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La vita.
Nato a Stoccarda nel 1770, muore a Berlino nel 1831. Vive la transizione dal periodo
illuministico a una visione idealistica del suo pensiero. Studia al ginnasio di Stoccarda, i testi
classici, latino e greco; per la cultura tedesca dell’epoca era il massimo della formazione.
All’università studia filosofia e teologia, due discipline che andavano di pari passo. Proprio
nella città di Tubinga conosce Hörderlin e Schelling e si entusiasma per la Rivoluzione
Francese. Sarà deluso dagli sviluppi della Rivoluzione, in età adulta finirà per criticarla.
Quando Napoleone entrò a Jena, Hegel comunicò il suo entusiasmo in una lettera,
entusiasmo che venne ribadito in una lettera successiva, scritta quando il filosofo aderì allo
Stato prussiano. Nella seconda lettera Hegel paragona infatti la Rivoluzione Francese a “un
levarsi superbo del sole”.
Terminati gli studi risiede per alcuni anni a Berna, lavorando come precettore in case private.
Nel 1797, tornato in Germania, ottiene il posto di precettore privato a Francoforte.
In questo periodo scrive quattro opere di carattere teologico:
- Religione popolare e cristianesimo, 1792-1794;
- Vita di Gesù, 1795;
- La positività del Cristianesimo, 1795-96;
- Lo spirito del Cristianesimo e il suo destino, 1799-1800.
Prenderanno il nome di scritti teologici giovanili, resteranno inediti fino alla sua morte.
Nel 1800 scrive un primo abbozzo del suo sistema, che tuttavia rimane inedito. Si trasferisce
a Jena dopo la morte del padre, in seguito alla quale eredita una cospicua quantità di
denaro, che gli permette di dedicarsi alla filosofia completamente. A Jena pubblica il suo
primo scritto, Le differenze fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling; dello stesso
anno è la dissertazione per l’abilitazione alla libera docenza De orbitis planetarum.
A Jena ottiene la libera docenza (1801). In una lettera a Schiller, Goethe sottolinea la
goffaggine di Hegel nella conversazione, un difetto che appare anche nell’esposizione delle
sue lezioni universitarie.
La collaborazione e l’amicizia con Schelling finiscono con la Fenomenologia dello Spirito,
1807.
Gli Scritti.
Gli scritti giovanili di Hegel furono pubblicati solo nel XX secolo. Si tratta comunque di opere
di natura teologica.
La prima grande opera di Hegel è la Fenomenologia dello Spirito, del 1807, nella cui
prefazione il filosofo dichiara il proprio distacco dalla dottrina di Schelling. A Norimberga
pubblica Scienza della Logica, le cui due parti appaiono rispettivamente nel 1812 e 1816.
Nel 1817 pubblicò, a Heidelberg, l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, che è
la più compiuta formulazione del suo sistema. Nelle due successive edizioni, del ‘27 e del
‘30, Hegel aumenta notevolmente la mole dello scritto.
A Berlino pubblica poi quella che sarà, probabilmente, la sua opera più significativa,
Lineamenti di filosofia del diritto, del 1821.
Il giovane Hegel.
Nonostante gli scritti giovanili di Hegel siano stati pubblicati solo post-mortem, essi sono
molto importanti per comprendere la personalità e il percorso di formazione filosofica
dell’autore. Il tema di questi scritti è di stampo teologico, ma essi sono al contempo
strettamente legati alla politica. Infatti il filosofo tratta un tema molto vicino alla Rivoluzione
Francese: il tema della rigenerazione morale e religiosa dell’uomo, come fondamento della
rigenerazione politica. Hegel è infatti convinto che non sia possibile una rivoluzione nel
senso proprio del termine, se non è preceduta da una rivoluzione del cuore: una
rigenerazione della persona nella sua vita interiore e del popolo nella sua cultura.
Hegel aveva ricevuto un’educazione molto legata alla teologia del suo tempo, e in alcuni
passi dei suoi scritti emerge anche l’influenza ricevuta dalla sua educazione luterana. Egli si
era inoltre dedicato alla lettura del progetto di rivoluzione culturale e politica elaborata da
Rousseau nei suoi scritti. Inoltre, religione e politica in Germania avevano un legame molto
stretto: dopo la Riforma protestante, i principi tedeschi e le Chiese riformate costituivano un
insieme politico omogeneo. L’idea di fondo di questi scritti è che l’aspirazione del popolo alla
libertà e a una vita migliore debba diventare realtà attraverso una serie di progetti che
spazzino via il precedente impianto sociale, fondato sulla stabilità delle classi e la
supremazia del potere nobiliare. Perché questo accada, l’ansia di libertà del popolo deve
produrre un nuovo ordine giuridico esteriore, con nuove istituzioni sociali basate
sull’uguaglianza.
Nelle due opere Vita di Gesù e Positività del cristianesimo, Hegel enuncia alcuni temi chiave
del proprio pensiero successivo, nonché il passaggio da una prospettiva kantiana a una post
kantiana. Nella prima opera il filosofo sembra aderire all’idea di Kant della religione come
adesione “interiore” ai principi razionali della morale. Nella seconda la critica di Hegel a Kant
appare già evidente: la morale di Kant parla di una lotta continua fra dovere e inclinazione,
un pericoloso dualismo tra ragione e natura secondo il filosofo di Jena.
In La vita di Gesù, la vita del profeta è vista in prospettiva illuministica, non a caso l’analisi di
Hegel si ferma alla sua morte. In quest’opera emerge la filosofia kantiana, il cristianesimo
viene infatti interpretato secondo la morale kantiana: si vogliono mettere in evidenza aspetti
che Kant aveva preso dal cristianesimo (primo imperativo categorico, non è nient’altro che
“fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”). La religione cristiana è vista da Hegel come
religione piuttosto naturale, ma mette in evidenza fatto negativo: positivizzazione del
Cristianesimo, ovvero l'istituzionalizzazione storica di tale religione. Positivo in questo caso
deriva da positus, vuol dire che è posto. La positivizzazione della religione cristiana indica il
modo in cui il Cristianesimo si è posto nella storia. Crociate, corruzione, ecc.
Cristianesimo ha subito degenerazione. Hegel critica Chiesa come istituzione da una
prospettiva illuministica.
La Chiesa ha infatti smarrito il vero senso del messaggio di Gesù, che predicava il
superamento della vecchia legge esteriore, in favore di una legge basata sull’amore e sulla
fratellanza.
Esistono due versioni de “La positività del cristianesimo”, una del 1995 e una del 1996. Nella
prima stesura Hegel portava avanti ancora il discorso iniziato in Vita di Gesù. Nella seconda
redazione cambia prospettiva, inizia a vedere la positivizzazione della Chiesa come un
aspetto positivo, il fatto che la Chiesa si sia calata nella storia diventa un aspetto positivo.
Questo perché, nel momento in cui la Chiesa si cala nel mondo, diventa religione popolare:
diventa quindi quella religione calata nella società che era la religione greca.
Scritto fra il 1798 e il 1799, è probabilmente la più complessa fra le sue opere giovanili.
Attraverso una riflessione filosofica sulla Bibbia, Hegel ripercorre la storia del popolo ebraico
dal diluvio universale fino alla distruzione del tempio di Gerusalemme e alla successiva
diaspora. Sono pagine di estrema criticità di Hegel nei confronti del popolo ebraico. Il filosofo
nota come il racconto del diluvio universale denoti una profonda scissione fra il popolo
ebraico e la natura: sentendosi minacciati da essa, gli ebrei hanno reagito attraverso un forte
senso di fede nei confronti del loro Dio, seguito da un innaturale allontanamento da tutto ciò
che è invece parte integrante della vita umana. Riponendo la loro salvezza in un Dio
completamente trascendente, di cui si considerano il popolo eletto, si sono posti in inimicizia
con la natura e in ostilità con gli altri uomini. Hegel considera il popolo ebraico vittima di un
destino che esso stesso ha provocato. La scissione del popolo ebraico rispetto alla natura, a
popoli considerati nemici e a un Dio trascendente considerato lontano, viene messa in
discussione da Gesù che annuncia agli uomini la nuova legge dell’amore.
Hegel confronta Ebraismo e religione Greca, emerge che mentre i greci erano riusciti a
realizzare una vera e propria armonia tra individuo e società, non al di qua e al di là. Dei
scendono sulla Terra, gli uomini si uniscono agli Dei. Mentre nella religione ebraica è
presente scissione tra uomo e società, uomo e divino. L’assenza della figura di Gesù come
divino toglie una figura di tramite fra Dio e Uomo. Hegel rivaluta Cristianesimo in quanto
Cristo fungerebbe da mediatore fra Dio e Uomo.Cristo rappresenta la conciliazione del
particolare (l’uomo) e dell’universale (Dio). La conciliazione si esprime attraverso l’amore,
elemento che concilia universale con particolare, non a caso la figura di Cristo emerge come
figura che ama l’umanità.
L’unità priva di scissioni della civiltà greca desta l’ammirazione del giovane Hegel, ancora
convinto che la bella eticità coincida una perfetta armonia che la modernità ha smarrito.
Successivamente, Hegel vedrà nella grecità un’innocenza destinata a spezzarsi: il concetto
maturo di eticità sarà pertanto il riproponimento della perfezione originaria della polis greca,
ma a un livello più alto, raggiunto oltre e attraverso la caduta rappresentata dalla modernità.
Nella predilezione di Hegel per il mondo greco è possibile leggere, inoltre, una predilezione
per il concreto rispetto all’astratto.
Anche se la storia insegna che Gesù, quanto i Greci, fu sconfitto e condannato dal suo
stesso popolo, egli morì perdonando i propri uccisori, testimoniando la possibilità di amare
senza condizioni.
Risulta quindi più chiara la critica di Hegel alla morale kantiana, ripresa in un saggio intitolato
Fede e sapere: Hegel polemizza contro la ragione illuministica di Kant, che si fonda su una
lacerazione dualistica tra uomo e Dio, tra finito e infinito, qualcosa di incomprensibile e
inconoscibile. Sebbene Kant abbia il merito di aver liberato la religione dai suoi elementi
esteriori, la morale kantiana è assimilabile alla religione degli ebrei.
La tesi di fondo del sistema.
Per poter seguire proficuamente lo svolgimento del pensiero di Hegel risulta indispensabile
avere chiare, fin dall’inizio, le tesi di fondo del suo idealismo:
1) la risoluzione del finito nell’infinito;
2) l’identità fra ragione e realtà;
3) la funzione giustificatrice della filosofia.
Quando si parla di risoluzione del finito nell’infinito, si allude al fatto che secondo Hegel la
realtà non consiste in un insieme di sostanze autonome, bensì in un organismo unitario di
cui tutto ciò che esiste è parte o manifestazione. Tale organismo non ha niente al di fuori di
sé ed è la ragione di esistere di ogni realtà, si indica col nome di Assoluto o infinito. Il finito in
questo caso non esiste come tale, è solo un’espressione parziale dell’infinito. Il finito, in
quanto è reale, non è tale, ma è lo stesso infinito. L’hegelismo appare quindi come un
monismo panteistico, che vede nel mondo la manifestazione di Dio.
Il sistema hegeliano potrebbe sembrare una forma di spinozismo. Ad ogni modo, l’Assoluto
di Hegel è in continuo divenire, al contrario di quello di Spinoza, statico e coincidente con la
natura. Assoluto non è una sostanza, all’origine del tutto non troviamo sostanza intesa come
qualcosa di statico, rigido, bensì un soggetto. Afferma questo nella Fenomenologia. Il
soggetto non è quindi immobile, ma sempre in movimento, da inizio a processo di creazione.
Definito anche come pensiero, razionalità e perciò attività, o AUTOMOVIMENTO. Non
immobile come sostanza di aristotele. L’assoluto si autogenera, e genera gli elementi finiti
(determinazioni). Hegel è ad ogni modo un grande lettore di Spinoza, proprio da lui riprende
un’affermazione, “omnis determinatio est negatio”, ogni determinazione è negazione (ogni
elemento finito nega qualcos’altro). Sta ad indicare che ogni elemento finito rappresenta la
negazione di infinite altre cose. Infinito assoluto di cui Hegel parla è un elemento positivo
che si realizza però attraverso la negazione della negazione propria di ogni finito. Movimento
da elemento positivo che crea determinazioni negative, negando tali determinazioni,
superandole. Questo processo è un togliere, superare e conservare. Superare elemento
negativo togliendo ma anche conservandolo —> indicato da Hegel con termine di
Aufhebung. “L’assoluto Hegeliano è come un circolo, in cui principio e fine coincidono in
maniera dinamica, ossia come un movimento a spirale in cui il particolare è sempre posto e
sempre dinamicamente risolto nell’universale, l’essere è sempre risolto nel dover essere e il
reale è sempre risolto nel razionale.”
Il soggetto spirituale infinito che sta alla base della realtà viene denominato da Hegel idea o
ragione o LOGOS, termini che esprimono l’identità di ragione e realtà. Da ciò il noto
aforisma presente in Lineamenti di filosofia del diritto, che riassume il senso stesso
dell’hegelismo: “Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale.”
