di non poco conto. Che cos’è la scienza? Descartes ci fa
notare anzitutto una consuetudine erronea: quando gli uomini ritengo­
no che due cose si somigliano, tendono ad attribuire indifferentemente
prerogative dell’una all’altra. Accade così anche nella somiglianza tra
scienze e arti. Sebbene esse siano formalmente differenti tra loro, dato
che le scienze «consistono interamente in una conoscenza dell’animo
{animi cognitione)», mentre le arti «ricercano un qualche uso e disposi­
zione del corpo (corporis usum habitumque)», si tende a trattare le pri­
me alla stessa stregua delle seconde. Infatti, constatando che nelle arti
si diventa tanto più abili quanto più se ne pratica una sola, si è indotti a
pensare che ciò debba valere anche per le scienze. Pertanto, si ritiene
che le scienze vadano «distinte le une dalle altre secondo la diversità
degli oggetti»2, e che sia quindi più fruttuoso coltivarle ciascuna per sé,
trascurando le altre. Ma questo è un inganno. In verità, ribatte Descar­
tes, «tutte le scienze non sono altro che l’umana sapienza, che resta
sempre unica e medesima per quanto applicata a differenti soggetti».
Le Regulae ad directionem ingenti, redatte negli anni Venti del
’600 allo scopo di stabilire un metodo universale nelle scienze, hanno
come loro interlocutore principale Aristotele. Ciò è ben evidente sin
dalla prima Regola, come ha ampiamente mostrato J.-L. Marion3. L’in­

1 AT X: 359 (trad. it., R. D escartes , Regole per la direzione dell’ingegno, in Id.,


Opere postume. 1630-2009, a cura di G. BELGIOIOSO, Bompiani, Milano 2009, 685).
2 AT X: 360 (trad. it., cit., 685).
3 J.-L. MARION, Sur l’ontologie grise de Descartes. Science cartésienne et savoir
aristotélicien dans les Regulae, Vrin, Paris 19923, 25-34.
8 Sistemi filosofici moderni

dipendenza degli ambiti scientifici è, notoriamente, uno dei capisaldi


dell’epistemologia aristotelica e, di conseguenza, anche di larga parte di
quella scolastica d’impronta peripatetica contro la quale Descartes indi­
rizza la sua riforma del sapere. Negli Analitici posteriori Aristotele so­
stiene: «Poiché nell’ambito di ciascun genere sussistono di necessità
tutte le cose che sussistono per sé e in quanto [nell’ambito di] ciascu­
no, è evidente che le dimostrazioni scientifiche concernono le cose che
sussistono per sé e procedono da questo tipo di cose»4. La celebre con­
clusione che lo Stagirita trae da questa premessa è che «non è possibile
dimostrare passando da un altro genere (ex allou genous metabanta)»5.
Ciascuna scienza è delimitata dalle definizioni dei generi di enti che ha
in oggetto, dai quali desume principi a essa propri, i quali non possono
né essere assunti dai principi di un’altra scienza, né dimostrarli in alcun
modo. Nello stabilire questo assunto epistemologico di base, Aristotele
si opponeva alla tendenza platonizzante che mirava a una scienza uni­
versale unica, capace di dimostrare i principi di tutte le altre scienze.
Pertanto, egli giungeva a escludere nettamente la possibilità di «dimo­
strare i principi propri di ciascuna cosa: infatti essi saranno principi di
tutte le cose, e la scienza di essi superiore a tutte»6. Al contrario, non è
un caso che, per descrivere meglio la natura indivisa della scienza nella
sua indipendenza dai generi di oggetti ai quali si rivolge, nel commento
alla prima Regola Descartes proponga una metafora che evoca proprio
quella utilizzata da Platone nel libro VI della Repubblica: l’umana sa­
pienza non riceve dai suoi oggetti «una maggiore distinzione di quella
che la luce del Sole riceve dalla varietà delle cose che illumina»7.
Nonostante il divieto posto da Aristotele, il fascino esercitato
dall’ideale di trovare una scienza superiore a tutte attrasse molti dei
suoi commentatori antichi e medievali, da Temistio ad Averroè, da Al­
berto Magno a Tommaso d’Aquino, sfociando infine, con l’epoca Ri­
nascimentale, in un vero e proprio rovesciamento di prospettiva. Il
commento dell’aristotelico padovano Giacomo Zabarella agli Analitici
posteriori di Aristotele, pubblicato nel 1582, reinterpreta il passo ari­
stotelico appena succitato in una chiave assai illuminante. Come
E. Berti ha attentamente documentato8, Zabarella non aveva difficoltà

4 Anal. Post., I 6, 75a 28-31 (traci, it., ARISTOTELE, Organon, a cura di M. Z a -


NATTA, 2 voli., Utet, Torino 1996, II, 23).
5 Anal. Post., 1 7, 75a 38 (trad. it., cit., II, 24).
6 Anal. Post., I 9, 76a 16-18 (trad. it., cit., II, 27).
7 AT X: 360 (trad. it., cit., 685).
8 E. BERTI, Metafisica e dialettica nel Commento di Giacomo Zabarella agli
Introduzione 9

nelTidentificare in quella «scienza superiore a tutte» la metafisica, in­


tesa come la scienza divina che contempla i principi primi di tutte le
cose. Il filosofo padovano non faceva altro che far convergere due
aspirazioni di lungo corso: da un lato, la tendenza neoplatonizzante
presente nella maggior parte dei commentatori, i quali si sforzavano di
armonizzare Platone e Aristotele; dall’altro lato, la tendenza impressa
dalla riflessione teologica di vedere nella metafisica la «madre e signo­
ra» di tutte le altre scienze. Così, Zabarella, tradendo il dettato aristo­
telico, si spingeva fino a ritenere che «la metafisica è in grado di dimo­
strare i principi propri delle altre scienze, sia pure non all’interno di
queste ultime, ma per così dire, per conto proprio, cioè al proprio in­
terno, partendo dai propri principi (e dunque mediante una dimostra­
zione a priori)»9. Secondo Berti, questa impostazione gettava le pre­
messe del modello cartesiano della filosofia, nel quale essa è raffigura­
bile «come un albero, le cui radici sono la metafisica, il tronco è la fisi­
ca e i rami che escono da questo tronco sono tutte le altre scienze»10.
Pochi anni più tardi, un altro grande commentatore di Aristotele
pubblicava l’opera che, forse, più di ogni altra ha segnato la transizio­
ne alla filosofia dell’epoca moderna. Nel 1597 vedono la luce le Dispu-
tationes metaphysicae del gesuita Francisco Suàrez. Nel suo magistrale
saggio incentrato attorno a quest’opera, J.-F. Courtine ha evidenziato
come Suàrez abbia volutamente lasciato alle sue spalle la forma classi­
ca del commentario alla Metafisica libro per libro e questione per que­
stione, che vincolava l’indagine alla scansione prestabilita del testo,
per intraprendere la via ben più ardua e innovativa del trattato auto­
nomo di metafisica, che invece smonta e rimonta daccapo l’intero im­
pianto dell’opera aristotelica originaria11. Tra le ragioni che mossero
l’ex professore del Collegio Romano a questa storica svolta, c’erano
anche le coordinate pedagogiche della Compagnia di Gesù. Ignazio di
Loyola e quasi tutti i suoi primi compagni erano magistri in filosofia,
formatisi alla Sorbona secondo il cosiddetto modus parisiensis. Questo
evento ebbe di certo influsso sulle Costituzioni e sulla successiva Ratio

Analitici posteriori, in Id., Nuovi studi aristotelici, 4 voli., Morcelliana, Brescia 2004-
2010, IV/1, 239-254.
9 BERTI, Metafisica e dialettica nel Commento di Giacomo Zabarella, cit., 242.
10 AT IX/2: 14 (trad. it., R. DESCARTES, Principi della filosofia, in Id., Opere.
1637-1649, a cura di G. BELGIOIOSO, Bompiani, Milano 2009,2231).
11 J.-F. COURTINE, Suarez et le systèrne de la métaphysique, Presses Universitaires
de France, Paris 1990 (trad. it., Il sistema della metafisica. Tradizione aristotelica e svolta
di Suàrez, a cura di C. ESPOSITO, Vita e Pensiero, Milano 1999).
10 Sistemi filosofici moderni

studiorum, che venne pubblicata in forma definitiva nel 1599. In effet­


ti, per la formazione dei futuri gesuiti erano previsti tre anni d’inten­
sissimo studio della filosofia, nei quali era data l’indicazione di «segui­
re la dottrina di Aristotele»12.
In conseguenza di ciò, si comprende meglio perché Suàrez, nel
rivolgersi Al lettore all’inizio delle Disputationes, giustifichi la novità
della sua impresa così: «Ho sempre pensato che la capacità d’intende­
re e di penetrare una cosa risieda in gran parte nel metodo d’indagine
e di valutazione ad essa conveniente, metodo che potrei seguire solo a
stento, o per nulla affatto, se trattassi tutte le questioni incidentalmen­
te e quasi a caso (obiter et veluti casu), così come si prè^entano in rife­
rimento al testo del Filosofo»13. Insomma, per meglio seguire Aristote­
le è meglio non seguire Aristotele. Infatti, se si rimane legati alla se­
quenza dei libri della Metafisica - come ad esempio in quegli stessi an­
ni avrebbe fatto in modo esemplare il gesuita Pedro da Fonseca14 - si
rischia di perdersi negli intricati percorsi diaporetici che attraversano
quel testo15. «Ho perciò reputato - continua Suàrez - che fosse più
funzionale e più utile, conservando l’ordine dottrinale (.servato doctri-
nae ordine), indagare e mettere davanti agli occhi del lettore tutto
quello che si poteva ricercare e studiare dell’intero oggetto di questa
sapienza». L’istanza pedagogica cede dunque il passo a una ragione
ben più cogente. Come giustamente fa notare Courtine, il vero obietti­
vo di Suàrez è quello di salvaguardare Yordo doctrinae: «quello che ci
verrebbe da chiamare un ordo pre-cartesiano, o quasi, nella misura in
cui decide anticipatamente delle res ipsae»16. Qui Courtine si riferisce
evidentemente a quell’ordine in cui, secondo le Regulae cartesiane,
consiste tutto il metodo17. Ordine che il metodo non mira a estrarre
dagli oggetti che vuole esaminare, quanto piuttosto a stabilire in essi18.

12 «Nella logica, nella filosofia naturale e morale e nella metafisica, si seguirà,


come anche nelle arti liberali, la dottrina di Aristotele» (Const. S.I., 473 [trad. it., Costi­
tuzioni della Compagnia di Gesù, a cura di G. SILVANO, Ancora, Milano 1969, 200]).
13 F. S uàrez , Disputazioni metafisiche, a cura di C. ESPOSITO, Bompiani, Milano
2007,55.
14 P. DA FONSECA, Commentariorum in Metaphysicorum Aristotelis libros, Co-
loniae 1615.
15 Cf. Metaph., B 1.
16 COURTINE, Suarez et le systèrne de la métaphysique, cit., 327 (trad. it., cit.,
277-278).
17 «Tutto il metodo consiste nell ordine e nella disposizione di ciò cui deve essere ri­
volto l’acume della mente per trovare una qualche verità» (AT X: 379 [trad. it., cit., 709]).
18 Cf. M a rio n , Sur Vontologie grise de Descartes, cit., 71-111.
Introduzione 11

Siamo così tornati al punto di partenza. Tuttavia, questo corto­


circuito tra un aristotelico tardo-scolastico come Suàrez e un filosofo
moderno anti-peripatetico come Descartes non deve poi stupirci più
di tanto. Anzitutto, perché da tempo abbiamo imparato che il proposi­
to dichiarato da molti filosofi moderni di costruire la loro filosofia fa­
cendo tabula rasa della tradizione precedente, soprattutto scolastica,
appartiene più al mito che alla realtà dei fatti19. Sia sufficiente ram­
mentare che la formazione filosofica del giovane Descartes avvenne
proprio in un collegio della Compagnia di Gesù, i cui professori si era­
no a loro volta formati sulle opere di Suàrez e più in generale su quei
manuali dei Coninbricenses, che conobbero una straordinaria e dura­
tura diffusione in gran parte dell’Europa, cattolica e riformata. Ma, so­
prattutto, perché Suàrez e Descartes appaiono in verità accomunati da
una ben più profonda istanza.
Tirando le somme del percorso fin qui tratteggiato, appare come
nel frangente tra tardo Rinascimento e prima modernità emerga una
tensione di fondo. L’idea che esista effettivamente una «scienza supe­
riore a tutte», la metafisica, i cui principi fungono da presupposto di
quelli di tutte le altre scienze; unita all’esigenza di svincolare questa
scienza dalla struttura diaporetica del testo aristotelico, per trattarla in
modo autonomo, privilegiando Yordo doctrinae\ sommata, infine, all’i­
dea che tale ordo non dipenda dagli oggetti ai quali tale scienza si ri­
volge, ma dall’umana sapienza in sé, la quale resta sempre unica e me­
desima; tutto ciò attesta la crescente tensione della filosofia verso un
modello di sapere scientifico unificato e totalizzante, ovverosia, secon­
do il termine che gli stessi moderni eleggeranno20, verso un sistema.
Quando si parla di sistema, nel senso moderno del termine, il
pensiero corre spontaneamente alla filosofia del XIX secolo e in par-
ticolar modo a quella di Hegel21. Nel suo recente saggio, in cui tenta
di rileggere la Scienza della logica hegeliana proprio alla luce dell’idea
di sistema, F. Chiereghin, indagando i presupposti immediati di una

19 Cf. É. GlLSON, Index scolastico-cartésien, Vrin, Paris 1913, 19792.


20 Classicamente si ritiene che l’uso moderno del termine sistema appaia nella
storia della filosofia nel 1695, con il Système nouveaux de la nature di Leibniz, ma Cour­
tine retrodata tale uso al 1604, con il suareziano Metaphysicae systerna methodicum di
Clemens Timpler; cf. COURTINE, Suarez et le système de la métaphysique, cit., 418-432
(trad. it., cit., 353-365).
21 Per uno sguardo complessivo, cf. R.-P. HORSTMANN, The unity of reason and
thè diversity oflife. The idea of a system in Kant and in nineteenth-century philosophy, in
A.W. WOOD (ed.), The Cambridge History of Philosophy in thè Nineteenth Century
(1790-1870), Cambridge University Press, Cambridge-New York 2012, 61-91.
12 Sistemi filosofici moderni

tale concezione, individua una «tensione verso il sistema che percorre


larga parte del pensiero moderno e che giunge al suo più alto grado
di consapevolezza in Kant»22. Sin dalla prima edizione della Critica
della ragion pura, infatti, non solo l’idea di sistema è definita esplicita­
mente, ma, soprattutto, emerge la concezione che la ragione, per sua
natura, tende a conferire una forma sistematica alla conoscenza stes­
sa. Scrive Kant: «Con sistema io intendo l’unità di molteplici cono­
scenze sotto un’idea. Quest’ultima è il concetto razionale della forma
di un tutto, in quanto mediante tale concetto viene determinata a
priori l’estensione del molteplice, come pure la collocazione delle
parti tra di loro»23. Detto in altri termini, c’è sistema quando le mol­
teplici parti di un insieme formano un tutto, tale per cui la determina­
zione e l’organizzazione delle parti non deriva da nessuna di esse sin­
golarmente e neppure dalla loro somma, bensì da un principio forma­
le unificante superiore.
In base a ciò, prosegue Kant, «Il concetto scientifico della ragio­
ne contiene quindi il fine e la forma del tutto, congruente con quel fi­
ne». Al termine di un lungo tragitto, i cui presupposti abbiamo visto
essere presenti agli albori della filosofia moderna, scienza e sistema fi­
nalmente convergono in modo esplicito. Affinché si possa parlare di
scienza non è sufficiente sommare rapsodicamente diverse conoscenze
derivanti dall’analisi di singoli ambiti, giacché la conoscenza che ne
deriverebbe non solo non sarebbe qualitativamente superiore a quella
delle sue singole parti, ma nemmeno sarebbe in grado di determinare
quali parti siano mancanti. Per Kant, la scienza può darsi solo se pos­
siede una forma sistematica. Ciò è possibile grazie alla ragione, la qua­
le soltanto è capace di concepire l’ideale della conoscenza come un
tutto. Tale ideale è poi il fine al quale tutte le parti sono ordinate, giac­
ché la scienza non è un qualcosa di dogmaticamente già dato e com­
piuto. Ecco perché, nella prospettiva kantiana, il sistema non potrà es­
sere che qualcosa di futuro, da realizzare.
Sulla scorta di diversi studi specialistici24, Chiereghin si spinge

22 F. CHIEREGHIN, Rileggere la Scienza della logica di Hegel. Ricorsività, retroa­


zioni, ologrammi, Carocci, Roma 2011, 16.
23 A 832/B 860 (trad. it., I. K a n t , Critica della ragion pura, a cura di C. ESPOSI­
TO, Bompiani, Milano 2004, 1169).
24 Tra gli altri, il voi. IV della collana Studien zum System der Philosophie: K.
G lo y - W. NEUSER - P. REISINGER (edd.), Systemtheorie. Philosophische Betrachtungen
ihrer Anwendungen, Bouvier, Bonn 1998; L. U rbani U livi (ed.), Strutture di mondo. Il
pensiero sistematico come specchio di una realtà complessa, Il Mulino, Bologna 2010.
Introduzione 13

poi fino a individuare tre proprietà sistemiche principali, emergenti


nella Scienza della logica di Hegel: ricorsività, retroazioni, ologrammi.
La ricorsività caratterizza quei processi in cui ogni nuovo elemento ri­
sulta da una precisa interrelazione tra i precedenti. La retroazione qua­
lifica quei sistemi dinamici capaci di modificare se stessi in funzione
dei propri risultati. Un ologramma è tale per cui ogni singola parte in­
terferisce con il tutto. Sebbene queste caratteristiche appartengano a
un sistema altamente complesso e sofisticato come quello hegeliano e,
pertanto, siano difficilmente attribuibili nel loro insieme ad altri siste­
mi filosofici, tuttavia esse confermano un’idea di fondo. Per capire un
sistema non è sufficiente analizzare le sue parti sommando infine i sin­
goli risultati; nemmeno è sufficiente analizzare le parti una dopo l’altra
nella sequenza gerarchica in cui sono disposte; ma è indispensabile co­
gliere le interazioni strutturali e processuali delle parti tra di loro e con
il tutto. In altre parole, ciò che caratterizza un sistema è che esso ri­
sponde a logiche organizzative complesse, ovvero non riducibili a se­
quenze di tipo lineare tra le diverse parti25.
Se è vero che Kant, per primo, giunge alla piena consapevolezza
dell’idea di sistema e, sulla sua scia, Hegel è colui che perviene al più
alto grado di elaborazione della filosofia come sistema, è anche vero
che «Alla realizzazione dell’idea di sistema - ammette Chiereghin -
hanno mirato, con gradi diversi di consapevolezza e, conseguentemen­
te, di itinerari, i vari tentativi di organizzazione del sapere esperiti nel
corso del pensiero moderno»26. Ciò significa che, sia se si guarda al
pensiero moderno a partire dai suoi prodromi (Zabarella, Suàrez), sia
se lo si guarda dal punto di vista dei suoi esiti (Kant, Hegel), appare ef­
fettivamente sensata l’ipotesi che l’epoca moderna sia il luogo dove la
filosofia viene ad assumere la forma del sistema. La verifica di questa
ipotesi non può che passare per l’esperimento di ri-leggere effettiva­
mente come sistemi quelle opere del pensiero filosofico moderno che
hanno tentato un’organizzazione del sapere unificata e totalizzante.
A mio giudizio, tra queste opere vanno annoverate non solo

25 «il sistema come complessità organizzata può essere riconosciuto per la pre­
senza di interazioni forti, non lineari, e la sua totalità definisce un tipo logico superiore
rispetto alla relazione analisi-somma» (V. D e ANGELIS, La logica della complessità. Intro­
duzione alle teorie dei sistemi, Bruno Mondadori, Milano 1996, 2); cf. il classico saggio
di L. VON BERTALANFFY, General System Theory. Foundations, Development, Applica­
tions, Braziller, New York 1968 (trad. it., Teoria generale dei sistemi, a cura di E. BELLO­
NE, Isedi, Milano 1971).
26 CHIEREGHIN, Rileggere la Scienza della logica di Hegel, cit., 17.
14 Sistemi filosofici moderni

YEtica di Spinoza, che è certo l’esempio che per primo salta alla mente
quando si pensa a un’opera filosofica dell’età moderna che non solo se­
gue una metodologia altamente gerarchizzata, ma soprattutto elabora
una visione onnicomprensiva; poi anche le Meditazioni di Descartes, le
quali, sebbene non esplicitamente destinate a essere un sistema, tratta­
no di «tutte le cose prime» in un rigoroso percorso analitico, nel quale
è illuminato ciascuno degli ambiti della filosofia cartesiana (Dio, uomo,
mondo); e anche il Saggio di Locke, che propone un’indagine filosofica
integrale dell’intelligenza umana e di tutto ciò che, di conseguenza, ca­
de sotto la sua lente; nonché il Trattato di Hume, che pretende di com­
prendere l’orizzonte dell’esperienza, indagando scientificamente la na­
tura umana sotto ogni suo aspetto (cognitivo, passionale, sociale).
Dopo aver analizzato questi quattro sistemi filosofici moderni,
ho ritenuto di dover quantomeno aprire lo sguardo verso il rapporto
sussistente tra la filosofia critica e l’idea di sistema in Kant. Per fare
ciò, ho scelto di analizzare la Prefazione alla seconda edizione della
Critica della ragion pura, giacché quel testo - scritto quando oramai la
Critica della ragion pratica era stata redatta - non solo ci consente di
afferrare alcuni degli elementi basilari della filosofia critica, ma anche
di cogliere la difficoltà in cui Kant viene a trovarsi, nel dover ulterior­
mente aprire e ridefinire il suo sistema.
Come il lettore potrà notare, io non mi arrischio nel ricostruire i
sistemi filosofici di questi autori moderni dall’esterno, cioè mettendo
insieme per ciascuno di costoro scritti di diversa natura, redatti e pub­
blicati in epoche diverse. Tento, invece, di leggere come sistema quella
singola opera di ciascuno, che non solo rappresenta un’unità testuale
compiuta in sé, ma che ha anche la pretesa di articolare l’intero oriz­
zonte del sapere all’interno di un discorso unitario. Ecco perché alcuni
importanti pensatori moderni, come ad esempio Hobbes o Berkeley,
Leibniz o Malebranche non avendo lasciato nessuna opera che - per
quanto io vedo - possa essere adeguatamente letta come un sistema fi­
losofico, non cadono dentro la mia indagine.
Sebbene l’ordine dei capitoli rispecchi la cronologia di pubblica­
zione delle opere in questione e queste coprano più o meno l’arco
temporale dell’età moderna, il percorso che traccio in questo libro non
ha la minima pretesa di essere una storia della filosofia moderna. Una
storia, per essere tale, deve possedere continuità tra le sue parti crono­
logicamente ordinate. Il che comporterebbe la necessità di occuparsi
non solo dei grandi pensatori ma anche di quelli ritenuti minori, non
solo delle opere più note ma anche di quelle meno conosciute, e non
Introduzione 15

solo degli scritti più direttamente ed esplicitamente filosofici ma anche


degli altri: scientifici, politici, letterari, storici ecc.
Ciò nonostante, mi auguro che questo mio lavoro possa contri­
buire ad arricchire la comprensione della filosofia dell’età moderna,
soprattutto per coloro che si accostano per la prima volta allo studio
di essa a livello accademico. L’interpretazione del pensiero di un auto­
re dispiegata secondo lo sviluppo diacronico della sua produzione - il
ben noto metodo bio-dossografico - tende giustamente a evidenziare
le questioni che nel tempo sono state maggiormente recepite e discus­
se. Tali questioni sono quasi sempre determinate da una lettura ten­
denzialmente parziale - in tutti i sensi - degli scritti che le hanno su­
scitate. Ecco perché i profili bio-dossografici, normalmente compen­
diati dalla manualistica e dalla storiografia, andrebbero integrati dallo
studio strutturale e sincronico delle opere dei filosofi. E se ciò è vero
in generale, a maggior ragione deve essere vero qualora le opere siano
state ideate e composte come dei sistemi.
Ciascun capitolo inizia inquadrando l’opera in questione e, dopo
una nota circa le edizioni e le traduzioni, prosegue con un’analisi det­
tagliata del testo, nella quale ho cercato, per quanto possibile, di spie­
garlo nella sua interezza, evidenziando le interazioni sistemiche. Al ter­
mine di ogni capitolo si trova una bibliografia essenziale, che elenca
anzitutto le opere principali dell’autore nonché alcuni degli studi più
recenti. Indicazioni bibliografiche più specifiche sono offerte nelle no­
te a piè di pagina, nelle quali il lettore troverà anche numerosi riman­
di, utili per una lettura trasversale dei capitoli.

Ringrazio la Pontificia Università Gregoriana per aver concesso e


finanziato un periodo di ricerca, indispensabile per redigere questo
mio lavoro. Desidero ringraziare i proff. Maurizio Merlo, Leonardo
Messinese, Roberto Presiila e Pina Totaro per essersi resi disponibili a
leggere e discutere singoli capitoli. Sono grato al prof. Adriano Fabris,
non solo per aver accolto questo libro nella collana che dirige, ma so­
prattutto per i preziosi suggerimenti che mi ha dato per renderlo più
fruibile. Un grazie speciale devo all’amico e collega Georg Sans, che mi
ha accompagnato lungo l’intera progettazione e stesura. Per la pazien­
za con cui la mia famiglia mi ha supportato, infine, non ci sono parole.

Roma, Pasqua 2013


SIGLE

Opere
A Kritik der reinen Vernunft, 1781 (AA IV).
B Kritik der reinen Vernunft, 1787 (AA III).
EI-IV Essay concerning Human Understanding.
E 1-5 Ethica, ordine geometrico demonstrata (OP; G II; OS).
M Meditationes de prima philosophia (AT VII; OB I).
O Objectiones (AT VII; OB I).
R Responsiones (AT VII; OB I).
T Treatise of Human Nature (SB; OPT).

Edizioni
AA Kants gesammelte Schriften, hrsg. von der Kòniglich Preufiischen,
Deutschen, Berlin-Brandenburgischen Akademie der Wissenschaften,
28 voli., Berlin 1900-.
AT CEuvres de Descartes, par C. A d am - P. TANNERY, 12 voli., Paris 1897-
1913.
G Spinoza Opera, ed. C. GEBHARDT, 4 voli., Heidelberg 1925.
LB R. D e s c a r t e s , Tutte le lettere. 1619-1630, a cura di G. BELGIOIOSO,
Milano 2005.
OBI R. D e s c a r t e s , Opere. 1637-1649, a cura di G. BELGIOIOSO, Milano
2009.
OB II R. D e s c a r t e s , Opere postume. 1650-2009, a cura di G. BELGIOIOSO,
Milano 2009.
OP B.d.S. [Benedictus de Spinoza], Opera posthuma, [Amsterdam] 1677.
OPT D. H um e, A Treatise of Human Nature, ed. D.F. NORTON - M.J. NOR­
TON, Oxford 2000.
OS B. S p in o z a , Tutte le opere, a cura di A. SANGIACOMO, Milano 2010.
SB D. Hume, A Treatise of Human Nature, ed. L.A. SELBY-BlGGE, rev.
P.H. NlDDlTCH, Oxford 1978.
Capitolo Primo
LE MEDITAZIONI DI DESCARTES

Nel 1641 vengono pubblicate a Parigi le Meditationes de prima


philosophia di René Descartes (1596-1650). Una seconda edizione
emendata e corretta, nella quale l’autore ha aggiunto in appendice una
settima serie di obiezioni e risposte alle sei già presenti nella prima edi­
zione, andrà alle stampe nei Paesi Bassi già nel 1642.
Si tratta di un’opera ampia e multiforme, che nella stampa in
12° del 1642 arriva a contare più di 700 pagine, comprendenti in
realtà non un testo unico, ma un complesso di testi, redatti da diversi
autori. L’opera è articolata anzitutto in due macrotesti principali, di
impari dimensioni: da un lato le Meditazioni vere e proprie, 89 pagine
scandite lungo sei giorni; dall’altro le sette serie di Obiezioni e Rispo­
ste alle precedenti meditazioni, per 538 pagine. Al primo macrotesto
sono anteposti poi tre testi più brevi: una Epistola, indirizzata al deca­
no e ai dottori della Facoltà di teologia di Parigi, una Prefazione e una
Sinossi delle sei Meditazioni; al secondo macrotesto è posposta - a
partire dalla seconda edizione - la lunga Lettera a Dinet, allora Pro­
vinciale della Compagnia di Gesù in Francia. Il primo macrotesto è
direttamente scritto da Descartes, mentre le Obiezioni sono per mano
di «alcuni dotti» per lo più anonimi (Caterus, Mersenne, Hobbes, Ar-
nauld, Gassendi, Bourdin e altri)1 ai quali l’autore replica puntual­
mente nelle Risposte.
Perciò quel testo che il lettore comune si trova tra le mani - nor­
malmente un libro di un centinaio di pagine intitolato Meditazioni me­
tafisiche - è ben lungi dal rispecchiare l’ampiezza e complessità dell’o­
pera originale. Se, per un verso, è vero che la parte più importante del­
l’opera, la più letta e influente nei secoli, è la prima, ovvero quella con­
tenente le sei Meditazioni, e che senza di questa le relative Obiezioni e
Risposte nemmeno avrebbero senso di esistere; è anche vero che - come

1 Cf. R. A riew - M. G rene (edd)., Descartes and his Contemporaries. Medita-


tions, Objections, and Replies, University of Chicago Press, Chicago 1995; G. MORI, Car­
tesio, Carocci, Roma 2010, 151-196.
20 Sistemi filosofici moderni

J.-L. Marion ha cercato di mostrare2 - le Meditazioni sono esse stesse


in parte già una risposta alle obiezioni che proprio Descartes aveva
sollecitato circa quelle «prime meditazioni [...] così metafisiche e po­
co comuni»3 che si era trovato costretto a introdurre nella parte IV del
Discorso sul metodo (1637)4. Ciò significa che la forma “responsoriale”
dell’opera era stata voluta e iniziata dal suo autore prima ancora che
essa venisse concretamente redatta in tal modo. In effetti, la storia del­
la redazione attesta che Descartes aveva fatto circolare un manoscritto
delle Meditazioni già durante il 1640, allo scopo di ricevere immediata­
mente osservazioni e critiche; inoltre, nello stesso periodo, alcune del­
le tesi sostenute nel volume del 1637 avevano ricevuto duri attacchi,
dai quali l’autore intendeva difendersi, anche attraverso la sua nuova
opera5. Da tutto ciò comprendiamo come le Risposte di Descartes non
possano essere considerate alla stregua di una mera aggiunta accesso­
ria alle Meditazioni, bensì debbano essere assunte come una parte inte­
grante di esse. Inoltre, è necessario comprendere l’insieme dell’opera
come il prodotto di più autori, di cui Descartes è il principale, nel du­
plice senso di colui che dà origine all’impresa e ne assume il ruolo pre­
ponderante, ma non l’unico, e allo stesso tempo oltre a essere autore è
anche editore dei testi degli altri autori6.
Quell’opera che siamo soliti chiamare Meditazioni metafisiche
prende questa denominazione dal titolo dell’edizione francese7 del

2 Cf. J.-L. MARION, Le statuì originairement responsorial des Méditations, in ].-


M. B ey ssade - J.-L. M arion (edd.), Descartes. Objecter et répondre, Presses Universitai-
res de France, Paris 1994, 3-19.
3 AT VI: 31 (O B I: 59).
4 C f.A T V I:7 5 (O B I: 111-113).
5 Sulla storia della complessa redazione ed edizione delle Meditationes, cf. la
Nota, in R. DESCARTES, Opere filosofiche, a cura di E. LOJACONO, 2 voli., Utet, Torino
1994, I, 637-649; Nota introduttiva in OB I: 661-677; D. KAMBOUCHNER, Les Médita­
tions métaphysiques de Descartes. I. Introduction générale. Méditation I, Presses Universi-
taires de France, Paris 2005, 53-61.
6 Marin Mersenne, dell’Ordine dei Minimi, andrebbe quasi menzionato come
co-editore dell’opera, giacché i suoi interventi, sia a livello di contenuti che di forma, fu­
rono tutt’altro che marginali, e soprattutto perché fu lui ad agire da tramite tra Descar­
tes e i suoi diversi obiettori e interlocutori.
7 Louis Charles d’Albert duca di Luynes nel 1642 tradusse in francese le Medi­
tationes e poco dopo Claude Clerselier le Objectiones e Responsiones, il testo, rivisto da
Descartes, fu pubblicato nel 1647 con l’intricato titolo Les méditations metaphysiques de
René Des-Cartes, touchant la premiere philosophie dans lesquelles l’existence de Dieu, et
la distinction réelle entre l’àme et le corps de l’homme, sont dèmos trées\ seconda edizione
1661; terza 1673 (cf. OB I: 676-677).
Le Meditazioni di Descartes 21

1647, ma è documentato da una lettera a Mersenne, che Descartes


preferì il titolo «Meditationes de prima Philosophia*\ infatti, non vi
tratto solamente di Dio e dell’Anima, ma in generale di tutte le prime
cose (toutes les premières choses) che si possono conoscere filosofando
con ordine (en philosophant par ordre)»9. Questa indicazione merita di
essere approfondita, in quanto evoca due temi basilari: anzitutto quel­
lo delVordine del filosofare, e poi quello relativo a ciò che per primo
s’incontra in tale ordine. Il sottotitolo dell’edizione 1641 recita: «nella
quale [filosofia prima] si dimostra l’esistenza di Dio e l’immortalità
dell’anima»10; mentre quello del 1642: «nelle quali [Meditazioni] si di­
mostrano l’esistenza di Dio e la distinzione dell’anima umana dal cor­
po». Al di là dell’opportuna correzione che il sottotitolo della seconda
edizione apporta rispetto a quello della prima - giacché l’immortalità
non vi era dimostrata se non tangenzialmente11 - entrambi i sottotitoli
focalizzano l’attenzione del lettore verso due temi “classici” della me­
tafisica, Dio e l’anima, spingendolo così a comprendere il testo come
una sorta di trattato di metafisica, nuovo nella forma ma non nei con­
tenuti12. Il titolo dell’edizione francese, poi, rinforzerà questa convin­
zione, non a caso imponendosi in seguito come quello prevalente. Tut­
tavia, nella succitata lettera a Mersenne, Descartes è molto chiaro, l’o­
pera non tratta «soltanto» di questi due temi. Quali siano però «tutte
le prime cose» di cui complessivamente dichiara di voler trattare, qui
non è specificato. Per capirlo meglio, è necessario chiarire l’altro pun­
to essenziale, cioè l’ordine del filosofare. Nella Prefazione Descartes
offre due istruzioni preziose su come leggere il suo testo:
non solleciterò alcuno a leggere tutto ciò, se non coloro [...] che sa­
pranno e vorranno meditare seriamente con me e staccare la mente dai sensi

8 In italiano: Meditazioni di filosofia prima (OB I: 679), o Meditazioni sulla filo­


sofia prima (DESCARTES, Opere filosofiche, cit., 635).
9 A Mersenne, 11 novembre 1640 (AT III: 239 [LB: 1329]; cf. AT III: 235
[LB: 1325]); nella Prefazione dichiarerà di voler affrontare «le questioni di Dio e della
mente umana e, insieme, gli inizi di tutta la filosofia prima (totius primae Pilosophiae ini-
tia)» (AT VII: 9 [OB I: 691]).
10 È assai probabile che il sottotitolo sia stato aggiunto da Mersenne (OB I: 672);
Descartes designa sovente la propria opera con l’espressione «ma Métaphysique».
11 Cf. quanto Descartes dice al proposito nella Sinossi (AT VII: 12-14 [OB
I: 695-697]).
12 Per un’approfondita analisi lessicale del termine metafisica in Descartes, cf.
J.-L. MARION, Sur le prisme métaphysique de Descartes. Constitution et limites de l’onto-
théo-logie dans la pensée cartésienne, Presses Universitaires de France, Paris 1986, 7-72,
nonché l’attenta replica di KAMBOUCHNER, Les Méditations métaphysiques, cit., 39-52.
22 Sistemi filosofici moderni

{mentem a sensibus abducere) e, insieme, da ogni pregiudizio. Quanto invece


a coloro che, incuranti di comprendere la serie e il nesso dei miei argomenti
{rationum mearum seriem et nexum), s’impegneranno [...] ad arzigogolare
contro i singoli punti, essi non ricaveranno gran frutto dalla lettura di questo
scritto13.

La strada che porta frutto si divide nettamente da quella che non


ne porta alcuno: la prima è quella del meditare, asceticamente e inte­
gralmente; la seconda è quella àeN accusare, in modo pregiudiziale e
parziale. La vera meditazione richiede perciò allo stesso tempo distac­
co e adesione: bisogna staccarsi dall’immediatezza dei sensi e dal sape­
re che da questi deriva, e bisogna lasciarsi alle spalle i giudizi già ac­
quisiti; al contempo, però, bisogna aderire alla serie ordinata delle ra­
gioni, seguendone la concatenazione argomentativa anello dopo anel­
lo, senza saltarne nessuno. Ma come riuscire a combinare queste due
esigenze? La meditazione sembra in effetti tutt’altra faccenda rispetto
all’argomentazione ordinata e deduttiva. Se l’autore avesse voluto ve­
ramente stabilire l’ordine, il “sistema” della sua filosofia prima, non
avrebbe fatto meglio a esporlo secondo un procedimento deduttivo? E
quanto gli verrà chiesto nelle Obiezioni Ih «sarebbe importante se, in
calce alle vostre soluzioni [Risposte], dopo aver premesso definizioni,
postulati ed assiomi, poteste conchiudere il tutto secondo l’ordine
geometrico {more geometrico)»1*. Descartes risponderà positivamente,
offrendo, in meno di una decina di pagine, le sue «Ragioni che prova­
no l’esistenza di Dio e la distinzione dell’anima dal corpo disposte in
ordine geometrico»15. Qualche anno più tardi, Spinoza farà di queste
pagine il modello argomentativo della sua Ethica ordine geometrico de­
mostrata (1677)16.
Il punto più interessante, però, sta all’inizio della risposta di De­
scartes dove, a proposito dell’invocato ordine geometrico, egli contro­
batte: «è importante che io spieghi qui in che misura l’abbia già seguito
e in che misura ritengo debba essere seguito d’ora in poi. Nel metodo
geometrico distinguo due cose: l’ordine e la maniera di dimostrare

13 AT VII: 9-10 (OB I: 691-693); cf. anche AT VII: 158-159 (OB I: 889).
14 AT VI: 128 (OB I: 851); per more geometrico si intende il modo di esporre
dei trattati di geometria, sul modello degli Elementi di Euclide, che cominciavano con
una serie di definizioni (punto, linea, superficie ecc.) cui seguivano diversi postulati, as­
siomi e infine teoremi dimostrabili ricorrendo a tutti gli assunti precedenti.
15 AT VII: 160-170 (OB I: 893-907).
16 Infray92-93
Le Meditazioni di Descartes 23

(<ordinem et rationem demonstrandi)»11. L’autore perciò rivendica il fatto


che le Meditazioni seguono già lordine geometrico, infatti Yordine non
consiste in altro se non nel fatto che le premesse devono essere cono­
scibili senza alcun aiuto da parte delle conseguenze e che queste deri­
vano solo da quelle. Tuttavia, questo stesso ordine può essere percorso
in due sensi: «L’analisi mostra la vera via attraverso la quale una cosa è
stata scoperta metodicamente e come a priori [...]. La sintesi, al con­
trario, attraverso una via opposta, e indagata come a posteriori» 18. Fa­
cilmente capiamo che la via sintetica è quella esemplificata nelle Rispo­
ste II, laddove Descartes ripropone le sue tesi geometricamente, ovvero
secondo il modello degli Elementi di Euclide; mentre la via analitica è
quella percorsa nelle Meditazioni, laddove le questioni e le risposte so­
no scoperte progressivamente lungo la linea temporale di sei giorni di
“esercizi” ascetico speculativi19. Più difficile invece capire cosa c’entri­
no qui a priori e a posteriori, in quanto saremmo spontaneamente por­
tati a ritenere il modo di procedere geometrico a priori (dai principi al­
le conseguenze), mentre quello meditativo, che parte dalla nostra espe­
rienza personale, piuttosto a posteriori (dagli effetti alle cause). De­
scartes invece sembra rovesciare questa prospettiva20. Perché?
Per chiarire questo punto decisivo è necessario rifarsi a un’opera
composta, ma non terminata né pubblicata, da Descartes alcuni anni
addietro, le cosiddette Regole per la direzione dell’ingegno21. Al centro

17 AT VII: 155 (OB I: 885); la questione delVordine delle ragioni è stata al cen­
tro di un esteso dibattito acceso da M. GUEROULT, Descartes selon l’ordre des raisons. I.
LAme et Dieu. II. UAme et le corps, Aubier, Paris 1953; cf. Cahiers de Royaumont. 2.
Descartes, Minuit, Paris 1957; J.-M. BEYSSADE, La philosophie première de Descartes. Le
temps et la cohérence de la métaphysique, Flammarion, Paris 1979, 14-19; MARION, Sur le
prisme métaphysique, cit., 43-59; S. Di BELLA, Le Meditazioni metafisiche di Cartesio. In­
troduzione alla lettura, La Nuova Italia Scientifica-Carocci, Roma 1997, 13-31; KAMBOU-
CHNER, Les Méditations métaphysiques, cit., 113-136.
18 AT VII: 155-156 (OB I: 885); trad. modificata.
19 Per il parallelismo tra le Meditazioni e gli Esercizi spirituali di s. Ignazio di
Loyola, cf. G. HATFIELD, The senses and thè Fleshless Eye: thè Méditations as cognitive
exercises, in A. OKSENBERG R orty (ed.), Essays on Descartes’ Méditations, University of
California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1986,45-79.
20 Questa apparente inversione è puntualmente analizzata da J.-M. BEYSSADE,
Lordre dans les Principia, in J.-L. M arion (ed.), Descartes, Bayard, Paris 2007, 101-104.
21 L’opera è menzionata per la prima volta nèh’Inventario di Stoccolma così:
«Nove quaderni rilegati insieme contenenti parte di un trattato di regole utili e chiare per
la direzione della mente nella ricerca della verità» (AT X: 9; OB II: 19). Nella corrispon­
denza di quegli anni Descartes non fa mai menzione di questo testo, che venne pubbli­
cato postumo in nederlandese nel 1684 e poi in latino nel 1701 nell’edizione di Amster-
24 Sistemi filosofici moderni

di questo scritto stanno quelle «nature pure e semplici che è possibile


intuire, primariamente e per sé, indipendentemente da ogni altra, ma
mediante le esperienze o per un qualche lume insito in noi»22. Descar­
tes intende per nature semplici le nozioni terminali alle quali giungono i
diversi procedimenti di scomposizione ordinata dei problemi concer­
nenti la conoscenza della realtà23. Non si tratta di definizioni che espri­
mono l’essenza di un qualcosa, come le idee platoniche, e nemmeno di
predicati generalissimi che stanno a capo delle diverse colonne di realtà
in cui è suddiviso l’essere, come le categorie aristoteliche, bensì di «ato­
mi d’evidenza»24, che costituiscono il limite estremo della visione intel­
lettuale umana, al di là del quale nulla è ulteriormente intuibile25.
Solo dal punto di vista delle nature semplici - il cui ruolo nelle
Meditationes sarà assunto dalle «idee»26 - è possibile allora compren­
dere in che senso la via meditativa sia analitica. Mentre la geometria
euclidea può pretendere di partire da nozioni facili, in quanto imme­
diatamente intuibili (es. punto, linea, superficie ecc.), tutt’altra faccen­
da accade con la metafisica, le cui nozioni appaiono invece del tutto
remote e difficili27. Per Descartes tale difficoltà è data da una deforma-

dam degli Opuscola posthuma, sotto il titolo Regulae ad directionem ingenti. L’assenza di
un orizzonte metafisico esplicito lascia supporre che il testo possa essere stato redatto da
Descartes tra il 1619-1628; cf. J.L . B e c k , The Method of Descartes. A Study of thè Regu­
lae, Clarendon Press, Oxford 1952; J-L. M a rio n , Sur l’ontologie grise de Descartes.
Science cartésienne et savoir aristotélicien dans les Regulae, Vrin, Paris 1975.
22 Regola VI (AT X: 383 [OB II: 713)].
23 Cf. Regola X (AT X: 403-406 [OB II: 737-741]); Regola XII (AT X: 419-420.
425-426 [OB II: 757-759. 765]); per un’esemplificazione dei processi di risoluzione e
composizione di problemi empirici come l’anaclastica o l’arcobaleno, cf. D. GARBER, De­
scartes et la méthode en 1637, in N. GRIMALDI - J.-L. M arion (edd.), Le discours et sa
méthode. Colloque pour le 350e anniversaire du Discours de la Méthode, Presses Univer-
sitaires de France, Paris 1987, 65-87.
24 «Atomes d’évidence» (O. H a m elin , Le système de Descartes, Alcan, Paris
1911,86).
25 Nella Regola XII Descartes ci offre una tassonomia generale delle nature
semplici, dividendole anzitutto in quelle intellettuali (es. la conoscenza, il dubbio, l’i­
gnoranza, la volizione ecc.) e materiali (es. la figura, l’estensione, il movimento ecc.); poi
in comuni (es. l’esistenza, l’unità, la durata ecc.) e le logiche (es. la proprietà transitiva, le
regole della deduzione ecc.), cf. AT X: 419-420 (OB II: 757-759).
26 Cf. J.-L. MARION, Quelle est la méthode dans la métaphysique? Le róle des na-
tures simples dans les Meditationes, in J.-L. MARION, Questions cartésiennes, Presses
Universitaires de France, Paris 1991, 75-109; I d ., Cartesian metaphysics and thè role of
thè simple natures, in J. COTTINGHAM (ed.), The Cambridge Companion to Descartes,
Cambridge University Press, Cam bridge 1992, 115-139.
27 «Al contrario, invece, qui, nelle cose metafisiche, nulla richiede più impegno
Le Meditazioni di Descartes 25

zione connaturata alla conoscenza umana, quella di assentire sponta­


neamente al sapere fornito dai sensi, come se questi fossero capaci di
fornirci una semplice e immediata adesione all’essere della realtà.
Però, semplici non sono affatto le percezioni sensibili, che anzi sono
complicate e ingannevoli, bensì le nozioni immediatamente oggettivate
dall’intelletto. Le nature semplici della metafisica, tuttavia, non sono
subito a disposizione dell’intelletto, è necessario conquistarle faticosa­
mente, seguendo un percorso ordinato di emendazione, selezione e at­
tenta fecalizzazione: la meditazione.
Da tutte queste considerazioni traiamo alcune indicazioni basila­
ri. (a) Dalla necessità che Descartes pone di leggere integralmente le
Meditazioni, escludendo che si possano comprendere i singoli temi
staccati dal loro contesto argomentativo, capiamo che l’opera è a tutti
gli effetti da leggere come un sistema, per quanto la sua forma stilistica
spinga a pensare il contrario. Questa considerazione è ulteriormente
rafforzata dal fatto che il filosofo rivendica di aver composto le medita­
zioni more geometrico, ovvero seguendo un rigoroso ordine delle ragio­
ni (ordo), sebbene la strategia dimostrativa {ratio demonstrandi) sia
quella analitica e non quella sintetica, (b) Comprendiamo ora in che
senso la via analitica secondo Descartes è «scoperta come a priori {tan-
quam a priori inventa)». Dal momento che le nozioni che riguardano la
metafisica sono del tutto remote, in quanto offuscate dai pregiudizi
sensibili, dobbiamo sempre e comunque iniziare dalla complessità del­
l’esperienza con tutte le sue difficoltà (come vedremo questa sarà la fa­
se del dubbio) e, senza assumere alcun presupposto, ricercare il punto
archimedeo che possa permettere di venirne fuori (come vedremo que­
sto punto di partenza sarà il cogito) e da lì avanzare alla progressiva sco­
perta ed elaborazione delle altre nozioni (l’anima, Dio ecc.). Ciò signifi­
ca anche che la via analitica precede sempre la via sintetica, e che di
conseguenza il “primo” sistema metafisico cartesiano rimane quello
delle Meditationes e non quello stabilito in calce alle Risposte II o, più
tardi, nella prima parte dei Principi della filosofia (1644)28. (c) Si chiari­
sce così anche meglio l’affermazione dalla quale siamo partiti, ovvero
che le Meditationes de prima philosophia riguardano «tutte le prime co­
se che si possono conoscere filosofando con ordine». Queste prime no-

del percepire chiaramente e distintamente le prime nozioni» (AT VII: 157 [OB I: 887]);
cf. quanto Descartes afferma nella Epistola dedicatoria, AT VII: 4-5 (OB I: 685).
28 Cf. S. GAUKROGER, Descartes' System of Naturai Philosophy, Cambridge Uni­
versity Press, Cambridge 2002.
26 Sistemi filosofici moderni

zioni saranno, infatti, non solo e nemmeno anzitutto l’esistenza di Dio e


la separazione dell’anima dal corpo, ma prima ancora di esse il cogito, o
meglio Yego sum, e più oltre il modo di conoscere i corpi, il fondamen­
to della verità matematica, l’essenza e l’esistenza del mondo materiale29.
Con la sua opera, perciò, Descartes non intende offrire esclusi­
vamente una metafisica speciale (riguardante le sole sostanze sovrasen-
sibili, ovvero Dio e l’anima) e nemmeno una metafisica generale (ri­
guardante l’essere in quanto essere, cioè un’ontologia), quanto piutto­
sto mira a gettare le basi filosofiche dei rapporti tra le sostanze immate­
riali e quelle materiali30. Per un verso, la scoperta delle nature semplici
immateriali contribuirà a comprendere anche quelle materiali, ponen­
do così i presupposti della fisica cartesiana31; per altro verso, l’analisi
dei rapporti tra la mente e le cose materiali aiuterà a stabilire le coor­
dinate basilari dell’antropologia.

29 «Si ces premières choses restent indéterminées et ne s’identifient pas d ’em­


blée à Dieu et à l’àme, c’est que leur primauté ne s’appuie sur aucune excellence onti-
que, mais dépend de la disposition de l’ordre suivant la mise en évidence; et selon cet
ordre, la primauté, méme celle d’étants effectivement existants, ne recouvre pas les
objets habituels de la métaphysique; d’autres primautés s’organisent, mais plusieurs di-
sparaissent» (MARION, Sur le prisme métaphysique, cit., 71).
30 Secondo D. Kambouchner, le Meditationes sono la «réinvention cartésienne
de la métaphysique», ovvero un tentativo di ricostruire dall’inizio la metafisica {philo-
sophia prima), stabilendo al contempo le fondamenta di tutta la sua filosofia, cf. Kam-
BOUCHNER, Les Méditations métaphysiques, cit., 13-61.
31 A Mersenne, 11 novembre 1640: «vi dirò infatti che quel poco di Metafisica
che vi invio contiene tutti i principi della mia fisica» (AT III: 233 [LB: 1323]); cf. K am -
BOUCHNER, Les Méditations métaphysiques, cit., 76-90.
Le Meditazioni di Descartes 27

BQS Edizioni e traduzioni delle Meditationes

L’edizione di riferimento delle Meditationes è quella pubblicata da


C. Adam e P. Tannery (sigla AT), i quali hanno riprodotto il testo del 1642,
immettendo i capoversi assenti nell’originale, in CEuvres de Descartes. VII. Me­
ditationes de prima philosophia, Cerf, Paris 1904; nuova edizione con integra­
zioni, Vrin, Paris 1964; rprt. 1996. F. Alquié ha curato un’edizione e traduzio­
ne corredata di note nel secondo volume delle (Euvres philosophiques, Gar-
nier, Paris 1967, 169-235,375-1097.
La prima e unica traduzione italiana delle Meditationes, condotta sul te­
sto latino originale e completa di tutte le Objectiones e Responsiones, è quella
di I. Agostini, nel primo dei due volumi delle opere di Descartes pubblicate
dall’editore Bompiani (sigla OB I), Opere. 1637-1649, testo francese e latino
a fronte, a cura di G. BELGIOIOSO, con la collaborazione di I. AGOSTINI -
F. M a r r o n e - M. SAVINI, Bompiani, Milano 2009, 659-1475. Un’ottima tradu­
zione dal latino, sebbene riporti solo una scelta di obiezioni e risposte, è in
Opere filosofiche, a cura di E. LOJACONO, 2 voli., Utet, Torino 1994,1, 635-902.
L’edizione francese (Luynes-Clerselier) delle Meditationes si trova in AT
IX/1. Questa è integralmente tradotta in italiano in Opere filosofiche. II. Medi­
tazioni metafisiche, Obiezioni e risposte, a cura di E . G a r in , 4 voli., Laterza,
Roma-Bari 1986.
Per le citazioni dal testo originale latino seguirò l’edizione AT così come
questa è graficamente aggiornata e riprodotta in OB I, edizione che userò an­
che per la traduzione italiana. D ’ora in avanti, per le citazioni dell’opera userò
i seguenti rapidi criteri di riferimento: Meditazioni = M seguito dal numero
della meditazione e dal numero della paginazione AT (es. M2: 27 = Meditazio­
ne II, pagina 27 di AT VII); Obiezioni - O (es. 0 4 : 196 = Obiezioni IV, pagina
196 di AT VII); Risposte = R (es. R5: 350 = Risposte alle obiezioni V, pagina
350 di AT VII); OR nel caso in cui siano inframezzate in un unico testo (es.
OR3: 179 = Obiezioni III con Risposte dell’autore, pagina 179 di AT VII). Solo
per questi riferimenti rapidi non riporterò la corrispondente pagina della tra­
duzione OB I, però facilmente rintracciabile tramite quella AT VII che lì è
continuamente indicata in margine.
Per le citazioni di tutti gli altri testi cartesiani indicherò sempre in nota
la pagina AT e la relativa traduzione in OB I-II o in LB.
28 Sistemi filosofici moderm

1. Liberare la mente
Descartes antepone alle Meditazioni una Epistola dedicatoria indi­
rizzata al decano e ai dottori della Sorbona, dai quali aveva tentato, in­
vano, di ricevere approvazione per la propria pubblicazione32. Segue
una breve Prefazione per il lettore, nella quale l’autore pone il presente
scritto in relazione con il precedente Discorso sul metodo, nel quale te­
mi metafisici analoghi erano stati saggiati, ma non trattati accuratamen­
te. Infine, Descartes offre una Sinossi delle sei meditazioni che seguono,
scritta quando egli aveva già redatto le Meditazioni e potuto prendere
visione delle Obiezioni collezionate da padre Mersenne; da qui l’ampio
spazio dedicato in essa alla questione dell’immortalità dell’anima33.
Nell’incipit della Meditazione I Descartes sceglie immediatamen­
te il tono intimo della prima persona e, soprattutto, pone la sua deci­
sione iniziale nell’ora dell’atto meditativo:
oggi ho liberato la mente da ogni preoccupazione; mi sono preso un si­
curo tempo libero; mi ritiro in solitudine; mi dedicherò finalmente, sul serio e
in libertà, a questo generale rovesciamento delle mie opinioni34 (MI: 17-18).

Il lettore, così, non è posto di fronte a una presentazione ordina­


ta di teorie filosofiche, ma viene personalmente coinvolto nella situa­
zione e nell’azione del filosofo meditante, il cui itinerario di trasforma­
zione viene narrato per poter essere ripercorso35. Il movente di questo
ingresso nel meditare è duplice: uno più remoto, il fatto che da tempo
Descartes si è accorto della falsità di molto di ciò che prima aveva rite­
nuto vero; un secondo più recente, il sopraggiungere di quella matu­
rità intellettuale necessaria a un’impresa così ardua come quella di
«rovesciare tutto sino in fondo e ricominciare dalle prime fondamen­
ta» (MI: 17). Già, perché da Platone a Descartes il problema è sempre
quello deH’episteme o, come qui si legge, «stabilire qualcosa di solido e
di duraturo nelle scienze». Tutta la strategia del dubbio messa in opera
nella Meditazione I è sin dall’inizio subordinata allo scopo di trovare
tale fondamento epistemico e, nonostante la filosofia cartesiana sia in

32 Cf. KAMBOUCHNER, Les Méditations métaphysiques, cit., 67-76.


33 Cf. 0 2 : 128.
34 «à détruire généralement toutes mes anciennes opinions» (AT IX /1: 13); la
trad. italiana da OB I: 703 è modificata.
35 Cf. L.A. KOSMAN The naive narratori Meditation in Descartes' Méditations, in
O k senberg R orty (ed.), Essays on Descartes' Méditations, cit., 21-43; Di BELLA, Le Me­
ditazioni metafisiche, cit., 21-25.
Le Meditazioni di Descartes 29

seguito finita sotto l’incauta divisa de omnibus dubitandum est (di ogni
cosa si deve dubitare), venendo ridotta di fatto a una forma moderna
dello scetticismo antico36, all’origine dello sforzo filosofico delle Medi-
tationes «non c’è una rinuncia, ma una volontà strenua di verità»37.
Sottoporre tutto l’opinabile (doxa) ai duri colpi del dubbio, serve a
provare se nell’edificio del sapere umano vi sia qualcosa che non si la­
scia distruggere e nemmeno incrinare, qualcosa d’indubitabile e per
questo non imputabile di falsità. Si tratta evidentemente di una forza­
tura, di cui Descartes è ben consapevole, ma, a suo giudizio, solo con­
ducendo questo esperimento speculativo fino in fondo, sarà possibile
trovare un argomento anti-scettico assolutamente inoppugnabile.
Per fare ciò Descartes - in una sorta di dialogo fittizio evocato
dall’interno del suo soliloquio meditante - attacca anzitutto l’origine
stessa del sapere comune: i sensi. Dal momento che talvolta sperimen­
tiamo la loro fallacia, cosa ci impedisce di considerarli in se stessi inaf­
fidabili? E viceversa, in base a quale certezza possiamo affermare che
in questo stesso istante i sensi non ci stiano ingannando? Si potrebbe
rispondere che capita d’ingannarsi sulle cose difficili e lontane, ma
certo non su quelle più semplici e prossime. Eppure, ribadisce il filo­
sofo, chi di noi non ha fatto l’esperienza del sogno, nella quale credia­
mo che eventi, anche banali, ci accadano esattamente come se fossimo
svegli? Il fatto è che non possediamo alcun criterio sensibile in grado
di distinguere con certezza il sogno dalla veglia38. A questo punto De­
scartes solleva un’ulteriore e più raffinata obiezione: ammettiamo pure
che le percezioni sensibili non ci offrano alcun appiglio per uscire dal
dilemma del sogno o della veglia, ma che dire di ciò che nelle cose ge­
nerali e composte ne rappresenta la natura «più semplice e universale»
(MI: 20), come ad esempio l’estensione, la figura, il numero, il luogo,
il tempo ecc.? Non possiamo negare che queste nature semplici e tutte
le scienze che di esse si occupano, cioè la matematica, la geometria e
simili, godano di un’indubbia certezza.
Di fronte a questa obiezione, apparentemente insuperabile, De­
scartes risponde con un colpo di teatro che spiazza il lettore, in quanto

36 Cf. KAMBOUCHNER, Les Méditations métaphysiques, cit., 90-105. 217-226; C.


LARMORE, Descartes and Skepticism, in S. GAUKROGER (ed.), The Blackwell Guide to De­
scartes' Méditations, Blackwell, Malden (MA)-Oxford-Victoria 2006, 17-29.
37 D i B e l l a , Le Meditazioni metafisiche, cit., 34.
38 «la veglia non può mai essere distinta dal sogno con indizi certi (certis indi-
ciis)» (M i: 19).
30 Sistemi filosofici moderni

va a colpire lo statuto della conoscenza alla sua radice. Se noi soggetti


conoscenti siamo stati creati come tali da un «Dio che può tutto»
(Mi: 21), cosa può mai impedire a costui di far sì che tutto ciò che co­
nosciamo, non solo le cose generali ma persino le nature semplici o le
verità matematiche39, non esista ma sia solo una mia illusione? La con­
troreplica si muove su un duplice fronte opposto: teistico e ateo. Da
un lato, qualcuno potrebbe sostenere che Dio è sommamente buono e
quindi non può volerci ingannare; ma allora, risponde il filosofo, come
spiegare il fatto che talvolta ci inganniamo? Dall’altro lato, qualcuno
potrebbe invece negare che esista un Dio tanto potente; ma in tal caso
non aumenterebbe bensì diminuirebbe la perfezione della nostra origi­
ne, rendendoci ancor più fallaci ed effimeri. L’ipotesi atea lungi dal ri­
solvere la nostra sete di verità, sembra farla naufragare definitivamen­
te. La conclusione di Descartes giunge molto chiara, chiudendo in
qualche modo il cerchio della Meditazione I:
sono infine costretto a riconoscere che non c’è nulla di cui non sia lecito
dubitare rispetto a quel che un tempo ritenevo vero, e ciò non per sventatezza, o
per leggerezza, ma per valide e meditate ragioni; e che quindi anche su tutto ciò,
non meno che su quel che è palesemente falso, debba, di qui in avanti, essere ac­
curatamente sospeso l’assenso, se voglio scoprire qualcosa di certo (MI: 21-22).

A questo punto sembrerebbe che si possa passare alla meditazio­


ne successiva, eppure Descartes aggiunge due ultimi paragrafi nei qua­
li rilancia ulteriormente la questione: «aver osservato questo ancora
non basta, perché devo aver cura di ricordarmene» (MI: 22). Infatti
l’aver compreso razionalmente la dubitabilità di tutte le mie certezze,
non garantisce che poi io effettivamente mantenga tale atteggiamento
di dubbio radicale. Come l’autore testimonia alla fine della meditazio­
ne: «questo progetto è laborioso, ed una certa pigrizia mi risospinge
verso le consuetudini della vita» (MI: 23).
Per contrastare l’inerzia del senso comune, Descartes escogita
l’espediente psicologico di «supporre non un Dio ottimo, fonte della
verità, ma un certo Genio maligno, e che questi, sommamente potente
ed astuto, abbia impiegato tutta la sua abilità a farmi sbagliare»
(MI: 22). A differenza del precedente Dio onnipotente, che nella sua
assolutezza può trascendere le stesse verità da lui create, questo Genio

39 Su questa dottrina, detta della libera creazione divina delle verità eterne e sul­
l’ampio, complesso dibattito che ha sollevato, cf. J.-L. MARION, Sur la théologie bianche
de Descartes. Analogie, création des vérités éternelles et fondement, Vrin, Paris 19912.
Le Meditazioni di Descartes 31

è direttamente ingannatore (ut me fallerei)'®. Il ruolo di questo perso­


naggio fittizio è quello d’interpretare la volontà stessa d’ingannarci,
volontà che in verità origina nella decisione radicale del meditante di
sospendere il suo assenso circa tutti i possibili contenuti di conoscenza
che non siano capaci di dimostrare la propria certezza al di là di ogni
ragionevole dubbio. Nelle ultime righe, Descartes confessa il disagio
di sentirsi come lo schiavo della caverna di Platone, tentato di tornare
ai pallidi riflessi del sapere probabile, nell’incapacità di sapere se l’i­
gnoto percorso intrapreso lo condurrà alla fine verso la luce.

Obiezioni e risposte
Le obiezioni direttamente dedicate alla Meditazione I sono tre:
Hobbes (OR3: 171-172), Gassendi (05: 257; R5: 348-349) e Bourdin
(OR7: 454-477). Thomas Hobbes riduce l’intero contenuto della Medi­
tazione I alla questione dell’oggettività sensibile, poi ne riconosce la
«verità» e, infine, bolla il tutto come «vecchie cose», note sin da Plato­
ne, che Descartes avrebbe fatto meglio a non mischiare con le sue nuo­
ve speculazioni41. Al primo punto Descartes non replica, mentre si pre­
mura di precisare che «Le ragioni di dubitare che qui il filosofo am­
mette come vere non sono state da me proposte se non come verosimi­
li» (OR3: 171). Il fatto è che per Hobbes tutta la faccenda del dubbio
si riduce in fondo alla teoria platonica del fenomeno sensibile, che a lui
appare come qualcosa di ovvio. La Meditazione I invece, ha lo scopo di
«preparare gli animi dei lettori a considerare le cose intellettuali e a di­
stinguerle dalle corporee» (OR3: 172), ossia ad aiutare il lettore a sca­
valcare il senso comune per accedere alla riflessione filosofica.
Le Obiezioni VII, a opera del gesuita Pierre Bourdin, redatte
sotto forma di una lunga dissertazione, sono quelle che pongono in as­
soluto più argomenti contro il dubbio, ma purtroppo muovendo da un
punto di vista vetero scolastico così distante dall’argomentare cartesia­
no da generare di fatto un «dialogo tra sordi»42.
Tutto il contrario con il filosofo e astronomo Pierre Gassendi, il
quale avanza delle obiezioni che si situano nel pieno solco della mo­

40 Sulla differenza tra «Dio onnipotente», «Genio maligno» e «Dio ingannatore»,


cf. Di B ella , Le Meditazioni metafisiche, cit., 54-57.
41 Cf. J. S a le s , Le choc avec Hobbes et Gassendi sur le doute, in B ey ssa d e -M a -
RI0N (edd.), Descartes. Objecter et répondre, cit., 96-103.
42 R. ARIEW, Sur les Septièmes Réponses, in BEYSSADE-MARION (edd.), Descar­
tes. Objecter et répondre, cit., 123.
32 Sistemi filosofici moderni

dernità43. Questi apprezza pienamente l’obiettivo della Meditazione I,


liberare la mente da ogni pregiudizio, ma obietta a Descartes l’oppor­
tunità della sua strategia: anzitutto la radicalizzazione del dubbio, giac­
ché il voler considerare tutto falso, ha comportato di fatto il «rivestirvi
di un nuovo pregiudizio invece di spogliarvi di uno vecchio»
(05: 258). Nessuno, poi, crederà che egli abbia sinceramente aderito a
un congegno speculativo così artificiale come il dubbio, «più degno
del candore di un filosofo e dell’amore della verità dire le cose come
stanno», ovvero, facendo appello al senso comune, rammentare la li­
mitatezza della mente umana. Le obiezioni di Gassendi danno a De­
scartes l’opportunità di precisare e approfondire la sua posizione sul
dubbio. La risposta dell’autore è tutta imperniata nel ribadire l’oppor­
tunità, anzi la necessità dell’artificio del dubbio radicale, infatti la si­
tuazione in cui si trovano gli uomini, immersi sin dall’infanzia nel sa­
pere comune, è quella di una blanda critica dei pregiudizi unita a una
sostanziale inerzia di fronte a essi. Ecco perché il proponimento di De­
scartes è che almeno «una volta nella vita» (MI: 17) si provi a sgombe­
rare seriamente e fino in fondo la mente dai propri pregiudizi; al pun­
to che «per illustrare la verità è spesso utile prendere così, come vero,
ciò che è falso (falsa prò veris utiliter sic assumi)» (R5: 349). Questo ro­
vesciamento, esplicitamente paradossale, ha senso però solo nella con­
sapevolezza dell’artificio speculativo, perché altrimenti nulla sarebbe
così lontano dall’amore per la verità e dalle intenzioni di Descartes che
assentire al falso come tale.

2. Io sono
Nel secondo giorno il filosofo riprende la meditazione dal
profondo del gorgo in cui il dubbio lo aveva gettato. L’unica speranza
a questo punto è quella di trovare «qualcosa di certo (aliquid certi)»
(M2: 24), fosse anche soltanto il fatto che nulla è certo. Ma forse - si
chiede il meditante - esiste un che di divino che mette in me tutti que­
sti pensieri? e come sapere che questo non sia a sua volta un mio pro­
dotto? Eppure anche in questo caso - autoreplica Descartes - devo
pur esistere io che produco questo qualcosa che suppongo esterno a

43 Come dimostra bene J. RAMIREZ, Sur un passage des Cinquièmes Réponses


(AT VII, 347-330), in BEYSSADE-MARION (edd.), Descartes. Objecter et répondre, cit.,
111-122; cf. B. BRUNDELL, Pierre Gassendi. From Aristotelianism to a New Naturai Phi-
losophy, Springer, Dordrecht 1987; A. L o L o rd o , Pierre Gassendi and thè Birth ofEarly
Modem Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 2006.
Le Meditazioni di Descartes 33

me stesso: «Non sono forse, allora, almeno io qualcosa (saltem ego ali-
quid sum)ì»AA. Ma come qualificare e situare questa esistenza se, nella
Meditazione I, si è preso congedo dalla certezza delle percezioni sensi­
bili? Infatti, «mi sono persuaso che assolutamente nulla esiste al mon­
do: né cielo, né Terra, né menti, né corpi; forse che, allora, non esisto
neanch’io (etiam me non esse)}» (M2: 25). E questa l’estrema sospen­
sione di assenso tentata dal dubbio: forse, io non sono.
Giunti a questo punto, assistiamo a una virata completa del flus­
so meditativo fin qui intrapreso. Tutto il processo di rovesciamento in­
tentato sin dall’inizio della Meditazione I si rovescia esso stesso, perché
la risposta di Descartes, stavolta, appare inattaccabile dalla corrosione
del dubbio: «Al contrario, esistevo certamente (certe ego eram) se mi
sono persuaso di qualcosa». Ma forse è il Genio maligno a indurre
questa falsa certezza? Qui la risposta rovescia il dubbio estremo in
un’estrema certezza:
Senza dubbio allora esisto anch’io, se egli mi fa sbagliare; e, mi faccia sba­
gliare quanto può, mai tuttavia farà sì che io non sia nulla, fino a quando pen­
serò di essere qualcosa. Così, dopo aver ben bene ponderato tutto ciò, si deve
infine stabilire che questo enunciato, Io sono, io esisto, è necessariamente vero
ogni volta che viene da me pronunciato, o concepito con la mente (M2: 25)45.

È questo il celebre argomento del cosiddetto cogito cartesiano46,


dalla formulazione che esso aveva originariamente ricevuto nel Discor­
so sul metodo'47 e, soprattutto, da quella che riceverà nei Principi della

44 «Per la prima volta l’ego, finora solo implicitamente (grammaticalmente) pre­


sente nella forma in prima persona della meditazione, emerge tematicamente, come ulti­
mo residuo dell’esperienza naturale non ancora messo in discussione» (Di BELLA, Le
Meditazioni metafisiche, cit., 60).
45 «Haud dubie igitur ego etiam sum, si me fallit; et fallat quantum potest,
numquam tamen efficiet, ut nihil sim quamdiu me aliquid esse cogitabo. Adeo ut, omni­
bus satis superque pensitatis, denique stauendum sit hoc pronunciatum, Ego sum, ego
existo, quoties a me profertur, vel mente concipitur necessario esse verum» (M2: 25).
46 Cf. P. M a rkie , The Cogito and its importarne, in COTTINGHAM (ed.), The
Cambridge Companion, cit., 1992: 140-173; Di B el l a , Le Meditazioni metafisiche, cit.,
59-66; E. CURLEY, The Cogito and thè foundations of knowledge, in GAUKROGER, The
Blackwell Guide, cit., 30-47; A. KEMMERLING, Das Existo und die Natur des Geistes, in
A. KEMMERLING (ed.), René Descartes. Meditationen ùber die Erste Philosophie, Akade-
mie, Berlin 2009,31-42.
47 «E notando che questa verità Io penso, dunque io sono era così ferma e certa
che tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici non erano in grado di scuoterla, ri­
tenni che potevo accoglierla, senza scrupolo, come il primo principio della filosofia che
cercavo {Et remarquant que cette vérité: je pense, donc je suis, était si ferme et si assurée,
34 Sistemi filosofici moderni

filosofia (I, art. 7)48 e che verrà consacrata dalla posterità: cogito ergo
sum. Di questo argomento notiamo almeno tre elementi immediati: (a)
il suo procedere dal dubbio, (b) la sua forma metalinguistica e (c) il
suo valore necessario di verità. Analizziamoli.
(a) Uno dei difetti ricorrenti nella spiegazione dell’argomento
del cogito è quello di isolarlo da quanto lo precede, come se si trattasse
di un argomento a sé stante, indipendente dal processo dubitativo
messo in atto nella Meditazione I. Invece, non dobbiamo dimenticare
di trovarci all’interno, meglio al limite estremo di un esperimento spe­
culativo assai particolare, quello di distruggere ogni certezza allo sco­
po di verificare se ve n’è almeno una che risulti inattaccabile da ogni
fronte possibile. Al vertice di questo esperimento sta l’ipotesi di un
Genio maligno sommamente potente che impiega ogni sua capacità
nel farmi sbagliare, personificazione della risoluzione massima di voler
negare ogni valore di verità alle proprie certezze. Oggetto del dubbio,
dunque, non sono tanto le cose del mondo, quanto i miei contenuti di
pensiero, meglio i miei giudizi, visto che la sua azione distruttiva con­
cerne propriamente la capacità di verità dei miei contenuti mentali, (b)
Questo dato è ulteriormente rafforzato dalla forma metalinguistica che
assume l’argomento in tutti e tre i testi principali nei quali Descartes lo
espone, infatti parla nel primo caso di «questa verità (cette vérité)»,
poi di «questo enunciato (hoc pronunciatum)», e infine di «questa co­
gnizione (haec cognitio)», oggettivando ogni volta la relativa formula­
zione «je pense, donc je suis», «Ego sum, ego existo» ed «ego cogito, er­
go sum»49. (c) Infine, notiamo come si tratti di un giudizio del tutto ec­
cezionale, in quanto non solo è inattaccabile persino dal più sottile ar­
gomento scettico, ma soprattutto ci impedisce anche solo di supporre
che noi siamo nulla, ponendo quindi come «necessariamente vero (ne­
cessario esse verum)» non tanto una certa proprietà del soggetto, bensì
la sua stessa esistenza.
Ma come funziona l’argomento del cogito? Dal momento che in

que toutes les plus extravagantes suppositions des Sceptiques nétaient pas capables de l’é-
branler, je jugeai que je pouvais la recevoir, sans scrupule, pour le premier principe de la
Philosophie, que je cherchais)» (AT VI: 32 [OB I: 61]).
48 «E pertanto questa conoscenza: io penso, dunque sono, è tra tutte la prima e
la più certa che si presenti a chi filosofi con ordine (Ac proinde haec cognitio, ego cogito,
ergo sum, est omnium prima et certissima, quae cuilibet ordine philosophanti occurrat)»
(AT V ili: 7 (OB I: 1715]).
49 Sulla formulazione metalinguistica, cf. BEYSSADE, La philosophie première,
cit., 249-253.
Le Meditazioni di Descartes 35

due formulazioni su tre Descartes introduce un elemento inferenziale


(,donc, ergo) già alcuni degli interlocutori contemporanei ritennero che
si trattasse di una struttura sillogistica di questo tipo: (M) Tutto ciò
che pensa esiste; (m) Io penso; ( ) Io esisto. Ma lo stesso Descartes
replica chiaramente:
quando ci accorgiamo di essere cose pensanti, questa è una nozione pri­
ma, che non viene conclusa in base a sillogismo alcuno; e neanche quando
qualcuno dice, io penso, dunque sono, ossia esisto (ego cogito, ergo sum, sive
existo), egli deduce dal pensiero l’esistenza attraverso un sillogismo, ma la vie­
ne a conoscere per semplice intuito della mente come una cosa per sé nota
(tamquam rem per se notam simplici menti intuitu agnoscit) (R2: 140).

Tutto ciò è comprovato dal fatto che se qualcuno deducesse Ye-


go sum mediante un sillogismo, dovrebbe già conoscere per vera la
premessa maggiore; ma come potrebbe accertarsi che è vera se non a
partire dalla conclusione stessa, ovvero anzitutto «a partire dal fatto
che esperisce in sé che non è possibile che pensi se non esiste {apud se
experiatur, fieri non posse ut cogitet, nisi existat)»?
In un articolo del 1962, che ha suscitato un ampio dibattito, il lo­
gico finlandese J. Hintikka ha estremizzato la posizione di Descartes,
arrivando a sostenere che l’argomento del cogito non è un sillogismo
perché non è in generale un’inferenza logica, bensì una performanza50.
Alla base di questa tesi sta il fatto che la proposizione io non sono è in
se esistenzialmente inconsistente in quanto si autodistrugge o, secondo
l’espressione di Hintikka, è selfdefeating, nella misura in cui dire di
non essere non fa che manifestare l’essere di colui che pronuncia tale
negazione. Questa interpretazione pone l’argomento del cogito nella li­
nea della confutazione/ritorsione (elenchos) esercitata da Aristotele
nella dimostrazione del principio fermissimo (bebaiotate arche), mèglio
noto come principio di non contraddizione, nel libro Gamma della
Metafisica?1, ove il negatore del principio nell’atto di togliere non fa

50 J. HINTIKKA, Cogito ergo sum: inference or performance?, in «Philosophical


Review» 71 (1962), 3-32; in un articolo successivo, nel quale risponde a diverse osserva­
zioni m osse al precedente, l’autore cerca di non escludere l’inferenza dalla performanza,
I d . Cogito ergo sum as an inference and a performance, in «Philosophical Review» 72
(1963), 487-496. Per una discussione critica della posizione di Hintikka, cf. J.C . PAREN­
TE, Problèmes logiques du Cogito, in GRIMALDI-MARION (edd.), Le discours et sa métho-
de, cit., 236-245.
51 Per un’approfondita disamina dell’argomentazione elenctica del principio di
non contraddizione in Aristotele e s. Tommaso, cf. P. PAGANI, Contraddizione performa­
tiva e ontologia, Franco Angeli, Milano 1999, 333-356.
36 Sistemi filosofici moderni

che porre il principio stesso, o, come dice Aristotele, «proprio per di­
struggere il ragionamento si avvale di un ragionamento (.anairon logon
hupomenei logon)»52. Tuttavia, una differenza basilare intercorre tra un
principio come quello di non contraddizione e un “principio” come
Yego existo. Certo, anche Descartes si esprime nettamente sul cogito
come principio nel Discorso sul metodo, definendolo «il primo princi­
pio della filosofia che cercavo»53. Similmente, nei Principi della filoso­
fia, il cogito ergo sum «è fra tutte [le cognitiones] la prima e la più certa
che si presenti a chi filosofi con ordine»54; tuttavia, più sotto, precisa di
non aver mai negato che prima di esso si possiedano delle nozioni sem­
plici, come «cosa sia il pensiero, cosa l'esistenza, cosa la certezza»55, e
persino proposizioni, quali «che non può essere che ciò che pensa non
esista» (corrispondente alla maggiore del sillogismo di cui abbiamo po-
canzi discusso), ma subito chiarisce che «sono nozioni semplicissime, e
tali che da sole non ci fanno conoscere alcuna cosa esistente»56.
Quest’ultima affermazione è della massima importanza57, perché
focalizza con precisione il contenuto del nostro principio e il suo valo­
re veritativo: l’esistenza singolare di me attualmente pensante. Non si
tratta dunque di una legge universale, ma a tutti gli effetti di un’infe­
renza particolare. Di certo io penso è vero, perché performativamente
io non penso equivale immediatamente a penso che io non penso; ma,
dal momento che io sono non è identico a io penso, in quanto l’essere
non coincide e non è riducibile al pensare, è necessario che questa se­
conda affermazione sia inferita dalla precedente58. Tale inferenza si dà
e si dà immancabilmente, dal momento che così come io non posso
dubitare che io penso, ugualmente non posso dubitare che io che at­
tualmente penso sono, dal momento che mi è del tutto impossibile
pensare che io che sto pensando non sono. Il fatto che io sono, però, è
impossibile da cogliere indipendentemente dall’esercizio effettivo del

52 Metaph., T4, 1006a 26 (trad. it., ARISTOTELE, Metafisica, a cura di G. REALE,


3 voli., Vita e Pensiero, Milano 1993, II, 147).
53 AT VI: 32 (O B I: 61).
54 AT V ili: 7 (O B I: 1715).
55 AT V ili: 8 (O B I: 1717).
56 AT VIII: 8 (O B I: 1719).
57 Cf. l’analisi dettagliata di questo aspetto in PARIENTE, Problèmes logiques du
Cogito, cit., 246-251.
58 «L e nature semplici “ pensiero” ed “esistenza” (per usare il lessico delle Rego­
le) non si connettono come due nozioni astrattamente intese: il pensiero viene “m esso in
atto” , e solo in questo esercizio permette di cogliere l’esistenza in atto» (Di BELLA, Le
Meditazioni metafisiche, cit., 63).
Le Meditazioni di Descartes 37

io penso, come se si trattasse di un fatto qualunque di cui è possibile o


meno accertarsi, perciò Yio sono non fa che esprimere il presupposto
ontologico immediatamente implicato nellVo penso; ed è solo nella mi­
sura in cui è indubitabilmente vero che io penso che è necessariamente
vero che io sono.
Tornando ora ai tre aspetti che prima avevamo rilevato sull’argo­
mento del cogito, possiamo coglierne più a fondo la portata, (a) Il cogi­
to è «principio» nel senso che nessuna conoscenza funge da suo pre­
supposto, ma lo è quanto all’ordine analitico inventivo, che viene av­
viato dall’esperimento del dubbio radicale. Nell’ordine sintetico, infat­
ti, il primo principio di tutte le cose è Dio, la cui esistenza «si conosce
in base alla sola considerazione della sua natura» (R2: 166). (b) L’argo­
mento del cogito ha una formulazione metalinguistica, perché in esso
la riflessione filosofica muove anzitutto dall’auto-oggettivazione del
pensiero a se stesso, capace di cogliere la prima immediata istanza
d’indubitabilità, costituita dalla performanza dell’atto di pensare: mi è
impossibile dubitare di essere pensante, (c) Ma, il punto decisivo sta
nel fatto che all’interno stesso dell’auto-oggettivazione del cogito emer­
ge necessariamente un’implicazione ontologica, che non appartiene più
semplicemente all’ordine della lingua-oggetto bensì all’essere, ovvero
alla posizione, alTaver luogo effettivo dell’esistenza singolare del sog­
getto pensante59. Ciò che Descartes intende mostrare è la necessità
dell’apertura del pensiero nei confronti dell’essere: nel cogito l’atto di
pensare non può evitare di cogliersi già da sempre implicato nell’esi­
stenza. Il che non significa in alcun modo racchiudere l’essere nei con­
fini del pensiero - come qualcuno ha erroneamente inteso confonden­
do l’ordine della scoperta con l’ordine delle cose - ma al contrario mo­
strare come il pensiero giunga a cogliersi come già da sempre incluso
nell’orizzonte dell’essere.
Detto ciò, il meditante giunge a interrogarsi su «chi mai sia io,
quell’io che già necessariamente sono (quisnam sim ego ille, qui jam
necessario sum)» (M2: 25), una domanda assai ardua, che nella sua
complessa formulazione introduce la terza persona {ille) pur mante­

59 «Le cogito est en effet d ’une part horizon de tout ce qui est pensé, “limite du
monde”, comme le dira Wittgenstein [Tractatus logico philosophicus, n. 5], mais d’autre
part il est lui-mème un événement, un objet dans le monde, mème si le monde consiste
seulement en cet unique objet» (R. SPAEMANN, Le sum dans le cogito sum, in GRIMALDI-
M arion (edd.), Le discours et sa méthode, cit., 276; l’articolo è stato poi pubblicato an­
che in tedesco, Id., Das Usuma im “cogito sum \ in «Zeitschrift fùr philosophische For-
schung» 41 [19871,377).
38 Sistemi filosofici moderni

nendosi esclusivamente dal punto di vista della prima (sim ego, qui
sum). La legittimità di un tale passaggio si basa sulla consapevolezza
che Vego existo è emerso come residuo dell’eversione delle certezze ope­
rata dal dubbio, certezze che ora, facendo leva sul punto archimedeo
del cogito, il meditante può progressivamente tentare di recuperare:
«Mediterò ora di nuovo, quindi, su cosa io credevo un tempo di esse­
re». Questa seconda fase della meditazione, non rappresenta però un
mero corollario della prima, bensì, come il titolo della Meditazione II
esplicita, il suo primo obiettivo: «La natura della mente umana; che essa
è più nota del corpo» (M2: 23 )60. Tra le cose che il meditante può recu­
perare, nel tentativo di definire la propria natura, vi è «anzitutto, che
avevo volto, mani, braccia [...]» (M2: 26), insomma un corpo, e poi che
«mi nutrivo, camminavo, sentivo e pensavo [...]», tutte azioni riferibili
a un qualcosa comunemente chiamato anima. Su tutti questi aspetti
continua comunque a esercitare la sua funzione catartica il dubbio, an­
cora impersonato dal Genio maligno, e ogni cosa sembra svanire nuo­
vamente, tranne una: «il pensiero; esso soltanto non può essermi tolto
via» (M2: 27). Da qui il meditante può giungere a questa conclusione:
Nulla ammetto, adesso, se non ciò che è necessariamente vero; precisa-
mente, dunque, sono soltanto una cosa pensante, ossia una mente, o animo, o
intelletto, o ragione; parole di cui prima mi era ignoto il significato. Però sono
una cosa vera, e veramente esistente; ma quale cosa? L’ho detto: pensante
(M2: 27)61.

Molti sono gli aspetti interessanti di questa affermazione epocale62,


ne sottolineo soltanto alcuni: (a) la verità della natura dell’ago è neces­

60 S. Di Bella nota acutamente come «il rilievo teorico del Cogito non risieda
tanto nella prova della propria esistenza contro lo scetticismo radicale (così inteso, è
tutt’altro che un’invenzione originale), quanto nel decisivo contributo all’indagine sulla
“natura della mente”. E attorno ad una certa intuizione del nesso tra conoscenza dell’e­
sistenza e conoscenza della natura dell’io, che si organizza e trova unità tutto l’impianto
della IIMeditazione [ ...] » (Di BELLA, Le Meditazioni metafisiche, cit., 68). Questa ope­
razione manifesta anche il preciso intento di Descartes di ribaltare la dottrina tradizio­
nale, peripatetico scolastica, sull’anima, cf. J.P. CARRIERO, The Second Meditation and
thè essence o f thè mind, in OKSENBERG RORTY (ed.), Essays on Descartes’ Méditations,
cit., 199-221.
61 «Nihil nunc admitto nisi quod necessario sit verum; sum igitur praecise tan­
tum res cogitans, id est, mens, sive animus, sive intellectus, sive ratio, voces mihi prius
significationis ignotae. Sum autem res vera, et vere existens; sed qualis res? Dixi, cogi­
tans» (M2: 27).
62 Cf. S. LANDUCCI, La mente in Cartesio, Franco Angeli, Milano 2002; L. A la -
NEN, Descartes’s Concept ofMind, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2003.
Le Meditazioni di Descartes 39

saria come la verità dell’i o existo stesso, perché si tratta di due verità
coessenziali e inscindibili63; (b) dicendo di essere una cosa pensante,
ovvero «una cosa che dubita, intende, afferma, nega, vuole, non vuole,
immagina, inoltre, e sente» (M2: 28), Descartes non intende porre una
qualche sostanza al di sotto dell’atto di pensare, tanto meno un sostra­
to di tipo psicofisico, bensì individuare nel pensare stesso, con tutta la
varietà dei suoi modi, la capacità di essere sostanza64; (c) dicendo poi
di essere soltanto un che di pensante, pone i presupposti per il cosid­
detto dualismo tra mente e corpo, rovesciando la concezione peripate­
tico scolastica basata da sempre sul primato dell’esperienza sensibile, e
gettando di fatto le basi per la fondazione della scienza cartesiana, ba­
sata sull’intuito delle nature semplici65.
Sebbene il meditante abbia raggiunto questa nuova ulteriore
certezza, nella terza e ultima fase della Meditazione II si riaffaccia la
questione dei corpi: «ancora mi sembra e non posso impedirmi di
credere che le cose corporee [...] sono conosciute molto più distinta-
mente di questo non so che di me che cade sotto l’immaginazione»
(M2: 29). Questo tratto argomentativo va a toccare il secondo obietti­
vo annunciato nel titolo della meditazione: la maggiore notorietà della
mente rispetto al corpo. Per fare ciò il filosofo si serve di un esempio
- divenuto molto celebre - che pone al centro della sua riflessione:
«questa cera, appena estratta dall’alveare» (M2: 30), con il suo sapo­
re, odore, colore, figura, grandezza, consistenza ecc. Appena però la
si avvicina al fuoco, tutte le precedenti qualità mutano: svanisce l’o­
dore, la figura si deforma, diventa liquida, trasparente ecc. Dal che ci
chiediamo, rimane o non rimane ancora la medesima cera? Rimane, a
detta di tutti, ma allora cosa ci ha permesso di definirla? «Certo, nulla
di ciò che coglievo con i sensi: infatti, tutto ciò che cadeva sotto il gu­
sto, o l’odorato, o la vista, o il tatto, o l’udito, è ormai mutato, mentre
la cera rimane». Ma se nessuna delle indefinitamente mutevoli qualità

63 «Mi meraviglio che voi, qui, riconosciate che tutto ciò che considero nella ce­
ra dimostra bensì che io conosco distintamente di esistere, non, però, chi o quale io sia,
poiché l’una cosa non si dimostra senza l’altra» (R5: 359); sulla distinzione e relazione
tra essenza reale ed essenza epistemica, cf. KEMMERLING, Das Existo und die Natur des
Geistes, cit., 44.
64 Sul valore di sostanza (termine non presente in M2) dell 'ego cogito disquisi­
sce a lungo MARION, Sur le prisme métaphysique, cit., 137-216.
65 Cf. P.A. SCHOULS, Descartes and thè Possibility of Science, Cornell University
Press, Ithaca (NY)-London 2000, 25-62; E. SCRIBANO, Guida alla lettura delle Medita­
zioni metafisiche di Descartes, Laterza, Roma-Bari 2000, 33-58.
40 Sistemi filosofici moderni

sensibili può stare alla base delTidentificare questa cera in se stessa,


ciò significa che non possiamo «immaginare» cos’è questa cera, bensì
«percepire con la sola mente» (M2: 31), tenendo presente che tale
percezione «non consiste né in una visione, né in un contatto, né in
un’immaginazione [...], ma è lo sguardo della sola mente (solius men­
tis inspectio)»66.
Capiamo quanto fosse decisivo per la fondazione della scienza
cartesiana raggiungere e mantenere questo puro sguardo della mente,
costantemente minacciato da quell’abitudine di confidare nei sensi,
così radicata nel sapere comune e avvalorata dalla teoria della cono­
scenza di matrice peripatetico scolastica, la quale si basa sul principio
secondo cui nihil est in intellectu, quod non fuerit in sensu (nulla è nel­
l’intelletto, se non è stato nei sensi). Principio che qui Descartes inten­
de rovesciare da capo a piedi67.

Obiezioni e risposte
Le obiezioni alla Meditazione II sono ben più numerose e consi­
stenti di quelle mosse alla precedente. Le principali sono per mano di
diversi teologi, raccolte da Mersenne, ma in verità redatte da costui
(02: 122-123; R2: 129-133), di Hobbes (OR3: 172-179), di Arnauld
(04: 197-199; R4: 219), di Gassendi (05: 258-277; R5: 350-361) e di
Bourdin (OR7: 477-535).
Tra quelle che hanno fatto discutere maggiormente troviamo an­
zitutto il dibattito con Hobbes, il quale, all’inizio della sua Obiezione
seconda, solleva un punto che non viene colto da Descartes, malaugu­
ratamente portato a sottovalutare le argomentazioni del suo interlocu­
tore d’oltremanica68. Il filosofo inglese, dopo aver ammesso che dal
fatto che io penso segue necessariamente che sono pensante, sostiene

66 II termine latino inspectio viene da in-spicio, «guardo dentro, osservo attenta­


mente, esamino»; il termine di una lingua moderna che mi sembra maggiormente avvici­
narsi al significato di ispectio è l’inglese insight. Sul rapporto tra semplice apprensione e
giudizio nella Meditazione II, cf. E. ANGELINI, Le idee e le cose. La teoria della percezione
in Descartes, Edizioni ETS, Pisa 2007, 141-205.
67 Alla fine della Meditazione II si legge: «in se stessi i corpi non sono propria­
mente percepiti dai sensi, o dalla facoltà di immaginare, ma dal solo intelletto, e non
vengono da esso percepiti in quanto sono toccati, o visti, ma solo in quanto sono intesi
{intelligantur)» (M2: 34); cf. CARRIERO, The Second Meditation and thè essence o f thè
mind, cit., 208-211. 214-217; SCRIBANO, Guida alla lettura, cit., 49-50; M. ROZEMOND,
The nature o f thè mind, in GAUKROGER, The Blackwell Guide, cit., 49-54.
68 Cf. A Mersenne, 21 aprile 1641 (AT III: 360 [LB: 1447]); MORI, Cartesio, cit.,
166-172.
Le Meditazioni di Descartes 41

che «Dal fatto che sono una cosa pensante segue Io sono perché ciò
che pensa non è un nulla» (OR3: 172). Però, dire non nulla non signifi­
ca immediatamente dire io, potrebbe anche voler dire un certo qualco­
sa, e quindi saremmo bensì autorizzati a dire ciò pensa, senza che que­
sto qualcosa sia necessariamente un anima, un io, e non piuttosto qual­
cosa d’impersonale, come un corpo69. E prosegue: «Io sono pensante,
dunque sono pensiero, non sembra un’argomentazione corretta. E nep­
pure questa: sono uno che intende, dunque sono un intelletto. Nello
stesso modo potrei infatti affermare: sono uno che passeggia, dunque
sono una passeggiata» (OR3: 173); dal momento che tutti ammettono
che bisogna distinguere il soggetto dai suoi atti o dalle sue potenze.
La risposta di Descartes è invero assai sbrigativa, a sottolineare
che la domanda gli appare così fuorviante da non meritare una lunga
disamina: «Né affermo come identiche la cosa che intende e l’intelle­
zione [atto], e neppure la cosa che intende e l’intelletto, se si prende
l’intelletto per la facoltà [potenza], ma solo quando lo si prende per la
cosa stessa che intende (re ipsa quae intelligit)» (OR3: 174). Sembra un
mero quiproquò, eppure l’obiezione di Hobbes è più raffinata e pene­
trante di quello che sembra, perché in effetti accusa la Meditazione II
di non essere riuscita a dimostrare che sia possibile concepire un sog­
getto pensante privo di estensione, ovvero non corporeo, e perciò on­
tologicamente distinto dai suoi atti o potenze, come invece Descartes
rivendica70.
Una delle più note critiche al cogito la troviamo all’inizio delle
Obiezioni V, gettata lì come fosse un’owietà: «non mi sembra che ave­
ste bisogno di tutto questo apparato, quando eravate d’altronde certo,
ed era vero, che voi siete, e sareste potuto arrivare alla medesima con­
clusione anche a partire da qualsiasi altra vostra azione» (05: 259), co­
me ad esempio «io cammino dunque sono» (R5: 352) oppure «respiro,
dunque sono»71. Descartes rimase molto deluso dalla trivialità di que­
sta obiezione e in generale dalle argomentazioni di Gassendi, assu­
mendo verso di lui un tono di scherno esageratamente polemico72. Ma
il problema è tutt’altro che irrilevante, e può essere formalizzato come

69 Su questo punto cf. BEYSSADE, La philosophie première, cit., 228-230.


70 Su questa “vulnerabilità” dell’argomentazione cartesiana evidenziata da
Hobbes, cf. E. CURLEY, Hobbes contre Descartes, in BEYSSADE-MARION (edd.), Descartes.
Objecter et répondre, cit., 149-162; Id., Hobbes versus Descartes, in ARIEW-GRENE (edd.),
Descartes and bis Contemporaries, cit., 97-109.
71 A Reneri per Pollo t, aprile o maggio 1638 (AT II: 37 [LB: 651)].
72 Sul dibattito tra Descartes e Gassendi, cf. MORI, Cartesio, cit., 181-189.
42 Sistemi filosofici moderni

segue: «se la massima per camminare (respirare) bisogna essere è una


proposizione che ha lo stesso statuto di per pensare bisogna essere, per­
ché è legittimo inferire io sono da io penso, ma non da io cammino (re-
spiroJ?»73. Descartes risponde da un lato che «la coscienza di cammi­
nare è un pensiero» (R5: 352) e che quindi io cammino si riduce di fat­
to a io penso di camminare, ma soprattutto rileva la circolarità conte­
nuta nella deduzione di io sono da io respiro (cammino), infatti: «biso­
gnerebbe prima aver dimostrato che è vero che si respira [cammina], e
questo non è possibile se non si è anche dimostrato che si esiste»74, ov­
vero il solo fatto che io possa pensare di camminare (respirare), indi­
pendentemente dal fatto che io sia in grado di provare che è vero o so­
lo una mia illusione, presuppone comunque che io esista per poter
produrre questo pensiero.
Nel seguito del testo, Gassendi dirige la sua disamina contro il
dualismo cartesiano nel suo complesso, abbracciando progressivamen­
te i contenuti della Meditazione II, III e VI. La sua argomentazione
può essere riassunta in questi termini: il dualismo cartesiano, che si
pone non solo al livello dell’indipendenza della res cogitans da ogni
estensione, ma coinvolge anche il dislivello epistemico tra sensazione e
immaginazione, da un lato, e intellezione, dall’altro, rende impossibile
qualunque comunicazione tra corpo e anima. Perciò, Gassendi propo­
ne di passare dal dualismo radicale di Descartes (basato sul paralleli­
smo oppositivo anima/infinito vs corpo/finito)75 al dualismo relativo
tra corpi grossolani e corpi sottili (ispirato all’epicureismo) capace - a
suo dire - di salvare al contempo la divisione e l’unione dei due poli.
Descartes replicherà che così facendo si viene a confondere una diffe­
renza d'essenza con una differenza di grado, inoltre è inopportuno por­
re il problema del dualismo a livello della Meditazione II, in quanto lì
esso non è ancora tematizzato e lo diverrà solo con la VI. Ma la que­
stione della relazione tra l’anima e il corpo resta, anzi diverrà uno dei
temi più complessi della filosofia cartesiana e più discussi di tutta la fi­
losofia moderna.

73 «si la maxime pour ?narcher (respirer) il faut ètre est une proposition de mème
statut que pour penser il faut ètre, pourquoi est-il légitime d’inférer Je suis de Je pense,
mais non de Je marche (respire)}» (PARIENTE, Problèmes logiques du Cogito, cit., 253
[trad. mia]).
74 A Reneri per Pollot, aprile o maggio 1638 (AT II: 37 [LB: 651)].
75 Su questo aspetto cf. J.L . C h ÉDIN, Descartes et Gassendi: le dualisme à l’é-
preuve, in BEYSSADE-MARION (edd.), Descartes. Ohjecter et répondre, cit., 163-178.
Le Meditazioni di Descartes 43

3. Dio esiste

Il filosofo apre la Meditazione III, come di consueto, con una


rassegna dei risultati guadagnati con la precedente, finora «io sono
certo di essere una cosa pensante» (M3: 35), ma forse - si chiede il
meditante con una domanda che inaugura e guida di fatto il nuovo iti­
nerario riflessivo - in me ci sono anche «altre cose cui ancora non ho
volto lo sguardo». Anzitutto, insieme al fatto di essere certo delego
sum ho anche ricavato il criterio generale in base al quale appurare la
certezza di qualcosa, infatti, dal momento che quel principio lo perce­
pivo in modo chiaro e distinto, ne deduco la regola generale in base al­
la quale «è vero tutto quello che percepisco molto chiaramente e di­
stintamente». Nella Meditazione 7, però, era stato messo in dubbio tut­
to quello che prima pareva certo, come la Terra, il cielo e in generale
gli oggetti dell’esperienza sensibile. Un’unica cosa si poteva percepire
chiaramente di tutto ciò, ovvero che «le idee, ossia i pensieri, di tali
cose erano presenti alla mia mente (talium rerum ideas, sive cogitatio-
nes, menti meae obversari)».
Qui Descartes introduce esplicitamente uno dei termini più im­
portanti della sua opera: le idee. A partire da Platone, le idee designa­
vano il modello archetipo e il fondamento ontologico delle cose espe­
ribili fenomenicamente, al punto che il neoplatonismo giunse a identi­
ficarle con quei contenuti dell’intelligenza divina che fungono da para­
digma per la creazione76. Il significato che invece Descartes attribuisce
alle idee - con una svolta che segnerà l’intera filosofia moderna - è
quello di pensieri (cogitationes) che la mente oggettiva (obversari) nel
senso che stanno di fronte ad essa, ossia ogni possibile oggetto imme­
diato della coscienza (es. percezioni, rappresentazioni, nozioni, affe­
zioni, volizioni ecc.)77. Il dubbio non poteva certo contestare che tali
idee fossero nella mente, ma poteva, anzi doveva sospendere quell’as­

76 Cf. F. F ronterotta - W. L eszl (edd.), Eidos - Idea. Platone, Aristotele e la


tradizione platonica, Academia, Sankt Augustin 2005; Descartes si dichiara ben consape­
vole del significato “tradizionale” del termine idea in OR3: 181.
77 Dobbiamo precisare che qui Descartes restringe l’ambito delle idee soltanto a
quelle riferite a cose, «l’uomo, o la chimera, o il cielo, o un angelo, o Dio» (M3: 37); più
oltre nel testo estenderà il significato di idee a «tutto ciò che è percepito immediatamen­
te dalla mente» (OR3: 181; cf. R2: 160), quindi anche affezioni, volizioni ecc.; cf. A Mer­
senne, 28 gennaio 1641 (AT III: 295 [LB: 1393]). Sulle idee in Descartes, cf. S. N a d ler ,
The doctrine of ideas, in GAUKROGER, The Blackwell Guide, cit., 86-103; sull’evoluzione
del termine idea da Descartes in poi, cf. M. FATTORI - M .L. BIANCHI (edd.), Idea. VI Col­
loquio internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1990.
44 Sistemi filosofici moderni

senso che ci portava a ritenere spontaneamente che fuori di noi ci fos­


sero «cose dalle quali tali idee derivano, ed alle quali erano in tutto si­
mili», ossia oggetti extramentali corrispondenti alle idee.
A questo punto il filosofo inverte il flusso meditativo, assumen­
do l’ipotesi del Dio ingannatore come spunto per la soluzione della
questione concernente gli oggetti extramentali, con un’affermazione
per certi versi sorprendente per il lettore che cominciava ad assuefarsi
alla visone iperbolica del dubbio: «poiché non ho alcun motivo di rite­
nere che ci sia un Dio ingannatore, e neppure so ancora se ci sia un
Dio, la ragione di dubbio che dipende esclusivamente da quell’opinio­
ne è molto tenue e, per così dire, metafisica» (M3: 36). Ovverosia, le
ragioni dell’evidenza delle percezioni immediate delle cose invece di
essere messe in questione dall’ipotesi del Dio ingannatore, stavolta
sembrano mettere esse stesse in questione tale ipotesi e il suo fonda­
mento, cioè l’esistenza stessa di Dio. Con ciò intuiamo che Descartes,
con un’operazione molto complessa che richiederà diversi rovescia-
menti riflessivi, intende usare la dimostrazione dell’esistenza di Dio
per fondare la certezza nei giudizi sugli oggetti extramentali. Ma prima
di fare ciò, deve dimostrare che tutte le altre strade sono impraticabili.
Il meditante decide di partire dal punto più semplice e ovvio, os­
sia da un’analisi riflessiva del nostro pregiudizio spontaneo di ritenere
che i contenuti mentali si riferiscano, ovvero derivino e siano simili a
cose esterne a noi e, per fare ciò, procede a una enumerazione dei con­
tenuti mentali, allo scopo di vedere se esista un genere di essi tale da
richiedere e garantire il riferimento a cose esterne78. Anzitutto, da un
lato ci sono le semplici «immagini di cose» (M3: 37) - le idee in senso
stretto (es. idea di uomo, chimera, cielo ecc.) - dall’altro ci sono conte­
nuti mentali più complessi che si riferiscono a tali immagini, come vo­
lizioni, affetti e giudizi. Le idee però, prese in se stesse, non possono
essere false (sia che io immagini una capra che una chimera), e ugual­
mente volizioni e affetti (es. “voglio la luna” è un desiderio vero anche
se è irrealizzabile), solo i giudizi possiedono un valore veritativo e per
questo sono soggetti all’errore, dal momento che pretendono di riferi­
re a esistenze extramentali determinate idee della mente.
Le idee, poi, possono essere o innate, o avventizie, o fattizie a se­
conda che sembrino aver origine dalla mia stessa natura, o provenire
da qualcosa ritenuto fuori di me, o essere da me liberamente prodotte.

78 Cf. Regola VII (AT X: 387-392 [OB II: 717-723]).


Le Meditazioni di Descartes 43

Ma, a questo livello della meditazione, non sapendo ancora se esista o


meno una qualche realtà extramentale: «posso forse pensare che esse
sono tutte avventizie, o tutte innate, o tutte fatte da me» (M3: 38). Tra
queste idee, però, le avventizie sono quelle che più delle altre appaiono
in grado di provenire e di essere simili a cose esterne. Infatti, da un lato
siamo naturalmente spinti a ritenerle originate dall’esterno, inoltre esse
non dipendono dalla volontà e quindi da noi stessi (es. ora sento caldo,
che io lo voglia o no, e perciò riferisco questo caldo a qualcosa d’altro
da me, come il sole); tuttavia - replica Descartes - un impulso naturale
non è un criterio certo di verità e l’involontarietà non mi dice nulla cir­
ca la reale origine di tali idee. Inoltre, anche ammettendo che queste
idee provengano da cose fuori della mente, nulla garantisce la loro si­
militudine con tali cose: ad esempio l’idea avventizia del Sole che mi
formo attraverso i sensi è assai diversa dall’idea del Sole che mi formo
mediante le nozioni matematiche innate che applico all’astronomia,
giacché in un caso mi appare molto più piccolo della Terra, nell’altro
so che è di molte volte più grande79. Perciò il filosofo giunge a questa
desolante conclusione: «Tutto ciò dimostra a sufficienza che non è sta­
to per un giudizio certo, ma solo per un cieco impulso, che ho sinora
creduto che esistano cose diverse da me che, attraverso gli organi dei
sensi, o in qualsiasi altro modo, immettono in me le loro idee o imma­
gini» (M3: 40). Il meditante sembra così destinato a restare chiuso nel­
l’orizzonte solipsistico del cogito, nel quale è certo solo e soltanto della
propria esistenza. A meno che non gli si apra un’altra via.
Le idee, considerate come abbiamo fatto sinora, cioè in base alla
loro origine, non differiscono sostanzialmente tra di loro: tutte in fon­
do derivano da me, incapaci di mostrare alcuna intrinseca relazione
extramentale. Ma le stesse idee, considerate sotto una nuova prospetti­
va, ovvero in base alVoggetto che rappresentano, risultano affatto diffe­
renti l’una dall’altra. E proprio riflettendo su questo aspetto, il medi­
tante trova che:
senza dubbio, le idee che mi fanno vedere delle sostanze sono qualcosa
di più grande e, per così dire, contengono in sé più realtà obiettiva (plus reali-
tatis objectivae) di quelle che rappresentano soltanto modi, ossia accidenti; e,
ancora, quella attraverso cui intendo un Dio sommo, eterno, infinito, onni­

79 L’esempio che qui porta Descartes è solo apparentemente illustrativo, in


realtà riflette una problematica di fondo sottesa a tutte le Meditationes, ovvero l’impossi­
bilità di basare la scienza certa sulle percezioni sensibili e la necessità di elaborare un al­
tro fondamento.
46 Sistemi filosofici moderni

sciente, onnipotente e creatore di tutte le cose che sono fuori di lui, ha senz al­
tro in sé più realtà obiettiva di quelle attraverso le quali mi vengono fatte ve­
dere delle sostanze finite (M3: 40).

Questa affermazione sarebbe difficilmente comprensibile, se


non tenessimo presente che - secondo una terminologia tratta da Suà­
rez - Descartes distingue in ciascuna idea, da un lato la sua realtà for­
male e dall’altro la sua realtà obiettiva, ovvero rispettivamente il suo at­
to di essere (dalla forma nel senso aristotelico) e il suo contenuto (ciò
che il pensiero oggettiva)*®. Ulteriormente strano in questo testo è poi
il fatto che, basandosi sulla sola realtà obiettiva delle idee, ovvero sul
loro puro contenuto noematico, Descartes distingua un più e un meno
e quindi tracci una scala di tre gradi di realtà (modi o accidenti, so­
stanze finite, sostanza infinita), per poi introdurre, subito dopo, una
nozione altrettanto decisiva, che viene a completare questo vero e pro­
prio punto di svolta nelle Meditazioni cartesiane: la causalità. Il medi­
tante nota immediatamente che «è manifesto per lume naturale che in
una causa efficiente e totale ci deve essere almeno tanta realtà quanta
ce n’è nell’effetto della stessa causa». Dobbiamo prendere atto che,
con l’«altra via» che abbiamo intrapreso dopo che la precedente si era
rivelata inaccessibile, da uno scenario puramente “cogitativo” tutto
fatto di pensieri e idee che tentavano inutilmente di accedere alla
realtà extramentale, abbandonandoci a una deriva solipsistica, siamo
passati a uno scenario in cui riappaiono i termini più classici della me­
tafisica, ovvero sostanza e causa. E questo forse il passaggio più diffici­
le e nevralgico dell’opera, dove Descartes compie una vera riappro­
priazione e rifondazione della metafisica81.