Nella prima parte, il filosofo intende dire che la razionalità non può essere astrazione o
idealità, ma la forma stessa di ciò che esiste. Nella seconda parte, Hegel afferma che la
realtà non è una materia caotica, ma il dispiegarsi di una struttura razionale, che si
manifesta in modo inconsapevole nella natura e consapevole nell’uomo.
In generale, si esprime la necessaria, totale e sostanziale identità di realtà e ragione.
Tale identità implica anche l’identità tra essere e dover essere, in quanto ciò che è risulta
anche ciò che razionalmente deve essere. Non a caso le opere di Hegel sono costellate da
commenti di tagliente ironia nei confronti dell’astratto, insistendo su come il mondo, in
quanto è, e così com’è, è razionalità dispiegata, ovvero ragione reale e realtà razionale che
si manifesta in una serie di momenti necessari, i quali non possono essere diversi da come
sono. Fiore è Aufhebung del bocciolo, il frutto è Aufhebung del fiore. Da una parte il fiore
toglie il bocciolo, ma ne conserva una parte.
La pianta non coincide con nessuna delle determinazioni particolari ma con l’intero.
Questo movimento non è mai rettilineo ma circolare, pianta da origine a nuove piante —>
idea di circolarità del processo e del tempo è molto presocratica.
Il movimento è nell’assoluto. L’assoluto è come una pianta che si autopone, e
determinandosi da origine al resto della sua vita.
La pianta si determina in una serie di fasi di sviluppo. Ogni determinazione deve essere
superata, ciascuna è negazione ma anche inveramento della precedente. “Il bocciolo, nello
sviluppo della pianta, è una de-terminazione e quindi una negazione; ma questa
determinazione è tolta (ossia superata) dalla fioritura, la quale però, mente nega questa
de-terminazione la “invera”, in quanto il fiore è la positività del bocciolo. A sua volta, però, il
fiore è una determinazione, che pertanto implica una negatività, e che viene a sua volta tolta
e superata dal frutto; in questo processo, ogni movimento è essenziale all’altro e la vita della
pianta è questo stesso processo che via via pone i cari contenuti, ossia i vari momenti, e via
via li supera.
Coerentemente col suo orizzonte teorico, Hegel ritiene che il compito della filosofia consista
nel prendere atto della realtà e nel comprendere le strutture razionali che la costituiscono.
La filosofia non è in grado di dire come dev’essere il mondo, dal momento che quando
sopraggiunge la realtà ha già fatto il suo corso. La filosofia non deve cercare di determinare
la realtà, bensì elaborare il contenuto reale che essa le offre, dimostrandone, con la
riflessione, l’intrinseca razionalità. L’autentico compito che Hegel ha inteso attribuire alla
filosofia è la giustificazione razionale della realtà, della presenzialità, del fatto.
La dialettica.
Hegel pur vivendo in epoca romantica, non può essere definito vicino al romanticismo. Per
lui infatti niente può essere intuito in maniera immediata, non esiste sentimento e intuizione,
crede che tutto debba avvenire attraverso un lungo processo. Non si può avere conoscenza
immediata di filosofia, occorre attraversare una serie di tappe: non si può neanche intuire
cos’è l’assoluto, devo attraversare una serie di tappe molto rigorose. Per conoscere assoluto
abbiamo bisogno di metodo (attraverso la via), questo metodo consiste in scienza
dell’assoluto, che prende il nome di DIALETTICA, non è altro che il metodo della filosofia e
la legge suprema della realtà. Per Kant la dialettica era negativa (ragione cercava di
superare limiti dell’intelletto), ma per Hegel non lo è (alla maniera di Platone e Zenone).
Essa è una legge sia ontologica che logica, la usiamo per studiare l’assoluto, ma é anche il
modo in cui l’assoluto si presenta. La dialettica procede attraverso una serie di momenti, che
sono questi:
1) Il momento astratto o intellettuale;
2) Il momento dialettico o negativo-razionale;
3) Il momento speculativo o positivo-razionale.
Il momento astratto consiste nel concepire l’esistente sotto forma di una molteplicità di
determinazioni statiche e separate le une dalle altre. In questo momento è coinvolto
l’intelletto, notiamo che il pensiero si ferma alle determinazioni rigide della realtà, limitandosi
a considerarle secondo le loro differenze reciproche e secondo i principi di identità e non
contraddizione.
Nel secondo momento dialettico vediamo coinvolta la ragione. Esso consiste nel mostrare
come le determinazioni del momento astratto siano unilaterali ed esigano di essere messe
“in movimento”, quindi di essere relazionate ad altre determinazioni. Poichè ogni
affermazione sottintende una negazione, in quanto per specificare ciò che una cosa è
bisogna implicitamente chiarire ciò che essa non è, risulta indispensabile procedere oltre il
principio di identità e mettere in rapporto le varie determinazioni con le determinazioni
opposte. Il momento dialettico è presente nella realtà, tutta la realtà è composta da una
negazione in sé.
Il terzo momento è il lato speculativo, il momento positivamente razionale. Adesso nel terzo
momento abbiamo una sorta di unità delle determinazione contrapposte, negando le
negazioni arriviamo a una superiore sintesi positiva. Momento in grado di cogliere che le
negazioni fanno parte di un unico processo, negandole le riaccolgo all’interno dell’assoluto.
Pertanto esso è una tipica scoperta hegeliana.
Il momento speculativo è la riaffermazione del positivo che si realizza mediante la negazione
del negativo proprio delle antitesi dialettiche e quindi è un’elevazione del positivo delle tesi
ad un più alto livello.
Se prendiamo ad esempio il puro stato di innocenza, questo rappresenta un momento (tesi)
che l’intelletto irrigidisce in sé e a cui contrappone come antitesi la conoscenza e
consapevolezza del male, che è la negazione dello stati di innocenza (la sua antitesi); ora, la
virtù è esattamente la negazione del negativo della antitesi (il male) e il recupero del positivo
dell’innocenza ad un più alto livello, che è reso possibile solo passando attraverso la
negazione della rigidità che le era propria, e quindi passando attraverso l’antitesi, che in tal
modo acquista valore positivo nella misura in cui spinge a togliere quella rigidità.
Dalla citata distinzione dei tre momenti emerge anche la distinzione che Hegel fa fra
intelletto e ragione:
- L’intelletto è un modo di pensare statico, che immobilizza gli enti, considerandoli
soltanto nella loro reciproca esclusione.
- La ragione è invece un modo di pensare dinamico, capace di cogliere la concretezza
del reale dietro la fissità imposta dalle determinazioni intellettuali.
Se l’intelletto è l’organo del finito, la ragione è quello dell’infinito.
L’avversione di Hegel per l’Illuminismo si accompagna alla sua critica a Kant. Questi aveva
voluto costruire una filosofia del finito, della quale faceva parte integrante l’antitesi tra
l’essere e il dover essere, tra realtà e ragione.
In campo gnoseologico, Kant riteneva che le idee della ragione fossero meri ideali, idee
regolative che spingevano la ricerca scientifica verso l’infinito, qualcosa di irraggiungibile.
Analogamente in campo morale la volontà non coincideva con la ragione. In Kant l’essere
non si adeguava mai completamente al dover essere.
A Kant Hegel rimprovera anche la pretesa di voler indagare la facoltà del conoscere prima di
procedere a conoscere.
Hegel risulta molto critico anche nei confronti dei romantici (del quale subisce l’influenza nel
periodo francofortese):
- Hegel contesta il primato del sentimento, dell’arte e della fede, sostenendo che
l’Assoluto non può che essere oggetto della filosofia;
- Hegel contesta gli atteggiamenti individualistici tipici dei romantici.
In realtà Hegel, nonostante non rientri nella “scuola romantica”, risulta profondamente
partecipe al clima culturale del Romanticismo, con cui condivide in particolare il tema
dell’infinito.
Hegel critica Schelling in quanto egli concepisce l’Assoluto in modo a-dialettico, cioè come
un’unità indifferenziata e statica da cui la molteplicità e la differenziazione delle cose
derivano in modo inesplicabile. Da qui la tagliente battuta, in cui si paragona il soggetto di
Schelling alla notte nella quale tutte le vacche sono nere.
La descrizione diacronica che lo spirito infinito ha dovuto seguire per riconoscersi come
parte della realtà fa anch’essa parte della realtà: pertanto dovrà ripresentarsi come parte del
sistema generale della realtà. Per questo motivo Hegel riprende la fenomenologia all’interno
dell’Enciclopedia.
Nella Fenomenologia Hegel descrive dunque il progressivo affermarsi e conoscersi dello
spirito, e lo fa attraverso una serie di tappe ideali, che hanno trovato ciascuna
un’esemplificazione tipica nel corso della storia, e che esprimono i settori più disparati della
vita umana (conoscenza, società, religione, politica). Le tappe possono essere considerate
come momenti di graduale conquista della verità da parte dell’uomo.
Si capisce quindi che la fenomenologia sia la storia romanzata della coscienza, la quale,
attraverso erramenti, contrasti, scissioni, e quindi infelicità e dolore, esce dalla sua
individualità, diventa universalità e si riconosce come ragione che è realtà e realtà che è
ragione. L’intero ciclo della fenomenologia può essere riassunto in una delle sue figure
particolari, la coscienza infelice. Essa non sa di essere tutta la realtà, perciò si ritrova scissa
in differenze, è internamente dilaniata e riuscirà a salvarsi solo arrivando alla coscienza di
essere tutto.
Hegel inizia riflettendo sul metodo, quindi se ha senso interrogarsi sul metodo di fare
filosofia prima di farla —> Cartesio.
A differenza di quest’ultimo, per Hegel questo non può essere separato dalla filosofia,
scrivere un metodo è già fare filosofia.
Si devono distinguere i punti di vista della narrazione fenomenologica, vuole studiare il punto
di vista della coscienza naturale, che in percorso diventerà ragione dispiegata.
Hegel esamina quindi un’esperienza complessa compiuta da una coscienza che mette in
gioco tanti punti di vista. Quest’esperienza risulta contraddittoria, quando crede di aver
raggiunto la verità si trasforma in un negativo che deve essere superato da una sintesi
positiva, un Aufhebung continuo.
Coscienza naturale = modo di conoscere la realtà come fosse separata dal soggetto
Conoscenza speculativa = tutto è parte di sé, non c’è separazione tra soggetto e oggetto
(Hegel lo dimostra al termine di un processo) —> è anche lo scopo dell’idealismo.
Lo scopo è arrivare da una forma di sapere naturale, rappresentazione superficiale, al
sapere scientifico. In ogni tappa si mostra un fenomeno (ersheinung) che però si mostra
essere una parvenza (der shein), che noi superiamo con un continuo negare, superare,
affermare, poiché anche il nuovo fenomeno è un’apparenza che andrà a sua volta superata
con la sintesi.
Il processo ha termine una volta raggiunta la coincidenza tra lato soggettivo e oggettivo del
sapere, a quel punto non c’è più nessuna apparenza.
Troviamo 2 punti di vista nella Fenomenologia dello spirito, il Für Sich, per sé, e Für Uns, per
noi. Il primo è il punto di vista della coscienza, il secondo con la nostra visione, quindi il
primo è il lato soggettivo del sapere, il secondo quello oggettivo.
La coscienza vede le tappe di volta in volta, il per noi è invece la parte importante.
Per la coscienza è una sofferenza capire che ciò che era stato appreso deve essere
superato. Per il filosofo questo movimento della coscienza è la dialettica, per la coscienza
ogni tappa è un’esperienza negativa.
John Hyppolick nella “genesi e struttura della Fenomenologia dello spirito” la interpreta come
un romanzo di formazione, poiché si vede la coscienza che compie esperienze e diventa
adulta arrivando al sapere assoluto.
L’itinerario fenomenologico:
- coscienza (naturale in senso stretto)
- autocoscienza
- ragione
- spirito
- religione
- sapere assoluto
L’opera è divisa in due volumi, il primo comprende i primi tre momenti, il secondo i restanti
tre.
I primi tre momenti sono contemporanei, senza distinzione temporale ma solo logica. Il
tempo invece va considerato a partire dallo spirito. Ci sono poi diverse figure, tappe dello
sviluppo fenomenologico della coscienza.
“L’assoluto solo è vero; il vero solo è assoluto.” La verità coincide con l’assoluto, che però è
un percorso, lo otteniamo solo tramite tappe fenomenologiche.
All’inizio abbiamo la certezza, il lato soggettivo e individuale del sapere, alla fine si giunge
alla verità, il lato oggettivo del sapere.
La verità è data dal processo nella sua interezza, l’assoluto solo alla fine è ciò che è in
verità.
Il processo è circolare, alla fine verità e certezza si riunificano.
La coscienza vive ogni tappa come un rovesciamento di se stessa.
Coscienza.
La prima tappa della fenomenologia dello spirito è la coscienza, intesa come ciò che si
rapporta con l’oggetto, qualcosa di esterno. Questa tappa si articola in tre ulteriori momenti:
la certezza sensibile, la percezione e l’intelletto.
La certezza sensibile appare inizialmente come la forma di conoscenza più sicura, quando è
in realtà la più povera: rende certi di una determinata cosa singola, presente qui e ora di
fronte a me, ma non della cosa in quanto tale. Essa è contraddittoria, riferita solo al qui e
ora.
Supero la contraddizione spostandomi dall’oggetto al soggetto, ma neanche questo ha
certezza assoluta.
Svelando i limiti di questa esperienza conoscitiva, Hegel intende criticare tutte le forme di
sapere immediato. La certezza sensibile non può pensare o dire un oggetto, in quanto
dovrebbe introdurre una mediazione: essa si limita quindi a sentirlo nella sua immediatezza
e unicità. La certezza sensibile attinge a un generico “questo”, niente di determinato. La
certezza sensibile quindi si nega, dal momento che nella sua immediatezza si configura la
dualità di ciò che è in sé e ciò che è nella coscienza: il “questo” non dipende dalla cosa, ma
dall’Io che la considera.
Il passaggio dal sapere immediato al sapere mediato si realizza con la percezione, la quale
esplicita la distinzione fra soggetto che percepisce e oggetto percepito, che era implicita
nella certezza sensibile. L’oggetto quindi non è più quello che indichiamo con certezza
sensibile, ma è una cosa che presenta molte proprietà e che conosco con la percezione.
Mette in relazione tutti i casi in una forma superiore di conoscenza. Il generico “questo”
diventa la “cosa”, percepita dal soggetto come sostanza a cui appartengono varie proprietà.
Gli oggetti non sono che insiemi di proprietà che l’Io unifica. L’oggetto non può essere
percepito come uno, nella molteplicità delle sue qualità, se l’io non riconosce che l’unità
dell’oggetto è da lui stesso stabilita.
La coscienza quindi conosce la cosalità, Dingheit, che è connessa a una serie di proprietà.
La cosalità presenta una dimensione interiore, non conoscibile, e delle proprietà esterne.
Della Dingheit conosciamo il fenomeno.
L’intelletto consiste nella capacità di cogliere gli oggetti non come tali, ovvero in base alle
qualità sensibili che sembrano costruirli, ma come fenomeni, risultati di una forza che agisce
sul soggetto con una legge indeterminata.
Al di là dei fenomeni non c’è nulla, l’intelletto ritiene che la realtà dipenda da se stesso, e la
coscienza diventa autocoscienza quando scopre di aver risolto in sé i fenomeni. Non c’è una
cosa in sé, Kant invece la ammette, seppur inconoscibile.
Autocoscienza.
L’attenzione si sposta qui dall’oggetto al soggetto, ovvero all’attività concreta dell’io,
considerato nei suoi rapporti con gli altri.
Essa è l’unica parte delle opere di Hegel che si divide in due parti anziché tre.
Nella prima, indipendenza e dipendenza dell’Io, viene espressa la famosa speculazione su
servitù e signoria. L’autocoscienza postula l’esistenza di altre autocoscienze in grado di
darle la certezza di essere tale. L’uomo è autocoscienza solo se riesce a farsi riconoscere
da un’altra autocoscienza: egli ha quindi bisogno degli altri uomini.
Si potrebbe pensare che il reciproco riconoscersi delle autocoscienze debba avvenire
attraverso l’amore, come aveva pensato il giovane Hegel, influenzato dalla cultura
romantica. Ma l’amore non insiste sulle peripezie necessarie che le autocoscienze hanno
dovuto passare per giungere al reciproco riconoscimento. il riconoscimento non può che
passare attraverso un momento di lotta e di sfida, che si risolverà con la subordinazione
dell’una all’altra nel rapporto servo signore. Il signore ha messo a repentaglio la propria vita
pur di ottenere la propria indipendenza, mentre il servo ha preferito la perdita della propria
indipendenza pur di avere salva la vita.
Tuttavia, tale dinamica è destinata a portare a un’inversione dei ruoli: il signore diventa servo
del servo e il servo signore del signore. Infatti, il signore finisce per dipendere dai servi,
mentre questi ultimi padroneggiando le cose da cui il signore trae sostentamento, finisce per
rendersi indipendente. Quindi è il servo a conoscere la realtà, dal momento che il padrone
perde contatto con essa. In Hegel si sviluppa la dialettica del lavoro e del suo ruolo nella
realizzazione della coscienza.
Il progresso di acquisizione dell’indipendenza da parte del servo appare in tre momenti: la
paura della morte, il servizio, il lavoro.
Avvertendo la paura della morte, il servo ha potuto sperimentare il proprio essere come
qualcosa di distinto o di indipendente da quel mondo di realtà e certezze naturali che prima
gli apparivano come qualcosa di fisso e con le quali, in qualche modo, si identificava.
Nel servizio, la coscienza si autodisciplina e impara a vincere i propri impulsi naturali.
Nel lavoro, il servo trattiene il proprio appetito rimandando il momento dell’utilizzo
dell’oggetto che sta producendo, in questo modo imprime alle cose una forma, dando luogo
a un’opera che permane e che ha una sua indipendenza o autonomia. La figura hegeliana
presenta una notevole ricchezza tematica, che è stata particolarmente apprezzata dai
marxisti. Questi vi hanno visto un’intuizione dell’importanza del lavoro e della configurazione
dialettica della storia; è comunque importante non leggere Hegel penando a Marx: la
Fenomenologia non si conclude con una rivoluzione, ma con la coscienza dell’indipendenza
del servo nei confronti della cose e della dipendenza del signore nei confronti del lavoro
servile.
Il servo è però ancora legato agli oggetti da cui dipende e ancora non comprende che negli
oggetti è alienata la sua coscienza. Il servo deve liberarsi della schiavitù delle cose
attraverso tre tappe: stoicismo, scetticismo e coscienza infelice.
Se la figura del servo padrone piace a Marx, quella della coscienza infelice piace ai filosofi
esistenziali.
Ragione.
Questo momento è l’Aufhebung dei due precedenti.
Come soggetto assoluto, l’autocoscienza diventa dunque ragione e assume in sé ogni
realtà. Mentre nei momenti anteriori la realtà le sembrava qualcosa di diverso e opposto da
sé, ora può sopportarla, sapendo che nessuna realtà è qualcosa di diverso da se stessa. La
ragione è quindi “la certezza di essere ogni realtà”.
La ragione osservativa.
La certezza della ragione di essere tutta la realtà deve giustificarsi per diventare verità, e il
primo tentativo consiste in un inquieto cercare, che si rivolge alla natura come se fosse
“altro” da sé. Questa è la fase del Rinascimento e dell’empirismo, in cui la coscienza crede
di cercare l’essenza delle cose ma non cerca che se stessa.
Inizialmente la ragione cade in errore.
Hegel passa a criticare due materie che nel suo tempo erano ancora considerate scienze: la
fisiognomica, ovvero la pretesa di individuare i tratti dell’individuo attraverso la sua
fisionomia, e la frenologia, la pretesa di conoscere il carattere dalla forma e dalle
protuberanze del cranio. In Italia lo studioso Lombroso credeva di aver individuato i tratti
propri del “delinquente nato”. Hegel afferma che la ragione non può essere ricondotta a un
osso o a un aspetto somatico, ma va ricercata nelle vicende umane e nell’azione morale.
La ragione attiva.
Si passa quindi a ciò che Hegel chiama “l’attuazione dell’autocoscienza razionale mediante
se stessa”. Si passa dalla ragione osservativa a quella attiva quando ci si rende conto che
l’unità fra Io e mondo non è qualcosa di dato, ma qualcosa che deve venir realizzato. Ad
ogni modo, fino a che questo progetto assumerà la forma di uno sforzo individuale, esso è
destinato a fallire, come testimoniano le tre figure della ragione attiva.
La prima figura è chiamata “il piacere e la necessità”, in cui l’individuo si getta nella vita e va
alla ricerca del proprio godimento. Hegel cita il Faust di Goethe, il paragone non è esplicito
ma il riferimento è chiaro: dopo l’alto del piacere non resta più nulla, solo il vuoto.
Nella ricerca del piacere l’autocoscienza incontra infatti la necessità del destino, che,
incurante delle sue personali esigenze di felicità, la travolge.
L'autocoscienza cerca allora di opporsi al corso ostile del mondo appellandosi alla legge del
cuore. Figura chiamata “legge del cuore e delirio della presunzione”, in cui l’individuo, dopo
aver cercato di abbattere i responsabili dei mali nel mondo, entra in conflitto con altri
presunti portatori del vero progetto di miglioramento della realtà.
Ai vari fanatismi, l’individuo contrappone la virtù, ovvero un agire in grado di procedere oltre
l’immediatezza del sentimento e delle inclinazioni soggettive. Nasce quindi la terza figura, “la
virtù e il corso del mondo”.
Ma il contrasto tra la virtù e la realtà concreta non può che concludersi con la sconfitta del
“cavaliere della virtù”: essa si presenta come puramente astratta, è un volere qualcosa di
assoluto e non realizzabile sulla terra. Cita implicitamente i mulini a vento di Don Chisciotte,
una battaglia impossibile. Si fa inoltre l’esempio di Robespierre e il Terrore (Hegel condivide
la critica dei romantici alla Rivoluzione Francese, che credevano il fallimento fosse da
imputare all’Illuminismo e al suo voler dare lezioni al mondo in nome di ideali astratti).
In questa sezione egli mostra che l’individualità, pur potendo raggiungere la propria
realizzazione, rimane, in quanto tale, astratta e inadeguata. Il terzo momento è l’Aufhebung
dei due precedenti.
La prima figura in questa sezione è quella che Hegel denomina “il regno animale dello spirito
e l’inganno”. Hegel intende dire che agli sforzi e alle ambizioni universalistiche della virtù
subentra l’atteggiamento dell’onesta dedizione ai propri compiti particolari. L’inganno sta nel
fatto che l’uomo tende a spacciare la propria opera come dovere morale, mentre essa
esprime soltanto il proprio interesse.
Con queste figure, Hegel vuole dimostrare che se ci si pone dal punto di vista dell’individuo,
si è inevitabilmente condannati a non raggiungere mai l’universalità. Questa si trova infatti
solo nella fase dello spirito, la ragione che si è realizzata concretamente nelle istituzioni
storico-politiche di un popolo e dello Stato. La ragione reale non è quindi quella
dell’individuo, ma quella dello spirito o dello stato.
In Hegel è evidenziata la necessità per una morale concreta, critica la morale dell’intenzione
di Kant: il primo filosofo crede che a contare sia il risultato.
Enciclopedia delle scienze filosofiche
in compendio.
L’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio ha il compito di raccogliere in sé tutte
le scienze, riprendendo quindi il punto d’arrivo della Fenomenologia, il sapere assoluto
(momento in cui certezza e verità coincidono). Questo obiettivo segna una profonda
differenza tra Hegel e Kant: il secondo non è mai entrato nel dettaglio di una costruzione di
un sistema del sapere, tenendo un approccio più aperto, consapevole del fatto che non
sarebbe stato possibile incamerare tutte le scienze, dal momento che nel tempo ne
sarebbero sorte di nuove.
La logica è una fase in cui l’assoluto non si è ancora manifestato nella realtà, è come se si
descrivesse Dio prima della creazione. Questo Dio è puro logos, ed è inferiore a come
apparirà nel terzo momento, lo Spirito.
La logica dell’essere.
Il concetto di essere rappresenta il principio di tutta la logica hegeliana: non a caso si tratta
del concetto più vuoto e astratto, l’essere assolutamente indeterminato, privo di qualsiasi
contenuto. In questa sua indeterminazione e assenza di contenuto, l’essere è identico al
nulla; allo stesso modo, il nulla, cadendo nel pensiero, è incluso nell’orizzonte dell’essere.
Questa unità dialettica fra l’essere e il nulla si traduce nel divenire. Il cominciamento del
pensiero non è perciò né l’essere né il nulla, bensì il divenire, cioè il movimento logico che li
pone in relazione. Hegel intende dire che l'astratto è impensabile, in quanto il pensiero esige
mediazione, “movimento”, fin dalla sua esperienza originaria.
La triade essere-nulla-divenire rappresenta una sorta di “alba” del pensiero che cerca la sua
luce. Le prime tre categorie, infatti, non sono veri pensieri, perché sono ineffabili. Hegel
afferma che essere appartengono all’opinione: si opina infatti la differenza fra essere e nulla,
ma questa non può mai essere veramente pensata. Se, quindi, da un lato il divenire è il
primo pensiero concreto, esso è anche qualcosa di evanescente. Il divenire rappresenta
quindi il movimento ancora indeterminato del pensiero, che non ha un oggetto propriamente
detto.
L’analisi svolta da Hegel nella prima sezione della logica ha l’obiettivo di dimostrare che il
tentativo del pensiero di concepire determinazioni oggettive fisse e durevoli è destinato a
fallire. Interviene quindi la categoria della quantità, con cui distinguere gli oggetti
numerandoli. Anche se un oggetto numerato è diverso da un altro, questa differenziazione
non deriva dalla natura. Si devono quindi cercare delle differenze che qualifichino gli oggetti
in sé, all’interno della misurazione quantitativa. Questa sintesi tra qualità e quantità è detta
misura. Non esiste, tuttavia, una misurazione assoluta, capace cioè di cogliere l’essenza
delle cose. Alla fine della logica si giunge dunque a una conclusione negativa: l’oggetto non
può mai essere definito mediante le sue proprietà puramente “oggettive”, cioè “immediate”.