80 Questa distinzione, già complicata dal fatto che in genere noi oggi usiamo il
termine oggettivo (vs. soggettivo) per indicare la realtà extramentale di qualcosa, è ulte­
riormente complicata dal fatto che talvolta Descartes chiama realtà materiale quella che
qui chiama formale, (es. AT VII: 8 [O B I: 691]), cf. V. CHAPPELL, The theory ofideas, in
O k senberg R orty (ed.), Essays on Descartes’ Méditations, cit., 177-198.
81 A proposito del ruolo della causalità nella Meditazione III, J.-L. Marion parla
di un «nuovo principio» (dopo il cogito) e quindi di un «secondo inizio» delle Medita­
zioni: «L a causalité, efficiente en tant que totale, ne doit intervenir qu’au moment précis
où Yego lui-méme se met en quète du fondement de sa propre existence cogitative. Et
pour transiter d’une existence d’étant cogitatif à une existence absolument fondée, lego
doit cesser de se définir à partir de l’essence de 1’ens ut cogitatum, et en appeler à une
parole plus essentielle sur l’étant dans son ètre: Yens ut causatum, dont la formulation in­
tervieni alors et alors seulement, comme une incontournable évidence. Posée comme
nouveau principe, voire comme le second commencement des Meditationes, la causa dé-
ploie immédiatement et directement son autorité sur ce qu’il s’agit de surpasser, la cogi-
Le Meditazioni di Descartes 47

Il principio di causalità comporta che un effetto non può deriva­


re dal nulla e nemmeno da qualcosa che possiede meno realtà di esso,
ma - con un vero colpo da maestro, foriero di un acceso dibattito82 -
il meditante precisa che «ciò è vero in modo perspicuo non solo per
quegli effetti la cui realtà è attuale, ossia formale, ma anche per le idee
nelle quali si considera la sola realtà obiettiva» (M3: 41). Ad esempio,
una pietra non può venire dal nulla né da qualcosa di dotato di una
realtà formale inferiore a essa, ma anche l’idea della pietra deve neces­
sariamente essere stata «posta in me da una qualche causa in cui vi sia
almeno tanta realtà quanta concepisco esserne [...] nella pietra», ovve­
ro la realtà obiettiva di un’idea deve derivare da una causa che possie­
de almeno tanta realtà formale quanta ne possiede quella obiettiva. A
ciò si potrebbe controbattere che un’idea può benissimo derivare la
sua realtà obiettiva dalla realtà obiettiva di un’altra idea, senza neces­
sariamente dover coinvolgere una qualche realtà formale. La risposta
di Descartes segna un punto decisivo, anche se non conclusivo, del­
l’argomentazione:
E sebbene, forse, un’idea possa nascere da un’altra, qui non si dà tutta­
via un regresso all’infinito, ma si deve infine giungere ad una prima idea la cui
causa sia, per così dire, l’archetipo (archetypi) in cui è contenuta formalmente
tutta la realtà che nelle idee è soltanto obiettivamente (M3: 42).

Dobbiamo però fare attenzione a due aspetti di questa risposta,


tenendo ben presente che noi non sappiamo ancora se tale realtà for­
male sia extramentale o meno, quello che qui Descartes giunge a di­
mostrare è soltanto (a) il fatto che la realtà obiettiva di un’idea deve
necessariamente rimontare a una causa formale archetipa e che (b)
questa causa formale non può possedere meno realtà del suo effetto.
Difatti, la domanda che subito dopo il meditante si pone è se ci sia al­
meno una delle sue idee che possieda una realtà obiettiva tale da esclu­
dere categoricamente che lui ne sia la causa, perché solo così potrà es­
sere certo non solo della propria esistenza, ma anche dell’esistenza di
una cosa diversa da se stesso.

tatto méme» (MARION, Sur le prisme métaphysique, cit., 119). Giustamente si tratta di un
«secondo inizio» perché così come l’atto di pensare non potendo provenire dal nulla ri­
chiedeva l’esistenza dell’ago - includendo implicitamente la causalità o «dal nulla non
viene nulla» - così ora, su un livello esplicito, il principio di causalità emerge nel supera­
mento riflessivo col quale Yego s’interroga sul fondamento della propria esistenza.
82 Vedi l’obiezione di Caterus (O l: 92-94; RI: 102-106), di cui parleremo più
avanti.
48 Sistemi filosofici moderni

Da una rapida rassegna delle idee che «si trovano» nella mente,
oltre all’idea dell’io, scopriamo le idee di cose corporee, inanimate o
animate, l’idea di uomini simili a noi, di angeli e l’idea di Dio. Descartes
esamina quindi la realtà obiettiva di ciascuna di queste idee, giungendo
a dimostrare che non è possibile escludere che tali idee appartengano
formalmente all'ego, ovvero siano modi di esso. Tutte tranne una. L’idea
di Dio, inteso come «una sostanza infinita, indipendente, sommamente
intelligente, sommamente potente, e dalla quale siamo stati creati sia io
stesso, sia ogni altra cosa, se qualche altra cosa c’è, quale che sia»
(M3: 45)83, tanto più vi si pone attenzione, tanto meno sembra proveni­
re da noi stessi. Da tutto ciò, «si deve concludere che Dio esiste neces­
sariamente (Deum necessario existere, est concludendum)».
E questa la prima84 dimostrazione dell’esistenza di Dio che tro­
viamo nelle Meditazioni, la cui struttura, in sintesi, è la seguente: la
realtà obiettiva delle idee deve essere sempre riconducibile a una
qualche causa formale; ma tutte le idee che trovo nella mia mente so­
no formalmente riconducibili a me stesso tranne una, l’idea di Dio, in
quanto per definizione (infinito) non può avere la sua causa formale
in me (finito); quindi Dio esiste necessariamente. Il filosofo era ben
conscio che, per quanto desiderasse ridurre la sua argomentazione al
numero di passaggi minore possibile, questa necessitava di essere ul­
teriormente spiegata, soprattutto tenendo conto delle resistenze che
avrebbe sollevato nei suoi lettori contemporanei: tanto nei materialisti
atei, quanto in quei “materialisti credenti” che agli occhi di Descartes

83 Qualche riga prima Descartes aveva definito sostanza: «una cosa atta ad esi­
stere per sé {per se apta est existere)» (M3: 44); nei Principia I, art. 51: «Per sostanza non
possiamo intendere altro se non una cosa che esiste in maniera tale da non aver bisogno
di alcun’altra cosa per esistere {ut nulla alia re indigeat ad existendum)» (AT V ili: 24
[OB I: 1745]); cf. J.-L. M ario n , Sostanza e sussistenza. Suàrez e il trattato della substan­
tia nei Principia, I, 31-34, in J.-R. ARMOGATHE - G. BELGIOIOSO (edd.), Descartes: Prin­
cipia Philosophiae (1644-1994), Vivarium, Napoli 1996, 231-254; J. SECADA, The doctri-
ne of substance, in GAUKROGER, The Blackivell Guide, cit., 67-85. Sulla definizione di
Dio come substantia infinita e sul suo confronto con le altre, ens summe perfectum e cau­
sa sui, cf. J.-L. MARION, The essential incoherence of Descartes’ definition of divinity, in
B ey ssa d e -M arion (edd.), Descartes. Objecter et répondre, cit., 297-338; per un esame
capillare dell’idea chiara e distinta di Dio, cf. I. AGOSTINI, Lidea di Dio in Descartes.
Dalle Meditationes alle Responsiones, Le Monnier, Milano 2010.
84 Nelle Meditationes troviamo tre argomenti per provare l’esistenza di Dio, due
detti “a posteriori” o “argomenti causali”, uno detto “a priori” o - a partire da Kant -
“argomento ontologico” : il primo, è in genere localizzato nel testo immediatamente se­
guente la conclusione appena dichiarata da Descartes (M3: 45-48); il secondo occupa la
parte finale della meditazione (M3: 48-52); il terzo lo troveremo in M5: 65-69.
Le Meditazioni di Descartes 49

erano i filosofi e teologi scolastici85. Perciò, dopo la conclusione che


abbiamo appena letto, assistiamo a due ondate successive di chiari­
menti e spiegazioni, che di fatto sono risposte anticipate alle obiezioni
e resistenze più probabili: la prima basata sull’idea di infinito, la se­
conda sulla causa di sé.
La nozione d’infinito era stata introdotta - quasi come ovvia -
nella definizione dell’idea di Dio, sostanza infinita, ma il filosofo è con­
sapevole che si tratta di una nozione tanto decisiva quanto problemati­
ca86. Anzitutto è decisiva, perché «quand’anche l’idea di sostanza fosse
in me per il fatto stesso che io sono sostanza, non per questo, tuttavia,
vi sarebbe l’idea della sostanza infinita, perché sono finito, a meno che
essa non provenisse da una sostanza che fosse infinita in realtà»
(M3: 45), e quindi l’idea di Dio, che trovo in me, deve avere la sua cau­
sa formale in una sostanza attualmente infinita, quale io non solo e qua­
le solo Dio è. Ma è anche problematica, perché per lo più è ritenuta una
nozione negativa, e perciò vuota, derivata e confusa; mentre Descartes
pretende che essa sia positiva, e quindi piena, primaria e intellegibile:
infatti, intendo manifestamente che c’è più realtà nella sostanza infinita
che in quella finita e che, quindi, in me, la percezione dell’infinito viene prima
di quella del finito, ossia quella di Dio prima di quella di me stesso. In che mo­
do, infatti, intenderei di dubitare, di desiderare, vale a dire che mi manca
qualcosa e non sono interamente perfetto, se non ci fosse in me alcuna idea di
un ente più perfetto, paragonandomi al quale riconoscere i miei difetti?

Questo testo è - a mio giudizio - uno dei passaggi cruciali del­


l’opera. In esso mi sembra essere racchiusa la cifra sistematica delle
Meditazioni, svelata dal meditante laddove si chiede: come potrei in­
tendere di dubitare se non fossi capace d’intendere già una perfezione
maggiore della mia? Si tratta in effetti di una riflessione che mostra il
proprio superamento, giacché il dubitante nell’atto di riflettere sulle
condizioni di possibilità del suo stesso dubitare, vede che tale dubitare
è già da sempre compreso all’interno dell’orizzonte di una perfezione,
la quale è da un lato trascendente, nella misura in cui con la sua infini­
tezza anticipa e conferisce significato alla finitezza del dubitare, e dal­
l’altro lato è immanente nella misura in cui emerge nel desiderio di essa

85 Dal punto di vista di Descartes, scolastici e libertini sono «Due avversari ap­
parentemente opposti, per lui accomunati alla radice nel primato erroneamente assegna­
to alla conoscenza sensibile» (Di B el l a , Le Meditazioni metafisiche, cit., 99-100).
86 Cf. I. AGOSTINI, I! infinità di Dio. Il dibattito da Suàrez a Caterus (1597-1641),
Editori Riuniti, Roma 2008.
50 Sistemi filosofici moderni

che il dubitante scopre in se stesso87. Ebbene, dubbio e infinito sono


di fatto il punto di partenza e il punto d’arrivo dell’intero itinerario
meditativo sin qui percorso.
Come R. Spaemann ha ben messo in luce88, dall’uno all’altro
estremo di questo itinerario si passa attraverso un movimento riflessivo
nel quale ogni nuovo grado emerge come orizzonte e condizione del
precedente: (a) all’inizio siamo partiti dal sapere comune, costituito da
quella «coscienza ingenua» che funge da orizzonte quotidiano della
nostra comprensione del mondo, (b) il dubbio non ha fatto altro che
oggettivare questo orizzonte, mostrando che l’evidenza ingenua delle
nostre opinioni non è che una «idiosincrasia possibile»; (c) il dubbio a
sua volta è stato sussunto dalla cogitatio, giacché «il dubbio, divenen­
do oggetto del dubbio, scompare», nella misura in cui non è in grado
di eliminare l’atto stesso con cui esso tenta di eliminarsi, ovvero negan­
dosi conferma performativamente l’orizzonte cogitativo dal quale ten­
ta invano di sottrarsi; (d) la riflessione del cogito su se stesso, quindi,
lascia emergere il sum come sua implicazione ontologica ineludibile, e
Yego appare finalmente come un «fatto», una res, res cogitans\ (e) infi­
ne, la riflessione sull’evento stesso della res cogitans, circa il suo stesso
accadere o aver luogo nell’essere, fa sì che il sum divenga oggetto a se
stesso, ovvero ponga la domanda circa il «senso» che ha dire io sono.
Ebbene, proprio tale domanda svela l’orizzonte assoluto che compren­
de il sum senza poter essere da lui adeguatamente compreso.
Siamo tornati così al testo da cui eravamo partiti, e che Spae­
mann spiega così: «ciò che rende possibile il dubbio e ciò che rende
possibile Poltrepassamento definitivo del dubbio sono la stessa cosa,
ossia l’anticipazione di una coscienza assoluta e, con essa, di un mon­
do definitivamente vero. Se non ci fosse un mondo vero, il sospetto
che il mio mondo possa essere falso non avrebbe senso»89. Il cogito
scopre l’idea di Dio come cooriginaria e concomitante a sé, non solo

87 Sulle evidenti ascendenze agostiniane di questa argomentazione, cf. S. M e n n ,


Descartes and Augustine, Cam bridge University Press, Cam bridge 2002, 245-299; C.
WlLSON, Descartes and Augustine, in J. BROUGHTON - J. CARRIERO (edd.), A Companion
to Descartes, Blackwell, M alden (MA) 2008, 33-51.
88 Riprendo qui le considerazioni di SPAEMANN, Le sum dans le cogito sum, cit.,
276-281; Id., Das “sum” im “cogito sum” , cit., 378-382.
89 «ce qui rend possible le doute et ce qui rend possible le dépassem ent défini-
tif du doute, c’est la mème chose, à savoir l’anticipation d ’une conscience absolue et,
avec cela, d ’un m onde définitivement véritable. S ’il n ’y a pas de monde véritable, le
soupgon que mon m onde pourrait ètre faux n ’a pas de sens» (SPAEMANN, Le sum dans le
cogito sum, cit., 279 [trad. m ia]; Id., Das “sum” im ucogito sum”, cit., 379]).
Le Meditazioni di Descartes 51

perché - come detto - la sua finitezza e fallibilità non possono che sta­
gliarsi sullo sfondo della verità, ma soprattutto perché il cogito prende
coscienza di non avere egli stesso posto tale orizzonte veritativo, bensì
di accadere in esso, ovvero di essere da esso giudicabile come vero o
come falso. In questa relazione d’alterità, la domanda di senso trova la
sua risposta: «Non è soltanto per me che io sono per me. Questo signi­
fica: io sono»90.
Dal punto di vista sistemico, Dio svolge nelle Meditazioni un
ruolo primario e centrale. All’inizio della Meditazione I, l’opinione di
un «Dio che può tutto» era stato il pungolo che aveva smascherato de­
finitivamente la doxa della coscienza ingenua, spingendo il meditante a
radicalizzare il dubbio; al termine della Meditazione III, l’idea di Dio
proietta la finitezza del cogito sullo sfondo assoluto della verità, met­
tendolo in relazione con la certezza di una causa extramentale, che
può ora fungere da prima pietra per la ricostruzione dcWepisteme.
Dio, dunque, sta tanto all’inizio dell’itinerario decostruttivo, quanto al­
l’inizio dell’itinerario ricostruttivo che - come vedremo - prenderà pie­
de dalla Meditazione V in avanti.

Obiezioni e risposte
Le obiezioni sollevate verso la Meditazione III sono tra le più no­
tevoli di tutta l’opera, tra esse vanno annoverate quelle di Caterus
(Ol: 91-101; RI: 101-121), di teologi vari [Mersenne] (02: 123-126;
R2: 133-145), di Hobbes (OR3: 179-189), di Arnauld (04: 206-208;
R4: 231-235) e di Gassendi (05: 277-307; R5: 361-374)91. Tra queste
una serie in particolare ha destato un approfondito dibattito, quella a
cura dell’arciprete olandese Johannes Caterus, il quale non era certo
un pensatore di grande spessore e tuttavia replica sobriamente a De­
scartes, partendo proprio da quella scolastica che il filosofo francese
intendeva superare e, così facendo, lo costringe a precisare e approfon­
dire ulteriormente il suo pensiero92. La prima obiezione riguarda la
realtà obiettiva delle idee: «Ma che cosa significa essere obiettivamente
nell’intelletto? L’ho appreso tanto tempo fa: terminare l’atto dell’intel­

90 «Ce n’est pas seulement pour moi que je suis pour moi. Cela veut dire: je
suis» (SPAEMANN, Le sum dans le cogito sum, cit., 281 [trad. mia]; I d ., Das “sum” im “co­
gito sum”, cit., 381).
91 Sul ruolo dell’idea di Dio in tale dibattito, cf. AGOSTINI, L’idea di Dio in Descar­
tes, cit., 89-130 (Caterus); 131-179 (Mersenne); 180-200 (Hobbes); 201-245 (Gassendi).
92 Cf. T. V er bee k , The First Objections, in A riew -G ren e (edd.), Descartes and
his Conte?nporaries, cit., 21-33; MORI, Cartesio, cit., 151-157.
52 Sistemi filosofici moderni

letto stesso al modo di un oggetto. Il che è sicuramente una denomina­


zione estrinseca, ed un nulla rispetto alla cosa» (Ol: 92). Per il teologo,
la realtà obiettiva non è che un mero nome (pura denominano) asse­
gnato alla cosa, pertanto non è un qualcosa in atto di cui abbia senso
ricercare la causa. La risposta di Descartes è molto istruttiva. Il suo av­
versario considera la realtà obiettiva immediatamente in senso “realisti­
co”, ovvero in relazione con una qualche cosa che si trova fuori dell’in­
telletto, realtà che il meditante non aveva ancora provato: «io parlo in­
vece dell’idea che non è mai fuori dell’intelletto e rispetto alla quale es­
sere obiettivamente non significa altro che essere nell’intelletto nel mo­
do in cui gli oggetti sono soliti essere in esso» (Ri: 102). Mentre Cate-
rus pensa spontaneamente a una struttura a tre termini, realtà formale -
realtà obiettiva - cosa, Descartes si limita per ora a una concezione a
due termini, dal momento che la cosa non è ancora stata accertata.
Caterus passa poi ad attaccare la seconda prova dell’esistenza di
Dio avanzata nella Meditazione IIP3. Descartes dice di proporre que­
sta ulteriore prova per ovviare a quell’offuscamento della mente pro­
vocato dalle cose sensibili, che ci impedisce d’intendere la «causa delle
idee»; in realtà, per prevenire quelle difficoltà che un tipico lettore
scolastico - vedi Caterus - avrebbe incontrato circa la teoria delle idee
posta a base della prima prova. Descartes allora - seguendo più da vi­
cino la dinamica a posteriori delle classiche prove tomiste - parte da
una domanda rivolta non più alla causa dell’idea di Dio, bensì alla
causa dell’i o in quanto tale: «Da chi dunque verrei? O da me, o dai
miei genitori, o da chiunque altro meno perfetto di Dio: nulla, infatti,
può essere pensato, o finto, più perfetto di lui, e neanche ugualmente
perfetto» (M3: 48). La causa dell’ago, perciò, risiederà nell’évo stesso o
in altro? Ma Yego certo non può darsi l’esistenza da sé, perché altri­
menti non avrebbe dubbi né desideri e sarebbe perfetto: «infatti, mi sa­
rei dato tutte le perfezioni di cui c’è in me un’idea e così sarei Dio in
persona». A ciò si potrebbe controbattere che Yego potrebbe essere
sempre esistito quale è ora, e che pertanto non sia necessario ricercare
una causa della sua esistenza. Descartes, rifacendosi alla tesi tradizio-

93 Questa prova era stata già formulata nel Discours (AT VI: 34 [OB I: 63]) e
verrà ripresa nei Principia I, art. 20-21 (AT V ili 12-13 [OB I: 1725-1727]); cf. SCRIBA-
NO, Guida alla lettura, cit., 72-81; G . HATFIELD, Routledge Philosopby Guidebook to De­
scartes and thè Méditations, Routledge, Abingdon 2003, 164-181; L. N o lan - A. N e l -
SON, Proofs for thè existence ofGod, in GAUKROGER, The Blackwell Guide, cit., 105-112;
sulle obiezioni di Caterus, cf. J.-R. ARMOGATHE, Caterus Objections to God, in ARIEW-
GRENE (edd.), Descartes and his Contemporaries, cit., 34-43.
Le Meditazioni di Descartes 53

naie della creazione continua, dimostra che Vego per essere causa di sé
dovrebbe avere la forza di sostenere la propria esistenza in ogni istan­
te, ma «se una tale forza fosse in me, ne sarei senz’altro cosciente»
(M3: 49). Dunque, conclude il filosofo, se la causa dell 'ego non può
essere da sé, deve essere in altro e questo altro non può che essere Dio
stesso, perché nulla meno perfetto di Dio (es. i genitori) può aver fatto
Yego tale da possedere in sé l’idea di Dio.
Di fronte a tale prova, Caterus nota immediatamente che «Que­
sta è esattamente la stessa famosa via percorsa anche da san Tommaso,
che la chiamava via dalla causalità efficiente94 e che aveva desunto dal
Filosofo [Aristotele]» (Ol: 94), e poi avanza la sua obiezione: «La pa­
rola da sé viene infatti presa in due modi. In un primo modo, positiva-
mente, ossia da se stesso come da una causa [...]. In un secondo sen­
so, la parola da sé viene presa negativamente, così da significare la stes­
sa cosa di per se stesso, ovvero non da altro\ ed è in questo modo che,
per quanto io ricordi, essa è intesa da tutti» (Ol: 95). La tradizione era
concorde nel ritenere assurdo il senso positivo delVessere da sé (in lati­
no a se), per non creare il cortocircuito di qualcosa che dovrebbe veni­
re prima di se stesso95 ed essere diverso da sé; perciò era ammesso solo
il senso negativo della aseità.
Descartes risponde che l’impossibilità che qualcosa sia causa ef­
ficiente di se stesso è palese e vale, tuttavia, solo se si restringe il signi­
ficato di causa efficiente alle cause che avvengono nel tempo o in cui
causa ed effetto sono diversi. Ma subito aggiunge che «Il lume natura­
le detta però senz’altro che non esiste cosa alcuna della quale non sia
lecito domandare perché esista» (Ri: 108), infatti ragione non coincide
con causa efficiente. Cosicché, nel caso di Dio la normale dottrina cau­
sale va ribaltata, perché in Dio «si trova una potenza così grande e così
inesauribile da non aver avuto bisogno d’alcun sostegno per esistere, e
neanche da averne bisogno ora per essere conservato, così da essere in
qualche modo causa di sé (sui causa)» (RI: 109)96. Per Descartes Dio

94 «Secunda via est ratione causae efficientis» (STh I, q. 2, a. 3, c).


95 «nec est possibile, quod aliquis sit causa efficiens sui ipsius, quia sic esset
prius seipso» {STh I, q. 2, a. 3, c).
96 Queste obiezioni di Caterus e le relative risposte di Descartes verranno ripre­
se da Arnauld, generando un ulteriore dibattito sulla causa sui (04: 208-214; R4: 235-
245). Descartes formulerà una nuova risposta, nella quale tenterà di conciliare Ximpossi­
bilità della auto-causa efficiente, da un lato, e la legittimità della domanda circa il perché
Dio esiste, dall’altro, giungendo a parlare dell’essenza di Dio come di una «quasi causa
efficiente» (R4: 243). Sulla complessa questione della causa sui in Descartes, cf. J.-L.
54 Sistemi filosofici moderni

può esser detto causa di sé in quanto conserva indefinitamente e da


sempre se stesso, e non in quanto causa efficiente di se stesso, ma sol­
tanto perché «la essenza di Dio è tale da non poter non esistere sem­
pre». Con questa argomentazione, Descartes viene a sovvertire uno dei
cardini della filosofia scolastica, aprendo la via agli ulteriori e, allora,
imprevedibili sviluppi della nozione di causa sui, che Spinoza assu­
merà come nozione prima del suo sistema filosofico97.

4. Cosa devo evitare e cosa devo fare per raggiungere la verità


La Meditazione IV inizia ribadendo la fiducia, guadagnata al ter­
mine della giornata precedente, di cominciare a «intravedere una via
attraverso la quale, a partire dalla contemplazione del vero Dio [...] si
giunga alla conoscenza di tutte le altre cose» (M4: 53). La prima cosa
che, secondo Descartes, s’incontra lungo questa via è la certezza che
non è possibile che Dio mi faccia sbagliare, ovvero che non esiste un
Dio ingannatore, giacché l’inganno o l’errore sono chiaramente imper­
fezioni che non possono appartenere all’«ente sommamente perfetto»
(M4: 54). La seconda cosa che s’incontra è lo sperimentare di possede­
re una qualche «facoltà di giudicare»; è possibile infatti affermare «io
sono» e «Dio esiste», e negare che «Dio possa essere ingannatore». E
siccome tale facoltà viene da Dio, non si dovrebbe mai cadere in erro­
re. Eppure chiunque sa di essere esposto a innumerevoli errori. Come
tenere insieme questi due aspetti?
E questa la domanda che apre la Meditazione IV, una domanda
tesa a trovare una spiegazione a come sia possibile conciliare la certez­
za in un Dio non ingannatore con l’esperienza dell’errore98. In un pri­
mo momento, Descartes tenta la via di considerare l’errore un «non
ente», partendo dalla considerazione che l’uomo è un essere sospeso
{tanquam medium) tra Dio e il nulla (inteso come «ciò che è lontano
da ogni perfezione») e la sua facoltà di giudicare non è infinita bensì
limitata. Tuttavia, questo approccio si rivela insufficiente, giacché -
come insegna la tradizione - l’errore «non è una pura negazione, ma
una privazione» (M4: 55), e la privazione è per definizione l’assenza di

MARION, Entre analogie et principe de raison: la causa sui, in B ey s SADE-Marion (edd.),


Descartes. Objecter et répondre, cit., 305-334.
97 Infra, 99-100.
98 La teodicea si chiede «se Dio è giusto, da dove il male?», analogamente De­
scartes si chiede «se Dio è verace, da dove l’errore?»; cf. S. LANDUCCI, La teodicea nel­
l’età cartesiana, Bibliopols, Napoli 1986, 17-68.
Le Meditazioni di Descartes 55

un qualcosa di dovuto. Eppure, sembra difficile che Dio abbia creato


l’uomo privo di una perfezione dovuta, quando avrebbe potuto benis­
simo crearlo senza tale privazione. Se fosse così, si arriverebbe al para­
dosso che Dio avrebbe creato l’uomo ponendo in lui volutamente l’er­
rore e questo sarebbe per l’uomo come una perfezione, al punto che il
meditante arriva a chiedersi: «Sbagliarmi è dunque forse cosa migliore
del non sbagliarmi?».
Le vie per uscire da questa impasse potrebbero essere due: pun­
tare sulla incomprensibilità della natura divina, traendone la necessità
di non poter indagare oltre sui «fini di Dio»99, e nemmeno dunque sul
perché ci abbia fatti capaci di errare; oppure puntare sullo sguardo
universale col quale è possibile considerare le cose nel loro insieme,
nel quale l’uomo non è che una parte del tutto, e pertanto ciò che rela­
tivamente a tale parte sembra errore, forse in relazione al tutto non lo
è. Ma entrambe queste soluzioni non offrono una vera spiegazione del
perché sbagliamo, semmai giustificano solo la nostra incapacità di ca­
pirlo. Descartes tenta una terza via.
Riflettendo più attentamente su se stesso, il meditante vede che i
propri giudizi dipendono dalla concomitanza di due cause: «dalla fa­
coltà di conoscere che è in me e dalla facoltà di scegliere, ossia dalla li­
bertà dell’arbitrio» (M4: 56). In ogni giudizio, da un lato spetta all’in­
telletto percepire le idee, ma dall’altro lato spetta alla volontà asserire
tale percezione. Se nella tradizione peripatetico scolastica spetta all’in­
telletto pronunciare il sì o il no del giudizio, mentre alla volontà spetta
la determinazione delle azioni per conseguire i fini pratici, anche in
questo caso Descartes introduce una novità, in quanto vede nella vo­
lontà la «facoltà di scegliere» tanto in ambito teoretico che pratico100.
Ciascuna delle due facoltà poi - è questa la chiave dell’argomentazione
di Descartes - relativamente al proprio ambito è priva di errore, owe-

99 In questo frangente troviamo, en passant, una notazione degna della massima


attenzione: «poiché so che la mia natura è molto fragile e limitata, la natura di Dio inve­
ce immensa, incomprensibile e infinita, so anche abbastanza, proprio per questo, che so­
no in suo potere innumerevoli cose di cui io ignoro le cause; e per questa sola ragione ri­
tengo che quel genere di cause che si è soliti ricavare dal fine non abbia alcuna funzione
in Fisica» (M4: 55); con ciò Descartes estromette l’indagine delle cause finali dalla fisica,
cf. D. G arber , Descartes' Metaphysical Physics, Chicago University Press, Chicago-Lon-
don 1992; SCRIBANO, Guida alla lettura, cit., 93-96.
100 Cf. A. KENNY, Descartes on thè tvill, in R.J. BUTLER (ed.), Cartesian Studies,
Blackwell, Oxford 1972, 1-31; D .M . ROSENTHAL, Will and thè theory o f judgment, in
O ksenberg R orty (ed.), Essays on Descartes' Méditations, cit., 405-434; M. DELLA ROC­
CA, Judgment and will, in GAUKROGER, The Blackwell Guide, cit., 142-159.
56 Sistemi filosofici moderni

ro mi è stata data da Dio in modo perfetto e irreprensibile. Infatti, spe­


rimentiamo che la facoltà di conoscere è limitata, in quanto non sap­
piamo tutto, ma certo non fallace; mentre sperimentiamo che la vo­
lontà «non è circoscritta da limite alcuno» e dunque è perfetta, al pun­
to di essere l’aspetto che più di ogni altro manifesta il nostro essere a
immagine e somiglianza di Dio:
La volontà, ossia la libertà dell’arbitrio, [...] consiste infatti in questo
soltanto, che possiamo fare o non fare (ossia, affermare o negare, ricercare o
fuggire) una stessa cosa, o, piuttosto, in questo soltanto, che siamo portati verso
quel che Tintelletto ci propone di affermare o di negare, ossia di ricercare, o di
fuggire, in modo tale da non sentirci determinati a ciò da alcuna forza esterna
(M4: 51).

In questa doppia definizione101, Descartes mette in relazione di


fatto il libero arbitrio, ovvero il potere di scegliere se fare o non fare
una certa cosa, e la libertà, ovvero la spontaneità di determinarsi per
ciò che l’intelletto riconosce come vero o di rigettare ciò che propone
come falso102.
Ma se l’errore, come detto, non viene né dall’intelletto, preso in
se stesso, né dalla volontà, presa in se stessa, allora dovrà inevitabil­
mente venire dal rapporto tra questi due; e questa è la ragione che
giunge a sostenere il filosofo: «in quanto la volontà è più vasta dell’in­
telletto, non la trattengo all’interno degli stessi confini, ma la estendo
anche a ciò che non intendo; e poiché rispetto a ciò essa è indifferente,
devia facilmente dal vero e dal buono, ed è così che sbaglio e pecco»
(M4: 58). Il meditante, facendo memoria del suo percorso riflessivo, si
accorge che rispetto a una verità come Yego sum, il suo presentarsi in
modo del tutto chiaro ed evidente, indubitabile, non lasciava certo al­
ternative, eppure non comportava una costrizione esterna, e quindi
una mancanza di libertà, ma la più spontanea adesione possibile, in
quanto quella verità si imponeva per la luce stessa dell’intelletto. Al
contrario, di fronte all’idea della natura corporea l’intelletto esita, non
sapendo ancora chiaramente se questa sia diversa o identica alla cosa
pensante, pertanto sospende il giudizio rimanendo nell’indifferenza.

101 Cf. l’eccellente analisi di BEYSSADE, La philosophie première, cit., 180-190.


102 La difficile combinazione di questi due aspetti si staglia sullo sfondo dell’ac­
cesa controversia teologica su grazia e libertà, scoppiata tra il XVI e il XVII secolo, tra
domenicani e gesuiti, tomisti e molinisti, che coinvolgerà anche i giansenisti e Pascal, cf.
E. GlLSON, La liberté chez Descartes et la théologie, Vrin, Paris 1913, rprt. 1982; MORI,
Cartesio, cit., 132-135.
Le Meditazioni di Descartes 51

Da ciò Descartes trae questa regola di metodo: «Quando non


percepisco in modo sufficientemente chiaro e distinto cosa sia vero, se,
certo, mi astengo dal giudicare, è chiaro che agisco correttamente e
non sbaglio» (M4: 60). Si tratta qui, in fondo, di una riproposizione
del primo precetto103 sancito nella Parte II del Discorso sul metodo. E
questo, però, qualcosa di più di un semplice parallelo tra testi, in effet­
ti la radice dell’errore viene individuata da Descartes nell’i o scorretto
che noi facciamo della volontà/libero arbitrio, ovvero nell’attitudine a
estendere il nostro assenso, ovvero formulare giudizi anche circa quel­
le percezioni che l’intelletto non ci propone in modo chiaro e distinto:
«Ed a quest’uso non corretto (non recto usu) del libero arbitrio ineri­
sce quella privazione che costituisce la forma dell’errore». Questa fe­
calizzazione sull’uso, ovvero sull’esercizio dell’assenso volontario o
giudizio, stava alla base tanto di quelle «Regole per dirigere l’ingegno»,
che di quel «Discorso sul metodo per ben condurre la propria ragio­
ne». La curvatura eminentemente metodologica, che assume la medita­
zione sulle cause dell’errore, è particolarmente evidente in uno degli
ultimi passaggi della Meditazione IV, laddove il meditante, a proposito
della tendenza a cadere in errore anche quando si conosce bene la sua
natura e causa, dà a se stesso il seguente “saggio” proposito:
sebbene infatti io sperimenti in me quella fragilità per cui non sono in
grado di restare sempre fisso in una stessa ed identica conoscenza, posso tutta­
via far in modo, con una meditazione attenta e più volte ripetuta, di ricordar­
mene tutte le volte che ce ne sarà bisogno e acquisire, così, un abito (habitum)
a non errare (M4: 62).

Qui Descartes assume uno dei termini tecnici più tipici della fi­
losofia aristotelica, ovvero Vabito (in greco hexis, in latino habitus), on­
tologicamente il possesso di un determinato modo di essere (es. nel
mutamento si passa dalla privazione al possesso della forma), pratica-
mente la disposizione ad agire in modo costante (es. il carattere si co­
stituisce grazie alla disposizione stabile a provare passioni uguali per
oggetti simili). Il fatto che qui il filosofo parli di una meditazione «più
volte ripetuta (saepius iterata)», lascia pensare a un vero e proprio eser­
cizio ascetico di formazione dell’abito filosofico, da intendere in que­

103 «Il primo era di non accogliere mai come vera nessuna cosa che non avessi co­
nosciuto con evidenza essere tale: vale a dire, evitare con cura la precipitazione e la pre­
venzione e non comprendere nei miei giudizi nulla più di ciò che si presentasse così chia­
ramente e distintamente alla mia mente da non aver motivo alcuno per metterlo in dub­
bio» (AT VI: 18 [OB I: 45]); cf. anche la Regola II (AT X: 362-363 [OB II: 687-689]).
58 Sistemi filosofici moderni

sto caso come una sorta di “virtù dianoetica”, ossia di disposizione


grazie alla quale «nel giudicare trattengo (contineo) la volontà in modo
tale che si estenda soltanto a ciò che l’intelletto fa ad essa vedere in
modo chiaro e distinto» (M4: 62)104, una disposizione alla continenza e
perciò negativa o quantomeno inibitiva della dissimmetria tra volontà
e intelletto105.
Si tratta con ciò di “formare” la facoltà di giudizio, cioè in fondo
la libertà, a non lasciarsi trascinare da quella prevaricazione (hubris) di
cui la volontà è sempre capace nei confronti dell’intelletto, a causa del
fatto che ne oltrepassa costitutivamente i confini. Con questa ulteriore
riflessione - che partendo dalla veracità di Dio vuole cogliere il modo
stesso di mantenersi nell’orizzonte veritativo di fronte alla connaturata
tendenza a fuoriuscirne e, così, ci offre una prospettiva metariflessiva
sull’intero progetto delle Meditazioni - Descartes non solo riprende
l’antica istanza della filosofia come esercizio spirituale106, ma anche ri­
lancia la questione del rapporto tra ragione e intelletto, che verrà ri­
presa dai filosofi posteriori.

Obiezioni e risposte
Tra le obiezioni alla Meditazione IV troviamo anzitutto il quinto
punto indicato dai teologi vari [Mersenne] (02: 126; R2: 147-149), poi
Hobbes (OR3: 190-192), Arnauld (04: 215-217; R4: 247-248), Gas­
sendi (05: 307-318; R5: 374-379) e infine il sesto scrupolo sollevato
dal circolo dei savants [Mersenne] (06: 416-417; R6: 431-433).
Sia i teologi che Arnauld invitano Descartes a sciogliere le diffi­
coltà che il suo criterio di verità potrebbe recare nei confronti dell’as­
senso di fede: «dal momento che quasi nulla conosciamo con quella
chiarezza e distinzione che voi richiedete ad una certezza non esposta
a dubbio alcuno» (02: 126) non solo la volontà non dovrebbe dare il
suo assenso agli oggetti di conoscenza in generale, ma, a maggior ra­
gione, non dovrebbe farlo nei confronti della religione. Arnauld, citan­
do s. Agostino, propone a Descartes di distinguere tra Xintendere, ba­

104 S. Di Bella ha, giustamente, definito questa teoria della libertà una «autointer­
pretazione delle Meditazioni», cf. Di BELLA, Le Meditazioni metafisiche, cit., 127-138.
105 Termini come continenza e incontinenza appartengono da sempre al lessico
dell’etica (cf. es. Eth. Nicom., VII), inoltre, quello della continenza contro la tendenza al-
Voltrepassajnento sarà uno dei temi basilari della filosofia di Hume, infra, 234.
106 Cf. P. H adot , Exercices spirituels et philosophie antique, Etudes augustinien-
nes, Paris 1981; Albin Michel, Paris 20022 (trad. it., Esercizi spirituali e filosofia antica,
Einaudi, Torino 1988, 20052).
Le Meditazioni di Descartes 59

sato sulla ragione, il credere, legittimato dall’autorità, e Yopinare, possi­


bile causa d’errore; di conseguenza il criterio stabilito nella Meditazio­
ne IV per distinguere il vero dal falso toccherebbe solo intendere e
opinare, lasciando salvo il credere.
La risposta ad Arnauld rimanda a quella fornita «espressamente,
nella Risposta alle seconde obiezioni» (R4: 248), ove il filosofo aveva
replicato anzitutto che «Sebbene, infatti, si dica che la fede riguardi ciò
che è oscuro, tuttavia ciò per cui abbracciamo la fede non è oscuro ma
possiede un chiarore che è più grande di ogni luce naturale» (R2: 147).
In tal modo Descartes distingue la materia dell’assenso, cioè il suo con­
tenuto obiettivo, dalla ragione formale «che muove la volontà a dare
l’assenso»; e se l’oggetto della fede rimane oscuro, la ragione per dare
l’assenso è chiarissima in quanto «consiste in un lume interno median­
te il quale, rischiarati soprannaturalmente da Dio, confidiamo che quel
che ci viene proposto di credere ci è rivelato da lui» (R2: 148); questo
lume è la grazia divina, più chiara ed evidente del lume stesso dell’in­
telletto. Con questa risposta Descartes cercava di mettersi al riparo da
possibili condanne ecclesiastiche. Ciò che tuttavia rimane escluso dalla
sua argomentazione è quella dimensione di ragionevolezza delle prove
storiche della religione, che non a caso assumeranno un ruolo decisivo
nell’apologià della religione cristiana di Pascal.
L’unico, però, a dedicare alla Meditazione IV un ampio e detta­
gliato esame è Gassendi. Tra i numerosi punti obiettati uno in partico-
lar modo merita di essere menzionato, in quanto va a colpire la chiave
di volta della Meditazione IV, ossia la tesi cartesiana che la volontà è
più estesa dell’intelletto107. Gassendi non ha tutti i torti a chiedere ul­
teriori spiegazioni, dal momento che l’argomento era stato proposto
da Descartes in modo assai rapido e perentorio, quasi fosse troppo ov­
vio per meritare una spiegazione (o troppo arduo per rischiarne una).
Difficile non vedere come la questione dell’oltrepassamento dei limiti
dell’intelletto da parte della volontà vada a toccare l’articolazione stes­
sa della ragione umana, dal momento che intelletto e volontà sembra­
no essere due facce della stessa medaglia: il pensiero (cogitatio) nel suo
lato passivo, la rappresentazione delle idee, e nel suo lato attivo, l’as­
senso giudicante108. Gassendi chiede anzitutto: «perché la volontà o la

107 Cf. R. IMLAY, Volontà, indifférence et mauvaise foi: Gassendi contre Descartes,
in BEYSSADE-MARION (edd.), Descartes. Objecter et répondre, cit., 337-350.
108 A Mesland, 2 m aggio 1644: «m i pare che il ricevere questa o quella idea sia
anche nell’anima una passione e che solo le sue volizioni siano azioni» (AT IV: 113 [LB:
1911]); cf. BEYSSADE, La philosophiepremière, cit., 177-179.
60 Sistemi filosofici moderni

libertà dell’arbitrio non è per voi circoscritta da limite alcuno, mentre


l’intelletto ne è circoscritto?» (05: 314). Se la volontà è in grado di
avere un oggetto è perché l’intelletto glielo fornisce, quindi queste due
facoltà devono avere almeno la stessa estensione, e semmai la volontà è
inferiore all’intelletto, e non viceversa. E più sotto incalza ancora il suo
avversario: «Ma, diteci, in poche parole: a cosa, che sfugga all’intellet­
to, si può estendere la volontà?» (05: 315), in fondo sarebbe più sem­
plice sostenere che avendo le due facoltà uguale estensione, quando
l’intelletto percepisce confusamente, la volontà giudica erroneamente.
Descartes si ferma a rispondere precisamente a quest’ultima do­
manda e lo fa con una rapidità che ha tanto il sapore della tautologia:
«E ovvio: a tutto ciò in cui ci accade di errare» (R5: 376); cioè la vo­
lontà si estende oltre l’intelletto quando assente o dissente, cioè giudi­
ca vero o falso un contenuto non fornitole da esso, ovvero si estende a
qualcosa che non viene dall’intelletto. Per rafforzare la sua risposta
porta due esempi, il secondo dei quali riguarda una mela avvelenata:
se uno giudica desiderabile da mangiare una mela che forse è avvele­
nata, formula tale giudizio intendendo che il colore e il profumo della
mela sono desiderabili, ma certo non perché intende utile da mangiare
una mela che potrebbe essere avvelenata109; e conclude: «ma così giu­
dicate perché così volete» (R5: 377). L’esempio è già sufficientemente
astruso, ma la notazione che Descartes aggiunge subito dopo ha qual­
cosa di sorprendente: «E quindi riconosco certamente che non voglia­
mo nulla di cui non intendiamo in qualche modo qualcosa, ma nego
che intendiamo e vogliamo allo stesso modo {aeque)».
La prima parte di questa frase sembra essere una negazione bella
e buona della tesi di fondo, ovvero che la volontà oltrepassa costituti­
vamente i limiti dell’intelletto, ma la precisazione successiva chiarisce
la risposta: «di un medesimo oggetto, infatti, possiamo volere molte
cose e conoscerne soltanto ben poche». Il che tradotto nel nostro
esempio significa che quando ci troviamo una mela tra le mani, noi
percepiamo alcune cose dal suo aspetto sensibile (colore, odore, consi­
stenza ecc.) e in base a esso intendiamo come desiderabili i suoi singoli
aspetti. Ma che la mela in quanto tale, non il suo odore o colore, sia
buona, questo io non lo intendo, perché relativamente alla mia perce­
zione immediata questa non mi consente un giudizio certo circa la
bontà della mela, e non dei suoi singoli aspetti110. Ecco perché Descar­

109 Lo stesso esempio già in M6: 83-84.


110 Per un’analisi dettagliata di questo esempio, cf. D. KAMBOUCHNER, Ce qui se
Le Meditazioni di Descartes 61

tes conclude che se io la intendo e giudico buona è perché voglio che


sia tale, ossia è in base alla volontà che una percezione limitata viene
estesa fino a costituire la base certa di un giudizio che riguarda la cosa
stessa. Importante notare come in tale dibattito sia in gioco lo statuto
stesso della scienza, il rapporto tra quelle che Locke chiamerà qualità
primarie e qualità secondarie111, tra conoscenza degli accidenti e della
sostanza112. Vi torneremo nella Meditazione VI.

5. Tutto ciò che è vero è qualcosa


All’inizio della Meditazione V troviamo una preziosa indicazione
sulla nuova direzione che il flusso meditativo verrà ad assumere da qui
in avanti: «ora (dopo essermi accorto di ciò che si deve evitare e di ciò
che si deve fare per raggiungere la verità) nulla mi sembra più urgente
di questo: sforzarmi di emergere dai dubbi in cui sono caduto nei gior­
ni passati e vedere se si possa raggiungere qualcosa di certo sulle cose
materiali» (M5: 63). Così dicendo, Descartes ci offre uno sguardo
d’insieme sul percorso delle Meditazioni, giacché individua un mo­
mento a partire dal quale, dopo essere caduti, è possibile invece co­
minciare a emergere.
A livello della struttura sistematica del processo meditativo, ciò
significa che dopo aver conquistato, grazie all’apertura euristica del co­
gito, il punto d’appoggio dell’esistenza e veracità di Dio, e dopo aver­
ne dedotto il criterio generale per giudicare il vero, nelle Meditazioni
seguenti il meditante riemergerà lungo la china del dubbio in cui si era
immerso nelle precedenti113. Ciò non comporta affatto che il meditan­

dolo// et ce qui se comprenda in BEYSSADE-MARION (edd.), Descartes. Objecter et répon­


dre, cit., 352-358.
111 Infra, 173-176.
112 Notiamo solo in margine che nelle obiezioni di Arnauld, immediatamente
dopo quella relativa alla verità di fede, il teologo sollevava il problema dell’incompatibi­
lità tra la filosofia cartesiana e il dogma della transustanziazione eucaristica (04: 217-
218); la lunga risposta di Descartes (R4: 248-256) nella edizione del 1641 era stata taglia­
ta (252, 1. 22-256, 1. 8) per timore di non ottenere l’approvazione ecclesiastica - cf. A
Mersenne, 22 luglio 1641 (AT III: 416 [LB: 1507]) - ed era stata reintegrata solo nella
edizione del 1642. Tuttavia, proprio questo sarà uno dei punti cardine della messa all’in­
dice idonee corrigantur) delle opere di Descartes nel 1663; cf. A. DAMIOTTI, Renè De­
scartes. La prima condanna. Tradizione e novità a confronto nelle idee del XVII secolo,
Atheneum, Firenze 2008.
113 Come ha cercato di mostrare A. Oksenberg Rorty, tale discesa negativa e cor­
rispondente ascesa ricostruttiva seguono un processo ascetico ben noto nel neoplatoni­
smo: «Stage 1: Catharsis, detachment or analysis [...]. Stage 2: Skepsis, despair o nihilism.
62 Sistemi filosofici moderni

te ritornerà sui propri passi per rivestirsi di quelle vecchie ingenue


opinioni da cui così faticosamente si è in parte spogliato, bensì che
tenterà di ristabilire ciò che era oggetto di quelle opinioni sulle basi
certe che ha finalmente guadagnato114. Questo cambio di direzione
nell’itinerario meditativo è documentato, a livello testuale, dal fatto
che la Meditazione V riprende, in ordine inverso, i temi basilari della
Meditazione III115; mentre, più avanti, la Meditazione VI arriverà a toc­
care la giustificazione filosofica dell’esistenza di quelle cose materiali
che fungono da base ovvia di quella certezza ingenua con la quale ave­
va esordito la Meditazione I.
Nel suo tentativo di vedere se si può possedere qualcosa di certo
sulle cose materiali, Descartes scandisce due tappe successive: «prima di
cercare se qualcuna di tali cose esista fuori di me [obiettivo della Medi­
tazione VT\ , devo considerare le loro idee, in quanto sono nel mio pen­
siero [obiettivo della Meditazione V], e vedere quali sono distinte, quali
confuse» (M5: 63). Il primo passo che il meditante compie, nella consi­
derazione ideale delle cose materiali, consiste perciò in un’analisi delia
propria immaginazione di tali cose e - come già sappiamo116 - la mente
immagina distintamente la loro estensione spaziale e temporale117. E,

Stage 3: reflection {peripetia), a reflection that performs a revolutionary change. Stage 4:


Recognition (anagnorisis) of thè reflective, corrective power of thè will; thè discovery of
thè law of noncontradiction as a methodological principle validating reduction argu-
ments. Stage 5: Ascension from thè psychological to thè ontological order; proofs for
thè existence of God. Stage 6: Reconstruction of thè world and thè self. The sequence of
Descartes’ Méditations clearly conforms to this traditional structure» (The structure of
Descartes’ Méditations, in OKSENBERG R orty [ed.], Essays on Descartes’ Méditations,
cit., 10-11); si tratta in effetti di una corrispondenza macrostrutturale, dal momento che i
confini tra un tema e l’altro travalicano quelli giornalieri delle singole Meditazioni (ivi,
20, n. 6).
114 «Solo cogliendo il rapporto di continuità/discontinuità tra opinio e idea vera,
è possibile affrontare le difficoltà del passaggio dal momento negativo a quello ricostrut­
tivo dell’ordine analitico, di cui Dio è la chiave di volta» (Di BELLA, Le Meditazioni me­
tafisiche, cit., 110).
115 G. Rodis-Lewis ha analizzato puntualmente questa corrispondenza di ordine
inverso, tracciandone un illuminante schema in On thè complementarity of Méditations
III and V: from thè “generai rule” o f evidence to “certain Science”, in OKSENBERG RORTY
(ed.), Essays on Descartes’ Méditations, cit., 283.
116 «io sono una cosa pensante e non estesa, la pietra invece una cosa estesa e
non pensante» (M3: 44).
117 Descartes parla qui anzitutto dell’estensione spaziale (extensio in longum, la-
tum et profundum) assegnando a essa «svariate grandezze, figure, posizioni e movimenti
locali», e a questi movimenti poi attribuisce «svariate durate», concependo in fondo l’e­
stensione temporale delle cose come legata al loro movimento, secondo la definizione
Le Meditazioni di Descartes 63

soprattutto, in tale estensione la mente è capace di «enumerare» varie


parti, distinguendo così figure, posizioni ecc. Sono questi gli oggetti di
quella conoscenza che Descartes chiama «Mathesis pura e astratta»
(M5: 65)118.
Insieme a questa considerazione «in generale» della natura cor­
porea, il meditante percepisce però anche «innumerevoli particolari»,
che riguardano figure, numero, movimento ecc. Sono questi gli oggetti
dell’aritmetica, della geometria e di altre scienze simili. Riflettendo su
questi oggetti, il meditante evidenzia anzitutto due aspetti: (a) molti
particolari non sono immediatamente evidenti all’intuizione della
mathesis, ma vengono scoperti progressivamente e, nel momento in
cui vengono scoperti, «mi sembra, più che d’apprendere qualcosa di
nuovo, di ricordarmi di quel che da tempo era in me» (M5: 64); (b)
questi oggetti hanno «loro nature vere e immutabili», cioè non sono li­
beramente manipolabili dalla mente. Detto in altri termini: (a) vede
che tali oggetti non gli provengono dall’esterno, ovvero non sono idee
avventizie; (b) vede che tali oggetti non li può modificare a proprio
piacimento, ovvero non sono idee fittizie. Immaginiamo ad esempio
un triangolo, anche supponendo che tale figura esista solo nel nostro
pensiero, nondimeno esso ha una sua natura o forma «immutabile ed
eterna», e in quanto tale non fittizia, e ciò è dimostrato dal fatto che
noi siamo in grado di dedurne una serie di proprietà (es. che la somma
dei suoi angoli interni è sempre pari a due angoli retti) che nell’atto di
immaginare tale triangolo non avevamo minimamente pensato. Inol­
tre, dire che l’idea di triangolo proviene da qualche cosa esterna che
possiede tale forma, non incide sul suo valore veritativo, perché noi
possiamo benissimo immaginare figure geometriche che non abbiamo

aristotelica del tempo come numero del moto secondo il prima e il poi. Tuttavia, come
J.-L. Marion ha dimostrato, contro l’interpretazione di Heidegger (cf. MARION, Sur le
prisme métaphysique, cit., 180-202), il tempo in Descartes non è basato anzitutto sulle
cose, con l’effetto di una reificazione del soggetto, bensì sulla cogitatio: «la durée succes­
sive d’une chose quelconque (cujuscunque) ne me devient connue (tnihi innotescit) qu’à
partir d’une durée plus originelle, que définit la succession de mes cogitationes» {ivi,
196; cf. Ad Arnauld, 29 luglio 1648, AT V: 223 [LB: 2581]); cf. N. GRIMALDI, Le temps
chez Descartes, in «Revue Internationale de Philosophie» 50 (1996), 163-191.
118 Cf. M i: 20; M5: 71; Colloquio con Burman (AT V: 160 [OB II: 1273]); si di­
scute molto sull’uso del termine mathesis da parte di Descartes, e ancor più sull’espres­
sione mathesis universalis, cf. G. CRAPULLI, Mathesis universalis. Genesi di un’idea nel
XVI secolo, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1969; D. RABOUIN, Mathesis universalis. Lidée
de «mathématique universelle» d’Aristote à Descartes, Presses Universitaires de France,
Paris 2009.
64 Sistemi filosofici moderni

mai visto fuori di noi, e nondimeno dimostrare di esse una serie di


proprietà che gli appartengono con assoluta certezza.
A questo punto ci aspetteremmo che Descartes, avendo escluso
che le idee della mathesis siano avventizie o fittizie, voglia concludere
che sono innate119, eppure - con nostra sorpresa - la conclusione è
piuttosto un’altra, ovvero che tutte queste idee e le loro proprietà:
sono di sicuro tutte vere, dal momento che sono da me conosciute chia­
ramente e, perciò, sono qualcosa, non un mero nulla: risulta infatti che tutto
ciò che è vero è qualcosa (patet enim illud omne quod verum est esset aliquid)\
e ho già ampiamente dimostrato che tutto ciò che conosco chiaramente è vero
(M5: 65).

Forse ciò significa che le idee degli oggetti geometrico matemati­


ci insieme alle loro proprietà esistono così come esiste questo libro qui
davanti a me sulla scrivania o la penna che stringo tra le dita? No, non
è questo ciò che Descartes vuole qui sostenere. Non dimentichiamo
che la Meditazione V si occupa delle essenze mentre solo con la VI si
giungerà alla questione dell’esistenza. Quello che preme a Descartes è
affermare con la massima certezza Yessere di tali essenze, ovvero che
esse sono quello che sono indipendentemente sia dalla percezione sen­
sibile che dalla libera attività dell’immaginazione. Ovverosia, le idee
che sono oggetto della matematica e della geometria sono valide in se
stesse, e non dipendono minimamente né dalla percezione dei sensi né
dalla costruzione della mente, cioè non sono prodotte né dal mondo
né dal mio cervello. Sono, nel senso che sono vere, indipendentemente
dall’esperienza e persino dai processi mentali120.
Sulla base di quanto ha appena dimostrato, il meditante, com­
piendo una svolta assai repentina, chiede: «si può forse ricavare da
qui un argomento con cui provare l’esistenza di Dio?» (M5: 65). In

119 Alcuni interpreti (es. SCRIBANO, Guida alla lettura, cit., 98-103) insistono sul
ruolo delle idee innate nella Meditazione V, tuttavia Descartes sembra sforzarsi di evita­
re il termine, «quae dudum quidem in me erant» (M5: 64), «ideas veras mihi ingenitas»
(M5: 68), forse per non cadere nel rischio di attribuire tali idee alla costituzione del sog­
getto, invece che a qualcosa che lo trascende; cf. A. NELSON, Cartesian innateness, in
BROUGHTON-CARRIERO (edd.), A Companion to Descartes, cit., 319-333.
120 «N e consegue un ampliamento dei significati di “verità” e di “essere”, poiché
il giudizio vero comporta sempre il riconoscimento dell’essere: in questo caso, dell’esse­
re dell’essenza, ovvero di una struttura intellegibile indipendente dalle procedure costi­
tutive della mente. [...] nelle Meditazioni l’essere si afferma, a tutti i livelli, attraverso
l’esperienza di una datità cogente, di una resistenza invincibile al pensiero» (Di BELLA,
Le Meditazioni metafisiche, cit., 142-143).
Le Meditazioni di Descartes 65

verità, questo argomento ha un notevole ruolo strategico, non solo in


funzione della relazione tra Dio e gli oggetti della mathesis, ma ancor
più per la relazione tra l’essenza e l’esistenza, oggetto della meditazio­
ne seguente. Questo ulteriore, terzo, argomento sull’esistenza di Dio,
a differenza dei due precedenti non partirà da un effetto dato per risa­
lire alla necessaria esistenza della sua causa, bensì partendo diretta-
mente dalla considerazione della natura di Dio ne mostrerà la neces­
sità della sua esistenza121. Come nella Meditazione III, Descartes dap­
prima formula l’argomento e poi aggiunge una serie di spiegazioni e
chiarimenti ulteriori, volti a prevenire le obiezioni maggiormente pre­
vedibili. Anzitutto la struttura dell’argomento è, in sintesi, la seguente:
secondo quanto dimostrato all’inizio della Meditazione V, «dal solo
fatto che posso trar fuori dal mio pensiero l’idea di una cosa segue che
tutto ciò che percepisco chiaramente e distintamente appartenere ad
essa le appartiene in realtà (revera)»; e senza dubbio trovo in me le
idee delle figure e dei numeri, ma non di meno trovo in me l’idea di
Dio «ossia l’idea dell’ente sommamente perfetto»; e così come com­
prendo che ad una certa figura geometrica appartiene di per sé una
determinata proprietà, non di meno comprendo chiaramente e distin­
tamente che alla natura di Dio «appartiene di esistere sempre»; quindi
«l’esistenza di Dio dovrebbe avere in me almeno {ad minimum) lo
stesso grado di certezza che hanno sinora avuto le verità matemati­
che» (M5: 65-66).
A tale argomento si potrebbe obiettare (a) che se in ogni cosa
distinguiamo l’essenza dall’esistenza, perché non farlo anche con
Dio? Risponde Descartes: come non è possibile pensare un monte
senza valle, altrettanto non è possibile pensare Dio, l’ente somma­
mente perfetto, privo dell’esistenza, ovvero imperfetto. Ma si potreb­
be ulteriormente obiettare (b) che, anche se valle e monte non sono
logicamente separabili, ciò non comporta affatto che debba esistere
una qualche valle e il relativo monte; e che con la stessa libertà con la

121 Così, ad esempio, Descartes si riferisce al proprio argomento: «lì dove ho as­
serito che l’esistenza appartiene alla natura dell’ente sommamente perfetto» (RI: 114).
Su questo tipo di prova, dopo Kant nota come «prova ontologica», e sulla sua storia da
Anseimo in poi, cf. D. HENR1CH, Der ontologische Gottesbeweis. Sein Problem und seine
Geschichte in der Neuzeit, Mohr, Tubingen 1960 (trad. it., La prova ontologica dell’esi­
stenza di Dio. La sua problematica e la sua storia nell’età moderna, Prismi, Napoli 1983);
E. SCRIBANO, L'esistenza di Dio. Storia della prova ontologica da Descartes a Kant, Later­
za, Roma-Bari 1994; K.J. HARRELSON, The Ontological Argument from Descartes to He­
gel, Humanity, Amherst (NY) 2009.
66 Sistemi filosofici moderni

quale posso unire il soggetto cavallo al predicato alato, anche se nes­


sun cavallo alato esiste, ugualmente potrei pensare Dio esistente, an­
che se nessun Dio esistesse. Risponde Descartes: certo, dal fatto che
nel pensiero non sia possibile separare valle e monte non segue mini­
mamente che essi esistano in qualche luogo, e tuttavia il fatto di non
poter pensare Dio separato dalla sua esistenza non è imposto dal mio
pensiero, «ma, al contrario, perché è la necessità della cosa stessa, os­
sia dell’esistenza di Dio, a determinarmi a pensare ciò {sed contra quia
ipsius rei’ nempe existentiae Dei, necessitas me determinat ad hoc cogi-
tandum)» (M5: 67), e come è la natura stessa del triangolo a imporre
che abbia tre lati, così è la natura stessa di Dio a imporre la propria
esistenza, in un modo del tutto indipendente dal mio pensiero. Si
tratta dunque di una necessità che il pensiero può solo riconoscere
ma non imporre. Pertanto, mentre sono libero di pensare un cavallo
con le ali, in quanto l’idea di cavallo non è di per sé incompatibile
con l’idea di alato, non sono invece libero di pensare Dio senza la sua
esistenza, giacché l’idea vera di Dio è di per sé incompatibile con l’i­
nesistenza. Si potrebbe poi ancora obiettare (c) che è solo per il fatto
di avere supposto che Dio sia l’ente sommamente perfetto che è poi
necessario affermare che sia esistente. Risponde Descartes: certo io
posso non pensare mai ad alcun triangolo, tuttavia nell’istante in cui
dovessi pensarlo non potrei pensarlo se non come una figura rettili­
nea di tre lati e, anche se non mi accorgessi immediatamente che la
somma dei suoi angoli interni è pari a due retti, ciò non toglie mini­
mamente che tale proprietà appartenga al triangolo con la massima
certezza. Come minimo, lo stesso deve valere per Dio: posso anche
non pensarlo, ma se lo penso non posso pensarlo che sommamente
perfetto e, in quanto tale, necessariamente esistente.
Ma il vero problema - conclude il filosofo - non è né Dio né la
validità degli argomenti sull’esistenza di Dio, quanto piuttosto il fatto
che «se io non fossi avvolto nei pregiudizi e le immagini delle cose
sensibili non assediassero il mio pensiero da ogni parte, non c’è nulla
che conoscerei prima o più facilmente di lui» (M5: 69). Come dire: è
inutile, caro lettore, che io insista nello spiegare e rispiegare questi
argomenti, giacché se tu non hai percorso seriamente e con attenzio­
ne l’itinerario meditativo, continuerai a tirare fuori sempre nuove
obiezioni, frutto non della tua intelligenza, bensì della tua incapacità
di emendarti dalla considerazione sensibile delle cose. Questa osser­
vazione è tutt’altro che marginale, perché lungi dall’essere un sugge­
rimento di carattere “psicologico”, rivela invece il vero senso della
Le Meditazioni di Descartes 67

prova cartesiana, e cioè che essa non è propriamente una prova122.


In verità, quello che Descartes opera è piuttosto una rimozione
degli ostacoli affinché Fautoevidenza dell’esistenza di Dio si imponga al
pensiero in tutta la sua semplicità e originarietà. La necessità dell’esi­
stenza appartiene di per sé all’idea di Dio, che noi ce ne rendiamo conto
o meno, ed è solo il nostro reiterato assenso alla certezza sensibile (cioè
il fatto che per noi esistente è solo ciò che tocchiamo con i nostri sensi)
che offusca l’evidenza di tale appartenenza. Come Descartes chiarirà
nelle Risposte II: «che si soffermino molto a lungo a contemplare la na­
tura dell’ente sommamente perfetto; [...] in base a questo soltanto, e
senza ragionamento alcuno (absque ullo discursu), conosceranno che
Dio esiste; e ciò diverrà loro non meno per sé noto di quanto lo sia che il
numero due è pari» (R2: 163-164). Dunque, solo mediante una lunga e
attenta meditazione sarà possibile che ciò che è massimamente vero in
sé divenga anche evidente per noi. Difficile non notare la paradossalità
di questa richiesta di un lungo e complesso esercizio per raggiungere
l’oggetto che «per primo e più facilmente (prius aut facilius)» ci è dato di
conoscere. Una esistenza di Dio autoevidente ma non immediata.
Il meditante stesso rivela di essere ben conscio di tale paradossa­
lità allorché, nelle pagine conclusive della Meditazione V, a proposito
della «palese» evidenza dell’esistenza di Dio, sostiene che:
sebbene per percepire questo io abbia avuto bisogno di un’attenta con­
siderazione, ora, tuttavia, non solo ne sono altrettanto certo di quant’altro mi
appaia certissimo, ma, inoltre, mi accorgo che da qui dipende la certezza di
tutte le altre cose, al punto che senza di ciò nulla mai può essere perfettamente
conosciuto (M5: 69).

Come abbiamo già avuto modo di rilevare a proposito dell’ago


sum nella Meditazione II, dell’esistenza di Dio nella Meditazione III e
del criterio del vero nella Meditazione IV, ogni nuova scoperta riflette
l’orizzonte nel quale le nozioni elaborate nel processo euristico sono
già da sempre incluse. In questo caso, la Meditazione V ha dapprima
stabilito la consistenza ontologica degli enti veri che sono oggetto della
mathesis, poi ha tratto spunto da ciò per mostrare la quantomeno pari
evidenza dell’esistenza necessaria di Dio, per infine sancire che la per­
cezione di tale evidenza è il fondamento epistemico che opera da

122 Questo aspetto, immediatamente evidenziato da NOLAN-NELSON, Proofs for


thè existence o f God, cit., 112-121, è invece del tutto trascurato da T. ROSEFELDT, De­
scartes' ontologischer Gottesheweis, in KEMMERLING (ed.), René Descartes. Meditationen,
cit., 101-122.
68 Sistemi filosofici moderni

garante di ogni altra certezza, anche di quella degli oggetti della mathe-
sis. Secondo Descartes, la limitatezza della mente è tale per cui l’uomo
può scivolare nel dubbio anche rispetto a ciò che un tempo aveva ap­
preso chiaramente, e persino una proprietà certa, come l’uguaglianza
della somma degli angoli interni di un triangolo a due retti, se l’occhio
della mente smettesse di prestarvi attenzione e venisse sviato da altre
ragioni, potrebbe non essere più percepita chiaramente.
Invece, dopo aver percepito l’esistenza necessaria di Dio e che
tutte le altre cose dipendono da Dio, e che Dio è verace, allora il fatto
che «tutto ciò che percepisco chiaramente e distintamente è necessa­
riamente vero, anche se non prestassi più attenzione alle ragioni per
cui l’ho giudicato vero, non può essere addotta alcuna ragione contra­
ria che mi spinga a dubitarne» (M5: 70). Ciò accade perché l’esistenza
necessaria di Dio non è solo una verità particolare, alla stregua di
2 + 2 = 4, ma è anche allo stesso tempo la condizione di possibilità
dell’orizzonte veritativo stesso. Grazie a Dio so che la verità è possibi­
le, che le mie facoltà conoscitive non sono in sé fallaci e che, anche se
mi sbaglio, ho comunque la possibilità di riparare al mio errore, senza
essere consegnato a un relativismo insensato.

Obiezioni e risposte
Le obiezioni alla Meditazione V hanno dato vita a un dibattito
sostanziale, ancora oggi non sopito: Caterus (Ol: 96-100; RI: 114-
120); il sesto punto sollevato dai teologi vari [Mersenne] (02: 127;
R2: 149-152); Hobbes (OR3: 193-194); l’ultimo, decisivo, scrupolo di
Arnauld (04: 214; R4: 245-247); Gassendi (05: 318-328; R5: 379-
384); l’ottavo scrupolo del circolo dei savants [Mersenne] (06: 417-
418; R6: 435-436). Da questo scambio emergono almeno due questio­
ni talmente ampie e complesse, da non permettere qui che un rapido
disegno dei loro tratti principali: (a) la validità della prova dell’esisten­
za di Dio dalla sua natura, la cosiddetta prova ontologica; (b) il proble­
ma del circolo per cui Dio sarebbe garante del criterio dell’evidenza
presupposto nella dimostrazione della sua esistenza.
Le Obiezioni I di Caterus rinfocolano una querelle vecchia di
secoli, ossia la critica di Tommaso d’Aquino alla prova anselmiana, as­
sumendo gli argomenti avanzati dal Dottore angelico per rilanciarli
contro Descartes123. Caterus dapprima mette in parallelo il testo di

125 Cf. J.-L . MARION, Largument relève-t’il de lontologie? La preuve anselmienne


et les deux démostrations de l’existence de Dieux dans les M éditations, in MARION, Que-
Le Meditazioni di Descartes 69

Tommaso124 e quello della Meditazione V per mostrare che l’argo­


mento cartesiano viene a coincidere con quello esaminato dall’Aqui-
nate e poi ne rilancia la critica così: «anche se concediamo che l’ente
sommamente perfetto implica l’esistenza in forza del suo stesso nome
(ipso nomine suo), da ciò tuttavia non segue che quella stessa esisten­
za sia in natura qualcosa in atto (in rerum natura actu quid esse), ma
solo che sia inseparabilmente congiunta col concetto dell’esistenza
dell’ente sommo» (Ol: 99). Si tratta perciò di una mera congiunzione
di carattere logico, la quale di per sé - come lo stesso Descartes ha
ammesso - è del tutto incapace di generare una congiunzione neWes­
sere, a meno che l’esistenza in atto non sia già supposta nella defini­
zione stessa dell’ente sommo, ma ciò significherebbe supporlo già esi­
stente per poi poter dimostrare che è esistente. Il che, chiaramente, è
una petizione di principio.
Nella sua risposta, Descartes, allo scopo di chiarire ulteriormente
il proprio ragionamento, riprende anch’egli daccapo l’argomento di
Tommaso, offrendone una nuova ermeneutica125. Ma soprattutto repli­
ca all’obiezione di Caterus operando un’importante precisazione: «si
deve distinguere fra esistenza possibile e necessaria e notare che l’esi­
stenza possibile è certamente contenuta nel concetto, ossia nell’idea, di
tutto ciò che è inteso in modo chiaro e distinto, ma quella necessaria
non lo è se non nell’idea di Dio» (RI: 116). Sulla scia di Suàrez, possibi­
le è «tutto ciò che non implica contraddizione», e per Descartes tutto
ciò che percepiamo in modo chiaro e distinto non può implicare con­
traddizione (R2: 152). Perciò, aggiunge il filosofo, «se esaminassimo at­
tentamente se all’ente sommamente potente (enti summe potenti) com­
pete l’esistenza, e quale, potremmo percepire chiaramente e distinta-
mente, in primo luogo, che ad esso compete almeno l’esistenza possibi­
le» (RI: 119), in effetti esistente non è un predicato contraddittorio con
il soggetto ente sommamente potente, almeno quanto il predicato equi­
latero lo sia di triangolo. Ma, ecco il punto veramente decisivo:
poiché non possiamo pensare che la sua esistenza sia possibile senza
riconoscere anche, al tempo stesso, prestando attenzione alla sua immensa

stions cartésiennes, cit., 22-58; W. DONEY, La réponse de Descartes à Caterus, in BEYSSA-


DE-MARION (edd.), Descartes. Objecter et répondre, cit., 249-27.
124 STh I, q. 2, a. 1, ad 2.
125 Cf. K. CRAMER, Descartes interprète de l’objection de saint Thomas contre la
preuve ontologique de l’existence de Dieu dans les Premières Réponses, in BEYSSADE-MA-
RION (edd.), Descartes. Objecter et répondre, cit., 271-291.
70 Sistemi filosofici moderni

potenza, che esso può esistere per propria forza (propria sua vi posse existere),
potremmo da qui concludere che esso esiste nella realtà ed è esistito dall’eter­
nità: è infatti notissimo per lume naturale che ciò che può esistere per propria
forza esiste sempre.

Notiamo immediatamente che in questo passaggio Descartes


opera uno slittamento dal concetto usato nella Meditazione V, Dio co­
me ente sommamente perfetto, a quello di Dio come ente sommamente
potente126. Così, l’argomento dell’esistenza di Dio basato sulla consi­
derazione ideale della sua natura è ricondotto difatti all’autoevidenza
positiva della causa sui127. Il che sembra purtroppo gettarci in una
nuova petizione di principio. Infatti, se come premessa di una dimo­
strazione dell’esistenza di Dio assumiamo che Dio è sommamente po­
tente - non che può esserlo o che è incontraddittorio che lo sia, ma
che lo è effettivamente pena una contraddizione con se stesso - allora
chiaramente l’argomento è circolare. A meno che - come talvolta De­
scartes sembra intendere - non poniamo la causa sui prima e al di là di
ogni dimostrabilità, come fondamento stesso di ogni possibile dimo­
strare e, dunque, come già da sempre implicito in ogni sua possibile
dimostrazione. Il che ci conduce adesso verso il secondo problema,
quello del circolo128.
Antoine Arnauld, nelle ultime righe delle Obiezioni IV, giusto
prima di passare a segnalare Le cose che possono bloccare i teologi, sol­
leva in limine uno scrupolo che si rivelerà tra i più dirompenti dell’in­
tero dibattito sulla filosofia cartesiana. Il teologo si chiede se Descartes
non sia caduto in un «circolo» quando, alla fine della Meditazione V, è
giunto a sostenere - come abbiamo visto - che dopo aver percepito
che Dio esiste bisogna concludere che tutto ciò che si percepisce chia­
ramente e distintamente è necessariamente vero. «Ma - nota sommes­
samente Arnauld - non ci è possibile sapere che Dio esiste se non per­
ché ciò è da noi percepito chiaramente ed evidentemente; dunque pri­

126 Sul complesso intreccio delle diverse definizioni di Dio in Descartes, cf. Ma-
RION, Sur le prisme métaphysique, cit., 217-292; sinteticamente ripreso in Id., The essen-
tial incoherence of Descartes’ definition of divinity, in OKSENBERG RORTY (ed.), Essays on
Descartes’ Méditations, cit., 297-338.
127 E questa la conclusione a cui giunge E. SCRIBANO, L’existence de Dieu, in
BEYSSADE-MARION (edd.), Descartes. Ohjecter et répondre, cit., 303-304, sulla scia di
J.-L. MARION, E»tre analogie et principe de raison: la causa sui, ivi, 319-327.
128 Tralascio le importanti obiezioni di Gassendi, la cui chiave argomentativa, os­
sia che l’esistenza non può essere considerata una perfezione bensì il porsi della cosa,
senza la quale nessuna perfezione può essere posta, verrà in effetti ripresa da Kant.
Le Meditazioni di Descartes 71

ma di sapere che Dio esiste, dobbiamo sapere che è vero tutto ciò che
è da noi percepito chiaramente ed evidentemente» (04: 214).
Nel rispondere ad Arnauld (R4: 245-246), Descartes rimanda a
quanto aveva già replicato ai secondi obiettori [Mersenne] (R2: 140-
146), quando, a proposito di un passo della Meditazione III, essi ave­
vano sollevato la questione della circolarità tra la certezza di essere una
res cogitans e la necessità di provare l’esistenza di Dio per poter elimi­
nare «completamente»129 ogni dubbio (02: 124-126). Tale circolarità,
inoltre, porterebbe alla conseguenza per cui un matematico ateo, ov­
vero che nega l’esistenza di Dio, non potrebbe conoscere chiaramente
che la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a due retti e
cose simili. Il che sarebbe manifestamente assurdo. La lunga risposta
di Descartes parte da questo chiarimento:
dove ho detto che non possiamo esser certi di alcuna cosa se non abbiajno
prima conosciuto che Dio esiste, ho mostrato espressamente di non parlare se
non della scienza di quelle conclusioni che possono ritornare alla memoria, quan­
do non prestiamo più attenzione alle ragioni da cui le abbiamo dedotte (R2: 140).

Il filosofo, ribadendo quanto argomentato alla fine della Medi­


tazione V (cf. R2: 146) distingue: da un lato il puro e semplice intui­
to, mediante il quale conosciamo i principi primi o assiomi, «ad
esempio che io, mentre penso, esisto, che ciò che è accaduto una vol­
ta non sia accaduto, e altre cose simili» (R2: 145); dall’altro lato, la
scienza, intesa come conoscenza certa delle conclusioni ricavate in
base a ragionamenti che derivano dagli assiomi (es. la dimostrazione
del teorema di Pitagora). Ora, mentre la conoscenza degli assiomi è
immediata e non richiede lunghe catene di ragionamenti, ogni altra
dimostrazione di tipo discorsivo può richiedere catene più o meno
lunghe, nelle quali la mente umana può saltare o dimenticare qualche
passaggio, anche se ritiene comunque la conclusione (es. ho studiato
molti anni fa il teorema di Pitagora e so che «l’area del quadrato co­
struito sull’ipotenusa è uguale alla somma dell’area dei quadrati co­
struiti sui cateti», ma se ora qualcuno mi chiedesse di dimostrarlo po­
trei non esserne più capace).
Secondo Descartes, per la conoscenza degli assiomi non abbiamo
bisogno di un garante; ad esempio non abbiamo bisogno di aver dimo­

129 «debbo, non appena se ne darà motivo, esaminare se Dio sia e, nel caso in cui
egli sia, se possa essere ingannatore: non mi sembra infatti di poter mai essere compieta-
mente certo [piane certus esse) di alcuna cosa se ignoro questa» (M3: 36).
72 Sistemi filosofici moderni

strato la necessaria esistenza di Dio per essere certi dell 'ego sum, infatti
tale verità è di per sé inattaccabile dal dubbio. Invece la conoscenza
scientifica, data la sua natura discorsiva, è sempre esposta al dubbio di
non ricordare o mancare qualche passaggio; ed è qui che l’esistenza ne­
cessaria di un Dio verace mostra il suo ruolo determinante, in quanto
garantisce che una verità certa è comunque possibile. Tramite l’esisten­
za di Dio, Descartes non vuole affatto subordinare e con ciò relativiz­
zare il sapere scientifico ma, al contrario, fornirgli l’unica base vera­
mente certa. Egli rimane convinto che qualunque tentativo di autofon­
dazione della scienza non la renderebbe del tutto immune dal dubbio.
E una risposta convincente? Il dibattito è ancora aperto130.

6. Immagino, sento, soffro


Il meditante ci aveva abituato a riassumere i risultati raggiunti al­
l’inizio di ogni nuova giornata meditativa. La Meditazione VI invece
esordisce semplicemente così: «Mi rimane da esaminare se le cose ma­
teriali esistono» (M6: 71), ponendosi dunque in diretta continuità con
la meditazione precedente e stabilendo anche che questo sarà l’ultimo
tratto dell’itinerario meditativo. Di due oggetti della nostra mente sap­
piamo che esistono, io e Dio, il primo condizionatamente all’atto di
pensare (quoties mente concipitur [M2: 25]), il secondo incondizionata­
mente giacché è capace di esistere in forza di se stesso (propria sua vi
posse existere [RI: 119]). Ogni altro oggetto vero della mathesis è, fi­
nora, solo possibile, purché sia percepito chiaramente e distintamente.
Possibile significa che può esistere. E allora, come possiamo sapere se
effettivamente esiste? Certo non mediante la facoltà di pensare, o in­
telletto, che ci ha guidato fino alla possibilità delle cose materiali, ma
che sappiamo impotente quanto alla loro esistenza.
Perciò, l’alternativa che al meditante «sembra» anzitutto la più
sensata da verificare è quella della facoltà di immaginare, o immagina­
zione; dal momento che egli fa esperienza di usare tale facoltà quando
si rivolge alle cose materiali. Il primo passo che Descartes compie in
questa verifica è la distinzione tra «l’immaginazione e l’intellezione

130 Cf. BEYSSADE, La pbilosophie première, cit., 317-338; L.E. LOEB, The Carte­
siani circle, in C o ttin gham (ed.), The Cambridge Companion, cit., 200-235; L. N ewman
- A. NELSON, Circumventing Cartesian circles, in «N o u s» 33 (1999), 370-404; G . H at -
FIELD, The Cartesian circle, in GAUKROGER, The Blackwell Guide, cit., 122-141; J. C ar -
RIERO, The Cartesian circle and thè foundations of knowledge, in B ro u g h to n -C arriero
(edd.), A Companion to Descartes, cit., 302-318.
Le Meditazioni di Descartes 73

pura (M6: 72)». L’esempio da lui fornito è assai eloquente: quando


penso un triangolo, non solo intendo che è una figura delimitata da tre
lati, ma anche «intuisco con l’acume della mente queste tre linee come
presenti», cioè me lo immagino; invece quando penso a un chiliagono,
intendo che si tratta di un poligono di 1000 lati, ma certo non riesco a
immaginarmelo. Mentre con l’immaginazione distinguiamo facilmente
un triangolo da un quadrato o da un pentagono, non siamo invece in
grado di distinguere un chiliagono da un poligono che abbia 2000,
10.000 o più lati, per quanto impegno o «sforzo dell’animo» vi mettia­
mo. Ergo, immaginazione e intellezione pura sono facoltà distinte. Ma
in cosa consiste tale distinzione?
Anzitutto noto che io continuerei a essere quello che sono, una
res cogitans, anche se non avessi l’immaginazione: per essere certo che
io sono, che Dio esiste e che gli oggetti della mathesis sono veri enti,
non ho bisogno dell’immaginazione; «da ciò sembra conseguire che es­
sa dipende da una cosa diversa da me [ab aliqua re a me diversa)» (M6:
73). Quale? Potrebbe dipendere da un «particolare corpo cui la mente
sia così congiunta da potersi applicare ad esso a suo arbitrio, come per
guardarlo»; una formula elegante per indicare il corpo proprio e in par­
ticolare il cervello. Se un tale corpo esistesse - Descartes non lo ha an­
cora dimostrato - sarebbe lecito supporre che quando la mente pensa
si rivolge verso se stessa, considerando le idee che vi si trovano, quan­
do immagina, invece, si rivolge verso tale corpo, e «intuisce in esso
qualcosa di conforme all’idea che essa intende o che è percepita trami­
te il senso». In tal caso, proprio la via dei sensi, che sin dall’inizio della
Meditazione I avevamo sbarrato, potrebbe ora rivelarsi efficace nello
stabilire l’esistenza delle cose materiali. In effetti - nota subito il medi­
tante - oltre alle cose corporee oggetto della mathesis finora esaminate
(es. estensione, figure, movimento), immaginiamo anche molte altre
cose: «i colori, i suoni, i sapori, il dolore e simili» (M6: 74), che, sebbe­
ne non altrettanto distintamente, purtuttavia percepiamo «meglio» con
i sensi. Perciò questi meritano una nuova indagine131.
La riconquista della sensibilità si sviluppa nella Meditazione VI
in un’analisi lunga e complessa (M6: 74-80), nella quale Descartes

131 Faccio notare, solo per inciso, quanto radicale sia il ribaltamento dell'ordine
delle ragioni operato dalla metafisica cartesiana, che giunge a trattare per ultimo ciò
che Aristotele trattava per primo: «Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Se­
gno ne è l’amore per le sensazioni (xcóv alaGiìaewv àydjerjaLg)» (Metaph., A l, 980a 21
[trad. it., cit., II, 3]).
74 Sistemi filosofici moderni

riprenderà i diversi motivi critici nei confronti dei sensi già esaminati
nelle Meditazioni precedenti; non è un caso che alla fine questa risul­
terà essere la più estesa delle sei meditazioni. Nella Meditazione I, ave­
vamo visto quanto i sensi possano essere inaffidabili: non solo circa le
cose esterne (es. le illusioni ottiche), ma anche circa quelle interne (es.
il dolore che provano taluni in una parte del corpo amputata). Nella
Meditazione III, poi, avevamo escluso che le idee avventizie potessero
provare l’esistenza di qualcosa di extramentale. Infatti, avevamo nota­
to che non era in base al lume della ragione che eravamo indotti a rite­
nere avventizie le idee simili alle cose extramentali, bensì solo in base a
un «impulso naturale», cioè irrazionale. Perciò, il sorgere in noi delle
idee avventizie poteva benissimo essere generato da «una qualche fa­
coltà a noi ignota» e non dalla realtà. Tuttavia ora, visto che al termine
della Meditazione V abbiamo provato che Dio è verace e garantisce
che noi siamo capaci di verità, non possiamo più ritenere di per sé
dubbiose tutte le sensazioni e, inoltre, se possedessimo una qualche fa­
coltà nascosta certamente ne saremmo consapevoli. Quindi, il caratte­
re avventizio delle sensazioni, cioè il fatto che siamo passivi rispetto al
loro presentarsi alla mente (es. sento caldo, dolore ecc., che lo voglia o
meno), denota che dall’altra parte ci deve essere una qualche facoltà
attiva, capace di produrre tali idee:
E questa non può certo trovarsi in me, perché non presuppone assoluta-
mente intellezione alcuna e queste idee sono prodotte senza che io vi contribui­
sca [...]; rimane dunque che essa si trovi in una qualche sostanza diversa da me
e, poiché in questa deve inerire, o formalmente o eminentemente, tutta la realtà
che è obiettivamente nelle idee prodotte da questa facoltà (come ho già osserva­
to sopra132), o questa sostanza è corpo [...]; o certamente è Dio (M6: 79).

Ma Dio non può essere, perché non ha posto in me la minima co­


scienza che tali idee provengano da Lui e, invece, ha posto in me la ten­
denza spontanea a ritenere che tali idee siano provocate dalle cose cor­
poree133. E se Dio non è ingannatore, bensì garante della veracità della
mia conoscenza, non può avermi tenuta nascosta la vera origine delle

132 Cf. M3: 40-42.


133 La tesi per cui è Dio a produrre direttamente le sensazioni nella mente quan­
do il corpo viene modificato, detta “occasionalismo”, verrà elaborata contemporanea­
mente da alcuni seguaci di Descartes (es. J. Clauberg, A. Geulincx, L. de la Forge ed al­
tri) già nel decennio 1660-1670 e sarà successivamente sviluppata da Nicolas Malebran­
che, De la recherche de la vérité (1674-1675); cf. S. N adler , Occasionalism. Causation
Among thè Cartesiani, Oxford University Press, Oxford-New York 2011.
Le Meditazioni di Descartes 75

mie idee, né avermi dato una tendenza naturale a credere che tale origi­
ne sia altra da quella vera. Ergo: «le cose corporee esistono (res corpo-
reae existunt)» (M6: 80)134. Tuttavia, questa conclusione non significa
affatto sancire l’infallibilità della conoscenza sensibile, di fatto Descar­
tes si affretta a puntualizzare che «questa comprensione dei sensi è in
parecchi aspetti molto oscura e confusa». Bisogna tener presente che i
sensi ci accertano dell 'esistenza dei corpi, ma ciò non significa che essi
siano in grado di renderci accessibile la loro essenza. Su quest’ultimo,
delicato, punto il filosofo aggiunge una sentenza di non facile compren­
sione: «ma in esse [cose corporee] c’è almeno tutto quello che intendo
chiaramente e distintamente, ossia, considerato in generale, tutto ciò
che è compreso nell’oggetto della pura Mathesis»135. Ciò significa che
la conoscenza certa dei corpi - ovvero la fisica e tutte le scienze da essa
dipendenti136 - è limitata alle loro qualità primarie generali (estensione,
figura, movimento), mentre le qualità secondarie (colori, sapori, rumori
ecc.) e anche le percezioni quantitative particolari (misura, distanza, vo­
lume ecc.) non sono oggetto di scienza certa137.

134 Su questa dimostrazione, cf. Di B e lla , Le Meditazioni metafisiche, cit., 169-


175; SCRIBANO, Guida alla lettura, cit., 121-124; HATFIELD, Routledge Philosophy Guide-
book, cit., 248-263; D.M. CLARKE, Descartes proofofthe existence ofMatter, in GAUKRO-
GER, The Blackwell Guide, cit., 159-178.
135 Per un’esegesi puntuale di questo testo, cf. R. MATTERN, Descartes: «All
things wich I conceive clearly and distinctly in corporeal objects are in thejn», in OKSEN-
BERG RORTY (ed.), Essays on Descartes' Meditations, cit., 473-489; per uno sguardo più
ampio, cf. G. RODIS-LEWIS, De la physique à la métaphysique chez Descartes, in MARION
(ed.), Descartes, cit., 139-159; A. HUTTERMANN, Die Grundlegung der Cartesichen Physik
in den Meditationen, in KEMMERLING (ed.), René Descartes. Meditationen, cit., 173-193.
136 Nella Lettera Prefazione indirizzata a Claude Picot e posta in Appendice ai
Principia: «Così, tutta la filosofia è come un albero, le cui radici sono la metafisica, il
tronco è la fisica e i rami che escono da questo tronco sono tutte le altre scienze, che si
riducono a tre principali, cioè la medicina, la meccanica e la morale» (AT IX/2: 14 [OB
I: 2231]); poche righe prima la fisica è definita come la scienza «nella quale, dopo aver
trovato i veri principi delle cose materiali, si esamina in generale come è composto tutto
l’universo, e poi, in particolare, qual è la natura di questa Terra e di tutti i corpi che si
trovano comunemente attorno ad essa, come l’aria, l’acqua, il fuoco, il magnete e altri
minerali».
137 «In this way thè argument for thè existence of thè external world serves not
only to restore thè world lost to thè skeptical arguments of thè First Meditation; but also
to replace thè sensual world of colors, tastes, and sounds with thè spare geometrical
world of Cartesian physics. But, of course, this just pushes thè investigation one step
back; for this argument plainly depends on thè view that our idea of body is as
Descartes says it is, thè idea of something that has geometrical properties and geometri­
cal properties alone» (D. GARBER, Descartes physics, in COTTINGHAM [ed.], The Cam­
bridge Companion, cit., 295); cf. Id., Descartes MetaphysicalPhysics, cit., 63-93.
76 Sistemi filosofici moderni

A questo punto Descartes passa, finalmente, ad affrontare di


petto una questione fondamentale, che ha reso celebre la filosofia car­
tesiana, ma che era rimasta finora sottesa all’itinerario meditativo: la
relazione tra mente e corpo. Torniamo indietro di un paio di pagine.
In uno dei passaggi della dimostrazione dell’esistenza dei corpi, era
stato anche centrato il secondo dei due obiettivi dichiarati nel titolo
della Meditazione VI, «Inesistenza delle cose materiali e la distinzione
reale della mente dal corpo» (M6: 71)138, che poi - come sappiamo -
corrisponde a uno dei due scopi generali delle Meditazioni: «nelle qua­
li si dimostrano l’esistenza di Dio e la distinzione dell’anima dal cor­
po», come recita il sottotitolo dell’edizione del 1642. Descartes aveva
conquistato questo importante traguardo attraverso un argomento che
- come il filosofo ci ha abituato - ha la pretesa di essere tanto più forte
quanto più breve è la sua articolazione139: (a) siccome tutto ciò che in­
tendo chiaramente e distintamente è possibile, cioè può esser fatto da
Dio tale e quale a come io lo intendo; (b) è sufficiente che io intenda
chiaramente e distintamente una cosa senza un’altra «per essere certo
che l’una è diversa dall’altra» (M6: 78), in quanto almeno Dio può
aver fatto l’una senza l’altra140; (c) ma io so chiaramente e distintamen­
te che esisto e che tutto ciò che sono, la mia essenza o natura, è di esse­
re una cosa pensante (res cogitans) indipendentemente da ogni altra
cosa; (d) inoltre, anche se non so ancora se esiste, comunque possiedo
un’idea chiara e distinta del mio corpo come di una cosa soltanto este­
sa (res extensa) e non pensante; (e) ergo: «è certo che io sono realmen­
te distinto dal mio corpo e posso esistere senza di esso».
Questa dimostrazione è così stringata, quasi schematica, anche

138 Principia, I, art. 60: «L a distinzione reale propriamente intercorre solamente


tra due o più sostanze; e noi percepiamo che esse sono realmente distinte l’una dall’altra
per questo solo fatto che siamo in grado d’intendere in modo chiaro e distinto l’una sen­
za l’altra» (AT V ili: 28 [OB I: 1753]).
139 Cf. Di B e l l a , Le Meditazioni metafisiche, cit., 182-192; HATFIELD, Routledge
Philosophy Guidebook, cit., 245-258; per approfondire e reperire un’ampia rassegna del­
la letteratura sull’argomento, cf. M. ROZEMOND, Descartess Dualism, Harvard Univer­
sity Press, Cambridge (MA) 1998. Per il rapporto tra distinzione reale e immortalità del­
l’anima, cf. SCRIBANO, Guida alla lettura, cit., 119-121; o l’ampio studio di C.F. FOWLER,
Descartes on thè Human Soul. Philosophy and thè Demands of Christian Doctrine,
Kluwer, Dordrecht-Boston-London 1999.
140 In questo passaggio della dimostrazione Descartes evoca la distinzione tradi­
zionale tra una potenza assoluta e una potenza ordinata di Dio (cf. SCRIBANO, Guida alla
lettura, cit., 118-119) e tuttavia, nelle Risposte II, riformulerà il proprio argomento pre­
scindendo da questo contributo teologico (R2: 132-133).
Le Meditazioni di Descartes 77

perché Descartes è consapevole di richiamare qui diversi punti già fis­


sati in precedenza: dalla Meditazione V, la veracità divina che funge da
sfondo dell’intera dimostrazione e che garantisce anzitutto che ciò che
intendo in modo chiaro e distinto può essere stato posto da Dio effet­
tivamente come tale; dalla Meditazione 77, l’effettiva posizione dell’ago
come esistente e come qualcosa la cui essenza di pensante si lascia
concepire in modo del tutto separato da ogni altro contenuto; dalla
Meditazione V, la conoscenza della natura dei corpi come essenzial­
mente estesi e non pensanti.
La dimostrazione della distinzione reale è, tuttavia, solo un lato
del problema della relazione tra mente e corpo. L’altro lato, ancor più
problematico, è la loro unione. Descartes attacca la sua argomentazione
con una constatazione, che per un lettore normale sarebbe assoluta-
mente sbalorditiva nella sua ovvietà, ma che per colui che ha attraversa­
to l’itinerario eversivo delle Meditazioni non è meno difficile da accetta­
re: «Ora, non c’è nulla che questa natura141 mi insegni in modo più
espresso del fatto che ho un corpo, che sta male quando sento dolore,
che ha bisogno di mangiare o di bere, quando ho fame o sete, e altro di
simile» (M6: 80). E continua, in maniera ancora più sorprendente:
La natura mi insegna anche, attraverso queste sensazioni di dolore, di
fame, di sete ecc., che io non solo mi trovo nel mio corpo come un pilota si
trova nella sua nave, ma sono ad esso strettissimamente congiunto e quasi
commisto (arctissime esse conjunctum et quasi permixtum ), così da comporre
con esso un qualcosa d’uno (ut unum quid cum ilio componeam) (M6: 81).

La natura mi offre contemporaneamente due dati: (a) sono come


un pilota nella sua nave142, cioè io sono una res cogitans realmente di­
stinta dal corpo in quanto res extensa\ per stare alla metafora, il pilota
non è la nave e la nave non è il pilota; (b) e tuttavia sono così intima­
mente unito (non uno) con il mio corpo che quando soffro, le sensa­
zioni di tale sofferenza (sete, fame ecc.) sono «modi confusi del pensa­
re» che sorgono dalla commistione che c’è tra mente e corpo; infatti,
per tornare alla metafora, non sono affatto come il pilota che quando

141 Nella proposizione immediatamente precedente: «per natura in generale non


intendo nuli’altro che Dio stesso, o la coordinazione che Dio ha stabilito tra le cose crea­
te; né, per natura mia particolare, altro che il complesso di tutto ciò che mi è stato ac­
cordato da Dio» (M6: 80).
142 « S ’aggiunga però che non è chiaro se l’anima sia atto del corpo come il pilota
lo è della nave» (De Anima, B l, 413a 8-9 [trad. it., ARISTOTELE, LAnima, a cura di G.
M ovia , Loffredo, Napoli 1991, 139]).
78 Sistemi filosofici moderni

la nave si rompe vede la rottura, ma non la sente come propria. Quan­


do soffro, io soffro, e di certo non mi limito a constare la sofferenza;
sebbene a un livello secondo, riflesso, tale constatazione sia sempre
possibile.
Mediante l’accostamento di queste due esperienze, Descartes
chiaramente cerca di salvare allo stesso tempo la distinzione e l’unione
tra la mente e il corpo. Da un lato il corpo è un qualcosa di esteso e di­
visibile che segue le leggi della fisica esattamente come ogni altro cor­
po esistente in natura; dall’altro lato la mente è un punto inesteso che
intuisce le nature semplici, o idee innate, che racchiudono le essenze
delle cose. Queste due res chiaramente distinte sono però tra loro col­
legate (conjunctum) così strettamente, da formare un composto (com-
poneam) nel quale sono come mischiate (permixtum) l’una nell’altra, in
modo tale che a modificazioni dell’una corrispondono modificazioni
dell’altra. Difficile non sottolineare come le cautele terminologiche qui
usate da Descartes, nonché il ricorso al linguaggio metaforico e l’ab­
bondanza di termini affini accostati per smorzarsi l’uno con l’altro, de­
notino come l’unione/distinzione tra mente e corpo rimanga uno dei
nodi più intricati della sua filosofia143.
Con la distinzione/unione tra mente e corpo potrebbero termi­
nare le Meditazioni. In fondo, l’ultimo e più arduo degli obiettivi a cui
miravano è stato raggiunto. Invece qui Descartes apre un nuovo, com­
plesso discorso, che occupa in realtà l’ultimo terzo della Meditazione
VI. L’unione (pur nella distinzione) della mente col corpo lascia pensa­
re che alle modificazioni dell’una debbano corrispondere esattamente
modificazioni nell’altra. Ma se le cose stanno così, non si capisce come
mai i nostri sensi ci ingannano. E il problema non è di poco conto, no­
nostante si trovi alla fine del testo, quando il lettore in genere si sente
appagato dai numerosi argomenti già affrontati. Si tratta con ciò di ri­
prendere daccapo e per l’ennesima volta la questione dell’errore, in­
contrata sin dalla prima pagina della Meditazione I e direttamente esa­
minata nella Meditazione IV; ma stavolta dopo aver assunto, nella

143 A Elisabetta, 28 giugno 1643: «non ritengo la mente umana capace di conce­
pire distintamente, e nello stesso tempo, la distinzione tra l’anima e il corpo, e la loro
unione; questo perché è necessario, per tal fine, concepirli come una cosa sola e al tem­
po stesso concepirli come due, il che è contraddittorio» (AT III: 693 [LB: 1783]); una
difficoltà dunque insita nella nostra comprensione, non nella cosa stessa, cf. Di BELLA,
Le Meditazioni metafisiche, cit., 198-199. Sui problemi sollevati dall’argomento cartesia­
no sull’unione mente corpo, cf. J. COTTINGHAM, The mind-body relation, in G aukro -
GER, The Blackwell Guide, cit., 183-186.
Le Meditazioni di Descartes 79

Meditazione V, la certezza della veracità di Dio come chiave di volta


dell’intero sistema. Veracità che, se dovesse rivelarsi anche solo mini­
mamente incerta, potrebbe far crollare tutto.
Il meditante rilancia così la sua riflessione partendo dalla consta­
tazione che: «C ’è però molto altro che, sebbene mi sembri essere inse­
gnato dalla natura, non ho tuttavia in realtà ricevuto da essa, bensì da
una certa consuetudine di giudicare in modo sconsiderato, e perciò
può ben accadere che sia falso» (M6: 82). Difatti, i sensi sono stati dati
all’uomo per fornirgli informazioni sufficientemente chiare e distinte,
affinché egli si capace di «fuggire ciò che arreca la sensazione di dolo­
re e a ricercare ciò che arreca la sensazione di piacere». Detto in altri
termini, i sensi sono funzionali all’autoconservazione. Tuttavia, spesso
noi travalichiamo questa loro funzione pratica per fargli svolgere un
compito teoretico, ossia «per discriminare immediatamente quale sia
l’essenza dei corpi». Questo tipo di errore è però - come già nella Me­
ditazione IV - da ricondurre a un nostro uso errato dei sensi e non a
una loro fallacia costitutiva.
La faccenda sembrerebbe risolta, se non fosse che il meditante a
questo punto solleva il problema più imbarazzante: «Qui però si in­
contra una difficoltà nuova, proprio riguardo a ciò che la natura mi
mostra come tale da ricercare o da fuggire» (M6: 83), come ad esem­
pio accade alle persone malate che desiderano bere o mangiare pro­
prio quello che gli fa male. Come è possibile giustificare che quegli
stessi sensi che la natura (cioè Dio) ci ha dato per l’autoconservazione
ci portino talvolta all’autodistruzione? Se Dio è buono, perché non
impedisce che la natura sia fallace? Per rispondere a questa domanda
Descartes offre nel finale della Meditazione VI - analogamente a quan­
to aveva fatto nella Parte VI del Discorso sul metodo - una rapida spie­
gazione del funzionamento del corpo umano: un vero e proprio com­
pendio di quella fisiologia meccanicistica che sta al centro dell’antro­
pologia cartesiana144.
Come premessa generale Descartes ci ricorda che la mente è in­
divisibile mentre il corpo è divisibile in parti. Nella fisiologia cartesia­
na, gli stimoli sensoriali sono riducibili a movimenti che percorrono i

144 Cf. G. RODIS-LEWIS, Lanthropologie cartésienne, Presses Universitaires de


France, Paris 1990; G. HATFIELD, Descartes' physiology and its relation to his psychology, in
COTTINGHAM (ed.), The Cambridge Companion, cit., 335-370; V. A ucante , La philosophie
médicale de Descartes, Presses Universitaires de France, Paris 2006; Id., Il cervello e l'ani­
ma in Descartes: metafisica e fisiologia, in P. QUINTILI (ed.), Anima, mente e cervello. Alle
origini del problema mente-corpo, da Descartes all’Ottocento, Unicopli, Milano 2009,51-69.
80 Sistemi filosofici moderni

filamenti nervosi dalla periferia fino al cervello, dove arrivano a «colpi­


re» quella sua «minuscola parte [...] in cui si dice trovarsi il senso co­
mune» (M6: 86)145. Data, tuttavia, la divisibilità del corpo, lo stimolo
nervoso può partire sia dalla periferia estrema che da qualche organo
intermedio, in modo tale però che l’estremo passa anche per l’interme­
dio ma non viceversa146. E il cervello è così fatto che i movimenti che
colpiscono direttamente la mente non arrecano in essa che una sensa­
zione alla volta, sia che essi provengano dall’estrema periferia del fila­
mento nervoso, che da uno dei tratti intermedi. Ebbene - con una tro­
vata geniale con la quale Descartes ribalta a suo favore l’intera questio­
ne - la natura ha fatto in modo tale che: «la cosa migliore che si può
escogitare qui, è che, tra tutte quelle [sensazioni] che può arrecarvi, vi
arrechi quella che conserva nel modo migliore e con la maggiore fre­
quenza, la salute dell’uomo» (M6: 87). Ciò significa che la “provviden­
za” divina ha fatto in modo tale che quando uno stimolo attraverso i
nervi colpisce la mente, vi arrechi la sensazione che meglio di altre è
funzionale all’autoconservazione del corpo. Ad esempio, lo stimolo
nervoso generato dalla secchezza della gola arreca la sensazione della
sete e spinge, opportunamente, il corpo a bere; se così non fosse, mo­
riremmo tutti di sete. Ciò avviene, purtroppo, anche quando questo
stimolo è patologico, come nel caso del malato di idropisia, nel quale
una fonte errata provoca una sensazione di sete continua, che porta il
corpo a bere in modo autodistruttivo.
Descartes conclude: «In base a ciò è del tutto manifesto che no­
nostante l’immensa bontà di Dio, la natura dell’uomo in quanto com­
posto di mente e corpo non può non essere qualche volta fallace»
(M6: 88)147. Qualcuno ha preteso di vedere in questo passo un «esito

145 Ciò che qui Descartes chiama «minuscola parte» del cervello, nelle Passioni
dell’anima I, art. 31-32. 35, descriverà come «piccola ghiandola» (AT XI: 351-353. 355-
356 [OB I: 2361. 2365-2367]), e altrove chiamerà anche «ghiandola pineale» (es. AT III:
263 [LB: 1349]), espressione con cui è universalmente conosciuta. E questo l’organo in
cui avviene la comunicazione tra mente e corpo, cf. AUCANTE, La philosophie médicale
de Descartes, cit., 239-246.
146 «Ad esempio nella corda A, B, C, D, se si tira la sua parte estrema, D, la pri­
ma, A, non si muoverà in modo diverso da come anche potrebbe muoversi nel caso in
cui venisse tirata una fra quelle intermedie, B o C, e l’ultima, D, rimanesse ferma. In mo­
do non dissimile, quanto sento dolore nel piede, la fisica m’insegna che quella sensazio­
ne avviene attraverso i nervi situati all’interno del piede che, estesi come corde da lì sino
al cervello, mentre sono tirati nel piede, tirano anche le parti interne del cervello cui
giungono e vi suscitano un certo movimento» (M6: 87).
147 L’espressione «bontà di Dio» ricorre all’inizio (Mi: 21), ma solo per sentito
dire, e alla fine, positivamente (M6: 83. 85. 87. 88).
Le Meditazioni di Descartes 81

aporetico se non tragico»148 delle Meditazioni, giacché la stessa natura,


disposta da Dio nella sua bontà, non è del tutto immune dall’inganna-
re direttamente l’uomo. Se così fosse, Descartes rimarrebbe nonostan­
te tutti i suoi sforzi un inguaribile scettico, che non avrebbe il coraggio
di professarsi tale149. Questa interpretazione mi sembra però del tutto
inadeguata, dal momento che la veracità di Dio garantisce non tanto
l’assoluta infallibilità dell’uomo, quanto piuttosto la sua reale capacità
di verità. Il fatto che la natura «può essere fallace» non impedisce af­
fatto che l’uomo «possa correggere» tale fallacia. La divisibilità di una
delle due parti del composto, cioè del corpo, fa sì che la mente possa
essere tratta in errore; è il caso delle patologie discusse nella parte fi­
nale della Meditazione VI. Ma ciò non toglie minimamente all’uomo la
capacità di scoprire, col tempo, la causa di un errore e così rimediare,
anche definitivamente, a esso. Le parole con cui si chiudono le Medita­
zioni, non decretano perciò la resa finale e il fallimento inconfessato
dell’impresa cartesiana, testimoniano semmai il giusto tributo che la
scienza deve rendere alla sapienza.

Obiezioni e risposte
Le Obiezioni alla Meditazione VI denotano in alcuni interlocuto­
ri una certa stanchezza: Caterus concede solo poche righe all’essenza
dell’anima e alla sua distinzione dal corpo, confessando: «questo gran­
de ingegno mi ha ormai così spossato che quasi non ce la faccio più»
(Ol: 100; RI: 120-121); anche Hobbes si limita ad avanzare un paio di
pallide obiezioni, ricevendo telegrafiche risposte (OR3: 194-196). Chi
invece si è gettato con passione in ampio e approfondito dibattito Sul­
la natura della mente umana è Arnauld (04: 197-205; R4: 219-231), se­
guito in ciò da Gassendi (05: 328-345; R5: 384-391). Mersenne, rac­
cogliendo e guidando dapprima le Obiezioni II e poi le VI, sottoli­
neerà a più riprese la sua perplessità circa la distinzione reale tra men­
te e corpo, inducendo Descartes a una risposta originale (02: 123;
R2: 131-133; 06: 413-414; R6: 422-427)150.