Dall’oggetto, l’attenzione si sposta perciò verso la sua essenza.
La logica dell’essenza.
Se le categorie della logica dell’essere considerano l’essere nel suo isolamento, cioè fuori
da ogni relazione, quelle della logica dell’essenza o della riflessione esprimono una sorta di
approfondimento o interiorizzazione mediante cui l’essere scopre le proprie “radici”.
Si divide in essenza in quanto apparire (schein), apparenza o essenza in quanto fenomeno
(erscheinung), e realtà effettiva (wirklichkeit).
Essenza in tedesco è wesen, che deriva dal participio passato di essere, gewesen,
indicando che l’essenza è più profonda dell’essere. Questo coincide anche con quanto
diceva Aristotele parlando dell’essenza, parlava di to ti en einai, ciò che era l’essere. I latini
usavano l’espressione quod quid erat esse per definire l’essenza. Essenza è il passato
dell’essere.
All’inizio la nostra conoscenza della realtà è apparenza, poi diventa fenomeno e infine realtà
fattuale. Hegel è molto più concreto di Kant. Hegel in questa sezione tratta il principio di
identità e non contraddizione.
Il filosofo tratta in questa sezione il principio di identità e non contraddizione. Per quanto
riguarda quello di identità, Hegel ci dice che si può parlare di identità ma senza distinzione,
incluse anche le differenze. Il principio di identità deve racchiudere anche le differenze.
Una persona è diversa a ogni età, l’identità è l’insieme di tutte queste (esempio non di
Hegel). Per il principio di non contraddizione, Hegel dice di accettare la contraddizione come
un principio che muove la realtà, è una contraddizione positiva, fa andare avanti il processo
dialettico verso l’Aufhebung.
In questa sezione Hegel analizza anche la prova ontologica di Anselmo, la difende, se
pensiero ed essere coincidono pensare Dio consiste nel pensarlo esistente. Dio però è
inteso come realtà effettiva che si colloca nella natura e nell’esistenza umana.
Il concetto si indica in tedesco con il termine begriff. Alla fine della logica dell’essenza Hegel
mostra come la realtà non risiede in nessuno dei due poli riflessivi, ma nella relazione che li
unisce, quindi nel loro Aufhebung: il concetto, inteso non come concetto dell’intelletto ma
come concetto della ragione, cioè lo spirito vivente della realtà.
In questa sezione, il pensiero scopre se stesse come vero e proprio oggetto. In un certo
senso il concetto hegeliano è il soggetto trascendentale di Kant, inteso però non come
semplice facoltà conoscitiva, ma come un processo in cui il soggetto determina se stesso,
ponendosi come spontaneità creatrice.
Spirito soggettivo.
Lo spirito soggettivo è lo spirito individuale, considerato nel suo lento e progressivo
emergere dalla natura. La filosofia dello spirito soggettivo si divide in tre parti:
- antropologia;
- fenomenologia;
- psicologia.
L’antropologia studia lo spirito come anima, la quale si identifica con quella fase aurorale
della vita cosciente che rappresenta una sorta di dormiveglia dello spirito. L’anima si
presente nella sua fase originaria, in cui è presente la potenzialità di conoscere, non ancora
in atto. In questa fase, l’anima è ancora in continuità con la natura, ma si tratta di una forma
di anima inconsapevole.
Hegel afferma che l’infanzia è il momento in cui l’individuo si trova in armonia con il mondo
circostante, mentre durante la giovinezza l’individuo, a causa dei suoi ideali e delle sue
speranze, entra in contrasto con questo stesso ambiente. La maturità, aufhebung di questi
due momenti, quando l’individuo, dopo la fase adolescenziale, si riconcilia con il mondo,
tramite il “riconoscimento della necessità oggettiva e della razionalità del mondo già
esistente e fatto”.
La psicologia, infine, studia lo spirito in senso stretto, cioè in quelle sue manifestazioni
universali che sono lo spirito teoretico, lo spirito pratico e lo spirito libero. Lo spirito teoretico
è l’anima che conosce, mentre lo spirito pratico è inteso come l’insieme di manifestazioni
attraverso cui lo spirito giunge in possesso di sé e diviene libero. Lo spirito libero è quindi la
volontà di libertà, l’unione di entrambe le fasi (lo spirito teoretico applicato allo spirito
pratico).
Spirito oggettivo.
La libertà deve a questo punto concretizzarsi nella sfera etica, il semplice singolo non può
essere libero, l’umanità intera deve esserlo. La volontà di libertà trova quindi la sua
realizzazione nello spirito oggettivo, in cui lo spirito si manifesta in istituzioni sociali concrete.
I tre momenti dello spirito oggettivo sono:
- il diritto astratto;
- la moralità;
- l’eticità.
Di tali argomenti Hegel non occupa solo nell’Enciclopedia, ma anche nei Lineamenti della
filosofia del diritto.
Il diritto astratto riguarda appunto la manifestazione esterna della libertà delle persone,
concepite come puri soggetti astratti di diritto, a prescindere dalle caratteristiche che
diversificano fra loro i vari individui.
La persona trova il suo primo compimento nella “proprietà”. La persona diviene però tale
solo in virtù del reciproco riconoscimento tra le persone, sancito da un contratto.
L’esistenza del diritto rende possibile anche l’esistenza del suo contrario, il torto, che nel suo
aspetto più grave diviene il delitto. La colpa richiede una sanzione o una pena, che si
configura, dialetticamente, come un ripristino del diritto violato. La pena è dunque una
ri-affermazione potenziata del diritto. Tuttavia, affinché la pena possa essere efficace,
occorre che sia riconosciuta interiormente dal colpevole.
A questo punto il diritto diviene una sorta di normatività esteriore, astratta, che è subita dagli
individui. Sorge quindi il bisogno di interiorizzare le norme: nasce allora la morale. La
moralità è la sfera della volontà soggettiva, quale si manifesta nell’azione.
Il dominio della moralità è caratterizzato dalla separazione fra la soggettività che deve
realizzare il bene e il bene che deve essere realizzato. Quest’ultimo assume inevitabilmente
l’aspetto di un dover essere.
Da un lato la morale esige la realizzazione del dovere, ma dall’altro questo dovere non deve
essere realizzato, in quanto la moralità stessa implica un limite da superare, Questa
insolubile contraddizione tra essere e dover essere è tipica della morale kantiana, di fatto
fortemente criticata da Hegel, principalmente per la sua formalità e astrattezza.
Nasce quindi il bisogno di un terzo momento, l’eticità. Quest'ultima è un volere che vuole dei
fini concreti. Un popolo ha interiorizzato le norme e ora ricerca dei fini concreti. Nell’eticità il
bene si attua e diviene esistente. Se la moralità è la volontà soggettiva, l’eticità è la moralità
sociale, la realizzazione concreta del bene in quelle forme istituzionali che sono la famiglia,
la società civile e lo Stato. A questo proposito è importante notare che il termine tedesco
Sittlichkeit (eticità), deriva dalla parola greca ethos, costume (ethos → sitte). Il filosofo
sottolinea che ogni individuo, nascendo, si trova collocato in un orizzonte storico culturale
che orienterà le sue scelte. Questa dimensione sovra-individuale dell’ethos deriva
sicuramente da quella che Hegel considerava la “bella eticità greca”, che concepiva la vita
dell’individuo come assolutamente indissolubile dalla vita nella polis. La “bella eticità” viene
però tragicamente spezzata dal mondo cristiano e moderno, in cui all’organicismo della città
antica subentra l’individualismo liberale borghese. Hegel propone una “eticità dei moderni”,
che recuperi l’antica identità fra individuo e cittadino, ma non nella forma dell’immediatezza
e della naturalità. Infatti, il valore della moralità soggettiva deve essere ricompreso nelle sue
esigenze essenziali.
Si comprende quindi perchè Hegel consideri l'eticità la sintesi fra diritto astratto e moralità:
configurandosi come morale che assunto le forme del diritto, o diritto che ha assunto le
forme della morale, l’eticità riesce a superare le opposte unilateralità del diritto e della
morale.
La famiglia.
La società civile.
Con la formazione di nuovi nuclei familiari il sistema unitario della famiglia si frantuma nel
sistema atomistico e conflittuale della società civile, che si identifica sostanzialmente con la
sfera economico-sociale e giuridico-amministrativa del vivere insieme. La società civile
consiste in una serie di bisogni che sono soddisfatti attraverso il lavoro e il consumo.
La società civile si articola in tre momenti:
- il sistema dei bisogni;
- l’amministrazione della giustizia;
- la polizia e le corporazioni.
Il sistema dei bisogni nasce dal fatto che gli individui, dovendo soddisfare le proprie
necessità mediante la ricchezza e la divisione del lavoro, danno origine a differenti classi.
L’amministrazione della giustizia concerne la sfera delle leggi e della loro tutela giuridica e si
identifica sostanzialmente con la sfera del diritto pubblico.
La polizia e le corporazioni, infine, provvedono alla sicurezza sociale.
L’idea di porre un terzo termine tra l’individuo e lo Stato, ovvero la società civile, è stata
ritenuta una delle maggiori intuizioni di Hegel. Tale idea sarà utilizzata dagli studiosi di
problemi economici e sociali in futuro e troverà in Marx un originale interprete. Hegel
individua la società civile come un elemento distaccato dallo Stato, ma pur sempre
all’interno del sistema di produzione.
Importante a questo punto è il concetto di Notrecht, il diritto del bisogno estremo, teoria che
Hegel sostiene, affermando che l'uomo che ha dei bisogni primari (ad esempio un uomo che
muore di fame), ha diritto assoluto di violare la proprietà. Il diritto alla vita è prioritario, e una
questione che riguarda la società. Diritto alla vita viene prima del diritto di proprietà.
Affermazione apprezzata da Marx.
Lo Stato.
Lo Stato è aufhebung di famiglia e società civile. Esso, che può essere considerato una
sorta di “famiglia in grande”, sta alla società civile come l’universale sta al particolare.
L’obiettivo dello Stato non è quindi quello di sopprimere la società civile, ma di indirizzarne i
particolarismi verso il bene comune. Hegel definisce lo Stato “sostanza etica consapevole di
sé”, poiché, in quanto autocoscienza e identità di un popolo, esso è il vero oggetto del bene
e del male, ciò che sostiene le scelte del singolo, condizionandole e orientandole.
Questa concezione di Stato, visto come incarnazione suprema della moralità sociale e del
bene comune, si oppone fortemente all’idea di Stato che era stata data piuttosto da Locke e
Kant, visto come strumento volto a garantire la sicurezza e i diritti degli individui. Hegel
critica infatti la teoria liberale dello Stato, dato che questa comporterebbe una confusione fra
società civile e Stato.
Lo Stato di Hegel si differenzia anche dal modello democratico di Rousseau, secondo cui la
sovranità risiederebbe nel popolo. Infatti, il filosofo tedesco sostiene che il popolo, al di fuori
dello Stato, è soltanto una moltitudine informe.
A queste teorie, Hegel contrappone la prospettiva organicistica: la sovranità dello Stato
deriva dallo Stato medesimo, il quale ha dunque in se stesso la propria ragion d’essere e il
proprio scopo. Il che equivale a dire che lo Stato non è fondato sugli individui, ma sull’idea di
Stato.
Egli rigetta la teoria contrattualistica, crede che lo Stato sia nato in maniera quasi spontanea
dall’unione dei cittadini: esso ha lo scopo di difendere i diritti naturali. Non è contrattualista
ma giusnaturalista, anche se contesta il giusnaturalismo in alcuni aspetti: critica infatti la
tradizione dei vecchi autori, la maggior parte di loro era contrattualista.
Lo Stato di Hegel, pur essendo assolutamente sovrano, non è per questo uno Stato
dispotico. Il filosofo tedesco, infatti, conformemente alla tradizione che va da Hobbes a
Rousseau, ritiene che lo Stato debba solo operare attraverso le leggi e nella forma delle
leggi; questo seguendo il principio secondo cui a governare non devono essere gli uomini,
ma le leggi.
Coerentemente con la sua ottica storicistica, Hegel ritiene che lo Stato non sia qualcosa che
è stato creato a tavolino, ma piuttosto un qualcosa che sgorga necessariamente dalla vita
collettiva e storica di un popolo. Di fatto, il filosofo tedesco specifica che, quando si prova a
imporre una costituzione a un popolo (fa l’esempio di Napoleone con gli spagnoli),
inevitabilmente si è destinati a fallire.
Lo Stato è diviso in tre momenti: diritto statuale interno, diritto statuale esterno e storia del
mondo. Hegel identifica la costituzione “razionale” con la monarchia costituzionale moderna,
ossia un organismo politico che prevede una serie di poteri distinti, ma non divisi, tra loro.
Tali poteri sono tre: legislativo, governativo e principesco.
La monarchia costituzionale, secondo Hegel:
- rappresenta la costituzione della ragione sviluppata, rispetto alla quale tutte le altre
appartengono a gradi più bassi;
- risolve organicamente in se stesse le forme classiche di governo: monarchia,
aristocrazia e democrazia.
Il pensiero politico hegeliano mette in atto un’esplicita divinizzazione dello Stato.