148 M o ri , Cartesio, cit., 149.


149 Sulla recezione delle Meditationes e sulle diverse immagini di Descartes tra­
mandatesi nei secoli, cf. SCRIBANO, Guida alla lettura, cit., 134-150; T.M. SCHMALZ, Se-
venteenth-Century responses to thè Méditations, in GAUKROGER, The Blackwell Guide,
cit., 193-203; BROUGHTON-CARRIERO (edd.), A Companion to Descartes, cit., 465-525;
H.P. SCHUTT, Zur Wirkungsgeschichte der Cartesischen Meditationen, in KEMMERLING
(ed.), René Descartes. Meditationen, cit., 195-213.
150 Cf. D. GARBER, Formes et qualités dans les Sixièmes Réponses, in BEYSSADE-
82 Sistemi filosofici moderni

Quando Descartes ricevette le obiezioni del Signor Arnauld - al­


lora ventottenne licenziando in teologia e non ancora diventato il
“Grande Arnauld”151 - scrisse a Mersenne: «Le considero le migliori
di tutte: non perché siano le più stringenti, ma per il motivo che egli è
penetrato più a fondo di ogni altro nel senso di quel che ho scritto»152.
Il giovane teologo elabora una lunga e complessa serie di obiezioni che
ruotano attorno all’argomento cartesiano per la distinzione reale tra
mente e corpo, giungendo infine a questa celebre accusa:
Si aggiunga che questo argomento sembra provare troppo e condurci al­
la famosa opinione dei platonici (che l’autore tuttavia respinge) secondo la qua­
le alla nostra essenza non appartiene alcunché di corporeo, così che l’uomo è
solo animo, mentre il corpo null’altro che il vascello dell’animo; ragion per cui
costoro definiscono l’uomo come un animo che si serve del corpo (04: 203).

Secondo Arnauld, perché si possa affermare la distinzione reale


tra mente e corpo, è indispensabile che la conoscenza che la mente ha
di se stessa, indipendentemente dal corpo, sia completa; e tale condi­
zione, a suo giudizio, non è soddisfatta dall’argomento cartesiano. L’o­
biezione si articola intorno a un esempio assai eloquente: qualcuno po­
trebbe ben conoscere la proprietà geometrica per cui tutti i triangoli
iscritti in un semicerchio sono rettangoli e, al tempo stesso, dubitare o
persino negare che il quadrato costruito sulla loro base sia uguale alla
somma dei quadrati costruiti sui cateti. In tal caso, percepirebbe in
modo chiaro e distinto cos’è un triangolo rettangolo, pur ignorando o
negando il teorema di Pitagora, il quale indica nondimeno una pro­
prietà necessaria di ogni triangolo rettangolo. «Dunque - conclude
Arnauld - ciò di cui dubito, anzi, ciò che può essere tolto da quella
idea senza che essa cessi di rimanere in me, non appartiene alla sua es­
senza» (04: 202). Perciò, quando pensando formo in me l’idea di esse­
re una cosa pensante, questa è certamente una nozione chiara e distin­
ta ma non necessariamente completa, di fatto posso continuare a pen­
sarla anche dubitando o negando di essere una cosa estesa.
La risposta di Descartes dapprima travisa l’obiezione di
Arnauld153, intendendo che costui abbia preteso che la conoscenza

MARION (edd.), Descartes. Objecter et répondre, cit., 449-469; e la risposta a Garber di


M. Fichant, ivi, 471-479.
151 Cf. V. CARRAUD, Arnauld: from ockhamism to cartesianism, in ARIEW-GRENE
(edd.), Descartes and bis Contemporaries, cit., 110-128; MORI, Cartesio, cit., 173-180.
152 A Mersenne, 4 marzo 1641 (AT III: 331 [LB: 1423]).
153 Come ha giustamente notato S. VOSS, Le Grand Arnauld sur la racine et le
Le Meditazioni di Descartes 83

completa equivalga a quella adeguata, ovvero alla conoscenza di «tutte


le proprietà che sono nella cosa conosciuta» (R4: 220), e di contro so­
stiene di non aver affermato che essa debba essere adeguata, «ma sol­
tanto che la cosa deve essere intesa quanto basta per sapere che è com­
pleta» (M6: 221). Dopo di ciò, il filosofo si spende in una lunga con­
troreplica all’esempio del triangolo proposto da Arnauld, nella quale
progressivamente, però, emerge sempre di più la vera questione in gio­
co: la sostanzialità dell’uomo. Infatti, secondo la tradizione peripateti­
co-scolastica l’uomo è una sostanza, meglio l’anima di un certo uomo è
la causa del suo essere una determinata sostanza; perciò Aristotele dice
che l’anima è «sostanza prima»154, ossia atto primo di un corpo orga­
nico dotato della vita in potenza. Per Descartes, invece, mente e corpo
sono due res, tra le quali vige una distinzione reale, una è cogitans e in
nulla extensa e l’altra è extensa e in nulla cogitans. Dunque due sostan­
ze, non una. Eppure, nella Meditazione VI abbiamo visto quanto l’au­
tore si sia sforzato di affermare la strettissima connessione tra mente e
corpo, giungendo a negare che la mente sia semplicemente come il pi­
lota sulla nave, ovvero rigettando la posizione platonica che Arnauld
invece torna ad attribuirgli155. Nella sua replica a questo decisivo pun­
to, Descartes dapprima ribadisce la sua estraneità alla posizione plato­
nica e poi precisa il suo pensiero così: «nella sesta Meditazione, in cui
ho trattato della distinzione della mente dal corpo, ho insieme provato
anche che essa gli è unita sostanzialmente (substantialiter illi esse uni­
tami)» (R4: 228), e più sotto:
così neppure a me sembra di aver provato troppo, mostrando che la
mente può essere senza il corpo, e neanche troppo poco, dicendo che essa è
sostanzialmente unita al corpo, poiché quell’unione sostanziale (unio illa sub-
stantialis) non impedisce che si abbia un concetto chiaro e distinto della sola
mente come cosa completa.

Qui chiaramente Descartes non parla di mente e corpo come di


una sostanza, eppure pretende che tra di essi ci sia ciò che egli chiama
una «unione sostanziale». E dunque un dualista o un unitarista? Un

fruit de l’argument cartésien pour la distinction réelle, in BEYSSADE-MARION (edd.), De­


scartes. Objecter et répondre, cit., 389.
154 «Inoltre, è evidente, anche, che l’anima è la sostanza prima (o vo ia T]
JtQO)xr|), il corpo materia, e l’uomo e l’animale l’insieme dei due in universale» (Metaph.,
Z ÌI, 1037a 5-1 [trad. it., cit., II, 337]).
155 Cf. D. FREDE - B. R eis (edd.), Body and Soul in Ancient Philosophy, Walter de
Gruyter, Berlin-New York 2009.
84 Sistemi filosofici moderni

punto è chiaro, come sottolinea nella sua accurata analisi dei testi
V. Chappell: «Descartes non dice mai, né in questo testo né altrove in
altri scritti, che le cose che sono unite sostanzialmente formino una so­
stanza, o che la mente e il corpo umani lo facciano»156. Ergo, l’uomo
non è una sostanza individuale, bensì un composto formato dall’unio­
ne sostanziale di mente e corpo. Tuttavia, il filosofo non descrive mai
direttamente le ragioni e le modalità di tale unione, quanto piuttosto la
assume come un fatto, la cui evidenza maggiore consiste nella partico­
lare interazione causale che sussiste tra mente e corpo157. La mente
non è semplicemente collocata accanto al corpo come un osservatore
estraneo, che da un momento all’altro potrebbe decidere di andarsene;
neppure è posta al di sopra di esso come uno che soltanto la dirige,
potendo imprimere qualsiasi movimento riesca a concepire; ma è an­
che posta al suo interno, dal momento che ne subisce gli stimoli anche
quando vorrebbe farne a meno. E dunque l’insieme di tutti questi
aspetti causali a determinare quella particolare «unione sostanziale»
che, a giudizio di Descartes, sussiste tra mente e corpo, e che propria­
mente qualifica ciò che è essere uomo.

Bibliografia
Opere
1637 Discours de la méthode pour bien conduire sa raison et chercher la vé-
rité dans les sciences. Plus La dioptrique, Les météores et La géomé-
trie, qui sont des essais de cete Méthode, Maire, Leyde [anonimo].
1641 Renati Des-Cartes Meditationes de prima philosophia, in qua Dei
existentia et animae immortalitas demonstratur, Soly, Paris.
1642 Renati Des-Cartes Meditationes de prima philosophia, in quibus Dei
existentia et animae humanae a corpore distinctio, demonstrantur.
His adjunctae sunt variae objectiones doctorum virorum in istas de
Deo et anima demostrationes, cum responsionibus authoris. Secunda
editio septimis objectionibus antehac non visis aucta, Elzevier, Am­
sterdam [contiene la Epistola ad P. Dinet S.I.].

156 «Descartes ne dit jamais, ni dans ce texte ni ailleurs dans ses écrits, que les
choses qui sont unies substantiellement forment une substance, ou que l’esprit et le cor-
ps humains le fassent» (V. CHAPPELL, Lhomme cartésien, in BEYSSADE-MARION [edd.],
Descartes. Objecter et répondre, cit., 409 [trad. mia]); per una diversa prospettiva, cf.
D.M. C lark e , Descartes s Theory ofMind, Clarendon Press, Oxford 2003.
157 Cf. P. HOFFMAN, The union and interaction of mind and body, in BROUGH-
TON-CARRIERO (edd.), A Companion to Descartes, cit., 390-403; J. SKIRRY, Descartes and
thè Metaphysics of Human Nature, Continuum, London-New York 2005.
Le Meditazioni di Descartes 85

1643 Epistola Renati Des-Cartes ad celeberrimum virum D. Gisbertum


Voetium, Elzevier, Amsterdam.
1644 Renati Des-Cartes Principia philosophiae, Elzevier, Amsterdam.
1644 Renati Des-Cartes Specimina philosophiae, seu Dissertatio de Metho-
do recte legenda rationis et veritatis in scientiis investigandae: Diop-
trice et Meteora, Elzevier, Amsterdam [trad. di 1637, eccetto La
ge'ométrie].
1647 Les Méditations métaphysiques de M Descartes touchant la première
philosophie dans lesquelles Vexistence de Dieu, et la distinction réel-
le entre ràme et le corps de l’homme, sont démostrées, traduites du
latin de Vauteur par Mr. le D.D.L.N.S [de Luynes]. Et les objections
faites contre ces Méditations par diuerses personnes tres-doctes, auec
les réponses de VAuteur. Traduits par Mr. C.L.R. [Clerselier], Ca-
musat-Petit, Paris [trad. di 1642].
1647 Les Principes de philosophie, écrits en latin par M. Descartes et tra­
duits en franqais par un de ses amis [Picot], Le Gras, Paris [trad. di
1644].
1648 Renati Des-Cartes Notae in programma quoddam, sub finem anni
1647 in Belgio editum, Elzevier, Amsterdam.
1649 Les Passions de l}Ame, par René Des Cartes, Elzevier, Amsterdam /
Le Gras, Paris.

Opere postume
1650 Renati Des-Cartes Musicae compendium, Zijll-Ackersdijk, Utrecht.
1664 Le Monde de Mr. Descartes, ou Traiti de la lumière et des autres
principaux objets des sens, Bobin-Le Gras, Paris.
1664 LHomme de René Descartes, et un traité de la formation du fcetus,
Angot, Paris.
1667 Lettres de Mr Descartes, par C. CLERSELIER, 3 voli., Angot, Paris
16673 (16571), 16662 (16591), 1667.
1668 Traité de la mécanique, composépar Mr Descartes, Angot, Paris.
1684 Renatus Descartes, Brieven, 3 voli., ed. J.H . GLASEMAAKER,
Rieuwertsz, Amsterdam, 1661-1684 [contiene trad. nederlandese
di Regulae ad directionem ingenti; La recherche de la vérité].
1691 La vie de Monsieur Des-Cartes, par A. BAILLET, 2 voli., Horthe-
mels, Paris [contiene testi di Descartes altrimenti perduti: Olympi-
ca; Experimenta ecc.].
1701 R. Des-Cartes Opuscula posthuma, physica et mathematica, Blaev,
Amsterdam [contiene: Excerpta mathematica; Regulae ad directio­
nem ingenti; trad. latina di La recherche de la vérité\.
86 Sistemi filosofici moderni

1903 Descartes et Burman, in AT V: 144-179.


1908 La recherche de la véritépar la lumière naturelle,in AT X: 495-527.

Edizioni moderne
1897-1913 CEuvres de Descartes, par C. A d AM et P. TANNERY, 12 voli., Cerf,
Paris; nouvelle présentation par J. BEAUDE - P. COSTABEL - A. G ab-
BEY - B. R o c h o t , 11 voli., Vrin, Paris 1964-74; anast. Vrin, Paris
1996.
1973 CEuvres, par F. A lq u iÉ , 3 voli., Garnier, Paris.
2002 La recherche de la vérité par la lumière naturelle, a cura di E. LOJA-
c o n o - E.J. Bos - F.A. M e sc h in i - F. S a it a , Franco Angeli, Milano.
2005 Tutte le lettere. 1619-1650, testo francese, latino e olandese a fron ­
te, a cura di G. BELGIOIOSO, con la collaborazione di I. AGOSTINI -
F. M a r r o n e - F.A. M e sc h in i - M . Savin i - J.R. A r m o g a th e , B o m ­
piani, M ilano [in appendice: Indice biografico dei corrispondenti,
Bibliografia, Lessico, Indice dei nomi del volum e].
2009 Opere. 1637-1649, testo francese e latino a fronte, a cura di G.
BELGIOIOSO, con la collaborazion e di I. AGOSTINI - F. MARRONE -
M . SAVINI, Bom piani, M ilano.
2009 Opere postume. 1650-2009, testo francese, latino e olandese a fronte,
a cura di G. BELGIOIOSO, con la collaborazione di I. AGOSTINI - F.
M a r r o n e - F.A. M e sc h in i - M. Savini, Bompiani, Milano [in appen­
dice: Lessico delle opere, Bibliografia, Indice dei nomi dei tre volumi].

Introduzioni e commenti alle Meditationes


1997 Di B e l l a S Le Meditazioni metafisiche di Cartesio. Introduzione
alla lettura, La Nuova Italia Scientifica-Carocci, Roma.
2000 SCRIBANO E., Guida alla lettura delle Meditazioni metafisiche di
Descartes, Laterza, Roma-Bari 1997.
2003 HATFIELD G ., Routledge Philosophy Guidebook to Descartes and
thè Méditations, Routledge, Abingdon.
2005 KAMBOUCHNER D., Les Méditations métaphysiques de Descartes. I.
Introduction générale. Méditation I, Presses Universitaires de Fran­
ce, Paris [3 volumi previsti].
2006 GAUKROGER S. (ed.), The Blackwell Guide to Descartes' Medita-
tions, Blackwell, Malden (MA)-Oxford-Victoria.
2009 KEMMERLING A. (ed.), René Descartes. Meditationen ùber die Erste
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Le Meditazioni di Descartes 87

Studi sulle Meditationes


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1981 MARION J.-L., Sur la théologie bianche de Descartes. Analogie, créa-
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France, Paris.
1986 ----, Sur le prisme métaphysique de Descartes. Constitution et limi-
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Fonti bibliografiche
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nuale, consultabile anche on-line dal 2003: www.archivesdephilo.
com].
Capitolo Secondo
L'ETICA DI SPINOZA

Nel 1677 appaiono gli Opera posthuma di B.d.S., acronimo die­


tro il quale si cela per sua stessa volontà l’autore, Benedictus de Spino­
za (1632-1677). Il nome dello stampatore (Jan Rieuwertsz) e quello del
luogo d’edizione (Amsterdam) sono omessi. La serie di opere conte­
nute nel volume, stando all’indice posto al termine della Prefazione, è
la seguente: «I. Ethica, More Geometrico demonstrata. II. Politica. III.
De Emendatione Intellectus. IV. Epistola?, & ad eas Responsiones. V.
Compendium Grammatices Lingule Hebrseas».
Quella pubblicata negli Opera posthuma è l’unica versione che -
almeno fino a poco tempo fa - possedevamo dcìl'Ethica. Spinoza, pri­
ma di morire, aveva lasciato un manoscritto dell’opera nella sua scriva­
nia, dando istruzioni ai suoi amici per la stampa1. Tale copia essendo
perduta, l’unica altra fonte che ha permesso agli editori moderni di
stabilire criticamente il testo deìTEthica è stato il confronto con la tra­
duzione nederlandese, pubblicata in contemporanea dagli stessi cura­
tori dell’edizione latina all’interno dei Nagelate Schriften van B.d.S., ma
non redatta dallo stesso Spinoza2. Solo recentemente, nel 2011, è stato
ritrovato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, l’unico manoscritto og­
gi conosciuto delYEthica, salvato dall’incuria del tempo - per ironia
della sorte - dalla Congregazione del Santo Uffizio3. Questa è proba­
bilmente solo una delle copie manoscritte deH’Ethica esistenti all’epo­
ca. Già nel 1675, infatti, la redazione dell’opera era conclusa e l’autore
aveva persino consegnato il manoscritto all’editore, ma poi, temendo

1 Cf. P. S t een ba kk er s , The textual history of Spinoza s Ethics, in O. KoiSTINEN


(ed.), The Cambridge Companion to Spinozas Ethics, Cambridge University Press, Cam­
bridge 2009, 26-41.
2 Furono Pieter Balling e Jan Hendriksz Glazemaker a tradurre YEtica in ne­
derlandese.
3 L. SPRUIT - P. TOTARO (edd.), The Vatican Manuscript of Spinozas Ethica,
Brill, Leiden-Boston 2011. Nel volume compare anche una ricostruzione puntuale della
storia e dei documenti relativi alla denuncia di Spinoza perpetrata da Niels Stensen, che
ha condotto il manoscritto delYEthica nell’archivio del Santo Uffizio il 23 settembre
1677, prima ancora che gli Opera posthuma fossero pubblicati {ivi, 1-80).
90 Sistemi filosofici moderni

la censura, aveva preferito ritirarlo. Sappiamo che Spinoza aveva ini­


ziato a lavorarci diversi anni prima, verosimilmente attorno al 1662, e
sin da subito alcune stesure preparatorie delle prime parti dell’opera
avevano cominciato segretamente a circolare all’interno della ristretta
cerchia di amici del filosofo4. In quegli stessi anni, una prima elabora­
zione dei contenuti basilari dell’Etica, ovvero Dio, l'uomo e il suo bene,
era stata da lui redatta sotto forma di un Breve trattato in nederlandese
(.Korte Verhandeling,), rimasto sino al 1862, purtroppo, inedito5.
Il lettore che apre gli Opera posthuma e, dopo la Prefazione dei
curatori6, va all’inizio dell’Etica, non trova nemmeno una riga dell’au­
tore che possa servire da introduzione al testo, non una parola sul suo
scopo, metodo, natura, stile. Niente. Se pensiamo che il lettore delle
Meditazioni cartesiane trovava comunque una Lettera dedicatoria, una
Prefazione e una Sinossi, che gli indicavano in modo succinto la giusta
strada, capiamo il senso di smarrimento che può generare l’estrema so­
brietà con la quale il lettore viene accolto ai piedi delYEtica. Infatti,
l’unico testo anteposto all’opera è il seguente laconico frontespizio,
probabilmente assemblato dai curatori:
ETHICA
Ordine Geometrico demonstrata,
ET
In quinque Partes distincta,
in quibus agitur,
I. De D eo.
II. De Natura & Origine MENTIS.
III. De Origine & Natura AFFECTUUM.
IV. De SERVITUTE Humana, seu de AFFECTUUM VlRlBUS.
V. De POTENTIA I n t e l l e c t u s , seu de LIBERIATE Humana7.

Questo testo manca nel manoscritto Vaticano, nel quale però i

4 Cf. Simon de Vries a Spinoza, 24 febbraio 1663 (Ep. 8 in G IV: 38-41 [OS:
1838-1843]).
5 Cf. B. SPINOZA, Korte Verhandeling van God, de Mensch en deszelvs Welstand
- Breve trattato su Dio, l'uomo e il suo bene, introduzione, edizione, traduzione e com­
mento di E M ig n in i , Japadre, L’Aquila 1986; E MlGNINI (ed.), Dio, l'uomo, la libertà.
Studi sul «Breve Trattato» di Spinoza, Japadre, L’Aquila 1990.
6 Verosimilmente Jarig Jellesz e Lodewijk Meyer.
7 O P [39], in italiano: «ETICA, dimostrata in ordine geometrico, e, divisa in
cinque parti, nelle quali si tratta: I. Di Dio. II. Della Natura e Origine della MENTE. III.
Dell’Origine e Natura degli AFFETTI. IV. Della SCHIAVITÙ umana, ossia delle FORZE DE­
GLI a f f e t t i . V. Della P o te n z a d e l l ’I n t e l l e t t o , ossia della L ib e rtà umana».
L'Etica di Spinoza 91

titoli presenti all’inizio di ciascuna delle cinque parti coincidono esat­


tamente con quelli qui riportati. Perciò, a essere effettivamente assente
è il solo titolo dell’opera. Da ciò, gli editori del manoscritto arguiscono
che il titolo possa essere stato dato dai curatori degli Opera posthuma8.
In effetti, l’unica occorrenza nella quale Spinoza nomina - incidental­
mente9 - YEtica è in una lettera del 13 marzo 1665; mentre altrove si
riferisce alla propria opera con l’espressione «la mia filosofia»10. In
fondo, a testimonianza dell’autenticità del titolo possediamo solo
quanto i curatori scrivono nella Prefazione agli Opera posthuma: «poco
prima di morire, egli chiese espressamente che non fosse apposto il
suo nome aiYEtica che mandava in stampa: non c’è altra ragione, come
almeno sembra, sul perché lo abbia proibito, se non quella che non
volle che la dottrina portasse il suo nome (Disciplina ex ipso haberet
vocabulum)»11. Diversi elementi di questa affermazione sono interes­
santi: (a) l’anonimato che riguarda l’insieme degli Opera posthuma de­
riva espressamente da una sola opera, cioè YEtica12; (b) alla negazione
esplicita circa la presenza del nome proprio dell’autore non corrispon­
de alcuna opposizione verso un titolo particolare per tale opera; (c)
questa opera non deve essere considerata il sistema filosofico (discipli­
na.) di qualcuno, cioè in questo caso il sistema “spinoziano”, perché
non si pensi che questo è un sistema tra agli altri, bensì il sistema.

8 «This absence is probably not accidental, nor is it inexplicable or does it


have to be attributed to a simple error on thè part of thè scriber. Rather, it may attest to
thè uncertainty of thè author himself who wavered in establishing a definite title. [...]
Indeed it seems safe to assume that thè name Ethics was possibly devised on thè basis of
thè contents of thè work, and then given to it by thè editors of thè posthumous works,
rather than being chosen by thè author himself» (SPRUIT-TOTARO (edd.), The Vatican
Manuscript, cit., 2. 4).
9 A Willelm van Blijenbergh, 13 marzo 1665: «dimostro nella mia Etica (non
ancora pubblicata)» (Ep. 23 in G IV: 151 [OS: 1963]).
10 A Johannes Bouwmeester, maggio-giugno 1665: «Per quanto riguarda la terza
parte della mia Filosofia (<quod ad 3am partem nostree philosophia attinet) te ne manderò
presto qualcosa» (Ep. 28 in G IV: 163 [OS: 1977]). A partire dal fatto che in diverse
opere Spinoza si riferisce a «la mia filosofia» intendendo con ogni probabilità proprio
YEtica, F. Mignini sostiene che: «Tutta l’opera di Spinoza trova nelYEtica il proprio bari­
centro e il termine privilegiato di riscontro e di giudizio. In tal senso, YEtica compendia
l’intero sistema filosofico di Spinoza» («Etica. Introduzione», in B. SPINOZA, Opere, a
cura di F. MlGNlNl, Mondadori, Milano 2007, 783).
11 OP: [5-6] (OS: 2541).
12 Effettivamente YEtica è l’unico testo filosofico, compiuto e pubblico degli
Opera posthuma; tutti gli altri testi o sono incompiuti (Trattato politico; Trattato sull’e­
mendazione dell’intelletto) o sono privati (Epistole) o non filosofici (Compendio di gram­
matica della lingua ebraica).
92 Sistemi filosofici moderni

Che YEtica abbia una forma sistematica, balza immediatamente


agli occhi del lettore dal fatto che essa è ordine geometrico demonstra-
tay ovvero l’argomentazione si sviluppa lungo una concatenazione or­
dinata di definizioni, assiomi, postulati, proposizioni. La stessa forma
argomentativa con la quale Descartes nelle Risposte II aveva dato, in
breve, le sue Ragioni che provano l'esistenza di Dio e la distinzione del­
l'anima dal corpo, cioè il contenuto delle Meditazioni riproposto non
più secondo la via analitica, bensì sintetica13. Spinoza non era nuovo a
questa forma espositiva, i Principi della filosofia di Descartes (Renati
Des Cartes Principiorum Philosophiae, 1663), unica opera autografa da
lui pubblicata in vita, erano anch’essi dimostrati secondo l’ordine geo­
metrico. Tuttavia, il metodo geometrico utilizzato tanto nei Principi
quanto nell 'Etica differisce sensibilmente sia da quello di Descartes
che dall’edizione originale degli Elementi di Euclide, eletta a modello
ideale da tutte queste opere. Vediamo, perciò, in dettaglio alcuni ele­
menti basilari di tale ordine geometrico14. I Principi iniziavano con
una premessa scritta da Lodewijk Meyer - fu la sua insistenza a spin­
gere Spinoza a pubblicare l’opera15 - nella quale egli esponeva le origi­
ni e le ragioni del metodo geometrico, offrendo anche questa puntuale
spiegazione di cosa sono definizioni, postulati e assiomi-.
Le definizioni, infatti, non sono altro che la spiegazione più chiara pos­
sibile dei termini e dei nomi che designano la cosa di cui si tratta; i postulati e
gli assiomi, ovvero le nozioni comuni dell’animo, sono invece asserzioni tanto
chiare e perspicue che nessuno può negar loro l’assenso, basta che abbia com­
preso rettamente il senso delle parole16.

Dunque le definizioni riguardano singole nozioni17, delle quali


spiegano il significato in modo chiaro e distinto, ossia privo di con­

13 Supra, 22.
14 Cf. F. MlGNINI, L'Etica di Spinoza. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma
1995, 30-34; S. NADLER, Spinoza s Ethics. An Introduction, Cambridge University Press,
Cambridge 2006, 35-51; P. STEENBAKKERS, The Geometrical Order in thè Ethics, in Koi-
STINEN (ed.), The Cambridge Companion to Spinoza s Ethics, cit., 42-55.
15 Cf. S. N adler , Spinoza. A life, Cambridge University Press, Cambridge 1999,
198. 205-206 (trad. it., Baruch Spinoza e l’Olanda del Seicento, Einaudi, Torino 20092,
218. 228-229).
16 G l : 127 (OS: 371).
17 Si discute sul valore puramente nominale oppure reale delle definizioni, se­
condo una distinzione avanzata dallo stesso Spinoza in una lettera A Simon de Vries,
febbraio 1663 (Ep. 9 in G IV: 42-44 [OS: 1845]); cf. M. GUEROULT, Spinoza. I. Dieu
(Éthique, I), Aubier-Montaigne, Paris 1968, 19-40; N adler , Spinoza s Ethics, cit., 46-48.
L'Etica di Spinoza 93

traddizione. Postulati e assiomi sono invece enunciati nei quali sono


formulati principi universali e di per sé evidenti, con la sola differenza
che i primi sono finalizzati a una particolare dimostrazione, mentre i
secondi hanno carattere più generale. Le proposizioni sono ciò che ef­
fettivamente costituisce l’ossatura del sistema filosofico delYEtica1*, si
tratta di enunciati che stabiliscono l’essenza di qualcosa o delle sue af­
fezioni, ovvero di ciò che deriva o dipende da quel qualcosa, ma a dif­
ferenza di assiomi e postulati, non sono di per sé evidenti e, perciò,
hanno bisogno di essere dimostrati. I corollari sono proposizioni che
derivano immediatamente da una proposizione precedente, perciò, di
solito, non hanno bisogno di essere ulteriormente dimostrati. Infine,
Spinoza fa un ampio uso dei cosiddetti scolti, ovvero digressioni o
commenti esplicativi, a volte brevi a volte anche molto lunghi, che sce­
glie d’inserire all’interno della catena argomentativa, laddove ritiene
opportuno. Questi scolti, evidentemente, non seguono un ordine geo­
metrico e non hanno la stessa forma rigorosamente speculativa che
hanno gli altri testi, eppure costituiscono una porzione considerevole
dell’opera. In essi Spinoza devia volutamente dalla linea della concate­
nazione geometrica, per venire incontro al lettore, particolarmente ai
suoi pregiudizi ovvero alle resistenze che in costui possono nascere
dalla difficoltà a ragionare in modo puramente intellettivo e dall’abitu­
dine a farsi trascinare dall’immaginazione. Tenendo poi conto anche di
altri testi presenti néYYEtica, come tre prefazioni e tre lunghe appendici,
risulta infine che quasi metà dell’intero testo non è redatta in modo
geometrico.
Nella struttura pent apartita dell Etica - sinotticamente coglibile
nel succitato frontespizio - spicca la struttura chiastica dei titoli, o te­
mi, delle Parti IV e V, che include anche l’oggetto della III Parte:

18 Per dare un’idea della distribuzione di questi elementi nel complesso dell 'Etica:

I II III IV V Tot.
definizioni 8 711 3 8 - 27
assiomi 7 515 - 1 2 20
postulati - -16 2 - - 8
proposizioni 36 49 59 73 42 259
corollari 15 18 14 17 8 72
scolti 14 22 37 39 17 129
94 Sistemi filosofici moderni

S e r v it u t e Humana ^ ^ A ffe c tu u m VlRlBUS

P o te n tia I n te lle c tu s L i b e r t a t e Humana

In effetti, le due ultime parti costituiscono come due facce di


uno stesso problema, rappresentando di fatto l’etica nell 'Etica, come
dichiara lo stesso autore19. Giustamente P. Macherey, nel suo com­
mento alYEtica, osserva che questi titoli vengono a comporre un enun­
ciato che descrive: «il progetto globale di un’etica, di cui la schiavitù
umana (servitus humana) costituisce il punto di partenza e la libertà
umana (libertas humana) il punto d’arrivo»20. Ora affinché tale percor­
so di liberazione possa compiersi è necessario che avvenga un cambia­
mento: «bisogna che alle forze degli affetti (vires affectuum) - e qui il
plurale indica una dispersione foriera di una molteplicità di potenziali
conflitti - si sostituisca una nuova potenza {potentia), la cui presenta­
zione al singolare esprime di contro la funzione unificatrice»21; è que­
sta la potenza dell’intelletto {potentia intellectus). Possiamo così foca­
lizzare il punto d’arrivo delYEtica nella argomentazione filosofica della
natura e delle condizioni dell’uomo libero, cioè pienamente in posses­
so di se stesso e dunque capace di esprimere effettivamente la propria
natura. In altre parole, YEtica è quell’opera che cerca di rispondere al­
la domanda: in cosa consiste la perfezione dell’uomo e come egli può
effettivamente raggiungerla?

19 Nella prima riga della V Parte dell 'Etica si legge: «Transeo tandem ad alteram
Ethices partem, quae est de modo sive via quae ad libertatem ducit». Questa è l’unica oc­
correnza nel corpo del testo (titoli esclusi) in cui compare il termine Ethica (in tutto il
manoscritto Vaticano il termine appare solo in questo luogo). Tale brano può essere in­
teso in due sensi: (a) «Passo infine all’altra parte dell’etica, la quale tratta del modo o via
che conduce alla libertà», in questo caso la V Parte (libertà) è l’altra rispetto alla IV Par­
te (schiavitù), intendendo che queste due parti formano un sottoinsieme ove si trattano
temi etici; (b) «Passo infine alla seguente parte dell’Etica [...]», intendendo così la V
Parte come l’ultima nel complesso di un’opera dal nome Etica. Tuttavia, il fatto che Spi­
noza nelle righe immediatamente seguenti al passo citato parli della matematica e della
logica, per distinguere il loro oggetto da quello della V Parte, lascia decisamente propen­
dere a favore di (a).
20 «le projet global d ’une éthique, dont la servitude humaine (servitus humana)
constitue le point de départ et la liberté humaine (libertas humana) l’aboutissement» (P
MACHEREY, Introduction à /'Éthique de Spinoza, 5 voli., Presses Universitaires de France,
Paris 1994-1998, V, 29 [trad. mia]).
21 «il faut que soit substituée aux forces des affects (vires affectuum) - et ici le
pluriel désigne une dispersion dispensatrice d’une multiplicité de conflits potentiels -,
une nouvelle puissance [potentia), dont la présentation au singulier exprime à l’inverse
la fonction unificatrice» (MACHEREY, Introduction à /'Éthique, cit., V, 29 [trad. mia]).
L'Etica di Spinoza 95

Centrare e fissare attentamente questo punto è indispensabile


per una corretta lettura dell’opera nel suo complesso sistematico. Se,
da un lato, la segmentazione geometricamente scandita dei testi, con la
costante serie di rimandi interni tra di essi, secondo l’intenzione del­
l’autore vorrebbe “facilitare” la lettura, in quanto più funzionale al­
l’apprendimento; dall’altro lato, una comprensione dell’opera vera­
mente adeguata all’ordine geometrico richiede non solo di seguire la
successione strettamente lineare degli argomenti, ma anche di abbrac­
ciare con lo sguardo della mente i suoi estremi. Il lettore non dovreb­
be mai dimenticare, infatti, di avere tra le mani un’opera filosofica che,
come Spinoza affermerà nello scolio della proposizione 36 della V Par­
te, intende condurlo fino al punto di conoscere chiaramente «in che
cosa la nostra salvezza, ossia beatitudine, ovvero libertà consista», e ad
assumere una regola pratica di vita confacente a tale conoscenza.
Per poter conoscere in cosa consiste la nostra libertà e, grazie a
ciò, indicare le vie praticabili per la nostra emancipazione (V Parte), è
indispensabile indagare a fondo la condizione umana e soprattutto co­
sa tiene schiavo l’uomo impedendogli d’esercitare la propria azione
(IV Parte), ma per fare questo si deve anzitutto descrivere la natura af­
fettiva dell’uomo, dando ragione di ciò che in lui determina e distin­
gue attività e passività (III Parte), il che a sua volta richiede di posse­
dere un’adeguata concezione di cos’è l’uomo, ovvero quale sia la natu­
ra e l’origine della mente e quale sia la sua relazione col corpo (II Par­
te) e, tuttavia, non è possibile capire cos’è l’uomo se si prescinde da
una conoscenza generale della natura delle cose e di ciò che ne è la
causa unica e necessaria, cioè Dio (I Parte). Da queste poche battute -
nelle quali ho cercato di ripercorrere a ritroso l’itinerario dell’Etica22 -
è possibile intuire quantomeno la profonda coerenza interna dell’ope­
ra, che pertanto non va semplicemente letta una proposizione dopo
l’altra, quasi fosse una stratificazione nella quale elementi tra loro indi-
pendenti vengono fatti “poggiare” uno sopra l’altro. E del tutto evi­
dente, a una lettura sufficientemente critica del testo, che Spinoza pre­
para e, difatti anche, presuppone, sin dalle primissime fasi, contenuti
che spiegherà e chiarirà solo nel prosieguo dell’opera.

22 Nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto, Spinoza parte dalla propria situa­


zione esistenziale per affermare che la felicità dipende da una certa conoscenza, la quale
dipende a sua volta da una corretta comprensione di noi stessi all’interno dell’ordine na­
turale, ovvero ultimamente da Dio; cf. P.-F. MOREAU, Spinoza. Lexpérience et l’éternité,
Presses Universitaires de France, Paris 1994; N a d le r , Spinoza’s Ethics, cit., 52-53.
96 Sistemi filosofici moderni

Per lungo tempo, i lettori dell 'Etica, fermandosi alla lettura della
sola I Parte, hanno compreso l’insieme dell’opera come se fosse nul-
l’altro che un puro trattato di metafisica23. In effetti, la prospettiva top-
down che l’opera induce nel lettore sembra ridurre l’intero contenuto
a ciò che costui incontra immediatamente, cioè a Dio. E vero che se si
prescinde da quanto dimostrato nella I Parte, le seguenti mancano di
ogni fondamento argomentativo; ed è anche vero che i rimandi interni
al testo sono per lo più all’indietro, ovvero a ciò che è stato già dimo­
strato. E tuttavia, se ci limitassimo alla I Parte dell 'Etica, ovvero a sta­
bilire ciò che Dio è e fa, la domanda sorgerebbe spontanea: ma tutto
ciò, cosa ha a che fare con noi? Inoltre, tutto ciò che lì è pensato e det­
to su Dio, come è stato possibile pensarlo e dirlo? ovvero, quale rela­
zione sussiste tra la nostra intelligenza e Dio, tale da renderci in grado
di affermare tutto ciò? E perché, anche se magari comprendiamo e sia­
mo persino convinti della verità di tale dottrina su Dio, continuiamo a
vivere e a comportarci come se la ignorassimo del tutto? Queste e altre
domande mostrano quanto sia insufficiente leggere l'Etica come se fos­
se un’opera metafisica non solo nel suo oggetto ma nella sua stessa for­
ma: dotata di un inizio assoluto, totalmente autofondante. Quasi essa
non fosse stata scritta da un’intelligenza umana, ma fosse frutto di una
sorta di “autorivelazione” ontologica.

23 Nel giugno del 1678, sei mesi dopo la pubblicazione degli Opera posthuma,
un decreto degli Stati generali vietò nelle province d’Olanda YEtica e le altre opere di
Spinoza. L’accusa di ateismo, che aveva perseguitato l’autore già in vita, si abbatté sul­
l’insieme delle sue opere e persino sulla filosofia ritenuta alla base di tale pensiero, quel­
la di Descartes. Essere “spinozista” era divenuta un’accusa infamante. Da lì in avanti
YEtica divenne di fatto un’opera clandestina e il pensiero di Spinoza fu noto ai più tra­
mite soprattutto il lungo articolo che P. Bayle gli aveva dedicato nel suo Dictionnaire hi-
storique et critique (1697), coniando la celeberrima definizione di «ateo virtuoso». Tutta­
via, nel 1785, con la pubblicazione del volume Sulla dottrina di Spinoza in lettere al Si­
gnor Moses Mendelssohn, F.H. Jacobi offrì un’esposizione del sistema spinoziano, che
suscitò nella filosofia e nella letteratura tedesca un notevole clamore - sfociato nel
Pantheismusstreit (controversia sul panteismo) - ma anche una sua vera “rinascita”, ca­
pace di esercitare un profondo influsso su filosofi come Fichte, Schelling, Hegel e Scho­
penhauer. Sulla scia di questo dibattito, nel 1802-03 le opere di Spinoza furono ripub­
blicate a Jena. Cf. H. Han-D ing, Spinoza und die deutsche Philosophie. XJntersuchung
zur metaphysischen Wirkungsgeschichte des Spinozismus in Deutschland, Scientia, Aalen
1989; P.-F. MOREAU, Spinozas reception and influence, in D. Garrett (ed.), The Cambrid­
ge Companion to Spinoza, Cambridge University Press, Cambridge 1996, 408-433; Id.,
Spinoza et le spinozisme, Presses Universitaires de France, Paris 20072, 109-124; F. Ml-
GNINI, Introduzione a Spinoza, Laterza, Roma-Bari 2006, 173-208; E. SCRIBANO, Guida
alla lettura dell'Etica di Spinoza, Laterza, Roma-Bari 2008, 164-176.
L'Etica di Spinoza 97

L’Etica, invece, è come quei racconti gialli che si capiscono solo


quando si arriva all’ultima pagina. In questo caso, solo quando si co­
glie l’intima relazione che collega la fine, la nostra libertà, all’inizio,
Dio. Anzi - io ritengo - il suo senso sta tutto nel dimostrare quale rela­
zione c’è tra noi, qui e ora, e l’infinito Dio, nella sua eternità. Ecco
perché la lettura dellyEtica solo apparentemente sembra procedere da
un massimo di infinita ricchezza, Dio, verso l’insignificanza di una si­
tuazione finita e contingente, noi. Al contrario, il suo dispiegarsi argo­
mentativo si avvicina sempre di più al suo fulcro problematico centra­
le, con un progresso continuo nel quale ogni nuovo passaggio arricchi­
sce i precedenti. Tale contenuto speculativo centrale è la nostra libertà.
Ciò che la circonda di senso è Dio, nella sua eternità.
98 Sistemi filosofici moderni

£□ Edizioni e traduzioni dell'Etìlica


UEthica, ordine geometrico demonstrata, dopo l’edizione del 1677 negli
Opera posthuma (abbreviata con la sigla OP), che è e rimane a tutt’oggi Yeditio
princeps del testo, venne ripubblicata da H.E.G. Paulus nel 1802-03, in una ver­
sione identica alla precedente, anche negli errori. Solo con l’edizione di J. van
Vloten e J.P.N. Land, del 1882-83, il testo fu emendato e corredato di un minimo
apparato. Bisognerà attendere il 1925, affinché C. Gebhardt dia alla luce la pri­
ma edizione critica deWEthica, nel volume II degli Spinoza Opera (abbreviazione
G), inficiata però dalla convinzione del curatore che Spinoza stesso avesse tra­
dotto la versione nederlandese del 1677 pubblicata nei Nagelate Schriften. Nono­
stante i molti difetti, G è divenuta l’edizione di riferimento sino ai nostri giorni.
L’unica traduzione italiana completa delle opere di Spinoza, con tutti i
testi originali a fronte e l’indicazione della paginazione G al margine, è attual­
mente: Tutte le opere, a cura di A. SANGIACOMO, Bompiani, Milano 2010 (ab­
breviazione OS). La traduzione italiana ddìEthica più diffusa è quella di
G. Durante del 1963. Questa compare oggi in almeno tre diverse edizioni con
il testo latino G a fronte: Neri Pozza, Vicenza 2006; Bompiani, Milano 2007;
OS: 1141-1607. Tra le altre traduzioni italiane, merita di essere segnalata quel­
la di E Mignini, assai affidabile ma priva del latino a fronte, in Opere, Monda-
dori, Milano 2007. Di pari valore, ma posta a fronte del testo latino rivisto, è
quella di Cristofolini: Etica, edizione critica del testo latino e traduzione italia­
na a cura di P. CRISTOFOLINI, Edizioni ETS, Pisa 2010. Sia per il testo latino
delYEthica che per la traduzione italiana io mi rifarò sempre all’edizione di
Cristofolini, segnalando in nota eventuali modifiche.
I rimandi alle opere di Spinoza saranno indicati secondo l’edizione G
seguita dal numero del volume e dalla pagina; per le traduzioni mi baserò su
OS. Per brevità, i rimandi all’Etica (E) saranno indicati con le sottostanti ab­
breviazioni, seguite dai relativi numeri (es. E3p27c2 = secondo corollario della
ventisettesima proposizione della III Parte dell Etica). Tutti i rimandi interni
indicati da Spinoza nel corpo del testo, in corsivo tra parentesi, saranno ab­
breviati e mantenuti in corsivo tra parentesi: es. «hoc est {per Prop. 30 p. 4)»
diventa «ossia (E4p30)».
axioma / assioma: a
affectuum definitio / definizione affetti: ad
appendix / appendice: ap
corollarium / corollario: c
definitio / definizione: d
demonstratio / dimostrazione: dem
explicatio / spiegazione: e
lemma / lemma: 1
propositio / proposizione: p
postulatum / postulato: post
praefatio / prefazione: praef
scholium / scolio: s
L'Etica di Spinoza 99

1. Nozioni prime
La I Parte dell’E x ha, in breve, la seguente struttura: inizia
dando 8 definizioni e 7 assiomi, in base a questi dimostra 36 proposi­
zioni - divisibili in due grandi sviluppi successivi: da 1-15 quelle che
trattano di tutte le cose che «sono in Dio {in Deo sunt)», da 16-36
quelle che trattano di tutte le cose che «da Dio dipendono {a Deo de-
pendent)»24 - e si conclude infine con una lunga Appendice, dedicata a
smascherare la falsità del pregiudizio teleologico.
Le prime otto definizioni sono di estrema importanza, non solo
perché costituiscono la base speculativa originaria del sistema, ma so­
prattutto perché contengono in nuce l’itinerario complessivo del De
Deo23. Queste definizioni - delle quali, in questo caso particolare, pre­
ferisco riportare il testo - vanno lette secondo quattro blocchi succes­
sivi, dei quali il primo comprende Eldl-2:
1. Per causa di sé intendo ciò la cui essenza implica l’esistenza; ossia ciò
la cui natura non può esser concepita se non come esistente.
2. Si dice finita nel suo genere quella cosa che può essere delimitata da
un’altra della medesima natura. Per esempio, un corpo è detto finito, perché
ne concepiamo un altro sempre maggiore. Del pari, un pensiero è delimitato
da un altro pensiero. Ma un corpo non è delimitato da un pensiero, né un
pensiero da un corpo26.

Non è un caso che la prima nozione delYEtica riguardi proprio


la causalità, tutto il sistema filosofico in essa dispiegato, sia dal punto
di vista del contenuto che della forma, non è altro che l’assunzione ra­
dicale di un’idea antica come la filosofia, ovverosia che la scienza è sci-
re per causas, ossia conoscere le cause o ragioni delle cose. In E Idi la
causalità non è però il riferirsi di una cosa a un’altra27, bensì a se stessa:

24 «M a tutte le cose, che sono, sono in Dio {At omnia, quae sunt, in Deo sunt) e
da Dio dipendono a tal punto {et a Deo ita dependent), che senza di esso non possono
essere, né essere concepite {ut sine ipso nec esse, nec concipipotest)» (Elp28s). È in base
a questo testo cruciale che la I Parte dell'Etica può essere divisa in due grandi sviluppi
successivi, cf. MACHEREY, Introduction à /'Éthique, cit., I, 23-24.
25 Cf. GUEROULT, Spinoza. I. Dieu, cit., 83-84.
26 «1. Per causam sui intelligo id, cujus essentia involvit existentiam; sive id,
cujus natura non potest concipi, nisi existens. 2. Ea res dicitur in suo genere finita, quae
alia ejusdem naturae terminari potest. Ex. gr. corpus dicitur finitum, quia aliud semper
majus concipimus. Sic cogitatio alia cogitatione terminatur. At corpus non terminatur
cogitatione, nec cogitatio corpore» (E ldl-2).
27 «Quando si ricerca il perché delle cose, si ricerca sempre perché qualcosa ap­
partiene a qualcos’altro» {Metaph., Z ìi, 1041a 10-11 [trad. it., ARISTOTELE, Metafisica, a
cura di G. REALE, 3 voli., Vita e Pensiero, Milano 1993, II, 361]).
100 Sistemi filosofici moderni

«causa di sé (causa sui)». Sulla scia delle Meditazioni di Descartes28,


Spinoza assume il senso positivo della causa sur. un qualcosa (id) il cui
essere (essentia; natura) consiste nel porre necessariamente (involvit\
non potest concipi nisi) la propria esistenza attuale (existentia\ exi-
stens). Affinché tale necessaria posizione d’esistenza si dia, la sola nega­
zione di una causa esterna non è sufficiente. Bisogna, anzi, che l’esclu­
sività della negazione venga assunta pienamente dalla posizione d’esi­
stenza, in modo tale da ottenere un’affermazione assoluta di esistenza.
Dire causa sui significa dire un qualcosa che ha in se stesso tutto il pro­
prio perché e che è già piena realizzazione di tutto ciò che è nella sua
natura. In tal senso nessuna causa, nessuna ragione giace fuori di esso,
e neppure in esso vi è alcuna potenzialità da realizzare, perché la sua
natura consiste proprio nell’essere tutto ciò che è. Perciò, la definizio­
ne di causa sui è anche definizione di assoluto o infinito, nel senso di
ciò rispetto al quale nulla manca o fuoriesce e nemmeno è in fieri.
Questo aspetto è ulteriormente confermato dal fatto che la defini­
zione immediatamente seguente è quella di «cosa finita nel suo genere»;
infatti, finito è contrario di infinito; nel suo genere è contrario di in asso­
luto. Dunque, all’opposto della causa sui, il finito è semplicemente ciò
che per definizione ha la sua causa fuori di sé. Ecco perché Spinoza di­
ce che ciò che definisce la cosa finita è propriamente il suo poter essere
de-limitata (terminari) da un’altra cosa finita che appartiene allo stesso
genere: un corpo - secondo l’esempio usato da Spinoza - cioè un qual­
cosa che si estende nello spazio, termina ovvero si estende fino al limite
in cui inizia l’estensione di un altro corpo; e viceversa. Tutto l’ambito
delle cose finite è dunque caratterizzato dalla negatività ovvero - secon­
do un’espressione diventata poi una nota divisa spinoziana - «la deter­
minazione è negazione (determinalo negatio est)»29. Tuttavia, affinché
tale negazione reciproca sia possibile, è indispensabile che i termini che
si negano siano entrambi già posti affermativamente all’interno di un

28 Supra, 53-54.
29 A Jarig Jellesz, 2 giugno 1674 «Quanto al fatto che la figura sia una negazione
e non già qualcosa di positivo, è evidente ché l’intera materia, considerata indefinita­
mente, non può avere alcuna figura e che la figura può aver luogo soltanto nei corpi fini­
ti e limitati. [...] Poiché dunque la figura non è altro che la determinazione, e la deter­
minazione è negazione, [la figura] non potrà essere altro, come ho detto, che una nega­
zione» (Ep. 50 in G IV: 240 [OS: 2077]). Sarà poi Hegel a consacrare tale idea con la
nota formula: omis determinatici est negatio-, cf. Y.Y. MELAMED, «Omnis determinatio est
negatio»: determination, negation, and self-negation in Spinoza, Kant, and Hegel, in E.
F ò RSTER - Y.Y. M elam ed (edd.), Spinoza and German Idealism, Cambridge University
Press, Cambridge 2012, 175-196.
L'Etica di Spinoza 101

medesimo orizzonte comune, cioè che appartengano al medesimo gene­


re di realtà. Questo perché, come stabiliranno immediatamente Ela4-5
ed Elp3, un effetto non può derivare da una causa con la quale non ha
nulla in comune. Perciò - con una conseguenza che sarà importantissi­
ma ai fini dell’intero sistema - realtà appartenenti a generi diversi non
possono negarsi né affermarsi tra di loro.
Il secondo blocco di definizioni è formato dalle tre seguenti
(Eld3-5), nelle quali Spinoza stabilisce gli elementi basilari della sua
ontologia30: sostanza, attributo e modo.
3. Per sostanza intendo ciò che è in sé e che per sé si concepisce: ossia
ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa da cui si debba
formare.
4. Per attributo intendo ciò che l’intelletto percepisce della sostanza in
quanto costitutivo della sua essenza.
J. Per modo intendo le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro,
tramite il quale anche si concepisce31.

Alla domanda su quale sia l’idea chiave della I Parte delYEtica, la


maggior parte degli studiosi risponderebbe senza esitazione: la sostan­
za. Un termine filosofico che ha una lunghissima storia e che ancora
oggi fa discutere32. Si legge sovente che quella qui data sia «la tradizio­
nale definizione aristotelica»33. Non è esatto. Anzitutto bisogna dire
che Aristotele non ha mai dato la definizione della sostanza, bensì ha
trattato della ousia a più riprese e sotto diversi aspetti34, giungendo a

30 Puntuale la spiegazione di V. VlLJANEN, Spinoza’s ontology, in KoiSTINEN


(ed.), The Cambridge Companion to Spinoza s Ethics, cit., 56-71; altrimenti cf. G u e -
ROULT, Spinoza. I. Dieu, cit., 44-67; MACHEREY, Introduction à /'Éthique, cit., I, 37-45;
NADLER, Spinoza s Ethics, cit., 53-59.
31 «3. Per substantiam intelligo id, quod in se est, et per se concipitur: hoc est
id, cujus conceptus non indiget conceptu alterius rei, a quo formari debeat. 4. Per attri-
butum intelligo id, quod intellectus de substantia percipit, tanquam eiusdem essentiam
constituens. 5. Per modum intelligo substantias affectiones, sive id quod in alio est, per
quod edam concipitur» (Eld3-5).
32 Per farsi un’idea della complessa storia del termine, cf. il lungo lemma «Sub-
stanz; Substanz/Akzidens», in J. RlTTER - K. GRUNDER (edd.), Historisches Wòrterbuch der
Philosophie, 13 voli., Schwabe, Stuttgart 1971-2007, X, 496-553; o il più breve, D. S ac -
CHI, Sostanza, in Enciclopedia filosofica, 12 voli., Bompiani, Milano 2010, 10886-10894;
per il dibattito contemporaneo sul tema, cf. K. TRETTIN (ed.), Substanz. Neue Uberlegun-
gen zu einer klassischen Kategorie des Seienden, Klostermann, Frankfurt a.M. 2005.
33 MlGNlNl, L'Etica di Spinoza, cit., 42.
34 «L a sostanza (ovaia) viene intesa, se non in più, almeno in quattro significati
principali: infatti, si ritiene che sostanza di ciascuna cosa sia l’essenza (xò t l f|v eivcu),
l’universale (xaBóXou), il genere (yévog) e, in quarto luogo, il sostrato (i)Ji0X8i|X8V0v)»
{Metaph., 72, 1028b 33-36 [trad. it., cit., 291]).
102 Sistemi filosofici moderni

due conclusioni principali: (a) «Sostanza è quella detta nel senso più
proprio e in senso primario e principalmente, la quale né si dice di
qualche soggetto né è in qualche soggetto: ad esempio, un certo uomo
o un certo cavallo»35 (es. il predicato ‘bianco’ è in Socrate e ‘uomo’ si
dice di Socrate); (b) sostanza prima è la forma di una certa materia (es.
per Socrate è la sua anima, in quanto forma del corpo, a essere causa
dell’essere Socrate)36. Aristotele giunge alla prima conclusione nelle
Categorie, ovvero nel contesto dello studio della predicazione, dove
Yousia viene fatta precipitare verso Yhupokeimenon, cioè verso ciò che
sostiene tutte le proprietà. Egli giunge poi alla seconda conclusione nel
libro Z della Metafisica, perché consapevole dell’insufficienza dello
sguardo meramente predicativo e deciso ad andare oltre, alla ricerca
della causa dell’essere37, che trova infine nella forma individua di una
certa materia. In entrambi i casi - dobbiamo notare - la sostanza è de­
finita nella sua relazione con gli accidenti o la materia, e questo signifi­
ca che per sostanza non si intende affatto un qualcosa di perfettamen­
te completo e a se stante, sul quale verrebbero a cadere determinate
proprietà rispetto alle quali esso resterebbe del tutto indifferente, ben­
sì una relazione di sostanzialità (es. l’anima di Socrate è forma di quel
particolare corpo materiale che è il corpo di Socrate). Per Aristotele,
dunque, sostanza e accidenti sono entrambi principi che nella loro cor­
relazione spiegano perché le cose, che sono, sono ciò che sono.
Nei Principia philosophiae Descartes definisce, invece, la sostan­
za come un tutto a se stante, in sé e per sé: «Per sostanza non possia­
mo intendere altro se non una cosa che esiste di maniera tale da non
aver bisogno di alcun’altra cosa per esistere (nulla alia re indigeat ad
existendum)»^*. Da ciò egli deve immediatamente concludere che: «c’è
certo un’unica sostanza che può essere intesa come tale da non aver
bisogno di alcun’altra cosa, Dio». Con la conseguenza che Descartes è

35 Cat.y 5, 2a 11-14 (trad. it., ARISTOTELE, Le categorie, a cura di M. ZANATTA,


Rizzoli, Milano 1989, 305).
36 Cf. E. BERTI, Il concetto di 'sostanza prima’ nel libro Z della Metafisica, in Id.,
Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima, Bompiani, Milano 2004, 529-549; mi sono
interessato di questi temi in S. D ’AGOSTINO, Alla ricerca della sostanza prima, in «Grego-
rianum» 91 (2010), 725-739.
37 «Si è ora detto in sintesi che cos’è la sostanza: essa è ciò che non viene predica­
to di alcun sostrato (xjjtoxsiixévo'u), ma è ciò di cui tutto il resto viene predicato. Tuttavia
la sostanza non si deve caratterizzare solamente in questo modo, perché così non basta»
(.Metaph., Z 3, 1029a 7-10 [trad. it. cit., II, 293]); sulla polivocità della concezione aristote­
lica della sostanza, cf. il V capitolo del Saggio introduttivo di G. REALE, ivi, I, 111-138.
38 Principia, I, art. 51 (AT V ili: 24 [OB I: 1745]); supra, 48.
L'Etica di Spinoza 103

poi costretto a lambiccarsi per riuscire a estendere la dignità di sostan­


za anche ad altro alTinfuori di Dio39. Spinoza riprende la definizione
cartesiana di sostanza, specificando gli ambiti di assolutezza che la ca­
ratterizzano: (a) l’essere in sé, non in altro; (b) l’essere concepito per
sé, ovvero non ricevere da qualcosa di altro da sé la propria ragione o
causa. Ma soprattutto lega intimamente questi due aspetti tra di loro,
componendo una definizione serratissima di sostanza. Infatti, un con­
to è la differenza tra ciò che è in sé (es. un certo uomo, un certo caval­
lo) rispetto a ciò che è in altro (es. un certo bianco, una certa altezza);
un conto è l’essere da altro, ovvero avere in parte o in tutto la propria
causa fuori di sé (es. il figlio da suo padre, i viventi dal sole). Spinoza,
specificando che la sostanza non solo deve essere in sé ma anche con­
cepita per sé, fa in modo tale che la sua definizione comprenda non so­
lo la inseità ma anche la aseità. Di conseguenza, concepisce la sostanza
- già nella sua definizione - come un assoluto, ovvero come causa sui.
Esattamente opposta alla definizione di sostanza è quella di mo­
do. Con questo termine40 si intende ciò che è in altro da sé ed è conce­
pito da altro da sé. Anche se qui Spinoza non lo dice, risulta chiara­
mente che il modo per poter essere ha bisogno dell’essere di una so­
stanza, e per poter essere concepito ha bisogno della concezione che si
ha di una qualche sostanza. Tale concezione Spinoza chiama attributo.
Per attributo di una sostanza si intende la sua essenza, ovvero quella
certa natura di un qualcosa rispetto alla quale tutte le singole proprietà
di esso altro non sono se non sue determinate manifestazioni41. Ad
esempio, il pensiero è attributo di quella sostanza di cui i singoli pen­
sieri sono sue espressioni determinate; l’estensione è attributo di quel­
la sostanza di cui quella particolare figura è una sua proprietà. Perciò,
l’attributo esprime ciò che costituisce un qualcosa in se stesso, mentre
la proprietà è ciò che appartiene a qualcosa in quanto esso possiede

39 Per Tommaso d’Aquino, Dio non può essere propriamente detto sostanza,
perché in lui non vi sono accidenti, cf. STh I, q. 29, a. 3.
40 Talvolta Spinoza usa i termini ?nodificazione o affezione come sinonimi di mo­
do, mentre accidente è usato, quasi sempre, nell’espressione avverbiale per accidente vs
per sé o per natura. Per non rendere la vita troppo complicata al lettore alle prime armi,
non tratterò della questione, assai complessa, dei modi infiniti, mediati e immediati, cf.
E. GlANCOTTI, On thè problem o f infinite modes, in Y. Y o vel (ed.), God and Nature.
Spinoza s Metaphysics, Brill, Leiden 1991, 97-118; N a dler , Spinoza s Ethics, cit., 87-98.
41 Secondo quanto Descartes afferma nei Principia I, art. 53: «È ben vero che
una sostanza è conosciuta a partire da un qualunque suo attributo; ma tuttavia ogni so­
stanza ha una sola proprietà principale, che costituisce la sua essenza o natura, e alla
quale si rapportano tutte le altre sue proprietà» (AT V ili: 25 [OB I: 1747]).
104 Sistemi filosofici moderni

quella certa essenza, ovvero è ciò che è. Nella sua definizione Spinoza
riferisce l’attributo alla «percezione» che l’intelletto ha della sostanza.
Questo aspetto ha acceso un dibattito circa il ruolo da attribuire
a tale percezione, in quanto sono possibili almeno due posizioni, una
più “soggettivista”, l’altra più “oggettivista”: (a) la sostanza è di per sé
neutra e indifferente, perciò l’attributo dipende solo dalla percezione
che l’intelletto ha di essa e non è in sé qualcosa di reale; (b) l’attributo
è percezione immediata della sostanza, perciò non si dà mai alcuna
concezione di essa prescindendo dall’attributo, il quale possiede per­
tanto un proprio valore ontologico. Senza entrare nei dettagli di que­
sto annoso dibattito42, si può dire che la soluzione più equilibrata sem­
bra essere quella che comprende entrambe le posizioni: la sostanza è
l’identica unità d’esistenza degli attributi che si esprime simultanea­
mente in ciascuno di essi. Dal canto suo, l’intelletto, in quanto incapa­
ce di comprendere tale infinita simultaneità attributiva, coglie la so­
stanza sempre sotto un determinato attributo. L’infinità degli attributi
emerge più chiaramente solo con la definizione sesta:
6. Intendo Dio come ente assolutamente infinito, ossia sostanza che
sta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un’essenza eterna e infinita43.

La definizione di Dio non è la prima ad apparire nel De Deo


giacché la sua formulazione richiede le altre definizioni per poter esse­
re costruita. In essa ritroviamo tutte definizioni precedenti: infinito
(Eldl), sostanza (Eld3), attributo (Eld4), nonché indirettamente le
definizioni a queste opposte. Secondo Eld6, Dio è assoluta positività,
ovvero è privo di negatività sotto ogni possibile aspetto: (a) quanto alla
sua esistenza, in quanto è sostanza infinita priva di qualunque altra so­
stanza fuori di sé che la possa negare o delimitare; (b) quanto alla sua
concezione, in quanto consta di infiniti attributi, senza che alcuno di
essi rimanga al di fuori; (c) quanto alla sua costituzione interna, come
sarebbe nel caso in cui i suoi differenti attributi si negassero o delimi­
tassero reciprocamente. Difatti, Spinoza si affretta a precisare nella

42 Cf. GUEROULT, Spinoza. I. Dieu, cit., 428-461; J. CARRIERO, On thè relation-


ship hetween mode and substance in Spinozas metaphysics, in «Journal of thè History of
Philosophy» 33 (1995), 245-273; M. D ella ROCCA, Explaining explanation and thè mid-
tiplicity of attributes, in M. HAMPE - R. SCHNEPF (edd.), Baruch de Spinoza. Ethik in geo-
metrischer Ordnung dargestellt, Akademie Verlag, Berlin 2006, 17-35.
43 «6. Per Deum intelligo ens absolute infinitum, hoc est, substantiam constan-
tem infinitis attributis, quorum unumquodque aeternam, et infinitam essentiam expri-
mit» (Eld6).
L'Etica di Spinoza 105

spiegazione la differenza tra ciò che è assolutamente infinito (la sostan­


za stessa) e ciò che è infinito nel suo genere (ciascun attributo della so­
stanza); e tuttavia, secondo quanto detto in Eld2, ciascun genere com­
prende tutte le delimitazioni che sono al suo interno senza essere deli­
mitato da alcun altro genere44. Se ciò non fosse, vorrebbe dire che un
attributo essendo delimitato da un altro sarebbe da concepire relativa­
mente a esso, contraddicendo così la definizione stessa della sostanza
di cui pretende di essere attributo (cf. ElplOs).
Spesso i commentatori a questo punto si premurano di precisare
che il termine Dio è usato da Spinoza soltanto per venire incontro al­
l’uso linguistico tradizionale, ma che si tratta di un termine da deco­
struire interamente rispetto al suo complesso semantico originario e
che, in verità, andrebbe sostituito con sostanza o meglio natura, secon­
do la celebre formula spinoziana: Dio ossia la natura (Deus sive natu­
ra). A tal proposito mi sembra interessante, anzitutto, notare che que­
sta formula è un hapax negli scritti di Spinoza, e per di più cade per
inciso in una prefazione, quella alla IV Parte dell 'Etica:
Abbiamo infatti mostrato nell’appendice della I parte che la natura non
agisce in vista di un fine, poiché quell’ente eterno e infinito, che chiamiamo
Dio o natura (seternum namque illud, et infinitum Ens, quod Deum, seu Natu-
ram appellamus), agisce con la medesima necessità con cui esiste. [...] Una so­
la e identica è dunque la ragione, ossia la causa, per cui Dio, ossia la natura
agisce, e per cui esiste (Ratio igitur, seu causa, cur Deus, seu Natura agit, et cur
existit, una, eademque est).

Purtroppo, l’espressione Deus sive natura viene solitamente de­


contestualizzata e riportata quasi fosse formulata da Spinoza come un
assioma o una proposizione basilare accuratamente dimostrata e po­
sta al centro del sistema filosofico dell’Etica, e non come inciso in una
prefazione. Inoltre, tale espressione viene spesso intesa come se Spi­
noza abbia voluto affermare che Dio è in definitiva da ridurre a qual­
cosa di naturale; mentre il testo pone una sinonimia tra due termini,
Dio e Natura, i quali hanno lo stesso significato in quanto designano
una medesima realtà, cioè «l’ente eterno e infinito». Una tale sinoni­
mia non è del tutto inedita, già Descartes nella Meditazione VI scriveva:

44 Ad esempio, se tra gli infiniti attributi di Dio consideriamo l’attributo esteso,


dire che è infinito nel suo genere, significa che non esiste nulla di esteso che non appar­
tenga ad esso. E tuttavia se - secondo l’esempio stesso fornito da Spinoza in E ld 2 - è
vero che nessun corpo è delimitato da un pensiero, a maggior ragione l’attributo infinito
dell’estensione non è delimitato dall’attributo infinito del pensiero; e viceversa.
106 Sistemi filosofici moderni

«per natura in generale non intendo nuli’altro che Dio stesso, o la


coordinazione che Dio ha stabilito tra le cose create»45.
Dalla formula Deus sive natura si è soliti invece tirare conseguen­
ze assai notevoli, quali la totale riduzione di Dio al naturale, altrimenti
detta panteismo46, a cui soggiacerebbe l’intento di Spinoza di afferma­
re - più o meno larvatamente - una posizione radicalmente atea47. Il
punto è che coloro che sostengono che in fondo Spinoza abbia voluto
naturalizzare Dio e che pertanto il termine Dio sia del tutto convenzio­
nale e quindi sopprimibile, dimenticano però che la natura, intesa co­
me «l’universo stesso con le sue leggi necessarie»48, non è né qualcosa
di infinito né di eterno, a meno che non si voglia attribuire ai termini
natura e universo un significato altro rispetto al loro uso corrente49. Io
temo, infatti, che quando taluni dicono che per Spinoza Dio non è al­
tro che natura, intendano un concetto finito di natura, perché altri­
menti, se intendessero un concetto pienamente infinito ed eterno, una
tale natura non avrebbe più nulla a che fare con ciò che ordinariamen­
te intendiamo con essa, e l’eversività della posizione spinoziana ver­
rebbe meno. Ma come risulta chiaramente dal passo di E4praef citato,
Spinoza intende per natura proprio un «ente infinito ed eterno», e non
l’universo inteso come l’insieme di ciò che da noi è esperibile o mate­
rialmente misurabile, che è al contrario qualcosa di finito e contingen­

45 «per naturam enim, generaliter spectata, nihil nunc aliud quam vel Deum,
ipsum, vel rerum creatarum coordinationem a Deo institutam intelligo» (AT VII: 80
[OB I: 787]).
46 II termine stesso panteismo è ignoto a Spinoza, in quanto è stato coniato nel
1709 da J. de la Faye in uno scritto polemico contro J. Toland, il quale in Socinianism
truly stated (1705) aveva professato di appartenere ai panteisti.
47 Comunque lo si voglia interpretare, rimane il fatto che, durante la sua vita,
Spinoza si sia difeso più volte dall’accusa di ateismo, respingendola (es. Ep 43 in G IV:
219-226 [OS: 2049-2057]); cf. R. CAILLOS, Spinoza et l’atkéisme, in E. GlANCOTTI (ed.),
Spinoza nel 350° anniversario dalla nascita. Atti del Congresso di Urbino, 4-8 ottobre
1982, Bibliopolis, Napoli 1985, 3-33; N a dler , Spinozas Ethics, cit., 112-121.
48 «U n’ultima domanda: questo dio è qualcosa di diverso dall’universo stesso
con le sue leggi necessarie? Se - come io credo - non lo è, appare più chiaro farne cadere
anche il termine, non corrispondendovi più il concetto» (E. GlANCOTTI, Il Dio di Spinoza,
in Id. (ed.), Spinoza nel 350° anniversario dalla nascita, cit., 50); subito prima la studiosa
aveva affermato che il Dio di Spinoza si identifica con le «infinite forme finite riscontrabi­
li nell’universo infinito», il che equivale a dire che esso è null’altro che la somma infinta
delle cose finite esperibili. Dubito che Spinoza avrebbe accettato una tale posizione.
49 Giustamente S. Nadler usa Nature per intendere il concetto spinoziano, sino­
nimo di «sostanza eterna e infinita», mentre nature per intendere il concetto ordinario
di «insieme dei fatti e processi empiricamente osservabili», cf. N adler , Spinozas Ethics,
cit., 52. 81-83.
L'Etica di Spinoza 107

te. Vale la pena infine notare che ciò che quel passo di E4praef vuole
sottolineare non è tanto l’identità tra Dio e natura, quanto piuttosto
l’identità tra la necessità per la quale Dio è ciò che è (la sua natura) e la
necessità per la quale Dio agisce (è causa)', il che non significa che la
causa venga a identificarsi con i propri effetti.
L’ultimo blocco di definizioni è costituito dalle due rimanenti
Eld7-8:
7. Sarà detta libera quella cosa che esiste per la sola necessità della sua
natura e che da sé sola si determina ad agire; necessaria invece, o meglio co­
stretta, quella che è determinata da altro a esistere e ad operare per una certa e
determinata ragione.
8. Per eternità intendo l’esistenza stessa, in quanto si concepisce neces­
sariamente derivante dalla sola definizione di cosa eterna50.

Spinoza non dà la definizione di che cos’è la libertà, bensì di li­


bero, di fronte al suo opposto, costretto, intesi come aggettivi che qua­
lificano una certa cosa (res libera vs res coacta). La qualificazione libero
viene anzitutto attribuita a ciò che in E ld l si intende per causa sui,
cioè un qualcosa la cui essenza o natura implica l’esistenza, e subito
dopo tale qualifica è estesa - per la prima volta in queste definizioni -
all’agire, ossia alla capacità di causare. Dal che si capisce che l’essere
libero riguarda l’agire conforme all’essere causa di sé, secondo quanto
Spinoza preciserà nell’Appendice alla I Parte - lo abbiamo appena let­
to citando E4Praef - Dio è libero non in quanto può fare quello che
vuole, bensì in quanto in esso la causa necessaria dell’essere e dell’agi-
re coincidono, ovvero «agisce con la medesima necessità con cui esi­
ste». Da ciò possiamo cogliere uno dei capisaldi teoretici più decisivi
e, al contempo, paradossali dell 'Etica: l’indissociabilità di libertà e ne­
cessità51. In secondo luogo, la definizione di necessario o - meglio - di
co-atto, nel senso letterale di ciò la cui azione non dipende solo da sé, è
attribuita a ciò che è l’opposto della causa sui, ovvero alla cosa finita,
in quanto essa implica la possibilità di essere delimitata da un’altra cosa

50 «7. Ea res libera dicetur quae ex sola suae naturai necessitate existit et a se so­
la ad agendum determinatur. Necessaria autem, vel potius coacta, quae ab alio determi-
natur ad existendum et operandum certa ac determinata ratione. 8. Per aeternitatem in-
telligo ipsam existentiam, quatenus ex sola rei aeternae definitione necessario sequi con-
cipitur» (Eld7-8).
51 A Georg H. Schuller, ottobre 1674: «Vedi dunque che io pongo la libertà non
in un libero decreto ma in una libera necessità (libera necessitate)» (Ep. 58 in G IV: 265
[OS: 2111]).
108 Sistemi filosofici moderni

finita, sia quanto alla sua esistenza che quanto al suo agire od operare.
Interessante notare la difficoltà nella quale si trova Spinoza nel defini­
re la cosa libera come necessitata da sé e, allo stesso tempo, il suo op­
posto la cosa necessaria come necessitata da altro. Paradossalmente, è il
libero a essere pienamente necessario, in quanto determinato da sé ov­
vero incondizionato, mentre il necessario non è propriamente necessa­
rio, in quanto è determinato da altro ovvero è condizionato.
L’ultima definizione, quella di eternità, risulta di primo acchito
alquanto enigmatica, in quanto identifica l’eternità con l’esistenza ne­
cessariamente derivante dall’essenza stessa di cosa eterna (rei seternse),
dando così l’impressione di un circolo vizioso. Non è un caso che l’au­
tore abbia avvertito il bisogno di aggiungere una spiegazione, nella
quale precisa che «l’esistenza si concepisce in quanto verità eterna»
(Eld8e). Ora, una verità eterna è quella che si deduce dall’essenza
stessa della cosa (es. in base alla natura stessa del triangolo è eterna­
mente vero che la somma dei suoi angoli interni è uguale a due angoli
retti)52, pertanto eterno equivale a «derivante dalla sola definizione
dell’essenza» e, conseguentemente, eternità, in quanto qualifica una
esistenza eterna, equivale a «esistenza derivante dalla sola definizione
di una certa essenza». Ebbene, l’esistenza che deriva dalla sola defini­
zione dell’essenza di un qualcosa è causa sui (Eldl). Con ciò Spinoza
traccia un’equivalenza tra eternità, esistenza necessaria, e causa sui; nel
senso che ciò che è causa di sé, ovvero la cui esistenza segue necessa­
riamente dalla propria essenza, è eterno53.
In Eld8e Spinoza nomina anche la durata e il tempo, per esclude­
re che l’eternità possa essere considerata come una durata estesa in mo­
do indefinito e anche che possa essere in qualche modo compresa in
modo temporale, col che potrebbe darsi un prima e un poi in cui risulti
non esistente. La durata, infatti, è propriamente l’esistenza di ciò la cui
definizione dipende da altro, cioè dei modi54; mentre il tempo è la

52 Cf. E lp l7 s .
53 «in quanto concepisce che esso stesso esprime l’infinità e la necessità dell’esi­
stenza, ossia (E ld 8) l’eternità» (Elp23dem); «L’eternità è l’essenza stessa di Dio, in
quanto essa implica l’esistenza necessaria (E ld8)» (E5p30dem).
54 All’inizio della II Parte Spinoza ne dà la definizione: «La durata è continua­
zione indefinita dell’esistere» (E2d5); e spiega: «Dico indefinita, poiché non può in al­
cun modo essere determinata dalla natura stessa della cosa esistente» (E2d5e). Infatti, la
continuazione o meno dell’esistenza è sempre determinata da altre cause attualmente
esistenti (es. per l’uomo l’aria pone continuità alla sua esistenza, mentre l’acqua la toglie;
per un pesce vale il contrario).
L'Etica di Spinoza 109

maniera con cui la mente si rappresenta l’esistenza dei modi nél'imma­


ginazione. Perciò, più avanti, Spinoza giungerà a sostenere che è nella
natura della ragione - che vedremo essere un grado di conoscenza supe­
riore all’immaginazione - percepire le cose «sotto una certa specie di
eternità {sub quadam seternitatis specie)» (E2p44c2); mentre l’intelletto -
grado di conoscenza superiore alla ragione - intuendo immediatamente
l’essenza delle cose le coglie nella loro stessa eternità. Quella di eternità
è, pertanto, una nozione strategica nel sistema spinoziano e la sua stretta
relazione con tutte le definizioni precedenti la pone non tanto come ulti­
ma tra di esse, bensì come conclusiva. Se, da un lato, Xeternità designa
l’esistenza necessaria, e in tal senso pienamente libera, della causa sui,
cioè - come vedremo (Elpl9) - di Dio, sostanza infinita; dall’altro lato,
può essere detto eterno tutto ciò che immediatamente deriva dalla ne­
cessità dell’esistenza, come Spinoza cercherà di argomentare alla fine
dell 'Etica, laddove affermerà che noi uomini «sentiamo e sperimentiamo
di essere eterni {sentimus, experimurque, nos seternos esse)» (E5p23s).
Date queste 8 definizioni, Spinoza enuncia 7 assiomi, i quali, in
un certo senso, mettono in relazione ciò che nelle definizioni veniva
colto singolarmente: ad esempio, E la l sancisce che tutto ciò che è o è
sostanza o è modo\ Ela3-4 colgono in modo trasversale il rapporto cau­
sale che lega tutte le cose, a livello ontologico e gnoseologico; Ela5 ge­
neralizza quanto detto a proposito del finito, ovvero che c’è determina­
zione reciproca solo tra cose che hanno un qualcosa di comune; Ela7,
come una sorta di negativo di E ld l, assomma tutto ciò che non è in
grado di essere causa sui. Posti tutti questi fondamenti, l’argomentazio­
ne prende avvio; ma, data l’estrema densità e complessità del testo non
è possibile darne una spiegazione puntuale, pertanto mi limiterò d’ora
in avanti a cogliere solo i passaggi maggiormente determinanti.

2. Dio

Le prime quattro proposizioni della I Parte sono analiticamente


ricavate dalle definizioni e assiomi precedenti, e fungono da presuppo­
sti di Elp5, nella quale si giunge a stabilire che «non ci possono essere
due o più sostanze della stessa natura o attributo». Spinoza parte così
dalla pluralità di sostanze che si presenta alla nostra esperienza, per ri­
cercare quale possa essere il criterio che permette di distinguere tali so­
stanze tra di loro. Tale criterio può essere o la loro essenza, cioè l’attri­
buto, oppure le loro proprietà accidentali, cioè le affezioni. Il secondo
caso è da escludere perché altrimenti ciò che dipende interamente dalla
110 Sistemi filosofici moderni

sostanza finirebbe per definirla. Ma, se si ammette il primo caso, si am­


mette anche che per ciascun attributo si ha una diversa sostanza. Così
Spinoza dissipa progressivamente la molteplicità delle sostanze, fino a
mostrare che «Oltre Dio non può esserci né essere concepita alcuna so­
stanza» (Elpl4). La dimostrazione della unicità della sostanza Dio - il
cosiddetto monismo spinoziano55 - ha la seguente articolazione: posto
che Dio esiste necessariamente (secondo quanto provato in E lp l l56)
ed è una sostanza che consta di infiniti attributi (secondo quanto defi­
nito in Eld6), se un’altra sostanza oltre Dio esistesse, essa sarebbe in­
telligibile mediante un qualche attributo, il quale dovrebbe appartenere
anche a Dio, dal momento che a esso non manca alcun attributo, ma
così esisterebbero due sostanze che possiedono uno stesso attributo, il
che è impossibile (secondo quanto dimostrato in Elp5). Da ciò Spino­
za trae due importantissimi corollari, il primo dei quali è il seguente:
Ne deriva con la massima chiarezza, in primo luogo, che Dio è unico,
cioè (E ld 6 ) che in natura non si dà se non una sola sostanza, e che essa è asso­
lutamente infinita, come già abbiamo indicato in ElplOs (E lp l4 c l).

Questo corollario ci dice in fondo che solo l’infinito ha diritto di


essere sostanza, mentre le cose finite sono costitutivamente non in gra­
do di attestarsi a tale livello ontologico e quindi, se sono, possono es­
sere solo un modo della sostanza (cf. Elp25c). Per essere più precisi,
ciò significa che solo l’infinito è in grado di corrispondere alla defini­
zione di sostanza data da Spinoza, o altrimenti che l’assolutezza pertie-
ne a Dio, in quanto solo Dio è sostanza assolutamente infinita57. Ciò
non significa affatto che solo Dio è mentre tutto il resto no. Significa
semmai che - come già sosteneva Platone58 - esistono due modalità
diverse di essere: in sé (in se) e in altro da sé (in alio); come immedia­

55 Cf. J. BENNETT, A Study of Spinozas Ethics, Hackett, Indianapolis 1984, 70-75;


E. CURLEY, On Bennett’s interpretation of Spinoza's monism, in Y o vel (ed.), God and Na­
ture, cit., 35-51; M.A. SCHMIDT, Substance monism and identity theory in Spinoza, in Koi-
STINEN (ed.), The Cambridge Companion to Spinozas Ethics, cit., 79-87; sulle radici stoiche
di tale monismo, cf. J. MlLLER, Spinoza and thè Stoics on substance monism, ivi, 99-117.
56 La dimostrazione dell’esistenza di Dio nelYEtica va nella linea del cosiddetto
argomento ontologico o a priori di Descartes, supra, 64-68; cf. E. SCRIBANO, Da Descar­
tes a Spinoza. Percorsi della teologia razionale nel Seicento, Franco Angeli, Milano 1988.
57 Su una tale tautologia, cf. MACHEREY, Introduction à /'Éthique, cit., I, 118-121.
58 «delle cose che sono alcune si dicono in sé e rispetto a se stesse (xóòv ovtcdv
x à jièv aù xà x a 0 'a i)ià ), altre sempre in relazione ad altro (xà òè JiQÒg oXka àei
XéyeaGai)» {Soph., 255c [trad. it., PLATONE, Sofista, a cura di F. FRONTEROTTA, Rizzoli,
Milano 2007, 429); cf. anche Parm., 133c; Phil., 53d.
L'Etica di Spinoza 111

tamente sancisce la proposizione seguente: «Tutto ciò che è, è in Dio,


e nulla può essere né essere concepito senza Dio» (Elpl5). Ma come
dobbiamo intendere esattamente questo essere in Dio?
La faccenda, già in se stessa piuttosto complessa59, è resa ancora
più complicata dal fatto che il filosofo poco più avanti afferma una tesi
che è stata spesso invocata come punto di riferimento per comprende­
re il senso di tale essere in Dio, ovverosia «Dio è causa immanente,
non transitiva, di tutte le cose (Deus est omnium rerum causa imma-
nens; non vero transiens)» (Elpl8). Questa proposizione è comune­
mente considerata Pesplicita dichiarazione del, cosiddetto, immanenti­
smo spinoziano, equivalente alla negazione di ogni trascendenza. No­
tato che in tutta YEtica il termine immanens ricorre solo qui, quale è il
suo significato? Anzitutto causa immanente, dice Spinoza, significa che
tale causa è non transitiva. Il termine transitivo può essere inteso in al­
meno due sensi: (a) che passa, è passeggero ovvero non permane; (b)
che ha il termine del proprio agire in qualcosa di altro da sé. Se accet­
tiamo (a), E lp l8 significherebbe che Dio è causa permanente e non
passeggera, il che andrebbe nella linea della dottrina classica della
creatio continua, ovvero che per poter essere causa dell’essere di un
ente non basta dare avvio a tale esistenza, ma è indispensabile sosten­
tarla continuamente, cioè in ogni istante60. In tal senso E lp l8 signifi­
cherebbe che Dio è causa continua, non occasionale, dell’essere di tut­
to ciò che esiste61. Accettando invece (b), E lp l8 verrebbe ad afferma­
re che tutto ciò che dipende da Dio non è da esso causato come qual­
cosa di altro da sé, bensì come se stesso. Ciò significa che, in linea con
quanto Spinoza dirà più avanti: «Le cose particolari null’altro sono se
non affezioni degli attributi di Dio, ossia modi in cui gli attributi di
Dio si esprimono in una certa e determinata maniera» (Elp25c). Altri­
menti detto, tutte le cose sono Dio62.

59 «in thè Ethics it is stili exasperatingly unclear what Spinoza means by saying
that “whatever is, is in G od.” What can it mean to say that something is in God? There
are many ways in which something can be in something else: it can be thè way in which
parts are in thè whole that they compose, or thè way in which an object is in a container
that holds it (which is akin to thè way in which Newton, for example, conceived of
things to be in absolute space), or thè way in which properties or qualities belong to a
subject (such as wisdom is in Socrates or hardness is in thè rock)» (N a d ler , Spinoza s
Ethics, cit., 74).
60 Una dottrina già evocata da Descartes, supra, 52-53.
61 Tale interpretazione è stata recentemente sostenuta es. da MACHEREY, Intro-
duction à /'Éthique, cit., I, 148-149; NADLER, Spinoza s Ethics, cit., 79-80.
62 Q uesta è l’interpretazione “classica” , proposta es. da GUEROULT, Spinoza. I.
112 Sistemi filosofici moderni

Tuttavia, quest’ultima affermazione, benché accettata da molti


interpreti, non è priva di problemi. Perché un conto è dire che tutte le
cose sono modi degli attributi della sostanza, un conto è dire che la so­
stanza è i suoi stessi modi, dal che non si capisce più quale differenza
intercorra tra sostanza e modi, ovvero tra la sostanza e ciò che da essa
segue, cioè tra la causa e i suoi effetti. La sostanza, infatti, è per defini­
zione infinita e le cose particolari sono per definizione finite; ebbene
finito e infinito non si possono identificare, e Spinoza stesso su questo
punto è categorico: «Hoc scio, inter finitum, et infinitum nullam esse
proportionem»63. Ossia, l’infinito è infinitamente differente dal finito.
E tuttavia, se l’infinito è ciò che non ammette nulla all’infuori di sé, è
chiaro che è inammissibile ogni azione causale diretta verso qualcosa
di altro rispetto a tale infinito, come sarebbe l’azione causale di una
sostanza verso un’altra sostanza. Ergo, gli effetti non possono che esse­
re nella sostanza stessa. Il che è, daccapo, un’altra maniera di dire che
tutte le cose sono in Dio.
Per evitare i problemi appena posti, questo in non può essere in­
teso come «dentro», nel senso che Dio sarebbe un contenitore infinito
all’interno del quale cadono tutte le cose, né come parti che costituisco­
no un tutto, perché tali parti, cioè le cose (es. microbi, insetti, alberi,
pianeti, stelle ecc.), mutando continuamente, generandosi e corrom­
pendosi, muterebbero il tutto di cui sono parti (cf. Elpl2-13). Nem­
meno, però, quel in può essere inteso nel senso di «inerenza», come se
tutte le cose fossero proprietà che qualificano quel sostrato che è Dio,
perché, data la varietà delle cose, apparterrebbero a Dio predicati tra
loro contrari; inoltre risulta veramente inconcepibile che le cose parti­
colari siano ridotte al rango di mere qualità o stati di una sostanza64.

Dieu, cit., 295-296, il quale cita a supporto un passo della lettera A Henry Oldenburg,
novembre 1675: «Io, infatti, sostengo che Dio, come si dice, è causa immanente di tutte
le cose, e non transitiva: con Paolo - e forse anche con tutti gli antichi filosofi, benché in
altro modo, e oserei dire anche in accordo con tutti gli Ebrei, per quanto sia lecito con­
getturare da alcune tradizioni, sia pure adulterate in molte maniere - affermo che tutte
le cose sono in Dio e si muovono in Dio» (Ep. 73 in G IV: 307 [OS: 2177]); il riferimen­
to neotestamentario è a un passaggio del discorso di san Paolo all’Areopago: «In lui in­
fatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (Atti 17,28).
63 A Hugo Boxel, ottobre 1674: «Io so questo: tra il finito e l’infinito non v’è al­
cuna proporzione, quindi la differenza che c’è tra Dio e la creatura massima e più eccel­
lente, non è diversa dalla differenza che c’è tra Dio e la creatura più bassa» (Ep. 54 in G
IV: 253 [OS: 2091]).
64 Classiche le critiche di Bayle all’inerenza dei m odi alla sostanza, cf. P. BAYLE,
Spinoza, in Id., Dizionario storico-critico, a cura di G. CANTELMI, Laterza, Roma-Bari
1976, 355-459.
L'Etica di Spinoza 113

Lunica soluzione sembra essere quella d’intendere quel in come rela­


zione di «dipendenza», nel senso che Dio è la causa unica, necessaria e
permanente dell 'essere delle cose65. Secondo quanto Spinoza precisa
più avanti:
Da qui deriva che Dio non è soltanto la causa per cui le cose comincia­
no ad esistere; ma anche, la causa per cui permangono nell’esistere, ovvero
(per usare un termine scolastico) Dio è causa dell’essere delle cose (Elp24c)66.

Dal che - a mio giudizio - il senso più corretto della tanto di­
scussa immanenza spinoziana ce lo offre il filosofo stesso quando dice:
«nel senso in cui Dio si dice causa di sé, va detto anche causa di tutte
le cose» (Elp25s), ora il senso in cui Dio è causa sui, è quello per cui
l’essenza implica (involvit) l’esistenza, ovvero c’è tra di esse una rela­
zione necessaria; ergo, il senso in cui Dio è causa omnium rerum deve
essere quello per cui Dio implica (involvit) l’essenza e l’esistenza delle
cose, cioè è causa necessaria di esse: «data la natura divina, se ne devo­
no necessariamente dedurre l’essenza e l’esistenza delle cose»
(Elp25s). Il fatto che Spinoza ci tenga a distinguere questi due aspetti
è confermato da un notissimo scolio, ove egli precisa che:
per natura naturante [Natura naturami dobbiamo intendere ciò che è
in sé e per sé si concepisce, ossia quegli attributi della sostanza che esprimono
un’essenza eterna ed infinita, cioè (E lp l4 c e Elpl7c2) Dio in quanto conside­
rato come causa libera. Per naturata [Natura naturata0 intendo invece tutto ciò
che deriva dalla necessità della natura di Dio o di ciascuno dei suoi attributi,
cioè tutti i modi degli attributi di Dio, in quanto considerati come cose che so­
no in Dio e che senza Dio non possono essere né concepirsi (Elp29s)67.

I termini naturante e naturata posti a specificazione di natura in­


dicano rispettivamente il lato puramente attivo e quello passivo di essa.
Spinoza qui afferma chiaramente che Dio non va identificato sempli­
cemente con la natura, bensì solo con la natura naturans (letteralmente
natura causante), ovvero solo con ciò che risponde pienamente e asso­
lutamente alla causalità attiva, autopositiva cioè libera. Tutto ciò che

65 Cf. R. SCHNEPF, Die eine Substanz und die endlichen Dirige (lp 16-28), in
H ampe -S ch n epf (edd.), Baruch de Spinoza. Ethik, cit., 37-57; N a d ler , Spinoza s Ethics,
cit., 73-80.
66 «H ic sequitur, Deum non tantum esse causam, ut res incipiant existere; sed
etiam, ut in existendo perseverent, sive (ut termino Scholastico utar) Deum esse causam
essendi rerum» (Elp24c [trad. modificata]).
67 Trad. modificata.
114 Sistemi filosofici moderni

invece è natura naturata (letteralmente natura causata), in quanto cau­


sato non è immediatamente identificabile con Dio stesso; sebbene nul­
la di ciò che è si possa dire in alcun modo indipendente da Dio, ovve­
ro la sua realtà di causato è di essere in tutto e per tutto dipendente da
Dio68. Che queste due dimensioni non siano immaginabili come i due
lati di una stessa medaglia, cioè Dio visto nel suo lato attivo e nel suo
lato passivo, risulta evidente dal fatto che l’essenza di Dio è di essere
solo causante e in nulla causato, ovvero che Dio è proprio quell’ente
che è solo causa.
Là dove Spinoza rivela il punto cruciale e radicalmente innovati­
vo del suo sistema filosofico, non sta tanto nel concepire Dio come
un’immensa sostanza a cui tutte le cose ineriscono come sue modifica­
zioni - sarebbe questo il cosiddetto immanentismo spinoziano, poi
travisato in una sorta di panteismo o di naturalismo a seconda dei
punti di vista - bensì, come lui stesso non si stanca di ripetere69, nel
fatto che la necessità con la quale Dio è causa di sé è identica alla ne­
cessità con la quale Dio è causa di tutte le cose. A partire dalla proposi­
zione 29 fino alla fine della I Parte, Spinoza sviluppa la sua teoria della
necessità70, che trova il suo momento centrale in Elp33. Anzitutto:
«Nella natura delle cose non sì dà nulla di contingente, ma tutte le co­
se sono determinate dalla necessità della natura divina a esistere e ad
operare in un certo modo» (Elp29). Dal momento che tutto ciò che è

68 «According to thè purely causai interpretation of G od’s relationship to


things, God is to be identified not with all of Nature, but solely with Natura naturans.
God is only substance and its attributes. Everything that follows from or is caused by -
or, to use thè passive participle employed by Spinoza, natured by - substance (that is,
absolutely everything else) belongs to Natura naturata, and is thus distinct from (albeit
dependent upon) G od» (N a d ler , Spinozas Ethics, cit., 82). Stranamente poi lo stesso
Nadler aggiunge che, nonostante l’interpretazione causale sia più netta e sofisticata, tut­
tavia «there is certain advantage» {ivi, 83) nell’interpretare Dio come l’universo, ovvero
come l’insieme che include tutte le cose. Al contrario, io ritengo che ci sia un grande
svantaggio nell’abbandonare l’astrattezza del pensiero causale, per adagiarsi nella visio­
ne immaginativa del rapporto inclusivo tra Dio e cose determinate. Ad esempio, l’imma­
gine - usata a scopo pedagogico da qualche commentatore - della sostanza come un
oceano che si modifica nelle sue increspature pur rimanendo sempre se stessa, è tanto
allettante quanto fuorviarne.
69 Cf. «Prego soltanto, ed insisto nel pregare il lettore perché soppesi una volta
di più e un’altra ancora quanto è stato detto a questo proposito nella prima parte» e cioè
che «Dio agisce con la stessa necessità con la quale intende se stesso» (E2p3s).
70 Per un prim o approccio, cf. N a d le r , Spinoza''s Ethics, cit., 84-121; per ap­
profondire, cf. D. P e r le r , Das Problem des Nezessitarismus (lp28-36), in Hampe-Sch-
NEPF (edd.), Baruch de Spinoza. Ethik, cit., 59-80; C. JARRET, Spinoza on necessity, in
KOISTINEN (ed.), The Cambridge Companion to Spinozas Ethics, cit., 118-139.
L'Etica di Spinoza 115

è in Dio, ovvero da lui dipende, e che Dio stesso non è contingente,


ergo nulla è contingente, ma ogni cosa, sia dal punto di vista della sua
esistenza che del suo agire causale, è necessaria. Ciò vale non solo per
ciò che da Dio segue e dipende, ma anche per Dio stesso.
Nella proposizione 31, Spinoza prepara il terreno dell’afferma­
zione più rivoluzionaria ed eterodossa del suo sistema, laddove dimo­
stra che «L’intelletto in atto, che sia finito o infinito, così come la vo­
lontà, il desiderio, l’amore ecc., si devono riferire alla natura naturata,
non alla naturante» (Elp31). Tutte le facoltà che si è soliti attribuire
per qualificare qualcosa come personale, ovvero capacità d’intendere e
di volere, e con ciò desiderare e amare, sono modi che seguono gli at­
tributi della natura divina e, dunque, sono causati e non causanti. In
altri termini, in Dio l’intelletto e la volontà sono del tutto subordinati
alla sua natura e non in grado di predeterminarne l’agire. Il che esclu­
de nel modo più categorico che possa esistere un Dio personale che
intenda e voglia creare le sue creature e poi desideri amarle, prenden­
dosi cura provvidenzialmente della loro esistenza. E sotto questo
aspetto che Spinoza intende prendere le distanze dalla concezione di
Dio della tradizione giudaica e cristiana. Anzi, è sua profonda convin­
zione che è solo liberandosi definitivamente del pregiudizio antropo-
morfizzante di un Dio personale, creatore, provvidente e - meno che
mai - incarnato71, che l’uomo potrà finalmente trovare la quiete del
suo animo.
Nelle prime righe dell’Appendice alla I parte, Spinoza raccoglie
in sintesi i risultati finora ottenuti, offrendoci un perfetto abstract del
De Deo:
Con quanto ora ho detto ho spiegato la natura di Dio e le sue proprietà,
ossia: che esiste necessariamente; che è unico; che è ed agisce per la sola neces­
sità della sua natura; che è causa libera di tutte le cose, e come lo è; che tutte le

71 A Henry Oldenburg, 24 novembre /4 dicembre 1675: «per la salvezza non è


assolutamente necessario conoscere Cristo secondo la carne, ma si deve pensare ben al­
tro di quell’eterno figlio di Dio, cioè dell’eterna sapienza di Dio che si è manifestata in
tutte le cose e massimamente nella mente umana e più ancora di tutto in Gesù Cristo
(iomnium maxime in Christo Jesu manifestavit). Infatti, nessuno senza questa, può perve­
nire alla beatitudine, giacché essa sola insegna cosa sia il vero e cosa il falso, cosa il bene
e cosa il male. [...] Per il resto, ho espressamente ricordato che io non so cosa significhi
ciò che certe Chiese aggiungono, ossia che Dio assunse natura umana; anzi, a dire il ve­
ro, non mi sembra meno assurdo che se qualcuno mi dicesse che il cerchio ha assunto la
natura del quadrato» (Ep. 23 in G IV: 308-309 [OS: 2177-2179]); cf. X. TlLLIETTE, Filo­
sofi davanti a Cristo, Morcelliana, Brescia 19912, 51-65.
116 Sistemi filosofici moderni

cose sono in Dio e da lui dipendono così da non poter essere né essere conce­
pite senza di lui; e infine che tutte le cose sono state predeterminate da Dio,
ma non da libera volontà, ovvero assoluto arbitrio, bensì dall’assoluta natura
di Dio, ossia dalla sua infinita potenza (Elap).

È soprattutto Fultimo punto quello che spinge ora l’autore a di­


lungarsi polemicamente contro il pregiudizio padre di tutti i pregiudi­
zi, quello finalistico. Da esso, infatti, deriverebbero «i pregiudizi sul
bene e il male, il merito e la colpa, la lode e il biasimo, Fordine e la con­
fusione>, la bellezza e la bruttezza, e su simili altre cose» (Elap), ovvero,
in una parola, i valori chiave dell’etica tradizionale. L’origine di tutti i
problemi sta nel fatto che gli uomini «nascono ignari delle cause delle
cose» (non è un caso che tutto il sistema filosofico delYEtica sia conce­
pito per condurre il lettore a conquistare una visione causale, cioè ra­
zionale, delle cose e di sé stesso), mentre sono ben consapevoli del­
l’impulso che li spinge «alla ricerca del proprio utile»72.
Il fatto di vedere tutto nella prospettiva dell 'utile porta l’uomo
anzitutto a ritenersi libero, cioè indipendente da cause, e inoltre a pre­
supporre che ogni cosa avvenga in funzione di un fine. Siccome poi
molte cose utili alla vita non sono state predisposte dagli uomini, sorge
spontaneamente la convinzione che ci sia una qualche intelligenza che
le abbia ordinate a loro vantaggio. Così, il pregiudizio si trasforma in
superstizione, generando il culto per ingraziarsi il volere degli dei73.
Spinoza è lapidario sull’infondatezza di tale pregiudizio, adducendo la
motivazione che l’introduzione di una finalità in Dio sovverte la sua
natura e lo rende imperfetto: «infatti se Dio agisce per un fine, di ne­
cessità vuole qualcosa che gli manca». In fondo, conclude il filosofo, il
pregiudizio finalistico è il rifugio degli ignoranti, i quali, quando non
sanno spiegarsi un evento, invece di ricercarne le cause o di ammettere
semplicemente che non sanno il perché, si illudono di darne ragione
affermando: è volontà di Dio! Qui appare abbastanza chiaramente co­
me l’intento di Spinoza non sia quello di cancellare Dio, quanto piut­
tosto quello di “purificare” la nostra concezione di Dio, portandoci
dalla visione immaginativa alla conoscenza intellettuale.

72 Su questo aspetto Spinoza si sofferma nelle prime pagine, autobiografiche,


del Trattato sull’emendazione dell’intelletto, cf. MOREAU, L’expérience et l’éternité, cit.,
105-168.
73 Spinoza aggiunge qui una notazione importantissima, ovvero che la falsità del
pregiudizio finalistico è stata svelata anzitutto grazie alla matematica, «che non si occupa
dei fini ma soltanto delle essenze e proprietà delle figure» (Elap); per approfondire que­
sto punto, cf. F. B arbaras , Spinoza. La science mathématique du salut, Cnrs, Paris 2007.
L'Etica di Spinoza 117

In base al pregiudizio finalistico, poi, gli uomini hanno formato


le idee di bene, male, ordine, confusione ecc., e «hanno chiamato bene
tutto ciò che conduce alla salvezza e al culto di Dio, e male ciò che vi è
contrario». Inoltre, confondendo la conoscenza che deriva dall’imma­
ginazione con quella intellettiva, hanno generato l’idea che esista un or­
dine nella natura: «Quando infatti le cose siano disposte in tal maniera
che ci è facile immaginarle così come ci vengono rappresentate attra­
verso i sensi, e di conseguenza ricordarle, diciamo che sono bene ordi­
nate». Confondere l’immaginazione con l’intelletto corrisponde in fon­
do a scambiare un punto di vista soggettivo (le impressioni dell’imma­
ginazione) con quello oggettivo (le cose reali). E non è un caso - nota
Spinoza per inciso - che a causa di tale confusione gli uomini si siano
impantanati in così tante controversie, fino a cadere nello scetticismo.

3. ha mente umana

Dopo aver spiegato la natura di Dio e le sue proprietà, Spinoza


passa a «spiegare quelle cose che necessariamente sono dovute deriva­
re dall’essenza di Dio» (E2praef), non tutte, dal momento che sono in­
finite, bensì soltanto quelle che ci permettono la «conoscenza della
mente umana». La II Parte, dedicata alla Natura e origine della mente,
ha pertanto questa struttura: dopo aver offerto 7 definizioni e 5 assio­
mi, vengono dimostrate 13 proposizioni, al termine delle quali è posto
un excursus (articolato in 7 lemmi, intervallati da 5 assiomi e 6 postu­
lati0; seguono poi altre 36 proposizioni (per un totale di 49). I due temi
annunciati nel titolo sono inversamente trattati, dandoci la seguente
bipartizione contenutistica dell’insieme: prima Yorigine della mente
(E2pl-9), poi la natura della mente (E2p 10-47), ove è inserito l’excur­
sus dedicato alla fisica dei corpi in generale e in particolare di quello
umano; le due ultime proposizioni (E2p48-49) costituiscono una sorta
di appendice polemica, contro il pregiudizio concernente la volontà,
che si dilunga particolarmente nell’ultimo scolio.
Nella spiegazione della I Parte, ci eravamo soffermati sul primo
dei due importanti corollari della proposizione 14, quello riguardante
l’unicità di Dio, adesso possiamo riprendere anche l’altro:
Ne deriva, in secondo luogo, che la realtà estesa [res extensa] e la realtà
pensante \res cogitans] sono o attributi di Dio, o (E l a l ) affezioni degli attribu­
ti di Dio (Elpl4c2).

Le prime due proposizioni della II parte riprendono il discorso


118 Sistemi filosofici moderni

esattamente da questo punto, dimostrando che estensione e pensiero


non sono modificazioni e dunque affezioni che seguono la natura di
Dio (natura naturata), bensì attributi che gli appartengono essenzial­
mente (natura naturans). Ergo, Dio è simultaneamente esteso e pen­
sante74. Perché solo questi due? Perché sono questi gli unici attributi
le cui affezioni noi esseri umani siamo in grado di conoscere. Nelle
proposizioni seguenti (E2p3-4) Spinoza si premura di precisare che
Dio è ciò che, in virtù del suo essere pensante, possiede un’idea unica
e infinita di tutto ciò che esso stesso è, sia quanto alla propria essenza
che quanto a ciò che da questa segue, cioè tutte le cose. In un impor­
tantissimo scolio - in precedenza già menzionato - il filosofo ribadisce,
con una veemenza per lui del tutto inusuale, che in Dio non vi è diffe­
renza tra l’atto di pensare la propria essenza e l’atto di porre in essere
tutte le cose che da essa derivano. In altre parole, Dio non agisce per­
ché ha pensato qualcosa, nemmeno perché ha pensato se stesso, bensì
pensiero e azione sono uno stesso identico atto, una «medesima neces­
sità» (E2p3s). Inoltre, data l’indipendenza degli attributi, immediata­
mente stabilita in Eld2, la causa formale delle idee non è minimamen­
te dipendente dall’esistenza dei corpi, bensì solo da Dio. In altre paro­
le: «i modi di ciascun attributo implicano il concetto del loro attributo
e non di un altro» (E2p6dem).
Da ciò deriva una delle proposizioni più emblematiche delYEtica:
«L’ordine e connessione delle idee è lo stesso che l’ordine e connessio­
ne delle cose (Ordo, et connexio idearum idem est, ac ordo, et connexio
rerum)» (E2p7). Ossia, Dio, essendo un’unica sostanza, si esprime si­
multaneamente in ciascuno dei propri attributi, i quali, singolarmente
presi, esprimono la sua essenza. Perciò tra estensione e pensiero, tra
corpi e idee, non esiste alcun reciproco influsso, bensì sono entrambi
simultanee espressioni di un medesimo; «Per esempio, un cerchio esi­
stente e l’idea, che è anche in Dio, del cerchio esistente, sono un’unica
e medesima cosa, la quale si esplica mediante attributi diversi»
(E2p7s)75. In tal senso, E2p7 non va intesa come se esistessero due or­
dini indipendenti, quello delle idee e quello delle cose, che sottoposti a
verifica mostrano di essere tra loro equivalenti, bensì che l’ordine delle
idee non è altro che l’ordine delle cose, dal momento che entrambi
sono comprensioni distinte di un qualcosa che di per sé è unico, la

74 Sulla difficoltà di concepire D io come in sé dotato di estensione, cf. E lp l5 s ;


SCRIBANO, Guida alla lettura, cit., 27-31.
75 Cf. E2p21s; E3p2s.
L'Etica di Spinoza 119

sostanza. In base a ciò, risulta inesatto l’uso - invalso in molti interpre­


ti sulla scia di Leibniz - del termine “parallelismo” per designare la po­
sizione spinoziana76. Infatti, parallelismo indica di per sé una connes­
sione estrinseca tra due ordini distinti, mentre ciò che Spinoza vuole
dire è al contrario che «sia che concepiamo la natura sotto l’attributo
dell’estensione, sia sotto quello del pensiero, sia sotto qualunque altro,
troveremo lo stesso unico ordine {unum, eudemque ordinem)» (E2p7s).
Posto tale assunto basilare, Spinoza può passare a elaborare la
propria dottrina dell’uomo. Anzitutto, l’uomo non è sostanza (E2pl0),
bensì un «certo e determinato modo» dell’unica sostanza, Dio
(E2pl0c). Con questa tesi Spinoza mette alla base della sua antropolo­
gia - e conseguentemente della sua etica - l’idea che l’uomo non è nul­
la di straordinario rispetto alla natura, ma cade interamente all’interno
delle sue leggi e strutture. Questa idea - effettivamente rivoluzionaria
rispetto a gran parte della tradizione religiosa e filosofica77 - è resa
concepibile proprio grazie al ribaltamento operato dall 'Etica, nel cui si­
stema (ordo philosophandi) non si parte dalla realtà dell’uomo per poi
chiedersi quale possa essere la causa ultima di essa, finendo così per
proiettare inevitabilmente su Dio ciò che l’immediatezza dello sguardo
sull’uomo ha anzitutto scoperto; al contrario, si parte dalla natura divi­
na, poiché essa «è la prima sia in termini di conoscenza che in termini
di natura» (E2pl0cs)78. Non esiste perciò nulla di simile a un’anima
spirituale, immateriale, immortale ecc., ma solo una mente, il cui essere
attuale «non è altro se non l’idea di una certa cosa singola esistente in
atto» (E2pll). Con ciò, la mente umana appartiene in tutto e per tutto
all’intelletto infinito di Dio, ossia è null’altro che una certa modifica­
zione finita nell’attributo del pensiero, e ciò significa che:
quando diciamo che la mente umana percepisce questa o quella cosa,
non diciamo se non che Dio ha questa o quella idea, non perché è infinito, ma
perché si esplica attraverso la natura della mente umana, ossia perché costitui­
sce l’essenza della mente umana; e quando diciamo che Dio ha questa o quell’i­

76 Cf. MACHEREY, Introduction à /'Éthique, cit., II, 78; N adler, Spinoza s Ethics,
cit., 146.
77 Basti pensare ai primi capitoli della Genesi o a uno scritto filosofico come la
Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola.
78 È chiaro che Spinoza ritiene del tutto invalido lo strumento principe della
metafisica e della teologia classica, cioè l’analogia. Sull’ampissimo dibattito sull’analogia
che fino a oggi contrappone medievali e moderni, cf. V. MELCHIORRE, La via analogica,
Vita e Pensiero, Milano 1996; J.F. COURTINE, Inventio analogiae: métaphysique et on-
tothéologie, Vrin, Paris 2005.
120 Sistemi filosofici moderni

dea non tanto perché costituisce la natura della mente umana, ma perché insie­
me con la mente umana ha anche l’idea di un’altra cosa, allora diciamo che la
mente umana percepisce la cosa parzialmente, ossia inadeguatamente (E2pllc).

Spinoza sa di avanzare in questo importantissimo corollario una


tesi tanto paradossale quanto fondamentale per tutto il prosieguo del
suo discorso, al punto che ci prega di procedere passo per passo, altri­
menti corriamo il rischio di non capire accuratamente la sua
posizione79. Dal momento che la mente non è una sostanza, ma una
modificazione nell’attributo del pensiero, quando essa si relaziona a
un oggetto, cioè lo percepisce, non può farlo direttamente e autono­
mamente, ma solo nella misura in cui fa parte dell’intelletto infinito di
Dio, ovvero è una espressione della sua natura. Tuttavia, in quanto è fi­
nita, essa non è espressione immediata di Dio, cioè non ne esprime la
natura infinita (natura naturans), bensì mediata e particolare (natura
naturata). Perché questa argomentazione è così importante? Perché
pone la mente umana a confine tra infinito e finito. Infatti, la mente
non è altro che una modificazione o espressione particolare, cioè limi­
tata, dell’intelletto infinito di Dio e, al contempo, è parte inalienabile
della concatenazione infinita e indivisibile dell’attributo del pensiero.
È, per così dire, un frammento d’infinito.
La mente umana, dunque, è l’idea di una certa cosa singola esi­
stente in atto. Di cosa? Del corpo umano, ossia di «un certo modo del­
l’estensione esistente in atto, e nient’altro» (E2pl3). Spinoza deriva da
questa proposizione un corollario così importante da richiedere un
lungo excursus per poter essere compreso appieno:
Ne deriva che l’uomo è costituito di mente e di corpo {hominem, Men­
te, et Corpore constare), e che il corpo esiste così come lo sentiamo (prout
ipsum sentimus, existere) (E2pl3c).

L’unione di mente e corpo, della quale l’uomo consta, non è una


composizione o comunicazione di due elementi ontologicamente indi-
pendenti, bensì «un solo e medesimo individuo (unum, et idem esse In-
dividuum), che si concepisce ora sotto l’attributo del pensiero, ora sotto
quello dell’estensione» (E2p21s). Spinoza poi adduce come prova del­
l’esistenza del corpo il fatto che noi lo sentiamo, ovvero abbiamo idee
delle sue affezioni. Tutte le affezioni che si producono nel corpo non
possono che simultaneamente prodursi anche nella mente. Ora, come il

79 E 2 {)llc verrà ripreso per ben tredici volte nella II Parte, cf. MACHEREY, In-
troduction à /'Éthique, cit., I, 293; II, 107-113.
L'Etica di Spinoza 121

filosofo chiarisce nell’excursus sulla fisica dei corpi80, ogni corpo non è
che un modo dell’estensione che si costituisce mediante l’azione di altri
corpi, all’interno di una concatenazione infinita. Il corpo umano, in par­
ticolare, è un individuo «composto da moltissimi individui (di diversa
natura), ognuno dei quali è assai composito» (E2postl); e, simultanea­
mente, la mente umana è «composta da moltissime idee» (E2pl5). In
più, la mente umana ha la caratteristica di percepire «non soltanto le af­
fezioni del corpo, ma anche le idee di queste affezioni» (E2p22), in altre
parole, sa di conoscere il corpo. E tuttavia, è solo e soltanto grazie alla
conoscenza del corpo proprio che essa può conoscere «se stessa»
(E2p23) e anche tutti i possibili «corpi esterni» (E2p26).
A partire da ciò, Spinoza avanza la sua teoria della conoscenza81,
che si snoda tra E2p24-47 e trova un momento riassuntivo in E2p40s2,
dove egli pone una scala ascendente di tre generi di conoscenza: 1. im­
maginazione; 2. ragione; 3. scienza intuitiva. Vediamoli in dettaglio. 1.
immaginazione, detta anche opinione, deriva (a) da «esperienza va­
ga», ossia dalla rappresentazione di singole cose che, in modo fram­
mentario e confuso giunge all’intelletto mediante i sensi; oppure (b)
«da segni» mediante i quali liberamente associamo immagini diverse,
come ad esempio le parole, i segnali convenzionali ecc. 2. La ragione si
manifesta nel possesso di «nozioni comuni e idee adeguate delle pro­
prietà delle cose». 3. La scienza intuitiva, detta anche intelletto, è cono­
scenza adeguata dell’essenza delle cose in relazione al loro attributo82.

80 Per una spiegazione dettagliata dell’excursus tra E2pl3-14, cf. M. G u e -


ROULT, Spinoza. II. HÀme (Éthique, II), Aubier-Montaigne, Paris 1974, 143-189; M a -
CHEREY, Introduction à /'Éthique, cit., II, 123-156; per uno sguardo generale, cf. S.
GAUKROGER, Spinozas physics, in HAMPE-SCHNEPF (edd.), Baruch de Spinoza. Ethik, cit.,
123-132; per un confronto con le relative posizioni di Bacon e Descartes, cf. A. G a bbey ,
Spinozas naturai Science and methodology, in GARRETT (ed.), The Cambridge Companion
to Spinoza, cit., 142-191.
81 Cf. M.D. WlLSON, Spinozas theory of knowledge, in GARRETT (ed.), The Cam­
bridge Companion to Spinoza, cit., 89-141.
82 «Spiegherò tutto ciò con un solo esempio: dati tre numeri, se ne voglia otte­
nere un quarto che stia al terzo come il secondo sta al primo [es. 7/14 : 13/x]. I mercanti
non esitano a moltiplicare il secondo per il terzo e a dividere il prodotto per il primo
[14x 13=182-^7=26], poiché o [al non hanno ancora dimenticato le cose imparate dal
maestro senza dimostrazione alcuna, o [£] perché hanno una pratica quotidiana con i
calcoli più semplici; o [c] in forza della dimostrazione della proposizione 19 del settimo
libro di Euclide, ossia della proprietà comune dei numeri proporzionali. Ma [d] nel caso
dei numeri più semplici non occorre nulla di tutto ciò. Dati per esempio i numeri 1, 2 e
3, non c’è chi non veda che il quarto numero proporzionale è 6, e questo tanto più chia­
ramente poiché dallo stesso rapporto che vediamo intuitivamente tra il primo e il secon-
122 Sistemi filosofici moderni

Il criterio che sancisce la differenza e progressione tra questi diversi li­


velli, è la adeguatezza o, all’opposto, inadeguatezza dell’idea83. Tale di­
stinzione dipende in ultima istanza dal posto che una certa idea occupa
all’interno della concatenazione causale84.
Dio ha una conoscenza adeguata di tutte le cose, giacché il loro
infinito ordine ontologico dipende in tutto da Dio stesso. Tuttavia
non solo Dio, ma anche la mente umana nella sua finitezza può avere
una conoscenza adeguata di una cosa, purché ponga l’idea di tale co­
sa in una concatenazione logico-causale (E2p7) parziale ma corretta,
ovverosia non frammentaria o lacunosa, e in ogni caso tale da fornire
la causa sufficiente di essa o, detto in altri termini, sia in grado di dar­
ne un’adeguata spiegazione85. Tornando ora ai tre generi di cono­
scenza: 1. l’immaginazione è sempre inadeguata, giacché la sua origi­
ne è di per sé frammentaria e casuale; 2. la ragione è conoscenza ade­
guata, in quanto coglie mediante argomentazione ciò che è comune
alle cose, ossia i nessi che legano più cose all’interno di un determi­
nato ordine, oppure le proprietà che le cose possiedono e che, quin­
di, da esse derivano; 3. Vintelletto è conoscenza adeguata delle cose
particolari nella loro essenza, in quanto intuisce immediatamente co­
me queste sono implicate nell’essenza formale di certi attributi della
sostanza86.
Ma come è possibile che la mente umana, essendo una modifica­
zione dell’attributo del pensiero di Dio, al punto che «quando diciamo
che la mente umana percepisce questa o quella cosa, non diciamo se
non che Dio ha questa o quella idea» (E2pllc), possa avere una cono­
scenza inadeguata delle cose? Come è possibile che ci sia frammenta­
rietà o lacunosità in un ordine che in ultima istanza è posto da Dio

do, concludiamo il quarto» (E2p40s2); nei casi a e b si tratta di immaginazione-, c è ragio­


ne,; mentre d è scienza intuitiva. Cf. anche Trattato su ll emendazione dell intelletto, § 23
(G II: 11-12 [OS: 121]); Breve trattato, II, 2 (G I: 54-55 [OS: 253]).
83 «Per idea adeguata intendo un’idea che, in quanto considerata in sé senza re­
lazione all’oggetto, ha tutte le proprietà, ossia le denominazioni intrinseche, dell’idea ve­
ra» (E2d4). Mentre per idea vera si intende quella che, secondo la definizione classica,
corrisponde al suo oggetto, ossia al suo ideato (Ela6); per adeguata si intende l’idea vera
considerata solo nel suo contenuto, ovvero in quanto chiara e distinta; cf. Trattato sull’e­
mendazione dell’intelletto, § 95-96 (G II: 34-35 [OS: 163-165]).
84 Illuminante il diagramma di N ad le r, Spinoza’s Ethics, cit., 166.
85 Cf. D. STEINBERG, Knowledge in Spinoza’s Ethics, in KoiSTINEN (ed.), The
Cambridge Companion to Spinoza’s Ethics, cit., 148-149.
86 Sulla scienza intuitiva o intelletto Spinoza tornerà più compiutamente nella V
Parte; cf. P. CRISTOFOLINI, La scienza intuitiva di Spinoza, Edizioni ETS, Pisa 20092.
L'Etica di Spinoza 123

stesso, secondo un’identica necessità di conoscenza e azione? Spinoza


era ben coscio che prima o poi ci saremmo posti tale problema, ed era
per questa ragione che in quell’importante corollario di E 2pll ci aveva
preavvisato di procedere con estrema cautela. Infatti, in quel testo -
che sopra ho riportato interamente - per la prima volta nella II Parte
veniva menzionata l’inadeguatezza. Anzi, per dirla tutta, lì veniva for­
nita la chiave originaria per capire l’inadeguatezza.
Si tratta di distinguere due punti di vista differenti, di cui il se­
condo è, purtuttavia, implicato nel primo: (a) il punto di vista di Dio,
il quale non solo ha l’idea della nostra mente, come idea di un corpo
attualmente esistente, bensì anche simultaneamente l’idea di tutti gli
altri corpi concomitanti con il nostro corpo; (b) il punto di vista della
nostra mente, la quale possiede certo l’idea del corpo ma non l’idea di
tutti gli altri corpi, bensì solo di alcuni e a seconda di come essi ci si
presentano. Ergo, l’immaginazione, in quanto percepisce i corpi ester­
ni mediante le affezioni del nostro corpo, è percezione sempre parziale
e in tal senso inadeguata87. E tuttavia, un’idea inadeguata della nostra
mente è adeguata in Dio stesso, perché la stessa idea inadeguata a cau­
sa della lacunosa e frammentaria relazione che la nostra mente stabili­
sce con le altre idee, è pur sempre, considerata singolarmente in se
stessa, un modo necessario dell’unica sostanza (E2p36). Di conseguen­
za, Spinoza chiarisce che l’errore non è nulla di positivo, ma una «pri­
vazione di conoscenza» (E2p35); l’epilogo della II Parte (E2p48-
49s)88, dedicato alla confutazione della volontà, risulta implicitamente
diretto contro la teoria cartesiana dell’errore89.
L’autore, al termine dell’ultimo scolio, ritiene infine di «indicare
quanto la conoscenza di questa teoria giovi alla pratica della vita
(usum vitde)» (E2p49s). Il che mi sembra un indice sufficientemente
eloquente della preoccupazione del filosofo di ricordare al lettore, im­
merso nelle prime “metafisiche” parti del sistema, tutta la portata etica
dell’argomentazione.

87 In E2p41, Spinoza dice che l'immaginazione è «causa di falsità», non che è


falsa di per sé; cf. F. MlGNINI, Ars imaginandi. Apparenza e rappresentazione in Spinoza,
Esi, Napoli 1981.
88 Cf. GUEROULT, Spinoza. II. LÀme, cit., 488-515; MACHEREY, Introduction à
/'Éthique, cit., II, 367-407; STEINBERG, Knowledge in Spinozas Ethics, cit., 160-166.
89 «Con ciò abbiamo eliminato quella che comunemente si ritiene essere la cau­
sa dell’errore» (E2p49s), cioè la volontà come facoltà distinta dall’intelletto, supra, 54-
56; cf. SCRIBANO, Guida alla lettura, cit., 73-78.
124 Sistemi filosofici moderni

4. Gli affetti o moti dettammo


La III parte dell’Etica, dedicata all’Origine e natura degli affetti,
funge da vera e propria cerniera dell’opera. In origine, Spinoza aveva
concepito il suo sistema secondo una scansione bipartita, come si evin­
ce chiaramente dal titolo del Breve trattato su Dio, l'uomo e il suo bene
(Korte Verhandeling van God, de Mensch en deszelvs Welstand), la cui
seconda parte comprende, di fatto, due argomenti: l’uomo e il bene
dell’uomo. Nella struttura pentapartita dell’Etica, Dio e la mente uma­
na costituiscono l’oggetto della I e della II Parte; mentre il bene/feli-
cità90 costituisce esplicitamente l’oggetto delle Parti IV e V, le quali
sviluppano l’etica nell’Etica, in due momenti tra loro connessi (schia­
vitù e libertà). Perciò, la parte maggiormente rilevante, rispetto alla
struttura precedente, è proprio la III. Inoltre, affetti è l’unico termine
ripetuto nei titoli di due distinte parti del sistema: «III. Dell’Origine e
Natura degli AFFETTI. IV. Della SCHIAVITÙ umana, ossia delle FORZE
DEGLI AFFETTI»91. In verità, gli affetti - con tutta l’ambiguità semantica
tra attività e passività di cui subito sotto diremo - rappresentano il
luogo privilegiato d’incontro/scontro tra immaginazione e ragione;
inoltre essi si situano a cavallo tra la struttura e dinamica della mente,
soprattutto la fisica dei corpi dell’excursus tra E2pl3-14, e la questio­
ne etica, nella quale sono direttamente coinvolti.
Il testo della III Parte è così articolato: dopo una prefazione, so­
no stabiliti come elementi basilari 3 definizioni e 2 postulati, vengono
poi dimostrate 59 proposizioni, al termine delle quali troviamo una se­
zione riassuntiva con le definizioni di 48 affetti (intercalate da 25 spie­
gazioni); il tutto è concluso da una definizione generale degli affetti.
Non è facile delineare una nomenclatura contenutistica in una massa
di dati così densa ed elevata, una scansione argomentativa della III
Parte potrebbe essere la seguente: 1. vengono anzitutto stabiliti i due
possibili stati della mente, attività e passività (E3pl-3); 2. viene focaliz­
zato il conatus come essenza dell’affetto (E3p4-8); 3. si passa quindi al­
la deduzione geometrica degli affetti (E3p9-59). Questultima parte è
poi sinteticamente ripresa daccapo nelle definizioni degli affetti, molte
delle quali erano state già date all’interno delle proposizioni preceden-

90 II nederlandese Welstand, letteralmente «benessere», è traducibile in italiano


con «bene» nel senso di piena realizzazione di sé, cioè «felicità» o, secondo YEtica,
«beatitudine».
91 OP [39].
L'Etica di Spinoza 125

ti, ma che ora sono disposte in un elenco che vorrebbe far cogliere più
facilmente il loro ordine92.
Prima di passare a spiegare alcuni tratti salienti della III Parte, è
indispensabile un chiarimento semantico. Il termine latino affectus, è
participio passato del verbo afficere, composto da ad-facere, cioè lette­
ralmente «fare a» ovvero «toccare con la propria azione qualcosa, pro­
durre un effetto su di essa», cioè «influire, colpire». Ora affectus può
significare: (a) in generale affetto nel senso di «colpito, influenzato»
(es. i corpi sono affetti dalla forza di gravità); mentre (b) per quanto ri­
guarda in specifico la sfera di quegli influssi da cui l’animo umano è
toccato, affetto nel senso di «emozione» o, come Spinoza stesso dirà,
«commozione»93 (es. odio, ira, paura, amore, compassione, gratitudi­
ne). Sia emozione che commozione, sono composti del verbo latino mo­
vere, cioè «muovere»: in un caso ex-movere, cioè «muovere via, smuo­
vere, sollevare», nell’altro cum-movere, «muovere insieme, sconvolge­
re». In entrambi i casi il significato verte su un moto che viene ad alte­
rare, turbare, scuotere lo stato psichico. A ragione, perciò, Cristofolini
traduce affetto con «moto dell’animo»94.
Nella prefazione l’autore parte immediatamente all’attacco della
maggior parte di coloro che, finora, hanno scritto sugli affetti e sulle
regole di vita degli uomini, giacché «sembrano trattare non di cose na­
turali (rebus naturalibus) che seguono le comuni leggi della natura, ma
di cose alla natura estranee (extra naturam sunt)» (E3praef). Questa
pretesa di sottrarsi alla natura finisce nella contraddizione di conside­
rare l’uomo «veluti imperium in imperio», ossia capace di dominio nel
dominio della natura, con la conseguenza di porlo allo stesso tempo

92 Questa doppia esposizione denota tutta la difficoltà di Spinoza di tener fede


al suo progetto - assai ambizioso - di una deduzione geometrica degli affetti, cf. MlGNI-
Nl, L'Etica di Spinoza, cit., 120-121; NADLER, Spinoza’s Ethics, cit., 190.
93 «Si animi commotionem, seu affectum» (E5p2).
94 «una croce per il traduttore italiano è quella dei nessi tra [a] “ afficere” , ovve­
ro esercitare un influsso, [b] “ affectus” come participio passato di quel verbo, e [c] “af­
fectus” come stato em otivo» («Presentazione», in SPINOZA, Etica, a cura di P. CRISTOFO-
LINI, cit., 14). Perciò, Cristofolini traduce a «colpire», b «colpito», c «m oto dell’animo».
D al momento che questa traduzione è difforme da tutte le altre, italiane e non, preferi­
sco usare anche la terminologia più “classica” . D i fronte a queste difficoltà, è curioso
leggere: «le De Affectibus décrit le m onde bariolé de ce que la langue italienne appelle
les affetti» (MACHEREY, Introduction à /'Éthique, cit., Ili, 15, n. 2). Mi sono occupato di
queste sfumature semantiche in S. D ’AGOSTINO, La sfera patemica secondo Aristotele:
dalle qualità affettive alla strategia catartica, in P. GlLBERT (ed.), Passioni. Indagini filoso­
fiche, Cittadella, Assisi 2007, 9-40.
126 Sistemi filosofici moderni

troppo in alto e troppo in basso. Infatti costoro, facendo fede alla loro
immaginazione, si illudono che l’uomo abbia una «potenza assoluta
nelle sue azioni», e poi, non riuscendo a spiegarsi come mai egli risulti
spesso così impotente, attribuiscono ciò a una qualche ridicola e dete­
stabile patologia della natura umana. L’errore di fondo di questi “mo­
ralisti” è quello di vedere l’uomo in un modo euforico e disforico allo
stesso tempo, cioè di giudicare affettivamente gli affetti. Ecco perché è
indispensabile, invece, assumere uno sguardo razionale verso gli affet­
ti, per poterli finalmente «capire (intelligere)». In realtà, al di sotto
dell’apparente anarchia degli affetti, che la nostra esperienza ci testi­
monia quotidianamente, soggiace una logica ferrea e rigorosa. Spinoza
ci ricorda quanto stabilito nella I e II Parte, ovvero che la natura è
«una sola e identica a se stessa», e che quindi gli affetti non sono altro
che conseguenze della necessità della natura, e quindi non debbono
essere spiegati con un metodo differente da quello usato nello studio
di Dio e della mente, ma considerati «come se si trattasse di linee, di
figure piane, o di corpi».
Ecco la definizione che Spinoza ne dà all’inizio della III Parte:
3. Per affetto/moto dell’animo intendo quelle affezioni del corpo
quali la potenza d’agire del corpo stesso è aumentata o diminuita, favorita od
ostacolata e, simultaneamente, le idee di queste affezioni.

Interessante notare, anzitutto, che il termine definito è al singola­


re, affectum, mentre ciò che lo definisce è plurale, affectiones. L’affetto
viene perciò a identificare all’interno del complesso delle affezioni,
cioè delle modificazioni del corpo umano prodotte dall’influsso di altri
corpi, quelle particolari affezioni che sono capaci d’influire sulla poten­
za d'agire, ossia di causare, che il corpo umano stesso ha nei confronti
di altri corpi. A ben vedere, ciò che definisce l’affetto non è l’essere
una pura e semplice alterazione, ma la sua capacità di alterare la capa­
cità di alterare, ossia è potenza d’agire sulla potenza d’agire. Se doves­
simo usare il linguaggio della fisica, dovremmo dire che l’affetto più
che un moto è una forza, ossia un influsso tendente a modificare il mo­
to di un corpo, accelerandolo o decelerandolo95. Ora, secondo quanto
Spinoza stabilisce all’inizio della III Parte, la potenza d’agire consiste
in ultima istanza nel conatus. Infatti «Ciascuna cosa, nel suo essere in
sé, tende (conatur) a continuare nel suo essere» (E3p6), perciò:

95 Cf. E4p5-17; E4p57s.


L'Etica di Spinoza 127

la potenza di ciascuna cosa, ossia la tendenza (conatus) con cui essa fa o


tende a fare qualcosa (,quidquam agit, vel agere conatur), o da sola o con altre,
cioè (E3p6) la potenza, ossia la tensione con cui tende a continuare nel suo es­
sere, non è altro se non l’essenza data, ossia attuale, di quella cosa (E3p7dem).

Da ciò capiamo che nelYEtica gli affetti non sono sentimenti più
o meno vaghi, ma ciò che è in grado di aumentare o diminuire, facilita­
re od ostacolare, l’essere attuale di una singola cosa, cioè la sua perfe­
zione dinamicamente intesa, ossia la tendenza ad autorealizzarsi, a es­
sere effettivamente e pienamente ciò che essa è. Non dimentichiamo
che una «cosa finita» è ciò che è in quanto «può essere delimitata (ter­
minati potest) da un’altra della medesima natura» (Eld2), ovvero è
«determinata a esistere e ad operare da un’altra causa anch’essa finita»
(Elp28). Ciò significa che ogni cosa si trova all’interno di un campo
antagonistico di forze, ciascuna delle quali tende ad affermare e a con­
servare se stessa (E3p4-5). Ecco perché, per una singola cosa essere si­
gnifica in fondo tendere, cioè fare forza per non lasciarsi sopraffare
dalla miriade di forze contrarie che la circondano, ossia letteralmente
sforzarsi (conati) di conservare se stessa96.
Un secondo decisivo elemento della definizione dell’affetto è che
esso si produce simultaneamente (simul) nell’estensione e nel pensie­
ro. Come abbiamo chiarito nella II Parte (es. E2p7 o E2pl3c) corpo e
mente, e quindi anche affezioni corporee e idee, non sono elementi se1
parati da porre in una qualche relazione estrinseca, bensì la stessa co­
sa, colta ora sotto l’attributo dell’estensione, ora sotto quello del pen­
siero. Anche gli affetti, perciò, sono idee della mente (eventi mentali al
pari di tutti gli altri), e sono moti cioè modificazioni corporee (eventi
cerebrali, nervosi e somatici al pari di tutti gli altri). Il tutto, senza che
vi sia il minimo influsso reciproco97. Ciò è ulteriormente confermato

96 II conatus è, sotto ogni aspetto, la nozione “centrale” dell’Etica, come eviden­


zia molto bene T. COOK, Der Conatus: Dreh- und Angelpunkt der Ethik, in H ampe-Sch -
NEPF (edd.), Baruch de Spinoza. Ethik, cit., 151-170; cf. anche D. GARRETT, Spinozas co­
natus argument, in O. KoiSTINEN - J. BIRO (edd.), Spinoza. Metaphysical Themes, Oxford
University Press, New York 2002, 127-158; L. M artin , Spinozas metaphysics of desire.
The demonstration o f IIIP6, in «Archiv fiir Geschichte der Philosophie» 86 (2004), 21-
55. Non è semplice tradurre il termine conatus nelle lingue moderne: effort, striving,
esfuerzo, Bestreben, streven\ la scelta di Cristofolini, tensione, mi sembra quella meglio
compatibile col senso attivo del verbo conari come tendere. Mignini traduce pulsione, es­
sere spinto; Durante, sforzo, sforzarsi.
97 Cf. E3p2 e il lungo scolio; A. DAMASIO, Lookingfor Spinoza. Joy, Sorrow and
thè Human Brain, Harcourt, New York 2003 (trad. it., Alla ricerca di Spinoza, Adelphi,
Milano 2003).
128 Sistemi filosofici moderni

dalla teoria del conatus. Quando Spinoza sostiene che la inseità di una
cosa singola98, cioè la sua essenza attuale di cosa finita, è la sua tensio­
ne (conatus) a perseverare nel proprio essere (E3p6), non dice altro se
non che tale cosa è un «modo» della sostanza, ovvero un’espressione
positiva della sostanza, cioè un qualcosa che necessariamente segue
dalla potenza d’agire della sostanza stessa, nei suoi infiniti attributi.
Ergo, il conatus, in quanto essenza dell’affetto, non può che esprimersi
simultaneamente in ciascun attributo.
Un ulteriore elemento da notare è quanto Spinoza precisa nella
nota esplicativa aggiunta alle tre definizioni'. «Se dunque noi possiamo
essere causa adeguata di tali affezioni, allora per affetto/moto dell’ani­
mo intendo un’azione, altrimenti una passione». Qui l’autore raccoglie
in un’unica proposizione tutte e tre le definizioni precedenti: per «cau­
sa adeguata» (E3dl) aveva appena definito quella il cui effetto può es­
sere percepito in modo chiaro e distinto mediante se stessa soltanto,
mentre inadeguata quella che comporta un’altra causa; e per «nostro
agire» (E3d2), l’accadere di qualcosa di cui noi siamo causa adeguata,
mentre per «patire» inadeguata. Pertanto, ogni qualvolta noi percepia­
mo che un’affezione capace di modificare la nostra potenza di agire è
chiaramente e distintamente causata da noi stessi, si tratta di «azione»;
al contrario, quando percepiamo che tale affezione non si produce so­
lo da noi stessi, si tratta di «passione». Con ciò, non solo appare in
modo evidente che per Spinoza gli affetti non coincidono con le pas­
sioni, bensì esistono affetti-passione ed affetti-azione99, ma soprattutto
emerge ulteriormente la nostra interazione con la natura. Infatti, anche
le azioni sono dirette verso modificazioni che in parte sono subite,
mentre le passioni manifestano comunque un’azione riconducibile al
nostro essere. In altre parole, la sfera affettiva è il luogo dove si palesa
il nostro essere radicalmente “intrecciati” col mondo, in un reticolo di
azioni e reazioni fatte e subite.
Da ciò, tuttavia, emerge un problema100. Viene da chiedersi, infatti,

98 Qui è chiaramente detto che cose particolari hanno un essere in sé, ovvia­
mente non hanno anche un essere per sé, cioè non si concepiscono per sé, bensì da altro,
altrimenti sarebbero a sé e perciò sostanza; cf. E ld3.
99 «E questo è quanto riguarda gli affetti/moti dell’animo che si riferiscono al­
l’uomo in quanto è passivo (<quatenus patitur). Rimangono da aggiungere poche cose su
quelli che a lui si riferiscono in quanto attivo (<quatenus agit)» (E3p57s).
100 Cf. MACHEREY, Introduction à /'Éthique, cit., Ili, 43-44; MlGNINI, Introduzio­
ne a Spinoza, cit., 132-133; O. KoiSTINEN, Spinoza on action, in KoiSTINEN (ed.), The
Cambridge Companion to Spinozas Ethics, cit., 167-187.
L'Etica di Spinoza 129

se per noi uomini esista la possibilità di compiere anche una sola azione
pienamente definibile come tale. Dato che l’uomo è una cosa finita, cioè
imprescindibilmente determinata dalTagire delle altre cose, sembra che
la sua natura sia incompatibile con un agire “puro”, e sia invece inesora­
bilmente destinata a un agire inficiato dall’interazione, più o meno anta­
gonistica, con le altre cose. Il che equivale a dire che un’azione umana,
solo umana, non sembra possibile; e nemmeno sembra che l’uomo possa
dirsi libero, giacché «libera» è quella cosa «che da sé sola si determina
ad agire» (Eld7). In che senso allora, nell 'Etica, Spinoza intenda parlare
di «libertà umana», è un punto che va ulteriormente chiarito.
A partire da E3p9 inizia la deduzione geometrica degli affetti,
dei quali il primo, in tutti i sensi, è il desiderio (cupiditas). La mente
umana, come sappiamo da E2p23, è consapevole di sé, dunque è an­
che consapevole della sua tensione (conatus) a perseverare nell’essere.
Come spesso accade, le cose più succose - almeno per noi poveri let­
tori - Spinoza le consegna allo scolio, in questo caso uno dei più illu­
minanti dell’opera:
Questa tensione (conatus), quando si riferisce alla sola mente, si chiama
volontà (Voluntas); ma quando si riferisce simultaneamente alla mente e al cor­
po, si chiama voglia (Appetitus), che non è dunque altro se non l’essenza stessa
dell’uomo (ipsa hominis essentia), dalla cui natura necessariamente derivano
quelle cose che servono alla sua conservazione; e quindi l’uomo è determinato
a farle (E3p9s).

Come Spinoza immediatamente chiarisce, il desiderio (cupiditas)


non è altro che la voglia (,appetitus) stessa, nella misura in cui noi ne sia­
mo consapevoli, ovvero: «il desiderio è voglia con la consapevolezza di
essa stessa (Cupiditas est appetitus cum ejusdem conscientia)»m . L’uo­
mo è desiderio. Cioè tensione autocosciente d’essere tensione, cioè cosa
finita tra le altre cose finite. In altre parole, autocoscienza della propria
finitezza. Questa autocoscienza - nota bene - nell’uomo non è origina­
ria, giacché deriva ultimamente dalla tensione (conatus) di perseverare
nell’essere102. Perciò Spinoza ci tiene a sottolineare che questa precede

101 È questa non solo la prima definizione di un affetto che incontriamo nella III
Parte, ma è anche la definizione del primo affetto. Nell’elenco delle definizioni degli af­
fetti,, al n. 1 troviamo: «Il desiderio (cupiditas) è l’essenza stessa dell’uomo, in quanto la
si concepisce determinata da una qualunque sua affezione data a compiere un’azione»
(E3dal). Per un’esegesi approfondita di questa definizione, nelle sue differenze con la
precedente, cf. MACHEREY, Introduction à l’É thique, cit., Ili, 99-107.
102 «Infatti che l’uomo sia consapevole della sua voglia {sui appetitus sit con-
130 Sistemi filosofici moderni

ogni altra intellezione, idea o giudizio: «a nulla noi tendiamo, nulla vo­
gliamo, appetiamo, desideriamo, per il fatto che lo giudichiamo essere
buono; ma, al contrario, giudichiamo qualcosa essere buono perché vi
tendiamo, lo vogliamo, appetiamo e desideriamo»103. Difatti, alla fine
della II Parte, Spinoza aveva stabilito anzitutto che per volontà bisogna
intendere «la facoltà di affermare e di negare e non il desiderio»
(E2p48s), quindi volere o non volere coincidono con affermare o nega­
re il vero e il falso, e pertanto intelletto e volontà non sono affatto due
facoltà distinte, bensì «un’unica e identica cosa» (E2p49c), e le volizio­
ni nient’altro che idee. Ciò con cui la mente «vuole o rifiuta le cose {res
appetti, vel adversatur)» non è la volontà, bensì il desiderio. Ora, soltan­
to il desiderio è autocoscienza della originaria tensione d’essere nell’o­
rizzonte polemico della finitezza. Ergo, affermare o negare consapevol­
mente che qualcosa «è buono», non può che seguire, ovvero essere de­
terminato da quella tensione originaria. Mai viceversa. Questa tesi - co­
me vedremo - giocherà un ruolo decisivo nelle parti etiche dell’opera.
Nello scolio di E 3pll Spinoza individua in gioia (leetitia) e tri­
stezza (tristitia) gli affetti principali che derivano immediatamente dal
desiderio (cupiditas) e che, insieme a esso, vanno a costituire la struttu­
ra basilare di tutti gli altri affetti. In base all’unità di mente e corpo
sancita in E2p7, qualunque cosa accresce o diminuisce la potenza d’a­
gire del nostro corpo, accresce o diminuisce la potenza di pensare del­
la nostra mente (E3pll). Perciò, quando un’azione ha successo, ovve­
ro la mente percepisce un accrescimento della propria potenza d’agire,
passando da una minore a una maggiore perfezione, è affetta da un
moto di gioia; al contrario, quando fallisce, ovvero percepisce un detri­
mento, passando da una maggiore a una minore perfezione, è affetta
da un moto di tristezza. Sappiamo anche che l’essenza della mente
umana è l’idea del corpo umano esistente in atto (E2pll-13), perciò
«un’idea che nega l’esistenza del nostro corpo è contraria alla nostra
mente» (E3pl0dem) e pertanto non può affatto derivare da questa. In­
vece, in base a E 3pll, la mente può tendere a immaginare cose che ac­
crescono o favoriscono la potenza d’agire del corpo; oppure tendere a
ricordarsi di cose che escludono l’esistenza del corpo, immaginando
cose che riducono od ostacolano la potenza d’agire di esso (E3pl2-
13). Ebbene quando la mente tende ad aver presenti e conservare

scius), o che non lo sia, la voglia rimane sempre la stessa (manet tamen appetitus unus,
idemque)» (E3dale).
103 Cf. anche E3p39s.
L'Etica di Spinoza 131

quelle cose che essa percepisce come capaci di accrescere o favorire la


potenza d’agire del corpo, è affetta da un moto di amore; al contrario,
qualora tenda ad allontanare e distruggere quelle che la diminuiscono
od ostacolano, è affetta da un moto di odio (E3pl3s).
Questi, in breve, gli elementi basilari dai quali Spinoza dedurrà
poi tutti gli affetti-passione (meraviglia, disprezzo, propensione, avver­
sione, devozione, derisione, speranza, paura ecc.)104. A guardar bene,
nella III Parte Spinoza tratterà quasi esclusivamente di affetti-passione,
e solo nelle due ultime proposizioni (E3p58-59), delineerà in modo as­
sai succinto gli affetti-azione. Questi, nonostante la loro apparente mar­
ginalità, dovuta verosimilmente al fatto che la nostra vita affettiva ha
quasi sempre a che fare con passioni, meritano comunque attenzione.
Gli affetti-azione derivano solo da desiderio e gioia, mai da tristezza in
quanto non conoscono passività, e sono riconducibili alla fortezza, di­
stinta in fermezza e generosità (E3p59s); da cui derivano poi temperanza,
sobrietà e castità, che - anticipando quanto diverrà più chiaro solo alla
fine dell’opera - potremmo definire gli affetti del sapiente, in quanto
«indicano una potenza della mente, non una sua passione» (E3da48e).

5. Schiavitù e libertà

Con la IV e V Parte dell 'Etica giungiamo a trattare direttamente


di quei temi etici intraveduti sin dall’inizio dell’opera. Il lettore, che a
questo punto confida di scendere dalle impervie alture metafisiche
verso i terreni più piani e agevoli della filosofia pratica e morale, man
mano che si addentra nelle ultime parti dell’opera si accorge invece di
trovarsi lungo un percorso non meno faticoso. Non è un caso che la
parte etica dell’E x sia la meno studiata105. In effetti, la frustrazione

104 Spinoza ne elenca 48, ammettendo che potrebbero essere ben di più (E3p49s).
Per una loro tavola riassuntiva e/o comparativa, cf. MlGNINl, L'Etica di Spinoza, cit., 134-
135; F. A mann , Liebe und Hass (3pl3-21), in HAMPE-SCHNEPF (edd.), Baruch de Spinoza.
Ethik, cit., 176-177; M. LEBUFFE, The anatomy of thè passions, in KoiSTINEN (ed.), The
Cambridge Companion to Spinozas Ethics, cit., 204-205; per un repertorio delle princi­
pali figure dell’affettività, con i rimandi interni all 'Etica, cf. M a ch erey , Introduction à
/'Éthique, cit., Ili, 391-405.
105 «On thè whole, twentieth-century interest in Spinozas writings has focused -
in contrast with Spinozas own priorities - more on his metaphysics and epistemology
(especially in thè English-speaking world) and on his social and politicai theory (espe-
cially on thè European continent) than it has on his ethical theory proper. It is not, of
course, uncommon for a later generation of readers to neglect an aspect of a philoso-
pher’s work that thè philosopher valued most highly» (D. GARRETT, Spinozas ethical
132 Sistemi filosofici moderni

degli interpreti sembra crescere con la complessità sempre maggiore


che l’argomentazione acquista. Ciò è dovuto anche al progressivo al­
largarsi dei riferimenti filosofici e culturali sottostanti. Come S. Nadler
fa opportunamente notare: «Mentre la I e la II Parte vanno comprese
all’interno di un contesto eminentemente cartesiano, con Spinoza che
offre una specie di commento critico alla concezione di Descartes del­
la sostanza e dell’essere umano, le Parti III e IV sono chiaramente de­
bitrici dello studio di Hobbes e degli Stoici antichi da parte di Spino­
za»106. Ma è soprattutto la V Parte ad aprire un nuovo scenario, lad­
dove il filosofo inizia ad attingere alla tradizione razionalistica medie­
vale giudaica, assai poco conosciuta dagli interpreti107. Dato lo stretto
legame sussistente tra IV e V Parte, è possibile esporle in un medesi­
mo discorso, anche in ragione del fatto che da E4pl9 fino a E5p20,
lungo un tratto di oltre settanta proposizioni, Spinoza tratterà di un
unico tema: la potenza della ragione.
La struttura della IV Parte è, in breve, la seguente: dopo una
corposa prefazione, sono poste 8 definizioni e un solo assioma; seguono
73 proposizioni, al termine delle quali l’autore pone uri appendice, ove
elenca le «corrette norme di vita» già argomentate nelle proposizioni
precedenti, riassumendole in 32 brevi capitoli. L’argomentazione che si
snoda lungo le 73 proposizioni è la più lunga di tutta l’opera e la sua
scansione contenutistica appare piuttosto farraginosa e disomogenea
(non a caso l’autore ha avvertito il bisogno di riassumere il tutto nel-
Yappendice). In E4pl-4 Spinoza sintetizza le basi ontologiche che fan­
no dell’uomo una parte della natura, determinata dalle sue leggi; poi
passa ai due oggetti che nella prefazione ha dichiarato di voler trattare:

theory, in GARRETT (ed.), The Cambridge Companion to Spinoza, cit., 269); cf. «Studia
Spinozana» 7 (1991), dedicato a The Ethics in thè “Ethics”.
106 «While Parts One and Two should be understood primarily in a Cartesian
framework, with Spinoza offering a kind of criticai commentary on Descartes’s concep-
tion of substance and thè human being, Parts Three and Four clearly owe a debt to
Spinozas study of Hobbes and of ancient Stoic thinkers» (N a dler , Spinozas Ethics,
cit., 248 [trad. mia]).
107 Della filosofia giudaica e delle sue relazioni con Spinoza, uno dei massimi
specialisti odierni è S. NADLER, cf. Spinozas Heresy. Immortality and thè Jewish Mind,
Oxford University Press, Oxford 2002 (trad. it., L'eresia di Spinoza, Einaudi, Torino
2005); I d ., Baruch Spinoza and thè naturalization ofjudaism, in I d . (ed.), The Cambridge
Companion to Modem Jewish Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 2007,
14-34; I d . - T. RUDAVSKY (edd.), The Cambridge History of Jewish Philosophy, Cambrid­
ge University Press, Cambridge 2008; cf. anche M. CHAMLA, Spinoza e il concetto della
tradizione ebraica, Franco Angeli, Milano 1996.
L Etica di Spinoza 133

(a) la causa dell’impotenza umana nel controllare e contenere i moti


dell’animo», ovvero del fatto che spesso l’uomo, pur vedendo ciò che
per lui è meglio, segue o, meglio, è costretto (coactus)108 a seguire ciò
che per lui è peggio (E4p5-18); (b) «cosa, inoltre, ci sia di buono, e co­
sa di cattivo, negli affetti/moti dell’animo» (E4pl9-73). Più di due ter­
zi dell’argomentazione dovrebbero comprendere la trattazione del se­
condo oggetto, tuttavia, a ben guardare, insieme alle proposizioni che
Spinoza dedicherà effettivamente a esso (E4p41-58), altrettanto, se
non più spazio ancora, è dedicato in realtà alle premesse di tale argo­
mentazione (E4pl9-40), soprattutto alla virtù, intesa come attuazione
del potere della ragione nella ricerca del meglio per sé (utile o bene). È
questo, in fondo, il vero tema della IV Parte.
Nella prefazione Spinoza propone di «formarci un’idea dell’uo­
mo come modello di natura umana (exemplar humanse narturae) al
quale mirare», e tuttavia si premura di precisare che tale modello non
ha alcun valore teleologico reale. Come già detto nell’appendice alla I
Parte, «La causa così detta finale, poi, non è altro se non la voglia
umana (ipsum humanum appetitum), in quanto considerata come prin­
cipio o causa primaria di qualcosa» (E4praef), cioè causa efficiente. In
tale senso, buono o perfetto, cattivo o imperfetto, sono solo termini
convenzionali, che non rimandano ad alcuna realtà: «sono soltanto
modi di pensare, ossia nozioni che di solito ci creiamo allorché con­
frontiamo individui della stessa specie o genere». La realtà stessa, nella
sua necessità, è già perfezione e pienezza. Perciò, quando valutiamo
qualcosa, ossia diciamo che è buono o cattivo, lo facciamo in termini
puramente relativi. Il che non significa che tali termini siano privi di
senso né che Spinoza intenda compiere una dissoluzione dei valori:
piuttosto, per bene va inteso «ciò che sappiamo con certezza esserci
utile» (E4dl); per male, invece «ciò che sappiamo con certezza che ci
impedisce di possedere un bene» (E4d2)109.
Nella IV Parte è enunciato un solo, basilare assioma:

Non si dà in natura alcuna cosa singola di cui non se ne dia un’altra più
potente e più forte. Ma data una qualunque cosa se ne darà un’altra più po­
tente, da cui quella data può essere distrutta (E4a).

108 Per la definizione di «cosa costretta (res coacta)», cf. Eld7.


109 Cf. J. MlLLER, Spinoza’s axiology, in D. G arber (ed.), Oxford Studies in Early
Modem Philosophy. II, Oxford University Press, Oxford 2005; N adler , Spinoza’s
Ethics, cit., 215-221.
134 Sistemi filosofici moderni

Tutto in natura è condizionato. Quella tensione (conatus) fonda-


mentale alla propria perfezione o potenza di autorealizzazione che in­
nerva ontologicamente ogni cosa particolare, e di cui l’uomo è consa­
pevole nel desiderio, non può che scontrarsi con la medesima tensione
insita in ogni altra singola cosa. Perciò Spinoza giunge a una conclu­
sione che sembra quasi una resa dell’uomo di fronte a un destino cieco
di fragilità e precarietà: «Noi siamo passivi nella misura in cui siamo
una parte della natura che non si può concepire di per sé senza le al­
tre» (E4p2). Se l’uomo fosse concepibile per sé, sarebbe sostanza e
non un modo di essa. Quindi egli, in quanto cosa finita, sembra conse­
gnato a una irrimediabile passività, in base alla quale parlare di libertà
appare semplicemente privo di senso. Per di più: «La forza con cui
l’uomo continua nell’esistenza è limitata, ed infinitamente soverchiata
(;infinite superatur) dalla potenza delle cause esterne» (E4p3). Quindi,
relativamente a tale potenza, possiamo valutare che noi siamo schiavi
delle forze esterne, ossia consegnati nelle mani della fortuna. Sembra
che non rimanga altro che adattarsi a questa verità; ribellarsi non sa­
rebbe in fondo altro se non un’espressione di tale condizionamento
stesso. La conclusione è infatti che «l’uomo è necessariamente sempre
attraversato (ohnoxium) dalle passioni, e che segue l’ordine comune
della natura, ad esso obbedisce, e vi si adatta per quanto lo esige la na­
tura delle cose» (E4p4c). Non c’è modo, dunque, di evitare che le pas­
sioni ci colpiscano. Siamo e restiamo vulnerabili. Ma, assolutamente
vulnerabili?
A ben notare, in noi gli affetti sono modificazioni che si rendono
presenti ed esercitano il loro influsso al livello dell’immaginazione: «un
affetto/moto dell’animo è un’immaginazione, in quanto manifesta la di­
sposizione del corpo» (E4p9dem). Ne deriva che il confronto di mag­
giore o minore potenza degli affetti è regolato dall’immaginazione: ad
esempio «Un affetto/moto dell’animo, la cui causa immaginiamo esser­
ci attualmente presente, è più forte che se non la immaginassimo pre­
sente» (E4p9), e ugualmente se la immaginiamo imminente (E4pl0) o
necessaria (E4pll) e così via. Finché, nello scolio di E4pl8, Spinoza di­
chiara di voler «spiegare che cosa sia ciò che la ragione ci prescrive,
quali affetti/moti dell’animo si accordino (conveniant) con le regole
della ragione umana, e quali siano ad esse contrari». La sfida del filo­
sofo è dunque dimostrare che non solo l’immaginazione ma anche la
ragione può esercitare il suo influsso sugli affetti. Certo, per moderare
o dominare una passione non basta mettere qualcuno di fronte a una
verità (es. se uno è in preda a un attacco d’ira difficilmente lo si riuscirà
L'Etica di Spinoza 135

a calmare spiegandogli la natura in sé autodistruttiva dell’ira)110. La ra­


gione potrà esercitare un influsso sugli affetti solo se arriverà a produr­
re essa stessa un affetto; magari un affetto verso un oggetto esterno,
presente, attuale e necessario, cioè un affetto tale da essere più potente
degli altri affetti. Non dobbiamo dimenticare che: «Un affetto/moto
dell’animo, in quanto si riferisce alla mente, non può essere dominato,
né eliminato, se non per mezzo di un’affezione contraria e più forte del­
l’affezione cui siamo soggetti» (E4p7c).
Nello scolio di E4pl8 Spinoza - evidentemente consapevole del­
l’eccessiva ampiezza e complessità dell’indagine che sta per compiere
- ci offre una più accessibile anticipazione dei contenuti rimanenti del­
la IV Parte. In primo luogo:
la ragione non richiede nulla contro la natura, essa stessa richiede (po­
stulat ergo ipsa) che ciascuno ami se stesso, che cerchi il proprio utile, ossia ciò
che è davvero utile, che voglia tutto ciò che veramente conduce l’uomo a mag­
gior perfezione e, in senso assoluto, che ciascuno tenda a conservare il proprio
essere per quanto da lui dipende.

Questo “postulato” della ragione, aggiunge Spinoza, è necessa­


riamente vero «quanto è vero che il tutto è maggiore di una sua parte
(.E3p4)». Cioè esso non fa che esprimere positivamente la natura stessa
della ragione, la quale, se l’immaginazione non venisse a contrastarla
dall’esterno, sarebbe spontaneamente evidente. Invece, l’influsso degli
affetti richiede che le esigenze della ragione vengano, per così dire,
conquistate e s’impongano sotto una forma prescrittiva (rationis dieta-
mina). Da questo “postulato” emerge anche che la virtù «non è altro
se non agire secondo le leggi della propria natura», la quale altro non è
se non tensione (conatus) a conservare il proprio essere e, quindi, la fe­
licità «consiste nel fatto che l’uomo può conservare il proprio esse­
re»111. Ergo, la felicità viene a coincidere con l’esercizio attuale della
virtù, e questa «va ricercata per se stessa», non in vista di un qualche
fine ulteriore112. Inoltre, come sappiamo da E2post4 e come è stato

110 E questo in fondo il senso della prima proposizione della IV Parte.


111 Per Aristotele la virtù (àgeif]) è ciò che dispone un qualcosa all’esercizio ec­
cellente delle proprie capacità, cf. Eth. Nicom., II, 1106a 15-21. Per Spinoza essa è diret­
tamente sinonimo di «potere» (E4p8); cf. NADLER, Spinozas Ethics, cit., 225-230; SCRI-
BANO, Guida alla lettura, cit., 122-126.
112 In tal senso il concetto di utile in Spinoza non ha mero valore utilitaristico,
bensì è espressione diretta della tensione 0conatus) fondamentale a conservare il proprio
essere. Perciò, non vi è utile maggiore che quello di ricercare la virtù per se stessa.
136 Sistemi filosofici moderni

ampiamente ribadito all’inizio della IV Parte, abbiamo sempre a che


fare con cause esterne, e ciò non solo in senso negativo: «Ci sono dun­
que molte cose fuori di noi che ci sono utili e che perciò occorre vole­
re {appetendo, sunt)» (E4pl8s). Quali sono queste cose utili? Di certo
tutte quelle che sono utili alla nostra autoconservazione, come il nutri­
mento o la salute. Tra queste, anzitutto, la cooperazione con altri uo­
mini: «Nulla dunque è per l’uomo più utile dell’uomo {Homini igitur
nihil homine utilius)». Il fatto di potersi mettere tutti d’accordo e,
sommando le forze di tutti, cercare per quanto possibile di conservare
assieme il proprio essere, quasi si fosse tutti «una sola mente e un solo
corpo», è quanto di più valido gli uomini possano scegliere. La dimen­
sione politica è espressione della stessa natura umana113 e la virtù
emerge come principio regolatore delle relazioni umane: «gli uomini
guidati dalla ragione {ratione gubernantur), cioè gli uomini che ricerca­
no il proprio utile sotto la guida della ragione {ex ductu rationis), non
vogliano per sé nulla che non desiderino anche per tutti gli altri» cioè
siano «giusti, fidati e onesti».
In E4p59-66 Spinoza giunge, finalmente, a trattare della capacità
della ragione di determinare azioni: «A tutte le azioni cui siamo deter­
minati da un affetto/moto dell’animo, che è una passione, noi possia­
mo essere determinati dalla ragione indipendentemente da quello (ab-
sque eo ratione determinar!)» (E4p59). E questo il punto in cui il filo­
sofo dimostra che la ragione è in grado di d’influire sugli affetti. Come
abbiamo appena visto, agire secondo ragione non altro è che fare ciò
che deriva dalla nostra natura in sé sola. Sappiamo anche che la tri­
stezza non può determinare alcuna azione che la ragione potrebbe de­
terminare, in quanto attesta sempre una diminuzione della nostra po­
tenza d’agire, ossia è contraria alla nostra natura in sé sola. Invece la
gioia «in tanto è buona, in quanto si accorda con la ragione (consiste
infatti in questo, che accresce, o coadiuva la potenza d’agire dell’uo­
mo)» (E4p59dem). Ergo, non c’è gioia maggiore di quella che deriva
da azioni in tutto conformi alla nostra natura in sé sola, cioè dalla ra­
gione. Ciò che per noi è meglio, ossia il vero utile, lo diciamo buono

113 In E4p37s2 Spinoza espone l’origine e la natura dello Stato, cf. Trattato teolo-
gico-politico, cap. 16 (G III: 189-200 [OS: 1003-1029]); Trattato politico, capp. 1-5 (G
III: 273-297 [OS: 1631-1671]); sugli influssi hobbesiani di questa teoria, cf. D. Bo-
STRENGHI (ed.), Hobbes e Spinoza. Scienza e politica, Bibliopolis, Napoli 1992; sulla natu­
ra politica della IV Parte dell’Etica, cf. S. JAMES, Freedom, slavery, and thè passions, in
KoiSTINEN (ed.), The Cambridge Companion to Spinoza’s Ethics, cit., 223-241.
L'Etica di Spinoza 137

nella misura in cui provoca gioia, ossia accresce la nostra potenza d’a­
gire, e siccome il desiderio (E3adl) «non è altro se non la stessa ten­
sione ad agire», la ragione è in grado di “innescare” il desiderio al pari
delle passioni, e persino indipendentemente da esse.
Ciò che fa la differenza tra la determinazione all’azione derivante
da una passione e quella derivante dalla ragione consiste nel fatto che
la passione (data la sua natura immaginativa) concerne per lo più una
parte del corpo (E4p44s), mentre la ragione (data la sua capacità di co­
gliere ciò che è comune) ha di mira l’utilità dell’uomo nella sua tota­
lità. Inoltre, mentre per ciò che deriva dall’immaginazione fa una gran
differenza se l’oggetto immaginato è passato, presente o futuro; invece
«Allorché la mente concepisce le cose secondo i dettami della ragione
ne viene presa allo stesso modo (.seque afficitur), sia che si tratti di idea
di cosa futura, o passata, o presente» (E4p62). Perciò, solo seguendo
la ragione possiamo trascurare un bene minore presente in vista di uno
maggiore futuro (es. il piacere di un cibo in vista della salute) o, persi­
no, accettare un «male minore in vista di un bene maggiore» (es. il do­
lore di una medicina in vista della guarigione) o, al contrario, «trala­
sciare un bene minore che è causa di un male maggiore» (E4p65c) e
così via. In altre parole, grazie alla ragione possiamo ambire a superare
le ristrettezze dell’immaginazione, le quali ci impediscono di esprime­
re appieno la nostra natura, ovverosia di essere liberi114.
Con le ultime sette proposizioni della IV Parte entriamo di fatto
già nel tema della V Parte: l’uomo libero; Yexemplar annunciato nella
prefazione. La più celebre di tali proposizioni - anche per il tono pole­
mico che assume nei confronti di una lunga tradizione filosofica115 - è
la seguente: «Un uomo libero a nulla pensa meno che alla morte: la sua
sapienza non è meditazione sulla morte, ma sulla vita» (E4p67). Infatti:
L’uomo libero, ossia colui che vive sotto i soli dettami della ragione, non
è guidato dalla paura della morte (E4p63), ma desidera direttamente il bene

114 «Se dunque si confrontano queste cose con quelle che abbiamo mostrato in
questa parte, fino alla proposizione 18, sulle forze degli affetti/moti dell’animo, vedremo
facilmente che differenza ci sia tra un uomo guidato dai soli affetti/moti dell’animo, ossia
dall’opinione, e un uomo guidato dalla ragione. Quello infatti, voglia o non voglia, fa co­
se di cui non sa nulla, mentre questo non obbedisce ad altri che a se stesso, e fa soltanto
quelle cose che sa essere le prime nella vita, e che perciò anzitutto desidera; pertanto
chiamo servo quello, e libero questo» (E4p66s [trad. modificata, sottolineature mie]).
115 All’origine di tale tradizione sta di certo il Fedone di Platone (cf. Phaed., 64a-
b); cf. il classico S. Z a c , L’idée de vie dans la philosophie de Spinoza, Presses Universitai­
res de France, Paris 1963.
138 Sistemi filosofici moderni

(E4p63c), ossia (E4p24), agire, vivere, conservare il proprio essere sulla base
della ricerca del proprio utile; e dunque a nulla pensa meno che alla morte, ma
la sua sapienza è meditazione sulla vita (E4p67dem).

Spinoza non intende esorcizzare la morte spingendoci a ignorarla


ovvero a non formarci alcuna idea di essa, bensì a non lasciarci guidare
dalla paura nei confronti di essa. La paura della morte non può che ge­
nerare tristezza, anzi è lo sfondo passionale della tristezza stessa e, dun­
que, di ogni diminuzione della potenza d’agire dell’uomo. Invece, l’uo­
mo libero non può che essere virtuoso, cioè capace di conseguire un
aumento della tensione alla conservazione del proprio essere (E4pl8s).
Ciò avviene nella misura in cui egli è capace di agire, ossia di essere egli
stesso causa adeguata di ciò che in lui o fuori di lui accade, ovvero è in
grado di intelligere in modo chiaro e distinto che qualcosa deriva solo
in base a tale causa (E3d2). Ma intendere in modo chiaro e distinto
non è che usare la ragione (E4p26). Quindi, vivere secondo la guida
della ragione significa essere virtuoso, cioè libero. Nel delineare ulte­
riormente i tratti dell’uomo libero, Spinoza riprende e sviluppa quegli
affetti-azione che aveva accennato nelle ultime proposizioni della III
Parte (E3p58-59): fermezza, gratitudine, affidabilità, amicizia.
La V Parte, che è di gran lunga la più breve ma non per questo
la più agevole dell’opera, ha la seguente struttura: inizia con un’ampia
prefazione, poi, a differenza di tutte le Parti precedenti non ha defini­
zioni, bensì solo 2 assiomi; seguono poi 42 proposizioni e, infine, nel­
l’ultimo scolio l’autore spende qualche riga a mo’ di conclusione. La
nomenclatura contenutistica della V Parte è, almeno programmatica­
mente, abbastanza netta. Nella prefazione Spinoza dichiara che gli og­
getti che intende trattare sono: (a) «quale sia il potere della ragione
stessa sugli affetti/moti dell’animo»; (b) «che cosa sia la libertà della
mente o beatitudine». Poi all’altezza dello scolio della proposizione 20
traccia egli stesso una cesura nello sviluppo dell’argomentazione, affer­
mando che finora (E5pl-20) ha trattato «tutti i rimedi agli affetti/moti
dell’animo, ossia tutto ciò che la mente, considerata in sé sola, può nei
loro confronti», e aggiunge che con questo egli ha detto quello che do­
veva dire «per quanto riguarda questa vita presente (prassentem hanc
vitam)». L’oggetto delle proposizioni rimanenti (E5p21-42) sarà quindi
il seguente: «E ora dunque di passare alle cose che attengono alla du­
rata della mente senza relazione col corpo», cioè, in simmetria col con­
tenuto precedente, ciò che concerne l’eternità della mente.
La V Parte è nota per essere indubbiamente la più ardua di un’o­
pera mediamente assai difficile come YEtica, al punto d’aver gettato
L'Etica di Spinoza 139

quasi nella disperazione più di un interprete116. Uno dei problemi mag­


giormente evidenti consiste nel fatto che, dopo esserci abituati con il
linguaggio altamente formalizzato delle Parti precedenti e con la reite­
rata avversione da parte dell’autore nei confronti di numerosi contenuti
dottrinali delle religioni (soprattutto giudaismo e cristianesimo), nell’ul­
tima Parte dell 'Etica troviamo una serie di temi e termini tipici del lin­
guaggio religioso: beatitudine, salvezza, amore di Dio e, persino, immor­
talità. La difficoltà risiede - a mio giudizio - nel leggere al di sotto di
questi termini “tradizionali” il loro significato del tutto formale e filoso­
fico. Spinoza ha introdotto questi termini volutamente, ma non per una
sorta di pentimento tardivo o di tentativo estremo di riallacciarsi al
mainstream della tradizione religiosa occidentale, bensì al contrario per
ricomprendere tutta questa tradizione all’interno del proprio pensiero.
L’operazione culturale - assai ambiziosa - tentata nell’E x non è tanto
quella di distruggere le religioni in se stesse, quanto piuttosto di far
emergere tutta la carica immaginativa e opinativa delle loro dottrine
(es. la concezione antropomorfica di Dio), per poterle così emendare e,
quindi, svelare il vero senso razionale in esse celato (cf. E2p47s). Per­
ciò, quando Spinoza parla, ad esempio, di beatitudine o di amore di
Dio, si tratta di termini che vanno compresi, tenendo sì presente il loro
significato tradizionale, ma per spogliarli di esso, attribuendogli il signi­
ficato formale che la ragione gli attribuisce117.
Le difficoltà maggiori della V Parte risiedono, tuttavia, nella se­
conda parte di essa, là dove Spinoza tratta dell’eternità della mente,
della scienza intuitiva e dell’^ o r Dei intellectualis o beatitudine. Il
grande salto rispetto alla trattazione precedente è certo quello di passa­

116 «In spite of many years of study, I stili do not feel that I understand this part
of thè Ethics at all adequately. I feel thè freedom to confess that, of course, because I al-
so believe that no one else understands it adequately either» (E. CURLEY, Behind thè
Geometrical Method. A Reading of Spinoza s Ethics, Princeton University Press, Prince­
ton 1988, 84).
117 «If God is conceived as traditionally minded Jews and Christians conceive
him, Spinoza denies his existence, and can legitimately be accused of atheism. Not of
idolatry; for he does not offer to his “G o d ” thè sort of worship that pagan polytheists
offered to theirs. Spinoza’s God, however, is more like thè Jewish and Christian one
than like those of paganism; and thè intellectual love Spinoza thinks due to his God,
while unlike monotheistic worship, has some analogy to it. Spinoza can legitimately
claim that his absolutely infinite being is sufficiently like thè Jewish and Christian God,
and thè attitude it would be rational to take to such a being sufficiently like worship, for
it to be proper to describe it as “G od”» (A. DONAGAN, Spinoza s Theology, in G arrett
(ed.), The Cambridge Companion to Spinoza, cit., 357).
140 Sistemi filosofici moderni

re dalla ragione all’intelletto. In questa progressione emerge anche più


chiaramente la strategia sottesa alla struttura complessiva delYEtica.
Come sappiamo, il Breve trattato su Dio, l'uomo e il suo bene (Korte
Verhandeling van God, de Mensch en deszelvs Welstand), era diviso in
due parti, la prima su Dio e la seconda sull’uomo, la quale comprende­
va anche la trattazione del bene/benessere cioè della felicità o perfezio­
ne dell’uomo. NdYEtica, la I Parte tratta Di Dio, stabilendo una onto­
logia generale a partire dalla causa unica e necessaria di tutte le cose; la
II Parte tratta Della natura e origine della mente, delineando di fatto
una ontologia speciale incentrata sull’uomo, quindi una antropologia e
una epistemologia; con la III Parte inizia di fatto il discorso etico, inte­
so come giustificazione filosofica della perfezione (bene/benessere, feli­
cità o beatitudine) di quell’ente speciale (res singularis) che è l’uomo.
Tale discorso si sviluppa in tre tappe successive, nelle quali è anzitutto
analizzata la natura radicalmente immaginativa dell’uomo, così come
essa emerge anzitutto nelle sue modificazioni psicosomatiche o affet­
ti/moti dell’animo (III Parte); poi è approfondito il confronto nell’uo­
mo tra la dimensione passiva degli affetti e il potere attivo della ragione
o virtù (IV Parte); infine si giunge a trattare della potenza dell’intelletto
nel liberare l’uomo, per quanto possibile, dalle ristrettezze della dimen­
sione immaginativo-affettiva. Uno schema può essere d’aiuto per visua­
lizzare sinteticamente la strategia spinoziana nella struttura dell’opera:
KV God Mensch Welstand
Ethica De Deo De Mente De Affectibus De Servitute De Libertate
Dio uomo immaginazione ragione intelletto

Questa strategia evidenzia, insieme, la linearità e la circolarità


del sistema. Come Spinoza stesso tiene a sottolineare in E2pl0cs, esi­
ste un solo ordine sistematico corretto (ordo philosophandi) quello che
si occupa in primo luogo [ante omnia) della natura di Dio e da questa
fa discendere necessariamente tutte le cose, tra cui l’uomo e conse­
guentemente l’immaginazione, ragione e intelletto dell’uomo. Tuttavia,
in questa dinamica discensiva, da Dio alle cose, all’uomo, si inserisce
una dinamica ascensiva, dall’immaginazione alla ragione, all’intelletto.
La seconda dinamica, che risponde alla questione etica del bene/be­
nessere o perfezione dell’uomo, non fa altro che comprendere l’uomo
in Dio o, meglio, delinea le condizioni dell’autocomprensione dell’uo­
mo in Dio. Questa autocomprensione, come sappiamo, non va da sé,
ma è tenacemente contrastata dall’immaginazione, la quale trascina
L'Etica di Spinoza 141

l’uomo a considerare le sue nozioni vaghe e casuali come una base va­
lida per giudicare se stesso, Dio e la natura delle cose. Di fronte alla
forza dell’immaginazione, espressa negli affetti, sta la potenza della ra­
gione, la quale è in grado di esercitare un’azione inibitrice e modera­
trice nei suoi confronti. Ciò, come abbiamo visto alla fine della IV Par­
te, è sufficiente a delineare i tratti dell’uomo libero e persino le basi
della sua convivenza civile. In un certo senso, l'Etica potrebbe termi­
nare lì. Invece Spinoza aggiunge un’altra Parte, nella quale dapprima
approfondisce il potere della ragione e poi lo oltrepassa. Tutto il pro­
blema mi sembra risiedere nel capire perché Spinoza non si sia accon­
tentato della ragione, ma abbia avvertito l’esigenza del suo superamen­
to nell’intelletto o scientia intuitiva.
Nella prefazione alla V Parte, Spinoza si dilunga in un’accesa cri­
tica nei confronti della tesi, sostenuta classicamente dagli stoici ma so­
prattutto recentemente da Descartes118, secondo la quale noi abbiamo
un «potere assoluto (imperium absolutum)» sugli affetti. Sembra stra­
no leggere una critica così netta dalla penna di un filosofo che appare,
in fondo, come uno che per larga parte ha riproposto i contenuti dello
stoicismo in una forma argomentativa cartesiana, eppure questa presa
di distanza dai suoi punti di riferimento massimi è funzionale all’affer­
mazione di un caposaldo irrinunciabile del suo sistema: il potere della
ragione nei confronti degli affetti è quello di «contenerli e moderarli
(icoèrcendum et moderandum)», mai di dominarli completamente.
La forma che assume la soluzione spinoziana alla questione del­
l’influsso degli affetti sulla nostra esistenza non è né quella di un domi­
nio assoluto (razionalismo), né quella di una resa assoluta (fatalismo),
bensì di un “governo” di essi, da perpetrare mediante una sorta di “te­
rapia” della mente, da attuare mediante la ragione119. Appare chiaro
allora che la critica a Descartes si spiega nel fatto che per Spinoza gli
affetti/moti dell’animo sono modi del pensiero, al pari delle altre idee
della mente, e non una specie di sottostruttura inferiore, perciò essi
non sono mai scindibili e dunque interamente determinabili da parte
della ragione. Un io assoluto, pura fonte di idee chiare e distinte, ovve­
ro una mente senza passioni, non può esistere.

118 Quasi tutta la prefazione è spesa a confutare la dottrina cartesiana dell’unione


tra mente e corpo mediante la ghiandola pineale; supra, 79-80.
119 Su questa concezione “terapeutica” della filosofia spinoziana, cf. BENNETT, A
Study of Spinozas Ethics, cit., 329-355; A. GARRETT, Meaning in Spinozas Method, Cam­
bridge University Press, Cambridge 2003; SCRIBANO, Guida alla lettura, cit., 146-157.
142 Sistemi filosofici moderni

Il summenzionato scolio della proposizione 20 non solo traccia


una cesura argomentativa nella V Parte, ma offre anche un utile rias­
sunto di quanto dimostrato nelle prime venti proposizioni. Spinoza sin­
tetizza cinque aspetti in cui consiste il potere sugli affetti/moti dell’ani­
mo da parte della mente «in sé sola», cioè in quanto capace di produr­
re idee adeguate, ovvero in quanto ragione: 1. (E5p3-4) la mente può
conoscere gli affetti/moti dell’animo, ovvero è capace di farsi un con­
cetto adeguato, chiaro e distinto, di essi, e quando ciò avviene una pas­
sione cessa di essere tale, giacché, come sappiamo da E3d2, patire si­
gnifica avere un’idea inadeguata di una modificazione (es. conoscere la
natura dell’odio mi rende attivo e non più solo passivo nei confronti di
esso); 2. (E5p2.4s) la mente può separare gli affetti/moti dell’animo dal
pensiero confuso della loro causa esterna, ovvero può togliere l’idea
immaginativa della causa esterna sostituendola con un’idea adeguata
(es. se odio Caio, la mente mi può spingere a ragionare sulla natura
stessa dell’odio, piuttosto che a pensare a cosa di Caio appare giustifi­
care il mio odio verso di lui); 3. (E5p7) la mente suscita affezioni che
durano di più rispetto a quelle immaginate confusamente, ossia suscita­
te da una causa esterna non presente (es. si dice “lontano dagli occhi,
lontano dal cuore”, ossia la fortuita presenza/assenza di una persona
amata aumenta/diminuisce in parte l’affetto d’amore, mentre le ragio­
ni per cui l’amore è preferibile all’odio sono a noi durevolmente pre­
senti); 4. (E5p9.11) le affezioni che si riferiscono alle proprietà comuni
delle cose, che solo la ragione comprende, sono alimentate da una
moltitudine di cause e dunque sono più forti (es. quando di fronte a
una disgrazia ragioniamo sull’insieme delle cause che l’hanno provoca­
ta e ancor più sulla loro necessità, ci sentiamo meno sopraffatti da es­
sa); 5. (E5pl0s.12-14) la mente può ordinare, cioè sistemare e concate­
nare fra loro gli affetti/moti dell’animo (es. se il mio senso di lealtà,
che mi induce a restituire ciò che mi viene prestato, è posto nella mia
mente all’interno di una serie concatenata di ragioni psicologiche, eco­
nomiche, sociali, morali ecc., qualora mi senta tentato di non restituire
qualcosa, tale affetto risulterà più debole).
Tutti questi aspetti del potere della ragione culminano nel fatto
che «La mente può far sì ipotesi) che tutte le affezioni del corpo, ossia
le immagini delle cose, siano riferite all’idea di Dio» (E5pl4)120. Infatti,

120 Cf. B e n n e t t , A Study of Spinoza s Ethics, cit., 337-347; NADLER, Spinozas


Ethics, cit., 249-256; M. LlN, The power of reason in Spinoza, in KoiSTINEN (ed.), The
Cambridge Companion to Spinozas Ethics, cit., 258-283.
L'Etica di Spinoza 143

quando la mente concepisce adeguatamente un’affezione o immagine


di una cosa (immaginazione) non fa che riferirla a ciò che in essa c’è di
comune con altre (ragione), il che si riferisce di per sé all’attributo del­
la sostanza di cui è espressione (intelletto). Ora:
Chi comprende sé e i propri affetti/moti dell’animo chiaramente e distin­
tamente prova gioia (E3p53), e ciò in concomitanza con l’idea di Dio {per la pro­
posizione precedente) e dunque (E3ad6) ama Dio, e {per la stessa ragione) tanto
più, quanto più comprende sé e i propri affetti/moti dell’animo (E5pl5dem).

Sappiamo che «L’amore è gioia accompagnata dall’idea di una


causa esterna» (E3ad6), tale gioia è suscitata dalla pura «presenza del­
la cosa amata», capace di colmare l’amante di un appagamento (Ac-
quiescientia), che è tanto più debole quanto più la cosa amata è insta­
bile e irraggiungibile, mentre è tanto più forte quanto più la cosa ama­
ta è immutabile e in nostro possesso121.

6. L’eternità della mente

Una volta stabilito compiutamente il potere della ragione sugli


affetti, Spinoza passa all’ultimo argomento della sua opera: «le cose
che attengono alla durata della mente senza relazione col corpo»
(E5p20s). Vista l’estrema complessità dell’argomento, vale la pena an­
zitutto sapere che numerosi interpreti negano risolutamente che Spi­
noza possa intendere qui qualcosa di analogo alla concezione giudai-
co-cristiana della immortalità dell’anima; altri, invece, sono convinti
che egli affermi l’immortalità personale; altri, infine, restano dell’opi­
nione che le dottrine finali della V Parte siano semplicemente incon­
sistenti122. Dobbiamo rilevare che, mentre Descartes aveva posto

121 «Quanto più questa conoscenza, che cioè le cose sono necessarie, verte intor­
no a cose singole che immaginiamo in maniera più distinta e più vivida, tanto maggiore
è questa potenza della mente sugli affetti/moti dell’animo, come pure attesta l’esperien­
za stessa. Vediamo infatti che la tristezza per la perdita di un bene si mitiga non appena
l’uomo che l’ha perduto capisce che non avrebbe potuto in alcun modo conservare quel
bene» (E5p6s).
122 «I don’t think that thè final three doctrines [The mind’s eternity; Intuitive
knowledge; The intellectual love of God] can be rescued. [...] After three centuries of
failure to profit from it, thè time has come to admit that this part of thè Ethics has noth-
ing to teach us and is pretty certainly worthless» (BENNETT, A Study of Spinoza s Ethics,
cit., 372). Per una posizione più moderata e che sa trarre profitto dalle fonti giudaiche,
cf. N a d le r , Spinoza s Heresy, cit., 94-156; Id., Eternity and immortality in Spinoza s
Ethics, in «Midwest Studies in Philosophy» 26 (2002), 224-244; altro interprete di riferi-
144 Sistemi filosofici moderni

Pimmortalità dell’anima (poi separazione dell’anima dal corpo) come


uno degli obiettivi basilari delle Meditazioni12^, Spinoza non fa alcuna
menzione esplicita di un simile argomento, anzi nomina l’immortalità
in un solo luogo: «vedendo che la mente non è eterna, o immortale
(Mentem non esse geternam, seu immortalem) [...]» (E5p41s)124. Si
tratta di un passaggio talmente incidentale da non essere in grado di
supportare alcuna solida argomentazione.
Per essere risolta - sempre che una soluzione sia possibile - la
questione deve essere affrontata sul terreno dell’eternità della mente.
Come abbiamo già sottolineato commentando la definizione di «eter­
nità» (Eld8) essa non ha a che fare con la durata o col tempo, bensì
sta su un altro piano, del tutto incommensurabile rispetto a essi: l’eter­
nità è l’esistenza derivante dalla sola definizione di una certa essenza.
Spinoza ribadisce questo concetto, «l’eternità non si può definire in
base al tempo, né può avere con il tempo alcuna relazione» (E5p23s),
ma immediatamente aggiunge una delle più sbalorditive e controverse
affermazioni dell'Etica: «Eppure, noi sentiamo ed esperimentiamo di
essere eterni (At nihilominus sentimus, experimurque, nos eeternos es­
se)». E non vi è dubbio che sentire e sperimentare sono operazioni che
avvengono nel tempo.
L’eternità della mente va considerata sotto due aspetti: estensio­
ne e pensiero125. In E5p20 Spinoza ci ricorda che ciò che costituisce
l’essere attuale della mente è l’idea di un corpo attualmente esistente
(E2p 11.13), perciò se il corpo cessa di esistere, anche tutto ciò che la
mente è e concepisce in relazione a esso cessa di esistere (es. l’immagi­
nazione, i ricordi). Ma subito aggiunge che «In Dio si dà tuttavia ne­
cessariamente l’idea che esprime sotto specie di eternità l’essenza di

mento della questione è A. MATHERON, Remarques sur l'immortalità de lam e chez Spin­
oza, in «Les Études Philosophiques» 3 (1972), 369-378 (trad. tedesca, in HAMPE-
SCHNEPF (edd.), Baruch de Spinoza. Ethik, cit., 297-307); I d ., La vie éternelle et le corps
selon Spinoza, in «Revue Philosophique de la France et de l’Étranger» 120 (1995), 229-
237; cf. anche R. SCHNEPF, Wer oder was ist unsterblich (wenn uberhaupt)? Spinozas The-
orie des ewigen Teils des endlichen Geistes, in «Archiv fùr Geschichte der Philosophie»
88 (2006), 189-215.
123 Supra, 21, 76-78.
124 II cap. 23 della II Parte del Breve trattato è dedicato a: «L ’immortalità della
mente (Van desZiels Onsterfelykheid)» (G I: 102 [OS: 323]).
125 Cf. N a d ler , Spinozas Ethics, cit., 259-272; D. GARBER, «A free man thinks of
nothing less than o f death». Spinoza on thè eternity o f mind, in C. MERCER (ed.), Early
Modem Philosophy. Mind, matter, and metaphysics, Oxford University Press, Oxford
2005,103-118.
L'Etica di Spinoza 145

questo e di quel corpo umano» (E5p22). Ogni corpo (non solo quello
umano) in quanto cosa finita ha una durata che può essere determina­
ta dalla sua interazione con le altre cose finite. Tuttavia, ogni corpo è
un certo modo dell’attributo dell’estensione e, direttamente in relazio­
ne a esso, possiede un’essenza che non sottosta alla durata temporale,
in quanto non dipende dalla sua interazione con le altre cose (es. que­
sto libro ha una sua figura e dimensione esprimibile da una pura for­
mula matematica che lo identifica come questa certa porzione dell’e­
stensione). Tale essenza è eterna e permette di considerare ogni corpo
sub specie seternitatis. Tale eternità appartiene anche al corpo umano e
perciò: «La mente umana non può essere assolutamente distrutta con
il corpo; ma di essa rimane qualcosa, che è eterno (aliquid remanet,
quod deternum est)» (E5p23).
Tuttavia in E5p39 Spinoza sostiene che «Chi ha un corpo capace
della più grande quantità di cose ha una mente la cui più gran parte è
eterna», infatti un corpo più attivo è un corpo le cui affezioni sono
maggiormente ordinate secondo l’ordine dell’intelletto, ossia si riferi­
scono maggiormente a Dio. Di conseguenza anche la mente possiederà
una parte eterna più grande. Nello scolio il filosofo aggiunge che col
passare dall’infanzia all’età adulta è possibile raggiungere una sempre
maggiore consapevolezza di sé, di Dio e delle cose e quindi “aumenta­
re” l’eternità della propria mente. Questa teoria, già sufficientemente
oscura in se stessa, sembra inoltre essere incompatibile con quella ap­
pena menzionata, giacché l’essenza di un corpo è qualcosa di stabile,
non certo ingrandibile o diminuibile. Allora, a che titolo Spinoza può
parlare di maggiore o minore eternità di una mente?
Per rispondere a questa domanda è indispensabile riprendere e
chiarire in cosa consista il terzo genere di conoscenza, intelletto o
scientia intuitiva. Infatti, «La tensione massima e la forza suprema del­
la Mente stanno nel comprendere le cose con il terzo genere di cono­
scenza [Summus Mentis conatus, summaque virtus est res intelligere ter-
tio cognitionis genere)» (E5p25). Come già sappiamo da E2p40s, per
Spinoza intelligere significa conoscere l’essenza delle cose relazionan­
dola direttamente con l’attributo di cui esse sono idea adeguata. Per­
ciò egli stabilisce questa importantissima distinzione:
Noi concepiamo le cose come attuali in due modi, in quanto le conce­
piamo o [a] come esistenti in relazione a un dato tempo e luogo (cum relatione
ad certum tempus, et locum esistere), o [b] come contenute in Dio e derivanti
dalla necessità della natura divina (ex naturae divinde necessitate consequi). Ora
quelle che sono concepite come vere, ossia reali, in questo secondo modo, le
146 Sistemi filosofici moderni

concepiamo sotto specie di eternità (sub getermtatis specie), e le loro idee im­
plicano l’eterna e infinita essenza di Dio (E5p29s).

C e (a) l’attualità spazio-temporale delle cose, cioè il come qui e


ora noi le percepiamo. E in questo senso che ad esempio un quotidia­
no o un telegiornale parla di “attualità”, sapendo che nell’arco di po­
che ore o anche minuti essa sarà sicuramente già cambiata. C’è poi (b)
l’attualità necessaria delle cose, in quanto esse seguono direttamente
da Dio. Questa attualità è invece immutabile ed eterna, in quanto
esprime l’essenza o natura stessa di Dio. Ora, (b) non può in alcun
modo derivare da (a), infatti, dai dati del tutto frammentari ed erratici
dell’immaginazione non può mai derivare qualcosa di immutabile e
necessario. Invece, la ragione, come dimostrato in E2p44c2, conosce
le cose come necessarie, cioè le comprende sotto specie di eternità. A
base di tale conoscenza stanno le nozioni comuni o idee adeguate delle
proprietà delle cose (es. che la somma degli angoli interni di un trian­
golo è pari a due retti). Perciò Spinoza sostiene che è solo dal secondo
genere di conoscenza che può sorgere il desiderio di conoscere le cose
secondo il terzo genere (E5p28). Questo, come sappiamo è conoscen­
za dell’essenza delle singole cose. Ma come Spinoza pretende che la
mente umana sia capace di una tale conoscenza?
Il problema è che le nozioni comuni della ragione «non spiegano
l’essenza di alcuna cosa singola» (E2p37; E2p44c2dem), ora - come
abbiamo appena visto - la mente conosce (a), mediante l’attualità tem­
porale del proprio corpo (E2p26); ma la ragione conosce anche (b);
ergo la mente non può non avere anche una conoscenza dell’essenza
del proprio corpo sotto specie di eternità. Ciò significa che essa cono­
sce l’essenza di una cosa singola, e quindi è capace di conoscenza di
terzo genere (E5p29dem). Tornando, perciò, alla questione della pos­
sibilità di aumentare l’eternità della propria mente, questa dovrà esse­
re collegata direttamente alla capacità della mente di formulare e pos­
sedere conoscenze di tipo (b), ossia idee adeguate dell’essenza delle
cose singole. Ogni volta che la nostra mente giunge in possesso di un’i­
dea adeguata, fruisce di un qualcosa di eterno. In altri termini, tanto
maggiore sarà il patrimonio di idee adeguate della nostra mente, tanto
più la nostra mente sarà eterna. Questo patrimonio di idee, in quanto
non è legato alla temporalità, sopravvive alla nostra morte126.

126 E bene notare che con la morte, svanendo il corpo, svanisce anche ogni co­
scienza, ricordo, dolore e fragilità. In tal senso, non si può dire che ciò che, secondo Spi­
noza, permane oltre la morte sia un qualcosa di personale. «An eternai mind looks like
L'Etica di Spinoza 147

Ebbene, adesso che abbiamo stabilito che la mente è eterna, ov­


vero che qualcosa di noi permane oltre la morte, cosa questo compor­
ta per la nostra perfezione, cioè libertà o beatitudine? Tutto e niente.
Da un lato, infatti, Spinoza chiarisce che «Anche se non sapessimo che
la nostra mente è eterna, terremmo comunque al primo posto la mora­
lità e la religione» (E5p41), ossia - come a suo tempo avevo notato - i
contenuti della IV Parte sono ben sufficienti a determinare la nostra
vita morale in generale, cioè a stabilire «quali siano le cose che secon­
do il dettato della ragione sono utili» (E5p41dem), a giustificare il po­
tere della ragione nel moderare gli affetti e a comporre un exemplar
dell’uomo libero. In tal senso, la conoscenza di terzo genere non è
qualcosa in più. Non è una conoscenza che viene ad aggiungersi alla
conoscenza razionale prescrivendoci nuove regole e scopi, bensì nul-
l’altro che l’essenza stessa di tale conoscenza. La beatitudine è «amore
verso Dio (Amor erga Deum)» (E5p42dem) e questo amore è «intellet­
tuale» nel senso che non amiamo Dio perché lo immaginiamo come
presente, ma solo e soltanto in quanto lo intendiamo «come causa
{tanquam causa)» (E5p32dem).

Bibliografia
Opere
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nothing but a body of knowledge that, after death, is permanently cut off from any kind
of consciousness (irrcluding access to earlier consciousness). There will thus be no con­
nection within consciousness between thè mind in duration and thè postmortem mind
sub specie aeternitatis, and consequently no abiding sense of personhood. For Spinoza,
what survives death is not a self» (N a d ler , Spinoza’s Ethics, cit., 271). Sebbene con esiti
diametralmente opposti, la posizione di Spinoza di fatto anticipa la teoria dell’identità
personale di Locke, cf. M. LlN, Memory and personal identity in Spinoza, in «Canadian
Journal of Philosophy» 35 (2005), 243-268; infra, 192-193.
148 Sistemi filosofici moderni

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Epistolae\ Compendium grammatices linguae Hebraeae].
1677 De Nagelate Schriften van B.d.S. Als Zedekunst, Staatkunde, Verbete-
ring van ’t Verstand, Brieven en Antwoorden. Uit verschetde Talen in
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blicazione annuale, on-line dal 2002: www.archivesdephilo.com].
Capitolo Terzo
IL SAGGIO DI LOCKE

Nel dicembre del 1689 è pubblicato a Londra An Essay concer-


ning Human Understanding. L’Epistola dedicatoria che apre il volume,
indirizzata a Thomas Herbert conte di Pembroke e Montgomery, allora
presidente della Royal Society, è firmata da John Locke (1632-1704).
I primi importanti scritti di Locke avevano visto la luce giusto
qualche mese prima: una Lettera sulla tolleranza, sotto pseudonimo, e
due importanti Trattati sul governo, anonimi. Il Saggio sull’intelletto
umano era quindi la prima pubblicazione autografa di un uomo ben
conosciuto in Inghilterra e non certo come filosofo, bensì per le sue
doti di medico e per aver ricoperto diversi prestigiosi incarichi politico
amministrativi. Un uomo che navigava oramai verso la soglia dei ses­
santanni. Frutto maturo, dunque, quasi tardivo del pensiero del suo
autore, il Saggio può essere legittimamente considerato l’opera di una
vita. La redazione di esso, dalla prima bozza fino alla quarta edizione
licenziata nel 1700, copre infatti un arco di quasi trent’anni1. Secondo
quanto Locke stesso rammenta, in modo alquanto elusivo, nelYEpisto-
la al lettore, gli eventi che occasionarono la stesura del Saggio furono i
seguenti: «incontrandosi a casa mia cinque o sei amici e discorrendo
riguardo a un argomento assai remoto da questo, ben presto essi si
trovarono a un punto morto per le difficoltà che sorsero da tutte le
parti». Dalla testimonianza autografa di uno dei partecipanti a quel­
l’incontro, che avvenne nella dimora londinese di Lord Ashley futuro
primo conte di Shaftesbury non più tardi del 1671, quella discussione
verteva «attorno ai principi della morale e della religione rivelata»2.

1 Sulla vicenda redazionale ed editoriale deli1Essay, cf. P.H. NlDDITCH, Intro-


duction, in J. LOCKE, An Essay concerning Human Understanding, edited with an intro-
duction, criticai apparatus and glossary by P.H. NlDDITCH, Clarendon Press, Oxford
1975, xii-xxxvii.
2 «about thè principles of morality and revealed religion», notazione autografa
sulla copia personale del Saggio di J. Tyrrell; per inquadrare l’incidenza di tali temi nel
pensiero di Locke, cf. M. SlNA, Linee di sviluppo della riflessione etico-religiosa lockiana,
in J. LOCKE, Scritti etico-religiosi, a cura di M. SlNA, Utet, Torino 2000, 9-62.
152 Sistemi filosofici moderni

Erano questi, notoriamente, alcuni dei problemi all’origine dei gravi


turbamenti della società inglese dell’epoca3. Quel ristretto circolo d’a­
mici continuò ad arrovellarsi per diverso tempo senza alcun frutto, fin­
ché Locke ebbe un’intuizione:
mi accorsi che avevamo intrapreso la strada sbagliata e che, prima di af­
frontare quel genere di ricerche, era necessario esaminare le nostre facoltà (Abi-
lities) e capire quali oggetti fossero o non fossero alla portata della nostra intel­
ligenza (what Objects our Understanding were, or were not fitted to deal with).

L’idea, immediatamente condivisa dagli altri membri, condusse


alla decisione che questa e non altra sarebbe stata la loro «prima ricerca
(first Enquiry)». Così, Locke giunge a fissare due punti basilari del Sag­
gio: (a) l’indagine verte sulle capacità stesse dell’intelligenza umana, per
verificare a quali problemi essa sia in grado di dare risposte e a quali
no; (b) una tale indagine non può che precedere ogni altra ricerca.
L’autore ci informa, poi, che egli cominciò ad annotare «alcuni
pensieri avventati e poco ponderati (Some hasty and indigested Thou-
ghts)» su questo nuovo e inconsueto argomento, i quali servirono da
spunto per le successive discussioni del circolo. Questi pensieri, inizial­
mente sparsi e separati, furono poi meglio composti, a seconda delle cir­
costanze, e finalmente ordinati in una forma compiuta, durante una «va­
canza solitaria». Al di là degli scarni dati con i quali Locke nell 'Epistola
tratteggia la storia della redazione del Saggio, sappiamo che egli, proba­
bilmente già nell’estate del 1671, mise mano a una prima bozza dell’ope­
ra (nota tra gli specialisti come Draft A) dedicata anzitutto alla questione
della conoscenza, ovvero a quanto diverrà oggetto soprattutto del Libro
IV del Saggio. Non molto tempo dopo, forse già nell’autunno dello stes­
so anno, egli stese una seconda bozza (Draft B) nella quale toccò in par-
ticolar modo i temi che saranno poi oggetto del Libro II del Saggio, ov­
vero le idee. A questa prima fervida fase redazionale seguirà una certa
stagnazione, finché un lungo soggiorno in Francia (1675-1679)4, darà fi­
nalmente al filosofo occasione di rimettere mano alla sua opera.

3 Cf. J.R. MlLTON, Locke s life and times, in V. CHAPPELL (ed.), The Cambridge
Companion to Locke, Cambridge University Press, Cambridge 1994,5-25.
4 Dalla corrispondenza e dal diario personale che Locke tenne assiduamente
durante la sua permanenza in Francia per motivi di salute (la «vacanza solitaria» menzio­
nata nella Epistola al lettore), sappiamo che egli s’interessò a diversi ambiti scientifici nei
quali era già versato in patria, particolarmente chimica e medicina, nonché alla filosofia e
fisica cartesiana, di cui egli lamentava lo scarso studio nella sua formazione a Oxford,
dove ci si basava in larga parte sulle opere di Aristotele, anzi, per lo più, su alcune sintesi
Il Saggio di Locke 153

Tuttavia, fu soprattutto durante il successivo periodo trascorso


come rifugiato politico in Olanda (1683-1689) che Locke «lavorò alla
composizione della sua opera, il Saggio sull'intelletto umano, che ter­
minò e di cui mi diede in lettura alcuni capitoli manoscritti»5, come te­
stimonia Jean Le Clerc. Costui, professore di storia ecclesiastica ed
ebraico nel seminario dei rimostranti di Amsterdam6, divenuto amico e
corrispondente di Locke, giocò un ruolo considerevole nella diffusione
del suo pensiero. Le Clerc era infatti riuscito a convincere il suo amico
d’oltremanica a comporre un’epitome del Saggio, che poi aveva tradot­
to in francese e pubblicato, nel 1688, nella giovane ma già assai diffusa
rivista Bibliothèque Universelle et Historique, di cui era direttore7. Que­
sta pubblicazione destò subito clamore nella République des Lettres,
rendendo il Saggio famoso ben prima della sua pubblicazione integrale
e diventando, a tutti gli effetti, una delle opere più lette di Locke8. Al

scolastiche di esse a opera di autori come P. Du Trieu S.I., M. Smigleckius S.I. o F. Bur-
gersdijk: «by Locke’s day none of thè works of early modern philosophers such as Ba­
con, Descartes, Hobbes, and Gassendi would have been included as texts» (G.A.J. Ro-
GERS, The intellectual setting and aims o f thè Essay, in L. NEWMAN [ed.], The Cambridge
Companion to Locke’s “Essay concerning Human Understanding , Cambridge University
Press, Cambridge 2007, 10); cf. anche J.R. MlLTON, Locke at Oxford, in G.A.J. ROGERS
(ed.), Locke s Philosophy. Content and Context, Clarendon Press, Oxford 1994, 29-47. In
Francia, lesse tra gli altri, B. PASCAL, Pensées (1670), approfondi la querelle sulle idee in­
tercorsa tra N. MALEBRANCHE, La recherche de la vérité (1674-1675) e A. ARNAULD, Des
vraies et des fausses idées (1683), ma soprattutto studiò a fondo l’approccio materialista
di Gassendi, tramite soprattutto F. BERNIER, Abrégé de la philosophie de Gassendi (1678);
cf. J.R. MlLTON, Locke and Gassendi. A Reappraisal, in M.A. STEWART (ed.), English Phi­
losophy in thè Age of Locke, Clarendon Press, Oxford 2000, 87-109.
5 Cf. J. L e C l er c , Éloge du feu Mr. Locke, in «Bibliothèque Choisie» 6 (1705),
342-411 (trad. it., Elogio [storico] del defunto signor Locke, in LOCKE, Scritti etico-religio-
si, cit., 733-777).
6 Locke, educato nella tradizione puritana della Chiesa d’Inghilterra, aveva
una solida formazione teologica e scritturistica. L’incontro con Le Clerc suscitò in lui
nuove riflessioni, soprattutto sulla questione dell’ispirazione e della rivelazione, alcune
di esse palpabili nel Libro IV del Saggio, di cui tratteremo alla fine del nostro Capitolo.
7 J. LOCKE, Estratto del Saggio sull’intelletto umano, in Id., Scritti etico-religio­
si, cit., 217-278; è questa la prima opera pubblicata da Locke, anche se di fatto compen­
diata da un’altra. Una traduzione inglese uscirà nel 1692, ma il manoscritto originale
verrà ritrovato e pubblicato solo più tardi da P. King, in appendice a The Life o f John
Locke, Colburn, London 1829, 362-398.
8 «Era infatti naturale che gli uomini di cultura del primo Settecento che non
erano filosofi di professione preferissero questa sintetica presentazione apparsa sulle pa­
gine della “Bibliothèque Universelle” [...] alle centinaia di pagine delle edizioni integra­
li in traduzione francese o latina» (M. SlNA, Nota introduttiva, in LOCKE, Scritti etico-re­
ligiosi, cit., 215). La traduzione francese integrale del Saggio, redatta da P. Coste e rivista
154 Sistemi filosofici moderni

termine di tale scritto, si invitavano tutti i lettori che ritenessero di «tro­


vare qualche passo in cui l’Autore sia caduto in errore, o qualcosa di
oscuro o di difettoso in questo sistema»9 a scrivergli. Le numerose os­
servazioni che immediatamente pervennero, alcune favorevoli altre
apertamente polemiche, aggiunte a quelle che suscitarono le edizioni
dell’opera completa, fecero sì che Locke continuasse a discutere, cor­
reggere e ampliare il Saggio, sino quasi alla fine dei suoi giorni.
Dopo la breve Epistola dedicatoria e YEpistola al lettore, che di
fatto svolge il ruolo di una prefazione, il Saggio è articolato in quattro
Libri. I titoli di essi si evincono dal primo e più sintetico dei due Som­
mari dell’opera:

I. O f Innate Notions
II. O f Ideas
III. OfWords
IV. OfKnowledge and Opinion

Vediamo in breve il loro contenuto. Nel Libro I, Locke inizia con


una polemica diretta contro coloro che ritengono che la mente umana
possieda nozioni innate, cioè principi o idee del tutto indipendenti dal­
l’esperienza e capaci di fondare la certezza conoscitiva e morale. Per­
tanto, il Libro II s’impegna a stabilire daccapo da dove vengano le no­
stre idee, quali diverse classi di idee esistano e in che modo esse venga­
no a costituire il materiale di cui la mente si serve. Nel Libro III, l’auto­
re esamina poi il ruolo del linguaggio, ovvero come l’uso e l’abuso delle
parole influisca sulla nostra comunicazione delle idee. Il Libro IV giun­
ge, finalmente, a distinguere le condizioni della conoscenza certa di
fronte a quelle del sapere solo presunto o probabile dell’opinione, il che
permetterà anche di tracciare i confini tra ragione e fede.
In base a questo rapido sguardo, sembra che il Saggio si occupi
infondo soltanto di un settore specifico della filosofia, ovverosia della
teoria della conoscenza, nei suoi materiali, forme e limiti. Il Saggio ap­
pare, così, assai lontano dall’essere un sistema filosofico completo. Per
di più, Locke si propone come un pensatore del tutto alieno all'ordre
des raisons di un Descartes e ancor più all 'ordo geometricus di uno
Spinoza10. E nota, infatti, la propensione del filosofo inglese verso la

da Locke stesso, uscì ad Amsterdam nel 1700; la traduzione latina, De intellectu huma-
no, di E. Burridge, venne pubblicata a Londra nel 1701.
9 L o c k e , Estratto del Saggio sull’intelletto umano, cit., 278.
10 «A reader might well wonder whether thè sequence of topics in thè Essay is
Il Saggio di Locke 155

mediocritas, ossia verso una concezione non scettica, ma in ogni caso


assai sobria e prudente delle nostre pretese conoscitive11. Di fronte ai
grandi sistemi filosofici e scientifici, che Locke nell 'Epistola al lettore
paragona a edifici maestosi progettati da grandi architetti, egli confes­
sa di accontentarsi di «essere impiegato come manovale (Under-Labou-
ter) al fine di sgomberare un poco il terreno e rimuovere parte dei de­
triti che ostacolano il percorso verso la conoscenza». Tuttavia, se noi
scorriamo un po’ più in dettaglio i contenuti del Saggio, ci accorgiamo
che esso, nell’indagare l’estensione e le capacità della nostra intelligen­
za, giunge a esaminare questioni quali: sostanza e modi, spazio e tem­
po, esistenza e identità; ma anche volontà, libertà, immortalità; e poi
linguaggio, comunicazione, verità, realtà, giudizi ecc. Inoltre, a molti
di questi temi sono più o meno direttamente collegate questioni di ca­
rattere morale, politico e religioso.
A ben vedere, dunque, Locke non ha affatto ristretto l’ambito
della filosofia a un solo settore di essa. La sua indagine su cosa sono e
da dove provengono i contenuti della nostra mente e in che modo,
poi, in base a essi formiamo i diversi modi di conoscere, altro non è
che un’indagine sui fondamenti della filosofia stessa, intesa come ricer­
ca della verità. Da questo punto di vista, il Saggio è un’opera che ha as­
sunto la sfida di rispondere, in modo estremamente ampio e articolato,
alla questione filosofica più ardua: qual è la natura stessa del filosofa­
re? Le risposte avanzate da Locke - come vedremo - saranno larga­
mente innovative, non solo nei contenuti ma anche nella forma esposi­
tiva. L’indice più evidente di tale novità è lo straordinario successo che
l’opera ha riscosso presso i suoi contemporanei, durante l’illuminismo
e oltre, sino ai nostri giorni12.

controlled by any rational or systematic pian at all, so loose and rambling and uneven
does Locke’s discussion sometimes seems. [...] But thè Essay does have a controlling
pian, one that, besides being coherent is quite highly structured» (V. CHAPPELL, Introduc-
tion, in V. CHAPPELL [ed.], Locke, Oxford University Press, Oxford-New York 1998,4).
11 «For thè whole of his life he [Locke] was quite sure that for large sections of
human enquiry thè outcomes could never be anything other than provisional. The state
of ‘mediocrity’ - a word Locke often uses - in which we find ourselves was for him cen­
trai to thè human condition, and with it carne a very clear view about thè fallibility of
thè human intellect. Certainty was possible, but only in rather small quantities and in
very particular areas of enquiry. [...] He was therefore interested in arguing from
known self-evident principles to conclusions known equally to be certainly true in only
three areas: mathematics, morals, and some few but important aspects of religion»
(R o g er s , The intellectual setting and aims o f thè Essay, cit., 14).
12 Sulla storia della recezione del Saggio, cf. M. SlNA, Introduzione a Locke,
156 Sistemi filosofici moderni

Il Saggio è —a mia conoscenza —l’unica opera della storia della filo­


sofia ad aver conosciuto, mentre l’autore era ancora in vita, un commen­
to letterale da parte di uno dei massimi pensatori contemporanei: Gott­
fried Wilhelm Leibniz (1646-1716). Sappiamo con certezza che Leibniz
lesse la prima edizione ddl’Essay non oltre il 1695, giungendo alla con­
vinzione che essa fosse «una delle più belle e stimate opere del nostro
tempo»13, ma rimanendo anche turbato dagli esiti teologici in essa impli­
cati14. Perciò, dopo un fallito tentativo di coinvolgere Locke in un con­
fronto diretto15, nell’estate del 1703 egli decise di comporre una replica,
punto per punto, alle tesi del Saggio. Nacquero così i Nouveaux essais sur
l’entendement humain, lo scritto più voluminoso e per certi versi comple­
to di Leibniz, redatto in forma di dialogo tra due personaggi immaginari,
Filalete (Locke) e Teofilo (Leibniz); un espediente letterario che permet­
teva di porre uno di fronte all’altro il pensiero del suo avversario e il pro­
prio. La stesura dei Nuovi saggi si protrasse fino al 1704 e, nonostante
l’opera fosse oramai completata, la sopraggiunta morte di Locke fece de­
sistere l’autore dalla sua pubblicazione. Il manoscritto venne ritrovato
dopo la morte di Leibniz nel 1716 e pubblicato solo nel 1765. Ma quella
di Leibniz non fu l’unica autorevole reazione al Saggio, possiamo infatti
considerare i Principles of Human Knowledge di George Berkeley (1685-
1753) come in larga parte elaborati in riferimento proprio al Saggio
lockeano16. Non solo i contenuti dell’opera mostrano un’attenta recezio­
ne critica della filosofia lockeana, bensì anche i quaderni di appunti ma­
noscritti di Berkeley attestano un confronto sviluppatosi attraverso una

Laterza, Roma-Bari 19992, 131-154; H. AARSLEFF, Locke’s influence, in CHAPPELL (ed.),


The Cambridge Companion, cit., 252-289; E.J. L ow e , Locke, Routledge, London-New
York 2005, 198-203.
13 G.W. LEIBNIZ, Sàmtliche Schriften und Briefe. VI. Philosophische Schriften. VI.
Nouveaux essais, ed. A. ROBINET - H. SCHEPERS, Akademie Verlag, Berlin 1962, 43 (trad.
it., Nuovi saggi sull’intelletto umano, a cura di S. CARIATI, Bompiani, Milano 2011, 71).
14 Come ha mostrato N. JOLLEY, Leibniz and Locke. A Study of thè New Essays
on Human Understanding, Clarendon Press, Oxford 1984.
15 Locke ignorò le Quelques remarques sur le livre de Mons. Locke intitulé “Es­
say of thè Understanding che Leibniz gli aveva fatto recapitare nel 1696. Perciò, nei
Nuovi saggi la posizione di Locke è presente solo sotto forma di citazioni, quasi letterali,
dalla traduzione francese delYEssay di Pierre Coste.
16 Titolo completo, G. BERKELEY, A Treatise concerning thè Principles of Human
Knowledge. Part I. Wherein thè chief Causes ofError and Difficidty in thè Sciences, ivith
thè Grounds of Scepticism, Atheism and Irreligion are inquird into, Rhames, Dublin 1710
(trad. it., Trattato sui principi della conoscenza umana, in Id., Opere filosofiche, a cura di
S. PARIGI, Utet, Torino 1996, 173-282); la Parte II non verrà mai terminata e l’opera ri­
marrà incompleta.
Il Saggio di Locke 157

lettura serrata del Saggio11. Alcune delle obiezioni sollevate da Leibniz e


da Berkeley nei confronti di Locke hanno fatto scuola, ponendosi quasi
come passaggio obbligato in una lettura critica del Saggio.
Se nessuno dopo Descartes è più riuscito a ripercorrere il solco di
un testo geniale come le Meditationes con il loro complesso apparato di
Obiezioni e risposte; e alcun pensatore di rilievo ha più preteso di adot­
tare pedissequamente lordine geometrico delYEthica spinoziana per
scrivere trattati di filosofia; al contrario, il Saggio di Locke è divenuto un
vero e proprio modello. Da Voltaire a Leibniz, da Hume a Kant, tutti ri­
masero attratti dallo stile schietto, concreto ed estremamente fruibile
della prosa lockeana. Quel suo rifiuto di ogni inutile tecnicismo filosofi-
co, così come di ogni ricercatezza aristocratica nel linguaggio furono in­
vidiati da molti in patria e al di là della Manica, anche se lì non fecero
necessariamente scuola - soprattutto in Germania - e portarono di fatto
i frutti maggiori molto più tardi, al di là dell’oceano. E solo con il Saggio
che finalmente si poteva dire che una certa scolastica, con il suo linguag­
gio astruso e le sue dispute verbose, si era veramente esaurita.
Locke era riuscito in un’impresa che Descartes aveva soltanto ab­
bozzato nel Discorso sul metodo, ossia trattare dei più complessi e rile­
vanti argomenti della filosofia in un linguaggio e in una forma che po­
tesse essere compresa da ogni persona dotata di buon senso. Così fa­
cendo, egli di fatto recuperava alla radice quel modus philosophandi che
era stato del maestro al quale tutta la scolastica si era principalmente
ispirata. Non solo quella tipica sobrietà nello stile, ma anzitutto il rifiu­
to di ogni platonizzante ipostatizzazione delle idee, l’ancoraggio all’e­
sperienza, l’attenta valorizzazione del linguaggio, la concezione dell’uo­
mo come animale parlante e politico, così come una più netta delimita­
zione tra filosofia e teologia, erano tutti elementi che facevano di Locke
il nuovo, moderno, Aristotele. Se si volesse ricercare, infatti, una pro­
spettiva sistematica che renda ragione della struttura complessiva del
Saggio, ritengo che la meno improbabile sia quella di evidenziare, nella
sequenza degli argomenti trattati nei suoi Libri principali, idee (II) - pa­
role (III) - proposizioni (IV), la sequenza delle opere che da più di un
millennio costituivano l’ABC del filosofare, Categoriae - De Interpreta-
tione - Analytica. In tal senso, il Saggio di Locke non farebbe altro che
riprendere e portare a compimento uno dei progetti che originariamen­
te hanno ispirato la filosofia moderna: dotarsi di un Novum organum.

17 Cf. R. McKlM, Berkeley s notebooky, in K.P. WlNKLER (ed.), The Cambridge


Companion to Berkeley, Cambridge University Press, Cambridge 2006, 63-93.
158 Sistemi filosofici moderni

COI Edizioni e traduzioni dell'JLssay

Dopo la prima edizione, uscita già nel dicembre del 1689, sebbene il
frontespizio riporti la data 1690, Locke stesso curò altre tre edizioni dell’Es­
say: la seconda uscì nel 1694 «with large Additions»; la terza, del 1695, ripor­
tava lo stesso testo della seconda; la quarta vide la luce nel 1700, anch’essa con
aggiunte (di queste modifiche Locke tiene nota nei paragrafi finali dell’Episto­
la al lettore aggiunti col succedersi delle edizioni). Una quinta edizione, postu­
ma, venne pubblicata nel 1706; una sesta nel 1710. Qualche anno dopo uscì la
prima edizione delle opere: The Works of John Locke Esq., 3 voli., London
1714. Di un secolo più tardi, The Works ofjohn Locke, 10 voli., London 1823,
è rimasta a lungo l’edizione di riferimento, fino a quando nel 1975 è iniziata la
Clarendon Edition of thè Works o f John Locke, a oggi non terminata e di cui
sono previsti 30 volumi. Il primo di essi è l’edizione storico-critica di An Essay
concerning Human Understanding edited with an introduction, criticai appa-
ratus and glossary by P.H. NlDDlTCH, Clarendon Press, Oxford 1975 (abbre­
viata con la sigla E). E è basata sulla quarta edizione originale dell’Essay, l’ulti­
ma licenziata in vita da Locke. Nel 1979, Nidditch ha curato una versione di E
emendata e alleggerita dellTntroduzione, del Glossario e di parte del materiale
editoriale, ma dotata di un’apposita breve Prefazione.
In italiano non esiste un’unica edizione completa delle opere di Locke,
abbiamo però tre traduzioni integrali dell9Essay. La più antica è quella di
C. Pellizzi, Saggio sull’intelligenza umana, 2 voli., Laterza, Roma-Bari 1951, ri­
vista da G. Farina nel 1988; di venti anni più tarda, Saggio sull’intelletto uma­
no, a cura di M. e N. ABBAGNANO, Utet, Torino 1971. La più recente, l’unica
ad avere il testo E a fronte (senza però riportarne la paginazione), è Saggio sul­
l’intelletto umano, traduzione e note di V. CICERO - M.G. D ’AMICO, Bompiani,
Milano 2004. Io citerò da quest’ultima edizione, mantenendo tuttavia corsivi e
maiuscoletti di E, e riservandomi di modificarne la traduzione, spesso troppo
libera rispetto all’originale.
Per il testo originale dell Essay io mi rifarò a E, nell’edizione del 1979.
Per le citazioni userò il metodo, comunemente adottato, d’indicare il numero
del Libro, del Capitolo e della sezione, in più aggiungerò anche la paginazione
E (solo quando indispensabile, indicherò anche i numeri delle righe, con una
virgola dopo il numero di pagina). Ad esempio, E II.xxi.56: 270, significa: pa­
gina 270 dell’edizione Nidditch, Sezione 56 del Capitolo xxi del Libro II del
Saggio.
Il Saggio di Locke 159

1. Tabula rasa
Il Libro I del Saggio, di gran lunga il più corto, comprende solo
quattro capitoli. Dopo una breve Introduzione, di fatto utile per l’in-
sieme dell’opera18, Locke nega l’esistenza di principi innati, sia specu­
lativi (E I.ii) che pratici (E I.iii), e infine, dopo aver associato l’innatez-
za dei principi a quella delle idee che li compongono, nega l’esistenza
di idee innate, come: identità, tutto, Dio (E I.iv).
Nell 'Introduzione Locke ci mette in mano alcune chiavi per apri­
re la sua opera. Anzitutto, egli suggerisce una metafora assai istruttiva:
«L’intelletto, come l’occhio, sebbene ci permetta di percepire tutto
quanto è intorno a noi, non si accorge di se stesso» (E I.i.l: 43). Per­
ciò, se vogliamo gettare lo sguardo nel “cono d’ombra” della nostra in­
telligenza, cioè comprendere come funziona la stessa facoltà di com­
prendere, dobbiamo usare un metodo indiretto. Ecco perché egli, po­
co sotto, sostiene che «basterà considerare le facoltà di discernimento
dell’uomo, così come sono impiegate (employd) relativamente agli og­
getti con cui sono in relazione» (E I.i.2). Locke preciserà più avanti
che il discernimento riguarda in generale quella capacità della mente di
«percepire in modo distinto» (E II.xi.1: 155) se due suoi oggetti sono
identici oppure differenti. Senza di essa non vi è conoscenza, né è pos­
sibile formulare giudizi. Dunque, scopo del Saggio sarà esaminare co­
me la mente concretamente usa la sua capacità di discernere.
Per fare ciò, Locke dice di volersi avvalere di un «metodo stori­
co e semplice (Historical, plain Method)» (E I.i.2: 43), ovverosia di de­
scrivere come la nostra intelligenza effettivamente giunga ad acquisire
le nozioni che ha delle cose. Egli decide di seguire sistematicamente
tre tappe (E I.i.3): 1. indagare Xorigine dei contenuti mentali che sap­
piamo di possedere; 2. mostrare i diversi generi di conoscenza ai quali
la mente perviene basandosi su quei contenuti; 3. esaminare i diversi
gradi di assenso della mente e, particolarmente, l’opinione, cioè l’as­
senso veritativo concesso a proposizioni per le quali non si ha certezza.
L’indagare da dove, come e sino a che punto si estende la nostra intelli­
genza ha anche un risvolto morale, nella misura in cui dovrebbe con­
durre a «imparare ad accontentarci» (E I.i.4: 45) di ciò che è alla por­
tata della nostra condizione umana, evitando con ciò pretese esagerate
e dannosi fanatismi.