Come vita divina che si realizza nel mondo, lo Stato non può essere limitato dalle leggi della
morale. Riguardo al diritto internazionale, Hegel afferma che non esiste un organo superiore
in grado di regolare i rapporti inter-statali: non esiste alcun giudice che possa esaminare le
pretese degli Stati.
L’unico giudice è lo spirito universale, cioè la storia, la quale ha come suo momento
strutturale la guerra. Muovendosi in direzione opposta rispetto a Kant, Hegel attribuisce alla
guerra non solo un carattere di necessità e inevitabilità, ma anche un alto valore morale. È
proprio la guerra a preservare i popoli dalla fossilizzazione, in cui cadrebbero in caso di una
pace perpetua.
La storia del mondo nasce dalla dialettica fra Stati, storia è scontro fra Stati. Ma lo Stato è
anche l’ingresso della ragione del mondo, tutto ciò che accade nello Stato ha una ragion
d’essere. Hegel cerca quindi di individuare nello sviluppo della storia la presenza di una
forma di razionalità. Egli parla di filosofia della storia, conoscenza scientifica di questa
razionalità. La guerra è il momento di negazione, Hegel sostiene che anche le guerre fanno
muovere la storia, vedeva lato positivo nella guerra, portava la storia a progredire. Riteneva
anche che la storia degli stati sia presente solo in alcuni paesi, pensa all’africa come
continente senza storia, dal momento che non credeva presentasse monarchie né grandi
stati.
Hegel non nega che la storia possa apparire come un tessuto di fatti contingenti, quindi priva
di ogni piano razionale. Questa visione può però appartenere solo all’intelletto finito, cioè
dell’individuo, che misura la storia alla stregua dei propri personali ideali. In realtà, il
contenuto della storia del mondo è razionale, e così deve essere. La stessa fede religiosa
nella provvidenza, cioè nel governo divino, implica razionalità nella storia; ad ogni modo,
questa fede è generica, e si trincera dietro all’incapacità degli uomini di comprendere i
disegni provvidenziali. Hegel crede che essa debba essere sottratta a questa limitazione, e
portata quindi alla forma di un sapere che riconosca le varie vie della provvidenza, e sia in
grado quindi di determinare il fine, i mezzi e i modi della razionalità della storia.
Il fine della storia è che “lo spirito giunga al sapere di ciò che esso è veramente, e oggettivi
questo sapere, lo realizzi facendone un mondo esistente, manifesti oggettivamente se
stesso”. Questo stesso spirito è lo spirito del mondo (weltgeist), che si incarna negli spiriti
dei popoli (volkgeist) che si succedono nella storia. I mezzi della storia del mondo sono gli
individui e le loro passioni. Hegel non condanna le passioni, ma le considera semplici mezzi
per condurre la storia a fini diversi.
Il filosofo non prende in considerazione solo la conservazione, ma anche il progresso: la
conservazione trova i propri strumenti negli individui conservatori, così come il progresso
trova i propri strumenti negli eroi della storia del mondo. Questi ultimi sono chiamati
“veggenti” da Hegel stesso. Apparentemente, gli eroi della storia del mondo seguono
semplicemente le proprie passioni e ambizioni, ma in questo consiste l’astuzia della ragione,
che si serve degli individui e delle loro passioni come mezzi per attuare i propri fini. Una
volta portato a termine il proprio compito, questi individui saranno abbandonati dalla ragione,
lasciati a morire o a subire un destino rovinoso.
Il fine ultimo della storia è la realizzazione della libertà dello spirito. Questa libertà, secondo
Hegel, si realizza nello Stato, che è quindi il bene supremo; da questo punto di vista, la
storia del mondo è semplicemente il susseguirsi di forme statali che costituiscono i tre
momenti di un divenire assoluto. Questi tre momenti sono: il mondo orientale (in cui uno solo
è libero), il mondo greco romano (in cui alcuni sono liberi), il mondo germanico (in cui tutti gli
uomini sanno di essere liberi). Infatti la monarchia moderna, abolendo i privilegi dei nobili e
pareggiando i diritti dei cittadini, rende libero l’uomo in quanto uomo.
Lo spirito assoluto.
Lo spirito assoluto è il momento in cui l’idea giunge alla piena coscienza della propria infinità
o assolutezza. Tale auto-sapersi non è un processo immediato, passa piuttosto attraverso
tre momenti, che non sono distinti fra loro per il contenuto, ma bensì per la forma. I tre
momenti sono:
- l’arte, che conosce l’Assoluti nella forma dell’intuizione sensibile;
- la religione nella forma della rappresentazione;
- la filosofia nella forma del puro concetto.
In un primo momento l’atto conoscitivo passa attraverso la sensibilità, in un secondo
momento attraverso l’intelletto, e infine attraverso la ragione (aufhebung dei primi due
momenti). Se in Kant la ragione assumeva una connotazione negativa, Hegel la vede invece
come qualcosa di positivo.
L’arte.
L’arte è il primo gradino attraverso cui lo spirito prende coscienza di sé, divenendo
consapevole di sé o di situazioni che lo riguardano mediante le forme sensibili. Inoltre,
nell’arte lo spirito vive in modo immediato e intuitivo la fusione tra soggetto e oggetto. Ciò
accade perché nell’esperienza del bello artistico, lo spirito e la natura vengono recepiti come
un tutt’uno.
L’arte è divisa in tre momenti:
- l’arte simbolica;
- l’arte classica;
- l’arte romantica.
L’arte simbolica è tipica delle antiche civiltà orientali ed ellenistiche. Tipico di quest’arte è lo
squilibrio fra contenuto e forma: gli uomini si trovano incapacitati di fronte al compito di
rappresentare l’Assoluto con forme finite. Per questo si ricorre spesso a simboli, allo
sfarzoso e al bizzarro, che testimoniano l’immaturità di questo tipo di arte.
L’arte classica è invece caratterizzata da un armonico equilibrio tra forma sensibile e
contenuto spirituale, che tuttavia si ottiene abbassando gli dei all’uomo. Questo equilibrio si
ottiene quindi attraverso la forma umana. L’arte classica rappresenta il culmine della
perfezione artistica.
L’arte romantica è caratterizzata da un nuovo squilibrio tra forma e contenuto, dal momento
che lo spirito acquista coscienza di come qualsiasi forma sensibile sia in realtà insufficiente
a esprimere in modo compiuto l’interiorità spirituale.
L'articolazione che Hegel mette in evidenza a proposito dell’arte romantica, si suddivide in
molte forme d’arte.
L’architettura cerca di dare forma all’infinito attraverso strutture, come le grandi cattedrali,
che quasi vogliono essere rappresentazioni dello spirito.
La seconda forma è la scultura, che incontra le stesse difficoltà dell'arte greca.
L’aufhebung di architettura e scultura è rappresentata da tre arti, pittura, musica e poesia. La
pittura è più libera di scultura, non ha bisogno di blocco tridimensionale. La musica è ancora
più libera, non ha bisogno di sostegno fisico, è qualcosa di etereo, non necessita supporto
(scritto quando ancora non erano stati inventati sistemi di registrazione della musica). L’arte
più elevata di tutte è sicuramente la poesia, mette insieme la musica e la parola (la poesia
nasce come parola musicata). La poesia quindi rappresenta per Hegel l’arte più elevata, non
ha bisogno anch’essa di supporto fisico, si può imparare a memoria.
Tutti questi passaggi determinano la crisi moderna dell’arte. I giorni dell’arte greca sono
tramontati, e nessuno vede nelle opere d’arte l’espressione più elevata dell’idea. Per quanto
l’arte sia rispettata, essa è sottoposta all’analisi del pensiero, con lo scopo di riconoscerne la
funzione. Questa “morte dell’arte” non è da intendere come un vero e proprio funerale, ma
piuttosto come una sua inadeguatezza a esprimere la profonda spiritualità moderna.
Siamo ancora nell’ambito della rappresentazione sensibile, occorre che l’Assoluto si
auto-conosca in modo più approfondito.
La religione.
La religione è la seconda forma dello spirito assoluto, quella in cui l’assoluto si manifesta
nella forma della “rappresentazione”, a metà strada fra l’”intuizione sensibile” dell’arte e il
“concetto razionale” della filosofia. La religione, in quanto speculazione teologica, è
certamente pensiero, ma questa è ancora affetta da un elemento sensibile. La teologia è
pensiero di Dio, ma in questa formula Dio è un oggetto del pensare, ha valore oggettivo.
Nella religione, l’assoluto è rappresentato in forma storica, cioè come un “evento” la cui
verità è accettata sulla base dell’autorità di una rivelazione. Questo al contrario della
filosofia, che non accetta la verità come fatto come fatto storico e contingente, ma come
concetto eterno e necessario.
Inizialmente, nelle Lezioni sulla filosofia della religione, Hegel cerca di affrontare il problema
del rapporto fra filosofia e religione, stabilendo che la prima non deve creare la religione, ma
riconoscere la religione che c’è già.
Poiché alla religione è essenziale il rapporto tra Dio e la coscienza, la prima forma della
religione è l’immediatezza di questo rapporto, che è proprio il sentimento. Questo, tuttavia,
non giustifica la certezza dell’esistenza di Dio. Un passo avanti rispetto al sentimento è
compiuto dall’intuizione di Dio che si ha nell’arte e, infine, nella rappresentazione, che è il
modo tipicamente religioso di pensare Dio.
La filosofia.
Nella filosofia, che è l’ultimo momento dello spirito assoluto, l’idea giunge alla piena e
concettuale coscienza di sé medesima, chiudendo il ciclo cosmico.
La filosofia ha lo stesso contenuto della religione, ed è anch’essa quindi “pensiero di Dio”,
ma in questo caso esso il genitivo ha valore soggettivo: la filosofia è la ragione di Dio, cioè la
comprensione che Dio o l’Assoluto ha di se stesso, l’autocoscienza di Dio. Quando Hegel
parla di Dio, non ne parla nei termini del Dio cristiano, sa che religioni sono forme di
rappresentazione che l’umanità si è data per comprendere realtà, ma solo filosofia può
permettere conoscenza approfondita della realtà attraverso i concetti.
Hegel ritiene che la filosofia, al pari della realtà, sia una formazione storica, una totalità
processuale che si è sviluppata attraverso una serie di momenti. Quindi, la filosofia non è
nient’altro che l’intera storia della filosofia giunta finalmente a compimento con Hegel. In
questo processo, quindi, Hegel riconosce nel proprio pensiero l’ultima espressione della
filosofia.
Hegel vede il momento più alto del dispiegamento dell’Assoluto nella filosofia, una forma di
conoscenza concettuale. Essa è divisa in filosofia dell’antichità greca, della cristianità
medievale, della modernità germanica. Nel terzo momento, Hegel afferma che l’apice del
pensiero filosofico si raggiunge con filosofia tedesca, con Kant, Fichte e Hegel stesso.
L’Enciclopedia ha infatti l'obiettivo di descrivere in maniera concettuale tutta la realtà, e lui
crede di esserci riuscito.
Ciò che si intuisce da qui è che la filosofia si sviluppa alla fine di tutto, quando l’Assoluto ha
percorso tutte le sue tappe. Nasce quindi al termine di un processo, non nasce prima della
storia, per spiegare qualcosa che dovrà accadere: nasce dopo come riflessione su qualcosa
che è accaduto. Spiegato in un passo dove Hegel paragona la filosofia a nottola di Minerva,
che, in quanto animale notturno, spicca il volo solo al termine della giornata, così la filosofia
si sviluppa al termine di un processo storico. Pensiero viene dopo i fatti, non si può pensare
che idee muovano il mondo. Idee possono riflettere sui fatti, ma non possono muovere il
mondo.
SCHOPENHAUER.
La vita e le radici culturali del suo
sistema.
Nasce a Danzica il 22 febbraio del 1788, una città attualmente polacca ma al tempo
tedesca. Il padre era un banchiere, mentre la madre era nota scrittrice di romanzi. Durante la
giovinezza viaggia in Francia e Inghilterra, studia inoltre all’Università di Gottinga (dopo la
morte del padre, che voleva indirizzarlo a studi commerciali). Qui fu allievo di Schulze, che a
sua volta era stato allievo di Kant, la cui filosofia influenzerà fortemente Schopenhauer, così
come la filosofia di Platone. Il giovane ebbe anche modo di ascoltare alcune lezioni di Fichte
a Berlino nel 1811. Nel 1813 si laurea a Jena con un tesi sulla Quadruplice radice del
principio di ragion sufficiente. Grazie alla madre ebbe modo di conoscere persino Goethe.
Negli anni successivi alla laurea vive a Dresda, dove lavorò alla sue prime opere.
Tra 1818 e 1819 pubblica la sua opera più famosa, Die Welt als Wille und Vorstellung (Il
mondo come volontà e rappresentazione). L’opera all’inizio non ha alcun successo, quando
viene pubblicata di nuovo nel 1844 ha più successo, ci sono supplementi che sono stati
aggiunti. Nel frattempo lavora in università, nel 1820 ottiene libera licenza all'università di
Berlino, dove terrà i suoi corsi fino al 1832. Inizia lo scontro con Hegel, che insegnava nella
stessa università: i corsi di Hegel erano seguiti da centinaia di studenti, quelli di
Schopenhauer pochissimi. Il sentimento di rivalità proveniva probabilmente anche
dall’invidia. Posizione negativa nei confronti di Hegel perché non riusciva ad avere ruolo a
livello accademico, si sentiva emarginato. L’ostilità fra i due autori è legata anche al loro
approccio alla filosofia, da una parte il massimo esponente dell’idealismo, dall’altro un
filosofo che fa principalmente riferimento alla filosofia kantiana e alla cultura classica, in
particolare Platone.