18 Sin dalla traduzione francese di P. Coste, E Li era stato considerato l’introdu­


zione generale dell’opera, perciò in alcune edizioni la numerazione iniziava dal Capitolo
seguente.
160 Sistemi filosofici moderni

Da questa impostazione si potrebbe arguire che il Saggio abbia


solo una funzione negativa o limitativa e che tenda sotterraneamente
verso lo scetticismo, mortificando le nostre aspettative epistemiche.
Non a caso, Locke tiene subito a precisare, con un’eloquente metafo­
ra, che:
È di grande utilità al marinaio conoscere la lunghezza della sua fune,
sebbene con essa non possa scandagliare ed esaurire l’intera profondità dell’o­
ceano. È anche bene per lui sapere che è lunga a sufficienza per raggiungere il
fondo in quei luoghi necessari a dirigere il suo viaggio e a metterlo in guardia
dalla presenza di bassifondi che potrebbero rovinarlo (E I.i.6: 46).

I fisici che ai nostri giorni hanno appena festeggiato la straordi­


naria scoperta di una particella che dovrebbe essere il cosiddetto bo-
sone di Higgs, confessano che con tutta la nostra scienza arriviamo og­
gi forse a malapena a vedere il 4% dell’intero universo. Il restante
96%, composto da energia e materia “oscura”, ci è ignoto. A nulla va­
le scoraggiarci di fronte all’immensità di ciò che non sappiamo. Ciò
che più conta è conoscere esattamente in/con che misura sappiamo ciò
che sappiamo. Nel caso dell’astrofisico, la misura, cioè la «fune (Li­
ne)» con cui sonda l’universo, è un acceleratore di particelle (LHC) di
35 km. Nel caso del filosofo, si tratta di «scoprire le misure in base alle
quali una creatura razionale, posta nelle condizioni in cui si trova l’uo­
mo in questo mondo, può e deve regolare le sue opinioni e le azioni
che ne dipendono».
Nell’ultima Sezione deUTntroduzione, Locke sente il dovere di
chiarire, in modo preliminare, il termine chiave attorno al quale ruota
tutta la sua impresa:
la parola idea [...]. Credo sia questo il termine migliore per designare
ciò che è oggetto dell’intelletto quando un uomo pensa, l’ho dunque usato per
esprimere tutto ciò che può essere significato con phantasma, nozione, specie o
tutto ciò che può impegnare la mente quando pensa (E I.i.8: 47).

Non siamo qui affatto di fronte a una definizione preliminare


dell’essenza dell’idea - al modo di uno Spinoza - bensì Locke propo­
ne di «usare» la parola idea per designare ogni possibile contenuto
mentale, sia esso percepito o concepito19. Con questa posizione egli,

19 L’eccessiva vaghezza del termine idea in Locke è stata oggetto di numerose


critiche, dalle prime reazioni al Saggio sino ai nostri giorni, cf. V. CHAPPELL, Locke s
theory of ideas, in CHAPPELL (ed.), The Cambridge Companion, cit., 26-55. Sulla difficoltà
Il Saggio di Locke 161

inoltre, si distanzia massimamente dalla concezione platonica dell’i­


dea, per allinearsi con il significato già in uso con Descartes20. Ma pri­
ma di passare a un’analisi tassonomica delle idee, che occuperà di fatto
tutto l’imponente Libro II, egli ritiene di dover anzitutto sgomberare il
campo da un possibile equivoco di fondo: la convinzione che esistano
nozioni innate, cioè proposizioni o concetti inscritti nella struttura
stessa della mente21.
Chi sono coloro che ritengono che esistano nozioni innate, detti
anche innatisti? Diversi pensatori possono essere finiti nel mirino di
Locke. I più immediati avversari sembrano essere stati i cosiddetti Pla­
tonici di Cambridge22 nonché alcuni esponenti della Chiesa anglicana
e, sullo sfondo, certamente Descartes23. In ogni caso, Locke non nomi­
na esplicitamente nessuno di essi24. Infatti, è sufficientemente noto che
la maggior parte dei filosofi, sin dall’antichità, ha ammesso in vario
modo l’esistenza di principi che si sottraggono a ogni dimostrazione
(es. il principio d’identità, o il principio di non-contraddizione
[E I.ii.4]) i quali, pertanto, devono essere ascritti alla struttura stessa
del pensiero. Secondo Locke, tutti costoro presuppongono l’esistenza
di «impressioni costanti che l’anima degli uomini riceve agli albori del­
la sua esistenza» (E I.ii.2: 49); ovvio qui il riferimento a Platone e alla
sua teoria della reminescenza. Di contro, Locke fa notare che i grandi
progressi della scienza a lui contemporanea (es. Boyle, Newton, Huy-
gens) erano avvenuti grazie all’applicazione dell’osservazione e del me­
todo sperimentale, e non certo in base alla deduzione da qualche prin­
cipio speculativo.

d’intendere l’idea allo stesso tempo come percetto e come concetto (es. E II.viii.8: 134), cf.
E.J. Lowe, Locke on Human Understanding, Roudedge, London-New York 1995, 15-33.
Per un quadro complessivo della questione, cf. M. AYERS, Locke. Epistemology and Onto-
logy, 2 voli., Roudedge, London-New York 1991,1, 13-77.
20 Supra, 43.
21 Nel Libro I Locke critica anzitutto i principi innati e secondariamente le idee
innate che li compongono. Per inquadrare gli argomenti di Locke contro l’innatismo, cf.
S.C. RlCKLESS, Locke s polemic against nativism, in NEWMAN (ed.), The Cambridge Com­
panion, cit., 33-66.
22 Tra questi, soprattutto H. More sosteneva che l’uomo possiede una nozione
di Dio e delle verità eterne innata.
23 Supra, 24.
24 L’unico a essere nominato (E I.iii.15: 77) è E. Herbert di Cherbury, autore del
De Ventate. Prout distinguitur a Revelatione, a Verisimili, a Possibili, et a Falso (1624), ove
afferma che l’uomo sin dalla nascita abbia ricevuto da Dio delle verità fondamentali sotto
forma di xoival svvoiai (cf. E I.ii.l: 48) cioè «notizie comuni» (Locke traduce primary
Notions), quali: l’esistenza di Dio, la necessità della devozione verso Dio ecc.
162 Sistemi filosofici moderni

L’innatismo di ordine teoretico trovava, poi, ampio favore anche


in ambito pratico, giacché la convinzione che alcune norme eccedesse­
ro la capacità degli uomini di costruirle o contrattarle da se stessi, po­
neva le basi dell’ordine morale e sociale in una sfera trascendente - o
come oggi si suol dire “non negoziabile” - senza la quale si temeva di
precipitare in un destabilizzante relativismo. Di contro, Locke sottoli­
nea il risvolto problematico inesorabilmente associato a tale posizione.
Non ci vuole molto a capire che la pretesa di stabilire principi o valori
che si sottraggono a ogni dibattito pubblico corre il rischio di porre
coloro che sanciscono e custodiscono tali principi in una posizione in­
toccabile, di estremo e incontrollabile potere, grazie al quale possono
mettere a tacere tutti gli altri. La storia è colma di abusi di questo tipo.
Tuttavia, nonostante le comprensibili motivazioni, interne ed
esterne al suo progetto, che spingevano Locke a rigettare l’innatismo, i
suoi argomenti non appaiono del tutto convincenti. Dato che i propu­
gnatori dell’innatismo sostengono l’esistenza di impressioni originarie
nell’anima, il filosofo ne deduce che gli innatisti siano tutti convinti
che gli uomini debbano esprimere quelle impressioni originarie in una
serie «principi sia teoretici che pratici accettati dal genere umano»
(E I.ii.2: 49), ovvero principi che godano di quello che si suole chia­
mare consenso universale1^. Posto ciò, è gioco facile per Locke negare
l’esistenza di un effettivo consenso universale su tali principi26. Il pun­
to è che un innatismo di questo genere non sembra essere stato profes­
sato da alcun filosofo, degno di questo nome. Come molti commenta­
tori hanno messo in luce - Leibniz per primo27 - Locke pretende di ri­
durre ogni forma di innatismo potenziale a un innatismo attuale. Ma,
persino il principe degli innatisti, Platone, era ben consapevole che le

25 Sulle fallacie degli argomenti di Locke contro l’innatismo, cf. LOWE, Locke
on Human Understanding, cit., 22-25.
26 «Innanzitutto è evidente che tutti i bambini e gli idioti [ignoranti] non hanno
la benché minima percezione o comprensione di tali principi, e questa mancanza è suffi­
ciente a distruggere quel consenso universale che dovrebbe essere il dato concomitante
e necessario di tutte le verità innate» (E I.ii.5: 49).
27 «[Teofilo] Concludo che un consenso molto generale fra gli uomini è un in­
dizio e non una dimostrazione di un principio innato, ma che la prova esatta e decisiva
di questi principi consiste nel far vedere che la loro certezza non viene se non da ciò che
è in noi. [...] Così si impiegano queste massime senza considerarle espressamente: pres­
sappoco come quando si hanno virtualmente nella mente le proposizioni soppresse negli
entimemi, proposizioni che si lasciano in disparte non solo nella comunicazione diretta
all’esterno, ma anche nel nostro pensiero» (LEIBNIZ, Nouveaux Essais, cit., 1.1, 76 [trad.
it., cit., 147]).
Il Saggio di Locke 163

idee impresse nell’anima non sono attualmente evidenti, bensì solo po­
tenzialmente evidenziabili; non a caso esse devono essere riattualizzate
mediante la reminiscenza. Uno dei passi più celebri lo troviamo nel
Menone, laddove Socrate riesce a condurre uno schiavetto, privo di
ogni istruzione, alla dimostrazione di un teorema di geometria28.
Locke sembra aver ben presente quel testo di Platone e dirigere il suo
attacco proprio contro di esso (E I.ii.5). Eppure, tutto quello che rie­
sce a controbattere è che a lui «sembra quasi contraddittorio (seeming
to me near a Contradiction) affermare che ci sono verità impresse nel­
l’anima che però questa non percepisce» (E I.ii.5: 49). Con ciò egli ar­
guisce di fatto un’identità tra idea e contenuto mentale conscio; ovve­
ro, presuppone già come valido il proprio concetto di idea.
Per Locke, infatti, le idee sono sempre legate alla coscienza im­
mediata: quando la mente smette di percepirle, esse smettono di esi­
stere. A proposito di memoria/reminiscenza, più avanti dirà: «le no­
stre idee non sono nient’altro che percezioni realmente presenti nella
mente, che perdono ogni genere di consistenza non appena si dilegua
la percezione che di esse abbiamo» (E II.x.2: 150). La memoria possie­
de delle idee, solo nella misura in cui «ha il potere di ravvivare le per­
cezioni, che una volta ha avuto nella mente, con in più la consapevo­
lezza di aver già avuto in precedenza quel genere di percezioni»29. Per­
tanto, non solo dobbiamo già almeno una volta essere stati consci di
qualcosa per poterla riportare alla mente, ma, soprattutto, se nella no­
stra mente ci fosse di per sé impressa una qualche idea, questa non po­
trebbe non esprimersi generando un consenso universale su di sé.
Di fronte alle fin troppo evidenti fragilità argomentative del Libro
I sono state ipotizzate diverse giustificazioni. L’assenza della trattazione
sulle idee innate nei diversi Drafts ha fatto ipotizzare che Locke abbia
aggiunto il Libro I per non scoraggiare il grande pubblico dalla lettura
del Saggio, offrendo così una sorta d’introduzione, scritta in un linguag­
gio più popolare e con una funzione, per così dire, pedagogica30. Altri
hanno, d’altronde, sottolineato come il vero bersaglio polemico sotteso a
tutta l’argomentazione siano in verità i principi pratici, e pertanto la
confutazione di quelli speculativi sia a ciò indirettamente funzionale31.

28 Cf. Meno, 84-85.


29 Cf. anche E I.iv.20: 96-98; E IV.i.8:527-528.
30 Cf. M. PARMENTIER, Introduction à /'Essai sur l’entendement humain de
Locke, Presses Universitaires de France, Paris 1999, 11-12.
31 Cf. J.W. YOLTON, John Locke and thè Way ofldeas, Clarendon Press, Oxford
1956, 26-48.
164 Sistemi filosofici moderni

Più interessante, però, sembra essere una terza ipotesi, ossia che il Li­
bro I apra una grande questione di fondo, che in realtà il Saggio nel
suo insieme s’incarica di affrontare32. Tale questione è lapidariamente
espressa da Locke all’inizio d él’Estratto, laddove, dovendo riassumere
il contenuto del Libro I, tutto ciò che ha da dire su di esso è che: «Ho
cercato innanzi tutto, in queste mie considerazioni sul nostro intellet­
to, di provare che il nostro spirito all’inizio è ciò che si suol chiamare
una tabula rasa»33. Qui la posizione di Locke suona come un presup­
posto, contrario all’opinione di molti filosofi, ma che l’evidenza sem­
bra invece confermare, grazie soprattutto all’assenza del consenso uni­
versale. Presupposto che, in realtà, funziona come una vera e propria
ipotesi di partenza, consistente in un determinato modo di concepire
in generale la natura dell’intelligenza umana34. Ipotesi che solo il Sag­
gio, nel suo complesso, potrà adeguatamente verificare e corroborare
come quella che meglio di ogni altra giustifica la nostra conoscenza.

2. Idee
Il Libro II, di gran lunga il più ampio e articolato dell’intero Sag­
gio, è suddiviso in 33 Capitoli, alcuni di essi brevi, altri estesi persino a
una settantina di sezioni. Per Locke le idee, oggetto del Libro II, sono
gli elementi (materials) basilari della nostra intelligenza. Esse possono
sia originare che combinarsi tra di loro in diverse maniere. Dell 'origine
delle idee Locke tratta in E ILi; delle idee semplici in E Il.ii-xi; delle
idee complesse in E Il.xii-xxviii; nei capitoli rimanenti, E Il.xxix-
xxxiii, aggiunge altre considerazioni concernenti le idee.

2.1. Origine delle idee


All’inizio del Libro II, Locke ribadisce immediatamente la sua
ipotesi di partenza:
Supponiamo allora che la mente sia, come abbiamo detto, un foglio

32 Cf. RlCKLESS, Locke s polemic against nativism, cit., 65-66.


33 LOCKE, Estratto del Saggio sull’intelletto umano, cit., 217. Replica Leibniz:
«Perché le conoscenze, le idee o le verità esistano nella nostra mente, non è necessario
che vi abbiamo mai pensato attualmente: esse non sono che abitudini naturali, vale a di­
re disposizioni e attitudini attive e passive, e più che una tabula rasa» (LEIBNIZ, Noti-
veaux Essaisycit., 1.3, 106 [trad. it., cit., 225]).
34 Cf. M. ATHERTON, Locke and thè issue over innateness, in CHAPPELL (ed.),
Locke, cit., 48-59.
Il Saggio di Locke 165

bianco, privo di ogni carattere, senza alcun idea. In che modo giunge a esserne
fornita? [...] Da dove ha ricavato tutti gli elementi della ragione e della cono­
scenza? Rispondo con una sola parola: dall 'esperienza. In ciò tutta la nostra
conoscenza è fondata; e da ciò ultimamente essa stessa deriva (E II.i.2: 104).

Analizzandola in dettaglio, essa significa: (a) non soltanto una


parte o un certo aspetto, bensì tutta la sfera intellettuale, conoscenza e
ragione; (b) non divina o di un qualche intelletto infinito, bensì nostra
cioè umana; (c) non consiste in, è o si riduce a, bensì deriva; (d) non
immediatamente o direttamente, bensì ultimamente; (e) esperien­
za. In altre parole, tutto ciò che pensiamo, affermiamo con certezza o
anche solo riteniamo come probabile, deve in qualche modo riferirsi
in ultima istanza all’esperienza. Ma cosa significa esperienza?
La nostra osservazione applicata o agli oggetti esterni e sensibili, o alle
operazioni interne della nostra mente, di cui abbiamo percezione e su cui noi stes­
si riflettiamo, è ciò che fornisce al nostro intelletto tutti gli elementi del pensiero.

L’esperienza, genericamente intesa come base dalla quale ultima­


mente deriva ogni nostra conoscenza o pensiero, comprende di fatto
due fonti distinte: (a) l’osservazione di ciò che è esterno, detta sensa­
zione; e (b) l’osservazione di ciò che è interno alla mente, detta rifles­
sione. Ogni materiale, che il pensiero può usare per le sue costruzioni,
deve provenire, in ultima istanza, da una di queste due fonti o da en­
trambe35. Perché? Come giustificazione, Locke ci propone di compie­
re questo semplice esperimento basato sulla certezza introspettiva
(strici vieto): «Che ognuno esamini i propri pensieri e ricerchi accura­
tamente nella sua intelligenza, e poi mi dica se tutte le idee originali
che lì possiede siano qualcos’altro dagli oggetti dei suoi sensi o dalle
operazioni della sua mente, considerate come oggetti della sua rifles­
sione» (E II.i.5: 106). Queste due fonti, che si distinguono per il tipo
di dati a cui si rivolgono, in quanto questi possono essere esterni o in­
terni rispetto alla mente che osserva, hanno in comune di essere en­
trambe osservazioni di dati. Il verbo osservare è uno dei più usati nel
Saggio, in linea con la metafora antichissima dell’intelligenza come

35 «Queste due sono le fonti della conoscenza, dalle quali scaturiscono tutte le
idee {all thè Ideas) in nostro possesso o che naturalmente possiamo avere» (E II.i.2: 104).
Dicendo «naturalmente», Locke non esclude che alcune idee soprannaturali, come i con­
tenuti della rivelazione, possano presentarsi a noi, cf. E IV.xviii.2-3; «The possibility of
God’s producing ideas directly in us is not, I think, ruled out by Locke’s attack on innate
ideas nor by his censure of enthusiasm» (M. BOLTON, The taxonomy of ideas in Locke s
Essay, in NEWMAN [ed.], The Cambridge Companion, cit., 72).
166 Sistemi filosofici moderni

visione, suggerita immediatamente all’inizio dell’opera (E I.i.l) e con


l’attenzione per i fenomeni tipica della scienza sperimentale; di esso va
colto soprattutto il lato passivo (E II.i.25), che lo fa preferire al più ge­
nerico vedere: si dice, infatti, non solo osservare un oggetto, cioè guar­
dare con attenzione e cura, conservando ogni dettaglio; bensì anche os­
servare una norma, nel senso di obbedire.
Sensazione non è altro che un nome generico che identifica l’ori­
gine di tutti i dati forniti dai sensi: «Questa importante fonte della
maggior parte delle idee che abbiamo, in totale dipendenza dai nostri
sensi, e che attraverso di essi discendono fino all’intelletto, la chiamo
SENSAZIONE» (E II.i.3: 105). Sono i cinque sensi, dunque, a incanalare,
a convogliare nella mente e poi verso l’intelletto le impressioni sensibi­
li, ossia le modificazioni patite dai sensi a causa di particolari oggetti
sensibili36; come ad esempio: «le nostre idee del giallo, del bianco, del
caldo, del freddo, del morbido, del duro, dell 'amaro». Tutte queste idee,
in quanto tali, non sono né vere né false, sono solo dati (E Il.xxxii).
Perché si possa parlare di verità o falsità è necessario che tali idee ven­
gano affermate o negate in una proposizione, ma di questo si occuperà
il Libro IV, dedicato appunto alla conoscenza e all’opinione, obiettivi
precipui del Saggio. Tutti gli esempi qui offerti da Locke identificano
singole qualità sensibili di cose particolari. Di una fragola, ad esempio,
possiamo percepire: rosso, lucido, morbido, dolce, ecc.; a seconda del
senso interessato: vista, tatto, gusto ecc. Ciascuna di queste idee di
sensazione è relativa alle capacità sensoriali proprie del percipiente (es.
un daltonico potrebbe non distinguere il colore del corpo della fragola
da quello della sua foglia).
Con riflessione Locke identifica l’origine delle percezioni che la
nostra mente ha delle operazioni, cioè dei processi che avvengono in
essa quando si applica alle idee che ha ricevuto: «quando [la mente]
volge il proprio sguardo entro se stessa e osserva le proprie azioni cir­
ca quelle idee che possiede, trae da ciò altre idee che tanto possono es­
sere oggetto della sua contemplazione quanto quelle che ha ricevuto
dalle cose esterne» (E II.vi.1: 127). Tali riflessioni forniscono all’intel­
letto un nuovo materiale che la sensazione non sarebbe in alcun modo
in grado di fornire, come ad esempio: «le idee di percepire, pensare,

36 «.sensazione; è quella tale impressione o affezione {Impression or Motion), cau­


sata in qualche parte del corpo, in quanto produce una qualche percezione nell’intelletto»
(E II.i.23: 117). Nella psicologia cognitiva odierna tali qualità sensibili sono anche dette
qualia, cf. E. WRIGHT (ed.), The Case for Qualia, MIT Press, Cambridge (MA) 2008.
Il Saggio di Locke 167

dubitare, credere, ragionare, conoscere, volere e tutte le diverse azioni


della nostra mente» (E II.i.4: 105)37. Nonostante Locke sostenga che il
materiale fornito dalla riflessione non è meno «distinto» di quello for­
nito dalla sensazione, volendo così porre queste due fonti su un mede­
simo livello, di fatto, notando che la «maggior parte» delle idee deriva
dalla sensazione, concede una certa preminenza a questa.
Alla fine di E II.i.4, Locke precisa quanto ha detto finora, allor­
ché scrive:
ribadisco che le cose materiali ed esterne, in quanto oggetto della sensa­
zione, e le operazioni che si svolgono all’interno della nostra mente, in quanto
oggetto di riflessione, sono le due sole fonti d’origine da cui tutte le nostre
idee traggono impulso a emergere (take their beginnings).

Qui, chiaramente, non sono né la sensazione né la riflessione a


essere propriamente le fonti delle idee, bensì gli oggetti esterni e le
operazioni interne. Ma allora, qual è la vera fonte delle idee? e, soprat­
tutto, percepiamo le idee o percepiamo le cose? Per poter rispondere
adeguatamente a questa domanda dobbiamo prima di tutto risolvere
una questione ancor più fondamentale: cosa sono le idee?
In E II.viii.8, una delle sezioni più note e commentate del Saggio,
Locke scrive:
Chiamo idea qualunque cosa la mente percepisca in se stessa, o l’ogget­
to immediato della percezione, del pensiero o dell’intelletto, e il potere di pro­
durre una qualunque idea nella nostra mente, lo chiamo qualità del soggetto in
cui risiede tale potere (E II.viii.8: 134).

Una cosa come, ad esempio, una «palla di neve», ha il potere di


produrre nella nostra mente diverse idee: bianco, tondo, freddo ecc.
L’autore precisa ulteriormente: «chiamo qualità i poteri di produrre
quelle idee in noi, così come sono presenti nella palla di neve; e, in
quanto sono sensazioni o percezioni nel nostro intelletto, le chiamo
idee». Quanto qui sostenuto viene, comunemente, interpretato come
se le idee siano delle vere e proprie entità mentali, cioè oggetti nel sen­
so di cose o simil-cose che stanno nella mente e che essa percepisce e
pensa in vario modo. Tali oggetti sarebbero poi le immagini o copie di
sé che la realtà esterna imprime nella mente, mediante l’azione causale
{power) che le qualità dei soggetti esterni, le cose, sono in grado di

37 «Le due azioni più importanti e principali proprie della mente [...] sono:
percezione o pensare e volizione o volere» (E II.vi.2: 128).
168 Sistemi filosofici moderni

esercitare nei confronti della mente38. Secondo questo modello inter­


pretativo della teoria della percezione in Locke - oramai divenuto
standard - ogni determinata idea (es. ‘palla’, ‘albero’, ‘cane’) che la
mente percepisce rappresenta ovvero è un surrogato che sta per un cer­
to oggetto (es. questa palla, quell’albero, il mio cane)39.
Questa posizione strettamente “rappresentazionistica” (nel senso
letterale per cui le idee stanno per gli oggetti nella misura in cui li pre­
sentano in loro vece) è anche comunemente definita realismo indiretto.
Esso ha suscitato, da sempre, notevoli critiche, quali il rischio di cadere
in un regresso all’infinito (realtà, immagine della realtà, immagine del­
l’immagine della realtà ecc.) o quello di rimanere intrappolati dietro un
veil of ideas, con la conseguenza di cadere in una posizione scettica ver­
so la realtà. Tuttavia, la questione - fa notare E.J. Lowe - è anzitutto di
carattere ontologico e sembra ridursi infondo alla seguente: il realismo
indiretto considera le idee come oggetti, cioè entità a sé stanti ossia
“cose” capaci di stabilire una genuina relazione con la mente che le
“possiede”, «Ora, le cose capaci di stare in una genuina relazione con
un’altra sono normalmente - in verità, piuttosto sempre e necessaria­
mente - logicamente indipendenti una dall’altra, nel senso che potreb­
bero comunque, logicamente (se non proprio naturalmente), esistere in
assenza dell’altra»40. Ma non ha alcun senso ritenere che l’idea apparte­
nente a un certo soggetto possa esistere indipendentemente o in assenza
di esso. Perciò, «c’è qualcosa di gravemente errato nel realismo indiretto
e nella sua “reificazione” delle idee come cose di un particolare tipo»41.

38 Sebbene Locke sin dall’inizio (E I.i.2) dichiari di non voler occuparsi della
componente fisiologica della mente (come invece aveva fatto Descartes, supra, 79-80),
egli compie di fatto una digressione fisica su come le qualità producano in noi le idee in
E ILviii. 11-21. Tale descrizione di come i corpuscoli agiscono sui nostri sensi sta alla ba­
se dell’interpretazione “letterale” delle idee come copie/immagini delle cose, classica-
mente proposta da T. Reid e, più recentemente, assunta da H. PUTNAM, Keason, Tmth,
and History, Cambridge University Press, Cambridge, 1981, 57-58; nonché da Ay ers ,
Locke, cit., I, 63-65.
39 Per un’approfondita analisi della questione della rappresentazione nel Saggio,
cf. M. LENNON, Locke on ideas and vepresentation, in NEWMAN (ed.), The Cambridge
Companion, cit., 233-257.
40 «Now , things that can stand in a genuine relationship to one another are nor-
mally - indeed, perhaps always and necessarily - logically independent of one another,
in thè sense that either could, logically (even if not naturally), exist in thè absence of thè
other» (LOWE, Locke on Human Understanding, cit., 41 [trad. mia]).
41 «there is something seriously wrong with thè indirect realist’s “reification” of
ideas as things of a peculiar sort» (LOWE, Locke on Human Understanding, cit., 42 [trad.
mia]).
Il Saggio di Locke 169

Ebbene, qual è la posizione di Locke a questo proposito?


Come sopra abbiamo letto, nelle righe conclusive di E II.i.4
Locke sostiene che le cose materiali esterne e le operazioni che accado­
no all’interno della mente sono le vere e proprie entità da cui ogni idea
di sensazione o di riflessione prende inizio. Sembra da escludere, per­
tanto, che le idee siano ciò che la mente esperisce, esse devono essere
piuttosto ciò mediante cui la mente fa esperienza del mondo. Secondo
l’interpretazione “awerbialista” che Lowe attribuisce a Locke, le idee
sono «i modi o le maniere in cui i soggetti che fanno esperienza sono
sensibilmente affetti dagli oggetti percepibili come tavoli o pietre»42.
Ad esempio, nella mia percezione della palla di neve, io sento ‘fredda­
mente’, ‘biancamente’ ecc. la palla, in quanto essa causa appropriata-
mente in me tali modi di percepirla. D’altro canto, un altro autorevole
interprete, M. Ayers, propende per un’interpretazione molto più ipo­
statica od “oggettuale” delle idee lockeane e, tuttavia, nel commentare
il succitato esempio della palla di neve in E II.viii.8, fa notare che «ciò
che è prodotto in noi dai poteri o qualità in questione sono quei poteri
e qualità stesse “in quanto sono ... nel nostro intelletto”, nel cui status
vengono chiamati “idee”: in altre parole, le idee sono gli oggetti inten­
zionali prodotti nella mente dagli oggetti reali»43. Ora - a mio modo di
vedere - proprio l’intenzionalità non smentisce ma, semmai, ribadisce
lo status non-ipostatico ed essenzialmente relazionale delle idee, come
idee di qualcosa e non come entità a se stanti44.
Il ruolo che l’intenzionalità gioca già a livello delle idee è ulte­
riormente confermato dal noto problema di Molyneux45, che Locke

42 «thè modes or manners in which experiencing subjects are sensibly affected


by perceptible objects like tables and rocks» (LOWE, Locke on Human Understanding,
cit., 45 [trad. mia]); Lowe assume una interpretazione classicamente avanzata, in contra­
sto con T. Reid, da J.W. YOLTON, Locke and thè Compass of Human Understanding. A
Selective Commentary on thè “Essay", Cambridge University Press, Cambridge 1970; cf.
CHAPPELL, Locke s theory of ideas, cit., 31-35. Sulle teorie awerbialiste della percezione,
cf. es. R. AUDI, Epistemology. A Contemporary Introduction to thè Theory o f Knowledge,
Routledge, New York-Abingdon 20113, 47-51.
43 «what are produced in us by thè powers and qualities in question are those
powers or qualities themselves “as they are ... in our Understanding” [E II.viii.8: 134],
in which status they are called “ideas”: in other words, ideas are thè intentional objects
produced in thè mind by reai objects» (Ay er s , Locke, cit., I, 58 [trad. mia]).
44 Cf. anche J.L. M a CKIE, Locke and representative perception, in CHAPPELL
(ed.), Locke, cit., 60-68.
45 William Molyneux scrisse Dioptrica Nova (1692), considerato il primo tratta­
to di ottica in inglese; cf. J.M. VIENNE, Locke et l’intentionnalité: le prohlème de Moly­
neux, in «Archives de Philosophie» 55 (1992), 661-684; M. LlEVERS, The Molyneux Pro-
170 Sistemi filosofici moderni

esamina in E II.ix.8. Il filosofo parte dalla constatazione che nelle per­


sone adulte, cioè già ampiamente fornite d’esperienza, «le idee che de­
rivano dalla sensazione sono spesso alterate dal giudizio, senza che ce ne
rendiamo conto» (E II.ix.8: 145). Pendiamo, ad esempio, la visione di
un globo di colore uniforme. Ciò che un tale oggetto imprime nella
mente è l’idea di un «cerchio piatto variamente ombreggiato», ossia di
una macchia di colore bidimensionale che si staglia sullo sfondo, dota­
ta al suo interno di una variazione gradiente di macchie monocolore
sempre più scure. Ora, nota Locke:
essendo stati abituati dalla consuetudine a percepire (having hy use been
accustomed to perceive) quale specie d’immagine i corpi convessi sono soliti
produrre in noi, quali modificazioni si producono nei riflessi della luce a se­
conda delle diverse conformazioni dei corpi, immediatamente il giudizio, per
un’abitudine consolidata, trasforma le apparenze sensibili nelle loro cause (<al-
ters thè Appearances into their Causes).

Così, il giudizio implicitamente altera la visione di una figura


composta di una macchia monocolore gradiente nella percezione di
una figura convessa dotata di colore uniforme. Ossia il giudizio tende
automaticamente a passare da come un oggetto appare in verità (.Ap­
pearances) a ciò che presume essere in verità (Causes)46. Tutto ciò, solo
grazie all’esperienza. A conferma di ciò, Locke cita il problema di
Molyneux: supponiamo che un adulto, cieco dalla nascita, sappia di­
stinguere mediante il tatto un cubo da una sfera di pari dimensioni, se
costui improvvisamente acquistasse la vista, sarebbe in grado solo me­
diante essa di riconoscere il cubo e la sfera? No, secondo Molyneux47.
E Locke concorda pienamente: «quest’uomo cieco, dopo la prima oc-

blem, in «Journal of thè History of Philosophy» 30 (1992), 399-416; M. BOLTON, The


reai Molyneux question and thè basis of Locke’s answer, in ROGERS (ed.), Locke’s Philo­
sophy, cit., 75-100.
46 Del giudizio Locke tratta nel Libro IV, infra, 211-212.
47 Sì, secondo Leibniz: «[Teofilo] mi sembra indubitabile che il cieco che cessa
di esser tale possa discernerli mediante i principi della ragione, congiunti a quella cono­
scenza sensibile che il tatto gli ha fornito precedentemente [...]. Il fondamento della
mia opinione è che nella sfera non esistono punti che si differenziano, tutto essendovi
unito e senza angoli, mentre nel cubo ci sono otto punti distinti da tutti gli altri» (LEIB­
NIZ, Nouveaux essais, cit., II.9, 137 [trad. it., cit., 303-305]). In linea con la risposta ne­
gativa di Locke si schiererà invece G. Berkeley, che scriverà An Essay Towards a New
Theory of Vision (1709) in larga parte proprio per rispondere al problema di Molyneux,
cf. M. DEGENAAR, Molyneux’s Problem. Three Centuries of Discussion on thè Perception
ofForms, Kluwer, Dordrecht 1996.
Il Saggio di Locke 171

chiata, non sarebbe in grado di dire con sicurezza quale dei due oggetti
sia la sfera e quale il cubo» (E II.ix.8: 146). Notiamo bene i termini:
«dopo la prima occhiata {at first sight) [...] in grado di dire con sicu­
rezza (with certainty)». Lo stato primitivo, quasi di tabula rasa, in cui
verrebbe a trovarsi un cieco che ipoteticamente riacquistasse la vista,
non gli consente di incrociare e sommare adeguatamente due diversi
dati d’esperienza, visione e tatto. Solo l’abitudine, acquisita mediante
la ripetizione e verifica di diverse esperienze, permette di giudicare a
colpo d’occhio e con sicurezza che una certa sensazione immediata­
mente presente (es. vista) coinvolge una al momento assente (es. tatto),
la cui somma consente un giudizio migliore e più completo della realtà.

2.2. Tassonomia delle idee


Una volta stabilita l’origine delle idee, a partire dal Capitolo ii -
con un’indagine che di fatto occuperà quasi tutto il Libro II - Locke
inizia ad articolare la tassonomia delle idee, cioè il modo in cui i mate­
riali di cui è fornito l’intelletto sono divisi e ordinati. La tassonomia
generale delle idee si evince, abbastanza chiaramente, dal Sommario
dell’opera, e può essere ridotta ai seguenti punti essenziali:
• Idee semplici
- di Sensazione
- di Riflessione
• Idee complesse
- Modi
* semplici
* misti
- Sostanze
- Relazioni

La teoria che esistano diversi tipi di idee, le quali possono com­


binarsi tra di loro per formare nuove idee, appartiene di fatto già alla
tradizione moderna (es. Descartes, Arnauld e Nicole). Secondo Locke,
le idee semplici si distinguono dalle complesse in base a questo unico
elementare criterio: «ciascuna è per se stessa incomposta e non contie­
ne in sé altro che una uniforme apparenza o concezione nella mente, e
non è distinguibile in differenti idee» (E Il.ii.l: 119). Al di sotto di
questa - apparentemente banale - definizione delle idee semplici e,
corrispondentemente, delle composte, soggiace una ben più importan­
te tesi, che rappresenta il vero discrimine tra le due classi di idee: la
natura stessa delle idee semplici richiede che esse debbano ineludibil­
172 Sistemi filosofici moderni

mente derivare da sensazione o da riflessione: «Queste idee semplici,


che sono il materiale di tutta la nostra conoscenza, sono proposte e
fornite alla mente solo in quei due modi precedentemente descritti, os­
sia sensazione e riflessione» (E II.ii.2: 119)48.
Le idee composte, al contrario, vengono formate a partire dalle
idee semplici, e non sono vincolate che a questa origine: «Una volta
che l’intelletto è provvisto (.stored) di quelle idee semplici, esso ha il
potere di riprodurle, confrontarle e associarle perfino con una varietà
quasi infinita, e può così creare (make) a suo piacimento nuove idee
complesse». Tutto ciò, infondo, non è che un modo di ribadire - anco­
ra una volta - la non esistenza di idee innate. Le idee semplici, non po­
tendo di per sé essere prodotte da alcun processo compositivo, né
comparativo, né associativo ecc., non possono essere che date
(E II.i.25). Ora esistono due uniche fonti di datità possibile, secondo
Locke, datità esterna, ossia sensazione, e datità interna, ossia riflessio­
ne. Da questo punto di vista, non è tanto la atomicità a definire le idee
semplici, quanto piuttosto la loro intrinseca e indisponibile datità. Di
contro, ciò che viene a identificare le idee complesse, non è tanto la lo­
ro natura compositiva, quanto piuttosto il fatto di essere prodotte dalla
mente, sulla base del materiale che le viene fornito49.
Le idee semplici sono ulteriormente classificate da Locke in base
alla loro origine: dalla sensazione (E Il.iii-v), dalla riflessione (E II.vi) o
da entrambe (E II.vii). Ci sono infatti idee come, ad esempio, rosso,
giallo, dolce, amaro, che derivano da oggetti esterni tramite un solo
senso; altre, come figura, moto, estensione, derivano da vista e tatto,
cioè da più di un senso contemporaneamente; sul versante della rifles­
sione, ad esempio, pensare, volere, derivano da riflessioni su specifiche
operazioni della mente; infine, idee come piacere, dolore, gioia, potere,
esistenza, unità, derivano insieme da sensazione e riflessione. Una più
dettagliata articolazione dello schema precedente può esserci d’aiuto50:

48 In E II.ii.2, Locke aggiunge che l’uomo non ha il potere né di creare, né di


annientare una sola idea semplice, e questo potere è analogo a quanto egli può nell’ordi­
ne fisico delle cose, cioè - come diremmo oggi - nulla si crea e nulla si distrugge, ma
tutto si trasforma. M.A. Stewart ha letto in questa visione di Locke uno sviluppo gno­
seologico delle tesi della fisica di R. Boyle, cf. Locke s mental atomism and thè classifica-
tion o f ideas: I and II, in «Locke Newsletter» 10 (1979), 53-82; 11 (1980), 25-62.
49 Sulla critica alla concezione atomica delle idee semplici e sui vari problemi
annessi alla non sempre chiara distinzione rispetto alle idee complesse, cf. BOLTON, The
taxonomy of ideas in Locke s Essay, cit., 72-78.
50 Ripreso e adattato da CHAPPELL, Introduction, cit., 8.
Il Saggio di Locke 173

• Idee semplici
- di Sensazione
* da un senso
* vista colori (es. rosso, blu)
* udito suoni (es. campana, fischio)
* gusto sapori (es. ananas, amaro)
* odorato odori (es. rosa, cannella)
* tatto stimoli tattili (es. caldo, ruvido)
* da più di un senso spazio, figura, moto
- di Riflessione percezione/pensiero, volizione/volere
- di Sensazione e Riflessione piacere/dolore, esistenza, unità,
potere

A partire da E Il.ix, cioè subito dopo il brano - sopra analizzato -


in cui venivano distinte idee e qualità, Locke differenzia ulteriormente
le qualità in primarie e secondarie. A partire dal Saggio, questa distin­
zione diverrà di dominio generale, anche se è bene notare che essa era
già in uso nella scienza moderna, da quando le teorie corpuscolaristi-
che avevano preso il sopravvento sulTilemorfismo aristotelico, ossia al­
meno da Galileo Galilei, per giungere fino Robert Boyle51. Il grande
merito di Locke è stato quello di aver unito un’ipotesi scientifica, cioè
la teoria corpuscolaristica, alla percezione comune di cui ogni persona
di buon senso è dotata52. In tal modo, il filosofo vuole farci avvertire
tutta la distanza che separa il realismo ingenuo, in base al quale siamo
spontaneamente portati a credere che ciò che percepiamo appartenga
alla realtà stessa, dal realismo scientifico, in base al quale distinguiamo
in modo critico le percezioni che non sono propriamente reali da quel­
le che lo sono necessariamente:
Di conseguenza le qualità considerate proprie dei corpi sono di due ge­
neri. In primo luogo quelle che sono assolutamente inseparabili dal corpo, in
qualunque stato esso sia. [...] Chiamo queste le qualità originarie o primarie del

51 Cf. G . GALILEI, Il Saggiatore [1623], in Id., Opere, 21 voli., Ed. Nazionale,


Firenze 1890-1909, VI, 347-348; R. BOYLE, The Origin of Forms and Qualities, according
to thè Corpuscular Philosophy [1666], in The Works of Robert Boy le, ed. E. H unter -
E.B. DAVIS, 14 voli., Pickering & Chatto, London 1999-2000, V, 302 (trad. it., Opere,
Utet, Torino 1977, 318-319); cf. P. ALEXANDER, Ideas, Qualities and Corpuscles. Locke
and Boyle on thè External World, Cambridge University Press, Cambridge 1985; per un
quadro più generale, cf. L. NOLAN (ed.), Primary and Secondary Qualities. The Historical
and Ongoing Debate, Oxford University Press, Oxford 2011.
52 Cf. E. M cC an n , Locke s philosophy of body, in CHAPPELL (ed.), The Cambrid­
ge Companion, cit., 56-88; M. JACOVIDES, Locke s distinctions between primary and se­
condary qualities, in NEWMAN (ed.), The Cambridge Companion, cit., 101-129.
174 Sistemi filosofici moderni

corpo, le quali, penso, possiamo osservare produrre in noi idee semplici, es. so­
lidità, estensione, figura, movimento o riposo e numero. [...] In secondo luogo,
quelle qualità che in verità non sono nulla nei corpi stessi, ma poteri di produr­
re in noi varie sensazioni a partire dalle loro qualità primarie, cioè dalla grandez­
za, figura, struttura e movimento delle loro particelle impercettibili, come colo­
ri, suoni, sapori ecc. Queste chiamo qualità secondarie (E II.viii.9-10: 134-135).

Questa posizione ha, notoriamente, sollevato diverse critiche53.


Come possiamo noi avere esperienza delle qualità primarie? I colori, i
suoni certamente noi li sentiamo, ma le qualità che producono questi
suoni e colori, come possiamo percepirle? Locke, infatti, non solo dice
che il senso costantemente «scopre (finds) in ogni particella di mate­
ria» le qualità primarie, purché quella particella sia abbastanza grande
da essere percepita; ma pure che «la mente le scopre (finds) insepara­
bili da ogni particella di materia, anche quando sia troppo piccola per
poter essere di per sé percepita dai nostri sensi nella sua singolarità».
La inseparabilità delle qualità primarie dai corpi non è, dunque, un’e­
videnza empiricamente sensibile. E allora, come è giustificabile? Locke
ci propone il seguente esperimento: prendiamo un chicco di grano, il
quale ha una determinata estensione, figura, solidità e mobilità; divi­
diamolo in due parti, ciascuna di esse avrà ancora una determinata
estensione, figura ecc., dividiamo ancora e ancora; alla fine, anche se
non saremo più in grado di percepire sensibilmente le particelle mate­
riali, sapremo però con certezza che esse non possono non avere una
qualche estensione, figura ecc., perché la divisione «non può mai (can
never) eliminare da un corpo né solidità, né estensione», né alcun altra
qualità primaria. Questo esperimento assomiglia a quegli esperimenti
ideali - oggi detti thought experiments - che Galilei propone talvolta di
fare54; il che la dice lunga sul preteso “empirismo”55 di Locke, che, in­

53 Una delle immediate e più vigorose critiche sferrate contro la distinzione


lockeana tra qualità primarie e secondarie è, notoriamente, quella di G. Berkeley nel
Treatise concerning thè Principles o f Human Knowledge, 1.10; cf. A.L. DAVIDSON - N.
HORNSTEIN, The Primary/Secondary Quality Distinction. Berkeley, Locke, and thè Foun-
dations of Corpuscularian Science, in «Dialogue» 23 (1984), 281-303.
54 Assai fam oso quello del naviglio, cf. G . GALILEI, Dialogo sopra i due massimi
sistemi del mondo [1632], in Id., Opere, cit., VII, 212-214.
55 Contro termini come “empirista” e “razionalista”, in genere utilizzati dalla
manualistica per catalogare le due tipologie principali di filosofi moderni, mi sembra as­
sai sensato quanto scrive E.J. Lowe: «this terminology has now begun to fall into disre-
pute, for thè very good reason that it serves to mask quite as many similarities and dif-
ferences as it serves to highlight. On all sorts of specific issues, it is possible to find an
“empiricist” philosopher like Locke agreeing more with a “rationalist” philosopher like
Il Saggio di Locke 175

teso secondo il senso assai ristretto del termine supposto da molti in­
terpreti, renderebbe semplicemente assurde affermazioni come quelle
appena lette, ossia che le qualità secondarie empiricamente sensibili,
es. colori, suoni ecc., «in truth are nothing in Objects», mentre le qua­
lità primarie sono inseparabili dai corpi anche quando sono impercetti­
bili. A ben vedere, la stessa distinzione tra qualità primarie e seconda­
rie non è ammissibile nei confini di una “radicale” posizione empiri­
sta56. Ma il problema non è affatto capire se e come la filosofia di
Locke rimanga coerente con un concetto di empirismo formulato indi­
pendentemente da essa. Il problema è piuttosto capire che la filosofia
di Locke è già da sempre al di là degli angusti confini in cui un certo
concetto o, meglio, preconcetto di empirismo vorrebbe confinarla.
Vale la pena ribadire, nel modo più chiaro possibile, che l’intento
di Locke non è stato quello di fondare l’empirismo, bensì indagare «ori­
gine, certezza ed estensione della conoscenza umana», cioè capire in che
modo la nostra intelligenza si fa strada nel mondo e ci consente di agire
in esso. Ora, se per empirismo intendiamo che la mente debba ultima­
mente fare riferimento all’esperienza, ossia alle fonti dalle quali derivano
i materiali che essa possiede ed elabora, ebbene anche la distinzione tra
qualità primarie e secondarie sembra rispondere a tale criterio. Di fatto,
il succitato esperimento del «chicco di grano» si basa anzitutto sulla per­
cezione empirica che quel piccolo corpo possiede una determinata gran­
dezza, figura ecc. Quanto, in base a ciò, viene poi inferito o dedotto, se­
gue un processo razionale - di fatto analogico - in base al quale giungia­
mo ad arguire che anche le più infinitesimali e insensibili divisioni di tale
corpo dovranno ancora possedere una qualche grandezza, figura, ecc.
Queste non sono attualmente determinate, bensì determinabili e, in ogni
caso, non separabili, giacché, per Locke, un corpo senza grandezza né
figura ecc. non è più semplicemente un corpo57. Di contro, le qualità se-

Descartes than he does with another philosopher who is supposedly a fellow “empiri-
cist”» (LOWE, Locke on Human Understanding, cit., 12); cf. anche L. KRUGER, War John
Locke ein Empirist?, in U. THIEL (ed.), John Locke. Essay uber den menschlichen Ver-
stand, Akademie Verlag, Berlin 20082, 65-88; L.E. Loeb giunge a ritenere che tali termi­
ni abbiano falsato il nostro modo di comprendere la filosofia moderna, cf. From Descar­
tes to Hume. Continental Metaphysics and thè Developement o f modem Philosophy, Cor­
nell University Press, Ithaca 1981.
56 Cf. B. KlENZLE, Vrimare und Sekundàre Qualitàten, in THIEL (ed.), John
Locke. Essay, cit., 115-117.
57 «it is thè determinables of these properties, and not thè particular determina-
tes, that are inseparable from bodies» (McCANN, Locke’s philosophy o f body, cit., 62); cf.
E IV.iii.25.
176 Sistemi filosofici moderni

condarie debbono essere considerate alla stregua di pure e semplici di­


sposizioni che nei corpi sono capaci di produrre nella nostra sensibilità
determinate impressioni, ma non certamente come qualità intrinseca­
mente appartenenti a tali corpi (es. questa mela non “è” propriamente
rossa, infatti quel certo colore che io percepisco appartiene solo a me in
quanto percipiente, mentre alla mela in quanto tale appartengono deter­
minate qualità che la dispongono a percepirla come rossa)58. E per que­
sto che Locke può sostenere che «le idee di qualità primarie dei corpi so­
no rassomiglianze di esse e le loro strutture esistono realmente nei corpi
stessi; ma le idee, prodotte in noi da queste qualità secondarie, non hanno
alcuna rassomiglianza con esse» (E II.viii.15: 137)59.

2.3. Potere
In E Il.xii Locke giunge a trattare delle idee complesse e, dopo
averle distinte in tre tipi principali, modi, sostanze, relazioni
(E II.xii.3), le passa in rassegna con tutti i loro relativi sottotipi, ossia i
modi semplici, composti sia di certe idee semplici di sensazione, come
spazio, tempo, infinità ecc. (E II.xiii—xviii), che di riflessione, come
sensazione, ricordo, contemplazione ecc. (E ILxix); i modi misti
(E Il.xxii), le sostanze singole (E ILxxiii) e collettive (E Il.xxiv); infine
le relazioni, come causalità, identità ecc. (E Il.xxv-xxviii). Possiamo, a
questo punto, completare il dettaglio dello schema precedente così:
• Idee complesse
- Modi
* Modi semplici distanze, durate, numeri
* Modi misti obbligo, ubriachezza, bugia
- Sostanze corpi individui, spiriti finiti, Dio
- Relazioni causalità, identità, rettitudine morale

In mezzo a questa trattazione, Locke inserisce quella che sembra


una pura e semplice digressione, ma che in realtà è molto di più. Infat­
ti, con il Capitolo xx, dedicato alle idee semplici di piacere e di dolore

58 Lowe propone di riportare la distinzione lockeana a quella odierna tra cate-


gorical properties, appartenenti all’oggetto in quanto tale, e dispositional properties, cioè
poteri che un oggetto ha d ’influire in un certo modo su altri oggetti, come ad esempio la
nostra capacità senziente: «A categorical property is one which is precisely not a mere
power to affect properties of other objects in certain ways and it seems clear that there
must be at least some such properties» (Lo^E, Locke, cit., 51).
59 Questa importantissima tesi è dettagliatamente esaminata da J. CAMPBELL,
Locke on qualities, in CHAPPELL (ed.), Locke, cit., 69-85.
Il Saggio di Locke 111

e ai modi di esse cioè le passioni (amore, odio, desiderio, gioia, speran­


za, paura ecc.), e soprattutto con il successivo Capitolo xxi, dedicato al
potere, troviamo all’interno del Libro II un’ampia sezione di fatto de­
dicata ad alcuni temi basilari della morale: bene, male, volontà, libertà,
felicità60.
Quello di potere è indubbiamente uno dei concetti centrali del
Saggio e non è un caso che a esso Locke abbia dedicato il Capitolo più
lungo e travagliato di tutta l’opera61. Tuttavia, del potere abbiamo già
sentito parlare e sentiremo parlare ancora. Le qualità - come sappia­
mo - altro non sono se non poteri che i corpi hanno di modificare altri
corpi e, quindi, di influire sui nostri sensi (E Il.viii). Ma anche le fa­
coltà cioè le operazioni della mente, di cui abbiamo idee mediante ri­
flessione, sono di fatto poteri della mente (E Il.ix-xi). Inoltre - come
vedremo - il potere giocherà un ruolo importante anche nelle idee
complesse di sostanze (E Il.xxiii). Locke non dà una definizione di po­
tere, ma assume implicitamente il suo significato usuale di capacità di
compiere o subire una determinata azione. La sua prima domanda,
perciò, è diretta sul come noi acquisiamo l’idea di potere, e la sua ri­
sposta è la seguente: mediante l’osservazione di una certa regolarità
nei mutamenti delle cose e in noi stessi. Ad esempio: «diciamo che il
fuoco ha il potere di sciogliere l’oro, vale a dire di distruggere la consi­
stenza delle sue parti insensibili e di conseguenza la sua durezza e

60 Sappiamo che il Saggio prese spunto da una discussione «attorno ai principi


della morale e della religione rivelata», ora anche il fatto di trovare al centro del Libro II
una così ampia trattazione di temi di filosofia morale, ha spinto recentemente gli inter­
preti a focalizzare il Saggio attorno a questi temi, assai più quanto non si sia fatto in pas­
sato, cf. soprattutto G. FULLER - R. STECKER - J.R WRIGHT (edd.), John Locke. An Essay
concerning Human Understanding in Focus, Roudedge, London-New York 2000; e i
contributi di V. CHAPPELL, Locke on thè freedom of thè will, in ROGERS (ed.), Locke s
Philosophy, cit., 101-121; Id. Power in Lockes Essay, in NEWMAN {ed.), The Cambridge
Companion, cit., 130-156; cf. anche J.M. VIENNE, Expérience et raison, les fondements de
la morale selon Locke, Vrin, Paris 1991; J.B. SCHNEEWIND, Locke s moral philosophy, in
CHAPPELL (ed.), The Cambridge Companion, cit., 199-225. In LOCKE, Scritti etico-religio­
si, cit., M. Sina traduce diversi Manoscritti sulla legge di natura, e Manoscritti sull’etica
custoditi dalla Bodleian Library.
61 Tra la prima e la quinta edizione del Saggio, Locke ha più volte mutato e cor­
retto la sua posizione concernente libertà e volontà. Nel paragrafo aggiunto in calce al-
YEpistola al lettore nella seconda edizione Locke precisa, riguardo le modifiche intercor­
se nel testo, «in nessun modo ho alterato le mie posizioni sulla materia trattata; eccezion
fatta per le modifiche apportate al Capitolo xxi del Libro II» (E: 11); in seguito: «In
questa quinta edizione vi sono assai poche aggiunte o variazioni: la maggior parte di ciò
che vi è di nuovo è contenuto nel Capitolo xxi del Libro II» (E: 14).
178 Sistemi filosofici moderni

quindi di renderlo fluido; e che l’oro ha il potere di essere sciolto»


(E ILxxi.l: 233). In tal senso, il potere ha sempre a che fare con un
causare o un essere causato. Perciò, Locke distingue il potere attivo
(es. il potere di sciogliere) dal potere passivo (es. il potere di essere
sciolto), e soprattutto ammette che l’idea di potere include quella di
relazione «con l’azione o il cambiamento» (E ILxxi.l: 234). L’idea di
potere rimanda sempre di per sé a un qualcosa verso cui esso è effetti­
vo o da cui è affetto.
Al di là di queste considerazioni generali circa il potere, Locke
ha di mira qualcosa di ben più specifico. Egli nota che le cose sensibili
ci suggeriscono continuamente idee di potere passivo, mentre quelle
di potere attivo assai raramente e in modo oscuro e confuso. Invece,
dalla riflessione sulle operazioni della nostra mente ricaviamo un’idea
del potere chiara e distinta. Prendiamo ad esempio una palla da biliar­
do che colpisce un’altra, essa «perde tanta forza quanta è quella che
l’altra riceve: il che ci trasmette soltanto un’idea oscura e confusa di
quel che è il potere attivo di muoversi di un corpo» (E II.xxi.4: 235);
infatti, la palla agisce nella misura in cui subisce. Invece, riflettendo
sulle operazioni della nostra mente «scopriamo in noi stessi un potere
di cominciare, di continuare o interrompere molteplici azioni, sempli­
cemente mediante un pensiero o con una preferenza della mente stessa
che ordina o, come si suol dire, comanda di fare o non fare una certa
azione piuttosto che un’altra» (E II.xxi.5: 236). Questo potere di com­
piere o impedire determinate azioni noi comunemente lo chiamiamo
volontà, e il suo effettivo esercizio volizione o volere. In altre parole, la
volontà è il potere di compiere volizioni ossia atti di volere. Le volizio­
ni si caratterizzano per il fatto di avere una intenzionalità, cioè sono
dirette verso un determinato oggetto (es. io voglio mangiare, Giorgio
vuole una mela), il quale è distinto dalla volizione stessa, nella misura
in cui è sempre qualcosa che non è immediatamente concomitante
bensì segue l’atto di volizione, ossia è qualcosa che deve ancora essere
raggiunto o effettuato.
Locke distingue, poi, azioni volontarie e involontarie: «L’impedi­
mento o l’espletamento di quella azione, conseguente a un determina­
to ordine o comando della mente, viene chiamato volontario. Qualun­
que azione sia espletata senza un pensiero della mente si definisce in­
volontaria,». Secondo il filosofo, noi compiamo solo due generi di azio­
ni: pensieri e movimenti (E II.xxi.8). Le prime sono azioni interne o
mentali, le seconde esterne o somatiche. Ma non ogni azione dipende
da noi. Difatti, le azioni sia esterne che interne possono essere deter­
Il Saggio di Locke 179

minate da cause altre da sé, come quando il nostro corpo è spinto da


un altro corpo (es. l’autobus frena e io vengo sospinto a urtare altre
persone) o la nostra mente è sollecitata da un oggetto esterno (es. vedo
buio e ho paura). Al di là di un uso dei termini non sempre chiaro e
uniforme62, sembra possibile affermare che Locke attribuisca la volon­
tarietà solo a quelle azioni determinate da un pensiero esplicitamente
formulato dall’agente stesso; mentre l’involontarietà a tutte quelle
azioni che avvengono in assenza di esso.
Tuttavia - è questo un punto essenziale della teoria lockeana -
volontario non è sinonimo di libero. Infatti, la libertà consiste nel po­
tere di compiere o di astenersi da una determinata azione63. Ci sono
casi, perciò, in cui un azione potrebbe essere volontaria, ma non libe­
ra, nella misura in cui l’agente è impedito ovvero necessitato dalle cir­
costanze. In E II.xxi.10, Locke propone l’esempio - per lui assai chia­
ro, ma in realtà piuttosto artificioso - di un uomo addormentato che
viene trasportato a sua insaputa in una stanza chiusa, dalla quale non
può uscire, ma dove si trova proprio l’amico che egli desiderava tanto
incontrare; allorquando egli si sveglia, è felice di trovare l’amico e di
colloquiare con lui e «preferisce rimanere dove si trova», cioè in una
situazione coatta, «piuttosto che andarsene», cioè piuttosto che conse­
guire uno status di reale libertà, nel quale potrebbe scegliere se stare
fuori della stanza o dentro. Così egli rimane lì volontariamente, ma
non liberamente; infatti non ha la possibilità di uscire. Da tutto ciò,
Locke conclude che:
Volontario quindi non è opposto a necessario, ma a involontario. Un uo­
mo, infatti, potrebbe preferire quel che fa a quel che non può fare, la condi­
zione in cui si trova all’assenza di tale condizione o al suo cambiamento, anche
se la necessità abbia reso tutto ciò di per sé inalterabile (E II.xxi.ll: 239).

E aggiunge immediatamente: «Quel che vale per i movimenti del


corpo, vale anche per i pensieri della nostra mente» (E II.xxi.12: 239).

62 Le imprecisioni e discordanze terminologiche che troviamo lungo tutto il


Saggio - che risultano tanto più indistricabili quanto maggiore è il rigore analitico con
cui le si esamina - sono probabilmente acuite in E Il.xxi dal sovrapporsi dei diversi ri­
maneggiamenti avvenuti lungo le successive edizioni del testo; cf. E.J. LOWE, Necessity
and thè will in Locke s theory o f action, in «History of Philosophy Quarterly» 3 (1986),
149-163; V. CHAPPELL, Power in Locke s Essay, in N ewman (ed.), The Cambridge Com­
panion, cit., 139-141.
63 Per approfondire, cf. G. Y a ffe , Liberty Worth thè Name, Princeton Univer­
sity Press, Princeton 2000; A. LOLORDO, Lockes Moral Man, Oxford University Press,
Oxford 2012.
180 Sistemi filosofici moderni

Traducendo così l’esempio precedente dal livello somatico a quello


mentale, otteniamo che la libertà di pensiero consiste nel poter pren­
dere o lasciare, focalizzare o trascurare una certa idea; ossia nel non
essere necessitato a pensare qualcosa e soltanto quello; e non nel fatto
che un certo pensiero sia volontario o meno.
Per Locke, dunque, volontà e libertà sono entrambe poteri che
appartengono a un certo agente e che non ammettono di essere predi­
cati l’uno dell’altro: «è insignificante domandare se la volontà dell’uo­
mo sia libera» (E II.xxi.14: 240); «solo ciò che ha il potere o non ha il
potere di agire è o non è libero» (E II.xxi.19: 243). La tesi - parados­
sale - alla quale Locke giunge è dunque questa: l’uomo è libero di agi­
re, ma non è libero di volere.
La ragione di ciò è assai evidente: infatti, poiché è inevitabile che l’azio­
ne dipendente dalla sua volontà esista o non esista; e poiché la sua esistenza o
non esistenza segue perfettamente la determinazione e la preferenza della sua
volontà; egli non può fare a meno di volere l’esistenza o la non esistenza di
quell’azione: è assolutamente necessario che egli voglia l’una o l’altra, ossia che
preferisca l’una o l’altra, poiché una di esse deve seguire necessariamente, e
quella che segue, segue per scelta e determinazione della mente, vale a dire,
dal suo volerla: infatti se non la volesse, non esisterebbe (E II.xxi.23: 245).

Nella prima edizione del Saggio, Locke aveva posto alla base del­
la non libertà delle volizioni la struttura deterministica della mente
umana: le volizioni sono azioni, cioè operazioni della volontà o atti di
volere che a loro volta generano azioni, le quali pertanto sono dette
volontarie; ma le volizioni stesse non sono volontarie, nella misura in
cui esse stesse non possono essere ulteriormente causate da volizioni
bensì da qualcos’altro, pena un regresso all’infinito. A partire dalla se­
conda edizione, egli ha modificato o - secondo alcuni - esteso e perfe­
zionato la sua teoria, ponendo alla base delle determinazioni della vo­
lontà il disagio (uneasiness). L’autore confessa che «Dopo aver di nuo­
vo pensato a ciò (second thoughts)», è giunto a supporre che ciò che
determina la volontà riguardo alle nostre azioni «non sia, come gene­
ralmente si crede, il maggior bene che si ha in vista, piuttosto un qual­
che (e spesso il più urgente) disagio da cui un uomo è afflitto al mo­
mento presente» (E II.xxi.31: 250-251).
Questo disagio può anche essere chiamato desiderio, nella misu­
ra in cui il desiderio non è altro che «un disagio della mente che cerca
un certo bene ora assente». Desiderio e disagio sono intimamente le­
gati l’uno all’altro, giacché non esiste desiderio che non ambisca a ri­
Il Saggio di Locke 181

mediare a una qualche pena o mancanza, il che significa auspicare al


sollievo futuro di un qualche disagio presente. Infatti, quando siamo
perfettamente a nostro agio, noi tendiamo a perseverare nella situazio­
ne presente, senza bisogno di alterarla; ma, appena avvertiamo un di­
sagio (es. fame, sete, sonno, freddo)64, immediatamente ci muoviamo
all’azione, nella ricerca di un sollievo da esso. Per Locke, è questa la
molla fondamentale delle nostre azioni65. Già nel Capitolo precedente,
egli aveva stabilito che «Le cose sono buone o cattive unicamente in
riferimento al piacere o al dolore» (E II.xx.2: 229), perciò chiamiamo
bene ciò che accresce il piacere o diminuisce il dolore e, viceversa, ma­
le ciò che accresce il dolore e diminuisce il piacere. Quando diciamo
che l’uomo desidera il bene, dobbiamo intendere, in verità, che costui
ricerca sollievo dal dolore. E ciò vale sia per il corpo che per la mente.
Di conseguenza, diremo che «La felicità nella sua piena estensione è il
massimo piacere di cui siamo capaci, e la miseria il massimo dolore»
(E II.xxi.42: 258).
E questo, secondo Locke, l’unico modo di spiegare perché, pur
conoscendo il bene, facciamo il male: «Video meliora proboque, Dete­
riora sequor»66. La ragione è che il disagio che nel presente preme su di
noi è naturalmente più attuale e motivante del disagio, anche maggio­
re, che immaginiamo di poter provare in futuro, dopo che avremo
compiuto quelle azioni che ora ci consentono di allontanare subito da
noi il disagio immediato. Ad esempio, un ubriacone sa che bere alcoli­
ci distruggerà sempre più la sua salute e con essa rovinerà anche molte
altre cose importanti a cui tiene, come la famiglia, il lavoro ecc.; eppu­
re quel disagio che quotidianamente si ripresenta, sotto forma di asti­
nenza dal bere e di mancanza della compagnia degli altri bevitori, lo
spinge, nonostante tutto, a tornare alla taverna, pur nella chiara consa­
pevolezza che questo piccolo piacere immediato farà sì che egli venga
privato di altri ben più grandi piaceri (E II.xxi.35). I piccoli disagi pre­

64 Come esempi di disagi mentali o immaginari, Locke elenca «la smania per
l’onore, il potere o la ricchezza» (E II.xxi.45: 261).
65 Unendo provvidenza teologica e conservazione della specie, Locke sostiene
che «il nostro Creatore, con tutta la Sua saggezza, conformemente alla nostra costituzio­
ne e struttura, e sapendo cosa determini la volontà, ha posto negli uomini il disagio pro­
vocato dalla fame e dalla sete e altri desideri, che ricorrono secondo cicli naturali, per
muovere e determinare le loro volontà affinché preservino loro stessi e la continuazione
della loro specie» (E II.xxi.34: 252).
66 «Vedo il bene e l’approvo, ma seguo il male» (OVIDIO, Metamorfosi, VII, 20-
21), citato in E II.xxi.35: 254.
182 Sistemi filosofici moderni

senti tendono a determinare la nostra volontà più dei grandi disagi as­
senti. La promessa del paradiso, per alcuni, può ben valere meno del
piacere di un bicchiere di vino (E II.xxi.38). Il fatto è che la pressione
dei disagi immediati e il loro incalzante susseguirsi uno dopo l’altro
tendono a determinare la volontà in modo tale da non lasciarci liberi
di allungare il nostro sguardo e le nostre aspettative oltre di essi. Tutta­
via, per Locke ciò accade «nella maggior parte dei casi, ma non sem­
pre» (E II.xxi.47: 263).
Infatti, come risulta evidente dall’esperienza, la mente in molti casi ha il
potere di sospendere la realizzazione e la soddisfazione di uno qualunque dei
suoi desideri, e può tenerli in sospeso tutti, uno dopo l’altro, di modo che sia
nella libertà di considerare gli oggetti, di esaminarli da ogni lato e di confron­
tarli con altri.

La sospensione del desiderio (suspension of desire) è un potere


che l’uomo effettivamente ha tra le sue mani, anche se non dovesse
mai esercitarlo o anche se dovesse usarlo rarissimamente. In esso con­
siste propriamente la sua libertà. Certo, Locke mantiene il suo punto
di vista, per il quale l’uomo è continuamente «sommerso dalla moltitu­
dine delle mancanze e dei desideri» (E II.xxi.46: 263), e tuttavia ciò
non toglie un fatto altrettanto evidente, di cui ciascuno di noi fa espe­
rienza: abbiamo il potere di sospendere il desiderio, ossia il potere di
«esaminare, osservare e giudicare del bene e del male che stiamo per
compiere» (E II.xxi.47: 263)67. Tale potere di ragionare e ponderare
non implica poi necessariamente il superamento del potere della vo­
lontà. Non abbiamo il potere di determinare interamente e immediata­
mente la nostra volontà o i nostri desideri, ma possiamo comunque
«mantenere la nostra volontà indeterminata (undetermined) fino a che
non abbiamo esaminato il bene e il male di quel che desideriamo»
(E II.xxi.52: 267). Ebbene, tale indifferenza permette di comparare i
disagi presenti a quelli futuri, ovverosia le determinazioni attuali e par­
ticolari della volontà con la felicità.
Questa opera di valutazione e comparazione può, alla lunga e
progressivamente, persino alterare la nostra percezione del piacere e
del dolore, in modo tale che, ad esempio, quel vino che ci piaceva così

67 V. Chappell ed E J . Lowe sostengono che la sospensione del desiderio è com­


patibile con - o quantomeno non contraddice - il determinismo della volontà, cf. V.
CHAPPELL, Locke on thè suspension of desire, in F uller -St eck er -Wrigh t (edd.), John
Locke, cit., 236-248; LOWE, Locke on Human Understanding, cit., 132-136.
Il Saggio di Locke 183

tanto potrebbe un giorno benissimo destare in noi un totale disgusto.


Gli antichi conoscevano bene questa “terapia del desiderio”68 detta
anche ascesi: «Spesso tentativi ripetuti ci riconciliano con quello che, a
distanza, osserviamo con avversione, e col ripetere ciò si finisce col
gradire quel che forse, a un primo assaggio, ci era risultato sgradito»
(E II.xxi.69: 280). In tal modo il piacere di ciò che è remoto, futuro e
non ancora in nostro possesso, penetra e filtra dentro ciò che è presen­
te e immediatamente alla nostra portata. Ecco come Locke descrive,
passo per passo, questo processo:
Poiché reliminazione dei dolori che proviamo e dai quali siamo incalza­
ti nell’immediato è la via d’uscita dalla miseria e di conseguenza la prima cosa
che deve essere fatta in vista della felicità, se un bene assente, per quanto si
pensi a esso, lo si riconosca ed esso stesso si mostri come bene, non costituisce
nella sua assenza alcuna parte di questa infelicità, viene estromesso, per fare
strada all’eliminazione del disagio che proviamo, finche un’opportuna e ripe­
tuta contemplazione di quel bene non lo abbia portato più vicino alla nostra
mente, offerto un certo godimento di esso e suscitato in noi un qualche desi­
derio; il quale poi, entrando poco a poco a far parte del nostro disagio presen­
te, si trova a competere alla pari con gli altri, affinché sia soddisfatto, e così, in
proporzione alla sua grandezza e urgenza, a sua volta giunge a determinare la
volontà (E II.xxi.45: 262).

Tutto ciò offre a noi, finalmente, la possibilità di correggere i no­


stri giudizi errati. Mediante l’uso della ragione, consentito dalla sospen­
sione del desiderio, noi possiamo effettivamente rettificare la prospetti­
va distorta che ci porta naturalmente a privilegiare il soddisfacimento
dei desideri immediati, nella convinzione errata che questi siano le con­
dizioni primarie per la nostra felicità. In tal senso, per Locke, la libertà
può essere guidata dalla razionalità69 a patto che la libertà sia essa stes­
sa un presupposto della razionalità. Bene e male, sostiene Locke, consi­
stono spesso in un raffronto e «Giudicare significa, per così dire, tirare

68 Cf. M. NUSSBAUM, The Therapy of Desire. Theory and Practice in Hellenistic


Ethics, Princeton University Press, Princeton 1994 (trad. it., Terapia del desiderio, Vita e
Pensiero, Milano 1998).
69 Tale idea era già stata fortemente sostenuta da Spinoza, supra, 134-137. Solo re­
centemente gli interpreti hanno cominciato a evidenziare l’influsso delle opere di Spinoza
sul pensiero filosofico e politico di Locke, cf. W. VAN BUNGE - W. KLEVER (edd.), Disguised
and Overt Spinozism around 1700. Papers Presented at thè International Colloquium (Rot­
terdam, 5-8 October 1994), Brill, Leiden 1995; W. KLEVER, John Locke (1632-1704). Ver-
momde en miskende spinozist. Rapport van een historisch onderzoek, Vrijstad 2008 (trad.
ingl., Locke s Disguised Spinozism, consultabile online su www.benedictusdespinoza.nl).
184 Sistemi filosofici moderni

le somme di un conto e determinare da quale parte stia la differenza»


(E II.xxi.67: 278): vale più il piacere di un bicchiere di vino o quello
della salute? Il piacere dei beni terreni o il godimento della vita eterna?

2.4. Sostanza
Il Capitolo xxiii del Libro II del Saggio tratta «Delle nostre idee
complesse di sostanze». La teoria lì proposta è tra le più note e proble­
matiche dell’intera opera. L’affermazione che la sostanza è un nonso-
ché, sostenuta da Locke con l’icastica storiella dell’indiano e della tar­
taruga, con la quale egli ironizza sulle insensate pretese dei peripateti­
ci, fece scalpore e divenne oggetto di un acceso dibattito già nella con­
troversia con Edward Stillingfleet, vescovo di Worcester. Le critiche
sono perdurate sino a oggi, divenendo uno dei luoghi ricorrenti nel re­
cente dibattito sulla sostanza, rinnovato da autori come P.F. Strawson
o D. Wiggins70. Oggi gli studiosi sono soliti distinguere l’interpretazio­
ne tradizionale della teoria lockeana sulla sostanza da altri e più raffi­
nati modelli interpretativi71. Senza scendere nei minimi dettagli di
questo annoso dibattito - lo stesso Locke sostiene che per sapere che
ore sono è più utile saper leggere il quadrante che conoscere ogni mi­
nimo meccanismo dell’orologio72 - proviamo a focalizzare almeno gli
elementi basilari del discorso lockeano sulla sostanza. Anzitutto, meri­
ta di essere citato il primo e più noto testo al riguardo:
Se si domandasse a uno quale sia il soggetto cui ineriscono colore o pe­
so, egli non avrebbe niente da dire se non le parti solide ed estese; e se gli ve­
nisse chiesto a cosa siano inerenti quella solidità e quella estensione, in tal caso
non si troverebbe in una posizione migliore dell 'indiano menzionato prima
[E II.xiii.19], al quale, poiché affermava che il mondo era sostenuto da un
grande elefante, fu domandato su cosa poggiasse l’elefante, al che la sua risposta
fu: su una grande tartaruga, ma poiché si insisteva per sapere che cosa sostenes­
se quella tartaruga dalla schiena così ampia, rispose, un nonsoché (.something,
he knew not what). [...] Dunque, Videa che abbiamo, alla quale diamo il nome
generale di sostanza, non essendo null’altro che il supposto ma ignoto supporto

70 Cf. P.F. STRAWSON, Individuals. An Essay in Descriptive Metapbysics,


Methuen, London 1959 (trad. it., Individui. Saggio di metafisica descrittiva, Mimesis, Mi­
lano 2009); D. WlGGINS, Sameness and Substance, Basii Blackwell, Oxford 1980; Id., Sa-
meness and Substance Renewed, Cambridge University Press, Cambridge 2001.
71 Per una rassegna critica delle interpretazioni maggiori, da quella tradizionale
alle più recenti e sofisticate (Bennett, Alexander, Ayers ecc.), cf. E. M c C a n n , Locke on
substance, in N ewman (ed.), The Cambridge Companion, cit., 160-190.
72 Cf. E II.xxiii.12: 303,25-33.
Il Saggio di Locke 185

di quelle qualità, che scopriamo esistenti e che immaginiamo non possano sussi­
stere, sine re substante, senza qualcosa che le supporti (.something to support
them), quel supporto lo chiamiamo substantia\ una parola il cui significato effet­
tivo è semplicemente star sotto o sostenere (E II.xxiii.2: 295-296).

Notiamo diversi elementi: (a) abbiamo un’idea, ovvero questa


idea si rende presente nella nostra mente; (b) questa idea risponde a
una domanda che nasce dalla nostra concreta esperienza, cioè le qua­
lità come il colore o il peso sono da noi concepite come qualcosa che
non sta in sé, bensì come qualcosa che di per sé è in relazione con
qualcos’altro; (c) il tipo di relazione che le qualità stabiliscono con
quel qualcosa di altro da esse è concepito come inerenza, ossia tali
qualità appartengono a quel qualcosa, il quale appartiene solo a se
stesso, ovvero non inerisce in altro da sé; (d) quel qualcosa a cui le
qualità ineriscono è unico mentre le qualità sono plurime, ovvero più
qualità ineriscono insieme e contemporaneamente a un qualcosa; (e) il
nome generale che diamo a questo qualcosa a cui ineriscono le qualità
è quello di sostanza, giacché tendiamo a immaginare che questo qual­
cosa sia come una sorta di supporto che regge o sostiene le qualità, in
modo tale che se esso venisse a mancare le qualità nel loro insieme ca­
drebbero e si disperderebbero.
Ora, quello che Locke vuole capire, coerentemente con la meto­
dologia del Saggio, è quale sia l’origine, la natura e l’estensione dell’i­
dea di sostanza in generale. Infatti, che una tale idea stia nella nostra
mente è un fatto innegabile. Ma è certamente legittimo e, persino, do­
veroso per il filosofo indagare da dove nasca tale idea e quali diritti
pretenda di avere. Il primo punto che Locke stabilisce è che le nostre
idee di singole sostanze, come cavallo o pietra, altro non sono se non
«la combinazione o la collezione (Complication or Collection) delle
molteplici idee semplici di qualità sensibili che siamo soliti trovare
unite nelle cose chiamate cavallo o pietra» (E II.xxiii.4: 297). E questa,
infondo, la tesi di partenza che l’autore intende difendere nel Capitolo
xxiii, nel cui titolo, «Delle nostre idee complesse di sostanze», l’accen­
to - a mio giudizio - va posto proprio sulla parola complesse. Locke
non intende affatto sostenere che noi abbiamo idee false o fittizie delle
sostanze; né, tantomeno, che non esistano sostanze. Ciò che egli vuole
anzitutto dimostrare - opponendosi così alla tradizione peripatetica73

73 Locke si oppone anche alla posizione cartesiana, in quanto nega che le idee
complesse, compresa quella di sostanza, possano essere innate, cf. LOWE, Locke on Hu­
man Understanding, cit., 77.
186 Sistemi filosofici moderni

- è che le idee delle sostanze sono complesse, cioè non semplicemente


date nell’esperienza, bensì prodotte dalla nostra mente, mediante una
certa combinazione di dati ricevuti:
tutte le idee che abbiamo di generi distinti e particolari di sostanze non
sono altro che combinazioni molteplici di idee semplici, coesistenti in una de­
terminata, sebbene sconosciuta, causa della loro unione, la quale fa sì che l’in­
sieme sussista per sé (E II.xxiii.6: 298).

Ora dire che questa combinazione è prodotta dalla mente, non


equivale a dire che essa è arbitraria. Significa solo che noi non abbia­
mo una percezione immediata e semplice di essa. Tuttavia, quando ci
riferiamo alle sostanze di determinati insiemi di qualità lo facciamo in­
dividuando in esse le cause del modo di esistere di tali insiemi, ossia di
essere ciò che sono. Ora la differenza maggiore, rispetto ai peripateti­
ci, sta nel fatto che Locke sostiene che il nostro modo di formare le
idee delle sostanze particolari, come cavallo o pietra, avviene non me­
diante astrazione delle forme sostanziali, cioè infondo cogliendo le
cause per cui quelle cose sono ciò che sono in base a un preciso ordine
del mondo, bensì attribuendo a ciascuna di esse una causa sostanziale
alle molte qualità che siamo soliti osservare unite74. Questo vale sia per
gli oggetti corporei esterni che incontriamo nella nostra esperienza
quotidiana (es. cavallo, pietra, cane ecc.), che per quelli interni (lo spi­
rito o anima)75, che per quelli infiniti (Dio)76. Sono questi, per Locke,
gli unici tre generi di sostanze.
Ora, quello della complessità delle idee di sostanze non è che un
aspetto della faccenda. Il vero problema sorge allorché Locke sostiene,
a più riprese, che la nostra idea generale di sostanza è confusa e oscu­
ra, perché infondo inconoscibile:
avendo solo poche idee superficiali delle cose, rivelateci unicamente
mediante i sensi dall’esterno o mediante la mente quando riflette su ciò che
sperimenta in se stessa, oltre a quello non abbiamo alcuna conoscenza, e meno
ancora della struttura interna (internai Constitution) e della vera natura delle
cose, poiché siamo privi delle facoltà utili a conseguire una tale conoscenza
(E II.xxiii.32: 313).

Qui Locke sembra dire che noi abbiamo idee semplici, cioè dati

74 Cf. AYERS, Locke, cit., II, 35-38.


75 Cf. E II.xxiii.30-31.
76 Cf. E II.xxiii.33—35.
Il Saggio di Locke 187

esperienziali, solo della superficie delle cose, superficie che in quanto


tale rimanda necessariamente a un suo sostrato profondo che supporta
e causa le qualità emergenti in superficie. Tale sostrato però, nonostan­
te tutto ciò che di esso vediamo, sentiamo e percepiamo, sarebbe inco­
noscibile, come se allo stesso tempo possedesse e non possedesse quel­
le proprietà che lo rendono esperibile; come se esso fosse un mero che,
un quid neutro e indifferente, al quale, però, appartengono tutte le
qualità e le differenze. Posto così, il discorso lockeano sarebbe, ovvia­
mente, assurdo; come fece immediatamente notare Leibniz e come re­
centemente a più riprese ha argomentato J. Bennett77. Potremmo ef­
fettivamente separare le proprietà di un soggetto, per poi domandarci
cosa ne rimarrebbe, solo a patto di considerare tali proprietà per quel­
lo che esse non sono, cioè delle entità a se stanti.
Per uscire da questa impasse, M. Ayers e diversi altri interpreti
ricorrono al fatto che Locke assume una teoria corpuscolaristica della
materia, in base alla quale l’intima struttura (internai Constitution) dei
corpi macroscopici, quella che egli chiama, anche, essenza reale di un
oggetto, sta al di là della portata della nostra esperienza78. Eppure,
Locke mostra di essere ancora più scettico circa la nostra capacità di
spiegare come il pensiero sia sostanza dello spirito e, poi, come una ta­
le sostanza incorporea sia in grado di muovere il corpo. La critica di
Locke alla sostanza non significa che noi non sappiamo distinguere un

77 «Quando nella sostanza distinguiamo due cose, gli attributi o predicati e il


soggetto comune a tali predicati, non c’è da meravigliarsi se in questo soggetto non si
può concepire nulla di particolare. E non può essere che così, dato che si son già tolti
via tutti gli attributi mediante i quali si poteva concepire qualche dettaglio. Così, esigere
in questo puro soggetto in generale qualcosa di più di quanto occorre per concepire che
esso è la stessa cosa (es. che capisce e vuole, che immagina e ragiona), significa doman­
dare l’impossibile e contraddire l’ipotesi che si è fatta con l’astrarre e il concepire sepa­
ratamente il soggetto e le sue qualità o accidenti» (LEIBNIZ, Nouveaux essais, cit., 11.23,
218 [trad. it., cit., 529]); cf. J. BENNETT, Substratum, in CHAPPELL (ed.), Locke, cit., 129-
148; Id., Learning from six philosophers. Descartes, Spinoza, Leibniz, Locke, Berkeley,
Hume, 2 voli., Clarendon Press, Oxford 2001, II, 108-123.
78 L’interpretazione che tende a far convergere sostanza ed essenza reale è clas­
sicamente sostenuta da YOLTON, Locke and thè Compass, cit.; M. BOLTON, Substances,
substrata, and names of substances in Locke’s Essay, in CHAPPELL (ed.), Locke, cit., 106-
128; e soprattutto da M. AYERS, Ideas of power and substance in Locke’s philosophy, in I.
TlPTON (ed.), Locke on Human Understanding, Oxford University Press, Oxford 1977,
77-104; cf. anche AYERS, Locke, cit., II, 39-51; per un quadro più generale cf. Id., The
foundations o f knowledge and thè logie of substance: thè structure of Locke s generai philo­
sophy, in C h a ppell (ed.), Locke, cit., 24-47. Tale interpretazione, notoriamente avversa­
ta da Bennett, è criticata anche da M c C a n n , Locke on substance, cit., 185-191; e messa
in dubbio da M. A th ert o n , Locke on essences and classification, ivi, 264-266.
188 Sistemi filosofici moderni

cane da un cavallo, Toro dal carbone oppure che non abbiamo una co­
scienza o introspezione di noi stessi. Per lo più noi ci orientiamo in un
contesto sufficientemente chiaro e distinto, nel quale i termini che noi
usiamo per descrivere il mondo e noi stessi risultano efficaci. Il punto
è un altro. La questione sorge quando ci domandiamo quale sia la cau­
sa dell’estensione di un qualcosa di esteso o del pensiero di un qualco­
sa di pensante. Solo allora:
quando la mente cerca di guardare oltre le idee originarie che riceviamo
dalla sensazione o dalla riflessione, per penetrare nelle loro cause e nella ma­
niera in cui si producono, scopriamo che essa giunge a rivelare a se stessa solo
la propria miopia (E II.xxiii.28: 312).

Infatti, se è vero che la sensazione coglie la res extensa, ossia i


corpi esterni dotati di estensione, e la riflessione coglie la res cogitans,
ossia il proprio spirito in quanto pensante, questi strumenti o fonti co­
noscitive non sono di per sé in grado di spiegare la causa stessa dell’e-
stendersi e del pensare, nella misura in cui una tale conoscenza oltre­
passa i limiti stessi dell’estensione e del pensiero. Infatti, o la causa del­
l’estensione o del pensiero è a sua volta qualcosa di esteso o pensante,
dal che posso ancora domandarmi quale sia la causa del suo essere così
estesa o pensante, oppure non è qualcosa di esteso o pensante e allora
non può essere né un oggetto della sensazione né della riflessione79.
Un confronto con la posizione qui direttamente avversata da
Locke, quella peripatetica, può esserci d’aiuto. Uno dei maggiori stu­
diosi di Aristotele odierni80, nello spiegare in che senso per costui la
sostanza è la forma, porta l’esempio dell’acqua, dicendo che la forma
dell’acqua è la sua formula cioè H20 . Di fronte a ciò, Locke risponde­
rebbe che la formula chimica della molecola di acqua è indubbiamente
una grande scoperta e tuttavia è insufficiente, giacché questa formula
indica solo un composto di più elementi, dei quale bisogna ancora
spiegare perché sono corpuscoli dotati di estensione81. Per questa

79 «Dopo tutto, se della nostra idea complessa volessimo avere, e avessimo effet­
tivamente, una collezione esatta di tutte le qualità secondarie o dei poteri di una qualsiasi
sostanza, con ciò non avremmo ancora un’idea dell’essenza di quella cosa. Poiché i poteri
o qualità da noi osservabili non costituiscono l’essenza reale di quella sostanza, ma dipen­
dono e discendono da essa (depend on it, and flow from it), quale che sia la raccolta di tali
qualità, essa non può essere l’essenza reale di quella cosa» (E II.xxxi.13: 383).
80 Cf. E. B erti , Struttura e significato della Metafisica di Aristotele, Edusc, Roma
2006, 95-96.
81 «Chi potesse scoprire i vincoli che legano assieme così saldamente i gruppi di
questi piccoli corpi sciolti [le molecole di acqua solidificate nel ghiaccio], chi riuscisse a
Il Saggio di Locke 189

ragione, Locke sostiene che, a differenza di quanto avviene per la ma­


tematica e la morale, nella conoscenza teoretica della natura noi non
possiamo raggiungere alcuna certezza definitiva.
Locke, dunque, da un lato coglie l’esigenza transfenomenica e
propriamente metafisica insita alla nostra pura idea di sostanza in ge­
nerale, ed è per questo che mantiene tale nozione nel suo impianto fi­
losofico. Dall’altro lato, però, denuncia la difficoltà connaturata all’i­
dea stessa di una causa trasfenomenica dei fenomeni82. Dunque, la no­
stra idea generale di sostanza è oscura e confusa in quanto, allo stesso
tempo, positiva e negativa. Positiva, perché noi immaginiamo che ne­
cessariamente una qualche sostanza ci deve essere e ciò ci spinge ad af­
fermarne la presenza e la funzione unificante dei fenomeni. Negativa,
perché non possiamo in verità sapere esaurientemente cos’è. Con ciò,
Locke non mira affatto a calare una coltre di sospetto, abbandonando
la nostra conoscenza a una deriva scettica, quanto a riconoscere l’effet­
tiva tensione e complessità del dinamismo della nostra intelligenza e,
soprattutto, a riconoscere che nella nostra indagine della natura la ri­
cerca non ha fine.

2.5. Identità
Strettamente connessa alla questione della sostanza è quella
«Dell’identità e diversità», che Locke tratta nel Capitolo xxvii del Li­
bro II, interamente aggiunto nella seconda edizione del Saggio, su sol­
lecitazione di Molyneux. Come al solito, il filosofo inizia la sua analisi
indagando l’origine e la natura delle idee, in questo caso di quelle par­
ticolari idee di relazione che sono identità e diversità (E II.xxvii. 1-8),
ma successivamente il discorso s’infittisce attorno al suo vero obietti­
vo: uno studio sistematico della questione dell 'identità personale
(E II.xxvii.9-29). Le considerazioni lì avanzate segnano una vera e

rendere noto il cemento che li unisce così saldamente l’uno all’altro, rivelerebbe un se­
greto importante e tuttora sconosciuto, e tuttavia, qualora ciò capitasse, costui sarebbe
ancora assai lontano dal rendere intellegibile l’estensione di un corpo (che è la coesione
delle sue parti solide), fino a quando non potesse mostrare in cosa consista l’unione o il
consolidamento delle parti di quei vincoli o di quel cemento o delle più piccole particel­
le esistenti di materia. Dal che si rileva che questa qualità primaria dei corpi, che si cre­
de ovvia, qualora venga esaminata si rivelerà incomprensibile (incomprehensible) quanto
qualsiasi cosa appartenga alla nostra mente» (E II.xxiii.26: 310).
82 Di questa tensione costante nel Saggio, tra una genuina tendenza metafisica e
un’altrettanto convinta modestia epistemica, tratta a fondo L. DOWNING, Locke s onto-
logy, in NEWMAN (ed.), The Cambridge Companion, cit., 352-380.
190 Sistemi filosofici moderni

propria svolta nella filosofia occidentale, dettando di fatto le linee del


dibattito sull’identità personale sino ai giorni nostri83. In linea genera­
le, la questione affrontata da Locke è una delle più antiche della filoso­
fia, ossia il problema del principio d’individuazione. Come vedremo,
ciò che rende l’indagine del Saggio del massimo interesse sta nel fatto
che Locke distinguerà tra identità della sostanza, identità delYuomo e
identità della persona, cercando di mostrare soprattutto che quest’ulti-
ma non è riducibile alle due precedenti. La questione dell’identità per­
sonale proietterà le posizioni assunte circa la sostanza in generale, sul
terreno più propriamente giuridico morale (imputabilità, responsabi­
lità ecc.) e religioso (immortalità, giudizio finale ecc.).
Locke parte dalla questione di cosa sia l’identità in generale. Es­
sa nasce quando la mente mette in relazione, ovvero confronta una co­
sa esistente in un determinato tempo con la stessa cosa esistente in un
altro tempo; come ad esempio accade quando io guardo una foto di
me bambino e riconosco che quello sono io: «l’identità si costruisce in
questo modo vale a dire quando le idee attribuite a un oggetto non va­
riano affatto da quel che erano nel momento in cui lo abbiamo consi­
derato nella precedente esistenza e rispetto alla quale noi confrontia­
mo la sua esistenza presente» (E Il.xxvii.l: 328)84. Un confronto tra
due cose simultaneamente presenti, ovviamente, non è possibile, nella
misura in cui è inammissibile che «due cose del medesimo genere pos­
sano esistere in uno stesso luogo a uno stesso momento». Con questi
minimi elementi Locke è in grado dare la sua definizione del principio
d'individuazione, esso consiste nella «esistenza stessa, che attribuisce a
un essere di qualunque genere un particolare tempo e un particolare
luogo, che non possono essere condivisi da due esseri della medesima
specie» (E II.xxvii.3: 330). Ciò vale ugualmente per le sostanze e per i
modi di esse.
L’autore è in grado così di analizzare l’identità di una scala ascen­
dente d’individui, da quelli inanimati ai viventi, vegetali e animali, al­

83 Cf. U. THIEL, The Early Modem Subject. Self-Consciousness and Personal


Identity from Descartes to Hume, Oxford University Press, Oxford 2011; Id., Personal
identity, in M. AYERS - D. GARBER (edd.), The Cambridge History of Seventeenth-Century
Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 1998, 868-912.
84 M. BOLTON, Locke on identity. The scheme of simple and compounded thing, in
K.F. BARBER - J.J.E. GARCIA (edd.), Individuation and Identity in Early Modem Philo­
sophy, State University of New York Press, Albany 1994, 103-31; U. THIEL, Individuation
und Identitàt, in T hiel (ed.), John Locke. Essay, cit., 149-168; G . Y a ffe , Locke on ideas of
identity and diversity, in NEWMAN (ed.), The Cambridge Companion, cit., 192-230.
Il Saggio di Locke 191

l’uomo (E II.xxvii.3-8)85. Prendiamo, ad esempio, una pietra, si tratta


di un corpo composto di particelle materiali, ultimamente composte di
atomi, ciascuno dei quali in un determinato tempo occupa un luogo
unico ed è impenetrabile. L’identità di tale composto è data dal fatto
che i suoi atomi sono congiunti nella medesima massa, la quale, se fos­
se variata, muterebbe l’identità di quel corpo (es. se con un colpo di
martello spacco la pietra in più pezzi). Il problema si complica con i vi­
venti, giacché essi aumentano e diminuiscono la loro massa pur rima­
nendo gli stessi (es. l’alberello che il giorno della mia nascita fu pianta­
to nel giardino oggi è un albero molte volte più alto di me). Da questo
punto di vista, una pietra si differenzia da un albero, ad esempio una
quercia, per il fatto che «una è solo la coesione di particelle di materia
unite in una maniera qualunque, l’altra è una determinata disposizione
di quelle particelle tale da formare le parti di una quercia [radici, fusto,
rami, foglie ecc.] e una organizzazione di quelle parti tale da risultare
opportunamente predisposta a ricevere e a distribuire nutrimento, così
da mantenere in vita e foggiare il legno» (E II.xxvii.4: 331). In un vege­
tale tutte le parti sono organizzate in funzione dell’autosussistenza del
tutto, ossia partecipano della medesima vita, ed è per questo che il se­
me e l’albero cresciuto sono la medesima pianta. Lo stesso criterio del­
la continuità della vita nella mutazione delle parti costitisce l’identità
degli animali (E II.xxvii.5). Tutto ciò dimostra, per Locke, in cosa con­
siste l’identità di un uomo (man): «è la partecipazione alla stessa vita
continuativa operata da particelle transitorie di materia, vitalmente
unite in successione a quello stesso corpo organizzato» (E II.xx-
vii.6: 331-332), dall’embrione al corpo adulto.
In base a ciò, Locke può trarre una conclusione cruciale, ovvero
che a differenti idee corrispondono differenti generi d’identità o - per
essere più esatti86 - criteri d’identità. Di conseguenza, un conto è ciò
che costituisce l’identità di una sostanza, altro di un uomo e altro, anco­
ra, di una persona (E II.xxvii.7). Secondo Locke, l’identità della perso­
na è altra cosa rispetto sia all’identità dell’organismo corporeo che all’i­
dentità del suo principio vitale incorporeo. In altre parole, una persona
non è definita né dalla continuità materiale del corpo, né da quella for­
male dell’anima. Erano queste, infondo, le soluzioni “classiche” alla

85 Cf. V. CHAPPELL, Locke on thè ontology ofmatter, living things and persons, in
«Philosophical Studies» 60 (1990), 19-32; LOWE, Locke on Human Understanding, cit.,
97-102; YAFFE, Locke on ideas ofidentity and diversity, cit., 201-205.
86 Cf. LOWE, Locke on Human Understanding, cit., 102.
192 Sistemi filosofici moderni

questione dell’identità della persona. Entrambe vengono rigettate da


Locke, per aprire una nuova via alla riflessione filosofica su questo te­
ma. L’argomento circa la differenza dell’identità della persona rispetto
a quella di uomo prende spunto da questo passo:
chiunque vede [a] una creatura del suo aspetto e struttura, pur se questa
non possedesse in tutta la sua vita una ragione maggiore di quella di cui è dota­
to un gatto o un pappagallo, la chiamerebbe uomo, e così chiunque udisse [b]
un gatto o un pappagallo discorrere o ragionare o filosofeggiare non li defini­
rebbe, oppure non penserebbe che essi siano qualcosa di diverso da un gatto o
un pappagallo, e direbbe piuttosto che il primo è un uomo stupido e irrazionale
e che l’altro è un pappagallo davvero razionale e intelligente (E II.xxvii.8: 333).

Se ammettiamo la definizione di uomo come animale razionale:


nel caso (a) siamo di fronte a un uomo nonostante in esso siano assenti
tutte quelle caratteristiche che noi comunemente attribuiamo alla ra­
zionalità; nel caso (b) siamo di fronte a un animale razionale, le cui ca­
ratteristiche corporee, però, sono del tutto differenti da quelle umane.
Ergo, non esiste un’identità numerica tra uomini ed esseri razionali e,
pertanto, la razionalità non è il criterio d’identità dell’uomo.
Locke non accetta nemmeno la soluzione platonico-cartesiana di
attribuire l’identità della persona a quel principio sostanziale incorpo­
reo chiamato anima. Il filosofo parte da due questioni: «se muta la me­
desima sostanza che pensa, può trattarsi della stessa persona? oppure,
rimanendo essa la medesima, potrà essere persone differenti?»
(E II.xxvii.12: 337). Ad entrambe le domande egli risponde: sì. La sua
argomentazione procede mediante una serie di esperimenti ideali di
non agile comprensione. Ora, senza seguire nel dettaglio la complessa
esposizione lockeana, possiamo compendiare la sua posizione attorno
a un assunto fondamentale. Il filosofo non sostiene che le argomenta­
zioni che, da Platone in avanti, hanno basato la teoria dell’identità per­
sonale sull’anima o sostanza razionale immateriale siano false. Egli so­
stiene piuttosto che tali argomentazioni non godono di una vera giusti­
ficazione, in quanto si basano su un presupposto indimostrabile.
Locke si ricollega, evidentemente, alla discussione di E Il.xxiii sulla
sostanza e ai numerosi dubbi lì espressi circa l’effettiva capacità di co­
noscere appieno la nostra natura pensante. In base a ciò, noi non pos­
siamo escludere, ad esempio, che un singolo uomo possa possedere
anime diverse nell’arco della sua vita o che la stessa anima immortale si
reincarni più volte in diversi corpi, come Platone stesso riteneva. Dob­
biamo, perciò, trovare un criterio d’identità della persona capace di
Il Saggio di Locke 193

sfuggire alle insufficienze sia dell’identità organico corporea sia di


quella dell’anima.
La proposta di Locke è la seguente:
il termine persona, ritengo si riferisca a un essere pensante e intelligente
che possiede ragione e riflessione, e può considerare se stesso in quanto se
stesso, ossia la stessa cosa pensante, in tempi e luoghi diversi; il che avviene so­
lo mediante quella coscienza che è inseparabile dal pensare e, secondo me, è
essenziale a esso, essendo impossibile per ciascuno percepire, non percependo
che percepisce. Quando noi vediamo, udiamo, odoriamo, gustiamo, sentiamo,
meditiamo o vogliamo una qualunque cosa, noi sappiamo che lo facciamo. Ac­
cade sempre cosi nelle nostre sensazioni e percezioni presenti, e così ciascuno
è per se stesso quel che chiama io (self) (E II.xxvii.9: 335).

Il considerare se stessi in quanto se stessi in tempi (e luoghi) di­


versi è, secondo Locke, l’unica idea adeguata d’identità della persona.
Tale criterio d’identità può essere soddisfatto solo dalla coscienza di sé,
infatti gli altri elementi, come l’organismo corporeo e la sostanza psi­
chica, sono separabili, invece la coscienza è inseparabile dalla conside­
razione di sé. Locke aggiunge poi che l’estensione dell’io giunge fino a
dove la memoria (attuale o potenziale) ricorda come proprio un pen­
siero o un’azione passata. Ciò è estensibile anche verso il futuro, nella
misura in cui san Paolo dice che nel giorno del giudizio «ciascuno rice­
verà secondo quanto ha fatto e verranno rivelati i segreti di tutti i cuori.
La sentenza sarà giustificata dalla coscienza che tutte le persone avran­
no» (E II.xxvii.26: 347)87. Questo criterio di imputabilità risulta decisi­
vo nella definizione dell’identità della persona.
Locke chiarisce che persona «E un termine forense (Forensick
Term) per attribuire a ciascuno le azioni e i propri meriti, e perciò ri­
guarda solo agenti intelligenti capaci di una legge, di gioia e di dolore»
(E II.xxvii.26: 346). Quest’ultima precisazione svela l’obiettivo princi­
pale a cui mira la riflessione di Locke sulla persona, ossia offrire una
giustificazione ai giudizi morali mediante i quali è possibile imputare o
meno a se stessi o agli altri determinate azioni (E II.xxvii.22)88. Perso­
na è propriamente colui che è responsabile delle proprie azioni ed è in
grado di provare piacere e dolore in relazione alle conseguenze di esse,

87 Cf. 1 Cor 14,25; 2 Cor 5,10.


88 Questo aspetto è particolarmente evidenziato da H.W. NOONAN, Locke on
personal identity, in FuLLER-STECKER-WRIGHT (edd.), John Locke, cit., 210-235, cf. an­
che, ivi, 28-37.
194 Sistemi filosofici moderni

sia presenti che remote. Perciò, ricollegandoci con quanto detto a pro­
posito della volontà e della libertà, persona è colui che è capace di di­
scernere il bene dal male e ha coscienza del propria felicità o miseria,
sia in questa vita presente che in quella futura. L’identità della persona
riguarda non solo la comparazione del proprio io presente con quello
passato, ma anche di quello futuro col presente. In tal senso, felicità o
miseria si traducono in salvezza o condanna. Queste, per Locke, sono
legate non solo alla coscienza in prima persona, ma anche alla legge
naturale, cioè a Dio, il quale «relativamente alla felicità e al dolore del­
le sue creature sensibili non trasferirà mai dall’uno all’altro, in seguito
a un fatale errore, quella consapevolezza che porta con sé il castigo o il
perdono» (E II.xxvii.13: 338), infatti nel giorno del giudizio «nessuno
sarà chiamato a rispondere di quel che gli è del tutto sconosciuto, ma
riceverà quel che è dovuto e la sua coscienza lo accuserà o lo giustifi­
cherà» (E II.xxvii.22: 344).
Sin dai tempi di Thomas Reid e Joseph Butler, gli interpreti non
hanno risparmiato critiche a tale nozione lockeana di identità persona­
le89. L’obiezione sollevata da Reid riguarda la questione della transiti­
vità del criterio di identità personale. Immaginiamo un vecchio gene­
rale (x) che ricorda di aver compiuto un gesto eroico in battaglia
quando era un giovane ufficiale (y); questo giovane ufficiale all’epoca
ricordava poi di aver rubato delle mele quando era bambino (z). Ora
secondo la proprietà transitiva, se x=y e y=z allora x=z. Tuttavia, se­
condo la teoria lockeana, se il vecchio generale non ricorda più di aver
rubato delle mele da bambino, questo significherebbe che x=y e che
y=z e tuttavia x*z. Il che sarebbe ovviamente assurdo. L’obiezione
classicamente avanzata da Butler, riguarda invece la circolarità tra
identità e coscienza. Se l’identità della persona consiste nella sua me­
moria degli atti passati, si presume che tale memoria riguardi ricordi
veri e non fittizi, come talvolta accade. Ma per poter distinguere tra un
ricordo vero e uno falso è necessario presupporre un’identità della
persona che precede i puri dati della sua memoria ed è indipendente
da essi. Ma se si ritiene che l’identità coincida con la memoria stessa, si
cade in un vizio di circolarità. Altri interpreti hanno continuato ad at­
taccare duramente la concezione lockeana dell’identità della persona;
alcuni, invece, ne hanno preso strenuamente le difese90. A oggi, il

89 Cf. LOWE, Locke on Human Understanding, cit., 108-114; YAFFE, Locke on


ideas of identity and diversity, cit., 218-219.
90 Contro Locke e in difesa di una concezione “sostanzialista” dell’io, cf. es. E.J.
dibattito è tutt’altro che sopito. Anzi, se qualcuno ha sostenuto che la
filosofia occidentale consiste in note a piè di pagina a Platone, per
quanto riguarda in particolare la questione dell’identità personale: «su
un tale tema, infondo, si può veramente dire che tutti gli scritti succes­
sivi sono consistiti in note a piè di pagina a Locke»91.

3. Parole

Il Libro III del Saggio, dedicato alle parole, sembra quasi un’in-
terpolazione tra la trattazione delle idee (Libro II), intese come mate­
riale della conoscenza, e l’uso che di tale materiale facciamo nella co­
noscenza vera e propria (Libro IV). Locke stesso confessa: «quando
da principio cominciai questo discorso sull’intelletto, e per un certo
periodo a seguire, io non avevo il minimo sospetto che per il mio sco­
po sarebbe stato necessario uno studio sulle parole» (E III.ix.21: 488).
Perché allora il filosofo ha avvertito l’esigenza di aggiungere questa
trattazione? Il fatto è che:

[le parole] si interpongono (interpose) a tal punto fra il nostro intelletto


e la verità che esso vorrebbe contemplare e comprendere che, in modo simile
a ciò che accade al mezzo (Medium) attraverso cui vediamo gli oggetti visibili,
l’oscurità e il disordine non di rado diffondono una nebbia davanti agli occhi
e con essa opprimono il nostro intelletto.

Ossia, le parole possono essere un grande ostacolo. Come già Ba­


con aveva sentenziato a proposito dei cosiddetti Idoli del Mercato, l’a­
bitudine di associare le parole tra loro nel linguaggio, unita alla ten­
denza a confondere tale associazione con le strutture della realtà stes­
sa, generano la peggiore tra le deformazioni illusorie dell’intelligenza
umana92. Locke si situa in questa linea e, non a caso, il Libro III termina

Low e, Subjects o f Experience, Cambridge University Press, Cambridge 1996; Id., Locke
on Human Understanding, cit., 114-118; A. ALLEGRA, Dopo l’anima. Locke e la discussio­
ne sull’identità personale alle origini del pensiero moderno, Studium, Roma 2005. In dife­
sa della posizione lockeana, mediante una più raffinata interpretazione della sua conce­
zione della coscienza, cf. K.P. WlNKLER, Locke on personal identity, in CHAPPELL (ed.),
Locke, cit., 149-174; o mediante una focalizzazione più precisa della sua concezione fo­
rense della persona, YAFFE, Locke on ideas o f identity and diversity, cit., 223-229.
91 «On this topic, at least, it can be truly said that all subsequent writing has
consisted merely of footnotes to Locke» (H.W. NOONAN, Locke on personal identity, in
FULLER-STECKER-WRIGHT [edd.], John Locke, cit., 210 [trad. mia]).
92 Novum Organum, I, 43. 59-60.
196 Sistemi filosofici moderni

diagnosticando le imperfezioni e gli abusi delle parole, e prescrivendo


come porvi rimedio (E IILix-xi). Ma il linguaggio non possiede solo
questo aspetto problematico o “negativo”, esso, proprio in virtù della
sua natura di medium, è lo strumento migliore che l’uomo ha escogita­
to per la comunicazione tra intelletto e realtà, e tra soggetti parlanti.
L’indagine di questo ruolo “positivo” delle parole ha dato vita alla pri­
ma trattazione sistematica sulla «natura, uso e significato del linguag­
gio» (E II.xxxiii.19: 401) nell’età moderna93.
Che cosa sono le parole secondo Locke? In E III.i.1, il filosofo
sostiene che gli esseri umani sono stati creati da Dio come animali po­
litici, cioè atti a vivere in società insieme ad altri esseri umani. Per ren­
dere ciò possibile, l’umanità ha sviluppato il suo strumento comunica­
tivo per eccellenza: il linguaggio94. Le parole sono anzitutto i «suoni
articolati» che compongono il linguaggio. Ma anche gli animali possie­
dono apparati fonatori capaci di produrre tali suoni.
Di conseguenza, al di là dei suoni articolati, era inoltre necessario che
l'uomo fosse capace di usare questi suoni come segni di concezioni interiori e di
connotarli in modo che si presentassero come segni distintivi per le idee pre­
senti nella nostra mente, così che per loro tramite queste idee divenissero note
agli altri e i pensieri della mente umana potessero trasmettersi dall’uno all’al­
tro (E III.i.2: 402).

È questa l’impostazione di fondo assunta da Locke. Vediamo i


suoi elementi basilari: (a) ciò che noi percepiamo all’interno della no­
stra mente è presente a noi stessi ma è nascosto agli altri, che stanno al­
l’esterno di noi; (b) se vogliamo comunicare l’interno all’esterno dob­
biamo usare qualcosa di esterno capace di rimandare all’interno; (c)
dobbiamo perciò usare dei segni sensibili (visibili, udibili, tangibili
ecc.), tali da poter essere percepiti dagli altri come espressioni di ciò
che concepiamo all’interno della nostra mente, ovvero delle nostre
idee; (d) tra i vari segni espressivi che l’uomo può usare, quelli che me­
glio di altri sono atti a tale scopo sono i suoni articolati o parole. Locke
aggiunge un decisivo elemento ulteriore, necessario per consentire l’u­

93 Altri autori moderni, tra questi notoriamente Hobbes, si erano occupati del
linguaggio, nessuno però in modo così sistematico come Locke; cf. P. GUYER, Locke’s
philosophy of language, in C happell (ed.), Locke, cit., 115-145. Sull’influsso di Locke
nella “svolta linguistica” della filosofia contemporanea, cf. M. LOSONSKY, Linguistic
Turns in Modem Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 2006.
94 Con language Locke intende il «linguaggio verbale» o «lingua» (es. inglese,
italiano).
Il Saggio di Locke 197

tilizzo del linguaggio. Dal momento che usare un segno unico per ogni
idea renderebbe il linguaggio talmente esteso da essere ingestibile, è
indispensabile che (e) singoli segni possano comprendere molte idee.
Ovvero, abbiamo bisogno di «termini generali (generai Terms), ricor­
rendo ai quali con una sola parola si ottiene un segno distintivo per
una moltitudine di entità particolari» (E III.i.3: 402). Nasce così la di­
stinzione tra i nomi propri (es. Lucia, Mario, Saturno, Roma ecc.) e i
nomi comuni (es. donna, uomo, pianeta, città ecc.).
Da questi elementi possiamo trarre alcune considerazioni preli­
minari. Anzitutto dobbiamo notare che la teoria del linguaggio lockea­
na è focalizzata sull’esigenza umana delYespressione, ovvero della rela­
zione tra idee e parole. Diversi interpreti convergono nel notare che,
quando Locke parla di significato o significare, non intende una rela­
zione di tipo semantico, ovverosia che riguarda il rapporto tra parole e
cose (così come nella filosofia del linguaggio contemporanea siamo
abituati a intendere), bensì una relazione di tipo espressivo95. Alla fine
del Libro IV, nel Capitolo xxi, dedicato alla «Divisione delle scienze»,
dopo la fisica o filosofia della natura e la pratica, che comprende anche
l’etica, Locke individua una scienza di nome semiotica:
La terza branca può essere chiamata or] |j£ia)Tixf|, oppure dottrina dei
segni ed essendo le parole la componente più usuale di tale branca, è opportu­
namente denominata anche X,oyixf|, logica. Il suo compito è considerare la na­
tura dei segni dei quali la mente fa uso per comprendere le cose o per trasmet­
tere ad altri la propria conoscenza (E IV.xxi.4: 720).

In greco af)jia significa «segno», perciò la semiotica è la scienza


dei segni. Questi, secondo Locke, possono essere usati dall’uomo per
due scopi: per la propria comprensione delle cose; oppure, per la co­
municazione ad altri della propria conoscenza. Non solo il secondo,
bensì anche il primo di questi due scopi ha, in un certo senso, un valo­
re espressivo; con la differenza che, nel primo caso, tale espressione è
diretta a se stessi, mentre nel secondo ad altri. Locke sostiene che, an­
zitutto, i segni servono a noi stessi per fissare le idee che altrimenti la
memoria non sarebbe in grado di ricordare. Infatti, mediante i segni
(verbali, grafici ecc.) noi imprimiamo in una struttura costante (imma­

95 «I suggest, Locke is concerned rather with expressive relations, and simply


does not bave a “theory o f m eaning” in thè m odern sense at all» (L o w e , Locke on Hu­
man Understanding, cit., 150); per una rassegna delle diverse interpretazioni della signi­
ficazione in Locke, cf. M. LOSONSKY, Language, meaning, and mind in Locke s Essay, in
N ewman (ed.), The Cambridge Companion, cit., 289-292.
198 Sistemi filosofici moderni

gine acustica, grafema ecc.) determinate idee o relazioni d’idee che co­
gliamo con la nostra mente96. Ad esempio, avendo notato una somi­
glianza tra numerose piante che producono frutti simili, fissiamo tale
somiglianza dando a tutte un certo nome: ciliegio, melo ecc. Poi, dato
che «lo scenario delle idee che compongono i pensieri di ogni uomo
non può essere dispiegato alla vista immediata di un’altra persona»
(E IV.xxi.4: 721), usiamo i segni per comunicare i nostri pensieri ad al­
tri. Rispetto alla semiotica che si occupa di tutti i segni, la logica si oc­
cupa dei segni verbali o parole.
In genere, si intende per segno un certo fenomeno immediata­
mente esperibile capace di rimandare a un altro fenomeno non imme­
diatamente esperibile. Si è soliti, perciò, dividere i segni in due specie:
quelli naturali (es. la presenza del fumo rimanda a quella del fuoco) e
quelli artificiali (es. portare una fascia nera al braccio rimanda alla per­
dita recente di una persona cara). Ora, per Locke le parole sono dei
segni artificiali delle idee. Segni che sono stati arbitrariamente elabora­
ti e formulati dalle comunità umane affinché i loro membri potessero
comunicare tra loro i propri pensieri:
Questo accade non per una qualsiasi connessione naturale che possa
esistere fra particolari suoni articolati e determinate idee, poiché, in un tal ca­
so, non esisterebbe fra gli uomini che un solo linguaggio; bensì per una impo­
sizione volontaria, per cui una certa parola è assunta arbitrariamente come se­
gno di una certa idea. L’utilità delle parole è dunque di essere segni sensibili
delle idee\ e le idee che rappresentano sono il loro significato proprio e imme­
diato (E III.ii.1: 405).

Il linguaggio è certamente una realtà naturale, dal momento che


i suoi elementi materiali appartengono alla natura (es. il suono, l’aria,
l’apparato fonatorio e uditivo ecc.). Ma che un certo suono articolato
(es. il suono /arbor/) debba stare per una certa idea (es. l’idea di “al­
bero”) non è in nulla determinato dalla natura, bensì soltanto da una
certa convenzione stabilita in una determinata comunità di parlanti.
Dire, perciò, che la relazione tra suoni articolati e idee è arbitraria non

96 La questione della recezione da parte di Locke della distinzione tra linguag­


gio mentale e linguaggio verbale è analizzata a fondo da E.J. ASHWORTH, Locke on lan-
guage, in CHAPPELL (ed.), Locke, cit., 175-198. Solitamente, tale distinzione si fa risalire
al noto passo del De interpretatione di Aristotele, dove si legge che «C iò che si dà nella
voce (tà èv xf) ct)0)vf|) è costituito di simboli delle affezioni che si danno nell’anima (xoì)v
év xf| ty'UX'fl Jca0rì|iidxo)v)» (16a 3-4 [trad. it., ARISTOTELE, De Interpretatione, introdu­
zione, testo greco, traduzione e commento a cura di A. ZADRO, Loffredo, Napoli 1999,
137); cf. F. L o PlPARO, Aristotele e il linguaggio, Laterza, Roma-Bari 2003, 34-70.
Il Saggio di Locke 199

significa affatto dire che ciascuno è Ubero di imporla a proprio piaci­


mento, bensì solo che tale relazione non deriva dalla natura né è ne­
cessaria (E III.ii.8). Di fatto le comunità parlanti usano suoni del tutto
diversi per designare cose medesime (es. tree, arbre, Baum, drzewo,
puu ecc.). Locke pone dunque l’accento sull’aspetto pratico del lin­
guaggio: i segni servono all’uomo per realizzare una comunicazione
pubblica efficace dei propri pensieri privati. L’atto di significare è in
funzione del successo comunicativo, cioè di una efficace trasmissione
di idee tra i parlanti.
Potrebbe sembrare che una tale impostazione sia irrealistica e
solipsistica. Infatti, verrebbe spontaneo pensare che le parole servano
a descrivere le cose e non le idee, e che il mondo sia il referente primo
del linguaggio e non la mente di ciascuno. Ma su questo Locke non ha
esitazioni: «mi si lasci dire che si altera l’uso delle parole e si introduce
una inevitabile oscurità e confusione nel loro significato ogni qual vol­
ta si pretende che le parole designino una qualsiasi altra cosa diversa
da quelle idee che abbiamo nelle nostre menti» (E III.ii.5: 407). Ebbe­
ne, se il referente primo della comunicazione sono le nostre proprie
idee, come possiamo accertarci che queste siano effettivamente simili a
quelle che stanno chiuse nella mente degli altri con cui parliamo?
La risposta di Locke è la seguente:
Gli uomini imparano i nomi e li usano quando discorrono con altri uni­
camente al fine di essere compresi; la qual cosa accade solo quando, mediante
l’uso o il consenso, i suoni che io produco mediante gli organi preposti al par­
lare suscitano nella mente di un altro uomo che li ascolta Videa che io per pri­
mo applico nella mia mente a quel suono quando lo esprimo (E III.iii.3: 409).

Facciamo un esempio: sono al telefono con mio padre che mi di­


ce che anche quest’anno la mimosa del giardino è fiorita rivestendosi
del suo tipico colore giallo. Nel dire questo, mio padre cerca di comu­
nicare a me, mediante le parole giallo, fiore e mimosa una determinata
sensazione che lui sta provando in quel momento e che presume io co­
nosca, in quanto sono cresciuto in quella casa e ad ogni primavera ho
visto fiorire quella pianta. Si potrebbe obiettare che il particolare gial­
lo che mio padre vede con i suoi occhi ottuagenari non è lo stesso che
potrei vedere io, che ho la metà dei suoi anni, né quello che io stesso
vedevo quando ero un bambino. Da questo punto di vista, nessuno è
in grado di trasmettere agli altri le proprie intime sensazioni, né entra­
re nella mente degli altri per vedere se le loro idee siano effettivamente
identiche alle proprie. Ma Locke non pretende minimamente che il
200 Sistemi filosofici moderni

linguaggio assolva a una tale impossibile funzione. Egli dice piuttosto


che tramite il linguaggio noi cerchiamo di suscitare (excite) negli altri
le idee che noi applichiamo (apply) per noi stessi. Tornando così al no­
stro esempio, quello che mio padre cerca di dirmi è questo: se tu fossi
qui, ora, e guardassi la nostra mimosa, vedresti con i tuoi stessi occhi il
colore che io sto vedendo, che è detto giallo. Ora, sappiamo che la na­
tura del segno è proprio quella di rimandare a qualcosa di non presen­
te, perciò la similitudine tra le idee che il linguaggio cerca di suscitare
non è immediata, ma mediata attraverso Pimmaginazione. Infatti, dato
che io non sono lì accanto a mio padre, posso solo immaginare, me­
diante il ricordo o l’esperienza, quel particolare giallo che ha la mimo­
sa. Avendo già visto una mimosa in fiore, io ho associato una mia idea
di sensazione alla parola giallo, una sensazione che posso riprodurre
nell’immaginazione qualora qualcuno dica la parola giallo. Ebbene,
ciò che è in gioco nella comunicazione linguistica, da cui dipende il
suo successo o insuccesso, non è la similitudine o dissimilitudine tra la
sensazione che provo io e quella che prova un altro, giacché queste
non sono direttamente paragonabili. Bensì, la similitudine tra la mia
immaginazione di una certa qualità di un oggetto e la sensazione che
ho avuto o che avrei se potessi percepire immediatamente quella qua­
lità che appartiene a tale oggetto97.
La tesi di Locke, in base alla quale le parole si riferiscono imme­
diatamente alle idee e non alle cose, è confermata da un altro carattere
del linguaggio che mostra ulteriormente la sua natura artificiale: le di­
verse comunità di parlanti suddividono la complessità della realtà in
modi differenti. Perciò, è del tutto errato comprendere il linguaggio
come una sorta di “nomenclatura” della realtà, in base alla quale a
ogni parola corrisponderebbe una determinata cosa. Ciò vale in parti-
colar modo per i termini generali, allo studio dei quali Locke dedica
una parte considerevole del Libro III. All’inizio della spiegazione dei
termini generali, Locke parte da questo assunto basilare: «TUTTE le co­
se esistenti sono particolari» (E III.iii.1: 409). Di contro, «la maggior
parte delle parole che costituiscono i linguaggi sono termini generali, e
questo non è certo il risultato di una negligenza o della casualità, bensì
discende dalla ragione e dalla necessità». Dare un nome particolare a
ogni cosa particolare sarebbe assolutamente insostenibile. Inoltre, con
solo termini particolari non saremmo in grado di fare scienza, dal

97 E questa la posizione di LOWE, Locke on Human Understanding, cit., 150-153.


Il Saggio di Locke 201

momento che ogni regola o legge in quanto tale esprime proprietà e


relazioni di tipo più o meno generale. Ma come arriviamo a formulare
i termini generali?
Le parole divengono generali col farne segni di idee generali, e le idee
divengono generali col separare da esse le circostanze di tempo e luogo, e
qualsiasi altra idea che possa determinarle a questa o quella particolare esisten­
za (E III.iii.6: 410-411).

Locke chiama questo processo astrazione (abstraction), ricorren­


do così a un termine di lungo corso nella storia nella filosofia. Secondo
la teoria “classica”, l’intelletto è in grado di astrarre gli universali che
informano la realtà. Ma dato che Locke ritiene che tutte le cose sono
particolari, di conseguenza «generale e universale non appartengono
all’esistenza reale delle cose, ma sono invenzioni e prodotti deirintellet-
to, elaborati dalla mente per le proprie necessità» (E III.iii.ll: 414).
Quando, ad esempio, un bambino nasce, si abitua a chiamare mamma
solo la propria madre, poi mano a mano si accorge che molte altre per­
sone assomigliano a ella, per il comportamento o per le fattezze, per­
ciò non solo generalizza tale termine, ma anche inizia a capire che la
madre fa parte di un genere molto più ampio, quello di donna, e con
questo nome designa Francesca, Benedetta, Martina e molte altre don­
ne, tralasciando ciò che in ciascuna è particolare quanto all’età, altez­
za, colore dei capelli ecc. e conservando solo ciò che tra tutte loro è
comune (cf. E III.iii.7). Mediante questo duplice processo, di tralascia­
re ciò che è differente e particolare, e di conservare ciò che è simile e
comune, è poi possibile elaborare generalizzazioni sempre più estese. I
termini generali perciò non riguardano le essenze reali delle cose, che -
come sappiamo - Locke ritiene essere al di là della portata delle nostre
capacità conoscitive (E IlI.iii. 15-19; E III.vi.9), bensì solo le essenze
nominali. Di fatto, mediante l’astrazione, la mente umana elabora, in
base alle proprie esigenze, degli insiemi (bundles, collections) che fissa
mediante determinati nomi, al fine di poterli meglio ricordare e comu­
nicare (E III.v.9; E III.vi.8).
Tutta questa disamina non sarebbe completa senza giungere allo
scopo principale che l’ha inizialmente provocata, la denuncia della im­
perfezione delle parole (E IlI.ix), del loro abuso (E III.x) e dei possibili
rimedi a tutto ciò (E IlI.xi). La causa dell’imperfezione delle parole sta
nel fatto che esse «non hanno per natura alcun significato»
(E III.ix.5: 477), questo perciò deve essere imparato e ricordato e, nel
caso di idee molto complesse, ciò è molto difficile e dà luogo a notevoli
202 Sistemi filosofia moderni

ambiguità e oscurità. Tra i termini dotati di maggiore complessità ci


sono i nomi dei modi misti, e tra di essi soprattutto le parole morali o
religiose (es. barare, omicidio, sacrilegio, gloria). Sebbene questi «sia­
no gli stessi sulla bocca di ogni uomo in tutto un paese, tuttavia l’idea
complessa collettiva a cui ciascuno pensa o intende riferirsi mediante
quel nome è evidentemente del tutto differente tra uomini che usano
lo stesso linguaggio» (E III.ix.8: 479). Questa osservazione ci fa capire
quanto il Libro III sia direttamente funzionale a quella discussione cir­
ca «i principi della morale e della religione rivelata» da cui ha tratto
origine il Saggio. In tal senso, possiamo dire che il Libro III svolge nei
confronti del IV una funzione analoga a quella che il Libro I svolge
verso il II: si tratta in entrambi i casi di sottrarre argomenti a ogni for­
ma di indebito dogmatismo morale o religioso. Locke infatti sottolinea
l’inevitabile oscurità degli autori antichi (E III.ix.10) e l’estrema mode­
razione che si dovrebbe usare nell’imporre ogni interpretazione di essi
(E III.ix.22), soprattutto nella lettura dell’Antico e del Nuovo Testa­
mento: «Sebbene ogni cosa espressa nel testo sia infallibilmente vera,
tuttavia il lettore può essere, anzi non potrà non essere del tutto falli­
bile (very fallible) nella loro comprensione» (E III.ix.23: 489-490). Se­
condo Locke, mentre il testo scritturistico ci svela la volontà di Dio at­
traverso parole umane, che sono in se stesse ambigue; la creazione in­
vece offre al lume della ragione indizi universali e indubitabili circa l’e­
sistenza di Dio e l’obbedienza che gli è dovuta. Da ciò Locke trae una
conclusione assai illuminante:

Dal momento che i precetti della religione naturale sono evidenti e del
tutto intellegibili al genere umano e raramente vengono dibattuti, mentre le al­
tre verità rivelate, convogliate a noi dai libri e dalle lingue, sono soggette alle
comuni e naturali oscurità e difficoltà collegate alle parole, penso noi dovrem­
mo diventare più attenti e diligenti nell’osservare i primi, e meno dogmatici,
affermativi e autoritari nell’imporre il proprio senso e la propria interpretazio­
ne dei secondi (E III.ix.23: 490).

Oltre all’imperfezione legata alla natura del linguaggio, vi è an­


che quella legata al suo uso scorretto, a cui molti si abituano sin dalla
nascita. L’abuso delle parole origina dal fatto che in genere si tende a
imparare i nomi prima ancora di associare delle idee a essi. Accade co­
sì che usiamo molte parole (es. saggezza, gloria, grazia) di cui non sap­
piamo il significato, ossia che non designano alcuna idea chiara e di­
stinta nella nostra mente o, peggio ancora, che non denotano cosa al­
cuna (es. anima del mondo, tendenza al moto, materia). Ciò vale in
Il Saggio di Locke 203

particolar modo per i nomi di sostanze, che tendiamo ad assumere al


posto delle cose stesse: «Chi, appartenendo a quella scuola [peripateti­
ca], non è persuaso che forme sostanziali’ anima vegetativa, orrore del
vuoto, specie intenzionali ecc. siano proprio qualcosa di reale?»
(E III.x.14: 497). Avendo imparato questi termini da studenti e confi­
dando nell’autorità dei loro maestri, essi si sono progressivamente
convinti che dietro queste vuote parole ci sia qualcosa di realmente
esistente. Come possiamo rimediare a tutto ciò?
Anzitutto dovremmo (a) cercare di non usare parole a cui non
corrisponda un’idea chiara e distinta nella nostra mente; mentre (b) le
idee, a cui le parole fanno riferimento, dovrebbero essere più possibile
fisse e costanti. Per quanto possibile, poi, dovremmo (c) evitare di ela­
borare termini tecnici ed esoterici, e cercare invece di riportare le no­
stre idee al significato più comune che le parole hanno nel linguaggio;
perciò bisogna sempre (d) rendere noto il significato delle parole e
non nascondere le proprie deficienze dietro un linguaggio oscuro e in­
comprensibile: ciò si può fare fornendo degli esempi, dando delle defi­
nizioni precise, oppure mostrando le cose stesse a cui le parole si rife­
riscono. In tal modo: «Molti di quei grandi volumi rigonfi di parole
ambigue, ora usate in un senso e subito dopo in un altro, sarebbero ri­
dotti a ben poca cosa e molte opere dei filosofi (per non dire di altre),
così come dei poeti potrebbero essere contenute in un guscio di noce
{in a Nut-shelD» (E II.xi.26: 523). Indicazioni queste assai preziose e
sensate, ma che, nonostante tutti gli sforzi, Locke stesso non sembra
aver seguito in modo irreprensibile, vista l’ampiezza e complessità del
suo Saggio, nonché l’ambiguità di molte nozioni in esso utilizzate.

4. Proposizioni

Il Libro IV del Saggio tratta della conoscenza (E Il.i-xiii) e di quel


qualcos’altro a cui l’uomo, per condurre la propria esistenza, è costret­
to ad affidarsi in mancanza di una conoscenza vera e propria, e cioè al-
l’opinione, intesa come sapere solo presunto o probabile (E IV.xiv-xvi).
Da un lato, ciò indica che il ruolo attribuito da Locke alla conoscenza
è più circoscritto rispetto quello a cui siamo abituati, di fatto egli re­
stringe il significato di tale nozione alla certezza. Ma, d’altra parte, egli
sostiene che se l’uomo dovesse limitarsi solo a quest’ultima, nella con­
duzione della propria vita «si troverebbe del tutto perso (at a great
loss)» (E IV.xiv.l: 652), in quanto resterebbe paralizzato di fronte al­
l’impossibilità di orientarsi in tutti quei casi - e sono la maggior parte -
204 Sistemi filosofici moderni

in cui vi sia assenza d’indirizzi epistemici chiari e distinti.


Ecco perché l’autore non si accontenta di determinare la natura
della conoscenza nei diversi modi in cui essa intende il vero e il falso,
ma spende gli ultimi capitoli del Saggio in un’articolata indagine circa
quell’ambito del sapere dove l’uomo si muove in un crepuscolo di luci
e ombre, ovvero tra indizi né del tutto veri né del tutto falsi. In esso,
l’unico vero errore è la pretesa di orientarsi in modo del tutto infallibi­
le, quando sarebbe opportuno assumere invece la massima cautela,
unita a un’essenziale carità e tolleranza verso le opinioni altrui. Sulla
scia di queste riflessioni, Locke giungerà da ultimo a trattare della ra­
gione e della sua distinzione rispetto alla fede religiosa (E IV.xvii-xviii),
approdando così all’argomento originario del Saggio. Come sappiamo,
erano state proprio alcune indistricabili discussioni in materia di mo­
rale e di religione a suscitare l’esigenza d’indagare «l’origine, la certez­
za e l’estensione della conoscenza umana, insieme ai fondamenti e gra­
di della credenza, dell’opinione e dell’assenso» (E I.i.2: 43 ).

4 . 1. Conoscenza
Locke definisce anzitutto la conoscenza in questi termini: «Mi
sembra che la conoscenza non sia altro che la percezione della connes­
sione e dell'accordo, o del disaccordo e della ripugnanza, fra qualsiasi
delle nostre idee» (E IV.i.2: 525). Una definizione di non facile com­
prensione e che, non a caso, ha suscitato notevoli perplessità. Provia­
mo a decifrarla: (a) la conoscenza consiste in una certa percezione ri­
flessiva, ovverosia nell’atto della mente di cogliere ovvero attestare un
determinato contenuto mentale che si rende evidente in essa; (b) tale
contenuto non consiste in una idea, bensì in una certa relazione che in­
tercorre tra idee98; (c) tale relazione può essere o positiva, nella misura
in cui evidenzia la connessione o l’accordo tra idee, o negativa, in
quanto mostra la ripugnanza o il disaccordo tra idee; (d) tutte le idee e
solo le idee sono passibili di tali relazioni99. In somma, la conoscenza

98 Locke specifica che tali relazioni si riducono a quattro tipi: « 1. Identità o diver­
sità. 2. Relazione. 3. Coesistenza o connessione necessaria. 4. Esistenza reale» (E IV.i.3: 525),
spiegate nelle sezioni successive (E IV.i.4-7); cf. L. Newman, Locke on Knowledge, in
Newm an (ed.), The Cambridge Companion, cit., 327-333.
99 Sebbene il dettato lockeano non lasci molti margini (vedi anche
E IV.iii.l: 538), alcuni interpreti hanno tentato di dimostrare che tale relazione può in­
cludere anche non idee, cioè oggetti esterni; cf. YOLTON, Locke and thè Compass, cit.,
110-112; N. JOLLEY, Locke. His Rhilosophical Thought, Oxford University Press, Oxford
1999, 185-187; LOWE, Locke, cit., 53-55.
Il Saggio di Locke 205

non sarebbe altro che l’evidenza di una relazione positiva o negativa


tra idee. Come «quando sappiamo che bianco non è nero» oppure
«che la somma dei tre angoli di un triangolo è uguale alla somma di due
angoli retti».
Tuttavia, è indispensabile notare che il tipo di conoscenza qui
esemplificata da Locke non consiste in una relazione tra idee qualsiasi,
bensì in una certa relazione tra determinate idee, avente la pretesa di
essere vera o falsa. Questa relazione assume, a ben vedere, una forma
proposizionale, nella misura in cui non i singoli termini e neppure più
termini semplicemente accostati tra loro, bensì solo le proposizioni so­
no portatrici di verità o falsità (E Il.xxxii.l). Anche se non espressa-
mente inclusa nella definizione summenzionata, la natura proposizio­
nale della conoscenza è dichiarata dall’autore stesso del Saggio nell’ul­
tima pagina del Libro II:
a seguito di un approccio più approfondito trovo che esiste una connes­
sione così salda fra idee e parole [...] che risulta impossibile parlare in modo
chiaro e distinto della nostra conoscenza, la quale consiste tutta in proposizio­
ni (which all consists in Propositions), senza considerare innanzitutto la natura,
l’utilità e il significato del linguaggio (E II.xxxiii.19: 401).

E poco più avanti, nel Libro III, egli ribadisce che, se non si ana­
lizzassero attentamente il linguaggio e le parole, «poco si potrebbe di­
re in modo chiaro e pertinente riguardo alla conoscenza, la quale, poi­
ché concerne la verità {being conversant about Truth)yha a che fare co­
stantemente con le proposizioni» (E3.9.21: 488). Infatti, la verità o la
falsità, secondo Locke, suppone sempre una qualche affermazione o
negazione:
Poiché non si possono trovare verità o falsità se non accompagnate da
una certa affermazione o negazione, espressa o tacita, non si troverà l’una o l’al­
tra se non dove dei segni siano congiunti o separati, a seconda dell’accordo o
disaccordo delle cose per cui stanno. I segni che noi principalmente usiamo
sono o idee o parole, con le quali costruiamo proposizioni o mentali o verbali
(E II.xxxii.19: 391).

Pertanto, la percezione dell’accordo o del disaccordo delle idee,


è da ricondurre alla percezione della verità o della falsità di proposi­
zioni affermative o negative100, le quali, a loro volta, possono essere

100 Come ha cercato di mostrare R. MATTERN, Locke: «Our Knowledge, which all
consists in propositions», in CHAPPELL (ed.), Locke, cit., 226-241; cf. anche D. SOLES,
Locke on knowledge and propositions, in «Philosophical Topics» 12 (1985), 19-30.
206 Sistemi filosofici moderni

espresse in enunciati verbali. In effetti, la trattazione della conoscenza


nel Libro IV non farà altro che esaminare diversi tipi di proposizioni:
universali, massime e assiomi, irrilevanti, esistenziali (E IV.vi-ix).
Locke individua poi diversi generi di conoscenza. Anzitutto esi­
ste la conoscenza intuitiva, nella quale «percepiamo l’accordo o disac­
cordo di due idee immediatamente per se stesse, senza l’intervento di
null’altro» (E IV.ii.l: 530-531). Ciò avviene, ad esempio, quando «la
mente percepisce che bianco non è nero, che un cerchio non è un trian­
golo, che tre è più di due ed è uguale a uno più due». Ma la mente è ca­
pace anche di realizzare concatenazioni di intuizioni successive; in gra­
do di vedere relazioni non immediatamente percettibili, come avviene,
ad esempio, nei teoremi di geometria. Questo secondo tipo di cono­
scenza, mediata dal ragionamento, è chiamata da Locke conoscenza di­
mostrativa. Questa possiede un grado di certezza inferiore rispetto alla
conoscenza intuitiva, giacché in alcuni ragionamenti particolarmente
lunghi o complessi la memoria può trarci in inganno (E IV.ii.7).
Ma la conoscenza non si limita solo a queste due forme di perce­
zione intuitiva, immediata o mediata, giacché Locke ammette anche
un terzo genere, il quale, pur «non arrivando a conseguire perfetta­
mente l’uno o l’altro dei precedenti gradi di certezza, figura comunque
sotto il nome di conoscenza» (E IV.ii.14: 537): la conoscenza sensibile.
Rientrano in questo ulteriore genere le conoscenze di esistenze parti­
colari esterne a noi stessi, ovvero di stati di fatto, quali ad esempio che
adesso c’è il sole fuori dalla finestra e che sento il profumo della rosa
che sta sul davanzale. In che senso, tuttavia, si possa parlare di un ac­
cordo o un disaccordo tra idee, nel caso dell’esperienza di esistenze
particolari esterne, è un qualcosa che tuttora interroga gli interpreti
del pensiero lockeano101. Stando alla lettera della definizione di cono­
scenza, solo le idee fungono da termini della relazione percepita dalla
mente, ma la realtà esterna non può essere in quanto tale un’idea, altri­
menti cadremmo in quel veil of ideas più volte imputato alla filosofia
del Saggio, sin dai tempi della disputa suscitata da Stillingfleet, e che
Locke ha sempre fermamente respinto. L’autore - visibilmente conscio
del problema - risponde che «Nulla è più certo del sapere che l’idea
che riceviamo da un oggetto esterno è presente nella nostra mente;
questa è conoscenza intuitiva»; pertanto, la questione di sapere se esi­
sta veramente o meno una certa cosa esistente che corrisponde a quella

101 Cf. es. Low e, Locke on Human Understanding, cit., 171-180.


Il Saggio di Locke 207

idea è del tutto pleonastica. Locke risolutamente sostiene che a ciascu­


no di noi è del tutto evidente la differenza tra stare attualmente guar­
dando il sole o odorando una rosa e ricordare di averlo fatto un tempo
o soltanto immaginare o sognare di poterlo fare.
La conoscenza sensibile stabilisce «l’esistenza di particolari ogget­
ti esterni mediante la percezione e la consapevolezza che noi abbiamo
dell’effettivo ingresso in noi di idee che provengono da tali oggetti»
(E IV.ii.14: 537-538). Ciò significa che nella conoscenza sensibile la
mente percepisce due relazioni allo stesso tempo, la relazione tra le
idee, prese per se stesse, e la relazione di dipendenza che una di queste
idee, qualora sia attualmente sentita, possiede rispetto a una causa
esterna102. Questa seconda relazione, tuttavia, non è dello stesso ordi­
ne della prima, giacché mentre la prima è propriamente conosciuta, la
seconda è relativamente presunta. Infatti, che sia veramente il sole ciò
che io sto attualmente osservando, e che non si tratti di un’allucinazio­
ne, né di un’illusione ottica, né di un sogno o altro, posso adeguata-
mente comprovarlo e, tuttavia, la veridicità della mia affermazione ri­
mane in ultima istanza dipendente dalla causa esterna capace di con­
fermare le mie prove (E IV.xi).
Da tutto ciò capiamo che la certezza consiste in una relazione
immanente o, come si direbbe oggi, analitica tra le idee103. Pertanto, i
diversi tipi di conoscenza summenzionati non fanno che seguire i di­
versi modi e gradi di certezza implicati in tale relazione, a seconda che
essa sia: (a) immediata, quando consiste nella pura intuizione della re­
lazione diretta tra due idee, ed in tal senso la sua certezza è autoevi­
dente; (b) mediata dalla ragione, qualora la relazione tra le idee si ren­
da visibile mediante altre idee, e in questo caso la certezza è legata alla
correttezza e completezza del ragionamento; (c) mediata dalla sensa­

102 «sensitive knowledge essentially involves dual cognized relations arising from
thè twofold nature of ideas of sensation. Ideas of sensation function as vendicai links to
thè external world. They also function as ideas that can stand in perceivable agreement
with other ideas» (NEWMAN, Locke on Knowledge, cit., 350); qui chiaramente riemerge
tutto il problema del fatto che Locke assume per idea indistintamente concetti (le idee
prese per sé) e percetti (le idee in quanto relative a una causa esterna); una confusione
che Kant reputerà giustamente inaccettabile, conducendolo alla distinzione netta e com­
plementare tra intuizioni e concetti; infra, 289-290.
103 «In alcune delle nostre idee ci sono determinate relazioni, attitudini e connes­
sioni così visibilmente incluse nella natura delle idee stesse che non possiamo concepirle
separabili da esse mediante qualsivoglia potere. Solo in queste noi siamo capaci di una
conoscenza certa e universale» (E IV.iii.29: 559); cf. NEWMAN, Locke on Knowledge, cit.,
333-342-
208 Sistemi filosofici moderni

zione, quando una delle due idee consiste nella percezione attuale di
una cosa particolare e, quindi, dipende dall’esistenza della causa ester­
na per la sua eventuale verifica (E IV.iii.2). In conseguenza di ciò, se­
condo Locke, tra le cose attualmente e realmente esistenti abbiamo
una «conoscenza intuitiva della nostra propria esistenza, una cono­
scenza dimostrativa delYesistenza di Dio, e delYesistenza di qualunque
altra cosa abbiamo solo una conoscenza sensibile, che non si estende
oltre gli oggetti presenti ai nostri sensi» (E IV.iii.21: 552-553)104.
La conseguenza principale che il filosofo trae da questa imposta­
zione è che l’estensione della nostra conoscenza è ben più ristretta di
quanto si sia solitamente portati a pensare. Infatti, la conoscenza intui­
tiva non tocca tutte le nostre idee, perché ci è impossibile percepire
tutte le relazioni possibili tra di esse; nemmeno la conoscenza razionale
comprende tutte le nostre idee, giacché assai spesso non siamo in gra­
do di percepire quali idee possano fungere da tramite per la dimostra­
zione di altre; la conoscenza sensibile, infine, è la più ristretta di tutte,
giacché è limitata alla nostra percezione attuale dell’esistenza delle co­
se. Se tutto ciò è vero, «risulta evidente che Vestensione della nostra co­
noscenza non è soltanto inferiore alla realtà delle cose, ma è inferiore
anche all’estensione delle nostre idee» (E IV.iii.6: 539). Agli occhi di
Locke, questa scoperta - dal tenore volutamente socratico105 - è più
importante delle singole scoperte che permettono di aumentare il no­
stro sapere, giacché mette in luce l’entità stessa della nostra conoscen­
za, ossia la sua radicale limitatezza106. Così, mentre la matematica e la

104 In E IV.ix Locke segue Descartes per la certezza dell’i o sum, mentre in
E IV.x critica apertamente le sue argomentazioni per la dimostrazione dell’esistenza di
Dio, scegliendo piuttosto la linea di un argomento cosmologico, la cui debolezza è però
ben evidenziata da Leibniz (Nouveaux essais, cit., IV.10, 436 [trad. it., cit., 1137]) cf. M.
A yers, Mechanism, superaddition, and thè proof of God}s existence in Locke s Essay, in
«Philosophical Review» 90 (1981), 210-251; vedi anche Id., Locke, cit., II, 169-183.
105 «Chi conosce qualcosa sa innanzitutto questo: che non ha bisogno di cercare
a lungo per trovare prove della propria ignoranza» (E IV.iii.22: 553).
106 In E IV.iii.6 Locke sostiene, a comprova della limitatezza della nostra cono­
scenza, l’incapacità di sapere «se un qualunque essere puramente materiale sia dotato di
pensiero oppure no, essendo impossibile per noi, mediante la sola contemplazione delle
nostre idee, senza alcuna rivelazione, scoprire se l’Onnipotente abbia dato a certi sistemi
di materia opportunamente disposti la facoltà di percepire e pensare, oppure non abbia
congiunto e associato alla materia disposta in tal modo una sostanza pensante immate­
riale» (E IV.iii.6: 541), la “scandalosa” ipotesi di una materia pensante provocò un acce­
so dibattito; cf. J.W. YOLTON, Thinking Matter. Materialism in Eighteenth-Century Bri-
tain, University of Minnesota Press, Minneapolis 1984.
Il Saggio di Locke 209

geometria sono vere scienze, tutte le discipline attinenti all’indagine


della natura, a cominciare dalla fisica, restano al di fuori della portata
di una conoscenza certa (E IV.iii.26). Non solo la struttura interna del­
le sostanze corporee e il modo come alle qualità primarie siano con­
nesse le secondarie, bensì anche l’esistenza di sostanze immateriali, co­
me l’anima umana e gli angeli, la resurrezione dei morti e lo stato futu­
ro del mondo, sono tutte conoscenze che restano al di là delle umane
capacità (E IV.iii.22-28).
Di contro, Locke nel Saggio asserisce che la scienza morale o mo­
ralità è capace di dimostrazione (E IV.iii. 18). Questa tesi - tanto otti­
mistica quanto non sufficientemente argomentata - si basa sull’assunto
che le proposizioni della morale riguardino modi misti (es. obbligo,
crimine, giustizia, sacrilegio, omicidio ecc.), i quali non si costituisco­
no mediante un qualche referente esterno, ma «essendo archetipi essi
stessi» (E IV.iv.7: 565)107, non devono ad altro il loro significato:
Dove non c’è proprietà non c’è ingiustizia è una proposizione altrettanto
certa quanto una qualsiasi dimostrazione di Euclide: giacché Videa di proprietà
è un diritto a qualcosa, e assegnando il nome di ingiustizia all 'idea di violazio­
ne o di infrazione a quel diritto, risulta evidente che, così determinate quelle
idee e associati a esse quei nomi, io posso sapere che questa proposizione è ve­
ra con la medesima certezza con cui so che un triangolo ha i tre angoli uguali a
due retti (E IV.iii. 18: 549-550).

La grande difficoltà che impedirebbe alla scienza morale di ma­


nifestare la sua certezza al pari della matematica o della geometria di­
pende dalla distorsione che gli uomini fanno delle sue nozioni basilari.
Ciò avviene per due ragioni principali: per l’estrema complessità di tali
nozioni e per l’impossibilità di associarvi una qualche rappresentazio­
ne sensibile. Mentre un triangolo disegnato su un foglio rende in mo­
do sufficientemente adeguato l’idea di triangolo presente nella nostra
mente, ciò non è possibile con idee come giustizia o coraggio. L’unico
modo di riferirci ai modi misti, che costituiscono le idee della morale,
è di nominarli mediante i termini convenzionalmente stabiliti nelle lin­
gue tramite le quali comunicano le diverse comunità di parlanti. Ciò
non può non introdurre un certo relativismo nel modo di riferirsi a tali
idee108. Come rimedio a questa deriva sempre incombente, Locke sug­

107 Cf. E II.xxx.4; E II.xxxi.3.


108 Cf. C. WlLSON, The moral epistemology of Locke’s Essay, in NEWMAN (ed.),
The Cambridge Companion, cit., 354-403; D.E. F l a g e , Locke and naturai law, in F u l -
LER-STECKER-WRIGHT (edd.), John Locke, cit., 253-255.
210 Sistemi filosofici moderni

gerisce di sforzarsi di assegnare a ciascun temine una definizione «ren­


dendo manifesto quell’insieme di idee semplici designato da ciascun
termine e poi usando i termini stabilmente e costantemente per quel
preciso insieme» (E IV.iii.20: 552). Tuttavia, Locke è persuaso che il
modo come le diverse comunità giungono a definire le idee morali
possieda un sottofondo comune: esse sono formulate in base «all’ap­
provazione o riprovazione, elogio o biasimo, che si stabilisce per con­
senso segreto e tacito nelle diverse società, tribù e cerehie di uomini
nel mondo» (E II.xxviii.10: 353). La ragione di un tale consenso mora­
le universale, non innato ma socialmente sviluppato, è dato dal fatto
che in ultima istanza:
onore e discredito, virtù e vizio corrispondono ovunque in grande misu­
ra con la regola immodificabile del giusto e dell’ingiusto che la legge di Dio ha
stabilito; non essendovi nulla che in modo così diretto e visibile assicuri e pro­
muova il bene comune di tutta l’umanità a questo mondo come l’obbedienza
alle leggi che Egli le ha imposto, e nulla che generi guai e confusione come il
disobbedire a esse (E II.xxviii.ll: 356).

Locke è convinto che l’uomo abbia la capacità di cogliere me­


diante il lume naturale la legge divina, la quale è «l’unica vera pietra di
paragone della rettitudine morale (thè only true touchstone of moral
Rectitude)» (E II.xviii.8: 352). Di conseguenza, è solo «confrontandole
con questa legge che accade che gli uomini giudichino del maggior be­
ne o male morale delle loro azioni, ossia se, in quanto doveri o peccati,
tali azioni possano procurare loro gioia o dolore dalle mani dell’ONNI-
POTENTE». Il filosofo aveva già argomentato in E.II.xx che noi chia­
miamo bene o male ciò che è relativo a piacere e dolore; e più oltre
che «quel che è moralmente bene o male riguarda solo la conformità o
il disaccordo delle nostre azioni volontarie a qualche legge che discen­
de dalla volontà e dal potere del legislatore» (E II.xxviii.5: 351). Per­
tanto, piacere e dolore non sono che gli effetti della nostra osservanza
o inosservanza della legge di natura disposta dalla divina Provvidenza.
E subito dopo, in E ILxxi, egli aveva proiettato la dimensione forense
della persona sullo sfondo del giudizio divino, il quale comporta la ri­
compensa o la punizione finale per ciò di cui ciascuno si rende respon­
sabile109. Ma la ragione per obbedire alla legge divina non si basa solo
sull’aspettativa dei premi eterni o sulla paura dell’eterna punizione,

109 Cf. R. MATTERN, Moral Science and thè concept of person in Locke, in CHAP­
PELL (ed.), Locke, cit., 261-278.
Il Saggio di Locke 211

ma ancor prima sul diritto che Dio, in quanto nostro creatore, ha d’im­
porre la sua legge e che noi, sue creature, riconosciamo a lui in quanto
superiore110.
Ora, il lume naturale è solo una delle due fonti mediante le quali
ci è resa accessibile la legge divina, l’altra fonte è la rivelazione, la qua­
le, secondo Locke, ha raggiunto la sua maggior chiarezza nel Nuovo
Testamento. La rivelazione diviene oggetto di discussione nell’ultima
parte del Livro IV.

4.2. Opinione
All’inizio di E IV.xiv, Locke sostiene che «Dio ha posto alcune
cose in piena luce; e ci ha dato qualche conoscenza determinata sep­
pure limitata [...], come fosse un assaggio di ciò di cui sono capaci le
creature intellettuali» (E IV.xiv.2: 652). La pur limitata conoscenza che
possediamo ci spinge tuttavia a ritenere che vi sia certezza anche in
quella gran parte del nostro sapere, ove avanziamo grazie all’incerta
luce della probabilità. La facoltà che ci permette di orientarci in modo
certo, anche laddove non c’è certezza, è il giudizio: «con il quale la
mente presume che le sue idee siano in accordo o in disaccordo; o, il
che è lo stesso, che una proposizione qualsiasi sia vera o falsa, senza
percepire un’evidenza dimostrativa nelle prove» (E IV.xiv.3: 653). In
tal modo, Locke fa risalire le due classiche forme del sapere, Vepisteme
e la doxa, alle due principali facoltà che la nostra mente possiede nel-
l’intendere il vero e il falso:
Primo, la conoscenza, mediante la quale [la mente] percepisce con cer­
tezza ed è persuasa al di là di ogni dubbio dell’accordo o del disaccordo di
idee qualsiasi. Secondo, il giudizio, che consiste nel combinare insieme nella
mente le idee o nel separade l’una dall’altra, quando il loro accordo o disac­
cordo certo non è percepito, ma presunto essere tale (E IV.xiv.4: 653).

110 «W hen Locke says that morality is dem onstrable, he may have had thè fol-
lowing in mind. First, he thought that he could demonstrate thè existence o f a wise,
good and powerful G o d , of ourselves as rational beings, o f our relationship of depen-
dence on G od. He could then appeal to thè truth that G o d has a right to be obeyed. He
may have also thought it self-evident that a wise, good creator who has a right to be
obeyed would issue laws to motivate us to obey them - by attaching rewards for obedi-
ence and penalties for disobedience. He may have regarded these ‘self-evident’ proposi-
tions as conceptual truths» (FULLER-STECKER-WRIGHT [edd.], John Locke, cit., 17); cf.
M. M e r lo , La legge e la coscienza. Il problema della libertà nella filosofia politica di John
Locke, Polimetrica, Padova 2006, 126-156; vedi anche i manoscritti sull’etica tradotti e
raccolti in LOCKE, Scritti etico-religiosi, cit., 145-174.
212 Sistemi filosofici moderni

Questo testo, meglio di altri, lascia emergere la visione di fondo


del filosofo: la conoscenza consiste nel percepire una relazione che si dà
tra idee, mentre il giudizio od opinione consiste nel combinare ovvero
nel porre le idee in una certa relazione, prima che tale relazione si dia
con evidenza; infatti, presumere non significa altro che assumere che ci
sia accordo o disaccordo tra idee «prima che appaia con certezza».
Mentre la conoscenza si muove sul solido terreno della certezza, il giudi­
zio si avventura nel rischioso terreno del probabile. In un caso, la mente
semplicemente prende atto di una relazione che s’impone analiticamente
tra le idee (es. bianco non è nero\ 2+1 = 3); nell’altro caso, la mente pone
in atto una relazione prima che le idee la manifestino esse stesse, in un
certo senso “scommettendo”, più o meno fondatamente, che essa sarà
confermata (es. domani il sole sorgerà; l’acqua bolle a 100°C).
Per Locke, i fondamenti sui quali regge la probabilità di una pro­
posizione sono principalmente due: (a) la conformità di ogni cosa alla
nostra osservazione ed esperienza; (b) la testimonianza di altri che ci as­
sicurano della loro osservazione ed esperienza. In questo secondo caso,
precisa Locke, dobbiamo sempre considerare «1. il numero; 2. l’inte­
grità; 3. l’abilità del testimone; 4. l’intenzione dell’autore, qualora si trat­
ti di testimonianza presa da un libro; 5. la coerenza delle parti e le circo­
stanze della relazione; 6. le testimonianze contrarie» (E IV.xv.4: 656). A
seconda di tali fattori, il nostro giudizio o assenso111 può variare da un
massimo livello, come quello di una credenza (belief) ben motivata e
che rasenta la conoscenza certa (es. una proposizione che accorda non
solo con la nostra ripetuta esperienza ma anche con quella dei più), si­
no a un livello minimo in cui decade a mera congettura o dubbio (es.
proposizioni che accordano con una nostra singola esperienza ma che
sono contraddette dalla maggioranza)112.
Ma, cosa ci permette di discernere attraverso una schiera così
complessa di fattori di verifica? La ragione. Essa serve non solo - come
sappiamo - ad ampliare la nostra conoscenza, scoprendo la connessio­
ne necessaria tra le idee intermedie di una dimostrazione, ma anche a
regolare il nostro giudizio o assenso, percependo la connessione proba­

111 assenso è sinonimo del giudizio, con la differenza che questo si esercita di­
rettamente nei confronti delle cose, mentre quello nei confronti di verità espresse a pa­
role; cf. E IV.xiv.3.
112 Cf. J. PASSMORE, Locke and thè ethics of belief, CHAPPELL (ed.), Locke, cit., 279-
299 (anche in FULLER-STECKER-WRIGHT [edd.], John Locke, cit., 187-209); N. WOLTER-
SDORFF, John Locke and thè Ethics of Belief, Cambridge University Press, Cambridge 1996.
Il Saggio di Locke 213

bile che può intercorrere tra idee. A seconda della loro relazione con la
ragione, è possibile distinguere diversi tipi di proposizioni:
1. Conformi alla ragione sono certe proposizioni la cui verità possiamo
scoprire con l’esaminare e il derivare le idee che otteniamo dalla sensazione e
dalla riflessione, e, mediante deduzione naturale, scopriamo essere vere o pro­
babili. 2. Superiori alla ragione sono le proposizioni la cui verità o probabilità
non possiamo derivare da quei principi mediante la ragione. 3. Contrarie alla
ragione sono quelle proposizioni che si presentano incoerenti o inconciliabili
con le nostre idee chiare e distinte (E IV.xvii.23: 687).

Locke nota immediatamente l’esistenza anche di un altro senso


del termine ragione, ed è quello che comunemente viene usato in oppo­
sizione alla fede. Tale uso, sebbene diffusissimo, deriva però da un «mo­
do estremamente improprio di parlare» (E IV.xvii.24: 687). Su questo
controsenso il filosofo impernia tutta la sua analisi del rapporto tra fede
e ragione. Di per sé, non dovrebbe sussistere la minima opposizione tra
ragione e fede, giacché questa non è altro che «un assenso fondato sulla
più elevata ragione {on thè highest Reason)» (E IV.xvi.14: 668). La testi­
monianza su cui si basa l’assenso di fede proviene da quanto di meno
ingannevole possa mai esistere: Dio stesso. La certezza della fede, in
quanto fondata sulla rivelazione, è altrettanto indubitabile, sostiene
Locke, quanto il nostro stesso essere. E allora, come è possibile che
molti tendano a opporre ragione e fede? Il fatto è che costoro confon­
dono la superiorità, che le proposizioni rivelate possiedono nei confron­
ti della ragione, con una contrarietà rispetto a essa. Il fatto che la rivela­
zione attesti cose che si trovano «al di là di quel che possono scoprire le
nostre facoltà naturali e al di sopra della ragione» (E IV.xviii.7: 694) può
suonare a molti come una vera e propria sconfessione della ragione,
nonché un appello ad assumere come vessillo della religione il credo,
quia impossibile est113.
Di fronte a ogni forma di fideismo e di fanatismo religioso, che

113 Tale locuzione - citata in E IV.xviii.ll: 696 - è spesso attribuita impropria­


mente a Tertulliano, il quale scrive: «Crucifixus est Dei filius; non pudet, quia puden-
dum est. Et mortuus est Dei filius; credibile prorsus est, quia ineptum est. Et sepultus
resurrexit; certum est, quia impossibile» (De carne Christi, 5.4). Liimpossibile utilizzato
da Tertulliano si riferisce a Marcione, ossia alla sua “impossibilità” ad aderire all’idea
che Cristo possa essere presente nella natura umana. La citazione cade al termine di un
lungo brano in cui vengono sollevati vari passaggi imbarazzzanti per chi aderisce al do-
cetismo. Il tentativo è quello di sciogliere l’imbarazzo marcionita, piegandosi all’eviden­
za che sia stato Dio stesso a cercare condizioni “scandalose” (cf. 1 Cor 1,27).
214 Sistemi filosofici moderni

Fautore avversa risolutamente nel Capitolo Sull’entusiasmo (E IV.xix)114,


bisogna ribadire che: «nessuna proposizione può essere accolta come rive­
lazione divina, od ottenere l’assenso a tutte queste dovuto, se è in con­
traddizione alla nostra chiara conoscenza intuitiva» (E IV.xviii.5: 692).
Ayers sostiene che, con ciò, Locke mirasse a «tagliare le ali alla rivelazio­
ne, subordinandola alla ragione»115. Senza dubbio Locke mostra di es­
sere assai più preoccupato di evitare ogni forma di fideismo e di fanati­
smo entusiastico, derivante da qualche divina rivelazione privata, piutto­
sto che evitare la deriva del deismo. Ma egli non dice affatto che la fede
può risultare positivamente dalla ragione o che si riduce totalmente a
questa. Egli sostiene, piuttosto, che nessuna proposizione rivelata può
essere da noi accettata quando è evidentemente contraria alla nostra co­
noscenza. Ma, come sappiamo, la conoscenza è un ambito ben più angu­
sto di quanto siamo portati a ritenere comunemente. Di conseguenza,
nell’ampio orizzonte del probabile, siamo legittimati a dare il nostro as­
senso a una verità di fede in base al fatto che l’autorevolezza di Dio può
essere, ragionevolmente, ritenuta superiore a quella di ogni altro testi­
mone (E IV.xviii.8-9). Ma ciò significa che per compiere un tale assenso
abbiamo sempre bisogno della mediazione della ragione critica.
Per Locke, la spinta che sotterraneamente ci inclina verso l’entu­
siasmo fideistico è dovuta al desiderio di trovare delle scorciatoie, che
siano capaci di abbreviare la «fatica tediosa e non sempre efficace del
ragionare rigoroso» (E IV.xix.5: 699). Il rapido declivio dell’entusia­
smo porta in sé, tuttavia, un’insanabile contraddizione, giacché Dio
stesso, nel giudizio finale, chiederà conto all’uomo di ogni suo errore,
ivi compreso il cattivo uso della sua ragione. Infatti, «è nell’intenzione
del Creatore stesso che l’uomo impieghi le facoltà di discernimento
che gli sono state assegnate» (E IV.xvii.24: 687-688).

114 L’intero Capitolo è aggiunto a partire dalla quarta edizione dell’Essay', ma, già
in precedenza, Locke aveva segnalato i pericoli connessi a una labile demarcazione dei
confini tra fede e ragione, giacché «là dove manchino, è possibile che si crei la causa se
non di grandi disordini, almeno di grandi dispute e forse di errori che si diffondono nel
mondo» (E IV.xviii.l: 688); cf. N. JOLLEY, Locke on faith and reason, in NEWMAN (ed.),
The Cambridge Companion, cit., 446-451.
115 «H is evident purpose in thè chapters ‘O f Faith and Reason’ and ‘O f Enthu-
siasm’ was to clip thè wings of revelation by subordinating it to ‘reason’, i.e. to thè natu­
rai faculties in generai» (AYERS, Locke, cit., I, 121).
Il Saggio di Locke 215

Bibliografia
Opere
1688 Extrait d’un Livre Anglois qui n est pas encore publié, intitulé «Essai
philosophique concernant l’Entendement», où l’on monte quelle est l’é-
tendue des nos connoissances certaines, et la manière dont nous y par-
venons, in «Bibliothèque Universelle et Historique» 8, pp. 49-142;
trad. ingl., An Extract of a Book, Entituled, A Philosophical Essay
upon Human Understanding, Dunton, London 1692.
1689 Epistola de Tolerantia, J. ab Hoeve, Gouda [sotto pseudonimo]; trad.
ingl., A Letter concerning Toleration, tr. by W. POPPLE, Churchill,
London 1689.
1689 Two Treatises of Government, Churchill, London [anonimi]; 2a ed.
1694; 3a ed. 1698; 4a ed. 1713 [appare il nome dell’autore].
1689 An Essay concerning Humane Understanding, Basset, London [1690
sul frontespizio]; 2a ed., Churchill, London 1694; 3a ed. 1695; 4a ed.
1700; 5a ed. 1706.
1690 A Second Letter concerning Toleration, Churchill, London.
1692 A Third Letter for Toleration, Churchill, London.
1692 Some Considerations of thè Consequences of thè Lowering of Interest,
and Raising thè Value of Money, Churchill, London [anonimo].
1693 Some Thoughts concerning Education, Churchill, London.
1695 The Reasonableness of Christianity, as deliver’d in thè Scriptures,
Churchill, London [anonimo].
1695 A Vindication of «The Reasonableness of Christianity etc.» from Mr
Edward’s Reflections, Churchill, London.
1695 Further Considerations concerning Raising thè Value of Money, Chur­
chill, London.
1697 A Second Vindication of « The Reasonableness of Christianity etc.»,
Churchill, London.
1697 A Letter to thè Right Reverend Edward, Lord Bishop of Worcester, con­
cerning some Passages relating to Mr Locke s «Essay o f Humane Un­
derstanding»: in a late Discourse of His Lordship, in Vindication of thè
Trinity, Churchill, London.
1697 Mr Locke’s Reply to thè Right Reverend thè Lord Bishop of Worcester s
Answer to his «Letter [...]», Churchill, London.
1699 Mr Locke’s Reply to thè Right Reverend thè Lord Bishop of Worcester s
Answer to his «Second Letter [...]», Churchill, London.
216 Sistemi filosofici moderni

Opere postume
1705-07 A Paraphrase and Notes on thè Epistle of St. Paul to thè Galatians
(1705), to thè I Corinthians (1706), to thè II Corinthians (1706), to thè
Romans (1707), to thè Ephesians (1707), Churchill, London.
1706 Posthumous Works of Mr. John Locke, Churchill, London [contiene:
O f thè Conduct of thè Understanding; An Examination ofP. Malebran­
che’s Opinion of Seeing all things in God\ A Discourse ofMiracles; A
part of a fourth Letter for Toleration; Memoirs relating to thè Life of
Anthony, first Earl of Shaftesbury. To which is added\ His new Method
o f a Common-Place-Book, written originally in French and noto tran-
slated into English].
1714 The Remains of John Locke Esq., Curii, London.
1720 A Collection ofSeveral Pieces ofMr. John Locke, never before printed, or
not extant in his Works, ed. by P. D es M a ize a u x , Francklin, London.

Edizioni moderne
1714 The Works of John Locke Esq., 3 voli., Churchill-Manship, London.
1823 The Works of John Locke, a new edition, corrected, 10 voli., Tegg,
London; rprt., Scientia Verlag, Aalen, 1963.
1975- The Clarendon Edition of thè Works ofjohn Locke [30 voli, previsti]:
1975 An Essay concerning Human Understanding, edited with an introduc-
tion, criticai apparatus and glossary by P.H. NlDDITCH, Clarendon
Press, Oxford, 1979 [paperback edition with corrections and a new
foreword].
1976-89 The Correspondence of John Locke, edited by E.S. de Beer, 8 voli.,
Clarendon Press, Oxford [voi. IX di Indici, in preparazione].
1987 A Paraphrase and Notes on thè Epistles of St. Paul, 2 voli., edited by
A.W. WAINRIGHT, Clarendon Press, Oxford.
1989 Some Thoughts concerning Education, edited by J.W. YOLTON - J.S.
YOLTON, Clarendon Press, Oxford.
1990 Drafts for thè Essay concerning Human Understanding and Other Phi-
losophical Writings. I. Drafts A and B, edited by P.H. NlDDITCH -
G.A.J. ROGERS, Clarendon Press, Oxford [3 voli, previsti].
1991 Locke on Money, edited by P.H. K e l l y , 2 voli., Clarendon Press,
Oxford.
2000 The Reasonableness of Christianity as Delivered in thè Scriptures, edi­
ted by J.C. H ig g in s -B id d l e , Clarendon Press, Oxford.
2006 An Essay concerning Toleration, and Other Writings on Law and Poli-
tics (1667-1683), edited by J.R . MlLTON - P. MlLTON, Clarendon
Press, Oxford.
Il Saggio di Locke 217

2012 Vindications of thè Reasonableness of Christianity, edited by V. NUOVO,


Clarendon Press, Oxford.

Introduzioni, studi e commenti sull’Essay


1991 A y er s M., Locke. Epistemology and Ontology, 2 voli., Routledge,
London-New York.
1995 Low e E.J., Locke on Human Understanding, Routledge, London-
New York.
1996 THIEL U. (ed.), John Locke, Essay uber den menschlichen Verstand,
Akademie Verlag, Berlin, 20082.
1999 PARMENTIER M., Introduction à /'Essai sur l’entendement humain de
Locke, Presses Universitaires de France, Paris.
2000 FULLER G. - STECKER R. - WRIGHT J.P . (edd.), John Locke. An Essay
concerning Human Understanding in Focus, Routledge, London-New
York.
2007 NEWMAN L . (ed.), The Ca?nbridge Companion to Lockes “Essay con­
cerning Human Understanding , Cambridge University Press, Cam­
bridge.

Studi generali
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1998 CHAPPELL V. (ed.), Locke, Oxford University Press.
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Continuum Companion to Locke, Continuum, London-New York.

Ponti bibliografiche
1975- John Locke Bibliography, www.libraries.psu.edu/tas/locke/bib/index.
html
Capitolo Quarto
IL TRATTATO DI HUME

Nel gennaio del 1739, venivano pubblicati anonimi a Londra, da


un allora ventisettenne David Hume (1711-1776), i primi due Libri
del Treatise of Human Nature, intitolati rispettivamente Of thè Under­
standing e Of thè Passions. Il Libro III, OfMorals, apparve più tardi,
nel novembre del 1740.
Le grandi ambizioni che l’autore aveva confessato, nell 'Introdu­
zione e in altri passaggi, furono presto seguite da una duratura e ingua­
ribile insoddisfazione verso la propria opera, dovuta non tanto ai con­
tenuti, cui egli rimase sostanzialmente fedele, quanto al modo prolisso
e complicato con cui li aveva esposti. Ancora più insoddisfatti, però,
furono i lettori dell’epoca. Diversi anni più tardi Hume confesserà:
«Mai tentativo letterario fu più sfortunato del mio Trattato sulla natura
umana. Fu un vero aborto di stampa senza neanche suscitare un po’ di
scalpore tra i fanatici»1. In verità qualche pallida reazione c’era stata,
alcune recensioni erano apparse dentro e fuori dell’Inghilterra. Tutta­
via, più che da un genuino interesse scientifico per quel nuovo sistema
di pensiero che il giovane filosofo sperava di diffondere, le reazioni fu­
rono segnate dai timori circa le tendenze scetticheggianti e irreligiose
dell’opera. Timori che valsero a Hume un’immediata e in seguito defi­
nitiva esclusione dalla carriera universitaria.
L’autore tentò di correre ai ripari, pubblicando due brevi testi
che avrebbero dovuto stimolare l’attenzione e facilitare la lettura del
suo imponente Trattato. Già nel marzo del 1740, ovvero qualche mese
prima che il Libro III apparisse, egli diede alla luce un Estratto dei
due volumi già pubblicati, dove «l’argomento chiave di quel libro è ul­
teriormente illustrato ed esposto», come recita il sottotitolo2. Poi, alla

1 D. H ume , La mia vita, in Id., Opere filosofiche, 4 voli., Laterza, Roma-Bari


1987, IV, 332.
2 Questo Abstract, a lungo ignoto ai biografi e, per una complessa serie di ma­
lintesi, attribuito all’allora giovanissimo Adam Smith, è stato sottratto all’oblio da John
Maynard Keynes e Piero Sraffa, i quali nel 1938 ricostruirono dettagliatamente la vicen­
da della stesura e pubblicazione di quell’operetta, restituendo la paternità del testo a
220 Sistemi filosofici moderni

fine del Libro III, aggiunse uriAppendice per chiarire e approfondire


alcuni punti eccessivamente oscuri dei primi due. In ogni caso, le ven­
dite del Trattato furono letteralmente disastrose e la seconda edizione,
riveduta e corretta, che il giovane auspicava di poter comporre di lì a
poco, non vide mai la luce3.
La precoce insoddisfazione dei primi mesi diventerà, col passare
degli anni, un vero e proprio rammarico: «sono stato trascinato dalla
foga della giovinezza e dell’invenzione a pubblicarlo troppo precipito­
samente. Una impresa così vasta, progettata prima dei ventuno anni e
composta prima dei venticinque, doveva essere necessariamente man­
chevole. Mi sono pentito della mia fretta cento e cento volte»4. Nel
1748, dopo aver pubblicato con successo diverse serie di Saggi morali
e politici, Hume compose dei Saggi filosofici sull’intelletto umano, suc­
cessivamente passati alla storia col titolo di Ricerca sull’intelletto uma­
no (secondo il nuovo titolo voluto dall’autore a partire dal 1758): so­
stanzialmente una ripresa, abbastanza sommaria, soprattutto del Libro
I del Trattato, arricchita di alcuni saggi. Tre anni più tardi il Libro III
del Trattato verrà riscritto sotto forma di una Ricerca sui principi della
morale (1751), mentre i contenuti del Libro II saranno riassunti in una
Dissertazione sulle passioni (1757).
Come non è difficile capire da questi pochi dati, il Trattato, seb­
bene smembrato e poi riscritto e riformulato parte per parte, rimarrà il
canovaccio sul quale si svilupperà pressoché l’intera produzione filo­
sofica humeana. Ciò nonostante, Hume stesso dissuaderà sempre più i
suoi lettori dal tornare a quel suo vecchio scritto, giacché a suo giudi­
zio nelle nuove opere i contenuti sono certo abbreviati e semplificati
ma senza che ne sia sminuita affatto la portata, anzi essa risulta persino
aumentata grazie alla maggior chiarezza con la quale i medesimi prin­
cipi filosofici sono finalmente esposti5. Per dissipare ogni dubbio, egli

Hume, con una serie di argomenti oggi unanimemente condivisi; cf. D. Hume, Estratto
di un Trattato della natura umana, con un’introduzione di J.M. KEYNES - P. SRAFFA, a cu­
ra e con un saggio di A. A tta n a sio , Utet Libreria, Torino 1999.
3 Sulla storia della concezione, delle diverse fasi redazionali dei Libri del
Trattato, nonché degli esiti fallimentari dell’opera, cf. J.P. WRIGHT, H um es 'A Treati­
se o f Human Nature\ An Introduction, Cambridge University Press, Cambridge 2009,
1-39.
4 A Gilbert Elliot di Minto, marzo-aprile 1751, in HUME, Opere filosofiche, cit.,
IV, 293.
5 «Io credo che i Saggi filosofici contengono tutti i punti più importanti intor­
no all’intelletto che potreste incontrare nel Trattato, ed io vi suggerisco di non leggere
quest’ultimo. Riducendo e semplificando i problemi, in verità, io li rendo molto più
Il Trattato di Hume 221

scrisse persino uriAvvertenza, posta in esergo alla prima Ricerca, nella


quale invitava i suoi critici a tralasciare definitivamente quel suo av­
ventato lavoro giovanile e a basarsi soltanto sui suoi nuovi scritti6. E
tuttavia, nonostante le nuove opere abbiano migliorato, precisato e tal­
volta del tutto tralasciato alcuni dei contenuti filosofici del Trattato,
molti studiosi continuano a tornare, ancora e comunque, a quella sua
prima, originaria opera. Perché?
La ragione dell’interesse mai del tutto sopito per il Trattato - an­
zi persino rinascente negli studi humeani degli ultimi decenni7 - consi­
ste a mio giudizio nel fatto che, nonostante tutta la sua ridondanza e
complicatezza o forse proprio in ragione di essa, quell’opera rimane
l’unica esposizione effettivamente sistematica della filosofia di David
Hume. L’autore stesso, infatti, prenderà le distanze dai modi espressivi
e dallo stile usati nel Trattato, ma mai dai suoi contenuti basilari. La
prudenza dell’età matura, sollecitata dagli attacchi dei critici e da una
maggiore attenzione per le esigenze di comprensione dei suoi lettori,
gli consiglieranno di affrontare separatamente i diversi problemi e temi
del suo pensiero; e tuttavia quella “audacia” giovanile che lo spinse a
trattare tutta la sua filosofia in una sola opera, e cioè all’interno di un
discorso intenzionalmente unitario e coerentemente formulato, rimane
veramente unica e irripetibile. La cifra sistematica del Trattato non con­
siste in nessuna delle sue singole teorie (epistemiche, antropologiche,
morali, religiose ecc.), per quanto interessanti e stimolanti possano es­
sere ciascuna presa per se stessa, ma nel modo particolare in cui esse
sono poste in relazione le une con le altre. Tale relazione - come spero
di riuscire a mostrare - consiste essenzialmente nel complesso mutuo
sostegno che Hume stabilisce anzitutto tra la sua teoria della conoscen­
za (Libro I) e la sua teoria delle passioni (Libro II) e poi ulteriormente
tra questo insieme teorico e la sua teoria della morale (Libro III).

completi: Addo dum minuo. I principi filosofici sono gli stessi in entrambi» (A Gilbert
Elliot di Minto, marzo-aprile 1751, in HUME, Opere filosofiche, cit., IV, 293).
6 «Most of thè principles, and reasonings, contained in this volume, were pub-
lished in a work in three volumes, called A Treatise o f Human Nature: A work which thè
Author had projected before he left College, and which he wrote and published not
long after. But not finding it successful, he was sensible of his error in going to thè press
too early, and he cast thè whole anew in thè following pieces, where some negligences in
his former reasoning and more in thè expression, are, he hopes, corrected» (D. Hume,
An Enquiry concerning Human Understanding, ed. T.L. BEAUCHAMP, Oxford University
Press, Oxford 1999, 83).
7 Cf. R. R ead - K. Richm an (edd.), The New Hume Debate, Routledge, Lon­
don 2007.
222 Sistemi filosofici moderni

Ecco perché è utile ritornare al Trattato e non accontentarsi delle


letture più o meno parziali che tentano d’illustrare la filosofia humea­
na. Certo, la maggiore sinteticità e accessibilità della Ricerca sull'intel­
letto umano hanno fatto sì che questa sia diventata l’opera standard,
spesso l’unica, che si sceglie di commentare. Ugualmente, sfogliando
diversi manuali di storia della filosofia, ci s’imbatte di solito in una
presentazione della filosofia di Hume che sostanzialmente si riduce al­
la sua teoria della conoscenza, ovvero a quanto esposto nel Libro I del
Trattato. Infatti, l’idea sottostante a questo approccio è che l’insieme
della filosofia humeana vada compresa secondo l’ordine lineare di let­
tura del Trattato: prima di tutto verrebbero i fondamenti epistemici,
da essi discenderebbero poi, come semplici corollari, le diverse que­
stioni pratiche: passioni, morale, politica8. Secondo questa visione,
poi, Hume sarebbe il vertice che conclude una terna di pensatori, ini­
ziata da Locke e Berkeley, nella quale la prospettiva empiristica ver­
rebbe finalmente portata alle sue estreme conseguenze, rovesciandosi
nello scetticismo. La conseguenza più grave di una tale deformazione
prospettica sta nel fatto che in tal modo il pensiero humeano risulta
del tutto squilibrato verso la sua parte decostruttiva, di critica episte-
mica (Libro I), equivocata come parte fondativa. Cosicché, l’immagine
finale che ne scaturisce sarebbe quella di un puro scettico, negatore
della realtà esterna, della causalità, dell’identità personale, e demolito­
re di ogni fondamento morale. La verità è un altra. Lo scetticismo raf­
finato e complesso che vedremo all’opera nel Trattato tende di fatto
verso la concezione più genuina della filosofia, in quanto sapere critico
che non accetta le spiegazioni banali del senso comune e nemmeno si
accontenta di ricevere e conservare le teorie filosofiche tramandate dal
passato.

8 Questa interpretazione è nota come la Reid-Beattie Interpretation, divenuta


standard grazie soprattutto all’Introduzione alle opere complete di Hume a opera di
T.H. Green, nella edizione del 1874.
Il Trattato di Hume 223

CD! Edizioni e traduzioni del Trattato

Dopo quella originale del 1739-40, mai ripubblicata dall’autore, l’edizio­


ne classica di riferimento del Trattato è quella edita da L.A. Selby-Bigge nel
1888 per i tipi della Clarendon Press di Oxford, rivista da P.H. Nidditch nel
1978; la paginazione di questa edizione è diventata il riferimento standard per
le citazioni, tanto da essere riportata in margine alle edizioni e traduzioni me­
glio curate (sigla SB). Si tratta però di un’edizione non critica, con centinaia di
parole omesse, aggiunte o modificate, numerose incoerenze nella punteggiatura
e nelle maiuscole, nonché vistose lacune nelle citazioni in nota. Nel 2007 è stata
finalmente pubblicata la prima edizione critica: A Treatise of Human Nature ,
edited by D.F. NORTON - M J . NORTON, 2. voli., Clarendon Press, Oxford (sigla
T). Si tratta dei volumi 1-2 dell’edizione critica delle opere di Hume attualmen­
te in corso di pubblicazione, The Clarendon Edition o f thè Philosophical, Politi­
cai, and Literary Works of David Hume, i cui curatori generali sono T.L. Beau-
champ, D.F. Norton e M.A. Stewart. Un’edizione curata dai Norton per gli stu­
denti - con introduzione, note, glossario e indici - è disponibile nella collana
Oxford Philosophical Texts (Oxford 2000, 20062) con un testo identico a quello
di T (indicheremo gli apparati di questa edizione con la sigla OPT). Entrambe
le pubblicazioni contengono anche l’edizione critica Abstract del 1740.
La prima traduzione italiana completa del Treatise è quella contenuta
nel primo volume delle Opere, 2 voli., Laterza, Roma-Bari 1971 (dal 1987 in 4
volumi), ove la versione del 1926 di A. Carlini (del solo Libro I) è stata rivista
e completata da E. Lecaldano ed E. Mistretta. La traduzione è affidabile an­
che se redatta con criteri editoriali alquanto datati: tratta da un testo non criti­
co, priva della numerazione dei paragrafi e della paginazione SB, e dunque
molto faticosa da consultare. Recentemente è apparsa una nuova traduzione
con l’originale inglese a fronte (quello del 1978): Trattato sulla natura umana,
introduzione, traduzione, note e apparati di P. GUGLIELMONI, Bompiani, Mila­
no 2001; questa risulta meno aderente al testo originale rispetto alla preceden­
te e si basa sempre sull’edizione non critica, ma almeno riporta in margine i
numeri delle pagine SB, facilitandone assai la consultazione.
Per le citazioni del Trattato seguirò il testo T e per la traduzione italiana
mi rifarò sia a quella di Guglielmoni che a quella di Lecaldano e Mistretta
(con ampia libertà di modificarle quando opportuno), indicando il luogo dove
si trova il passo e la pagina SB; es. T l.4.2.36: 205 significa Libro I, parte 4a, se­
zione 2, paragrafo 36, pagina 205; TI indica YIntroduzione, TA YAppendice.
Per le citazioni ddl*Abstract, indicherò il numero del paragrafo e la paginazio­
ne SB; es. Abstract 8: 649.
224 Sistemi filosofici moderni

1. Un sistema completo delle scienze


Nell 'Avvertenza posta all’inizio dei primi due libri del Trattato,
Hume presenta ai suoi lettori il piano generale di pubblicazione della
sua opera, costruito secondo uno schema 2 + 1. Gli argomenti filosofi­
ci dei primi due libri, Intelligenza e Passioni, formano un tutt’uno (a
compleat chain of reasoning by themselves), mentre il terzo esaminerà
una serie di argomenti volti a portare a compimento l’opera (will com­
pleat this Treatise): nelle intenzioni dell’autore essi saranno la morale,
la politica e la critica. Abbiamo qui dunque due insiemi compresi in un
insieme più generale: il Trattato comprende il Libro III e quell’insieme
costituito dai Libri I-II. Sulla sistematicità di questo piano, Hume si
esprime molto chiaramente nell 'Introduzione:
Non esiste questione di una qualche importanza che non trovi la sua so­
luzione all’interno della scienza dell’uomo, e nessuna può essere risolta con
certezza prima di esserci familiarizzati con quella scienza. Dunque, pretenden­
do di spiegare i principi della natura umana, noi stiamo di fatto proponendo
un sistema completo delle scienze (a compleat system of thè sciences), costruito
su di un fondamento quasi del tutto nuovo, il solo in grado di assicurarle con
ogni sicurezza (TI 6: xvi).

Il progetto di fornire una base solida al sapere sta all’origine del­


la filosofia stessa in quanto episteme, letteralmente «sapere bene fon­
dato», e ne segna sin dal suo sorgere lo stacco rispetto al sapere comu­
ne. Hume declina questo basilare filosofema in relazione allo scopo
del proprio Trattato, che è quello di fornire un sistema completo delle
scienze, la cui novità e saldezza epistemica, consiste nel rinnovato fon­
damento che ora il filosofo pretende di introdurre: la scienza della na­
tura umana o dell’uomo tout court. Da questo testo deduciamo che
l’autore compone la sua opera per offrirci due contributi. Primo, una
(quasi del tutto) nuova base; è questo il dato che la maggior parte degli
interpreti privilegia, tendendo però a ridurre il Trattato a una sorta di
Critica della ragion pura ante litteram, in cui sarebbe esposta sostan­
zialmente la propedeutica ma non il sistema. Secondo, il vero e pro­
prio sistema delle scienze9, specialmente quelle più intimamente legate

9 A. Attanasio parla al proposito di un sistema «antisistematico» (La “mutazio­


ne" della mente, in H ume , Estratto, cit., 140) e cita a supporto P. Casini, il quale sostiene
che l’indagine di Hume «è sorretta da una trama “sistematica” , ma avversa ai sistemi,
sulla falsariga della metodologia newtoniana» (Scienza, utopia e progresso, Laterza, Ro-
ma-Bari 1994, 32). Se l’intento di una tale osservazione è quello di affermare che il siste­
ma humeano non è del tipo di quello di Spinoza, cioè deduttivistico, sono certamente
Il Trattato di Hume 225

alla natura umana: la logica, «che spiega i principi e le operazioni della


nostra facoltà di ragionare, e la natura delle nostre idee»; la morale10 e
la critica11, che hanno per oggetto «i nostri gusti e sentimenti»; e la po­
litica, la quale «considera gli uomini in quanto uniti in società e in re­
ciproca dipendenza tra loro» (TI 5: xv). Non è difficile cogliere in
questa sequenza di temi lo svolgimento dell’intero Trattato.
Quando ci imbattiamo nel titolo dell’opera, Trattato della natura
umana, dobbiamo perciò comprenderlo come una complessa e artico­
lata esposizione sistematica della «scienza dell’uOMO» (TI 4: xv), inte­
sa non solo a determinare l’estensione e la forza dell’intelligenza uma­
na, ovvero la natura delle idee che adoperiamo e delle operazioni che
mettiamo in atto nei nostri ragionamenti, ma anche i principi delle di­
verse scienze immediatamente connesse con tutto ciò. Se teniamo fede
a questo assunto di base, cogliamo immediatamente tutta l’insufficien­
za di leggere il Libro I del Trattato (logica)12, come se questo sia stac­
cato e indipendente rispetto a quanto trattato nel II (psicologia)13 e a
quanto discusso nel III (morale e politica)14. In tale sistema, invece, di­
versi elementi, ben distinti tra di loro, si sostengono reciprocamente
all’interno di un medesimo insieme comune: la natura umana, nella
sua pluridimensionalità «socio-bio-cognitiva»15.
Il sottotitolo del Trattato precisa che l’opera è un Tentativo d'in­
trodurre il metodo sperimentale di ragionamento nei soggetti morali16.

d’accordo, e tuttavia si tratta pur sempre di un sistema - Hume stesso usa frequente­
mente tale termine (cf. «System» nélTndex OPT) - anche se di un tipo differente.
10 Hume sembra accettare due usi di morals: in un senso più ampio e comune­
mente in uso nella filosofia del tempo, si tratta della scienza altra rispetto a quella della
natura, e che si occupa perciò dell’uomo nel suo complesso, così è da intendere ad
esempio l’espressione moral subjects nel sottotitolo del Trattato; in un senso più ristretto,
si tratta della scienza che studia l’origine e la natura dei giudizi morali, secondo un signi­
ficato più prossimo all’uso odierno del termine.
11 Da intendere nel senso odierno di estetica o critica letteraria.
12 E quanto si tenta di fare in un saggio dal titolo assai eloquente, D. PEARS,
Hume’s System. An Examination of thè First Book o f his Treatise, Oxford University
Press, Oxford 1990.
13 II termine non è di Hume, ma è comunemente accettato nella letteratura spe­
cialistica.
14 Per una breve storia del progressivo imporsi, tra gli specialisti, di una lettura
sistematica del Trattato cf. L. GRECO, Lio morale. David Hume e l’etica contemporanea,
Liguori, Napoli 2008,56-57.
15 Questo aspetto è molto ben messo in rilievo da A. ATTANASIO, Gli istinti del­
la ragione. Cognizioni, motivazioni, azioni nel Trattato della natura umana di Hume, Bi-
bliopolis, Napoli 2001.
16 II termine soggetti non è da intendere qui nel senso degli «individui», bensì
226 Sistemi filosofici moderni

Nell’Introduzione Hume spende diverse pagine per spiegare il senso e


il valore di tale metodo sperimentale: «Ora, come la scienza dell’uomo
costituisce l’unico solido fondamento per le altre scienze, così la sola
base solida per la scienza dell’uomo deve essere l’esperienza e l’osser­
vazione» (TI 7: xvi). Così come, un secolo prima, Francis Bacon aveva
introdotto il metodo sperimentale nella scienza della natura, in tempi
più recenti rispetto al Trattato alcuni filosofi (da Locke a Hutcheson)
cominciavano a introdurre tale metodo anche nella scienza morale. Il
punto più interessante di questo rilievo storico è il modo in cui Hume
ne fornisce una giustificazione teoretica. Secondo il filosofo, non ab­
biamo un accesso immediato all’essenza della mente in se stessa - così
come pretende Descartes con il suo cogito17 - e perciò la sua natura,
estensione e capacità ci sono note solo «attraverso esperimenti esatti e
accurati, e attraverso l’osservazione degli effetti particolari»
(TI 8: xvii). Mentre nelle scienze della natura è possibile provocare ar­
tificialmente questi effetti per poterli studiare, con la scienza morale
ciò è impossibile, pena l’alterazione degli effetti stessi. Perciò, il meto­
do sperimentale applicato alla morale deve limitarsi alla «cauta osser­
vazione della vita umana» (TI 10: xix), così come essa ci si presenta
quotidianamente.
Fiumi d’inchiostro sono stati spesi per comparare questo meto­
do sperimentale con quello della scienza naturale di Isaac Newton.
Nei manuali di storia della filosofia si legge sovente che Hume non ha
fatto altro che trasporre nella filosofia morale i principi della fisica
newtoniana, divenendo in qualche modo il “Newton della natura uma­
na”. Nessuno può negare l’immenso influsso del pensiero di Newton
nella cultura della sua epoca, e tuttavia i rapporti tra il filosofo e il
grande fisico sono assai più sottili e complessi di quanto si è soliti nar­
rare. Senza entrare nei dettagli di questo annoso dibattito18, possiamo
sinteticamente rilevare che l’influsso newtoniano si fa certamente più
diretto e sensibile nella costante ricerca da parte di Hume di spiegare
la multiformità dei fenomeni, degli effetti della natura umana secondo

in quello dei «temi o questioni» concernenti la morale, ovverosia - come già detto -
l’uomo nel suo complesso.
17 Per un sintetico confronto tra il progetto fondativo cartesiano e quello hu-
meano cf. WRIGHT, Hume’s A Treatise o f Human Nature’, cit., 41-47.
18 Per avere un’idea delle divergenti posizioni, dalle massimaliste alle minimali­
ste, cf. N. C a p a ld i, David Hume, thè Newtonian Philosopher, Twayne, Boston 1975; J.P.
WRIGHT, The Sceptical Realis?n o f David Hume, Manchester University Press, Manche­
ster 1983.
Il Trattato di Hume 227

un numero il più ristretto possibile di principi. Là dove invece la diffe­


renza tra i due si fa più netta, è nella summenzionata radicale differen­
za nell’uso del metodo sperimentale tra le scienze della natura e quelle
della morale.

2. Logica
2.1. Elementi
«Tutte le percezioni della mente umana si riducono a due specie
distinte, che io chiamerò IMPRESSIONI e ID EE» (T l. 1 .1 .1 : 1). È questa la
proposizione che apre il Trattato. Con essa Hume esprime senza indu­
gio la sua concezione basilare della mente-percezione: se qualcosa si
presenta alla mente non può essere che una percezione e, se è una per­
cezione, non può essere che impressione o idea. Tertium non datur.
Ma non dobbiamo immaginarci la mente come una sorta di recipiente
nella quale vengono a cadere degli oggetti inerti quali le percezioni (es.
rosso, mela, tondo, dolce ecc.), che la mente avrebbe poi solo il com­
pito di collegare, ordinare e così via. Più avanti infatti l’autore dirà:
«Odiare, amare, pensare, sentire, vedere: tutto ciò non è altro che per­
cepire» (Tl.2.6.7: 67). Quando si parla di percezione, quindi, si tratta
di ogni azione od operazione mentale nell’esercizio del suo attuarsi19.
La mente non è da considerare come un contenitore quanto piuttosto
come un sistema vivente cioè un organismo di cui cerchiamo di «ana­
tomizzare»20 le parti, le funzioni, le leggi, i principi.
Di contro, Hume ammette un altro tipo di distinzione basilare,
quella tra impressioni e idee. Il criterio dirimente sta «nei gradi di forza
e vivacità con cui esse colpiscono la nostra mente e arrivano al nostro
pensiero o coscienza» (T 1.1.1.1: l)21. Sono dette impressioni tutte le
«sensazioni, passioni o emozioni, nel loro primo presentarsi alla mente»
(es. il calore che sento ora qui accanto al radiatore); le idee invece sono
«le immagini evanescenti di esse [delle impressioni] sia nel pensare che

19 «Si è già osservato che nulla è mai presente alla mente se non le sue percezio­
ni; e tutte le azioni di vedere, udire, giudicare, amare, odiare e pensare cadono sotto
questa denominazione» (T3.1.1.2: 456); supra, 43-44.
20 Hume paragona ripetutamente la sua filosofia a una «anatomia» della mente
o natura umana; cf. Tl.4.6.23: 623; T3.3.6.6: 620; Abstract 2: 646 (trad. it., cit., 37).
21 «in thè degrees of force and liveliness, with which they strike upon thè mind,
and make their way into our thought or consciousness»; subito sotto, Hume parla di
«degree of force and vivacity» (T. 1.1.1.1: 2).
228 Sistemi filosofici moderni

nel ragionare» (es. il ricordo del freddo percepito stamattina uscendo


dal mio letto). Impressioni e idee - preciserà Hume poco più avanti -
«differiscono solo nel grado, non nella natura» (Tl. 1.1.1.5: 3). Non si
tratta perciò di una differenza qualitativa o ontologica, come quella tra
ciò che è prodotto dall’anima sensitiva da un lato e dall’anima razionale
dall’altro, oppure come quella tra ciò che origina dagli oggetti esterni
alla mente e ciò che origina soltanto all’interno di essa, quali sono ad
esempio le idee di sensazione e le idee di riflessione lockeane22.
Viene però da chiedersi: chi stabilisce quando un grado è suffi­
cientemente vivo o evanescente da permetterci di distinguere un tipo
di percezione da un altro? Su questo punto Hume è lapidario: «Riten­
go che non sarà necessario dilungarsi a spiegare questa distinzione.
Ognuno da sé potrà subito percepire la differenza fra sentire e pensa­
re» (Tl. 1.1.1: 2); certo, esistono le eccezioni (casi estremi o patologi­
ci), ma normalmente nessuno teme esitazioni al riguardo (es. tra sento
lo stomaco pieno o ricordo di averlo avuto pieno). Le ragioni e i criteri
dirimenti della sfera percettiva, di fatto, non possono essere rinvenuti
che all’interno di quella stessa sfera: per distinguere un dato percettivo
dalla sua immagine non ho altro riferimento che il presentarsi dell’uno
come dato e dell’altro come immagine del dato.
Hume introduce poi rapidamente una seconda classificazione al­
l’interno delle percezioni, «quella tra SEMPLICE e COMPLESSO»
(Tl.1.1.2: 2)23. Né qui né altrove egli si dilunga nello spiegare questa
distinzione, sappiamo solo che per semplici intende le percezioni «tali
da non accettare distinzione né separazione» (es. rosso, dolce, liscio
ecc.), mentre per complesse quelle che «si possono distinguere in parti»
(es. mela). L’autore passa invece immediatamente a discutere i rapporti
che sussistono tra impressioni e idee. A una prima constatazione, sem­
bra palese rilevare una certa rassomiglianza di fondo tra impressioni e
idee, tranne ovviamente che nel grado di forza e vivacità; e questa ras­
somiglianza è così costante che le idee sembrano essere la copia delle
impressioni24. Tuttavia, possediamo diverse idee complesse (es. la Ge­
rusalemme celeste) alle quali non corrisponde alcuna impressione;

22 Supra, 165-167.
23 Cf. M. F rasca -Spada , Simple Perceptions in Humes Treatise, in E. MAZZA -
E. RONCHETTI (edd.), New Essays on David Hume, Franco Angeli, Milano 2007,37-54.
24 «Quando chiudo gli occhi e penso alla mia stanza, le idee che mi formo sono
esatte rappresentazioni delle impressioni che ne ho ricevuto; non c’è circostanza nell’u-
na che non si ritrovi nell’altra» (Tl.1.1.3: 3).
Il Trattato di Hume 229

viceversa, possediamo impressioni di un qualcosa (es. la città di Roma


che ho personalmente visitato) dalle quali non posso formarmi un’idea
che la rappresenti esattamente. Sembra perciò necessario restringere la
costatazione prima affermata alle sole idee semplici, cosicché Hume si
sente autorizzato a sancire senza eccezioni la regola secondo cui «ogni
idea semplice possiede un’impressione semplice, che le somiglia; e ogni
impressione semplice una corrispondente idea» (T 1.1.1.5: 3). Anche in
questo caso egli considera l’affermazione come auto-evidente e dimo­
strabile, semmai, solo per via confutativa: «Se qualcuno dovesse negare
questa universale rassomiglianza, non saprei come convincerlo, se non
pregandolo di mostrarmi una impressione semplice che non abbia
un’idea corrispondente, o un’idea semplice che non abbia una corri­
spondente impressione» (Tl. 1.1.5: 4). Non dobbiamo però immagina­
re questa rassomiglianza come se si trattasse di una sorta di riproduzio­
ne pittorica o fotografica. Infatti, tenendo presente ciò che è stato det­
to sopra circa il corretto significato di rappresentazione, ci rendiamo
conto di quanto sia insensato immaginare una copia pittorica di una
impressione semplice come, ad esempio, «sono deluso» da qualcosa.
Posta questa relazione inscindibile tra impressioni semplici e idee
semplici, bisogna ora stabilire se essa abbia o meno un senso preciso:
sono le impressioni a dipendere originariamente dalle idee o viceversa?
Il problema è di un’importanza tale da far dire a Hume che «la tratta­
zione completa della questione è l’argomento di questo trattato»
(Tl.1.1.7: 4). Perciò egli deve limitarsi, per ora, a una trattazione par­
ziale, stabilendo soltanto la seguente proposizione generale: «Che tutte
le idee semplici nella loro prima apparizione, derivano dalle impressioni
semplici corrispondenti e le rappresentano esattamente». Estremamente
interessante, anche in questo caso, è vedere come Hume svolga l’argo­
mentazione della sua tesi in T l.1.1.8. Anzitutto, il filosofo rileva che (a)
le impressioni semplici e le idee semplici sono costantemente congiun­
te, e tale rilievo è supportato sia dall 'evidenza che dalla numerosità dei
fenomeni a favore; ma (b) «un’unione così costante in un così gran nu­
mero di casi non può essere casuale», deve perciò esserci una qualche
dipendenza che giustifichi un’unione di tale costanza; ebbene, (c) se
guardo «l’ordine del loro primo presentarsi» non posso non rilevare
che «per costante esperienza le impressioni semplici precedono sem­
pre le idee corrispondenti, mentre non appaiono mai nell’ordine inver­
so»25; ergo (d) le impressioni semplici sono cause delle idee semplici.

25 «Per dare a un bambino l’idea del rosso scarlatto o dell’arancione, del dolce
230 Sistemi filosofici moderni

Analizzando la struttura di questa argomentazione, vediamo che


Hume (a) inizia da una constatazione di tipo fenomenico che (b) sotto­
pone a una regola, (c) la quale lo riporta a interrogare nuovamente l’e­
sperienza e (d) a trarne infine la debita conclusione. L’argomentazione
funziona perciò mediante un intreccio di dati empirici con regole co­
genti ma non empiriche. Sarebbe facile battezzare questo modo di pro­
cedere come semplicemente induttivo26 e passare oltre, ma una diffi­
coltà emerge con una certa evidenza: Hume conclude il suo ragiona­
mento stabilendo che le impressioni semplici sono cause delle idee
semplici corrispondenti e non viceversa, e giunge a questa conclusione
mediante un’estensione dell’esperienza, la quale, però, secondo l’assio­
ma sperimentale assunto dallo stesso Hume, è in grado di attestare solo
fenomeni numerosi e costanti. Pertanto, tale estensione mira verso una
uniformità e regolarità che vanno ben al di là di quanto la mera espe­
rienza è in grado di supportare. Ma questo modo di procedere non
contraddice l’intento di base della sua filosofia, ovvero quello di man­
tenere il sapere entro i limiti dell’esperienza, senza indebiti trascendi­
menti di tipo metafisico? In realtà, no. Lo scopo del Trattato è infatti
quello di “anatomizzare” la mente umana per ricostruire il suo organi­
co funzionamento, ed è parte costitutiva di tale funzionamento anche
la tendenza a trascendere l’esperienza; bisogna solo spiegare come e su
quale base questo avvenga27. Per fare ciò Hume passa ad analizzare la
dinamica dei processi che caratterizzano l’intelligenza umana28.

o dell’amaro, gli presento oggetti, o, in altre parole, gli procuro queste impressioni; ma
non commetto l’assurdità di produrre le impressioni suscitandone le idee» (Tl. 1.1.8: 5).
26 Notiamo che Hume nel Trattato non parla mai di induzione, il termine ricor­
re solo un paio di volte e nel significato generico di inferenza.
27 In realtà un problema si pone a un livello più profondo, ed è quello che tocca
la circolarità tra la validità del proprio discorso filosofico e i limiti entro i quali Hume
stabilisce che sia possibile validare una argomentazione scientifica in generale. Se - co­
me vedremo - la ratio definitiva delle connessioni causali è Vabitudine, ciò deve valere
anche per le analoghe teorie filosofiche argomentate nel Trattato, quali ad esempio la re­
lazione di causa tra impressioni e idee. Se ciò non fosse vero, avremmo che la filosofia
humeana risulterebbe trans-epistemica rispetto all’epistemologia stessa che intende sta­
bilire; ovvero avremmo una metafisica della ingiustificatezza della metafisica.
28 Si è soliti tradurre Understanding con intelletto, ma, in base a quanto abbia­
mo finora spiegato, è più corretto tradurre con intelligenza, come anche propone Atta­
nasio: «1) “intelletto” è di tradizione idealistica e kantiana, molto lontana da Hume; 2)
in Hume la “facoltà terza” tra i “sensi” e la “ragione” non è quella dello “intelletto”,
bensì quella della “immaginazione” i cui soli elementi sono le “percezioni” (impressioni
e idee). Il termine quindi è riferito alle “capacità e operazioni della mente”, cioè alla “in­
telligenza”» (A. ATTANASIO, Nota alla presente edizione, in HUME, Estratto, cit., 1).
Il Trattato di Hume 231

2.2. Processi
La sezione seconda della l a parte è tanto breve quanto densa e
introduce una ulteriore - ben nota - suddivisione anatomica: «Le im­
pressioni si possono dividere in due specie: quelle di SENSAZIONE e
quelle di RIFLESSIONE» (T 1.1.2.1: 7). Nel descriverne le peculiarità,
Hume ci offre un quadro sintetico dei processi mentali meritevole di
essere riportato nella sua interezza:
La prima specie [impressioni di sensazione] sorge nell’anima originaria­
mente, da cause sconosciute. La seconda [impressioni di riflessione] è derivata
in gran parte dalle nostre idee, nell’ordine che segue. Un’impressione dappri­
ma colpisce i nostri sensi, facendoci percepire caldo o freddo, fame o sete, pia­
cere o dolore di un tipo o di un altro. Di questa impressione c’è una copia rite­
nuta dalla mente, che rimane anche quando l’impressione cessa, e questa noi
chiamiamo idea. Tale idea di piacere o dolore, quando torna ad agire sull’ani­
ma, produce nuove impressioni di desiderio e di avversione, speranza e timo­
re, le quali possono essere chiamate propriamente impressioni di riflessione,
perché ne derivano. Queste di nuovo vengono copiate dalla memoria e dal­
l’immaginazione, e divengono idee; il che probabilmente dà origine ad altre
impressioni e altre idee (Tl. 1.2.1: 7-8).

Questo testo ci aiuta a cogliere in modo paradigmatico la con­


cezione humeana della vita della mente come circolazione fluida e
continua di percezioni (emozioni, sensazioni, idee, passioni, giudizi
ecc.) rispetto alla quale il filosofo assume il compito di studiarne la
natura, i principi, gli elementi, le regole. Allo stadio originario e
spontaneo di questa attività sorgono le impressioni, che però sono da
distinguere secondo due diversi tipi: quelle che si rendono presenti
in modo immediato e quelle che si rendono presenti mediante le co­
pie di altre impressioni precedenti, cioè mediante idee. Secondo un
linguaggio analogo a quello lockeano, Hume chiama le prime «im­
pressioni di sensazione» o sensazioni e le seconde «impressioni di ri­
flessione» o passioni29. E chiaro che l’immediatezza delle prime è tale
da impedire all’attività percettiva una qualunque analisi circa la loro
origine; Hume demanda un tale esame, semmai, alla filosofia naturale,
oggi diremmo alle neuroscienze30. Tutto il contrario per le seconde:

29 Per un approfondimento di questa distinzione e per orientarsi nel linguaggio


non sempre rigoroso e costante con cui Hume usa termini come sensation, passion , emo-
tion ecc., cf. D. OWEN, Hume and thè mechanics ofmind. Impressions, ideas, and associa-
tion, in D.F. NORTON - J. TAYLOR (edd.), The Cambridge Companion to Hume, Cambrid­
ge University Press, Cambridge 20092, 72-80.
30 Hume stesso non si applicherà mai a un tale studio, a differenza di quanto
232 Sistemi filosofici moderni

«Dal momento che le impressioni di riflessione, cioè passioni, deside­


ri ed emozioni, che principalmente meritano la nostra attenzione,
sorgono per lo più dalle idee, allora sarà necessario capovolgere il
metodo» (T 1.1.2.1: 8). Sarebbe naturale, infatti, seguire l’ordine ge­
netico e partire dallo studio delle impressioni per poi risalire alle
idee, e tuttavia, siccome ciò che in primis è degno di interesse sono le
passioni (oggetto del Libro II) e siccome queste derivano dalle idee, è
più logico iniziare dallo studio di queste ultime. Quando l’autore del
Trattato afferma che le passioni sono ciò che principally deserve our
attention, ci offre un dato della massima importanza, soprattutto se
posto qui, nella sezione dedicata alla Suddivisione deWargomento.
Certamente l’avverbio principalmente è da intendere qui non in senso
assoluto, ma relativo alle impressioni di sensazione; eppure la conse­
guenza che ne traiamo è assai interessante. Di fatto, il Trattato si oc­
cuperà pochissimo della questione delle sensazioni31 - con buona pa­
ce di tutti quelli che continuano a catalogare la filosofia humeana sot­
to quel ristretto concetto di “empirismo” elaborato nel Novecento -
mentre centrerà tutta la sua attenzione sulle idee e sulle impressioni
di riflessione, cioè sulle passioni.
L’indagine sulle idee inizia quindi esaminando le Idee della me­
moria e dell immaginazione (Tl. 1.1.3). Vi sono due processi tramite i
quali un’impressione che si è presentata alla mente può nuovamente
ripresentarsi a essa, o in modo tale da conservare in gran parte il gra­
do di forza e vivacità che aveva inizialmente, o in modo tale da per­
derlo interamente o quasi: «La facoltà attraverso la quale noi ripetia­
mo le impressioni alla prima maniera si chiama MEMORIA, quell’altra
IMMAGINAZIONE» (Tl. 1.3.1: 8-9). Le idee prodotte dalla prima o dal­
la seconda facoltà costituiscono due classi che presentano notevoli
differenze. Oltre alla summenzionata disuguaglianza di grado, ovve­
ro le idee della memoria sono più vivaci mentre quelle dell’immagi­
nazione più evanescenti, la differenza maggiormente rilevante - vero
caposaldo del Trattato - sta nel fatto che la memoria è vincolata al­
l’ordine in cui le impressioni si sono originariamente presentate (es.
il resoconto che faccio se interrogato da un poliziotto), invece l’im­
maginazione è indipendente, infatti «non deve seguire per forza il
medesimo ordine e la medesima forma delle impressioni originarie»

avevano fatto Descartes (supra, 79-80) o Malebranche (cf. De la recherche de la vérité,


1.10) e, malgrado un iniziale diniego, anche Locke {supra, 168).
31 Lo stesso farà Kant, infra, 291-292.
Il Trattato di Hume 233

(Tl.1.3.2: 9)32 (es. la fiaba che invento per far addormentare un bimbo).
Tale indipendenza però non è assoluta, bensì sottomessa a una se­
rie di principi associativi. Tali principi svolgono un ruolo della massima
importanza nell’economia del Trattato33. Secondo Hume essi sono uni­
versali, in quanto «rendono [l’immaginazione], in una certa misura,
uniforme con se stessa in ogni tempo e in ogni luogo» (T 1.1.4.1: 10);
ma soprattutto sono essi a dirigere i processi che legano le idee tra di lo­
ro, ovverosia i modi, come dice l’autore, attraversi i quali «un’idea con­
duce naturalmente a un’altra (one idea naturally introduces another)».
Questa - a mio giudizio - è una delle espressioni chiave dell’opera.
Quando Hume dice di voler trattare della natura umana, e qui nel Li­
bro I particolarmente dell’intelligenza, intende propriamente studiare la
“vita” delle idee, ossia spiegare le loro relazioni, cioè il modo come esse
naturalmente si legano e si associano, si evocano o si respingono luna
l’altra.
Nella memoria i legami sono stabiliti dal vincolo della successio­
ne nella quale si sono presentate le impressioni. L’immaginazione inve­
ce è libera. Perciò, in essa agisce quella che il filosofo chiama, con un
ricercato ossimoro, «una forza delicata che solitamente prevale {a gen-
tle force, which commonly prevails)», con la quale la natura si limita a
«indicare {pointing out)» a ciascuno di noi quali idee semplici sono le
più adatte a legarsi in idee complesse. Hume cerca qui un non facile
equilibrio tra la piena libertà dell’immaginazione, «nulla è più libero
di questa facoltà», e le indicazioni tramite le quali l’immaginazione

32 La distinzione tra idee della memoria e idee dell’immaginazione verrà ripresa


e approfondita in Tl.3.5.3-6: 85-86 (TA: 627-628). Hume ci fa notare che il grado di
forza e vivacità che distingue le due classi di idee può mutare col tempo, infatti «un’idea
della memoria potrebbe, perdendo la sua forza e vivacità, degenerare al punto di essere
confusa con un’idea dell’immaginazione» (Tl.3.5.6: 86) e viceversa. In questo caso, co­
me potrei ancora tenerle ben distinte e non cadere, ad esempio, nell’inganno di conside­
rare un ricordo qualcosa che invece è solo frutto della mia immaginazione? Nessun altro
criterio mi è concesso se non la vivacità stessa delle percezioni: «Credere in questo caso
consiste nel sentire un’immediata impressione dei sensi, oppure una ripetizione di quel­
l’impressione nella memoria. Soltanto la forza e la vivacità della percezione costituisco­
no il primo atto del giudizio» (Tl.3.5.7: 86) ovvero Vassenso, che qui Hume fa coincide­
re di fatto con la vivacità stessa delle percezioni.
33 «Tutto il libro mostra grandi ambizioni di nuove scoperte in filosofia, ma se
qualche cosa può dare all’autore il nome tanto glorioso di inventore questo è l’uso che
egli fa del principio di associazione delle idee, che entra a far parte di quasi tutta la sua
filosofia» (.Abstract 35: 661 [trad. it., cit., 69]); cf. C. GlUNTINI, La chimica della mente.
Associazione delle idee e scienza della natura umana da Locke a Spencer, Le Lettere, Fi­
renze 1995.
234 Sistemi filosofici moderni

stessa sospinge «naturalmente» le idee ad associarsi secondo principi


regolari. Il Trattato cerca di tracciare un percorso al crinale di questi
estremi: presidiando, da un lato, i confini di una scienza rigorosamente
sperimentale e, dall’altro, mostrando come la natura umana si ingegni
per oltrepassare quegli stessi confini.
Alcune domande sorgono a proposito di questi principi dei pro­
cessi associativi. Anzitutto, quali sono? «Le proprietà da cui ha origine
questa associazione e che inducono la mente a passare da un’idea al­
l’altra sono tre, ossia RASSOMIGLIANZA, CONTIGUITÀ nello spazio e nel
tempo, e CAUSA ed EFFETTO » (T l.1.4.1: 11). Hume ritiene ovvio osser­
vare che nella nostra attività mentale un’idea tenda a introdurre natu­
ralmente quella che più le somiglia (es. un ritratto naturalmente ci fa
pensare alla persona che vi è raffigurata); e che l’abitudine (long cu-
stom) a percepire con i sensi gli oggetti contigui gli uni agli altri alleni
l’immaginazione a rappresentarseli conseguentemente (es. il Colosseo
fa venire subito in mente l’idea di Roma); e ancor più a spiegarseli se­
condo relazioni causali (es. pensare al figlio fa venire in mente il pa­
dre). Ora, al perché i principi siano questi e solo questi Hume non of­
fre una giustificazione. Probabilmente, egli si limiterebbe a rispondere
di ritenere impossibile una spiegazione esaustiva della natura umana.
Alla domanda ulteriore circa il perché ci siano questi principi,
ovvero quale ne sia l’origine, la risposta del filosofo è esplicitamente
improntata alla massima moderazione: riconosciamo ovunque gli effet­
ti di quella gentle force, «ma quanto alle sue cause, esse sono per lo più
sconosciute, perciò si devono considerare come qualità originarie della
natura umana, che non ho la pretesa di spiegare» (T l.1.4.6: 12). Di
questo limite della sua indagine Hume mette in risalto il lato positivo:
«Niente è più adatto a un filosofo vero e proprio che frenare il deside­
rio impetuoso di cercare le cause». Proprio la hybris di voler cercare le
cause ultime ha condotto i filosofi alle speculazioni «oscure e incerte»
della metafisica. Perciò, la filosofia humeana si configura volutamente
come una sorta di restringimento (restrain), che non è inibizione ma
piuttosto “controllo” di ordine razionale di quel desiderio metafisico
che abita naturalmente la nostra mente34.
Rimane poi un’ultima domanda circa questi principi associativi:
quali sono le idee complesse che essi inducono ad associare? Secondo

34 II tema della limitazione delle pretese della metafisica, in senso non solo ne­
gativo ma anche positivo, sarà uno dei temi focali che Kant riprenderà dal filosofo scoz­
zese; infra, 293-299.
Il Trattato di Hume 235

Hume queste «possono dividersi in RELAZIONI, MODI e SOSTANZE»


(Tl. 1.4.7: 13). Le relazioni (T l . 1.5) possono essere intese in due sensi:
«o nel senso della proprietà attraverso cui due idee si collegano nel­
l’immaginazione, in modo che una introduce naturalmente l’altra»
(T 1.1.5.1: 13), si tratta delle summenzionate relazioni naturali di somi­
glianza, contiguità spazio temporale e causalità; oppure «nel senso par­
ticolare per cui riteniamo opportuno confrontarle anche nel caso in
cui due idee siano unite arbitrariamente nella fantasia». Queste ultime,
per Hume, sono relazioni del tutto convenzionali o meramente filoso­
fiche, in quanto prescindono da un principio associativo. Esse sono
sette: somiglianza, identità, spazio e tempo, quantità, qualità, contra­
rietà, causalità35. Riconosciamo qui alcuni dei temi basilari discussi
dalla filosofia di ogni tempo, che qui però l’autore subordina alle rela­
zioni veramente decisive: quelle naturali36. Come osserva giustamente
J.P. Wright, saranno queste ultime, e non le classiche relazioni filosofi-
che, ad animare di fatto lo sviluppo del Trattato: nel Libro I «l’associa­
zione di idee è la base per le nostre inferenze induttive, la credenza
nella causalità, in un mondo esterno, nelle sostanze materiali e nell’i­
dentità personale»; nel Libro II, sempre l’associazione di idee «genera
le passioni indirette di orgoglio e umiltà, stima e disprezzo. Essa è an­
che la sorgente della nostra simpatia per gli altri e ci consente di pene­
trare nei loro sentimenti»; nel Libro III, sarà poi la simpatia a fungere
da «base per i nostri giudizi morali»37.