Dopo essersi stabilito a Francoforte, nel 1836 pubblica Sulla volontà della natura, e nel 1841
I due problemi fondamentali dell’etica.
Arriva per lui un po’ di successo con la pubblicazione dell’opera Parerga e paralipomena nel
1851, parerga sono accessori e paralipomena vuol dire “qualcosa che può essere
tralasciato”, entrambi dal greco. Si tratta di un insieme di trattazioni e di saggi, alcuni dei
quali, grazie alla forma popolare e brillante, contribuirono a diffondere la sua filosofia. Ad
ogni modo, Schopenhauer non riscosse mai un grande successo mentre era in vita:
l’indirizzo cupo e apertamente anti-idealistico lo rendeva inviso ai contemporanei. Questo
stesso tono presente nelle sue opere sarà apprezzato in Europa solo dopo il 1848, e
l’ondata di pessimismo che si diffuse nel continente.
Il filosofo originario di Danzica si pone inoltre come punto di incontro tra esperienze
filosofiche eterogenee: Platone, Kant, l’Illuminismo, il Romanticismo, l’idealismo e la
spiritualità indiana.
Di Platone lo attrae soprattutto la teoria delle idee, intese come forme eterne sottratte alla
caducità del nostro mondo. Da Kant deriva l’impostazione soggettivistica della gnoseologia,
una forma di lettura della critica della ragion pura in realtà propria dei critici immediati di
Kant. Dell’Illuminismo lo attraggono il filone materialistico e quello dell'ideologia; da Voltaire,
in particolare, desume lo spirito ironico e brillante e la tendenza demistificatrice nei confronti
delle credenze tramandate. Dal Romanticismo trae alcuni temi di fondo del suo pensiero,
come l’irrazionalismo, la grande importanza di arte e musica, e il tema dell’infinito, ovvero la
tesi della presenza nel mondo di un principio assoluto di cui le varie realtà sono
manifestazioni transeunti; un altro tema ripreso dal Romanticismo è certamente il dolore,
anche se il movimento a cui Schopenhauer si ispira ha una visione globalmente più
ottimistica della sua.
Nell'universo spirituale di Schopenhauer si colloca in un posto di rilievo la sapienza
dell’antico Orientale. Si avvicinò soprattutto attraverso un orientalista a i Veda e gli
Upanishad. I Veda (significa conoscere, ma nel senso di un vero e proprio sapere,
conoscenza antica) sono la raccolta dei testi sacri dell’induismo. L’induismo è una religione
orientale basata su varie divinità, di cui le più importanti sono: Brahma, Vishnu, Shiva.
Prendono anche il nome di trimurti, rappresentano la trinità induista, corrisponde al creatore,
il conservatore e il distruttore. Le Upanishad erano testi religiosi che costituivano dei
commenti ai Veda. Schopenhauer si dedica allo studio di questi testi sacri. Egli è stato il
primo filosofo occidentale a tentare il recupero di alcuni motivi presenti nel pensiero
dell’estremo oriente; proprio da questo ha desunto molte immagini ed espressioni
suggestive, utilizzate all’interno dei suoi scritti.
Sulle orme del criticismo, Schopenhauer ritiene che la nostra mente risulti corredata da una
serie di forme a priori. Egli, tuttavia, si distingue da Kant riconoscendone solo tre, spazio,
tempo e causalità (l’unica categoria). Il filosofo le definisce anche principium individuationis,
il principio di individuazione, quando io conosco spazio, tempo e causalità posso individuare
un fenomeno. Definisce fenomeno nella sua individualità.
La distinzione che Schopenhauer faceva dell’azione causale era più articolata. La realtà che
noi dobbiamo indagare è la wirklichkeit di cui parlava anche Hegel. Deriva da wirken, agire,
quando noi definiamo la natura della realtà stiamo indicando un’azione. Abbiamo diversi
modi per rappresentarlo, assume 4 forme:
- principio del divenire, propria della fisica, dato A segue B, regola i rapporti fra gli
oggetti naturali;
- del conoscere è la logica, abbiamo delle premesse e da queste traiamo delle
conclusioni;
- dell’essere, proprio della matematica, regola i rapporti fra gli enti matematici e
geometrici;
- dell’agire, nella morale, regola i rapporti fra le azioni e i motivi, l’azione morale è
prodotto di qualcos’altro.
Ma come si passa dall’essenza del mio corpo all’essenza del mondo? Quando io vivo il mio
corpo lo sottraggo all’approccio fenomenizzante, smetto quindi di usare spazio, tempo a
causalità: pongo cioè i fenomeni come una molteplicità di cose distinte. Per questo l’essenza
che riscontro nel mio corpo non è solo del mio corpo, perché ha perso i limiti
dell’individualità. Per questo è corretto parlare di fenomeni al plurale e noumeno al singolare,
dato che in questo spazio non agiscono tempo, spazio o causalità. Per questo, una volta
individuata la volontà come essenza noumenica del mio corpo, so che essa non si può
limitare a esso, ma deve essere l’essenza profonda di tutta la realtà.
La volontà primordiale non ha alcuna meta oltre se stessa. Essa vuole riprodurre se stessa,
ed è quindi interessata alla sopravvivenza della specie, non del singolo individuo. Miliardi di
esseri, dunque, non vivono che per vivere e continuare a vivere. Questa è, secondo
Schopenhauer, l’unica crudele verità sul mondo, che gli uomini hanno cercato di superare
postulando l’esistenza di un Dio al quale finalizzare la loro vita. Ma Dio non può esistere
nell’universo di Schopenhauer e l’unico assoluto è la volontà stessa.
Schopenhauer ritiene inoltre che l’unica e infinita volontà di vivere si manifesti nel mondo
fenomenico attraverso due fasi logicamente distinguibili.
a. Nella prima, la volontà si oggettiva in un sistema di forme immutabili, a-spaziali e
a-temporali, che egli chiama platonicamente “idee”;
b. nella seconda, la volontà si oggettiva nei vari individui del mondo naturale, che non
sono altro che la moltiplicazione delle idee.
Il mondo delle realtà naturali si divide a sua volta in una serie di gradi disposti in ordine
ascendente. Il grado più basso è costituito dalle forze generali della natura, i gradi superiori
da piante e animali, il culmine dall’uomo, nel quale la volontà diviene pienamente
consapevole.
Il pessimismo.
In Schopenhauer è molto presente il concetto di sofferenza universale. La cieca volontà di
vivere non ha alcun obiettivo razionale, tutto avviene casualmente. Questa consapevolezza
di casualità spinge gli uomini a essere pessimisti, sanno di essere delle creature mortali che
inevitabilmente dovranno lasciare la loro vita sulla terra, non vedono un senso nella loro
esistenza. Manca anche un dio, Schopenhauer è completamente ateo, non crede neanche
nella possibilità di una vita dopo la morte.
Affermare che l’essere è la manifestazione di una volontà infinita equivale a dire che la vita è
dolore per essenza. Infatti, la volontà implica uno stato di tensione causato dalla mancanza
di qualcosa. Per definizione il desiderio è assenza, e quindi dolore. Poiché nell’uomo la
volontà è più cosciente rispetto a quella degli altri esseri, l’uomo risulta il più bisognoso e
mancante fra questi, destinato a non trovare mai un appagamento definitivo.
Inoltre, ciò che gli uomini chiamano godimento o gioia non è altro che la cessazione di un
dolore preesistente, un concetto che è presente anche in Giacomo Leopardi. Il piacere deve
essere preceduto da uno stato di dolore o tensione, ma il dolore non deve seguire uno stato
di piacere: un individuo può infatti sperimentare una catena di dolori, senza che questi siano
preceduti da altrettanti piaceri. “Non vi è rosa senza spina, ma vi sono parecchie spine
senza rose!” Pertanto, mentre il dolore, identificandosi con il desiderio, è un dato primario e
permanente, il piacere è solo una funzione derivata dal dolore, che vive unicamente a spese
di esso.
Poichè la volontà di vivere, una tensione perennemente insoddisfatta, si traduce in una sorta
di Sensucht universale, il dolore non riguarda solo l’uomo, ma investe ogni creatura. L’unica
ragione per cui l’uomo soffre più delle altre creature risiede nella sua maggiore
consapevolezza, che lo condanna quindi a sentire in modo più accentuato la spinta della
volontà. Per questa stessa ragione il genio, avendo una sensibilità maggiore rispetto agli altri
uomini, è anche destinato a una sofferenza maggiore. In tal modo, il filosofo giunge a una
delle forme più radicali di pessimismo nella filosofia, affermando che “il male non è solo nel
mondo, ma nel principio stesso da cui esso dipende.”
Espressione di questo dolore universale è anche la lotta crudele di tutte le cose. Spesso il
dolore è dato dagli altri uomini, perchè l’uomo fondamentalmente è un essere egoista, che si
divertono se gli altri stanno male e sono infastiditi se gli altri stanno bene e hanno successo.
“L’uomo è l’unico animale che faccia soffrire gli altri per il solo scopo di far soffrire”).
Persino l’amore è una sorta di inganno della volontà, del wille, che vuole solo far perpetuare
la specie. Noi crediamo di essere innamorati, ma è la volontà che ce lo fa credere.
Schopenhauer ritiene che l’amore sia basilare per l’individuo, e che per questo motivo la
filosofia debba occuparsene. Esso è infatti uno dei più forti stimoli dell’esistenza, e la sua
forza deriva dal suo stesso fine: la perpetuazione della vita. Il fine dell’amore è quindi il
semplice accoppiamento. Manifestazioni di tale “essenza biologica” dell’amore sono per
Schopenhauer l’esempio della mantide femmina, e la constatazione del fatto che la donna,
in seguito alla procreazione e all’allevamento dei figli perde la propria bellezza. Non esiste
quindi amore senza sessualità, ed è per questo insieme di ragioni che l’amore procreativo
viene inconsapevolmente avvertito come peccato e vergogna.
La liberazione.
Da quanto si è detto emerge chiaramente come per Schopenhauer la vita sia
sostanzialmente dolore. Il filosofo afferma che l’esistenza, in virtù del dolore che la
costituisce, risulta una cosa tale che si impara poco per volta a non volere. Al contrario di ciò
che si potrebbe pensare, tuttavia, egli condanna e rifiuta il suicidio,. per due motivi:
a. il suicidio non è una negazione della volontà, bensì un atto di forte affermazione della
volontà: il suicida “vuole la vita ed è solo malcontento delle condizioni che gli sono
toccate”;
b. il suicidio sopprime soltanto una manifestazione fenomenica della volontà di vivere,
lasicando intatta la cosa in sé.
La vera risposta al dolore non è quindi il suicido, secondo Schopenhauer, bensì la
liberazione dal wille, dalla stessa volontà di vivere. Piuttosto che soffermarsi su una
giustificazione teorica di questo passaggio chiave delle sue teorie, egli richiama l’attenzione
sull’esistenza di individui eccezionali, che in tutti i tempi hanno intrapreso il cammino della
liberazione di se stessi dalla volontà di vivere e dalla tirannia. Il filosofo intende dire che
quando la voluntas perviene alla coscienza di sé, essa tende a farsi noluntas, negazione
progressiva di se medesima. L’iter salvifico dell’uomo si articola in tre momenti: l’arte, la
morale e l’ascesi.
L’arte.
Mentre la conoscenza scientifica è legata alle forme dello spazio e del tempo, e quindi
asservita alla volontà, l’arte è conoscenza libera e disinteressata, che si rivolge alle idee,
ossia alle forme pure delle cose. Il soggetto che contempla le idee non è più l’individuo
naturale particolare, sottoposto alle esigenze della volontà, ma il puro soggetto del
conoscere, il puro occhio del mondo. L’arte sottrarre l’individuo alla catena infinita dei bisogni
e dei desideri quotidiani, offrendogli un appagamento immobile e compiuto. Per questo,
l’arte è catartica per essenza. In quanto corrispondenti ai vari gradi di manifestazione della
volontà, le varie arti si possono ordinare gerarchicamente: l’architettura corrisponde al livello
più basso, fino alla scultura, alla pittura e alla poesia, che hanno per oggetto le idee del
mondo vegetale, animale e umano.
Tra le arti spicca inoltre la tragedia, autorappresentazione del dramma della vita. L’arte più
profonda e universale è invece la musica, che si pone come immediata rivelazione della
volontà a se stessa. Ogni arte è quindi liberatrice, ma la sua funzione è pur sempre
temporanea e spaziale. Una liberazione più profonda può invece avvenire con l’etica.
L’etica implica un impegno nel mondo a favore del prossimo. Essa è infatti un tentativo di
superare l’egoismo, così come quella lotta continua fra gli individui, che è una delle maggiori
cause di dolore per l’uomo. Schopenhauer crede, come Kant, che il disinteresse costituisca
il cuore della moralità, egli, al contrario di Kant, sostiene che l’etica non sgorga da un
imperativo categorico dettato dalla ragione, ma da un sentimento di pietà, o di compassione.
Non basta sapere che la vita è dolore e che tutti soffrono, dobbiamo sentire questa verità nel
profondo del nostro essere. Pertanto, non è la conoscenza a produrre la moralità, ma la
moralità a produrre la conoscenza. Tramite la pietà sperimentiamo infatti quell’unità
metafisica di tutti gli esseri che la filosofia teorizza e che i testi delle Upanishad esprimono. Il
malvagio si crede lontano dagli altri e dal loro dolore, ma il temporaneo rimorso e la duratura
angoscia che accompagnano i misfatti sono prova dell’unità del volere cosmico.
La morale si realizza in due virtù cardinali:
- la giustizia, che è un primo freno all’egoismo, ha carattere negativo, consiste nel non
fare male e nel riconoscere agli altri ciò che siamo pronti a riconoscere a noi stessi;
- la carità si identifica con la volontà positiva e attiva di fare del bene al prossimo, si
tratta di agape, amore disinteressato.
Ai suoi massimi livelli, la pietà consiste nel far propria la sofferenza di tutti gli esseri passati e
presenti, e nell’assumere su di sé il dolore cosmico.
L’ascesi.
Sebbene implichi una vittoria sull’egoismo, la morale rimane pur sempre all’interno della vita
e presuppone un qualche attaccamento a esso. La liberazione completa si raggiunge con
l’ascesi. Essa è l’esperienza attraverso cui l'individuo, cessando di volere la vita e il volere
stesso, si propone di estirpare il proprio desiderio di esistere, di godere e di volere.
Il primo gradino per raggiungere l’ascesi è la castità perfetta: la rinuncia ai piaceri, l’umiltà, il
digiuno,sono manifestazioni dell’ascetismo e presentano un unico obiettivo: sciogliere la
volontà di vivere dalle proprie catene. Se tale volontà fosse vinta completamente anche da
un solo individuo, essa perirebbe, in quanto è una sola. La soppressione della volontà di
vivere, di cui l’ascesi rappresenta la tecnica, è l’unico vero atto di libertà che sia possibile
all’uomo.
Mentre nei mistici del cristianesimo l’ascesi si conclude con l’estasi, nel misticismo ateo di
Schopenhauer essa si conclude con il nirvana buddista, l’esperienza del nulla. Il nulla del
nirvana è un nulla relativo al mondo, una negazione del mondo stesso. Il nirvana è
analogamente un tutto, cioè un oceano di pace, uno spazio luminoso di serenità.
Kierkegaard.
LA VITA.
Kierkegaard (Kirkegord)
Copenaghen, 1813 - Copenaghen, 1855.
Nasce da una famiglia benestante di un ricco commerciante, che in seconde nozze aveva
sposato una sua governante, lui è figlio delle seconde nozze. Lui era l’ultimo di sette fratelli
ma cinque muoiono prima di lui. L'educazione che riceve è improntata su importanza della
religione e su condotta austera. Il padre riteneva di aver commesso una grave colpa, e che
Dio lo stesse punendo: si suppone che la grave colpa fosse aver sedotto la domestica poco
dopo la morte della prima moglie. Uomo intriso di religione. Cresce con questa morale forte
e oppressiva. Studia filosofia all’università, ma non intraprende la carriera di pastore,
avrebbe dovuto diventare religioso e guidare una chiesa protestante, come padre sperava.
Sul piano privato, vicenda tormentata, si era fidanzato con una ragazza, ma poi dopo un
anno rottura fidanzamento, poi riavvicinamento e rottura. Temeva che la sorte della sua
famiglia potesse condannare qualcun altro. La ragazza si chiamava Regine Olsen.
Durante tutta la vita parla di una sorta di “pungolo della carne”, espressione ripresa da una
lettera ai corinzi di san paolo. Sta a indicare una sorta di angoscia esistenziale. Kierkegaard
si può definire filosofo esistenzialista, anche se esistenzialismo si sviluppa nel XX secolo.
Anche una figura come Pascal si può definire tale, pensano molto al significato
dell’esistenza e vivono una vita tormentata.
Ebbe occasione di seguire lezioni di Schelling a Berlino, inizialmente affascinato dal
pensiero di Schelling poi ne rimase deluso. Quando il padre morì ebbe una piccola rendita,
con cui continuò a vivere.
Visse in modo appartato ma seguiva questioni del suo tempo, scrisse molte opere. Le opere
firmate direttamente da lui sono tre:
- discorsi edificanti
- discorsi cristiani
- i Diari (postumi)
Opere pseudonime:
- Enten-Eller, 1843, Victor Eremita;
- Timore e tremore, 1843, Johannes de Silentio;
- La ripresa, 1843, Costantin Constantius;
- Il concetto dell’angoscia, 1844, Vigilius Haufniensis;
- Stadi sul cammino della vita, 1845, Frater Taciturnus.
Opere con autore pseudonimo e Kierkegaard editore:
- Briciole di filosofia, 1844, Johannes Climacus;
- Postilla conclusiva non scientifica, 1846, Johannes Climacus;
- La malattia mortale, 1849, Anti-Climacus;
- Pratica di cristianesimo, 1850, Anti-Climacus.
1. La biografia non è ricca di avvenimenti, tuttavia vive questi pochi avvenimenti in maniera
profonda e drammatica. La cosa che interessa a Kierkegaard è di compiere una riflessione
sull’esistenza del singolo, insiste molto su questo concetto. Insiste molto anche in polemica
contro Hegel, se la prende con il suo sistema, contro l’idea che si possa conoscere la realtà
in maniera oggettiva, e che si possa conoscere tutto lo scibile. Trova una conoscenza tanto
distaccata della realtà assurda e quasi immorale. La nostra conoscenza parla sempre dal
singolo.
2. Contro cristianità stabilità, pur vicino alla Chiesa danese,e condanna la mondanizzazione
della Chiesa danese, che si preoccupa più di questioni concrete che di questioni morali. K
vuole Chiesa pura, distaccata da società. Chiesa come distanza morale.
3. Contro la stampa, fu oggetto di un attacco satirico da alcuni giornali danesi. Non accettò il
principio dell’anonimo, attacchi da persone che non firmavano gli articoli. Credeva che la
stampa fosse espressione di una doxa comune, modo di conoscere la realtà in modo
superficiale, non approfondito. Un sapere che pretendeva di essere oggettivo, che
teoricamente doveva rispecchiare le esigenze del pubblico ma alla fine tradiva la verità.
BRICIOLE DI FILOSOFIA (1844) E POSTILLA CONCLUSIVA NON SCIENTIFICA (1846).
Entrambi firmati Johannes Climacus, “poeta” “umorista”.
Ritiene che non sia possibile creare un sistema dell’esistenza. Esistenza è un continuo
divenire, non è possibile incasellarla in categorie fisse. Non esiste schema logico
dell’esistenza. L’esistenza è sempre soprattutto un fatto concreto, non riguarda l’astratto. In
Hegel si parte da dimensione astratta, secondo lui l’astratto non esiste, non esiste ragione in
sé o umanità in sé, esistono individui concreti.
Per riflettere sull’esistenza abbiamo anche bisogno di un pensatore soggettivo, qualcuno
che rifletta sull’esistenza da un punto di vista soggettivo. Non possiamo avere una visione
oggettiva della realtà, la conoscenza necessità di osservatore soggettivo. La verità non si
può definire come qualcosa di oggettivo, si colloca nella soggettività. Kierkegaard cita anche
il caso di Socrate, ma per Socrate verità è all’interno dell’individuo, bisogna tirarla fuori con
maieutica —> per Kierkegaard individuo non porta verità in sé per appropriarsene dobbiamo
compiere un salto. Noi viviamo in una situazione di non-verità, salto è salto della fede,
discontinuità da situazione di verità in cui viviamo.
Kierkegaard vede la filosofia hegeliana come antitetica e illusoria rispetto al proprio punto di
vista sull’esistenza. Contro la Ragione hegeliana, che dissolve in sé gli individui concreti,
Kierkegaard presenta l’istanza del singolo, cioè dell’esistente come tale. A Hegel si
rimprovera di aver ricondotto il genere umano a un genere animale, dal momento che in
quest’ultimo il genere è superiore al singolo, mentre negli uomini è presente la caratteristica
opposta, per cui il singolo è superiore al genere. Il filosofo danese ritiene che questo sia il
punto fondamentale su cui combattere la filosofia hegeliana, così come ogni filosofia che si
illuda di avvalersi di una riflessione “oggettiva”. La verità non è infatti l’oggetto del pensiero,
bensì il processo con cui l’uomo se ne appropria: l’appropriazione della verità è la verità.
Proprio in ciò consiste uno degli aspetti fondamentali del compito del filosofo: l’inserimento
della persona singola nella ricerca filosofica. Per questo Kierkegaard ha combattuto per tutta
la vita contro il cosiddetto “panteismo idealistico”, cioè contro la pretesa di identificare l’uomo
e Dio, affermando invece l’infinita differenza qualitativa tra il finito e l’infinito.
Kierkegaard utilizza tanti pseudonimi, tante maschere, servono per realizzare una
comunicazione autentica, di potere, nella quale siano i protagonisti stessi a parlare delle loro
scelte. La maschera è qualcosa di strumentale, hanno lo scopo non di nascondere la verità
ma di farla emergere. Sono maschere di personaggi che incarnano diverse modalità
esistenziali, in cui Kierkegaard si cala di volta in volta. Prova a svelare la verità di questi
personaggi dall’interno, cercando di calarsi nei loro panni. Non crede che abbia senso
descrivere queste modalità esistenziali dall’esterno, ci si deve calare nei loro panni. Sono
esempi di comunicazione di potere, non importa ciò che dicono ma come lo hanno detto, è
una comunicazione che avvicina alla verità.
Da ultimo c’è anche una polemica contro la stampa, polemica contro un tipo di
comunicazione anonima, al tempo non si firmavano articoli. A questo tipo di comunicazione
contrappone Socrate e Cristo, esempi di pensatori soggettivi esistenti. Si calano in una
realtà esistenziale, e riescono ad avere una comunicazione molto più profonda rispetto a
quella di un giornalista.
La stampa rimane sempre a un livello di doxa, superficiale, è facile incontrare il successo del
pubblico se si utilizza la doxa, è più difficile avere opinioni divergenti rispetto alla
maggioranza. “La maggior parte degli uomini non ha paura di avere un’opinione errata,
bensì di averne una da soli”.
ENTEN-ELLER.
Opera principale di K., Enten-Eller, 1843. Opera curata da Victor Eremita, corrisponde al
punto di vista dell’uomo religioso che vive in solitudine, e scrive quest’opera in solitudine. In
realtà la questione è piuttosto complessa, è un’opera composita in cui Victor Eremita è solo
un curatore, che vede la presenza di diversi autori. Divisa in 5 volumi, 1-3 parte prima, 4-5
parte seconda. Victor è l’editore curatore, ma l’opera è scritta da altri autori: nella prima
parte si analizzano e si commentano le carte di A (l’autore è A) — nella seconda parte
troviamo le carte di B (l’autore è B). A e B dialogano fra loro con le loro carte. Tutto ciò è un
gioco fra autori fittizi. Anche A e B sono maschere di Kierkegaard. Simile a Manzoni nei
promessi sposi.
Parte I vedremo: “Stati erotici immediati ovvero il musicale erotico” (protagonista Don
Giovanni), “Il diario del seduttore” (Johannes). Parte II vedremo: “La validità estetica del
matrimonio” (Wilhelm). In questo gioco di rimandi abbiamo altri autori che compaiono.
Wilhelm è personaggio protagonista di tutta la seconda parte. Sono autori ma anche
protagonisti perché raccontano di sé. [Nel libro si confonde Johannes con don Giovanni.]
Cinque volumi, all’inizio sentenza del curatore Victor Eremita, poi abbiamo la presentazione
delle carte di A fino al terzo tomo, e la presentazione delle carte di B nel quarto e quinto
tomo. All’interno abbiamo vari saggi, in alcuni casi abbiamo anche l’autore di questi testi —>
A presenta alcuni saggi di cui dice di non essere l’autore, per esempio “Il diario del
seduttore” è attribuito a Johannes. Quest’opera analizza due stati esistenziali (su tre), che
sono lo stadio estetico e lo stadio etico.
Vengono analizzati dal punto di vista di chi vive queste esperienze, chi meglio dei
personaggi che vivono un’esperienza estetica potranno raccontare in cosa consiste.
Abbiamo il racconto dall’interno di queste esperienze. I due stadi analizzati da Kierkegaard
sono lo stadio etico e lo stato estetico. Non per questo si ha la possibilità di scegliere fra
queste due modalità di esistenza, la scelta ricade solo all’interno dello stadio etico. Chi vive
una vita estetica non compie una scelta, si lascia scegliere.
Kierkegaard tematizzerà anche la vita religiosa, ma non in quest’opera. Tra vita estetica ed
etica c’è un salto senza alcuna mediazione, Kierkegaard è uno degli autori più critici nei
confronti del pensiero hegeliano, per lui non esiste una sintesi. Ci troviamo di fronte a
modalità esistenziali completamente antitetiche fra loro. “Enten-Eller” vuol dire “Aut-Aut”,
“O-O”. Ogni stadio forma una vita a sé, con le sue opposizioni interne, e si presenta all’uomo
come un’alternativa che esclude l’altra.