35 Tre di queste sette relazioni arbitrarie o filosofiche sono anche naturali o fon­
date su principi associativi; esse perciò sono allo stesso tempo naturali e filosofiche, il
che rende assai complessa la loro trattazione. Il fatto poi che Hume opponga arbitrario a
naturale, non deve farci intendere quest’ultimo termine come necessario, bensì - come
sopra abbiamo spiegato - fondato su quella gentle force che cerca di salvaguardare la li­
bertà di fondo dell’immaginazione.
36 Nel senso, ovviamente, della natura della mente umana: «per quanto riguar­
da la mente, questi [principi associativi] sono i soli legami che tengono insieme le parti
dell’universo, o che ci collegano con ogni persona o oggetto esterno a noi. E considerato
che ogni cosa agisce sulle nostre passioni e, considerato che questi principi sono le sole
connessioni tra i nostri pensieri, essi sono realmente per noi il cemento dell’universo, e
tutte le operazioni della mente debbono dipendervi in grande misura» (Abstract 35: 662
[trad. it., cit., 71]).
37 «thè association of ideas is thè basis for our inductive inferences, thè belief in
causation, in an external world, in material substances, and in personal identity. [...]
generates thè indirect passions of pride, shame, esteem and contempt. It is also thè
source of our simpathy with others, and allows us to enter into their feelings. [...] is thè
basis for our moral judgements» (WRIGHT, Hume’s A Treatise of Human Nature’, cit.,
50 [trad. mia]).
236 Sistemi filosofici moderni

Nella sezione seguente (Tl.1.6), i modi e la sostanza sono intesi


da Hume così:
L’idea di sostanza, come quella di modo, non è altro che una collezione
di idee semplici, che sono unite dall’immaginazione e hanno un nome partico­
lare che loro è assegnato, che ci permette di richiamare, a noi stessi e agli altri,
quella collezione (Tl. 1.6.2: 16).

Dato che - sin dalla prima riga del Trattato - alla mente non si
presentano che percezioni e queste sono o impressioni o idee, ergo la
sostanza deve essere una di queste. Impressione non può essere, in
quanto la sostanza per definizione non è i suoi fenomeni (nessuno
tocca o vede la sostanza di qualcosa), dunque deve essere un’idea, ma
certo non un’idea semplice, giacché come detto manca l’impressione
semplice corrispondente. Perciò non potrà essere che un’idea com­
plessa, ovvero una collection of simple ideas. Hume precisa poi che la
peculiarità dell’idea di sostanza sta nel fatto che in essa i modi «si ri­
feriscono comunemente a un qualcosa di sconosciuto». Più sotto, ri­
prendendo gli stessi argomenti nella sua polemica con La filosofia an­
tica, rea di aver inventato la nozione di sostanza, dirà che «l’immagi­
nazione è atta a fingere qualcosa di ignoto e invisibile, che suppone
continuare identico attraverso tutte queste variazioni; e questo intelle-
gibile qualcosa lo chiama sostanza o materia prima e originaria»
(Tl.4.3.4: 220)38. Ancora oltre, nella sezione dedicata all’Immortalità
deir anima, che precede quella su Identità personale ove Hume ri­
prenderà e approfondirà la questione della sostanza, leggiamo che «se
[...] volessimo eludere la difficoltà definendo la sostanza come qual­
cosa che può esistere da sé (something which may exist by itself)\ e dicen­
do che questa definizione deve bastarci: in questo caso, dunque, io os­
serverei che questa definizione concorda con tutto ciò che è possibile
concepire» (Tl.4.5.5: 233), cioè tutte le percezioni sono sostanze39.

38 Questo è letteralmente Yhupokeimenon o sostrato, nel quale lo stesso Aristo­


tele vede chiaramente una concezione insufficiente di sostanza: «Si è ora detto in sintesi
che cos’è la sostanza: essa è ciò che non viene predicato di alcun sostrato, ma è ciò di cui
tutto il resto viene predicato. Tuttavia la sostanza non si deve caratterizzare solamente in
questo modo, perché così non basta. Infatti, questa caratterizzazione non è chiara. Per
di più, stando ad essa, verrebbe ad essere sostanza la materia» (Metaph., Z3, 1029a 7-10
[trad. it., ARISTOTELE, Metafisica, a cura di G. R ea le , 3 voli., Vita e Pensiero, Milano
1993,11, 293]).
39 L’argomentazione di Hume al proposito è assai interessante: «Perciò io ragio­
no: tutto quel che concepiamo chiaramente può esistere; e tutto quel che concepiamo
Il Trattato di Hume 237

Sulla scia di Locke40, Hume limita dunque la sostanza a un concetto


vuoto o tutt’al più astratto41. Ciò dà adito all’autore di trattare le
Idee astratte come argomento strutturalmente e concettualmente
conclusivo della l a parte del Libro I.
Riguardo un tema antico e controverso come quello delle idee
astratte, la questione focale è per Hume la seguente: «se esse siano ge­
nerali o particolari nella concezione della mente» (T 1.1.7.1: 17). Ora,
nel paradigma humeano della mente-percezione, comprendere il fun­
zionamento dei processi di astrazione equivale a domandarsi come una
certa singola percezione possa stare per classi generali di altre perce­
zioni. L’autore precisa al proposito che la propria posizione si rifà al­
l’affermazione di «un grande filosofo» - che in nota svela essere
Berkeley - il quale ha compiuto una delle più importanti scoperte de­
gli ultimi anni, sostenendo che:

tutte le idee generali non sono altro che idee particolari, connesse a un
certa parola (terni), che conferisce loro un significato più estensivo e, all’oc-
correnza, permette di richiamare (recali) altre idee individuali, che sono simili
a loro.

Hume inizia la sua argomentazione a favore di questa tesi solle-

chiaramente in un certo modo, può esistere in quel modo. Questo è un principio che
abbiamo già riconosciuto. Ancora, tutto ciò che è diverso è distinguibile; e tutto ciò che
è distinguibile è separabile dall’immaginazione. Questo è un altro principio. Da entram­
bi questi principi io concludo che, poiché differiscono le une dalle altre e da qualsiasi al­
tra cosa nell’universo, le nostre percezioni sono anche distinte e separabili, e possono
venir considerate come esistenze separate e possono esistere separatamente, senza aver
bisogno di altro per sostenere la loro esistenza. Per quanto concerne questa definizione
di sostanza, dunque, le percezioni sono sostanze» (Tl.4.5.5: 233).
40 Supra, 184-189.
41 Al di là di chi ritiene che Hume abbia definitivamente debellato la sostanza
(es. ATTANASIO, Gli istinti della ragione, cit., 60) altri vedono abbastanza chiaramente i
limiti di una tale impostazione: «How else can a set of qualities cohere together than by
being properties of one and thè same subject? Or, abandoning that line of defence as
question-begging, let us ask what sort of a collection it was that Hume had in mind.
How is it to be specified? Either thè kind of collection Hume speaks of is specified by
reference to some subject of thè properties, or else it is specified enumeratively by refer-
ence to thè properties that are members of thè collection. In thè first case, Hume does
not escape thè questions that come with thè idea of thè subject of thè properties. In thè
second case, every new property and every old property deleted must result in a new
collection of thè kind Hume proposes» (D. WlGGINS, Substance, in K. TRETTIN [ed.],
Substanz. Neue Uberlegungen zu einer klassischen Kategorie des Seienden, Klostermann,
Frankfurt a.M. 2005, 107).
238 Sistemi filosofici moderni

vando un dilemma: l’idea astratta di uomo (cavallo, albero ecc.) do­


vrebbe poter rappresentare uomini (cavalli, alberi ecc.) di ogni dimen­
sione e qualità, ma ciò può avvenire in due modi: «o essa rappresenta
insieme tutte le possibili dimensioni e qualità, oppure non ne rappre­
senta nessuna in particolare» (Tl.1.7.2: 18). Siccome la prima possibi­
lità è classicamente ritenuta assurda, in quanto richiederebbe una co­
noscenza infinita, sembra che non rimanga che la seconda. Ma que-
st’ultima si basa per il filosofo su un’inferenza errata, per due ragioni
basilari: perché (a) la mente non è in grado di rappresentarsi una
quantità o qualità senza concepire anche un certo grado di esse; e per­
ché (b) la mente è invece in grado di rappresentarsi tutti i possibili
gradi di quantità e qualità, in modo imperfetto e tuttavia sufficiente
per la riflessione e la comunicazione42.
Hume porta anzitutto tre argomenti a sostegno del primo punto:
(a.a) «E evidente a prima vista che la precisa lunghezza di una linea
non è differente né si può distinguere dalla linea stessa» (Tl.1.7.3: 18),
conseguentemente il preciso grado di una qualsiasi qualità non è sepa­
rabile dalla qualità stessa; inoltre (a.b) siccome «nessuna impressione
può presentarsi alla mente senza venir determinata nel suo grado di
qualità e quantità» (T 1.1.7.4: 19) ergo anche la sua copia, cioè l’idea,
non può mai eliminare interamente tale caratteristica; e infine (a.c) sic­
come in natura ogni cosa è individuale, sarebbe assurdo supporre ad
esempio realmente esistente un triangolo che non abbia una precisa
proporzione di lati e di angoli (isoscele, scaleno, equilatero ecc.), e «se
questo è assurdo nel fatto e nella realtà, deve esserlo pure nell’idea»
(Tl. 1.7.6: 19); quindi, non possiamo rappresentarci nulla che non pos­
sieda un grado specifico di qualità e quantità.
Da tutto ciò, dobbiamo concludere che le idee astratte sono nella
loro natura individuali: infatti «l’immagine nella mente è sempre quella
di un oggetto particolare, anche se la usiamo nei nostri ragionamenti
come se fosse universale» (Tl. 1.7.6: 20). Questo oltrepassamento, o co­
me dice letteralmente Hume this application of ideas beyond their natu­
re, è giustificato in seconda istanza (b) grazie al contributo positivo dei
principi associativi, particolarmente del primo, la somiglianza:
Quando abbiamo trovato una somiglianza tra oggetti diversi che spesso

42 Più sotto, con una bella espressione Hume dirà «in maniera insufficiente, ma
utile agli scopi della vita {in such an imperfect manner as may serve thè purposes of life)»
(T l.1.7.7: 20).
Il Trattato di Hume 239

ci capitano dinnanzi, diamo a tutti lo stesso nome, quali che siano le differenze
che possiamo osservare nei gradi della loro quantità e qualità [...]. Acquisita
una tale abitudine (custom), nell’udire quel nome si risveglia l’idea di uno di
quegli oggetti, e si induce l’immaginazione a concepirlo in tutte le sue partico­
lari circostanze e proporzioni (Tl. 1.7.7: 20).

Il ruolo considerevole che qui è attribuito al nominare e ai nomi


sembrerebbe condurci a una sorta di nominalismo. Tuttavia, l’autore
tiene a precisare che non è la parola stessa a richiamare gli altri indivi­
dui, bensì l’abitudine {custom), ossia propriamente Vazione mentale di
esperire le diverse somiglianze, a essere ridestata da qualche progetto
o necessità che si rende presente43. Per Hume, questo processo astrat­
tivo dell’immaginazione è «uno dei fenomeni più straordinari»
(T l.1.7.8: 21) che ci dato osservare nello studio della natura umana.

2.3. Apparenze e realtà


Uno dei problemi che attraversa, più o meno esplicitamente, tut­
to il Libro I del Trattato è quello che concerne il rapporto tra le perce­
zioni e gli oggetti esterni. Sin dalle primissime battute, ove divide le
percezioni in impressioni e idee, individuando nel grado di forza e vi­
vacità l’unico criterio dirimente, Hume marca il suo distacco rispetto
alla prospettiva di Locke, il quale distingue le idee di sensazione dalle
idee di riflessione, le prime essendo effetti degli oggetti esterni sulla
mente e le seconde operazioni interne alla mente stessa44. Hume di­
chiara esplicitamente di preferire un’altra strada, quando - come ab­
biamo visto - nella trattazione sulle idee astratte manifesta la sua ade­
sione alle posizioni di Berkeley. Costui, sia nel Trattato sui principi del­
la conoscenza umana (1710) che nei Dialoghi tra Hylas e Thilonous
(1713), aveva esposto il suo celebre master argument, nel quale sostie­
ne che, se la nostra mente per definizione non può contenere che per­
cezioni, non ha senso chiedersi come essa possa comparare un suo

43 «la parola, poiché non è in grado di ridestare l’idea di tutti questi individui, si
limita a toccare l’anima {only touches thè soul), se così posso esprimermi, e fa rivivere l’a­
bitudine che abbiamo acquisito neU’esaminarli. Essi non sono realmente, di fatto presen­
ti alla mente, ma solo in potenza; né li esibiamo tutti distintamente nell’immaginazione,
ma ci teniamo solamente pronti a considerarli tutti nel caso che un qualche intento o ne­
cessità presente ci spinga a farlo» (Tl.1.7.7: 20). Commenta A. Attanasio: «L’immagina­
zione non dispone di un catalogo morto di nomi, parole, cose, tutti gerarchicamente or­
dinati nella mente, bensì di esperienze vive, sedimentate in modo imperfetto, ma pronte
a riemergere in vista di un progetto presente» {Gli istinti della ragione, cit., 68-69).
44 Supra, 165.
240 Sistemi filosofici moderni

contenuto con qualcosa che non sarebbe un suo contenuto, cioè un


oggetto esterno o reale, come si suol dire.
Hume affronta in modo esplicito per la prima volta45 tale pro­
blema nella sezione conclusiva della 2a parte del Libro I, dedicata a
un’ampia e complessa analisi delle Idee di spazio e tempo. Questa parte
è abitualmente ritenuta una delle più intricate e oscure dell’intera ope­
ra, non a caso - si fa notare - essa sarà tralasciata nella Ricerca suWin­
telletto umano. Negli ultimi decenni, però, diversi studiosi hanno riva­
lutato l’indagine su spazio e tempo contenuta nel Trattato, mettendone
in luce la fecondità verso alcune problematiche di fondo della filosofia
humeana, tra di esse particolarmente quella dell’esistenza esterna46.
Lo studio dettagliato di questa parte richiederebbe un’analisi
molto ampia e complessa, il che andrebbe ben al di là degli scopi della
nostra esposizione. Fortunatamente, lo stesso Hume ci offre un’effica­
ce sintesi della propria argomentazione all’inizio della sezione quarta
(Tl.2.4.1-2):
Il nostro sistema sullo spazio e sul tempo consiste di due parti intima­
mente collegate. La prima si fonda sulla seguente catena di ragionamento. La
capacità della mente non è infinita, per conseguenza, nessuna idea di estensio­
ne o di durata si compone di un numero infinito di parti o idee inferiori, ma di
un numero finito, e queste sono semplici ed indivisibili. E possibile, quindi,
che lo spazio e il tempo esistano conformemente a tale idea; ma, oltre che pos­
sibile, questo è certamente reale, poiché la loro infinita divisibilità è del tutto
impossibile e contraddittoria (T 1.2.4.1: 39).

Fermiamoci ad analizzare questa prima concatenazione argo­


mentativa. Secondo il filosofo, sostenere la divisibilità infinita delle
idee di estensione o di durata equivale a sostenere che esse contengo­
no un’infinità di parti effettivamente, cioè attualmente e non solo po­
tenzialmente47. Ma una tale infinità attuale contraddice la natura finita

45 Una trattazione più approfondita, nella sezione dedicata allo Scetticismo ri­
spetto ai sensi Tl.4.2. (specialmente 18-24: 194-199), è annunciata da Hume in nota
(Tl.2.6.9: 68).
46 Cf. M. F r a sca-S p ad a , Space and thè Self in Hume’s Treatise, Cambridge Uni­
versity Press, Cambridge 1998; L. FALKENSTEIN, Space and Time, in S. TRAIGER (ed.),
The Blackwell Guide to Hume’s Treatise, Blackwell, Oxford 2006, 59-76; D. BAXTER,
Hume’s theory of space and time in its skeptical context, in NORTON-TAYLOR (edd.), The
Cambridge Companion, cit., 105-146.
47 Qui Hume prende una chiara posizione riguardo l’infinito attuale o potenzia­
le, oggetto di un dibattito antico almeno quanto la critica di Aristotele a Zenone (Phys.,
VI 2, 233a), che aveva recentemente coinvolto tra gli altri Locke e Berkeley, ma anche
Il Trattato di Hume 241

della mente umana. Ergo, le idee di spazio e di tempo sono concepibili


solo presupponendo delle porzioni finite, semplici e indivisibili, di
estensione e durata.
Tuttavia, Hume non si limita a stabilire tale condizione di possi­
bilità epistemica, ma pretende di asserire anche che è necessario che lo
spazio e il tempo (non solo le loro idee) siano realmente adeguati all’i­
dea che se ne può avere; perché - afferma - ciò che appare impossibile
e contraddittorio tra le idee deve esserlo anche realmente48. La secon­
da parte del suo sistema sviluppa ulteriormente questo assunto; ri­
prendiamo perciò la citazione da dove l’avevamo interrotta:
L’altra parte è una conseguenza di questa. Le parti, nelle quali si risolvo­
no le idee di spazio e di tempo, sono alla fine indivisibili e queste, che non so­
no nulla in se stesse, non possono essere concepite se non come piene di qual­
cosa di reale e di esistente. Le idee di spazio e di tempo non sono, quindi, idee
separate o distinte, ma semplicemente le idee della maniera o dell’ordine in
cui esistono gli oggetti. In altri termini, è impossibile concepire un vuoto e una
estensione senza materia, né un tempo, se non c’è successione o mutamento in
una qualche esistenza reale (T 1.2.4.2: 39-40).

La tesi qui sostenuta, ovvero che le idee di spazio e tempo altro


non sono se non idee dell’ordine in cui gli oggetti effettivamente esi­
stono, si basa su due presupposti. Da un lato, essa richiama la certez­
za che le nostre impressioni semplici di porzioni semplici e indivisibili
di spazio o tempo non possono che produrre necessariamente idee

Hutcheson e soprattutto Bayle, nella voce Zenone del suo celebre Dictionnaire historique
et critique (1697), al quale Hume deve in gran parte la propria posizione; cf. V. FANO, I
paradossi di Zenone, Carocci, Roma 2012. A mio giudizio, la posizione di Hume conver­
ge con la teoria della gravità quantistica a loop (LQG), che presuppone una concezione
“granulare” dello spazio.
48 Nella 2a parte del Libro I, Hume inizia trattando della divisibilità infinita del­
le nostre idee di spazio e tempo (T 1.2.1) per passare poi alla divisibilità infinita di spazio
e tempo (Tl.2.2) tout court, e lo fa con questo celeberrimo passaggio: «Tutte le volte
che le idee sono rappresentazioni adeguate degli oggetti, anche le loro relazioni, con­
traddizioni e concordanze sono in ogni caso applicabili agli oggetti stessi: questo è, in
generale, il fondamento di tutta la conoscenza umana. Ora, poiché le nostre idee sono
rappresentazioni adeguate delle parti anche più piccole dell’estensione, e poiché queste,
per quanto grande sia il numero delle suddivisioni a cui si può pensare di arrivare, non
possono mai diventare inferiori alle idee che possiamo formarcene, la chiara conseguen­
za di tutto ciò è che tutto ciò che appare impossibile e contraddittorio dal confronto fra
queste idee, deve essere realmente impossibile e contraddittorio, senz’altra scusa o via
d ’uscita» (T l.2.2.1: 29). Per un’esegesi approfondita di questo brano cf. BAXTER, Hu-
m es theory of space and time, cit., 112-121.
242 Sistemi filosofici moderni

semplici che sono copie esatte di quelle impressioni. Le idee complesse


- come sappiamo - possono essere prodotte da noi liberamente, grazie
all’immaginazione; mentre le idee semplici ci vengono imposte. In tal
senso, Hume può sostenere che le nostre idee minimali, sia di tipo
spaziale che temporale, sono rappresentazioni del tutto adeguate, e in
tal senso dunque reali, delle parti minime dell’estensione o della dura­
ta. Perciò, la sequenza e la successione in cui tali idee vengono a di­
sporsi corrisponde alla sequenza e alla successione delle porzioni mini­
me dello spazio e del tempo, così come esse ci appaiono nelle impres­
sioni. Non deve perciò ingannarci l’uso di termini come reale o real­
mente da parte del filosofo scozzese. Il massimo di realtà che egli am­
mette è l’apparenza dei sensi49.
D’altro lato, spazio e tempo sono idee astratte, infatti non pos­
siamo pretendere che né la summenzionata idea dell’ordine temporale
né quella spaziale siano in sé idee semplici: l’idea di spazio non è l’idea
di questa o quella porzione minima di estensione, bensì l’idea della lo­
ro estensività\ così l’idea di tempo è l’idea della duratività. Le idee
astratte - come abbiamo visto - sono pur sempre idee particolari, ma
usate come generali; nel nostro caso, si tratterà di un particolare insie­
me o disposizione di parti (es. un muro di mattoni o una frase musica­
le di cinque note) usato come modo generale di rapportarsi delle parti
tra di loro, nello spazio e nel tempo. Hume scrive: «Come l’idea di
spazio la riceviamo dalla disposizione degli oggetti visibili e tangibili,
così dal succedersi delle idee e impressioni ci formiamo l’idea di tem­
po» (Tl.2.3.7: 35).
Alcuni hanno notato, sulla scia di Kant, come sperare di poter
derivare empiricamente le idee di spazio e tempo sia un impresa votata
al fallimento, e che Hume cadrebbe in un argomento circolare: deri­
vando l’idea di spazio dalla disposizione spaziale degli oggetti, o l’idea
di tempo dalla successione temporale delle idee50. Eppure questa criti­
ca non sembra così facilmente applicabile alla teoria humeana, perché
di fatto in essa le idee astratte di spazio e tempo dipendono da un
meccanismo associativo naturale, determinato dalVabitudine a percepi­
re le porzioni minime di estensione e durata in determinati insiemi
correlativi, simili ad altri insiemi.
Nella breve sezione che conclude la 2a parte del Libro I, Hume
giunge infine a mettere esplicitamente a tema due idee che abbiamo

49 Cf. BAXTER, Hume’s theory o f space and time, cit., 131-136.


50 Cf. F. LAUDISA, Hume, Carocci, Roma 2009, 47-48.
Il Trattato di Hume 243

visto in qualche modo già implicate in quelle di spazio e tempo: Le


idee di esistenza e di esistenza esterna (Tl.2.6). A proposito della se­
conda, l’idea di esistenza esterna, l’autore inizia sostenendo che i filo­
sofi si troverebbero universalmente d’accordo su questa ovvietà:
niente è mai realmente presente con la mente (present with thè mind)
tranne le sue percezioni o impressioni e idee, e che gli oggetti esterni ci sono
noti solo per le percezioni a cui danno occasione (external ohjects become
known to us only by thoseperceptions they occasion) (Tl.2.6.7: 67).

Il linguaggio usato dal filosofo in questo passaggio è volutamen­


te misurato, infatti nella sua rigorosa concezione della mente-percezio­
ne parlare di oggetti esterni è estremamente problematico: come è pos­
sibile che la mente-percezione stabilisca o anche solo tematizzi l’ogget-
tualità esterna di qualcosa di percettivo? Se ciò che definisce le perce­
zioni è la loro presenza alla/con la mente51, ciò che di conseguenza de­
finirà gli oggetti esterni sarà la loro assenza rispetto alla mente52. Dun­
que, gli oggetti esterni debbono, per definizione, non essere né im­
pressioni né idee derivate da impressioni, altrimenti non sarebbero ciò
che - secondo l’espressione assai prudente di Hume - occasiona le no­
stre percezioni53. In due diversi passaggi, l’autore afferma che oggetti
esterni e percezioni vengono considerati come specificamente differen­
ti54; il che significherebbe che la natura degli oggetti esterni dovrebbe
essere concepita come altra rispetto a quella delle percezioni. Tuttavia,
siccome solo le percezioni sono di per sé concepibili, ne segue che
quella degli oggetti esterni è meramente un’idea astratta, che Hume

51 Qui «present with thè mind» (Tl.2.6.7: 67), a sottolineare il lato autocosciente
di tale presenza, altrove: «Chiamo percezione qualsiasi cosa presente alla mente {present to
thè mind), quando usiamo i nostri sensi, quando siamo mossi dalla passione, o nell’eserci­
zio del nostro pensiero e della nostra riflessione» {Abstract 5: (A l [trad. it., cit., 39]).
52 Per Wright, la posizione di Hume è chiaramente quella di un realismo indi­
retto; cf. WRIGHT, Hume’s ‘A Treatise of Human Nature\ cit., 58; supra, 168-169. Per ap­
profondire la questione, cf. Id., The Sceptical Kealism of David Hume, cit.; P. K a il,
Projection and Realism in Hume’s Philosophy, Oxford University Press, Oxford 2007; E.
RADCLIFFE (ed.), A Companion to Hume, Blackwell, Oxford 2007, 441-456.
53 Hume qui sta molto attento a non scrivere causa, perché in un certo senso le
vere cause dell’attività percettiva (vedere, sentire, amare, odiare ecc.) siamo noi in quan­
to percipienti e non gli oggetti esterni. Per occasione, infatti, si intende normalmente un
fatto che favorisce il verificarsi di un evento senza esserne direttamente la causa.
54 «è impossibile concepire o formare un’idea di qualcosa specificamente di­
verso dalle idee o impressioni» (T l.2.6.8: 67); «Il limite più estremo nella concezione
di oggetti esterni supposti come specificamente differenti dalle nostre percezioni»
(T l.2.6.9: 68).
244 Sistemi filosofici moderni

qualifica, per negazione o contrarietà, come una «idea relativa» che ci


limitiamo, tuttalpiù, a «supporre» (Tl.2.6.9: 68)55.
Dal momento che le idee astratte - come abbiamo visto - deriva­
no da un meccanismo associativo basato sulla somiglianza, dobbiamo
concludere che le idee degli oggetti esterni sono concepite come simili
alle percezioni, pur non essendo per natura percezioni: se penso al li­
bro che è ora qui tra le mie mani come a un oggetto esterno, cioè indi-
pendente dalla mia percezione, lo penso come qualcosa di simile a ciò
che sto percependo (es. bianco, rettangolare, flessibile ecc.) eppure
dotato di «relazioni, connessioni e durate» (Tl.2.6.9: 68) che stanno al
di là di quelle che io attualmente percepisco. Si tratta quindi di una
supposizione che dal punto di vista rigorosamente epistemico sembra
non avere il minimo valore, in quanto non aggiunge nulla al mio sape­
re56, ma che la nostra immaginazione tende comunque a formulare in
modo del tutto naturale e spontaneo.

2.4. Dimostrazioni e credenze


All’inizio della 3a parte del Libro I del Trattato, dedicata a Cono­
scenza e probabilità, l’autore riprende quelle sette relazioni filosofiche
in cui si risolvono in fondo le nostre idee complesse57, per suddivider­
le in due classi: «quelle che dipendono interamente dalle idee che noi
compariamo tra loro; e quelle che possono mutare senza che mutino le
idee» (Tl.3.1.1: 69). Con questa complicata formulazione, l’autore in­
dividua nell’insieme delle relazioni due differenti modalità di compa­
razione: le relazioni di idee (es. l’idea di triangolo contiene la relazione
di uguaglianza della somma dei suoi angoli interni a due angoli retti) e
le relazioni di fatto5** (es. ieri la mia bicicletta era in garage). Mentre le
prime relazioni sono per sé invariabili e mutano solo al mutare delle
idee (es. un triangolo mantiene le sue proprietà sia quando è inscritto

55 «possiamo soltanto supporre e mai concepire una differenza specifica tra un


oggetto e un’impressione» (Tl.4.5.20: 241). Qualcosa di analogo - vedremo - caratteriz­
zerà l’idea di «cosa in sé» in Kant; infra, 291-292.
56 Hume propone qui di fare uno dei suoi “esperimenti mentali”: «Concentria­
moci, per quanto possibile, al di fuori di noi; spingiamo la nostra attenzione fino al cie­
lo, o anche ai limiti estremi dell’universo: non avanzeremo neppure di un passo oltre noi
stessi, né potremo concepire una forma di esistenza al di fuori di quelle percezioni, ap­
parse all’interno di quel cerchio ristretto. Questo è l’universo dell’immaginazione, non
abbiamo alcuna idea se non di ciò che vi si presenta» (T 1.2.6.8: 67-68).
57 Ne aveva già trattato in T 1.15 .
58 Hume usa anche l’espressione «materiate] di fatto» (;matter[s] of fact), cf.
Tl.3.7.
Il Trattato di Hume 245

sia quando è circoscritto a una circonferenza, ma se diventa un qua­


drato perde le sue proprietà); le seconde invece sono per sé variabili,
in quanto riflettono mutazioni accidentali (es. oggi la mia bicicletta è
fuori dal garage).
Si è soliti dire che questa divisione humeana, recentemente nota
come Humes fork, pretenda di spartire il sapere umano in due sfere:
quella delle relazioni logico-formali o analitiche, da una parte, e quella
delle relazioni empiriche o sintetiche, dall’altra parte59. È vero che
Hume sostiene che solo le relazioni del primo tipo (.somiglianza, con­
trarietà, gradi di qualità, e proporzioni di quantità o numero), possono
essere «oggetto di conoscenza e certezza» (Tl.3.1.2: 70), mentre quelle
del secondo (;identità, relazione di spazio e tempo, causalità)60 sono og­
getto di probabilità. Così dalle prime egli fa dipendere le scienze che
siamo soliti chiamare “esatte”, cioè algebra, aritmetica e - con qualche
riserva - geometria; mentre dalle seconde le altre. Tuttavia, questa di­
visione non rappresenta una classificazione. Hume non intende affatto
subordinare un finto sapere, solo probabile, al vero sapere, logico-ma­
tematico. Non dobbiamo dimenticare che è l’intelligenza l’oggetto del
Libro I del Trattato e che a Hume interessano più i processi che in essa
avvengono, piuttosto che i suoi semplici risultati, esatti, certi o solo
probabili che siano.
Lo scopo del filosofo, perciò, si qualifica qui propriamente come
quello di distinguere e analizzare da un lato il ragionamento intuitivo e
dimostrativo, che sta alla base della conoscenza delle relazioni di idee; e
dall’altro il ragionamento sperimentale o causale, che fonda i giudizi
probabili circa le materie di fatto. Un’analisi, anche sommaria, della
struttura della 3a parte ci rivela che l’autore dedica di fatto quasi tutte
le sezioni (15 su 16) alla probabilità e una sola sezione (la prima) alla
conoscenza. La sfida che attrae il giovane filosofo - sulla scia di
Locke61 - è proprio quella di riuscire a rendere ragione di quei giudizi
sulle materie di fatto da cui, come dirà ndKAbstract, «dipendono inte­
ramente la vita e l’azione»62.

59 L’applicazione di questa divisione a Hume, da parte di Carnap, Ayer e altri, è


criticata da più parti: cf. A. MURA, Dal noto all’ignoto. Causalità e induzione nel pensiero
di David Hume, Edizioni ETS, Pisa 1996; ATTANASIO, Gli istinti della ragione, cit., 97-105.
60 Negli elenchi che Hume stabilisce di queste sette relazioni filosofiche (e natu­
rali) in Tl.1.5 e in T l.3.1 ci sono alcune piccole differenze, per una tabella riassuntiva,
cf. ATTANASIO, Gli istinti della ragione, cit., 131.
61 Supra, 211-213.
62 Abstract 4: 647 (trad. it., cit., 39).
246 Sistemi filosofici moderni

Le relazioni che possono mutare, senza che mutino le idee, so­


no tre: « identità, situazioni nel tempo e nel luogo, e causalità»
(T 1.3.2.1: 73). Dal momento che - come abbiamo visto - ogni ragio­
namento in fondo consiste nel paragone, variabile o invariabile, di
due oggetti tra loro, ciò può avvenire a tre condizioni percettive pos­
sibili: la presenza di entrambi gli oggetti, l’assenza di entrambi o di
uno solo di essi. Nel primo caso non c’è veramente bisogno di un ra­
gionamento, basta la constatazione; in tutti gli altri casi, invece, è ne­
cessario un ragionamento capace di giustificare la connessione con
eventi assenti, passati o futuri (es. domani il sole sorgerà; tutti gli uo­
mini moriranno). Ma per compiere una connessione con qualcosa di
assente è necessario poter oltrepassare la percezione immediata e, se­
condo Hume, tra le tre relazioni summenzionate «l’unica che può an­
dare al di là dei nostri sensi (can be tracd beyond our senses)60 e
informarci di esistenze e oggetti, che non vediamo o sentiamo, è la
causalità» (Tl.3.2.3: 74).
Ogni ragionamento, infatti, stabilisce una connessione causale:
anche la permanenza nell’identità di una qualunque cosa in assenza
dalla mia percezione (es. le banconote nel portafogli dentro tasca dei
miei pantaloni) si basa sul ritenere che vi sia una causa che mantiene
tale costanza; oppure la distanza invariabile tra due oggetti nello spa­
zio o nel tempo (es. il sole e la luna) è da ricondursi alla causa che de­
termina tale connessione. Dove invece la posizione di Hume diventa
decisamente eversiva rispetto alla tradizione peripatetica, sta nella sua
spiegazione dell’origine, natura e funzionamento di quel processo
chiamato causalità. A questo scopo è dedicata di fatto quasi tutta la 3a
parte del Libro I del Trattato (Tl.3.2-16: 73-179).
Anzitutto, Hume nega decisamente che sia possibile trovare una
qualche qualità intrinseca agli oggetti tale da renderli di per sé cause o
effetti. Nei termini precedenti, la causalità è una relazione che non di­
pende dall’idea, ovvero non è oggetto di intuizione o dimostrazione.
Infatti, mentre è di per sé contraddittorio che un triangolo non abbia
tre lati, non lo è altrettanto che il sole domani non sorga. Pertanto, la
causalità «deve derivare da qualche relazione fra gli oggetti»
(Tl.3.2.6: 75). Hume ne individua tre: la «CONTIGUITÀ» tra causa ed
effetto, la «PRIORITÀ di tempo della causa rispetto all’effetto», ma so­
prattutto la «CONNESSIONE NECESSARIA» tra causa ed effetto, «che è

63 Letteralmente «può essere tracciata al di là dei nostri sensi», secondo D.F.


Norton da intendere come «seen to have an effect beyond» (OPT: 448).
Il Trattato di Hume 247

ben più importante delle altre due» (Tl.3.2.11: 77)64. Ma proprio que-
st’ultima relazione, quella decisiva, solleva un’aporia apparentemente
insormontabile: da un lato l’osservazione degli eventi mi mostra solo la
contiguità e la successione, eppure queste non sono sufficienti a deter­
minare la causalità, in quanto due oggetti possono ben essere contigui
e successivi senza essere affatto l’uno la causa dell’altro; dall’altro lato,
proprio la necessità della connessione, che risulta veramente essenziale
alla causalità, non mi è dato di osservarla mediante l’esperienza: nessu­
no vede o tocca la necessità.
Per sormontare questa impasse Hume imbastisce una prolungata
disamina - vero cuore speculativo del Libro I del Trattato - nella quale
riprende da capo diverse nozioni basilari stabilite nelle parti precedenti
e, in particolar modo, individua, come prerequisito basilare per la de­
terminazione della connessione necessaria, la memoria dell’esperienza
passata, ovvero il «ricordo del costante congiungimento» (T 1.3.6.4: 88)
tra due eventi. Tuttavia, noi non ci limitiamo a registrare ricordi, ma ra­
gioniamo in modo tale che «i casi di cui non abbiamo mai avuto espe­
rienza devono assomigliare a quelli che abbiamo già incontrato, e che il
corso della natura continua in modo uniforme» (Tl.3.6.4: 89). Da dove
nasce questo ragionamento? Dall’intelletto o dall’immaginazione? Sic­
come, da tutto quanto detto finora, non esistono argomenti dimostrati­
vi che possano giustificare la somiglianza necessaria tra eventi passati e
futuri, di conseguenza non rimane che l’immaginazione:
quando la mente passa dall’idea o impressione di un oggetto all’idea o
credenza (belief) di un altro, essa non è affatto determinata dalla ragione, ma
soltanto da certi principi che associano fra loro le idee di questi oggetti e le
uniscono nell’immaginazione (Tl.3.6.12: 92).

64 Mostrare queste tre condizioni - e non negare la causalità! - è anzitutto lo


scopo del celeberrimo esempio delle palle da biliardo: «Una palla da biliardo si trova su
un tavolo, mentre un’altra si muove verso questa con rapidità. Si urtano e la palla che
prima era in quiete ora acquisisce movimento. Questo è un esempio perfetto di relazio­
ne di causa ed effetto, come tutti quelli che conosciamo attraverso la sensazione o la ri­
flessione. Pertanto esaminiamolo. E evidente che le due palle si toccano tra loro prima
che il moto venga trasmesso, e che non c’è intervallo tra l’urto e il moto. La contiguità
nel tempo e nello spazio è quindi la condizione necessaria a tutte le operazioni di causa.
Allo stesso tempo è evidente che il moto che è stato la causa è precedente al moto che è
stato l’effetto. La priorità nel tempo è quindi un’altra condizione necessaria in ogni cau­
sa. Ma questo non è tutto. Proviamo con altre palle dello stesso tipo, in una situazione
simile, e troveremo che sempre l’impulso dell’una provoca il movimento dell’altra. Que­
sta è quindi la terza condizione, cioè una congiunzione costante tra causa ed effetto»
(.Abstract 9: 649 [trad. it, cit., 43]).
248 Sistemi filosofici moderni

Si tratta di un processo mentale analogo a quello che abbiamo


già visto all’opera per le idee astratte65. Nelle due sezioni immediata­
mente successive (Tl.3.7-8) Hume si sofferma a precisare la natura e
la causa di tale belief. «Un’opinione, dunque, o una credenza può es­
sere definita adeguatamente come UN’IDEA VIVACE RELAZIONATA O AS­
SOCIATA A UNA PRESENTE IMPRESSIONE» (T 1.3.7.5: 96). La forza della
credenza causale, la naturalezza e spontaneità con cui s’impone nella
nostra mente, è dovuto finalmente alla vivacità che viene ad assumere
una certa idea, che a rigore di termini dovrebbe essere solo un’opinio­
ne circa qualcosa di assente, e che invece assume la forza di una quasi-
impressione legata a un’impressione vera e propria. Cosa determina
questa «variazione del grado di forza o vivacità» (Tl.3.7.6: 97)?
Hume trova che questa operazione di variazione, che di fatto è
un trasferimento di vivacità, avviene nell’uomo in modo del tutto auto­
matico, spontaneo e irriflesso, perciò conclude: «Dal momento che
chiamo ABITUDINE tutto ciò che deriva da una ripetizione passata, sen­
za alcun nuovo ragionamento né conclusione, possiamo allora stabilire
come verità certa che qualunque credenza segua una presente impres­
sione non ha altra origine che quella» (Tl.3.8.10: 102)66. La credenza
causata dall’abitudine non muta dunque la cosa, cioè l’idea, ma solo il
come, «il modo {manner) di essere rappresentata» (T1.3.7.7A: 628),
conferendo a essa una vivacità, una fermezza, una solidità che la rende
capace di agire come un’impressione e, dunque, di generare giudizi,
decisioni e azioni67.

65 Cf.Tl.3.6.14.
66 «Siamo determinati soltanto dall’ABITUDINE (by CUSTOM alone) a supporre
che il futuro sarà conforme al passato. Quando vedo una palla da biliardo muoversi ver­
so un’altra, la mia mente è immediatamente portata per abito all’effetto consueto, e anti­
cipa la mia vista rappresentandosi la seconda palla in movimento. Non c’è nulla in que­
sti oggetti, considerati in astratto e indipendenti dall’esperienza, che mi induca a trarre
una tale conclusione e, anche dopo aver avuto esperienza di molti ripetuti effetti di que­
sto tipo, non c e argomento che possa determinarmi a supporre che l’effetto sarà confor­
me all’esperienza passata. Le forze attraverso cui i corpi operano ci sono del tutto sco­
nosciute. Noi percepiamo solo le loro qualità sensibili, e quale ragione abbiamo di pen­
sare che le stesse forze saranno sempre congiunte alle stesse qualità sensibili?» (Abstract
15: 652 [trad. it., cit., 49]).
67 «Hume’s thesis is that mental energy or force and vivacity is transferred from
one perception to another via thè associational links, generating belief in unobserved
objects, thè indirect passions, and sympathy with other human beings» (WRIGHT, Hu­
me s A Treatise of Human Nature\ cit., 51).
Il Trattato di Hume 249

2.5. Giudizi e finzioni


Hume era ben consapevole che la sua teoria della causalità - ba­
sata su memoria, credenza e, ultimamente, sull 'abitudine - rappresenta­
va la novità più dirompente del Trattato, anche perché essa apriva il
fronte a un vero e proprio rovesciamento di prospettiva68:
L’efficacia o l’energia delle cause non si trova affatto nelle cause stesse,
né nella divinità, né nella confluenza di questi due principi: invece appartiene
interamente all’anima, che considera l’unione di due o più oggetti in tutti i casi
passati. Qui dunque si trova la potenza reale delle cause, così come la loro
connessione e necessità (Tl.3.14.23: 166).

Nella 4a e conclusiva parte del Libro I, Hume trae le conseguen­


ze metateoriche di quanto ha finora stabilito, fornendoci i lineamenti
del Sistema scettico di filosofia messo a confronto con altri sistemi filo­
sofici. Il fatto che nel passo appena citato, l’autore scriva che la poten­
za reale delle cause appartenga interamente all'anima crea un cortocir­
cuito, tra il nostro usuale concetto di realtà e il nostro usuale concetto
di anima, del tutto paradossale69. Eppure in questa paradossalità il fi­
losofo pretende di scoprire - come annunciato nell’Introduzione - un
«nuovo fondamento» e non semplicemente di negare la causalità70.
Per tale ragione, lo scetticismo praticato dall’autore del Trattato
non deve essere minimamente confuso con una generalizzata quanto
contraddittoria negazione della validità del sapere71. E tuttavia molti
lettori rimasero assai impressionati dalla malinconia filosofica72 che

68 Un rovesciamento foriero della “rivoluzione copernicana” di Kant; infra,


287-293.
69 «Sono convinto che, di tutti i paradossi che ho formulato, o che avrò in se­
guito occasione avanzare nel corso di questo trattato, questo sia il più clamoroso, e sol­
tanto adducendo solide prove e ragionamenti potrò forse sperare che venga accolto, su­
perando così i pregiudizi inveterati del genere umano» (T l.3.14.24: 166).
70 «non ho mai asserito una proposizione così assurda come questa che una qual­
siasi cosa potrebbe sorgere senza una causa. Io ho solo affermato che la nostra certezza della
falsità di tale proposizione non procedeva né da intuizione, né da dimostrazione, ma da
un’altra fonte» {A John Stewart, febbraio 1754, in HUME, Opere filosofiche, cit., IV, 298).
71 «Qualcuno potrebbe chiedermi se io sinceramente assenta a questo argomen­
to, che sembro essermi assunto l’onere di dimostrare, e se realmente appartengo al no­
vero degli scettici, i quali ritengono che tutto è incerto e i nostri giudizi in nessun modo
possiedono alcuna misura del vero e del falso; risponderei che si tratta di una questione
assolutamente superflua, e che né io né chiunque altro è mai stato sinceramente e co­
stantemente di tale opinione» (T 1.4.1.7: 183).
72 Cf. D.W. L iv in g sto n , Philosophical Melancholy and Delirium. Humes Patho-
logy of Philosophy, The University of Chicago Press, Chicago-London 1998. Le pagine
250 Sistemi filosofici moderni

chiude il Libro I, che sembra essere quasi una sorta di versione tragica
della metafora platonica della filosofia come navigazione:
Ora, io ho di me stesso l’immagine di un uomo, il quale, dopo aver coz­
zato contro molti scogli, ed evitato a malapena il naufragio passando in una sec­
ca, conservi ancora la temerarietà di mettersi per mare con lo stesso battello
sconquassato [...]. Il ricordo degli errori e delle difficoltà e delle perplessità
passate mi inducono a diffidare dell’avvenire. [...] E l’impossibilità di fare am­
menda o correggerle mi riduce quasi alla disperazione, al punto che preferirei
morire all’istante, sulla nuda pietra in cui mi trovo ora, piuttosto che avventu­
rarmi in quell’oceano sconfinato, che prelude all’immensità (Tl.4.7.1: 263-264).

Ad alcuni questo finale è parso essere l’ovvia conclusione di un


sistema scettico autodistruttivo, ovvero l’empirismo portato alle sue
estreme conseguenze che collassa in se stesso. Ma bisogna dissentire
nettamente da questa lettura. Il senso di smarrimento che turba il filo­
sofo è dato dall’aver abbandonato tanto le false certezze del sapere co­
mune quanto le pretese metafisiche di molte teorie filosofiche del pas­
sato. Come nota J.P. Wright, il senso genuino della conclusione del Li­
bro I sta piuttosto nel «mostrare che la ragione stessa non è mai in gra­
do di trovare da sé la via d’uscita dallo scetticismo»73. C’è bisogno di
un ulteriore appiglio, e questo - come vedremo nel Libro II - verrà
fornito da alcune passioni.
Ma cosa conduce la ragione verso lo scetticismo? Nella sezione
quarta della 4a parte, quella sulla Filosofia moderna, Hume precisa:
devo distinguere nell’immaginazione tra i principi permanenti, irresisti­
bili e universali, come il passaggio abituale (customary transition) delle cause
agli effetti e dagli effetti alle cause; e tra i principi mutevoli, deboli e irregolari
come quelli che ho appena esaminato [nella filosofia antica] (T1.4.4.1: 225).

Forse non lo abbiamo sufficientemente messo in evidenza, ma


quella abitudine che abbiamo visto essere la sola e certa causa della
credenza nella relazione di causalità, non deve essere affatto confusa
con una banale tendenza acquisibile a ripetere determinate azioni (es.
l’abitudine di svegliarsi presto la mattina), ma deve essere intesa come
un vero e proprio costume mentale automatico e spontaneo, in quanto

finali del Libro I appariranno in tedesco nella rivista «Kònigsberger gelehrte Zeitung»
nel 1771, destando l’interesse di Kant; infra, 280.
73 «H is goal is to show that reason itself can never find its own way out of skep-
ticism» (WRIGHT, Hume’s A Treatise o f Human Nature\ cit., 130 [trad. mia]); questa
posizione appare opposta a quella di Descartes; supra, 29-33.
Il Trattato di Hume 251

del tutto pre-razionale e pre-immaginario. Tale custom è una potenza,


una forza relazionale che funziona come un vero e proprio principio
regolativo dell’esperienza, capace di fondare in ultima istanza il nostro
sapere scientifico. Come sappiamo, i sensi e la memoria, mediante le
impressioni semplici nello spazio e nel tempo, ci obbligano a formarci
determinate idee, collegate secondo contiguità e somiglianza:
Ma la mente non si ferma qui. E poiché scopre che a questo sistema di
percezioni ce n’è connesso un altro dall’abitudine (by custom), o se preferite dal­
la relazione di causa ed effetto [...] da cui la mente è determinata senza che pos­
sa operare il minimo cambiamento, dispone le idee in un nuovo sistema a cui at­
tribuisce con pari dignità il ruolo di realtà (realities). Il primo di questi sistemi è
oggetto della memoria e dei sensi, il secondo del giudizio (Tl.3.9.3: 108).

Questo «nuovo sistema» di realtà, oltrepassa il sistema sensoriale


di realtà, perché si basa su un nuovo fondamento, Yabitudine, che ci
spinge a inferire giudizi sulle cause dei fenomeni osservabili nella natu­
ra, nella storia e nella società74. Il sapere prodotto da questo nuovo si­
stema è dunque molto più solido e inalterabile rispetto a quello basato
sulla memoria e sui sensi: mentre questo può basarsi solo sui nessi de­
boli e irregolari che osserviamo per contiguità e somiglianza, quello si
fonda invece sulle relazioni permanenti e irresistibili che ci portano a
formulare i giudizi causali. Questi «costituiscono il fondamento di tutti i
nostri pensieri e di tutte le nostre azioni, al punto che, rimuovendoli, la
stessa natura umana immediatamente perirebbe e cadrebbe in rovina»
(Tl.4.4.1: 225).
Proprio questi principi ci consentono, inoltre, di distinguere i
giudizi fondati dalle mere finzioni. La ragione umana, per la complessa
natura appena evidenziata, tende anche a cadere in numerose contrad­
dizioni e imperfezioni: presume che gli oggetti esterni abbiano una lo­
ro esistenza indipendente, o che esista un io stabile conoscibile come
tale. Perché cadiamo in queste finzioni? La prima - come abbiamo già
visto in Tl.2.6 - non può consistere in null’altro se non in una mera
supposizione. Hume nella 4a parte si sforza di scoprire da dove essa
nasca. Anzitutto dobbiamo rilevare che di fronte ai nostri sensi le im­
pressioni si presentano generalmente con una certa costanza e coerenza:
ma questa coerenza è molto più grande e molto più uniforme, se noi sup­
poniamo che gli oggetti abbiano una esistenza continuata; e non appena la men­

74 Per analizzare più in dettaglio questi due «sistemi di realtà», cf. ATTANASIO,
Gli istinti della ragione, cit., 133-163.
252 Sistemi filosofici moderni

te è sulla via di osservare una uniformità tra gli oggetti, la continua naturalmen­
te fino a rendere quell’uniformità la più completa possibile (T1.4.2.22: 198).

Questa sorta di inerzia dell’immaginazione75, che tende a colma­


re le lacune percettive alla ricerca di una rappresentazione la più fluida
e la migliore possibile, è però, dal punto di vista filosofico, del tutto
fallace (Tl.4.2.44). La ragione elementare di una tale fallacia consiste
nel fatto che questa si basa ultimamente sulla distinzione tra percezioni
e oggetti della percezione, e sull’attribuzione della variabilità e fram­
mentarietà alle prime, mentre la stabilità e la continuità apparterreb­
bero solo ai secondi. Ebbene, questa distinzione, a giudizio di Hume,
«non è un requisito primario né della ragione né dell’immaginazione»
(Tl.4.2.46: 211). La ragione sarebbe legittimata a distinguere tra per­
cezioni e oggetti se potesse stabilire tra loro una relazione di causa ed
effetto, ma questa è possibile soltanto tra percezioni diverse e non tra
percezioni e oggetti. L’immaginazione, poi, è in grado di fingere la
continuità delle percezioni non continue, solo perché di fatto si sente
legittimata a operare sulle percezioni in quanto queste sono i suoi veri
e «unici oggetti» (Tl.4.2.48: 213). Ma questa non è l’unica fallacia in
cui cade la nostra intelligenza:
Ci sono alcuni filosofi, i quali immaginano che in ogni istante noi siamo
intimamente coscienti di ciò che chiamiamo il nostro IO (SELF); che noi sentia­
mo la sua esistenza e la sua continuazione nell’esistenza; e che siamo certi, al
di là dell’evidenza e della dimostrazione, sia della sua perfetta identità, sia del­
la sua semplicità (T l.4.6.1: 251).

Sfortunatamente, risponde Hume, noi non abbiamo «alcuna


idea dell’/o (any idea o/self)». Quale sarebbe mai infatti l’impressione
a essa corrispondente? Rivolgendo lo sguardo su noi stessi, ci avvedia­
mo di non possedere alcuna impressione semplice dell’io, ma solo:
un fascio o collezione (bundle or collection) di percezioni differenti, che si
susseguono le une le altre con rapidità inconcepibile e sono in un perpetuo flus­
so e movimento. [...] La mente è una sorta di teatro, ove diverse percezioni fan­
no successivamente la loro apparizione; passano, ripassano, scivolano via e si
combinano in una varietà infinita di posizioni e situazioni (T1.4.6.4: 252-253).

Si replicherà allora che questo flusso deve comunque inerire a un


qualche sostrato per poter essere tale; e tuttavia nessuno sarà mai in

75 «come una galea messa in movimento dai remi prosegue il suo corso senza
ulteriore spinta» (Tl.4.2.22: 198).
Il Trattato di Hume 253

grado di mostrarne l’esistenza se di esso non abbiamo alcuna percezio­


ne. E allora, si chiede Hume, perché c’è in noi questa «propensione»
così irresistibile a supporre l’esistenza di un io stabile e continuo attra­
verso il mutare del nostro flusso percettivo? La risposta fornita in un
primo momento dal filosofo è della massima importanza: «dobbiamo
distinguere tra l’identità personale intesa come ciò che riguarda il no­
stro pensiero e la nostra immaginazione, e come ciò che riguarda le no­
stre passioni o l’interesse che coltiviamo per noi stessi» (T1.4.6.5: 253).
Siamo così messi subito in guardia sul fatto che sono possibili
due indagini ben distinte tra loro: una riguarda la cognizione del pro­
prio io; l’altra riguarda il sentire passionalmente se stessi. L’analisi filo­
sofica della prima è quanto l’autore si propone di fare qui, immediata­
mente, alla fine dell’ultima parte del Libro I; lo studio della seconda
verrà invece affrontato subito dopo, nella l a parte del Libro successi­
vo. Come non è difficile notare, la questione dell’io funge struttural­
mente da anello di congiunzione tra il Libro I e il Libro II del Trattato.
Per quanto riguarda la nostra propensione ad attribuire un’iden­
tità continuata alle percezioni successive, questa non può aver altra
origine e spiegazione se non in una fallacia dell’immaginazione. Que­
sta tende a confondere l’identità, ovvero l’idea di qualcosa che resta
inalterato e ininterrotto nello scorrere del tempo, e la diversità, ossia
l’idea di differenti oggetti in successione posti in relazione di somi­
glianza, contiguità o causalità. L’immaginazione difatti «sente come
quasi identico» l’atto con cui noi consideriamo un oggetto invariato
nel tempo e l’atto con cui riflettiamo sulla successione di oggetti in re­
lazione76. Perché? La ragione offerta dall’autore è molto interessante:
«La relazione facilita il passaggio della mente da un oggetto a un altro,
e rende il suo passaggio così fluido (smooth), come se essa contemplas­
se un unico oggetto continuato» (Tl.4.6.6: 254). Si tratta perciò di una
sorta di “illusione cognitiva”, che finisce col generare nozioni come
«anima, io e sostanza» che in verità sono pure e semplici finzioni. Per
Hume, l’io non è altro che la mente e la mente non è altro che le sue
distinte percezioni77. Perciò, il paragone migliore che egli riesce a tro­

76 «Un oggetto, le cui diverse parti coesistenti siano legate insieme da una stret­
ta relazione, agisce sull’immaginazione in modo estremamente simile a un oggetto sem­
plice e indivisibile» (T l.4.6.22: 263).
77 «devono essere le nostre diverse percezioni individuali a comporre la mente.
Dico, comporre la mente, non appartenere alla mente. La mente non è una sostanza a cui
le nostre percezioni ineriscono» (Abstract 28: 658 [trad. it., cit., 61]). Sulla questione as­
sai complessa, sollevata da Hume stesso nell 'Appendice (TA10-22: 633-635), circa la
254 Sistemi filosofici moderni

vare per la mente umana è quello di una repubblica, i cui diversi mem­
bri sono posti in relazione tra loro da vincoli reciproci di governo e su­
bordinazione; i membri poi generano altri membri, muoiono e si
scambiano, «perpetuando la stessa repubblica nell’incessante cambia­
mento delle sue parti» (Tl.4.6.19: 261).

3. Psicologia
Il Libro II del Trattato è, tra i tre, quello storicamente più igno­
rato e frainteso. Una ragione di tale emarginazione è data sicuramente
dal fatto che - come abbiamo visto - negli anni successivi alla sua pri­
ma opera, Hume scrisse due Ricerche, una sull’intelligenza e una sulla
morale, le quali poi sono state spesso ripubblicate insieme, quasi rap­
presentassero il nuovo sistema filosofico humeano; mentre alle passio­
ni egli dedicò poi solo una breve Dissertazione. Inoltre, gli studiosi, al­
meno fino al capitale saggio di N.K. Smith78, o hanno totalmente igno­
rato il Libro sulle passioni o sono stati aspramente critici verso di es­
so79. Solo negli ultimi decenni, gli interpreti si sono resi conto della
centralità delle passioni nella struttura del Trattato80. Un indizio di ciò
può esserci offerto da due illuminanti passaggi che letteralmente “in­
corniciano” il Libro II. Alla fine del Libro I, infatti, leggiamo:
la nostra identità rispetto alle passioni serve a corroborare quella del­
l’immaginazione, facendo in modo che le percezioni distanti si influenzino tra
loro, e ci conferiscano un interesse presente per i nostri dolori o piaceri passati
o futuri (Tl.4.6.19: 261).

mentre all’inizio del Libro III:


Non dispero comunque che, andando avanti, il presente sistema di filo­
sofia acquisirà nuova forza; e che i nostri ragionamenti sulla morale posano
corroborare tutto quel che abbiamo detto sull’intelligenza e sulle passioni
(T3.1.1.1:455).

possibilità di poter percepire la mente come un fascio prescindendo da un centro unifi­


catore di tale percezione, cf. GRECO, Lio morale, cit., 29-52.
78 N.K. SMITH, The Philosophy o f David Hume. A Criticai Study of its Origins
and its Central Doctrins, Macmillan, London 1941.
79 Per una ricostruzione storica di questa vicenda, cf. N. CAPALDI, Hume’s Place
in Moral Philosophy, Peter Lang, New York 1989.
80 Cf. PS. ÀRDAL, Passion and Value in Hume’s Treatise, Edimburgh University
Press, Edimburgh 1966, 19892; E. LECALDANO, Hume e la nascita dell’etica contempora­
nea, Laterza, Roma-Bari 1987, 75-81; C a p a ld i, Hume’s Place, cit., 154; ATTANASIO, Gli
istinti della ragione, cit., 165-168.
Il Trattato di Hume 255

Il sistema filosofico del Trattato non è stato progettato, dunque,


secondo uno sviluppo lineare, in cui le parti si stratificano le une sopra
alle altre, come per lo più è stato recepito; bensì in modo tale che le
parti successive vengono a corroborare, cioè letteralmente a «fornire
una forza nuova e concomitante», verso quanto precedentemente sta­
bilito. Questa mutua interconnessione delle parti, basata sulla trasmis­
sione di forza di ciascuna alle altre, ci porta a comprendere che il siste­
ma filosofico stabilito nel Trattato funziona come un organismo, e co­
me tale va compreso81.
Quello sulle passioni, tuttavia, resta un Libro difficile da leggere
e da comprendere, e tale difficoltà è data non tanto dalla sua pleona-
sticità, bensì proprio dalla sua centralità. Il problema basilare consiste
nel fatto che, come nota E. Lecaldano: «Nel Trattato, in definitiva, an­
che tutte le tendenze intellettuali dell’uomo vengono caratterizzate co­
me passioni e istinti»82. Ciò rende l’universo passionale indescrivibil­
mente complesso e articolato. Hume stesso si scontra con questa com­
plessità e i diversi tentativi che egli compie, nella sua anatomia della
natura passionale dell’uomo, per formulare analisi e classificazioni suf­
ficientemente convincenti, testimoniano dell’estrema difficoltà di una
tale impresa. L’incipit del Libro II propone immediatamente una divi­
sione: «Come tutte le percezioni della mente possono essere suddivise
in impressioni e idee, così è possibile suddividere le impressioni in ori­
ginarie e secondarie» (T2.1.1.1: 275). Ovvero, la stessa sfera delle per­
cezioni originarie (impressioni) si lascia suddividere a sua volta in qual­
cosa di originariamente originario (sensazioni) e in qualcosa di secon­
dariamente o riflessamente originario (passioni); un concetto, questo,
già di per sé altamente problematico. Queste ultime se sono seconda­
rie è perché procedono da qualche altra percezione, cioè da impressio­
ni o dalle loro idee; molte passioni derivano infatti da piacere o dolore,
«siano essi sentiti o anche solamente pensati» (T2.1.1.2: 276).
Le passioni, cioè impressioni secondarie o di riflessione, «si posso­
no poi suddividere in due specie: le calme e le violente» (T2.1.1.3: 276).
Del primo tipo sono, a detta di Hume, «il senso del bello e del defor­
me nelle azioni, nelle composizioni e negli oggetti esterni»; del secon­

81 «Ciò che viene prima si chiarisce solo alla luce di ciò che segue, per acquista­
re un ruolo all’interno di un sistema coerente. [...] Il Trattato - che può essere innalzato
a paradigma esaustivo di tutta la filosofia di Hume - è comprensibile solo se lo si osser­
va nella sua completezza» (GRECO, L io morale, cit., 56).
82 LECALDANO, Hume e la nascita dell etica, cit., 78.
256 Sistemi filosofici moderni

do tipo sono «le passioni di amore e odio, angoscia e gioia, orgoglio e


umiltà». Le passioni violente, poi, si dividono a loro volta in dirette e
indirette, a seconda che la loro considerazione del bene e del male, che
per Hume - come già per Locke - equivalgono a piacere e dolore, sia
diretta (come es. desiderio e avversione) o indiretta, in quanto unita a
un’altra qualità, (come es. orgoglio e umiltà). Ma l’autore si era già
premurato di precisare: «Questa suddivisione [calme, violente] è
tutt’altro che esatta. [...] Essendo la mente umana un argomento tan­
to vasto e vario (copious and various), intendo qui adottare questa di­
stinzione volgare e pretestuosa per procedere poi con il maggior ordi­
ne possibile».
Ci si potrebbe, dunque, legittimamente aspettare che, a parte
qualche suddivisione artificiosa e provvisoria, il Libro II si strutturi in
un’ordinata analisi delle passioni, la quale rispetti sostanzialmente la
summenzionata nomenclatura. Nondimeno, man mano che l’indagine
si sviluppa, ogni suddivisione proposta entra in crisi, costringendo
l’autore a inserirne delle altre83. Dobbiamo arrivare alla fine dell’intero
Libro II per scoprire che: «Oltre che dal bene e dal male, ossia dal
piacere e dal dolore, le passioni dirette sorgono spesso da un impulso
naturale o istinto perfettamente inspiegabile» (T2.3.9.8: 439). Hume fa
qui l’esempio del desiderio di punizione per i nemici e di felicità per
gli amici, oppure la fame, la concupiscenza e altri appetiti corporei. E
aggiunge: «Propriamente parlando, queste passioni producono (produ­
ce) bene e male [piacere e dolore], e non derivano da essi, come le al­
tre affezioni». In base a questo passaggio, D.F. Norton sostiene che a
monte di tutto vi sia la divisione tra passioni produttive (productive),
quelle la cui operazione produce piacere o dolore, e passioni reattive
(responsive), quelle che sorgono in risposta a piacere e dolore84. Tale
posizione sembra però condurre a una certa circolarità nella nomencla­
tura delle passioni. Come sappiamo, tutte le passioni sono impressioni
di riflessione o risposta a sensazioni, essenzialmente di piacere e dolo­
re; ma poi scopriamo che ci sono passioni che sorgono da un istinto
ignoto e che non rispondono ma producono esse stesse quel piacere e
dolore da cui dovrebbero originariamente derivare.
Gli interpreti hanno solitamente compreso questa circolarità co­
me una confusione in cui sarebbe caduto l’autore del Trattato, o come

83 Sulle diverse tassonomie delle passioni nel Trattato cf. GRECO, L’io morale,
cit., 64, n. 7.
84 OPT: 148.
Il Trattato di Hume 257

una incompiutezza redazionale del Libro II rispetto agli altri due. A


mio giudizio, invece, l’autore tiene fede a quanto annunciato nel sotto­
titolo dell’opera: Un tentativo d’introdurre il metodo sperimentale nei
soggetti morali. L’intento “newtoniano” di trovare «pochi e semplici»
(T2.1.4.6: 282) principi esplicativi dell’universo delle passioni - per
non ricorrere ogni volta a un nuovo e diverso principio, come avevano
fatto i filosofi precedenti - si scontra con la scelta di fondo di non voler
affatto dedurre una geometria delle passioni, tipo quella spinoziana85.
Hume veste i panni dello scienziato che si adopera per descrivere86 una
«anatomia» delle passioni e non una loro graziosa e ben disposta resa
pittorica87. Ecco perché, lungo la sua analisi, l’autore del Trattato rive­
de e allarga continuamente le sue tassonomie e i suoi criteri di classifi­
cazione, arricchendoli di ogni nuovo fenomeno che cade sotto la sua
osservazione88.
Se andiamo poi a vedere la struttura materiale del Libro II, essa è
alquanto curiosa. Il tutto è diviso in tre parti: inizia subito con Orgoglio
e umiltà (la) poi analizza Amore e odio (2a), e infine La volontà e le pas­
sioni dirette (3a). Due terzi abbondanti89 dell’intera trattazione sono,
dunque, di fatto dedicati a due particolari coppie di passioni indirette,
mentre il restante terzo, esplicitamente dedicato a quelle dirette, si occu­
pa in effetti della volontà, della libertà, degli effetti dell’abitudine ecc. Il
metodo usato in queste due fasi argomentative del testo appare perfetta­
mente inverso: mentre nelle parti l a e 2a tutto inizia dallo studio detta­
gliato di due particolari coppie di passioni indirette, per trarne i principi
semplici e generali; nella 3a «Nessuna delle affezioni dirette sembra me­
ritare particolare attenzione» (T2.3.9.9: 439), infatti la trattazione vira
sin dall’inizio verso problemi di fondo: il rapporto tra libertà e necessità,
tra passione e ragione, o la questione dell’amore per la verità.

85 Supra, 124-131.
86 Ad esempio: «D ato che le passioni dell’ORGOGLlO e delTuMILTÀ sono im pres­
sioni semplici e uniformi, è impossibile, quale che sia la quantità delle parole che utiliz­
ziamo, riuscire a darne una precisa definizione, come del resto è per tutte le altre passio­
ni. Al massimo, possiam o aspirare a darne una descrizione, enumerando le circostanze
che le accom pagnano» (T2.1.2.1: 277).
87 «L ’anatomista non dovrebbe mai emulare il pittore: e nelle sue accurate dis­
sezioni e nelle descrizioni delle parti più minute del corpo umano non dovrebbe mai
pretendere di conferire alle sue figure un’attitudine o un’espressione graziose o attraen­
ti» (T3.3.6.6: 621).
88 Su questa giustificazione metodologica delle complicazioni del Libro II, cf.
LECALDANO, Hume e la nascita dell’etica, cit., 75-78; L au d isa, Hume , cit., 81-83.
89 123 pagine su 179, secondo la numerazione SB.
258 Sistemi filosofici moderni

Questa divergenza metodologica è comprensibile solo leggendo


il Libro II nell’insieme del Trattato: la prima macrostruttura (T2.1-2)
intende rispondere alle aporie aperte dal Libro I sull’intelligenza;
mentre la seconda macrostruttura (T1.3) intende preparare il Libro III
sulla morale. Gli uomini, se abbandonati alla sola ragione, cadrebbero
- come abbiamo visto - nello scetticismo totale e dunque nell’incapa­
cità di esprimere giudizi morali e pertanto in una radicale mancanza di
motivazioni all’azione: solo impiantando le passioni all’interno delle
cognizioni stesse, per Hume, sarà possibile invertire questo processo.
A tale scopo è dedicato il Libro II.

3.1. Lio sociale


La trattazione di orgoglio e umiltà90 inizia con un’affermazione
che, per il lettore appena fuoriuscito dal Libro I, risulta decisamente
sorprendente:
E evidente che orgoglio e umiltà, sebbene direttamente contrari, hanno
tuttavia lo stesso OGGETTO. Questo oggetto è l’io {self), ovvero quella succes­
sione di idee e impressioni correlate di cui abbiamo intimamente memoria e
coscienza. E proprio nell’io che il nostro sguardo si concentra sempre allorché
siamo mossi da una di queste passioni (T2.1.2.2: 277).

Non meraviglia il fatto che diversi studiosi abbiano accusato


Hume di contraddirsi apertamente. Come può qui dare per ovvio che
noi abbiamo intima, diretta coscienza (consciousness) dell’io, mentre,
sino a poche pagina fa (Tl.4.6.1: 251), si era strenuamente impegnato
a mostrare esattamente il contrario? Forse qualcuno potrebbe replica­
re che qui si tratta solo di un’idea dell’io, magari del tutto fittizia, ma
Hume sosterrà più avanti un’altra evidenza, che non lascia adito ad al­
cun sotterfugio ermeneutico:
E evidente che l’idea, o piuttosto l’impressione di noi stessi ci è sempre

90 Secondo ÀRDAL, Passion and Value, cit., 34, il termine che rende corretta-
mente il significato humeano di humility, è shame «vergogna»; mentre con orgoglio è
chiaro che non dobbiamo intendere qualcosa di negativo, come « l’eccessiva considera­
zione di sé che ci porta a ritenerci superiori agli altri», bensì qualcosa di positivo, come
«onore, dignità, fierezza». Dal momento che il termine inglese pride deriva, attraverso il
francese prud, dal latino prodesse cioè «avere valore», mentre humility, dal latino burni­
tis, cioè «poco elevato da terra», s’intuisce che Hume assuma il primo per il suo signifi­
cato euforico di crescita di valore, o prodezza, e il secondo per il significato disforico di
abbassamento di valore o umiliazione.
Il Trattato di Hume 259

intimamente presente, e che la nostra coscienza ci dà una concezione talmente


vivace della nostra stessa persona, che non è possibile immaginare qualcosa
che possa oltrepassarla al riguardo (T.2.1.11.4: 317).

Per uscire da questa impasse, dobbiamo analizzare più in detta­


glio le passioni di orgoglio e umiltà/vergogna. La dinamica di queste
passioni, paradigma valido per tutte le passioni indirette, è in verità as­
sai complessa - per quanto Hume dichiari entusiasticamente «thè true
System breaks in upon me with an irresistible evidence» (T2.1.5.5: 286)
- dal momento che si compone di una doppia correlazione. Infatti, in
ognuna di queste passioni dobbiamo non solo distinguere tra Yoggetto
e la causa di esse, ma anche, in ciascuno di questi, tra idea e impressio­
ne. Quando l’idea della causa, cioè l’idea di qualcosa di piacevole o di
doloroso che ha una certa relazione con noi stessi91, viene accostata al­
l’idea che abbiamo di noi stessi, ovvero all’idea dell’io, si genera un’im­
pressione, che in un caso sarà piacevole (orgoglio) e nell’altro dolorosa
(umiltà/vergogna).
Abbiamo dunque da un lato due idee, l’idea della causa e l’idea
dell’oggetto, relazionate mediante una associazione di idee; e dall’altra
due impressioni, l’impressione piacevole della qualità della causa, e
l’impressione che proviamo nel constatare che la causa ha una certa
relazione con noi in quanto oggetto, relazionate mediante una associa­
zione di impressioni2. Se analizziamo, ad esempio, un sentimento co­
me «sono orgoglioso di avere una bella casa»93, otteniamo che la causa
dell’orgoglio è la casa (idea), che è bella (qualità) e quindi piacevole
(impressione), ed è mia ovvero di me (impressione), in modo tale che
io provo piacere ovvero sono orgoglioso (impressione) di me stesso
(idea). Tutto questo processo si risolve ultimamente nel fatto che l’idea

91 Hume porta come esempi di cause di orgoglio (e inversamente di umiltà/ver­


gogna): «ogni qualità mentale degna di valore, sia dell’immaginazione, del giudizio, della
memoria, o del carattere; arguzia, buon senso, cultura, coraggio, giustizia, integrità»; op­
pure qualità somatiche, come «bellezza, forza, agilità, portamento, abilità nel danzare,
cavalcare, tirar di scherma, e destrezza in qualunque attività o lavoro manuale»; ma an­
che qualunque oggetto posto in relazione con noi, come «patria, famiglia, figli, parenti,
ricchezze, case, giardini, cavalli, cani, abiti» (T2.1.2.5: 279).
92 La struttura è in verità ancor più complessa, cf. A.C. B aier, Hume’s analysis
ofpride, in «Journal of Philosophy» 75 (1978), 27-40; ATTANASIO, Gli istinti della ragio­
ne, cit., 182-185; L. ALANEN, Powers and mechanisms of thè passions, in TRAIGER (ed.),
The Blackwell Guide, cit., 179-198. Per una raffigurazione schematica semplice, cf. OPT
152, per una complessa ATTANASIO, Gli istinti della ragione, cit., 185.
93 O l’inverso «mi vergogno di avere una brutta casa»; cf. T2.1.2.6: 279.
260 Sistemi filosofici moderni

della causa si converte nell’idea dell’oggetto, mediante la passione del­


l’orgoglio, facendo sì che: io sono orgoglioso di me perché è a me una
bella casa. Ciò significa anche che, attraverso una complessa serie di
mediazioni, il semplice piacere della causa (la bellezza della casa) rie­
sce a trasferirsi nel piacere riflesso dell’oggetto (l’orgoglio di me per
me stesso).
Ora, questa analisi anatomico-filosofica non deve farci pensare
che orgoglio e umiltà/vergogna siano l’esito di un processo o la con­
clusione di un ragionamento che ogni volta noi formuliamo, anche so­
lo silenziosamente o implicitamente. Al contrario, orgoglio e umiltà o
amore e odio ecc. sono in sé impressioni semplici che percepiamo in
modo immediato. Hume su questo è lapidario: «Una passione è un’e­
sistenza originaria o, se volete, una modificazione d’esistenza, e non
contiene nessuna qualità rappresentativa che ne faccia una copia di
qualunque altra esistenza o modificazione» (T2.3.3.5: 415). Di conse­
guenza, l’io, che è oggetto di orgoglio e umiltà, non può essere né
qualcosa di in sé già precostituito e neppure semplicemente il prodot­
to o l’esito di tali passioni, ma è qualcosa che avviene, che si dà simul­
taneamente insieme a esse94.
L’analisi elaborata dal filosofo ha lo scopo di rivelare i numerosi
elementi esterni che rendono possibile l’evento delle passioni indirette
come orgoglio e umiltà, amore e odio95. Il fatto che la causa di esse sia
complessa e non semplice fa sì che qualcosa di altro dall’io lo costitui­
sca, originariamente e non derivatamente. Detto in altri termini: «La
passione dell’io non è il medium con la società, è la società', l’io, gli altri,
le ricchezze, gli onori, la fama. L’orgoglio non esisterebbe senza gli altri,
senza i piaceri, senza la società»96. Mentre - come sappiamo97 - il cogito
cartesiano ha come esito la sua perfetta indipendenza da alcunché di so­
matico, la passione humeana al contrario incarna l’io, rendendolo pie­
namente umano, costituito di cause, piaceri e valori, somatici e sociali.
Per comprendere adeguatamente questo passaggio, dobbiamo
imparare a distinguere, sulla scia degli illuminanti studi di N. Capaldi,

94 Cf. P. CHAZAN, Pride, virtue and self-hood. A reconstruction of Hume, in «Ca-


nadian Journal of Philosophy» 22 (1992), 45-64.
95 Amore e odio hanno la medesima struttura e dinamica di orgoglio e umiltà,
con la differenza basilare di avere come oggetto qualcosa di altro da se stessi (T2.2.1.2);
per uno schema delle passioni indirette cf. WRIGHT, Humes A Treatise o f Human Nature\
cit., 198.
96 ATTANASIO, Gli istinti della ragione, cit., 186.
97 Supra, 37-39.
Il Trattato di Hume 261

la I think perspective dalla We do perspective9*’. La prima prospettiva,


quella dellVo penso, concepisce la filosofia, e in generale la conoscenza,
come l’impresa di un soggetto singolo che cerca di risolvere in base alla
propria ragione autonoma i diversi problemi speculativi o pratici che
gli si presentano. La seconda prospettiva, quella del noi facciamo, in­
tende invece la filosofia, e la conoscenza in generale, come un’attività
pratica e, in quanto tale, condivisa. L’io del Libro I del Trattato è falli­
mentare solo in quanto confinato alla prospettiva meramente speculati­
va dell’io penso; l’io del Libro II si apre invece a una complessa e ricca
indagine, perché è un io sociale, ossia già da sempre intersoggettiva-
mente costituito". Questa distinzione mi sembra l’unica che risponde
a una lettura genuinamente sistematica del Trattato, in quanto interpre­
ta le passioni con l’occhio della morale del Libro III e non viceversa.
Questa tesi è massimamente confermata dalla sezione 11 della l a
parte del Libro II ove l’autore si sofferma a spiegare una delle più note­
voli qualità della nostra natura100: la simpatia. Tutto inizia dall’ovvia con­
statazione che le opinioni e i sentimenti degli altri hanno un grande in­
flusso sulle nostre passioni: «Odio, risentimento, stima, amore, coraggio,
allegria e malinconia: tutte queste passioni le sento più per comunicazio­
ne che per mio naturale temperamento e disposizione» (T2.1.11.2: 317).
La simpatia è ciò che sta alla base della possibilità stessa di una tale co­
municazione emotiva. Questa è l’analisi che Hume ne dà:
Quando un’affezione si trasmette per simpatia, la si conosce all’inizio
soltanto per i suoi effetti, e per quei segni esterni dell’espressione e della con­
versazione che ne trasmettono l’idea. Quest’idea è subito convertita {presently
converted) in un’impressione che acquisisce un tale grado di forza e vivacità da
diventare una vera e propria passione, produttiva di un’emozione identica a
quella di un’affezione originaria (T2. 1.11.3: 317).

Quando percepiamo l’espressione (es. riso, pianto) di una certa

98 Soprattutto C a p a ld i, Hume’s Place, cit.; cf. G r e c o , L io morale, cit., 90-104.


99 «thè account of thè aetiology of thè indirect passions requires thè use of thè
idea of thè self as distinct from others; and thè account of thè origins of our belief in self-
identity in Book 1 is confined to our belief in thè self’s own inner unity over time» (T.
P enelhu m , Hume’s moralpsychology, in NORTON-TAYLOR [edd.], The Cambridge Com­
panion, 265).
100 «Nessuna delle qualità della natura umana è più notevole, sia in sé sia nelle
sue conseguenze, della propensione che abbiamo a simpatizzare con gli altri, ricevendo
attraverso la comunicazione le inclinazioni e i sentimenti altrui, per quanto differenti o
persino contrari ai nostri» (T2.1.11.2: 316); cf. M.J. F e r re ira , Hume and imagination.
Sympathy and thè «other», in «International Philosophical Quarterly» 34 (1994), 39-57.
262 Sistemi filosofici moderni

passione (es. gioia, tristezza) da parte di qualcun altro, questa si pre­


senta alla nostra mente come idea; questa idea viene da me spontanea­
mente ravvivata al punto di convertirla in una passione vera e propria
(es. gioisco, m’intristisco) che produce l’emozione corrispondente a
quella originaria (es. rido, piango). Questo meccanismo101 speculare -
vero antesignano filosofico della teoria dei neuroni a specchio - fun­
ziona perché la conversione è eccitata dal paragone dell’idea iniziale
con «l’idea di noi stessi» (T2.1.11.4: 317).
Tale conversione o trasferimento di vivacità è del tutto analoga a
quella che abbiamo già visto all’opera nella credenza e ne costituisce il
corrispondente passionale102; come quella, avviene in modo del tutto
spontaneo, ovvero naturale e immediato, in quanto trasmissione di un
movimento: «Quando delle corde sono tese tutte a uno stesso grado, il
movimento di una si comunica a tutte le altre; allo stesso modo tutte le
affezioni passano da una persona all’altra» (T3.3.1.7: 576). Gli uomini
dunque risentono “armonicamente” dell’umore e dei sentimenti del
loro prossimo, molto più di quanto facciano rispetto a qualunque altra
cosa; e anche ogni vero sentimento s’infiacchisce e si insterilisce se non
può essere condiviso con qualcun altro103. Un esempio lampante di ciò
Hume lo vede proprio nella dinamica dell’orgoglio e dell’umiltà/ver-
gogna. Queste passioni possono darsi solo a condizione che l’oggetto
piacevole o doloroso appaia in modo chiaro ed evidente not only to
ourselves, but to others also: «Noi ci immaginiamo più felici, e anche
più virtuosi e belli, quando appariamo tali agli altri» (T2.1.6.6. 292).
Al di là di ogni solipsismo e individualismo, l’immagine che noi abbia­
mo di noi stessi è già da sempre un’immagine pubblica.

101 Così anche WRIGHT, Hume’s (A Treatise of Human Nature’, cit., 204-207; in­
fatti la simpatia non è essa stessa una passione, ma un «principio» che anima una con­
versione di vitalità, cf. LECALDANO, Hume e la nascita dell’etica, cit., 97-98.
102 «Ciò che è particolarmente notevole in tutta questa faccenda è la forte confer­
ma che tutti questi fenomeni danno al precedente sistema dell’intelletto, e conseguente­
mente anche a questo delle passioni; essendo entrambi analoghi fra loro» (T2.1.2.8: 319);
di conseguenza, avendo precedentemente sostenuto che il belief-custom è quel «nuovo
fondamento» che Hume ritiene di aver scoperto per l’intelligenza, il suo analogo passio­
nale, la sympathy, assume lo stesso ruolo fondamentale e vitale di trasmettitore/converti­
tore di forza e vivacità.
103 «Una perfetta solitudine è, forse, la punizione più dura da scontare. Ogni
piacere languisce se ne godiamo senza compagnia, e ogni dolore si acuisce e diventa più
intollerabile. Qualunque sia la passione che ci muove, orgoglio, ambizione, avarizia [...]
di tutte queste l’anima o principio animatore (thè soul or animating principle) è la simpa­
tia» (T2.2.5.15: 363).
Il Trattato di Hume 263

3.2. Passione e ragione


Tra le molte tesi dirompenti del Trattato della natura umana, spic­
ca forse quella secondo cui: «La ragione è e deve solo essere la schiava
delle passioni (is and ought only to be thè slave of thè passions), e non
può mai pretendere a nessun altro compito che quello di servirle»
(T2.3.3.4: 415)104. Hume è ben conscio della “straordinarietà” di una
tale affermazione, in quanto il mainstream della tradizione filosofica -
da Platone agli Stoici fino a Spinoza105 - aveva per lo più106 lamentato
la schiavitù delle passioni, cercando di porvi rimedio, soprattutto me­
diante Tesaltazione della preveggenza e imperturbabilità della ragione,
deputata perciò a fungere da guida delle passioni cieche e incostanti.
La posizione di Hume al proposito è diametralmente opposta:
Per mostrare la fallacia di tutta questa filosofia, cercherò di provare, pri­
mo, che la ragione da sola non può mai costituire un motivo per alcuna azione
della volontà; e, secondo, che la ragione non può mai opporsi alla passione nel
dirigere la volontà (T 2.3.3.1: 4 13)107.

Facciamo un passo indietro. Nella prima sezione della 3a parte


del Libro II, Hume aveva immediatamente subordinato la trattazione
delle passioni dirette alla comprensione previa108 della natura della vo­
lontà, definendola una impressione interna che noi avvertiamo allorché

104 Questa brano è noto tra gli specialisti come slave passage, la sua interpretazio­
ne ha dato vita a un vivace dibattito, cf. R.M. K y d d, Reason and Conduct in Hume’s Trea­
tise, Clarendon Press, Oxford 1946, 143-152; A r d a l, Passion and Value, cit., 95-107; esso
è ritenuto essere la chiave della filosofia di Hume dal classico saggio di SMITH, The Philo­
sophy of David Hume, cit; di opinione opposta è D.F. NORTON, David Hume, Common
Sens Moralist, Sceptical Metaphysician, Princeton University Press, Princeton 1982.
105 Cf. A.O. LOVEJOY, The Great Chain o f Being. A Study of thè History o f an
Idea, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1937; R. BODEI, Geometria delle pas­
sioni, Feltrinelli, Milano 1991; J. ELSTER, Alchemies of thè Mind. Rationality and Emo-
tions, Cambridge University Press, Cambridge 1999.
106 Rare le voci contrarie, tra queste spicca quella di P. Nicole, il quale aveva re­
centemente sostenuto, e Hume ne era a conoscenza in quanto ne aveva letto le opere,
che l’uso che noi ordinariamente facciamo della ragione è di servire le passioni, cf. De la
faiblesse de l’homme, primo degli Essais de morale (1671).
107 Questo secondo punto, in effetti, ne include due: (2.1) la ragione non può
guidare la volontà; (2.2) la ragione non può entrare in conflitto con la passione.
108 «D i tutti gli effetti immediati di dolore e piacere, nessuno è più notevole del­
la VOLONTÀ; e per quanto, propriamente parando, non sia inclusa fra le passioni, tutta­
via, siccome per la loro stessa spiegazione è necessaria la comprensione della sua natura
e delle sue proprietà, noi la assumeremo qui come argomento della nostra indagine»
(T2.3.1.2: 399).
264 Sistemi filosofici moderni

sopraggiunge «un nuovo movimento del nostro corpo o una nuova per­
cezione della nostra mente» (T2.3.1.2: 399). Anche qui l’autore ribalta­
va completamente il punto di vista classico: la volontà non è più conce­
pita come causa che muove le azioni, bensì come effetto di esse, in
quanto percezione che deriva da un nuovo evento somatico o mentale.
Da ciò il filosofo traeva una considerazione ancora più sorprendente: il
potere del pensiero non è in nulla superiore al potere della materia.
Detto in altri termini, la mente non è affatto superiore e staccata rispet­
to alla natura, ma è parte di essa, ossia è del tutto contigua al corpo e
agli oggetti materiali109. Da questa convinzione, Hume prendeva le
mosse per una tanto affascinante quanto complessa discussione sul li­
bero arbitrio, cioè sul rapporto tra libertà e necessità (T2.3.1-2)110,
giungendo alla seguente conclusione: «la libertà, rimuovendo la neces­
sità, rimuove le cause, e perciò libertà e caso risultano identici»
(T2.3.1.18: 407). In effetti, data la perfetta contiguità di naturale e
mentale, il «fantasioso sistema di libertà» (T2.3.1.15: 404) ingegnato
dai filosofi, preoccupati di garantire a essa una indipendenza dalle cau­
se, deve più modestamente essere ricondotto entro i limiti della mate­
ria, nella quale l’assenza di determinismo è detta propriamente caso.
Tornando alle succitate tesi di T2.3.3.1, la prima di esse è dimo­
strata facendo ricorso alla distinzione tra dimostrazione e probabilità
elaborata in T.1.3. Dal momento che il ragionamento per dimostrazio­
ne si basa su puri rapporti tra idee, esso non è di per sé in grado di
motivare la volontà, giacché questa «ci colloca sempre nel mondo del­
le cose reali» (T2.3.3.2: 413). Nemmeno il ragionamento per probabi­
lità, che invece di cose reali si occupa, è però in grado di motivare la
volontà «da solo»; affinché siamo concretamente mossi all’azione ab­
biamo bisogno infatti di un impulso, di attrazione o di repulsione, che
«non sorge dalla ragione, ma è solo diretto da essa» (T2.3.3.3: 414).
Ebbene, se è vero quanto appena dimostrato, è allora falso ritenere -
come solitamente si è fatto - che la ragione possa confliggere con le
passioni.
Il fatto che la ragione non interferisca con le passioni, tuttavia,
non impedisce alla passione di essere in qualche modo razionale essa

109 Sul naturalismo in Hume, cf. L e c a ld a n o , Hume e la nascita dell’etica, cit.,


37-41. 173-181.
110 Cf. O P T 165-72; T. PlTSON, Liberty, necessity and thè will, in TRAIGER (ed.),
The Blackwell Guide, cit., 216-231; WRIGHT, Hume’s A Treatise o f Human Nature’, cit.,
169-189; ATTANASIO, Gli istinti della ragione, cit., 209-221.
Il Trattato di Hume 265

stessa. A questo proposito, Hume elabora un diverso significato di


ragione:
Ciò che comunemente intendiamo per passione è un’emozione sensibile
e violenta della mente, quando è presente un bene o un male, o un oggetto
che, per l’originaria costituzione delle nostre facoltà, è atto a suscitare un ap­
petito. Per ragione intendiamo affezioni dello stesso identico genere della pas­
sione, ma tali da operare con maggiore calma e non causare alcun disordine
nel temperamento (T2.3.8.13: 437).

In base a una tale risemantizzazione, diventa sensato parlare di


conflitto tra passione e ragione, ma solo perché si tratta in verità di un
conflitto tra passioni violente e passioni calme. Hume precisa che le
passioni calme sono la benevolenza, l’amore per la vita, la tenerezza ver­
so i bambini, e in generale l’inclinazione verso il bene e l’avversione
verso il male, considerati i se stessi111. Tali passioni si formano e si retti­
ficano in modo del tutto analogo alle credenze dell’intelligenza; non a
caso le sezioni dove nel Trattato si spiegano le une (T2.3.4-6) corrispon­
dono strutturalmente a quelle in cui si spiegano le altre (Tl.3.8-10).
La lezione che il filosofo sembra così volerci lasciare, in conclusio­
ne del primo blocco del Trattato (Libri I-II), è quella dell’estrema infon­
datezza e fragilità di ogni razionalismo morale112. Pensare, ad esempio,
che si possa indurre qualcuno a desistere dal suicidio, mediante una se­
rie di sillogismi che, partendo da proposizioni universali circa l’origine
divina dell’uomo o la legge naturale, pretendono di concludere al fatto
che tu ora non ti devi gettare nel fiume, appare finalmente in tutta la
sua drammatica inconsistenza. Qui non è tanto in questione la verità o
la falsità di tali proposizioni universali, quanto il fatto che possano mai
essere effettivamente in grado di coinvolgere di per sé, mediante la sola
forza della loro evidenza razionale, motivazioni e azioni morali113.

4. Morale
II Libro III del Trattato fu pubblicato - come sappiamo - quasi
due anni dopo l’uscita dei primi due. NeNAvvertenza, Hume informa i

III Cf. T2.3.3.8: 417.


112 Classico, al proposito, è mettere Hume e Kant a paladini di due opposte fa­
zioni; per farsi un’idea dei recenti sviluppi di questo annoso dibattito, cf. GRECO, Lio
morale, cit., 187-204.
113 Questo problema è al centro del bel saggio di A. F abris , TeorEtica. Filosofia
della relazione, Morcelliana, Brescia 2010.
266 Sistemi filosofici moderni

suoi lettori che questo libro è «in qualche misura indipendente dagli al­
tri due». Ciò non significa che i suoi contenuti siano estranei a quelli
dei Libri precedenti, bensì che questo Libro possiede una sua autono­
mia, al punto da poter essere letto anche da coloro che non si sono già
impegnati a leggere e comprendere tutti gli argomenti dei primi due.
Questa notazione toglie ulteriore terreno alla consuetudine di leggere
in modo lineare il Trattato, facendo dipendere le parti successive dalle
precedenti. Anzi, è chiaro che questo libro possiede semmai un certo
primato rispetto agli altri, e lo stesso Hume non manca di dichiararlo
apertamente, già nella prima pagina: «La morale è un soggetto che ci
interessa più di ogni altro» (T3.1.1.1: 455). Ma cosa intende egli qui per
morale? e perché gli interessa a tal punto? Sappiamo infatti che l’intero
Trattato è un tentativo d’introdurre il metodo sperimentale di ragiona­
mento nei soggetti morali, cioè nello studio della natura umana. Per
comprendere adeguatamente il senso specifico della morale del Libro
III, dobbiamo perciò focalizzare il contributo che questa è in grado di
apportare per corroborare quanto stabilito nei Libri precedenti114.
Dando uno sguardo sommario ai contenuti delle tre parti in cui
è strutturato il Libro III, vediamo che l’autore nella l a parte si dedica
a una sorta di premessa metodologica generale, volta a ribadire - se­
condo quanto già discusso nel finale del Libro precedente - l’incapa­
cità della sola ragione a motivare e guidare l’agire e, dunque, la neces­
sità di basare i giudizi morali su un’altra fonte, che vedremo essere il
senso morale (moral sense). Nelle restanti parti, Hume tratterà delle
virtù e dei vizi, ovvero delle condizioni che rendono possibile l’emer­
gere del senso morale: delle condizioni esterne o artificiali, nella 2a, e
di quelle interne o naturali nella 3a. Ma se leggiamo più attentamente,
ci accorgiamo che la parte 3a, in verità, tratta genericamente di Altre
virtù e altri vizi, che - come vedremo - si baseranno sostanzialmente
su quelle passioni calme che l’autore ha già esaminato nel Libro II.
Così appare chiaramente che l’argomento centrale - in tutti i sensi -
dell’intero Libro III sta nella parte 2a, la quale - sulla scia della più an­
tica e consolidata tradizione della filosofia morale, almeno dalla Re­
pubblica di Platone e dall'Etica Nicomachea di Aristotele in poi - è
principalmente dedicata a una virtù: la giustizia.
Analogamente al Libro II, nel quale l’autore faceva di una con­
creta passione indiretta, l'orgoglio (e l’umiltà/vergogna), il vero perno

114 Come già rilevato, Hume spera che «i ragionamenti sulla morale posano cor­
roborare tutto quel che abbiamo detto sull’intelligenza e sulle passioni» (T3.1.1.1: 455).
Il Trattato di Hume 267

speculativo attorno al quale ruotavano tutti i contenuti della trattazio­


ne; nel Libro III sarà una concreta virtù artificiale, la giustizia (e l’in­
giustizia) insieme a tutti i suoi corollari (proprietà, legalità ecc.), a fo­
calizzare l’interesse della trattazione. Ora, anche solo mettendo preli­
minarmente uno accanto all’altro questi due soggetti, orgoglio e giusti­
zia, ci possiamo fare un’idea del significato e della portata della morale
del Libro III. Quella stima positiva di sé che accade e si esprime nel­
l’orgoglio è già da sempre coinvolta socialmente nella stima che sentia­
mo di godere in modo simpatetico presso gli altri; ma perché questo
possa avvenire non occasionalmente e arbitrariamente, c’è bisogno del
consolidarsi di un ampio reticolo di valori e significati positivi, transin­
dividuali e condivisi, estesi nello spazio e nel tempo; ovvero di conse­
guire quelli che Hume chiama «steady and generai points of view». Per
poter dire veramente «io valgo», ho bisogno di sentire di meritare ve­
ramente una tale stima, e cioè di «essere nel giusto».

4.1. Ragione e senso morale


La l a parte del Libro III è scandita in due sezioni diametralmen­
te opposte tra loro, a testimoniare un confronto esteso allora ben al di
là dei confini del solo Trattato: la prima s’intitola Distinzioni morali
non derivate dalla ragione (T3.1.1); la seconda, Distinzioni morali deri­
vate dal senso morale (T3.1.2). Si tratta di una delle parti indubbia­
mente più commentate e discusse dell’intero Trattato115, infatti l’evi­
dente contrapposizione tra «ragione», da una parte, e «senso morale»,
dall’altra, faceva eco alle due posizioni (quella dei cosiddetti “raziona­
listi” vs. quella dei cosiddetti “sentimentalisti”) in cui tendeva a pola­
rizzarsi il dibattito contemporaneo - a loro116 ma in parte anche a

115 Per farsi un’idea sommaria della vastità di problemi sollevata, cf. D.F. NOR­
TON, The foundations o f morality in Hume’s Treatise, in NORTON-TAYLOR (edd.), The
Cambridge Companion, cit., 270-310; per approfondire, cf. J.L. MACKIE, Hume’s Moral
Theory, Roudedge, London 1980; A.C. BAIER, A Progress of Sentiments. Reflections on
Hume’s Treatise, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1991.
116 Tra i protagonisti di tale ampio e articolato dibattito, iniziato in Gran Breta­
gna una ventina d’anni prima del Trattato, c’erano: W. WOLLASTON, con The Religion of
Nature Delineated (1722); B. DE MANDEVILLE, con The Fable of thè Bees, or, Private Vi-
ces, Publick Benefits (1705-1723) e qui soprattutto An Inquiry into thè Origin o f Moral
Virtue\ F. HUTCHESON, con An Inquiry into thè Origin of Ideas of Beauty and Virtue
(1725), e An Essay on thè Nature and Conduct o f thè Passions and Affections, with Illu-
strations upon thè Moral Sense (1728); S. CLARKE, The Foundation of Morality in Theory
and Practice (1726); J. BuTLER, con i suoi Fifteen Sermons Preached at The Rolls Chapel
(1726).
268 Sistemi filosofici moderni

noi117 - circa la fondazione della morale e, più particolarmente, dei


giudizi morali o, come qui vengono chiamati, «distinzioni morali». In
una delle rare note al testo (T3.1.1.15: 461-462), Hume polemizza di­
rettamente con un «recente autore», che non è difficile identificare in
William Wollaston, e indirettamente con le posizioni filosofiche di Sa­
muel Clarke.
Si è soliti schierare Hume nella fazione contrapposta a quella dei
razionalisti, ovvero tra i fautori del moral sense, come Lord Shafte-
sbury e soprattutto Francis Hutcheson118. Come è stato puntualmente
documentato, la redazione del Libro III dipende in larga misura dal
confronto diretto che Hume ebbe con Hutcheson, al quale il giovane
filosofo sottopose un manoscritto del Libro III, sperando di ricevere
consigli sui contenuti e un aiuto per trovare un editore, e col quale eb­
be una fitta corrispondenza, non sempre favorevole, almeno non
quanto Hume sperava119. Difficile stabilire fino a che punto Hume se­
gua le posizioni di Hutcheson e dove invece cominci a distaccarsene
nettamente120. E chiaro, invece, che l’autore inizia la sua argomenta­
zione rammentando che nulla è mai presente alla mente se non le per­
cezioni, e che queste sono o impressioni o idee, e che perciò la que­
stione dei fondamenti dei giudizi o distinzioni morali viene a risolversi,
alla fin fine, in questa: «è dovuto alle idee oppure alle impressioni il fat­
to che noi distinguiamo tra vizio e virtù e dichiariamo un azione biasi­
mevole oppure lodevole?» (T3.1.1.4: 456).
Nella prima sezione, con una fitta serie di argomenti121, Hume
cerca di smontare ogni possibile pretesa della ragione di determinare

117 Su Hume e l’etica contemporanea, vedi i lavori di E. Lecaldano e N. Capaldi


già citati.
118 Per una rapida sintesi delle posizioni di questi autori, cf. NORTON, The foun-
dations of morality, cit., 271-284.
119 F. Hutcheson (1694-1746) godeva di una certa autorità, in quanto teneva la
cattedra di filosofia morale a Glasgow. Hume sperava di trovare in lui un mentore, ma
sin da subito il professore si mostrò assai critico verso le posizioni del giovane filosofo e,
probabilmente, fu proprio lui a opporsi alla candidatura di Hume alla cattedra di etica a
Edimburgo. N.K. Smith, notoriamente, propende per una decisiva dipendenza della
morale del Trattato da Hutcheson, gli interpreti successivi sono molto più cauti al ri­
guardo, cf. LECALDANO, Hume e la nascita dell}etica, cit., 21-28.
120 Per inquadrare la questione nel suo complesso, cf. L. TURCO, Moral sense and
thè foundations ofmorals, in A. BROADIE (ed.), The Cambridge Companion to thè Scottish
Enlightenment, Cambridge University Press, Cambridge 2003, 136-146; sulle conver­
genze e divergenze di Hume con Hutcheson, cf. WRIGHT, Humes ‘A Treatise of Human
Nature’, cit., 235-257.
121 Cf. OPT 176-78; WRIGHT, Humes A Treatise of Human Nature\ cit., 240-248.
Il Trattato di Hume 269

le distinzioni morali: (a) coerentemente con quanto già dimostrato in


T2.2.3, la ragione non ha un influsso diretto sulle nostre passioni o
azioni, ergo neppure può determinare le distinzioni morali, visto che
queste hanno sempre a che fare con l’agire (T3.1.1.4-8); (b) la ragione
ha sempre a che fare con rappresentazioni e col determinarne la verità
o falsità, ma le passioni e volizioni che determinano l’agire non rappre­
sentano nulla bensì, come sappiamo, sono originarie, ergo le distinzio­
ni morali non possono basarsi sulla sola ragione (T3.1.1.9-10); (c) la
ragione, da un lato, ci informa sull’esistenza o inesistenza degli oggetti
delle passioni, dall’altro lato, ci aiuta a calcolare i mezzi adatti o ina­
datti a esprimere una determinata passione, ma quando qualcuno
compie un errore circa l’oggetto (es. considerare appetibile un frutto
che a un più attento esame si rivela non commestibile) non è ritenuto
«per questo» moralmente colpevole, e neppure lo è chi dovesse sba­
gliare nel calcolare i mezzi per raggiungere uno scopo, al massimo po­
trà essere ritenuto uno sprovveduto, ergo tali distinzioni morali non
possono essere fondate sulla semplice ragione (T3.1.1.11-14); (d) ru­
bare una mela e rubare un regno, dal punto di vista della ragione non
sono nulla più che due occorrenze di un identico tipo di crimine, dal
punto di vista della morale invece sono senza dubbio due atti di una
gravità incommensurabile tra loro, ergo la ragione non può essere alla
base di quelle distinzioni di grado che invece sono indispensabili per
la morale (T3.1.1.13); (e) se le distinzioni morali derivassero dalla ra­
gione, dovrebbero essere o relazioni di idee o materie di fatto; (e.a) ma
materie di fatto non sono (T3.1.1.17-18. 26), secondo quanto Hume
prova a mostrare con un eloquente esempio circa l’omicidio premedi­
tato122; (e.b) neppure si tratta di relazioni di idee, infatti se le distinzio­
ni morali si basassero su quelle relazioni che sono alla base delle dimo­
strazioni (T 1.3.1), dovrebbero essere lodevoli o riprovevoli i semplici
pensieri interni di una persona; oppure dovrebbero essere moralmente
decidibili le relazioni intercorrenti tra qualunque oggetto possibile, ivi

122 «Consideriamo un’azione ritenuta viziosa, per esempio l’omicidio premedita­


to. Esaminiamola da tutti i punti di vista e vediamo se riusciamo a scoprire il dato di fat­
to o esistenza reale che chiamiamo vizio. In qualunque modo lo consideriate, troverete
soltanto certe passioni, motivi, volizioni e pensieri. Qui non c’è alcun altro dato di fatto.
Il vizio vi sfuggirà del tutto, finché considerate l’oggetto. E non potrete mai scoprirlo
finché non rivolgerete la vostra riflessione al vostro animo, dove scoprirete un sentimen­
to (sentimenti di disapprovazione, che nasce in voi nei confronti di questa azione. Qui
abbiamo un dato di fatto, che però è oggetto del sentimento e non della ragione. Alber­
ga in voi stessi, non nell’oggetto» (T3.1.1.26: 468-469).
270 Sistemi filosofici moderni

compresi piante e animali, ma nessuno ritiene che ciò sia moralmente


rilevanti, ergo le distinzioni morali non possono derivare da mere rela­
zioni di idee (T3.1.1.19-23); (f) da ultimo, Hume aggiunge un’osserva­
zione generale, che è divenuta una delle tesi più celebri e discusse del
suo pensiero:
In ogni sistema morale, che finora ho incontrato, ho sempre trovato che
l’autore procede per un po’ di tempo nel consueto modo di ragionare, e affer­
ma l’esistenza di un Dio o compie osservazioni sugli affari umani; e poi improv­
visamente trovo con sorpresa che, invece delle solite copule di proposizioni, è e
non è, incontro soltanto proposizioni connesse con un deve o un non deve. Il
cambiamento è impercettibile, ma ha un’estrema importanza (T3.1.1.27: 469).

Questo passo, generalmente noto come Is-ought paragraph, sem­


bra riferirsi a quegli autori (es. Clarke e Balguy) che argomentano, a
partire dall’esistenza di Dio e della sua bontà creatrice, il fatto che noi
siamo obbligati da un debito di gratitudine nei suoi confronti; oppure
potrebbe riferirsi ad altri (es. Pufendorf), i quali ritengono che l’ordi­
ne creaturale voluto da Dio ci obblighi nel distinguere ciò che è giusto
da ciò che è sbagliato. Hume controbatte che il deve o non deve espri­
me una «nuova relazione» rispetto al è o non è, e che essa avrebbe bi­
sogno di una giustificazione, ma che tale giustificazione sembra del
tutto inconcepibile, dal momento che non si può dedurre una relazio­
ne da una completamente diversa, ergo la morale non può derivare
dalla sola ragione (T3.1.1.27)123.
Ebbene, se, come Hume ritiene di aver mostrato, le distinzioni
morali non derivano dalla ragione, ovverosia dalle idee che essa è in
grado di mettere in relazione, non resta che l’altra alternativa, derive­
ranno da impressioni; ma, avendo appena escluso le materie di fatto, e
quindi le sensazioni, non resteranno che le impressioni di riflessione o
passioni. Il passo dove Hume porta l’esempio dell’omicidio premedita­

123 Da questo passo, si è soliti estrapolare la cosiddetta “legge di Hume”, la qua­


le comunemente sancisce l’impossibilità di passare dal piano descrittivo al piano prescrit­
tivo. Anzitutto bisogna notare che la legge di Hume non è di Hume, in quanto egli non
l’ha mai espressamente formulata come tale, ma è stata a lui attribuita da alcuni filosofi
analitici (es. G.E. Moore) nel X X secolo. In verità, la formulazione rigorosa di tale legge
può condurre all’esito, paradossale, di dare ragione a un’etica “aprioristica”, cioè basata
su leggi totalmente metaempiriche, piuttosto che a un’etica “non-razionalista”, come
quella che Hume intende qui giustificare. Sulle difficoltà di attribuire la legge di Hume
a Hume, cf. A.C. MAClNTYRE, Hume on «is» and «ought», in «Philosophical Review» 68
(1959), 451-468; N. CAPALDI, The dogmatic slumber ofHume scholarship, in «Hume Stu-
dies» 18 (1992), 117-135; LECALDANO, Hume e la nascita dell’etica, cit., 173-181.
Il Trattato di Hume 271

to (T3.1.1.26) continua con una serie di considerazioni che anticipano


quanto l’autore sta per argomentare nella sezione successiva:
Così, quando dichiarate viziosi un’azione o un carattere, non intendete
nulla se non che, data la costituzione della vostra natura, voi provate un senso
o sentimento (a feeling or sentiment) di biasimo nel contemplarli. Il vizio e la
virtù possono, perciò, essere paragonati ai suoni, ai colori, al caldo e al freddo
che, secondo la filosofia moderna, non sono qualità degli oggetti, ma percezio­
ni della mente (T3. 1.1.26: 4 6 9 )124.

L’argomento di Hume inizia stabilendo che quando noi espri­


miamo (pronounce) un giudizio o distinzione morale (es. l’assassinio di
Cesare da parte di Bruto è stato un vizioso omicidio premeditato), il
significato che noi intendiamo {meati) con tale giudizio è in verità che
noi proviamo un sentimento di biasimo nel considerare quella data
azione. Con ciò Hume non sta affatto spiegando o chiarendo il signifi­
cato implicito delle parole con le quali noi formuliamo tale giudizio -
insomma non è un problema di analisi linguistica - ma sta cercando
quale sia Yimpressione che sta alla base dtìYidea di vizioso che noi at­
tribuiamo a quella determinata azione125.
La tesi, che l’autore difende, è che quell’idea non deriva dall’im­
pressione di un oggetto esterno, ovvero non è una sensazione, bensì da
un’impressione a noi interna, socialmente mediata. Ed è questa nostra
impressione di piacere o dolore, o meglio sentimento di approvazione
o disapprovazione, che finisce per essere attribuita all’azione che noi
dichiariamo virtuosa o viziosa. Il paragone poi che il filosofo qui stabi­
lisce, tra vizi e virtù, da un lato, e qualità secondarie, dall’altro, è teso a
farci cogliere il parallelismo che c’è tra questa teoria del fondamento
dei giudizi morali e la teoria della connessione necessaria trattata in
T l.3 .1 4 126. Infatti, l’associare costantemente determinate impressioni
interne, di piacere o dolore, con determinate azioni esterne, ci porta
ad attribuire quei sentimenti a quelle azioni, giudicandole come se
queste possedessero in se stesse la qualità di essere virtuose o viziose.
Qui Hume non vuole negare la qualità dell’atto, né dice che l’omicidio

124 Per un’analisi punto per punto di questo brano, che è tra i più citati e chiosa­
ti dell’intero Trattato, cf. WRIGHT, Hume’s ‘A Treatise o f Human Nature\ cit., 245-251.
125 Nota bene: «Hume distingue tra il sentimento morale e il giudizio morale: il
primo è un’impressione originaria, e dunque è indivisibile, mentre il secondo è la verba-
lizzazione di una idea morale, copia dell’impressione morale di partenza» (GRECO, Lio
morale, cit., 153).
126 Cf. WRIGHT, Hume’s (A Treatise o f Human N a t u r e cit., 249.
272 Sistemi filosofici moderni

è male soltanto ai nostri occhi. In realtà, egli ribadisce che la malizia


dell’omicidio non sta né nel movimento del coltello, né nella scompar­
sa di Cesare, ma è qualcosa che va oltre questi meri fatti e, perciò, si
presenta alla nostra coscienza in un modo del tutto particolare.
L’autore ci fa notare, poi, che esistono diversi tipi di piacere e
dolore, e non tutti danno luogo a giudizi o distinzioni morali. I senti­
menti di approvazione o disapprovazione sono, a detta di Hume, «par­
ticolari dolori o piaceri» (T3.1.2.3: 471) e la definizione di virtù o vizio
non è altro che la definizione di tali particolari impressioni. Per preci­
sare questa particolarità, l’autore delimita tre condizioni concentriche
(T3.1.2.4): (a) anzitutto nota che il piacere e il dolore provocati dalle
azioni di una persona risultano differenti da quelli provocati dalle altre
cose, animate o inanimate; (b) poi osserva che solo le azioni delle per­
sone in realtà danno luogo a quei particolari sentimenti che ritroviamo
nei giudizi o distinzioni morali; (c) e infine ci porta a considerare che
non sempre le azioni delle persone provocano in noi quei particolari
sentimenti, ma solo quando siamo in grado di considerare quelle azio­
ni «in generale, senza alcun riferimento al nostro interesse particolare»
(T3.1.2.4: 472), come quando, per esempio, ammettiamo la virtuosità
di un nostro nemico.
Quest’ultima condizione è assai interessante, in quanto pone
esplicitamente uno dei problemi più gravi in cui rischia d’incorrere
una teoria del senso morale del tipo di quella sostenuta da Hume nel
Trattato: se a essere ultimamente determinanti per i giudizi morali so­
no i nostri sentimenti di approvazione o disapprovazione, come è pos­
sibile che questi non ci conducano a un puro soggettivismo morale? e
come è mai conciliabile tutto ciò con la necessità di astrarre dal pro­
prio interesse particolare per raggiungere un punto di vista generale?

4.2. Carattere e giustizia


Dopo il passo che abbiamo appena commentato, Hume aggiun­
ge immediatamente una considerazione della massima importanza, che
controbilancia o, meglio, precisa il senso della astrazione dal proprio
interesse particolare: virtù e vizio sono collegati tramite piacere e dolo­
re a orgoglio e umiltà, ad amore e odio (T3.1.2.5). Come l’autore, all’i­
nizio della 3a parte, sintetizza efficacemente:
Ora, siccome ogni qualità, in noi stessi o negli altri, che provoca piacere,
è sempre causa di orgoglio e di amore; mentre ogni altra che produce dolore su­
scita umiltà/vergogna o odio: ne segue che, riguardo alle nostre qualità mentali,
Il Trattato di Hume 273

dobbiamo considerare la virtù equivalente al potere di produrre amore o orgo­


glio, e il vizio equivalente al potere di produrre odio o umiltà/vergogna. [...]
Che un azione sia virtuosa o viziosa, è soltanto segno di una qualità o di un ca­
rattere. Deve infatti dipendere da principi durevoli della mente, i quali si esten­
dono all’intera condotta, arrivando al carattere personale (T3.3.1.3-4: 515).

Dal momento che - come appena stabilito - i giudizi o distinzio­


ni morali di virtù e vizio hanno senso solo per quelle azioni personali
che suscitano in noi determinati piaceri o dolori; e dal momento che i
piaceri o dolori che hanno di particolare il fatto di essere in relazione
con noi suscitano le nostre passioni indirette di orgoglio, amore o i lo­
ro contrari; ergo, conclude Hume, abbiamo qui una chiara equivalenza
della virtù con l’orgoglio e l’amore, e del vizio con l’umiltà/vergogna e
l’odio127. Questa equivalenza, poi, ci permette di cogliere il legame che
unisce in profondità la morale alle passioni, giacché proprio virtù e vi­
zio sono le cause che più di ogni altra ci inorgogliscono o ci fanno
umiliare.
Inoltre, un’azione è virtuosa o viziosa non in se stessa, considera­
ta isolatamente, ma solo se è in grado di coinvolgere - secondo quanto
dice Hume - «principi durevoli della mente», ovverosia la consapevo­
lezza che abbiamo di noi stessi come persone dotate di un carattere128.
Il carattere consiste nell’insieme di quelle passioni durevoli che sono
in grado di motivare l’agire umano, si tratta di proprietà disposizionali,
ovvero capaci di rendere conto di come gli agenti si comporteranno, in
base alle qualità mentali che gli appartengono129. Non è il carattere a
dipendere dalle azioni, quanto piuttosto queste a essere spiegate e giu­
dicate in base a esso: «E evidente che quando lodiamo [o biasimiamo]
un’azione, noi consideriamo solamente i motivi che la producono, e
consideriamo le azioni come segni o indicazioni dell’esistenza di certi
principi nella mente o nel temperamento» (T3.2.1.2: 477).
Da tutto ciò comprendiamo che è solo qui, grazie alla morale del

127 II che ovviamente non vale viceversa, in quanto non ogni piacere riferito a
noi, come potrebbe essere quello della bellezza di un oggetto inanimato (es. casa), ri­
guarda vizio o virtù. Inoltre, come sappiamo, gli effetti immediati di piacere e dolore so­
no le passioni dirette (desiderio, avversione ecc.); mentre le passioni indirette sono effet­
ti mediati da una qualità.
128 Cf. J. MclNTYRE, Character. A Humean Account, in «History of Philosophy
Quarterly» 7 (1990), 193-206; E. L e c a ld a n o , Lio, il carattere e la virtù nel Trattato di
Hume, in A. SABBATUCCI (ed.), Filosofia e cultura nel Settecento britannico. II. Hume e
Hutcheson, Il Mulino, Bologna 2000, 143-166; GRECO, Lio jnorale, cit., 125-138.
129 Cf. GRECO, Lio Jnorale, cit., 127.
274 Sistemi filosofici moderni

Libro III, che l’oggetto focale della dottrina delle passioni, il nostro io,
è in grado di acquistare piena stabilità e consistenza. Ma affinché que­
sto processo sia interamente compiuto, c’è bisogno non solo di prova­
re orgoglio o umiltà/vergogna in questa o quella determinata circo­
stanza in base al proprio carattere riconosciuto, ma anche di avere
consapevolezza di essere veramente degni, ovvero di meritare una tale
stima. Ma perché questo sia possibile, bisogna poter astrarre dal pro­
prio interesse particolare e possedere dei punti di vista fermi e
generali130. Come si legge più oltre:
Dunque per prevenire queste continue contraddizioni, e conseguire un
maggiore grado di stabilità nei nostri giudizi sulle cose, noi fissiamo certi punti
di vista fermi e generali (steady and generai points ofview)\ e nei nostri pensie­
ri ci rapportiamo sempre a essi, qualunque possa essere la nostra situazione
presente (T3.3.1.15: 582-583).

La questione di una considerazione generale, che, come dice Hu­


me, «causa un senso o sentimento tale da essere denominato moral­
mente buono o cattivo» (T3.1.2.4:472), e quindi non solo piacevole o
spiacevole, coinvolge direttamente la questione della possibilità della
convergenza nei giudizi morali tra persone differenti. Nel Libro II, la
nostra comunicazione con gli altri era garantita a livello passionale dalla
simpatia. E nella morale? La simpatia svolge un ruolo fondamentale131,
ma certamente non sufficiente, perché essa, secondo Hume, varia a se­
conda della nostra prospettiva più o meno ristretta, più o meno distan­
te (T.3.3.1.15). Se un giudizio morale ha invece la minima pretesa di es­
sere stabile e generale, deve essere formulato come se noi facessimo
astrazione dai sentimenti di coloro che ci sono più prossimi, e tentassi­
mo di elevarci a un punto di vista condivisibile da chiunque altro. Ma
questa esigenza non deve essere affatto separata dal sentimento che co­
lui che giudica moralmente prova internamente in se stesso. Dovrem­
mo forse giudicare col nostro senso morale come se questo non ci ap­
partenesse? Una tale separazione appare del tutto schizofrenica. Come
uscire da questa impasse?
Analogamente a quanto l’autore aveva argomentato circa le idee
astratte in T. 1.1.7, il punto di vista generale non deve essere considera­
to come un punto di vista neutro e impersonale, come se non fosse di

130 Cf. CHAZAN, Pride, Virtue and Self-Hood, cit.; E.S. R a d c liff e , Hume on Mo-
tivating Sentiments, thè General Point ofView, and thè Inculcation of Morality, in «H u­
me Studies» 20 (1994), 37-58; GRECO, L io morale, cit., 146-161.
131 Cf. WRIGHT, Humes A Treatise of Human Nature\ cit., 270-275.
nessuno, ma come la convergenza reale di molti sguardi concreti che
storicamente e praticamente sono convenuti su determinati punti fissi.
Parlando di generale, allora, non si intende affatto un qualcosa di uni­
versalmente oggettivo e normativo, bensì l’esito e la sedimentazione
del confronto avvenuto in una determinata comunità, attraverso un
processo contingente di errori, tentativi e miglioramenti.
Questo processo però non è del tutto casuale e arbitrario o, co­
me si suol dire, meramente convenzionale o contrattuale, ma guidato
(non determinato) da quella gentle force che sono le passioni calme
(benevolenza, amore per la vita, inclinazione per il bene e avversione
per il male in se stessi), che stanno alla base delle virtù. Dire calme,
non significa dire deboli, anzi «la caratteristica delle passioni calme è
quella di essere forti, cioè persistenti, durature, continue nel loro in­
flusso sulla volontà»132. Il loro ruolo è quello di contrastare l’immedia­
tezza delle passioni violente, che per definizione non riescono a conse­
guire alcun punto di vista fisso e generale, per strutturare e garantire
l’interesse che ciascuno prova per se stesso, coniugandolo a lungo ter­
mine e a largo raggio con gli interessi degli altri. E così che Hume
giunge a darci una definizione della persona giusta, in base al principio
che «un merito o un demerito accompagna la giustizia o l’ingiustizia».
Infatti:
Chiunque abbia un qualche rispetto per il suo carattere, o intenda vive­
re in buoni rapporti con il genere umano, deve fissarsi come legge inviolabile
di non essere mai indotto, da nessuna tentazione, a violare i principi che sono
essenziali affinché un uomo sia probo e onorevole (T3.2.2.27: 501).

Contro gran parte della tradizione filosofica precedente, per Hu­


me la giustizia non è né un sentimento naturale né un principio metafi­
sico, bensì: «Come l’esistenza continuata dei corpi, come la necessità,
come l’astrazione, essa è pura finzione, rimedio a inconvenienti della
mente, del corpo, del carattere, della situazione»133. Infatti, la giustizia
è una virtù del tutto artificiale che fissiamo, mediante un sistema com­
plessivo di regole o leggi, come punti di vista fermi e generali posti a
garanzia della moderazione delle passioni violente da parte di quelle
calme134: «se gli uomini perseguissero l’interesse pubblico naturalmen­

132 GRECO, L io morale, cit., 137; cf. T2.3.4.1.


133 ATTANASIO, Gli istinti della ragione, cit., 267.
134 Sulla complicata e assai discussa teoria della giustizia in Hume, cf. K.
HAAKONSSEN, The Science of a Legislator. The Naturai Jurisprudence o f David Hume and
Adam Smith, Cambridge University Press, Cambridge 1981; D.W. LlVlNGSTON, Hume’s
276 Sistemi filosofici moderni

te e con tutto il cuore, non si sarebbero mai sognati di limitarsi l’un


l’altro con queste regole» (T3.2.2.21: 498). Giusto è colui che arriva a
possedere l’abitudine di procurarsi i propri beni senza accaparrarsi
quelli altrui; e in tal modo egli consolida nel tempo e nello spazio il
proprio interesse o stima per se stesso, insieme a quello degli altri135.
Perché, come conclude l’autore del Trattato, «Sebbene la giustizia sia
artificiale, il senso della sua moralità è naturale» (T3.3.6.4: 619).

Bibliografia
Opere
1739 A Treatise o f Human Nature: Being an Attempt to Introduce thè Expe-
rimental Method of Reasoning into Moral Subjects. I. O f thè Under­
standing. II. O f thè Passions, Noon, London [anonimo].
1740 A Treatise of Human Nature: Being an Attempt to Introduce thè Expe-
rimental Method o f Reasoning into Moral Subjects. III. O f Morals,
Longman, London [anonimo].
1740 An Abstract of a Book lately Published, Entituled A Treatise of Hu­
man Nature, &c. Wherein thè Chief Argument of that Book is farther
Illustrated and Explained, Borbet [Corbet], London [anonimo].
1741 Essays, Moral and Politicai, Kincaid, Edinburgh [1 voi. di 15 saggi,
anonimo].
1742 Essays, Moral and Politicai, Kincaid, Edinburgh [2a ed. del voi. 1 del
1741, più voi. 2 di nuovi 12 saggi, anonimo].
1748 Essays, Moral and Politicai, Millar, London [3a ed. del voi. 1 del 1741,
2a ed. del voi. 2, in tutto 26 saggi].
1748 Philosophical Essays concerning Human Understanding. By thè Author
of thè Essays Moral and Politicai, Millar, London [dal 1758 intitolati
An Enquiry concerning Human Understanding.
1751 An Enquiry concerning thè Principles of Morals, Millar, London.
1752 Politicai Discourses, A. Donaldson, Edinburgh.
1757 Four Dissertations, Millar, London [comprende: Naturai History of
Religion ; Dissertation on thè Passions; OfTragedy ; O f thè Standard of
Taste].

Philosophy of Common Life, University of Chicago Press, Chicago 1984; J. T aylor, Ju-
stice and thè Foundations of Social Morality in Humes Treatise, in «Hume Studies» 24
(1998), 5-30; ATTANASIO, Gli istinti della ragione, cit., 239-274.
135 Cf. LECALDANO, Hume e la nascita dell’etica, cit., 195-241; WRIGHT, Humes
4A Treatise of Human Nature’, cit., 270-275.
Il Trattato di Hume 277

1758 Essays, M oralPoliticai, and Literary, Cadell, London [comprende


saggi dalle raccolte del 1741, 1742, 1748, 1752, 1757].
1762 The History ofEngland, from thè Invasion o f Julius Caesar to The Re­
volution in 1688, 6 voli., Millar, London.
1777 The Life of David Hume, Esq. Written by Himself Strahan, London
[noto come My own Life].
1779 Dialogues concerning NaturaiReligion [postumi].

Edizioni moderne
1874 The Philosophical Works of David Hume, edited by T.H. G r e e n -
T.H. G r o s e , 4 voli., Longmans, London; rprt. Scientia Verlag Aalen,
Darmstadt 1964.
1888 A Treatise of Human Nature, edited by L.A. SELBY-BlGGE, Clarendon
Press, Oxford; second edition with revised text and variant readings
byP.H. NlDDITCH, 1978.
1932 The Letters of David Hu?ne, edited by J.Y.T. G r e ig , 2 voli., Claren­
don Press, Oxford.
1938 An Abstract of A Treatise of Human Nature 1740. A Pamphlet hither-
to Unknown by David Hume, edited by J.M. KEYNES - P. SRAFFA,
Cambridge University Press, Cambridge 1938; rprt. Archon, Ham-
den (CT) 1965.
1954 New Letters o f David Hume, edited by R. KLIBANSKY - E.C. M o s-
SNER, Clarendon Press, Oxford.
1998- The Clarendon Edition of thè Works of David Hume, edited by T.L.
B e a u c h a m p - D.E N o r t o n - M.A. S t e w a r t , Clarendon Press,
Oxford.
I-II. A Treatise o f Human Nature; An Abstract of thè Treatise; A Letter
from a Gentleman to his Friend in Edinburgh, edited by D.E NORTON -
M.J. N o r t o n , 2007.
III. An Enquiry concerning Human Understanding, edited by T.L.
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IV. An Enquiry concerning thè Principles of Morals, edited by T.L.
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V. A Dissertation on thè Passions; The Naturai History of Religion,
edited by T.L. BEAUCHAMP, 2007.
2000 A Treatise of Human Nature, edited by D.E NORTON - M.J. NORTON,
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Introduzioni e commenti al Trattato


2001 ATTANASIO A., Gli istinti della ragione. Cognizioni, motivazioni, azioni
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278 Sistemi filosofici moderm

2006 TRAIGER S. (ed.), The Blackwell Guide to Hume’s Treatise, Blackwell,


Oxford.
2008 RUSSELL P, The Riddle of Hume’s Treatise; Scepticism, Naturalism and
Irreligion, Oxford University Press, Oxford.
2009 WRIGHT J.P, Hume’s A Treatise of Human Nature’. An Introduction,
Cambridge University Press, Cambridge.

Studi generali
1941 SMITH N.K., The Philosophy of David Hume. A Criticai Study of its
Origins and its Central Doctrins, Macmillan, London.
1966 ÀRDAL P.S., Passion and Value in Hume’s Treatise, Edinburgh Univer­
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1982 NORTON D.E, David Hume, Common Sens Moralist, Sceptical Me-
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1987 LECALDANO E., Hume e la nascita dell’etica contemporanea, Laterza,
Roma-Bari.
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tledge, London-New York.
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co Angeli, Milano.
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2008 GRECO L., Ilio morale. David Hume e l’etica contemporanea, Liguori,
Napoli.
2009 LAUDISA E, Hume, Carocci, Roma.
2009 NORTON D.F. - T a y l o r J. (edd.), The Cambridge Companion to Hume,
second edition, Cambridge University Press, Cambridge.
2012 GARRETT D., Hume, Roudedge, London.

Ponti bibliografiche
1975- «Hume Studies» [bibliografia annuale].
Capitolo Quinto
CRITICA E SISTEMA IN KANT

Nel 1781 esce a Riga la Kritik der reinen Vernunft di Immanuel


Kant (1724-1804). Qualche anno più tardi, nel 1787, l’autore darà alle
stampe una seconda edizione dell’opera, contenente alcuni importanti
cambiamenti.
Osservando il susseguirsi delle pubblicazioni di Kant lungo l’arco
della sua vita, ci accorgiamo che esse si lasciano raccogliere in due fasi
principali. Nel primo periodo, il giovane filosofo redige una ventina di
scritti scientifici dedicati soprattutto alla filosofia della natura, tra il
1746, anno della sua prima pubblicazione circa La vera valutazione del­
le forze vive, fino al 1770, quando, ottenuta la cattedra di Logica e Me­
tafisica, inaugura tale insegnamento con una dissertazione latina su La
forma e i principi del mondo sensibile e del mondo intellegibile. In un se­
condo periodo, che va dal 1781 fino alla fine del secolo, il maturo pro­
fessore darà alla luce le tre grandi Critiche, la Critica della ragion pura
(1781, 1787), la Critica della ragion pratica (1788) e la Critica del giudi­
zio (1790), nonché numerosi altri importanti scritti. Questi due periodi
vengono comunemente denominati dagli storici: precritico e critico.
In mezzo tra questi due periodi, ovvero tra il 1770 e il 1781,
Kant pubblica solo quattro piccoli testi marginali, incomparabili, per
ampiezza e importanza, a quelli precedenti e ancor più a quelli succes­
sivi. Perciò, questa fase intermedia è stata spesso definita il “decennio
silenzioso”: un periodo solo apparentemente ozioso e infruttuoso1. In­
fatti, al termine del lungo silenzio, verrà alla luce la Critica della ragion
pura\ un’opera il cui impatto sarà tale che, dopo di essa, la filosofia non
sarà più la stessa. In questi anni, al di là dell’insegnamento che occupa
solo in parte le giornate del filosofo e che, d’altronde, gli fornisce una
tranquilla base economica, Kant è pressoché interamente libero da

1 Sulla genesi della Critica della ragion pura, cf. F.C. BEISER, Kant’s intellectual
development: 1746-1781, in P. GUYER (ed.), The Cambridge Companion to Kant, Cam­
bridge University Press, Cambridge 1992, 26-61; R. ClAFARDONE, La Critica della ragion
pura di Kant. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 1996, 21-15.
280 Sistemi filosofici moderni

preoccupazioni e strenuamente dedito al suo progetto. Inizialmente,


egli immaginava che sarebbe stato sufficiente rielaborare in una forma
leggermente ampliata la Dissertazione del 1770, e contava che l’esposi­
zione di quella che definiva una «disciplina propedeutica»2, si sarebbe
potuta compendiare «in uno spazio piuttosto ristretto». Anzi, già nel
febbraio del 1772, confidava - fin troppo ottimisticamente - al suo al­
lievo Marcus Herz: «Quanto all’essenziale del mio disegno, ho avuto
successo e sono ora in grado di presentare una critica della ragion pu­
ra»3. In verità - sappiamo - egli era solo all’inizio del cammino.
Di cosa avrebbe trattato questa «propedeutica» o «critica»?
Kant specificava che essa avrebbe compreso «la precisa determinazio­
ne dei concetti fondamentali e delle leggi del mondo sensibile nei loro
rapporti, insieme allo schizzo di ciò che costituisce la natura della dot­
trina del gusto, della metafisica e della morale»4, e rivelava di voler in­
titolare il suo scritto «I limiti della sensibilità e della ragione». Insom-
ma, all’epoca egli aveva in mente di comporre un’opera in grado di va­
gliare ovvero giudicare la legittimità delle pretese conoscitive della
sensibilità e della ragione umane5. Una trattazione del genere, nella
quale l’indagine filosofica riflette sulle sue stesse pretese euristiche, si
poneva idealmente nella linea delle grandi opere sistematiche del pen­
siero moderno, come le Meditazioni di Descartes, il Saggio di Locke o
il Trattato di Hume. Qualche anno più tardi, Kant confesserà che pro­
prio quest’ultimo, grazie alla sua confutazione della tradizionale nozio­
ne di causa6, lo aveva risvegliato dal «sonno dogmatico»7 in cui la lunga

2 A Johann Heinrich Lambert, 2 settembre 1770, in I. K a n t, Epistolario filosofi-


co 1761-1800, a cura di O. Meo, Il Melangolo, Genova 1990,58 (AA X: 97).
3 A Marcus Herz, 21 febbraio 1772, in K a n t, Epistolario, cit., 69 (AA X: 132).
4 A Marcus Herz, 7 giugno 1771, in K a n t, Epistolario, cit., 62 (AA X: 123).
5 In greco, xqlvo) significa «discerno, scelgo, giudico»; Kant stesso paragona la
critica a un «tribunale» (A xi-xii).
6 Fu probabilmente un articolo apparso sulla Konigsberger gelehrte Zeitung nel
luglio del 1771, dal titolo Nachtgedanken einer Skeptikers (Pensieri notturni di uno scetti­
co), a destare la riflessione di Kant. L’articolo, anonimo, era la traduzione (ad opera di
J.G . Hamann) delle ultime pagine del Libro I del Treatise di Hume (.supra, 249-250), cf.
M. KUEHN, Kant’s conception of Hume s problem, in B. LOGAN (ed.), Immanuel Kant’s
Prolegomena in Focus, Routledge, London-New-York 1996, 156-177; P. GUYER, Know­
ledge, Reason, and Taste. Kant’s Response to Hume, Princeton University Press, Prince­
ton 2008, 71-123; sulla causalità in Hume, supra, 246-248.
7 «Lo confesso francamente: l’avvertimento di David Hume fu proprio quello
che, molti anni orsono, per primo mi svegliò dal sonno dogmatico e dette un tutt’altro
indirizzo alle mie ricerche nel campo della filosofia speculativa» (I. K a n t, Prolegomeni
ad ogni metafisica che vorrà presentarsi come scienza, tr. P. Carabellese, Laterza, Roma-Bari
Critica e sistema in Kant 281

frequentazione della filosofia leibniziano-wolffiana lo aveva gettato8. E


tuttavia, alla filosofia di Hume mancava qualcosa: «egli non si pose la
questione nella sua integrità, ma si fermò solo su una parte di essa, che
non può offrire nessuna spiegazione senza involgere il tutto». Emerge
qui un tratto essenziale del pensiero kantiano: la sua sistematicità, ov­
verosia la ricerca incessante di un’integrazione quanto più coerente e
unificata possibile dei diversi ambiti dell’indagine filosofica. Una siste­
maticità tanto più necessaria, in quanto radicata nella struttura e dina­
mica della ragione stessa. Nell’estate del 1777, comunicando a Herz
l’evoluzione del proprio pensiero, scriveva che:
Da quando ci siamo separati, le indagini, che fino ad allora si erano ri­
volte in maniera frammentaria ai più vari argomenti della filosofia, hanno gua­
dagnato una forma sistematica e mi hanno condotto gradualmente all’idea del
tutto, la quale anzitutto rende possibile un giudizio sul valore e l’influsso reci­
proco delle parti9.

E del tutto verosimile che il punto attorno a cui il filosofo si era


a lungo arrovellato nel “decennio silenzioso” fosse proprio la determi­
nazione della questione unificante a partire dalla quale sviluppare l’ar­
ticolazione integrale della sua filosofia. E, alla fine, essa si era conden­
sata nella forma che poi avrebbe indirizzato gran parte dello sviluppo
successivo del pensiero kantiano: come sono possibili giudizi sintetici
a priori?10 Una domanda che potrebbe essere tradotta così: come è

1996, 13 [AA IV: 260]). Sulla complessa questione del superamento del dogmatismo gra­
zie all’influsso di Locke e, soprattutto, di Hume, cf. K.P. WlNKLER, Kant, thè empiricists,
and thè enterprise o f deduction, in P. GUYER (ed.), The Cambridge Companion to Kant’s
Critique of Pure Reason, Cambridge University Press, Cambridge 2010,41-72.
8 Per valutare l’influsso della filosofia di G.W. Leibniz e C. Wolff, nonché dei
loro epigoni, sul giovane Kant, cf. J.V. BUROKER, Space and Incongruence. The Origin of
Kant’s Idealism, Reidei, Dordrecht 1981; G . TONELLI, Da Leibniz a Kant, a cura di C. CE­
SA, Prismi, Napoli 1988; D. HOGAN, Kant’s Copernican turn and thè rationalist tradition,
in GUYER (ed.), The Cambridge Companion to Kant’s Critique of Pure Reason, cit., 21-40.
9 «Seit der Zeit dafi wir von einander getrennt sind haben meine ehedem
Stiickweise auf allerley Gegenstànde der philosophie verwandte Untersuchungen syste-
matische Gestalt gewonnen und mich allmàhlig zur Idee des Ganzen gefùhrt, welche al-
lererst das Urtheil ùber den Werth und den wechselseitigen Einflus der Theile mòglich
macht» (A Marcus Herz, 20 agosto 1777 [AA X: 231; trad. mia]).
10 Come Kant stesso sintetizzerà all’inizio del § 6 dellTntroduzione alla Critica
della Ragion pura: «il vero problema della ragion pura è contenuto nella domanda: c o -
m e s o n o p o s s i b i l i g i u d i z i s i n t e t i c i a p r i o r i ? » ; cf. P. GUYER, Kant,
Routledge, London-New York 2006, 45-51; G . San s, Sintesi a priori. La filosofia critica
di Immanuel Kant, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2013, 11-27.
282 Sistemi filosofici moderni

possibile, almeno per noi uomini, formulare giudizi capaci di estende­


re la nostra conoscenza e, allo stesso tempo, dotati di un valore neces­
sario e universale? Il che equivale, infondo, alla domanda: come e a
quali condizioni è possibile umanamente la scienza?
Una volta trovato il bandolo della matassa speculativa che mano
mano egli aveva intrecciato in modo sempre più complesso, Kant
scrisse la Critica della ragion pura di getto. Certo, aveva già in mano al­
cuni piccoli abbozzi, nonché numerose note e appunti, ma in ogni ca­
so la stesura del testo dovette essere straordinariamente rapida. Nel­
l’arco di qualche mese - a sua detta11 - Kant compose di fatto un’ope­
ra di quasi 900 pagine. Fu con ogni probabilità questo “furore” reda­
zionale a rendere il testo assai poco chiaro e pieno d’incongruenze, an­
zi, a dirla tutta, esso risultò per molti dei contemporanei pressoché il­
leggibile. Nonostante ciò, in pochi anni la prima edizione andò esauri­
ta e fu probabilmente questa sollecitazione esterna a spingere il filo­
sofo a riprendere l’opera in mano per comporre una nuova edizione.
Anche stavolta Kant pensava che la redazione non gli avrebbe portato
via molto tempo e che l’opera ne sarebbe risultata alleggerita e chiari­
ficata. Alla fine, gli ci volle circa un anno di lavoro, durante il quale ri­
scrisse per intero alcune decisive parti dell’opera e, infine, la dotò di
una nuova Prefazione, nella quale è rinvenibile un sensibile cambia­
mento di prospettiva occorso nel frattempo.
Infatti, tra il 1781 e il 1787 Kant aveva pubblicato e redatto di­
verse opere sostanziali: nel 1783 erano usciti i Prolegomeni ad ogni me­
tafisica che vorrà presentarsi come scienza, che miravano a offrire in
modo più accessibile le novità della prima Critica; nel 1785 aveva visto
la luce la fondazione della metafisica dei costumi - l’opera più letta di
Kant e ancora oggi tra i testi filosofici in assoluto più studiati al mondo
- consistente in un’indagine sui principi fondamentali della moralità;
nel 1786, i Primi principi metafisici della scienza della natura, nei quali
tentava di derivare a priori i principi della meccanica classica (inerzia,
conservazione della materia, uguaglianza di azione e reazione ecc.); ma
soprattutto, nella primavera del 1787 il filosofo aveva terminato la re­
dazione della Critica della ragion pratica (1788), la quale non era sem­
plicemente una versione estesa della Fondazione della metafisica dei co­

11 Verosimilmente, i «quattro o cinque mesi» dichiarati da Kant nella lettera A


Christian Garve, 1 agosto 1783 (in K an t, Epistolario, cit., 119 [AA X: 339]) e ugualmen­
te A Moses Mendelssohn, 16 agosto 1783 {ivi, 126 [AA X: 345]) si riferiscono alla fase fi­
nale di stesura e revisione del testo.
Critica e sistema in Kant 283

stumi - come spesso purtroppo si legge - bensì trattava daccapo e in


modo autonomo i problemi metafisici attinenti alla morale.
Secondo l’idea iniziale di Kant, il progetto critico prevedeva
un’unica trattazione basilare, la quale avrebbe giudicato l’intero uso
della ragione in quanto tale, risultando propedeutica ai diversi ambiti
sistematici della filosofia, denominati da Kant: metafisica della natura
e metafisica dei costumi. Tuttavia, durante il 1787 tale progetto era in­
dubbiamente mutato, giacché le critiche o propedeutiche erano diven­
tate due12. Per quale ragione Kant giunse a questo mutamento? Per di­
rimere la questione possiamo appellarci a un testo del tutto ecceziona­
le. La Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura
venne scritta quando oramai la stesura della Critica della ragion pratica
era di fatto terminata13. Con la nuova Prefazione, perciò, l’autore get­
tava uno sguardo sul suo primo capolavoro da una distanza prospetti­
ca ampliata, in quanto comprendeva, a quel punto, non più solo una,
bensì due opere critiche. Come commenta acutamente H. Cohen:
«Nella prima Prefazione l’autore aveva parlato come autore, in questa
egli stesso diventa invece lettore»14.

12 Al momento di stendere la prima Critica, Kant non pensava minimamente a


una seconda e, più tardi, nella Prefazione alla Fondazione della metafisica dei costumi,
egli escluderà ancora la necessità di una Critica della ragion pratica.
13 M. Kuehn ci informa che «La nuova prefazione [alla Critica della ragion pu­
ra], datata aprile 1787, fu scritta più tardi, probabilmente dopo l’arrivo delle bozze»
(Kant. A Biography, Cambridge University Press, Cambridge 2001, 310 [trad. it., Kant.
Una biografia, Il Mulino, Milano 2011, 455]), mentre «L a Critica della ragion pratica
porta la data di pubblicazione del 1788, tuttavia copie dell’opera erano disponibili a Kò-
nigsberg già per il Natale del 1787 e Kant aveva completato il manoscritto almeno sei
mesi prima» (ivi, 311 [trad. it., cit., 456]). Stando a ciò, la Prefazione alla seconda edizio­
ne della prima Critica sarebbe stata redatta quando il manoscritto della seconda Critica
era già praticamente compiuto. Quantomeno, dobbiamo ritenere i due testi coevi.
14 «In der 1. Vorrede hat der Autor als Autor gesprochen; in dieser wird er
selbst wider zum Leser» (H. COHEN, Kommentar zu Immanuel Kants Kritik der reinen
Vernunft, Durr, Leipzig 1907,2 [trad. mia]).
284 Sistemi filosofici moderni

£QS Edizioni e traduzioni della Critica della ragion pura

La Kritik der reinen Vernunft fu pubblicata a Riga presso l’editore


Hartknoch nel 1781 (abbreviata con la sigla A). La seconda edizione «hin und
wieder verbesserte» apparve presso il medesimo editore nel 1787 (abbreviazio­
ne B). Le stampe originali sono consultabili on-line, nella riproduzione foto­
grafica effettuata dalla Berlin-Brandenburgische Akademie der Wissenschaften
(kant.bbaw.de). Durante la vita di Kant, videro la luce altre tre edizioni dell’o­
pera (17903, 17944, 17995), con minime variazioni tipografiche rispetto a B.
Dopo la morte di Kant, apparvero ulteriori edizioni, via via sempre più accura­
te, grazie all’intensificarsi degli studi filologici, per giungere infine nel 1903-
1904 a quella di B. Erdmann nei volumi III-IV dei Kants gesammelte Schriften.
Dopo questa, meritano di essere menzionate almeno due edizioni: quella cura­
ta da R. Schmidt nel 1926 (19302, 19903) per la collana «Philosophische Bi-
bliothek» (Felix Meiner, Hamburg), la quale indica in apparato le numerose
varianti e dispone sinotticamente il testo di A e B ove divergono; nonché quel­
la di W. Weischedel contenuta nel volume II dei Kants Werke in sechs Bànden,
Insel, Wiesbaden 1956-1964, anch’essa riportante in sinossi A e B.
I Kants gesammelte Schriften a cura della Kòniglich Preuftische (poi
Deutsche e oggi Berlin-Brandenburgische) Akademie der Wissenschaften
(detta comunemente Akademie-Ausgabe e abbreviata con la sigla AA), sono
l’edizione di riferimento delle opere del filosofo. La pubblicazione, iniziata nel
1900 a cura di W. Dilthey, è proseguita fino ai giorni nostri secondo un proget­
to di 29 volumi (28 pubblicati a oggi) divisi in 4 sezioni: 1. Opere pubblicate (I-
IX); 2. Epistolario (X-XIII); 3. Lascito manoscritto (XIV-XXIII); 4. Lezioni
(XXIV-XXIX). A partire dal 1910, diversi singoli volumi hanno visto una se­
conda edizione. Le prime tre sezioni (I-XXIII) sono interamente disponibili
on-line in formato elettronico, con motore di ricerca, a cura dell’Università di
Bonn (www.korpora.org/Kant).
Esistono numerose traduzioni in italiano della Kritik der reinen Ver­
nunft, le più note sono quella a cura di G. Gentile - G. Lombardo-Radice, La-
terza, Roma-Bari 1909, rivista da V. Mathieu nel 1959; di G. Colli, Einaudi,
Torino 1957; di P. Chiodi, Utet, Torino 1967. La prima e unica, però, a ripor­
tare per intero il testo tedesco a fronte (secondo l’edizione Weischedel) con in
margine la paginazione A/B, è quella recentemente curata da C. Esposito,
Bompiani, Milano 2004. Pertanto, io mi rifarò a questa traduzione.
I rimandi ai testi originali di Kant saranno indicati secondo i volumi e le
pagine della Akademie-Ausgabe (es. AA X: 129); per la Critica della ragion pu­
ra indicherò invece la paginazione A/B.
Critica e sistema in Kant 285

1. Il cammino sicuro della scienza


La filosofia, sin dai suoi esordi, ha spesso compreso se stessa co­
me un cammino, un procedimento capace di condurci dalla precarietà
e contingenza della nostra esperienza di ogni giorno (la doxa od opi­
nione) verso la certezza della verità (l’episteme o sapere scientifico).
Gli antichi greci lo chiamavano methodos, cioè ricerca, letteralmente
«via per [raggiungere qualcosa]», e Platone lo paragonava a una navi­
gazione15. Esso può essere sicuro o insicuro, a seconda se è in grado di
condurci passo dopo passo alla meta stabilita o, altrimenti, va avanti e
indietro, gira e rigira su se stesso, dando l’illusione di muovere verso il
traguardo promesso, senza però raggiungerlo mai. Il successo o il falli­
mento di tale cammino offre dunque la misura della validità scientifica
di una determinata disciplina e permette, eventualmente, di ridefinirne
le pretese. Dietro questa antichissima metafora - che Kant, all’inizio
della Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura,
mutua direttamente dal Novum organum di Francis Bacon16 - è impli­
citamente in gioco il destino della più nobile e discussa delle scienze:
la metafisica. A tale destino è legato anche quello della filosofia in ge­
nerale, dal momento che la metafisica non fa altro che esprimerne le
ambizioni più alte.
Tra le scienze, dice Kant, una più delle altre sembra potersi fre­
giare del merito di aver percorso il proprio cammino con sicurezza: la
logica. Al di là di alcuni ritocchi, più di facciata che di sostanza, e al di
là dei tentativi di alcuni pensatori recenti per estenderne l’ambito, la
logica «da Aristotele in poi, non ha dovuto fare alcun passo indietro»,
ma nemmeno «ha potuto fare alcun passo in avanti» (B viii). Questa
situazione è dovuta all’estrema limitatezza di tale scienza, in quanto es­
sa si occupa solo e soltanto delle «regole formali di tutto il pensiero»
(B ix), astraendo da ogni possibile contenuto oggettivo di conoscenza.

15 Phaed., 99c-d; per «seconda navigazione (òs'UTEQog jtXo'Og)» i greci intende­


vano quella che, cessato il vento, procedeva con la sola forza dei remi. La metafora indi­
ca così la differenza tra navigare grazie a qualcosa di dato esternamente, il vento ovvero
l’esperienza sensibile, e navigare grazie alla forza prodotta internamente dalla barca stes­
sa, i remi ovvero l’intelletto. La seconda navigazione è propriamente quella soprasensi­
bile o metafisica; cf. G. REALE, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle
dottrine non scritte, Vita e Pensiero, Milano 1997, 147-153.
16 Sul forte accento baconiano che attraversa tutta la Prefazione B, facendone
una sorta di De augmentis scientiarum in nuce, cf. E. FÒRSTER, Die Vorreden, in G.
MOHR - M. WlLLASCHEK (edd.), Immanuel Kant, Kritik der reinen Vernunft, Akademie,
Berlin 1998, 47-49.
286 Sistemi filosofici moderni

Evidentemente, qui Kant lascia intuire che la Critica della ragion pura
ambisca a un sapere capace non solo di possedere la stessa sicurezza
della logica aristotelica, dal momento che ne condivide la formalità
epistemica (in tal senso la ragione è considerata in quanto pura), ma in
più capace di compiere finalmente passi in avanti, dal momento che si
occupa anche delle pretese nei confronti dei possibili contenuti ogget­
tivi (in tal senso tale indagine è una critica). Ebbene, è la ragione che si
occupa formalmente o - come dice Kant - a priori di oggetti, ed essa
può farlo in due modi:
o semplicemente per d e t e r m i n a r e quest’oggetto e il suo concetto
(il quale deve essere dato in un altro modo), oppure anche per r e a l i z z a r -
1o . La prima è la conoscenza t e o r e t i c a della ragione, la seconda è quella
p r a t i c a (B ix-x)17.

Conoscenze teoretiche a priori sono, per Kant, la matematica e


la fisica. Infatti, per verificare che «la somma degli angoli interni di un
triangolo è pari a due retti» posso anche disegnare un triangolo, misu­
rare gli angoli mediante un goniometro e infine fare la somma delle tre
misure. Tuttavia, tale verifica empirica o - nella terminologia kantiana
- a posteriori mi darà un risultato particolare e contingente, invece se
elaboro una costruzione geometrica essa mi dimostrerà la validità della
legge che cerco, prescindendo dall’ampiezza e dalla forma del triango­
lo e dunque in modo universale e necessario, cioè a priori. Kant attri­
buisce questa scoperta, avvenuta presso gli antichi greci, a una vera e
propria « r i v o l u z i o n e , attuata dalla felice idea di un singolo uo­
mo» (B xi), il quale per primo comprese che le proprietà matematico­
geometriche non si ricavano dalla figura mediante misurazione, bensì
«per costruzione» (B xii), ossia cogliendo ciò che il concetto pone nel­
l’atto stesso di determinare l’oggetto. Un’analoga rivoluzione è avve­
nuta nelle scienze della natura, allorché la «proposta dell’ingegnoso
B a c o n e di Verulamio ha suscitato in parte, e in parte ha accelerato
[...] tale scoperta». Quale?
Galileo Galilei, nella Giornata terza dei Discorsi e dimostrazioni
matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica e i
movimenti locali (1638), tratta delle leggi del «moto naturalmente -
oggi diremmo uniformemente - accelerato». Per fare ciò descrive l’e­
sperimento del «piano inclinato», ovverosia di una sfera di bronzo che

17 Cf. l’inizio della Prefazione alla Fondazione della metafisica dei costumi (AA
IV: 387).
Critica e sistema in Kant 287

rotola lungo un piano di legno inclinato di 5°, acquistando «uguali


momenti di velocità in tempi uguali»18. Kant evidenzia la differenza
che intercorre tra un esperimento del genere e l’esperienza comune.
Mentre questultima avviene in modo casuale (es. mentre rincorro una
palla che rotola lungo un pendio mi accorgo di dover aumentare la ve­
locità per riuscire a catturarla) il primo avviene in modo preordinato,
in quanto lo scienziato stabilisce in precedenza i parametri dell’esperi­
mento (es. lunghezza del piano, gradi d’inclinazione, peso della sfera
ecc.). Il punto è che nell’esperimento «la ragione arriva a vedere solo
ciò che essa stessa produce secondo il suo progetto» (B xiii). Ed è gra­
zie a questa rivoluzione che l’indagine sulla natura ha potuto, final­
mente, imboccare il «cammino sicuro della scienza»19.

2. Una totale rivoluzione

Dopo i due momenti rivoluzionari precedentemente descritti,


quello delle scienze matematico-geometriche, avvenuto nell’antica
Grecia, e quello delle scienze della natura, avvenuto nell’età moderna,
Kant lascia intuire che un terzo momento rivoluzionario attenda ora
l’umanità. Infatti, viene da chiedersi se la filosofia e in particolar modo
la regina delle discipline filosofiche, cioè la metafisica, possa ambire
anch’essa a imboccare il cammino sicuro della scienza. La metafisica è
descritta da Kant come «una conoscenza speculativa della ragione, che
sta del tutto isolata e sopravanza completamente l’insegnamento del­
l’esperienza, e lo fa mediante semplici concetti». In ciò la metafisica
differisce da ogni altra scienza, persino dalla più a prioristica di esse,
cioè la matematica, in quanto quest’ultima riferisce comunque i suoi
concetti a un’intuizione, anche solo possibile (es. riferisco il mio con­
cetto di triangolo all’intuizione spaziale di un certo possibile triango­
lo). Gli oggetti della metafisica, invece, non possono riferirsi a un’in­
tuizione (es. quale sarebbe mai la mia intuizione spazio temporale di
Dio? o dell’anima?). A causa di ciò, non esiste scienza più erratica del-

18 Diversi studiosi hanno sostenuto che tale esperimento, così come altri de­
scritti da Galileo, siano ideali, ovvero avvenuti solo nella mente del loro autore, cf. es. A.
KOYRÉ, Études galiléennes, 3 voli., Hermann, Paris 1939; altri hanno cercato di rico­
struire realisticamente taluni esperimenti, tra i quali anche quello del piano inclinato,
giungendo invece a risultati più che soddisfacenti e realistici, cf. es. T.B. SETTLE, An ex-
periment in thè history of Science, in «Science» 133 (1961), 19-23.
19 L’espressione ricorre per ben sei volte nella Prefazione (B vii. xiv. xiv. xv. xix.
xxxvi).
288 Sistemi filosofici moderni

la metafisica ed essa appare come «un campo di battaglia, destinato


esclusivamente - così sembra - a far sì che i duellanti esercitino le loro
forze in un falso combattimento» (B xv). Tale tragico destino della me­
tafisica era stato già palesato da Kant nelle prime righe della Prefazione
alla prima edizione della Critica della ragion pura20.
Ma forse un modo c’è per uscire da questa impasse. La storia
delle conquiste scientifiche che abbiamo appena percorso potrebbe
esserci d’aiuto. Il grande Niccolò Copernico si è trovato in una situa­
zione simile, allorché non riuscendo a trovare una spiegazione soddi­
sfacente al moto retrogrado apparente dei pianeti21:
poiché la spiegazione dei movimenti celesti non riusciva a procedere be­
ne ammettendo che tutto quanto l’ordine delle stelle girasse attorno allo spet­
tatore, egli tentò di vedere se non potesse andar meglio facendo ruotare lo
spettatore e star ferme invece le stelle. Ebbene, nella metafisica si può tentare
qualcosa di simile (B xvi).

Sino ad oggi i filosofi hanno ritenuto che tanto l’intuizione quan­


to i concetti debbano conformarsi alla «natura dell’oggetto»; l’ipotesi
“rivoluzionaria” di Kant è che invece sia l’oggetto a doversi conforma­
re alla facoltà intuitiva e intellettiva. Anzitutto a livello dell’intuizione,
se questa fosse derivata interamente dall’oggetto, cioè a posteriori, non
potremmo giungere a «sapere qualcosa a priori» capace di riferirsi a
essa. Inoltre, siccome l’intuizione non è sufficiente affinché ci sia co­
noscenza, dal momento che Xintuizione, è un evento mentale col quale
il soggetto conoscente solo riceve la rappresentazione di un oggetto22,

20 «La ragione umana, in un genere delle sue conoscenze, ha un destino parti­


colare: quello di essere gravata da questioni che essa non può evitare, poiché le sono as­
segnate dalla sua stessa natura di ragione, ma a cui non può nemmeno dare risposta,
poiché tali questioni oltrepassano ogni potere della ragione umana» (A vii).
21 II Nicolai Copernici torinensis De revolutionibus orbium ccelestium, Libri VI,
apparve a Nurnberg nel 1543, cf. A.O. LOVEJOY, The Great Chain of Being. A study of
thè History of an Idea, Harvard University Press, Harvard 1936, 99-143; W. Sh ea, Le
nuove cosmologie, in P. ROSSI - C.A. VlANO (edd.), Storia della filosofia. III. Dal Quattro-
cento al Seicento, Laterza, Roma-Bari 1995, 180-208; S. GAUKROGER, The Emergence of a
Scientific Culture. Science and thè Shaping of Modernity 1210-1685, Clarendon Press,
Oxford 2006.
22 «In qualunque modo e con qualunque mezzo una conoscenza possa mai rife­
rirsi agli oggetti, è certo che il suo modo di riferirsi immediatamente a questi oggetti -
un modo a cui ogni pensiero tende come al suo mezzo - è l ’ i n t u i z i o n e . Ma l’intui­
zione ha luogo solo nella misura in cui l’oggetto ci venga dato (gegeben wird); e quest’ul-
tima cosa è possibile a sua volta, almeno per noi uomini, solo per il fatto che l’oggetto
produca in qualche modo un’affezione nell’animo» (A 19/B 33).
Critica e sistema in Kant 289

abbiamo bisogno anche dei concetti. Perché ci sia conoscenza è indi­


spensabile, infatti, che l’intuizione sia determinata mediante un concet­
to. Di nuovo, Kant non vede qui che due strade possibili:
o ammetto che i concetti con i quali attuo questa determinazione si re­
golino anch’essi sull’oggetto [...]; oppure ammetto che gli oggetti o - il che è
lo stesso - l ’ e s p e r i e n z a , nella quale soltanto essi vengono conosciuti (co­
me oggetti dati) si regolino su questi concetti (B xvii).

Detto in altri termini, o si ritiene che il concetto che permette di


unificare i molteplici dati dell’esperienza sia anch’esso dato con l’espe­
rienza; oppure si ritiene che la conoscenza consista nella sintesi tra
qualcosa di dato, Xintuizione, e qualcosa che non è dato bensì è pro­
dotto dall’intelletto, il concetto. Ora, la prima ipotesi è decisamente
scartata da Kant, dal momento che, se anche i concetti fossero dei puri
e semplici dati empirici cadrebbe del tutto la possibilità di fare scienza
e la conoscenza sarebbe relegata a un frammentario susseguirsi di sen­
sazioni costantemente mutevoli. Al contrario, se la conoscenza è deter­
minazione di oggetti, è indispensabile che i concetti mediante i quali
l’intelletto attua tale determinazione non siano essi stessi dei dati. E se
i concetti non sono dati, debbono necessariamente essere pensati, os­
sia prodotti in base a «una regola che devo presupporre in me ancor
prima che mi siano dati degli oggetti, quindi a priori». Una regola che
è certo soggettiva, in quanto appartiene al soggetto conoscente, ma
che non ha nulla di soggettivo, ovvero di arbitrario e relativistico, in
quanto è inscritta nella natura stessa del soggetto.
Accettare l’ipotesi “rivoluzionaria” kantiana, non comporta in
alcun modo accettare un’inversione tra realtà e idee, tra oggetti e con­
cetti, tale per cui noi alla fine non conosceremmo più la realtà, bensì
solo la nostra concettualizzazione di essa23. Per Kant la conoscenza è

23 «The Copernican example, after all, does not reduce planetary motion to thè
observer’s consciousness in an idealist way. It is rather that thè physical motion of thè
observer is an essential part of thè explanation of his conscious perception and of thè re­
ai world of thè solar system. The parallel would be not that Kant proposes to reduce ob­
jects, or thè rules they obey, to a subjects consciousness, but that he treats thè latter as a
vital part of thè explanation of thè former» (G. BlRD, The Revolutionary Kant. A Com-
mentary on thè Critique of Pure Reason, Open Court, Chicago 2006, 31); sul confronto
tra il vecchio e il nuovo paradigma filosofico, cf. E. BENCIVEGNA, Kant’s Copernican Re­
volution, Oxford University Press, Oxford 1987 (trad. it., La rivoluzione copernicana di
Kant, Bollati Boringhieri, Torino 2000); sul corretto modo d’intendere la metafora co­
pernicana, cf. I. KANT, Theoretische Philosophie, Texte und Kommentar hrsg. von G.
MOHR, 3 voli., Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2004, III, 70-74.
290 Sistemi filosofici moderni

la sintesi tra un elemento che ci è dato, ovvero l’intuizione, e un ele­


mento da noi pensato, ossia il concetto. Come il filosofo ribadirà con
estrema chiarezza all’inizio della Logica trascendentale: «I pensieri,
senza contenuto, sono vuoti; le intuizioni, senza concetti, sono cieche»
(A 51/B 15). Senza la datità delle intuizioni, la conoscenza evapora in
una nube idealistica; senza la determinazione dei concetti, essa vaga in
una selva empiristica.
Per verificare la validità dell’ipotesi avanzata, Kant propone di
mettere al vaglio del suo nuovo modello di conoscenza gli oggetti della
metafisica. Facendo ciò, ci si accorge immediatamente che la metafisi­
ca - qui intesa da Kant come indagine sui concetti a priori in generale
- si divide nettamente in due parti24. Nella prima parte sono indagati
«i concetti a priori, i cui oggetti corrispondenti possono essere dati
adeguatamente nell’esperienza» (B xviii), ovvero tutti quei concetti ai
quali può corrispondere una data intuizione. Nella seconda parte, si
tratta invece degli «oggetti che sono semplicemente - ma necessaria­
mente - pensati dalla ragione e che però (almeno come li pensa la ra­
gione) non possono affatto essere dati nell’esperienza». Queste due
parti della metafisica conseguono un esito diametralmente opposto.
Mentre la prima (detta anche metafisica dell’esperienza) raggiunge il
suo traguardo e perciò accresce il sapere conducendoci lungo il «cam­
mino sicuro della scienza»; la seconda (detta metafisica trascendente)
perviene a un esito fallimentare, giacché è costretta a constatare che
mediante la nostra facoltà di conoscere a priori «non possiamo mai ol­
trepassare il confine di un’esperienza possibile» (B xix). In altre paro­
le, possiamo - e in certi casi persino dobbiamo - pensare determinati
oggetti, i quali però sono effettivamente conoscibili solo e soltanto se
di essi possediamo un’intuizione corrispondente.
A questo punto Kant giunge al passaggio più nevralgico della sua
argomentazione. La necessità che ci spinge a pensare gli oggetti sopra-
sensibili della metafisica nasce da un’esigenza che scaturisce dalla ra­
gione in quanto tale. Infatti, la ragione, per Kant, è la facoltà dell’m-
condizionato, ovvero essa è spontaneamente portata a concludere la se­
rie delle condizioni - in base alla quale ogni termine è condizionato da
un altro e così via - verso un termine ultimo, esso stesso non condizio­

24 Nella Critica della ragion pura queste due parti della metafisica corrispondo­
no alle due parti della Logica trascendentale: 1. L’Analitica trascendentale, che tratta dei
concetti puri dell’intelletto, detti categorie; 2. La Dialettica trascendentale, che tratta del­
le idee inferite dalla ragione: anima, mondo, Dio.
Critica e sistema in Kant 291

nato. Ora, le possibilità sono due: o tale esigenza della ragione è del
tutto ingiustificata e contraddittoria; o tale esigenza trova un qualche
fondamento che la renda ammissibile. Nel primo caso, ci troveremmo
consegnati al destino tragico di una ragione alienante, sempre protesa
verso un compimento di per sé irraggiungibile. Nel secondo caso, inve­
ce, la ragione sarebbe la facoltà che dischiude all’uomo la piena realiz­
zazione della sua destinazione. Non è difficile capire che qui è in gioco
la validità stessa della filosofia nelle sue originarie, massime aspirazioni.
Di fronte a tutto ciò, Kant sostiene che, solo ammettendo la ri­
voluzione da lui ipotizzata, è possibile sciogliere la contraddizione del­
la ragione. Se accettiamo che la nostra conoscenza «arriva solo a quel­
lo che ci appare - vale a dire ai fenomeni - e lascia invece che la cosa
in sé, che pure esiste realmente di per se stessa, resti però sconosciuta
da parte nostra» (B xx), allora possiamo ammettere come legittima la
pretesa della ragione di trovare l’incondizionato, in quanto questo ri­
guarderebbe gli oggetti considerati come cose in sé, non come feno­
meni. Qui Kant fa leva su una delle distinzioni più discusse - e frainte­
se - della sua filosofia: fenomeno e cosa in sé. Per fenomeno (Erschei-
nung) s’intende l’oggetto indeterminato di un’intuizione empirica, ov­
vero l’oggetto di conoscenza in quanto appare al soggetto percipiente
mediante una sensazione e, dunque, relativamente alle facoltà percetti­
ve del soggetto. Per cosa in sé (Ding an sich), invece, si intende l’ogget­
to in quanto pensato in se stesso, come condizione di possibilità del-
l’apparire del fenomeno. In altre parole, quello di fenomeno è un con­
cetto relativo, in quanto richiede, come sua condizione di possibilità,
un qualcosa di non conoscibile, di cui il fenomeno è fenomeno, cioè la
cosa in sé25.
Tuttavia, dobbiamo distinguere attentamente questi due concet­
ti, dal momento che il fenomeno è qualcosa di conosciuto, mentre la
cosa in sé è qualcosa di pensato: non a caso Kant la chiama noumenon,
cioè, letteralmente, «ciò che è pensato». L’espressione - alquanto infe­
lice - di cosa in sé ha fatto purtroppo pensare molti lettori della prima
Critica che si trattasse di una specie di “cosa” nascosta dietro alle cose.
Di conseguenza, a costoro è parso che Kant abbia sdoppiato l’oggetto
di conoscenza, in un vero oggetto sconosciuto e in un oggetto cono­

25 «sebbene noi non possiamo c o n o s c e r e quegli stessi oggetti anche come


cose in se stesse dobbiamo per lo meno poterli p e n s a r e come tali. In caso contrario,
infatti, ne seguirebbe l’assurda proposizione, secondo la quale vi è un’apparenza (Er-
scbeinungj senza qualcosa che appaia in essa» (B xxvi).
292 Sistemi filosofici moderni

sciuto ma solo in apparenza, alienando così l’uomo dalla conoscenza


della vera realtà. Ciò non è esatto. I più recenti e approfonditi studi
sulla filosofia critica convergono nel ritenere, invece, che non esistono,
per Kant, due oggetti, uno accessibile e l’altro inaccessibile, ma un so­
lo e unico oggetto di conoscenza, che l’indagine filosofica considera da
due differenti punti di vista: (a) come fenomeno, nella misura in cui ta­
le oggetto è conosciuto mediante una modificazione della nostra fa­
coltà percettiva; (b) come cosa in sé, nella misura in cui lo stesso ogget­
to è pensato indipendentemente dalle condizioni in cui si lascia coglie­
re da noi26.
Solo tenendo ben presente questa distinzione, possiamo capire
in che senso Kant pretenda di poter salvare la ragione dalla contraddi­
zione, grazie al fatto che «l’incondizionato non lo si deve trovare nelle
cose in quanto noi le conosciamo (in quanto ci son date), bensì nelle
cose in quanto noi non le conosciamo, come cose in se stesse» (B xx).
Infatti, solo se noi scommettiamo sulla «totale rivoluzione (gànzliche
Revolution)» (B xxii)27 proposta da Kant, e cioè ammettiamo che sia­
no gli oggetti a doversi regolare sulla nostra facoltà conoscitiva e non
viceversa, allora possiamo distinguere tra fenomeno e cosa in sé. Ed è
solo in base a tale distinzione che possiamo evitare di attribuire l’in­
condizionato, preteso dalla ragione, all’ordine dei fenomeni, cadendo
in una palese contraddizione, giacché i fenomeni sono in quanto tali
dei condizionati. Invece, se l’aspirazione della ragione all’incondizio­
nato è riferita alle cose in sé, si rende possibile un esito non contraddit­
torio e, sorprendentemente, fecondo. Difatti, noi sappiamo che un
conto è la conoscenza speculativa o teoretica, che ha il compito di de­
terminare gli oggetti, e un conto è la conoscenza pratica, che ha il com­
pito di realizzarli. Ciò permette a Kant di avanzare un’ulteriore ipotesi:
dopo che alla ragione speculativa è stato interdetto qualsiasi avanza­
mento nel campo del soprasensibile, resta pur sempre da vedere se nella cono­
scenza pratica della ragione non si trovino forse dei dati per determinare quel

26 Su questi temi hanno segnato una tappa imprescindibile gli studi di G.


PRAUSS, Erscheinung bei Kant. Ein Problem der „Kritik der reinen Vernunft", De Gruyter,
Berlin 1971; Id., Kant und das Problem der Dinge an sich, Bouvier, Bonn 1974, 19772,
19893; cf. anche H.E. ALLISON, Kant’s Transcendental Idealism. An Interpretation and
Defense, Yale University Press, New Haven-London 20042; per un’agevole introduzione
alla questione, cf. S. GARDNER, Kant and thè Critique of Pure Reason, Routledge, Lon-
don-New York 1999, 27-50; BlRD, The Revolutionary Kant, cit., 33-34. 40-44.
27 L’espressione «rivoluzione copernicana», universalmente usata nella manuali­
stica, non ricorre mai nei testi di Kant.
Critica e sistema in Kant 293

concetto razionale trascendente dell’incondizionato, e per giungere in tal mo­


do - secondo quello che è il desiderio della metafisica - al di là del confine di
ogni esperienza possibile, mediante la nostra conoscenza a priori: conoscenza,
questa, che sarebbe però possibile solo dal punto di vista pratico (B xxi).

Il fatto di aver prosciugato le antiche pretese della metafisica di


gettare il proprio sguardo speculativo al di là dell’esperienza, ha para­
dossalmente ricavato uno spazio che Kant ipotizza di poter legittima-
mente riempire con i «dati» della conoscenza pratica, cioè - come ve­
dremo tra breve - con la legge della libertà. Tutto ciò è possibile solo e
soltanto se anzitutto noi ci dedichiamo a una Critica della ragion pura,
ovverosia a un esame circa le pretese della ragione nel suo uso puro,
che prescinde dall’esperienza, per poter discernere quali pretese siano
legittime e quali, invece, illegittime. In conseguenza di ciò, il titolo del
capolavoro di Kant va inteso duplicemente: (a) esso è una critica della
ragion pura (genitivo oggettivo), nel senso che con essa si intende va­
gliare le pretese della ragione, per escludere le indebite; ma è anche -
e forse soprattutto - una critica della ragion pura (genitivo soggettivo)
nella misura in cui mediante tale esame di sé la ragione costituisce se
stessa, gettando e mostrando le basi della propria autorealizzazione.

3. Mettere da parte il sapere, per far posto alla fede


Dopo l’uscita della prima edizione della Critica della ragion pura,
diversi lettori, tra cui anche alcuni amici dell’autore, hanno ritenuto
che con essa Kant «tutto distrugge» e che l’esito di tale filosofia sia
una forma di scetticismo non dissimile da quello al quale sembrava lo­
ro essere approdato Hume col suo Trattato28. In risposta a queste criti­
che29, nella Prefazione alla seconda edizione, l’autore solleva egli stesso
la domanda su quale sia il «tesoro» che la sua filosofia intende lasciare

28 Sull’immediato evolversi delle posizioni prò e contro la prima Critica, cf. M.


KUEHN, Kant’s criticai philosophy and its reception. The first fiveyears (1781-1786), in P.
GUYER, (ed.), The Cambridge Companion to Kant and Modem Philosophy, Cambridge
University Press, Cambridge 2006, 630-663; G . Di GIOVANNI, The first twenty years of
critique, in GUYER (ed.), The Cambridge Companion to Kant, cit., 417-448; S. MARCUC-
CI, Guida alla lettura della Critica della ragion pura di Kant, Laterza, Roma-Bari 19992,
134-140.
29 Proprio in reazione ad alcune di tali critiche, Kant era stato sollecitato a scri­
vere i Prolegomena, nei quali si trovano già diverse esplicite repliche, cf. H .M . HOHE-
NEGGER, Introduzione, in K a n t , Prolegomeni, cit., v-xxxix; KUEHN, Kant, cit., 254-269
(trad. it., cit., 377-398); K a n t , Theoretische Philosophie, cit., Ili, 516-520.
294 Sistemi filosofici moderni

alla posterità. Infatti, pare che la purificazione imposta dalla critica ab­
bia esaurito a tal punto le pretese della ragione da ridurle di fatto al
nulla. Per tutta replica, Kant ribalta completamente la questione: vera­
mente negative e distruttive sono le “chimere” della metafisica, ovvero
le pretese indebite di oltrepassare i confini dell’esperienza. In effetti,
tali false risposte alle aspirazioni della ragione impediscono che altre,
vere soluzioni possano essere avanzate. Perciò, i confini posti dalla fi­
losofia critica hanno sì una funzione restrittiva, ma non meramente re­
strittiva, giacché mediante essi la critica è in grado di tutelare la ragio­
ne pratica dall’azione contraria esercitata da quella speculativa.
A questo punto l’autore riprende alcuni contenuti basilari della
Critica. Per facilitarne la comprensione è possibile avvalersi del se­
guente schema30, che visualizza i contenuti principali solo della prima
- preponderante31 - parte dell’opera:

Critica della ragion pura


Dottrina trascendentale degli elementi

ESTETICA ANALITICA DIALETTICA


Sensibilità Intelletto Ragione
(matematica e (metafisica dell’esperienza, (metafisica
geometria) principi scienza naturale) trascendente)
Intuizioni Concetti e principi Idee
(spazio e tempo) (sostanza, causalità ecc.) (anima, mondo, Dio)

Nell’Estetica trascendentale «si dimostra che spazio e tempo so­


no soltanto forme dell’intuizione sensibile» (B xxv), ovverosia condi­

30 Lo schema è tratto da GARDNER, Kant and thè Critique of Pure Reason, cit., 25.
31 La Prima parte, 'Dottrina trascendentale degli elementi (A 17-704/B 31-732),
occupa circa l’80% del testo complessivo; la Seconda parte, Dottrina trascendentale del
metodo (A 705-856/B 733-884), il restante 20%. Quest’ultima intende determinare «le
condizioni formali di un sistema completo della ragion pura» (A 707/B735), e compren­
de nell’ordine: 1. Disciplina della ragion pura; 2. Canone della ragion pura; 3. Architetto­
nica della ragion pura\ 4. Storia della ragion pura\ cf. ClAFARDONE, La Critica della ragion
pura di Kant, cit., 195-201; BlRD, The Revolutionary Kant, cit., 739-756; A.W. MOORE,
The transcendental doctrine of method, in GUYER (ed.), The Cambridge Companion to
Kant’s Critique of Pure Reason, cit., 310-326.
Critica e sistema in Kant 295

zioni di possibilità32 dell’intuire le cose; mentre Analitica trascen­


dentale, si dimostra che noi non abbiamo alcun concetto dell’intellet­
to, capace di determinare la nostra conoscenza delle cose, «se non per­
ché a questi concetti può esser data un’intuizione corrispondente»
(B xxvi). Nella Dialettica trascendentale si trarranno, infine, le conse­
guenze circa l’inconoscibilità delle idee inferite dalla ragione. Infondo,
nella Prefazione l’intento di Kant è quello di evidenziare come l’argo­
mento sotteso a tutta la Critica della ragion pura sia la dimostrazione
che abbiamo una conoscenza non delle cose come sono in sé stesse,
bensì come fenomeni. E tuttavia, ciò non esclude che le cose in sé sia­
no pensabili come tali, anzi sarebbe persino contraddittorio escludere
una tale possibilità. Perciò Kant precisa in una nota che:
Per c o n o s c e r e un oggetto si richiede che io possa dimostrarne la
possibilità (sia sulla base della sua realtà, secondo la testimonianza dell’espe­
rienza, sia a priori per mezzo della ragione). Io posso invece p e n s a r e ciò
che voglio, solo che non mi contraddica [...]. Ma per attribuire a un tale con­
cetto una validità oggettiva (vale a dire una possibilità reale, dato che prima
era solo una possibilità logica), si richiede qualcosa di più. E questo qualcosa
di più non c’è bisogno di cercarlo proprio nelle fonti teoretiche della cono­
scenza, poiché può trovarsi anche nelle fonti pratiche (B xxvi).

Per passare dalla possibilità alla realtà si richiede un «di più


(ietwas mehr)». Ora, secondo Kant, questo «di più» deve sempre e
comunque essere dato. Il fatto che nell’ambito teoretico tale dato non
può essere fornito che dall’intuizione sensibile, non esclude tuttavia
che possa esistere un dato di ordine pratico, non fenomenico, bensì
noumenico. Dal momento che la Critica della ragion pura ha il compi­
to di determinare le condizioni di possibilità dell’uso puro delle no­
stre facoltà conoscitive, in essa non viene stabilito quel «di più» ovve­
ro quel dato in grado di realizzare l’uso pratico della ragione, bensì
solo la possibilità logica di esso. Nella prima Critica, dunque, Kant
non offre alcun argomento su come passare dalla possibilità alla
realtà nell’ambito pratico, e nemmeno nella Fondazione della metafi­
sica dei costumi sarà elaborato un tale apporto. Solo con la Critica
della ragion pratica il filosofo giungerà a stabilire che la legge morale è
quel dato non empirico che, come lui stesso ambiguamente propone

32 Trascendentale è un termine polisenso negli scritti di Kant, in genere è equi­


valente a «condizione di possibilità», cf. ClAFARDONE, La Critica della ragion pura di
Kant, cit., 68-72; GARDNER, Kant and thè Critique of Pure Reason, cit., 45-46.
296 Sistemi filosofici moderni

di chiamare, è un «fatto della ragione (Factum der Vernunft)»ÒJ>.


A comprova della validità e soprattutto fecondità della propria
strategia, Kant porta l’esempio della possibilità di considerare una «me­
desima essenza», in questo caso l’anima umana, come «libera e al tem­
po stesso soggetta alla necessità naturale» (B xxvii). Secondo il princi­
pio di non contraddizione non è possibile che i contrari (in questo caso
libero e necessitato) appartengano a uno stesso, sotto un medesimo ri­
spetto. Ma proprio la distinzione tra fenomeno e cosa in sé permette di
considerare l’anima umana sotto due differenti rispetti o, come scrive
Kant, d’intendere l’oggetto «in un duplice significato {in zweierlei Be-
deutung)»: (a) in quanto fenomeno, l’anima è sottoposta alle leggi della
natura esattamente come tutti gli altri fenomeni naturali e dunque è im­
plicata nelle relazioni deterministiche di causa ed effetto, e pertanto
non può dirsi libera; (b) in quanto cosa in sé, l’anima può ben essere
pensata come un incondizionato, cioè come la causa determinante e
non determinata dei propri effetti, ovverosia come libera origine delle
azioni. Ora, mentre (a) è conoscibile, (b) è soltanto pensabile, in quan­
to non contraddittorio, ma non è affatto conoscibile34. Ora, Kant fa no­
tare che se noi potessimo considerare l’anima solo e soltanto come (a),
non vi sarebbe alcuno spazio per la libertà e pertanto la morale non po­
trebbe presupporre alcuna libera causalità nelle azioni, e quindi alcuna
responsabilità, colpabilità ecc. Invece, il solo fatto di poter pensare l’a­
nima come (b) permette alla morale di assumere la libertà come pro­
prio presupposto, infatti per quanto riguarda la morale non c’è bisogno

33 Nello Scolio che spiega la Legge fondamentale della ragion pura pratica, si leg­
ge: «La coscienza di questa legge fondamentale si può chiamare un fatto della ragione
(ein Factum der Vernunft), non perché si possa dedurre per ragionamento da dati prece­
denti della ragione, per es., dalla coscienza della libertà (poiché questa coscienza non ci
è data prima), ma perché essa ci s’impone per se stessa come proposizione sintetica a
priori» (I. KANT, Critica della ragion pratica, a cura di F. CAPRA - S. LANDUCCI, Laterza,
Roma-Bari 1997, 67 [AA V: 31]). Ciò significa che tale legge si dà (è un fatto) in quanto
è prodotta (è fatta), infatti essa è propriamente un’azione della ragione, nella quale la ra­
gione prende atto di se stessa; cf. M. IVALDO, Ragione pratica. Kant, Reinhold, Fichte,
Edizioni ETS, Pisa 2012, 92-107.
34 Nella Critica della ragion pratica si dice chiaramente che la legge morale è co­
noscibile, altrimenti sarebbe qualcosa d’innominabile e agirebbe in noi come una sorta
d’impulso o istinto, e tuttavia non è una conoscenza empirica. Kant precisa ulteriormen­
te che non si tratta della stessa conoscenza del soprasensibile vietata dalla Critica della
ragion pura e considerata meramente chimerica, altrimenti le due Critiche sarebbero in
contraddizione tra di loro. La differenza sta in ciò: mentre la - inammissibile - pretesa
della conoscenza speculativa soprasensibile riguarda enti (anima, mondo, Dio), la - le­
gittima - conoscenza pratica non empirica riguarda norme (la legge morale).
Critica e sistema in Kant 297

«se non del fatto che la libertà non contraddica se stessa, e dunque pos­
sa essere per lo meno pensata senza che sia necessario esaminarla più a
fondo, e che in tal modo essa non ponga alcun ostacolo al meccanismo
naturale di una medesima azione» (B xxix). Sotto l’aspetto fenomenico,
l’azione resta determinata, sotto l’aspetto noumenico la stessa azione
può essere considerata libera. Questi due ambiti sono e rimangono in­
dipendenti o, meglio, ciascuno dei due «mantiene il suo posto», senza
alcuna possibilità d’invadere l’altro ambito.
In tutto ciò, Kant lascia intendere che la cifra essenziale su cui
regge e si costruisce il suo sistema filosofico è la separazione insor­
montabile tra ambito fenomenico e ambito noumenico. Questa sepa­
razione verrà ribadita, con estrema chiarezza, nellTntroduzione alla
Critica del giudizio, in un passo divenuto, giustamente, assai celebre, e
che - nonostante la sua lunghezza - merita di essere citato per intero:
L’intelletto è legislativo a priori per la natura come oggetto dei sensi, in
vista di una sua conoscenza teoretica in un’esperienza possibile. La ragione è
legislativa a priori per la libertà e per la sua propria causalità, in quanto sopra-
sensibile nel soggetto, in vista di una conoscenza pratica incondizionata. Il do­
minio del concetto della natura, sotto la prima legislazione, e quello del con­
cetto della libertà, sotto la seconda, sono del tutto separati, a dispetto di ogni
influsso reciproco che essi di per sé potrebbero avere l’uno sull’altro (ciascuno
secondo le proprie leggi fondamentali), dal grande abisso che divide il sopra-
sensibile dai fenomeni. Il concetto della libertà non determina nulla riguardo
alla conoscenza teoretica della natura; allo stesso modo il concetto della natura
non determina nulla riguardo alle leggi pratiche della libertà: e in questo senso
non è possibile gettare un ponte da un dominio all’altro35.

Con ciò, Kant non dice che la natura e la libertà non hanno alcu­
na relazione tra loro. Se così fosse, gli effetti posti dalla libertà, cioè le
azioni volontarie, non accadrebbero nella natura; viceversa, gli eventi
naturali non potrebbero provocare alcuna reazione da parte della li­
bertà. E pertanto, l’uomo sarebbe un essere schizofrenico, con un
aspetto morale e uno conoscitivo che si ignorano del tutto. Kant, al
contrario, è convinto che l’uomo è uno, ed è allo stesso tempo immer­
so nella natura e dotato di libertà36. Il punto è un altro. L’intento del
filosofo è affermare che all’intelletto non spetta minimamente determi­

35 I. K a n t , Critica del giudizio, a cura di M. MARASSI, Bompiani, Milano 2004,


63 (Aa Vv: 195).
36 Questo concetto è ben messo in luce da F. MENEGONI, La Critica del Giudi­
zio di Kant. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 20082, 23-35.
298 Sistemi filosofici moderni

nare l’ambito morale, e che la libertà non ha alcuna facoltà di determi­


nare le leggi della natura. Ad esempio, la mia libertà non può in alcun
modo non far sì che tutto ciò che accade abbia una causa; parimenti,
constatare che una certa azione mi rende gradito agli occhi dei miei
concittadini non la rende più o meno morale.
Questa separazione sembra rappresentare, a un primo sguardo,
soltanto una perdita, ma in realtà essa reca un grande vantaggio. E
questa l’idea che Kant ribadisce e difende nella Prefazione alla seconda
edizione della Critica, e che giunge a sintetizzare con una formula di
notevole effetto, ma che non sempre è stata intesa in modo del tutto
corretto: «Ho dovuto dunque mettere da parte il s a p e r e , per fare
posto alla f e d e (Ich mufite also das Wi s s e n aufheben, um zum
G l a u b e n Platz zu bekommen)» (B xxx). La prima difficoltà nell’in-
tendere questa affermazione di Kant è il senso esatto da attribuire al
verbo aufheben. Letteralmente aufheben significa «levare su, solleva­
re», il che può avvenire sia nell’intento di raccogliere e conservare (es.
quando sollevo un guanto che mi è caduto in terra), che in quello di
togliere via ed escludere (es. quando levo una mela marcia da un cesto
di mele sane). Ora, per chiarire in quale di questi due sensi Kant in­
tenda l’atto di aufheben, è indispensabile capire a quale sapere egli si
riferisce. In base a tutto quanto detto finora, è evidente che qui con sa­
pere egli non intende affatto l’indagine scientifica della natura e ancor
meno la conoscenza della realtà in generale, bensì quel sapere dogma­
tico consistente nella pretesa trascendente della metafisica di conosce­
re oggetti soprasensibili. Egli aggiunge immediatamente: «è il dogma­
tismo della metafisica, e cioè il pregiudizio che in essa si possa proce­
dere senza una critica della ragion pura, la vera mancanza di quella fe­
de che contrasta con la moralità e che resta sempre assai dogmatica».
Kant dichiara dunque di aver «messo da parte» e cioè confinato entro
i suoi limiti il sapere dogmatico trascendente, smascherandone e mor­
tificandone le pretese illegittime, in modo tale da liberare quello spa­
zio che spetta alla fede. Ma di quale fede sta parlando? Non certamen­
te di quella propriamente religiosa, bensì di quella «fede razionale»
che - secondo la Critica della ragion pratica - chiede di ammettere
l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio, pena l’impossibilità di
soddisfare l’esigenza morale della ragione37. Se infatti l’anima non fosse

37 Con la sua fede moral-razionale Kant si oppone sia alla fede speculativo-dog-
matica, che pretende di trascendere i limiti dell’esperienza, sia alla concezione irraziona­
listica della fede, in quegli anni avanzata da F.H. JACOBI; cf. FÒRSTER, Die Vorreden, cit.,
52-53; KUEHN, Kant, cit., 305-311 (trad. it., cit., 448-456).
Critica e sistema in Kant 299

immortale e Dio non esistesse, non si darebbero le condizioni affinché


il sommo bene possa effettivamente realizzarsi38.
Le grandi questioni della metafisica, già obiettivo delle Medita­
zioni di Descartes, ovvero Dio e l’immortalità dell’anima, per Kant
non riguardano più la nostra conoscenza, bensì - diremmo oggi - il
senso, ragionevole, della nostra esistenza. In effetti, viene da chiedersi:
tutte le sottili e complesse dimostrazioni dell’immortalità dell’anima o
dell’esistenza di Dio elaborate dalla filosofia peripatetico-scolastica
«sono forse dimostrazioni che, una volta uscite dalle scuole, siano mai
potute arrivare fino al pubblico, e abbiano mai potuto esercitare il mi­
nimo influsso sulle sue convinzioni?» (B xxxii). No, di certo. E allora
Kant replica che a muovere le coscienze è stata semmai:
la disposizione, riscontrata da ogni uomo nella sua natura, a non potersi
mai accontentare di ciò che è temporale (in quanto quest’ultimo è inadeguato
alla predisposizione verso il suo intero destino), a dover produrre di per sé la
speranza di una v i t a f u t u r a ; [...] è stato solo l’ordine magnifico, la bellez­
za e la previdenza che traspaiono in ogni dove nella natura, a dover produrre
di per sé la fede in un saggio a u t o r e d e l m on d o (B xxxii-xxxiii).

E tuttavia, se il sapere dogmatico non molla la sua presa e non


cessa di pretendere che le sue risposte siano quelle valide, le disposi­
zioni insite in ciascuna persona dotata di buon senso, resteranno mor­
tificate. Allora, affinché l’umanità esca dal suo stato di minorità e di­
venti veramente adulta, si rende indispensabile restringere le pretese
del sapere dogmatico, per liberare il coraggio di sapere39. Sapere aude!

38 Di tutto ciò Kant tratta nella seconda Critica, e particolarmente nella Dia­
lettica della ragion pura pratica, in diretta simmetria con la Dialettica trascendentale
della prima Critica. La piena realizzazione di sé è identificata da Kant nel «sommo be­
ne», vedi la sez. II del Canone della ragion pura (A 804/B 832 ss) e il cap. II della Dia­
lettica della ragion pura pratica (AA V: 110 ss), cf. F.C. BEISER, Moral faith and thè hi-
ghest good, in GUYER, (ed.), The Cambridge Companion to Kant and Modem Philo­
sophy, cit., 588-629.
39 Nel 1784, in risposta alla domanda Cos’è l’illuminismo, Kant aveva risposto:
« l’uscita dell’uojno dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è
l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se
stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d ’intelligenza, ma
dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere
guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligen­
za!» (I. K a n t, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, in Id., Scritti politici e di
filosofia della storia e del diritto, a cura di G. SOLARI - N. B obbio - L. FlRPO - V.
M ath ieu , Utet, Torino 19652, 141 [AA V ili: 35]).
300 Sistemi filosofici moderni

4. La futura realizzazione del sistema


Nella parte finale della Prefazione, Kant avanza una tesi che può
lasciare stupiti i lettori che hanno avuto la pazienza di seguirlo sin lì: il
compimento del cammino sicuro della scienza avverrà quando verrà
applicato a essa con rigore il «procedimento dogmatico». La parados­
salità di questa tesi, rispetto a tutto quanto è stato detto finora, si risol­
ve tenendo presente la distinzione tra procedimento dogmatico, da un
lato, e dogmatismo, dall’altro. Mentre il primo rappresenta per la
scienza una necessità, dal momento che essa «deve essere sempre dog­
matica, e cioè rigorosamente dimostrativa sulla base di principi sicuri a
priori» (B xxxv); al contrario il secondo non è altro che la pretesa di
avanzare basandosi su «principi che la ragione usa da molto tempo,
senza che ci si chieda in che modo o con che diritto essa vi sia giunta».
Tutta la differenza tra procedimento dogmatico e dogmatismo
consiste nel fatto che il primo non osa inoltrarsi nel cammino della
scienza senza aver compiuto anzitutto una critica della capacità stessa
della ragione di fare scienza; il secondo invece pretende di procedere
facendo a meno di una tale critica. Diviene così più chiaro che il vero
intento di Kant è quello di elaborare una filosofia dogmatica, piena­
mente e rigorosamente dogmatica, ovverosia di realizzare «una metafi­
sica ben fondata come scienza» (B xxxvi); il che rende indispensabile
premettere una critica, la quale indichi almeno i confini legittimi del
procedimento scientifico. Così dicendo, Kant vuole lanciare un preci­
so messaggio ai suoi primi lettori: voi pensate che la mia filosofia si ri­
duca alla critica ed è per questo che ritenete che io faccia precipitare
tutto nello scetticismo, invece la mia critica è una propedeutica, ossia
l’unica base possibile per una vera filosofia dogmatica.
Con ciò Kant viene a distinguere due parti o momenti essenziali
della sua filosofia: la critica e il sistema40. La critica rappresenta l’inda­
gine preliminare sulle condizioni di possibilità in generale dell’uso del­
la ragione; il sistema rappresenta «l’esecuzione del piano prescritto
dalla critica - cioè [il] futuro sistema della metafisica». Per meglio illu­
strare queste due parti, egli evoca - a diverso titolo - due figure esem­
plari della storia della filosofia moderna: per il sistema dogmatico no­
mina esplicitamente Wolff, colui che più di ogni altro ha incarnato, a
suo giudizio, quello «spirito di fondatezza» senza il quale alcun siste­
ma scientifico rigoroso è possibile; per la critica, invece, sembra evocare

40 Su propedeutica e sistema, cf. K a nt , Theoretische Philosophie, cit., Ili, 326-334.


Critica e sistema in Kant 301

implicitamente Bacon. Infatti, ciò che è mancato a Wolff, facendo sì


che la sua filosofia cadesse nel dogmatismo, è stato il fatto che costui
ha mancato di «prepararsi prima il terreno mediante una critica del-
Porgano (.Kritik des Organs), cioè della stessa ragion pura». Così di­
cendo, Kant lascia intendere che la Critica della ragion pura sarà in
grado di darci finalmente quel Novum organum auspicato sin dagli al­
bori della modernità, nella misura in cui restituirà al nostro strumento
razionale le sue reali e legittime prerogative41, rendendolo anche capa­
ce di realizzare finalmente il vero sistema dogmatico della scienza.
Abbiamo appena letto che, secondo Kant, il sistema della scien­
za è l’espressione o realizzazione (.Ausfuhrung;) di una nomenclatura
stabilita dalla critica della ragione. Ciò significa che la struttura inter­
na, ovvero Particolazione (Gliederbau) della ragione predispone gli svi­
luppi sistematici di essa. Qualche pagina prima, Fautore aveva precisa­
to - evocando e superando Descartes - che la sua Critica', «è un tratta­
to del metodo, non un sistema della scienza stessa, e tuttavia ne traccia
il profilo completo, sia riguardo ai suoi confini che riguardo alla tota­
lità della sua articolazione interna» (B xxii). Perciò, avendo visto che
tale articolazione si suddivide fondamentalmente in una legislazione
dell’intelletto per la natura e in una legislazione della ragione per la li­
bertà, si capisce perché il sistema della scienza, secondo Kant, preveda
una metafisica della natura e una metafisica dei costumi. Ora, in en­
trambe le strutture, quella interna alla ragione stessa e quella che la ri­
specchia e realizza come sistema dogmatico, gli elementi che le com­
pongono sono come gli organi di un corpo, «vale a dire il tutto è per la
singola parte, e ogni singola parte è per il tutto» (B xxxvii). Di conse­
guenza non è possibile sottrarre o alterare una sola parte senza di­
struggere o alterare il tutto. Detto in altri termini, il sistema filosofico
kantiano è inalterabile, giacché espressione della natura e struttura
della ragione stessa.
All’articolazione sistematica della ragione è dedicato il terzo ca­
pitolo della Dottrina trascendentale del metodo, penultimo dell’intera
opera, intitolato Architettonica della ragion pura42. All’inizio di tale ca­
pitolo, Fautore - come suo solito - fornisce alcune definizioni basilari:

41 Non è un caso che nella seconda edizione della Critica della ragion pura, Kant
abbia aggiunto all’inizio dell’opera un motto (B ii), che è tratto dalla chiusa della Prefa­
zione alla Instaurano magna di Francis Bacon, ove l’opera di ricostruzione, intesa dall’u­
no e dall’altro, non deve essere compresa come qualcosa che sopravanza le capacità
umane, bensì le riconduce nel loro legittimo alveo.
42 Questo capitolo già presente in A, rimarrà pressoché immutato in B.
302 Sistemi filosofici moderm

anzitutto apprendiamo che per architettonica egli intende «l’arte dei si­
stemi» (A 832/B 860), e che per sistema intende: «l’unità di molteplici
conoscenze sotto un’idea». Ebbene, secondo Kant, tale idea è «il con­
cetto razionale della forma di un tutto, in quanto mediante tale con­
cetto viene determinata a priori l’estensione del molteplice, come pure
la collocazione delle parti tra loro», perciò il concetto della forma co­
stituisce anche il fine del tutto, ovverosia ciò a cui le diverse parti sono
ordinate. Come egli stesso immediatamente precisa, aggiungendo tra
parentesi alcuni termini latini di matrice biologistica:
L’intero è quindi articolato (articulatio) e non ammucchiato (coacervatici)'.
esso può certo crescere internamente (per intus susceptionem), ma non esterna­
mente (per appositionem), come accade in un corpo animale, la cui crescita non
aggiunge alcun membro, bensì, senz’alcun mutamento delle proporzioni, rende
ogni membro più forte e più capace in vista dei propri fini (A 833/B 861 )43.

Ciò significa che il sistema della filosofia, una volta stabilito in


base al suo concetto formale, non ammette un altro sistema accanto a
sé, ma solo uno sviluppo delle parti già stabilite al proprio interno.
Al contempo, Kant tiene a precisare che sebbene «L’unità della
ragione è l’unità del sistema», tale unità sistematica non può essere
estesa alla conoscenza degli oggetti, ma serve «come semplice principio
regolativo» (A 680/B 708). Infatti, «La nostra ragione (soggettivamen­
te) è essa stessa un sistema» (A 738/B 766), ma oggettivamente, cioè nel
suo uso puro in base a concetti, «è soltanto un sistema d’indagine (Sy­
stem der Nachforschung), secondo principi dell’unità a cui soltanto l’e -
s p e r i e n z a può fornire la materia». Ecco perché egli rimane convin­
to che si può imparare la storia della filosofia, ma la filosofia come scien­
za mai, «si può tutt’al più imparare a f i l o s o f a r e » (A 837/B 865)44.

43 Più sotto Kant scrive che l’idea che sta alla base del concetto del tutto «si tro­
va nella ragione come un germe (Keirn), nel quale stanno nascoste - ancora allo stato
embrionale e appena riconoscibili ad una osservazione microscopica - tutte le parti» (A
834/B 862); su questa concezione organicistica dell’idea di sistema nellArch{tettonica in­
siste O. H ò FFE, Architektonik und Geschichte der reinen Vernunft, in MOHR-WlLLA-
SCHEK (edd.), Immanuel Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., 615-636.
44 R.-P. Horstmann sottolinea come l’idea kantiana di sistema sia di per sé pro­
blematica: «[Kant] approves of thè representation of rational unity as a rule only in thè
status of a regulative idea (cf. A671/B699), which is indeed indispensable for hypotheti-
cal use through reason, but which may not be misinterpreted as a constitutive principle
of reason: “Systematic unity (as mere idea)” - rational unity, therefore - is “only a pro-
jected unity, which one must regard not as given in itself, but only as a problem” (cf.
A647/B675)» (The unity of reason and thè diversity of life. The idea of a system in Kant
Critica e sistema in Kant 303

Sia dall 'Architettonica che dalla Prefazione B emerge, dunque, il


fatto che Kant, da un lato, pretende che l’indagine critica della ragione
sia compiuta e di conseguenza l’articolazione embrionale del sistema
stabilita in modo definitivo45; dall’altro lato, il sistema è, proprio per
tale motivo, qualcosa di futuro. Alla fine della Prefazione, dichiara di
non voler più lasciarsi trascinare nelle controversie e propone, invece,
di prendere in considerazione i suggerimenti di alleati e avversari «per
utilizzarli nella futura realizzazione del sistema {kunftigen Ausfuhrung
des Systems), in conformità alla presente propedeutica» (B xliii) e pre­
cisa che, col poco tempo che gli rimane, intende «fornire sia la metafi­
sica della natura che la metafisica dei costumi, intese come una confer­
ma della giustezza sia della critica della ragione speculativa, che di
quella della ragione pratica».
Alcuni aspetti meritano di essere sottolineati in questa afferma­
zione. Un primo elemento notevole è il fatto che la metafisica della na­
tura sia qui dichiarata come un’impresa ancora da realizzare, il che fa
capire che i Primi principi metafisici della scienza della natura, pubbli­
cati l’anno prima, non sono - come invece spesso si ritiene - la metafi­
sica della natura di Kant46. Per quanto riguarda poi la Metafisica dei
costumi, dopo essere stata nelle intenzioni del suo autore per quasi
trent’anni, essa uscirà solo nel 1797, in una forma che è stata giudicata
da molti incompiuta e alquanto deludente, e che lascia trasparire, da
parte di un Kant oramai al tramonto, più l’esigenza editoriale di dare
una forma compiuta al corpus delle sue opere, che non un reale con­
tributo al sistema47.
Altro elemento notevole è la distinzione tra la «critica della ra­
gione speculativa» e la critica della «ragione pratica». Questa distin­
zione era assente nella prima edizione della Critica della ragion pura e
diviene abituale solo dal 1787, con la Prefazione B e soprattutto con la
Critica della ragion pratica48. N dì’Architettonica, Kant pensava ancora

and in nineteenth-century philosophy, in A.W. WOOD (ed.), The Cambridge History of


Philosophy in thè Nineteenth Century (1790-1870), Cambridge University Press, Cam-
bridge-New York 2012, 65, n. 13).
45 «Una tale immutabilità (Unverànderlichkeit) - verrà conservata da questo si­
stema anche per il futuro» (B xxxviii).
46 Cf. l’interessantissimo cap. 4 di Guyer, Kant, cit., 155-174.
47 «la Metafisica dei costumi delude. Non mostra il vigore rivoluzionario e la no­
vità delle opere precedenti. Dà proprio l’impressione di essere quella mera compilazione
di appunti che è» (K ueh n, Kant, cit., 396 [trad. it., cit., 573]).
48 Nella Fondazione della metafisica dei costumi, Kant parla ancora di un «uso
speculativo» e di un «uso pratico» da parte dell’unica ragione, cf. AA IV: 455-456. 463.
304 Sistemi filosofici moderni

a un’unica ragione applicata a due differenti oggetti: «la legislazione


della ragione umana (la filosofia) ha due oggetti, la natura e la libertà,
e dunque contiene tanto la legge di natura quanto la legge morale, da
principio (,anfangs) in due sistemi filosofici separati, ma da ultimo {zu-
letzt) in un sistema filosofico unico» (A 840/B 868). Il sistema della
natura e quello dei costumi avrebbero così costituito due trattazioni
separate e tuttavia, ultimamente, unite in quanto scaturite dall’artico­
lazione interna di una ragione unica. Pertanto, un’unica critica o pro­
pedeutica sarebbe bastata per entrambi i sistemi.
Con l’andare del tempo, però, Kant si rende sempre più conto
che quanto stabilito nella prima Critica circa la legge morale era del
tutto insufficiente e che per passare dalla mera possibilità alla realtà
del principio della moralità c’è bisogno di un’ulteriore e distinta inda­
gine critica. Qualche anno più tardi, poi, egli scriverà una terza Critica,
nella quale dichiarerà esplicitamente: «Con ciò concludo dunque tutto
il mio compito critico»49. Se e in che modo la Critica del Giudizio ven­
ga a completare il suo sistema della natura e della libertà, è una que­
stione molto discussa50. Meno discutibile è il fatto che - come abbia­
mo visto - Kant, invece di dedicare il meglio delle sue energie alla rea­
lizzazione del sistema scientifico-dogmatico, ossia alla metafisica della
natura e alla metafisica dei costumi, avvertirà piuttosto il bisogno di
ampliare, approfondire e completare l’impianto critico.
Così facendo egli finirà per riorientare - suo malgrado - lo
sguardo, l’indirizzo dell’indagine filosofica: da scienza della natura e
dei costumi a riflessione trascendentale sulle condizioni di possibilità
del sapere scientifico in quanto tale. Se, in un certo senso, possiamo
considerare la critica come quella parte dell’indagine filosofica che si
interroga sulla legittimità stessa di porre domande e di accedere alle
possibili risposte, mentre il sistema la parte in cui le risposte vengono
di conseguenza elaborate e sviluppate, sembra di poter concludere che
il cammino filosofico kantiano conduce verso la scoperta sempre più
profonda e radicale di come e perché la ragione diventa questione a se
stessa.

49 K a n t , Critica del giudizio, cit., 9 (AA V: 170).


50 Cf. P. GUYER, Kant’s System of Nature and Freedom. Selected Essays, Claren­
don Press, Oxford 2005.
Critica e sistema in Kant 305

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CONCLUSIONE

Nell’Introduzione era stata formulata un’ipotesi, ovvero che nel­


l’epoca moderna la filosofia venga ad assumere la forma del sistema. In
base al tentativo, compiuto nei capitoli precedenti, di rileggere come
sistemi alcune delle opere eminenti del pensiero moderno, mi sembra
di poter affermare che tale ipotesi sia stata adeguatamente verificata.
L’analisi delle Meditazioni ha mostrato che l’intento di Descartes
non è tanto quello di costruire una struttura concettuale, quanto piut­
tosto quello di coinvolgere il lettore, in prima persona, lungo un pro­
cesso riflessivo. Tale processo si sviluppa lungo la linea del tempo, se­
condo sei momenti successivi. Anzitutto, il meditante è condotto a ri­
flettere sull’orizzonte che a lui è più immediato, quello del senso co­
mune e del sapere acquisito. L’esercizio del dubbio consente di so­
spendere questo orizzonte, mostrandone tutta l’inconsistenza e la rela­
tività. Il dubbio stesso, condotto alle sue estreme conseguenze, si rove­
scia poi nel suo opposto, cioè in una verità indubitabile: io sono. La ri­
flessione ulteriore dell’io su di sé disvela il senso del suo essere, cioè la
finitezza. Questa, però, si rivela tale solo in quanto è già da sempre
compresa in relazione a ciò che non è finito, cioè Dio in quanto infini­
to. A questo punto, il processo non può che rovesciarsi, ripercorrendo
le tappe precedenti a ritroso, ma orientandosi finalmente grazie al
punto fisso di un Dio garante di veracità.
L’intero processo risulta, così, perfettamente conchiuso, dal mo­
mento che riconquista il proprio punto di partenza, comprendendolo
però in un modo solidamente fondato. Inoltre, questo processo può
pretendere di abbracciare in qualche modo ogni aspetto, in quanto i
suoi estremi sono il dubbio, cifra massima della finitezza, e Dio, infini­
to. Nessun momento, poi, risulta adeguatamente comprensibile qualo­
ra sia staccato e isolato dal processo in cui si genera. Tutto ciò, mi sem­
bra sufficientemente indicare che l’ordine delle ragioni sviluppato da
Descartes nelle Meditazioni, è ben più che una successione lineare di
argomenti volta a indagare scientificamente determinati soggetti, quali
l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima. Esso è invece un vero e
308 Sistemi filosofici moderni

proprio esercizio spirituale, mediante il quale la filosofia, intesa come


ricerca della verità, si costituisce come scienza.
L'Etica di Spinoza conduce spontaneamente il lettore a conside­
rare che essa sia un sistema di tipo top-down, in cui da un vertice unico
viene dedotto tutto ciò che da esso può derivare, secondo un rigoroso
ordine geometrico. Ciò sembrerebbe più che sufficiente a giustificare
la comprensione di quell’opera come un sistema. Eppure, una più at­
tenta analisi rivela che sin dal vertice dalla struttura argomentativa è
presente il suo estremo opposto. Infatti, le prime parole della prima
definizione sono: «Per causa di sé intendo». Qui l’assoluto, che tutto
comprende, è inteso da un atto il cui soggetto è alla prima persona del
presente indicativo. Sono dunque io, intelletto finito ossia modo finito
dell’infinita sostanza, che intendo ciò che è di per sé causa e ragione di
sé. Sin dalle prime parole appare dunque che la relazione tra infinito e
finito è la vera cifra sistemica dell’opera. Il titolo Etica non è né fortui­
to né da comprendere come se quel termine significhi in realtà qualco­
s’altro, rispetto a ciò che comunemente s’intende con esso; perché la
domanda, a cui l’opera nel suo complesso mira a rispondere, è una
soltanto: io come posso essere felice? La risposta di Spinoza giunge so­
lo alla fine di tutta l’opera ed è allo stesso tempo di una semplicità e di
una complessità disarmante: amando. Solo che l’amore che il filosofo
intende è «L’amore intellettuale della mente verso Dio», il quale «è lo
stesso amore con cui Dio ama se stesso» (E5p36).
Il sistema dell'Etica risponde dunque a una logica complessa, in
quanto è allo stesso tempo lineare e circolare: mentre ì'ordo philo-
sophandi inizia dalla natura di Dio e da questa fa discendere necessa­
riamente tutte le cose, fino a giungere all’uomo; contemporaneamente,
questo stesso processo conquista una dinamica ascensiva, dall’immagi­
nazione alla ragione, all’intelletto. Come in un canone musicale retro­
grado, Spinoza sovrappone e rovescia dall’inizio alla fine l’ordine con
cui tutte le cose seguono da Dio in infiniti modi, con quel modo finito
di riflettersi di Dio in se stesso che è l’umano intelletto.
L’analisi del Saggio di Locke ha rivelato che tutta l’impresa mira
a indagare l’origine, la certezza e l’estensione della conoscenza umana
nel suo complesso e in particolar modo di quel tipo di sapere che è l’o­
pinione, la quale non si basa su evidenze certe ma solo presunte. Dal
momento che la conoscenza è oggetto del IV e ultimo Libro del Sag­
gio, ciò rende evidente che la dinamica dell’opera è costruttivamente
progressiva. All’inizio di tutto, Locke cerca di sgomberare il campo
d’indagine dal falso presupposto che esistano delle nozioni innate, da
Conclusione 309

cui la conoscenza verrebbe universalmente predeterminata. Ciò gli


permette di assumere l’ipotesi contraria, ovvero che la conoscenza sia
prodotta sulla base dei materiali che la mente riceve dall’esperienza.
Locke procede, di conseguenza, a un’estesa e meticolosa tassonomia
dei possibili materiali della conoscenza, detti idee, dai più elementari
ai più complessi. Infine, dopo un excursus sui rischi legati a un uso
scorretto del linguaggio, egli giunge ad analizzare la nostra conoscenza
«la quale consiste tutta in proposizioni». La natura proposizionale del­
la conoscenza, secondo la concezione lockeana, consiste nell’accordo o
disaccordo di idee tra di loro, il che restringe di molto la sua portata,
riducendola alla certezza attingibile solo dalle scienze pure o dalla mo­
rale. Questo restringimento, però, sembra essere in funzione di uno
scopo ben preciso, sotteso sin dall’inizio dell’opera: eliminare alla radi­
ce ogni possibile dogmatismo in quegli ambiti del sapere che non go­
dono di certezza.
La modestia epistemica che ispira la filosofia lockeana mal si sa­
rebbe sposata con un ordine geometrico delle ragioni. Eppure, quel
historicalplain method prescelto dall’autore non è privo di un filo con­
duttore. Anzitutto Locke riunisce i diversi oggetti dell’indagine filoso­
fica all’interno di un unico ambito di studio: l’intelletto umano. Que­
sta unificazione sembra purtroppo essere tanto onnicomprensiva
quanto disarticolata. Eppure, il Saggio appare nel suo complesso come
un grande romanzo di formazione, destinato a educare la nostra intel­
ligenza. Ogni tappa dell’itinerario non solo pone le premesse di quella
successiva, ma trova anche in essa il suo compimento: dapprima ci im­
pone di fare tabula rasa della pretesa ingenua di essere di per sé già in
possesso dei principi e contenuti basilari della conoscenza; poi ci offre
di ripartire daccapo, esaminando uno per uno i singoli elementi dai
quali origina la nostra conoscenza, a partire dai più umili e semplici,
per valutarne attentamente l’estensione e la consistenza; infine, stu­
diando tali elementi all’interno della struttura proposizionale della co­
noscenza e dell’opinione, ci conduce al traguardo di riconoscere one­
stamente quali siano gli ambiti in cui possiamo ambire ad avere certez­
ze e quali, invece, sono quelli in cui dobbiamo ammettere di possedere
nulla più che credenze, da giustificare mediante un civile confronto
con quelle degli altri.
Il Trattato di Hume raramente è stato letto per intero. Da quan­
do poi l’autore decise di riproporne i contenuti principali in singole
opere, l’impressione che quel testo monumentale fosse solo un azzar­
do di gioventù si fece sempre più forte. Nonostante il suo stile prolisso
310 Sistemi filosofici moderni

e intricato, però quell’opera ha qualcosa di unico. E questo qualcosa


di unico consiste proprio nella sua struttura sistemica. Il Trattato tenta
di esaminare in modo integrale un unico oggetto, la natura umana, ar­
ticolando l’indagine in tre libri, rispettivamente dedicati all’intelligen­
za, alla sfera passionale e alla morale. Ciò che funge da fattore unifi­
cante dell’indagine è la natura percettiva della mente, affermata sin
dalle prime parole con cui esordisce il testo: «Tutte le percezioni della
mente umana si risolvono in due classi distinte, che chiamerò IMPRES­
SIONI e ID EE». Ciò che nella filosofia peripatetica era trattato separata-
mente, in quanto costituiva oggetto di diverse discipline scientifiche,
ciascuna con i propri principi indipendenti e inderivabili da quelli del­
le altre, è ora racchiuso all’interno di una trattazione unica, che si pro­
pone di studiare in modo scientifico la vita della mente, ovvero scopri­
re le strutture e leggi che regolano il suo dinamismo percettivo. Me­
diante ciò, Hume dichiara di voler proporre un «sistema completo
delle scienze»: la logica, che indaga la natura delle idee, nonché i loro
principi e operazioni; la psicologia che ha per oggetto i sentimenti; infi­
ne, morale e politica, che studiano gli uomini in quanto «uniti in so­
cietà e in reciproca dipendenza tra loro».
La cifra sistemica del Trattato si rende dunque evidente nella
pretesa d’indagare l’intera natura umana nella sua multiformità socio-
bio-cognitiva, mediante il fattore unificante del dinamismo percettivo.
La natura dell’oggetto determina anche la forma dell’indagine, infatti
lo studio della vita della mente funziona esso stesso come un organi­
smo, all’interno del quale ciascuna parte (logica, psicologia, morale) è
interconnessa con le altre. L’anatomia filosofica della natura umana,
compiuta dal Trattato, rappresenta un organismo che non pretende
certo di possedere la stessa bellezza e vivacità dell’originale, ma ambi­
sce comunque a descriverlo cautamente, nei suoi fallimenti e nei suoi
successi.
Abbiamo da ultimo intravisto che con Kant giunge la piena con­
sapevolezza dell’idea di sistema. Questa è sviluppata su un duplice li­
vello: come unità della ragione nelle sue articolazioni interne; come si­
stema dogmatico da compiere in una metafisica della natura e in una
metafisica dei costumi. Tuttavia, nella breve analisi che abbiamo abboz­
zato, emerge lo statuto duplicemente problematico del sistema in Kant.
Dal lato della ragione, il sistema, che dovrebbe essere inalterabile e svi­
luppabile solo dall’interno, finisce invece per aprirsi a due distinte in­
dagini critiche, la cui unità è assai complessa e dibattuta. Dal punto di
vista della realizzazione dogmatica del sistema, il filosofo non giungerà
Conclusione 311

mai di fatto a compierla. Kant consegnava così ai posteri una notevole


sfida: pensare e realizzare fino in fondo la filosofia come sistema.
Fichte, Hegel e altri, con loro, raccoglieranno la sfida e tenteran­
no di portarla a compimento. Kierkegaard, Nietzsche ed epigoni si ar­
meranno per dimostrare che tale sfida è in sé irricevibile e fuorviante.
Oggi la filosofia, sebbene per lo più figlia di questi pensatori, tende a
non schierarsi né prò né contro. Sembra aver semplicemente fatto ca­
dere la sfida. Ma possiamo seriamente permetterci di ignorarla? I siste­
mi filosofici moderni, da cui la sfida era nata, stanno ancora lì a dirci
di no.
318 Sistemi filosofici moderni

Suàrez F., 9-11, 13,48,49 Vries S. de, 90, 92

Tannery P., 27 Weischedel W., 284


Taylor J., 231, 240,261, 267, 276 Wiggins D., 184, 237
Temistio, 8 Willaschek M., 285, 302
Tertulliano, 213 Wilson C , 50, 108
Thiel U., 175,190 Wilson M.D., 81
Tilliette X., 115 Winkler K.R, 157, 195,281
Timpler C., 11 Wittgenstein L., 37
Tipton I., 187 WolffC., 281, 300-301
TolandJ., 106 Wollaston W., 267-268
Tommaso d’Aquino, 8, 35,53, 68, 69, 103 Woltersdorff N., 212
Tonelli G., 281 Wood A.W., 11,303
Totaro P., 89, 91 Wright E., 166,
Traiger S., 240, 259, 264 Wright J.P., 177, 182, 193, 195, 209, 211-
Trettin K., 101, 237 212, 220, 226, 235, 243, 248, 250, 260,
Turco L., 268 262,264,268, 271,274,276
Tyrrell J., 151
Yaffe G., 179, 190-191, 194-195
Urbani Ulivi L., 12 Yolton J.W., 163, 169, 187, 204, 208
YovelY., 103, 110
Verbeek T., 51
Viano C.A., 288 Zabarella G., 8-9, 13
Vienne J.M., 169, 177 Zac S., 137
Viljanen V., 101 Zadro A., 198
Vloten J. van, 98 Zanatta M., 8, 102
Voss S., 82 Zenone di Elea, 240-241
INDICE

Introduzione
Sigle
Capitolo Primo
LE MEDITAZIONI DI DESCARTES
1. Liberare la mente
Obiezioni e risposte
2. Io sono
Obiezioni e risposte
3. Dio esiste
Obiezioni e risposte
4. Cosa devo evitare e cosa devo fare per raggiungere la
Obiezioni e risposte
5. Tutto ciò che è vero è qualcosa
Obiezioni e risposte
6. Immagino, sento, soffro
Obiezioni e risposte
Bibliografia
Capitolo Secondo
L’ETICA DI SPINOZA
1. Nozioni prime
2. Dio
3. La mente umana
4. Gli affetti o moti dell’animo
5. Schiavitù e libertà
6. L’eternità della mente
Bibliografia
Capitolo Terzo
IL SAGGIO DI LOCKE
1. Tabula rasa
2. Idee
320 Sistemi filosofici moderni

2.1. Origine delle idee 164


2.2. Tassonomia delle idee 171
2.3. Potere 176
2.4. Sostanza 184
2.5. Identità 189
3. Parole 195
4. Proposizioni 203
4.1. Conoscenza 204
4.2. Opinione 211
Bibliografia 215
Capitolo Quarto
IL TRATTATO DI HUME 219
1. Un sistema completo delle scienze 224
2. Logica 227
2.1. Elementi 227
2.2. Processi 231
2.3. Apparenze e realtà 239
2.4. Dimostrazioni e credenze 244
2.5. Giudizi e finzioni 249
3. Psicologia 254
3.1. L’io sociale 258
3.2. Passione e ragione 263
4. Morale 265
4.1. Ragione e senso morale 267
4.2. Carattere e giustizia 272
Bibliografia 276
Capitolo Quinto
CRITICA E SISTEMA IN KANT 279
1. Il cammino sicuro della scienza 285
2. Una totale rivoluzione 287
3. Mettere da parte il sapere,per far posto alla fede 293
4. La futura realizzazione delsistema 300
Bibliografia 305

Conclusione 307

Indice dei nomi 313

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