Johannes è personaggio ma soprattutto autore dei diari di un seduttore, racconta la sua vita.
Racconta la storia di seduzione di un’unica donna, Cordelia, avviene attraverso uno scambio
di lettere. Dopo che l’ha sedotta con le parole, si ritira e l’abbandona, prima del possesso,
del piacere. Questo perché sa che il desiderio appagato non porterà a nulla, vuole che il suo
desiderio rimanga aperto all’infinito. Questo è per spiegare un concetto fondamentale, non
appena un desiderio viene appagato poi ne sorge un altro. Johannes vuole rimanere al
livello di una possibilità d’azione infinita, che non avrebbe più se seducesse Cordelia. Si può
anche dire che la sua vita non ha una collocazione nella storia, nel tempo: è fatta di attimi e
non si può costruire nulla. Per costruire quella che si definisce una “storia” abbiamo bisogno
di inizio, evoluzione e fine, ma se non ci sono cambiamenti non è possibile costruire una
storia. La vita di Johannes è priva di temporalità, è un’esistenza che rimane nell’orizzonte
della possibilità —> tutto in prospettiva del futuro, nel presente ci sono solo attimi e non si
costruisce alcuna storia.
La vita etica è una vita completamente diversa, se la dispersione di don Giovanni conduce
alla disperazione, passando attraverso la noia, questa disperazione ha anche un lato
positivo, vi è volontà di vivere una vita diversa. Proprio lasciandosi andare alla disperazione
si può compiere un salto verso la vita etica. Essa implica stabilità e continuità: la vita etica è
il dominio della riaffermazione di sé, del dovere e della fedeltà a se stessi. Non è detto che
colui che vive una vita etica sia necessariamente passato da una vita estetica.
La vita etica è caratterizzata dalla stabilità, dalla continuità nel tempo, è una sorta di
riaffermazione di sé stessi. Non c’è più la dispersione della vita estetica, c’è un’identità forte
nella vita etica, e la costruzione di una vita temporale. Questo lo si vede nella “Validità
estetica del matrimonio”, un saggio dove si analizza il ruolo positivo che svolge il matrimonio
nell’esistenza, secondo il protagonista Wilhelm. All’interno della vita etica si realizza la
scelta, l’uomo etico è colui che sceglie → uomo che ha un’identità forte, al contrario
dell’esteta. La vera libertà risiede nella vita etica.
Il personaggio di Wilhelm racconta gli aspetti positivi della vita etica e del matrimonio in
particolare, matrimonio come realizzazione sociale dell’etica. Il matrimonio come esaltazione
dell’amore e come spazio sociale, nel quale si può costruire un’identità, cosa che non
avviene quando si passa l’esistenza a sedurre moltissime donne. Il matrimonio è ancora
legato all’amore, non lo nega. Si deve scegliere il matrimonio perché si avrà solo da
guadagnare. Presenta una sorta di sintesi fra la sensualità del primo amore e la serietà
dell’esistenza etica che aiuta il soggetto a costruire una propria identità. W è marito e anche
impiegato pubblico, realizza la propria identità sociale come marito e come funzionario. C’è
anche idea che lavoro costituisca una forma di identità sociale. Kierkegaard aveva intuito
qualcosa che i sociologi sanno, senza lavoro stabile viene meno identità della persona. La
persona vive il proprio lavoro come forma di identificazione nel proprio mestiere. In tedesco
Beruf vuol dire lavoro ma anche vocazione. Idea che il lavoro sia anche una vocazione.
Arbejde in danese, deriva da Arbeit, con cui si indica il lavoro in tedesco. La parola lavoro
anche in danese ha il duplice significato di lavoro e vocazione, un’attività che si fa con
piacere.
LA VITA RELIGIOSA.
Altra modalità esistenziale presa in esame da Kierkegaard, ma non è all’interno di
Enten-Eller, ma in altre opere. In particolare la prima opera in cui se ne parla è Timore e
Tremore, 1843, attribuita da Johannes de Silentio, definito un poeta lirico dialettico. Presenta
dialettica fra stato etico e stato religioso. In Timore e Tremore si analizza il paradosso della
fede. L’esempio è quello di Abramo e Isacco, tratto da Genesi 22. Quando Dio gli chiede di
uccidere figlio, cosa fa Abramo? La legge morale gli chiede di non uccidere il figlio, ma la
fede pretende il contrario. Abramo si trova in una situazione di angoscia, deve scegliere fra
istanza etica e religiosa. Abramo sceglie la fede, quindi muove il coltello per uccidere il figlio
Isacco, ma a quel punto interviene un angelo che ferma la sua mano. Ma Abramo avrebbe
sferrato il colpo, perchè questo chiedeva la fede, un salto, una fiducia assoluta nel proprio
Dio. Il sacrificio di Isacco non è suggerito ad Abramo da qualche esigenza morale, ma da un
comando divino. Questa storia è piuttosto paradossale, è un paradosso nel quale però
emerge la potenza della fede —> credere significa accettare qualcosa che può anche
andare contro la morale, ma chi accetta la fede otterrà molto di più indietro rispetto a chi
rimarrà nella vita etica. Il conflitto è fra morale e fede, fra comando divino e legge morale, e
non è presente una conciliazione fra i due elementi (differenza con Aufhebung di Hegel).
L’affermazione del principio religioso sospende interamente l’azione del principio morale.
Se l’opposizione tra vita etica e vita religiosa è così radicale, la scelta tra i due principi non
può essere facilitata da alcuna considerazione generale o regola. La fede di fatto non è un
principio generale, ma un rapporto privato tra l’uomo e Dio, un rapporto assoluto con
l’assoluto. Essa è il dominio della solitudine. Da ciò deriva il carattere incerto e rischioso
della vita religiosa: come può l’uomo essere certo di costituire, rispetto alle regole,
un’eccezione giustificata? L’unico segno diretto di ciò è la forza angosciosa con cui chi è
veramente eletto da Dio si pone questa domanda. La fede è una certezza angosciosa,
angoscia che si rende conto di sé e di un rapporto nascosto con Dio. Kierkegaard definisce
la fede un paradosso e uno scandalo, di cui Gesù stesso è simbolo: da un lato soffre e
muore come uomo, dall’altro risorge come un Dio, presente la paradossale ambivalenza di
essere entrambe. Analogamente, l’uomo è posto di fronte ad un bivio, credere o non
credere. Ma se da un lato la scelta di credere è individuale, ogni iniziativa umana è esclusa,
poiché se tutto deriva da Dio, anche la Fede deriva da Dio.
LA DESTRA E SINISTRA
HEGELIANE.
La destra hegeliana raccoglie tutti gli autori, definiti “Vecchi hegeliani”, che si
contrappongono ai “Giovane hegeliani”, rappresentanti degli hegeliani di sinistra. Le
caratteristiche della destra hegeliana: riprendono da Hegel l’idea che la realtà debba essere
studiata, ma che non si debba agire, poiché tutto ciò che è reale è razionale —> non si deve
fare niente per migliorare lo stato delle cose esistenti. Ritengono inoltre che ci sia una
perfetta compatibilità fra filosofia e religione, e che queste due direzioni non siano fra loro
contraddittorie. Questi autori in generale, dal momento che ritengono che la realtà sia
razionale, sono contrari a ogni tipo di trasformazione della società. Importante, Karl
Rosenkranz, autore di un’estetica del brutto e di una vita di Hegel —> allievo di Hegel che
ne ha anche scritto una biografia.
LUDWIG FEUERBACH.
1804-1872.
Autore tedesco, il nome vuol dire fiume di fuoco. Fu allievo di Hegel, avrebbe potuto portare
avanti una carriera universitaria di tipo accademico, ma l’ambiente accademico era contrario
alle sue teorie sulla religione. Feuerbach infatti era ateo, mentre l’università era ancora
legata alla religione. Nel 1848 fu invitato dagli studenti a tenere delle lezioni sull’essenza
della religione, queste furono le sue uniche lezioni accademiche, proprio perchè era
un’epoca rivoluzionaria. Passò la sua vita in condizioni economiche precarie e morì in
miseria. Le sue opere principali sono “Critica della filosofia hegeliana” ‘39, “I principi della
filosofia dell’avvenire” ‘44, “L’essenza del cristianesimo” ‘41 e “L’essenza della religione” ‘45.
Il rapporto con Hegel può essere riassunto nella teoria del rovesciamento dei rapporti di
predicazione. Feuerbach sostiene che l’idealismo in generale, ma che Hegel in particolare,
siano caduti in un errore di fondo: quello di considerare come concreto qualcosa di astratto,
di trasformare l’astratto un concreto, anziché fare dell’astratto un predicato del concreto. Gli
idealisti sarebbero partiti dall’astratto per arrivare al concreto, mentre secondo Feuerbach
bisogna partire dal concreto per arrivare all’astratto. Si parla di rovesciamento dei rapporti di
predicazione, perchè per gli idealisti l’astratto è il soggetto e il concreto è il predicato, mentre
Feurbach crede nel contrario. L’idealismo secondo Feuerbach ci offre una visione rovesciata
della realtà. Quindi è come se l’intero universo fosse presentato al contrario.
Nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio Hegel parla del logos, l’astratto, da
cui poi deriva la filosofia della natura e la filosofia dello spirito. La famiglia, lo Stato, cose
estremamente concrete, sono al termine di questo processo. Invece Feuerbach crede che
si debbano prendere in esame cose concrete, e poi eventualmente procedere verso
l’astrazione. L’inizio della filosofia non è Dio, non è l’assoluto, ma piuttosto il finito, il
determinato, il reale. Non possiamo mettere all’origine di tutto qualcosa di astratto.
La critica della religione di questo filosofo mette in evidenza il rovesciamento che anche
l’umanità ha compiuto quando si è occupata di religione. Applicando l’inversione dei rapporti
di predicazione si arriva a sostenere che non sia Dio ad aver creato l’uomo, ma piuttosto
l’uomo ad aver creato Dio. Dio è la proiezione quasi illusoria delle qualità dell’uomo, la sua
ragionevolezza, la sua volontà, il suo cuore. L’uomo prende le sue caratteristiche,
razionalità, volontà e sentimento e le proietta in Dio. Dio va quindi ad assumere queste
qualità ma più accentuate, in maniera perfetta. Il mistero della teologia si trova quindi
nell’antropologia, studiando l’uomo possiamo conoscere Dio. Di fatto l’antropologia da
origine alla religione, che quindi Feuerbach considera come l’infanzia dell’umanità. Le prime
religioni vengono considerate idolatrie da quelle successive, ma solo perchè è cambiata la
visione che si ha di Dio. Si tratta di capire perchè nell’uomo nasce l’idea di Dio, Feuerbach
elenca tre ragioni:
• L’uomo riesce ad avere una coscienza di se non solo come individuo, ma anche come
specie —> dal momento che come individuo si sente debole, ha bisogno di pensare a sé
come specie, e proietta tutte le caratteristiche della specie umana in Dio, in modo che
risultino perfette e onnipotenti —> Dio è la personificazione immaginaria delle qualità della
specie umana;
• L’uomo spesso ha una serie di desideri che non riesce a realizzare, ma Dio può realizzarli,
superando l’opposizione fra volontà e potere;
• L’uomo si sentiva dipendente dalla natura, e quindi ha divinizzato la natura stessa.
Dio nasce affinchè possa realizzare una serie di desideri che l’uomo non può esaudire.
Uomo crea dio perchè spera che possa esaudire i suoi desideri. Si immagina l’esistenza di
dio anche osservando come l’uomo dipenda dalla natura —> per questo elementi della
natura sono stati divinizzati. La creazione di dio è avvenuta anche perchè l’uomo in quanto
singolo è debole, ma in quanto genere può avere capacità notevoli. Uomo rende persona
quelle che sono le capacità generali del genere umano, portate all’estremo.
Gli uomini tendono a considerare un’idolatria la religione precedente —> i monoteisti
criticano i politeisti, ma anche fra le religioni monoteiste, la successiva è ritenuta migliore
della precedente —> cristiani credono di essere migliori degli ebrei.
Uomini proiettano proprietà personali nella figura di dio —> ALIENAZIONE, dare qualcosa a
qualcun altro. L’uomo proietta fuori di sé, in Dio, tutte quelle che sono qualità dell’uomo.
Tanto più uomo proietta in dio sue qualità, più l’uomo risulta impoverito. La conclusione di
Feurbach è che l’ateismo è un atto di onestà intellettuale ed è quasi un dovere morale.
Dovrebbe restituire all’uomo tutte le qualità proiettate verso dio. L’atteggiamento dell’ateo è
quella della riappropriazione. L’uomo deve recuperare quelli che lui chiama “predicati
positivi” —> la filosofia dovrebbe avere questo compito, spingere uomini a riappropriarsi
delle proprie abilità. Il suo compito non è collocare finito dentro infinito, ma infinito nel finito
—> trovare dio nell’uomo, e non l’uomo in dio.
Alienazione in ita deriva da greco alienus e greco allos, entrambi vogliono dire “altro”.
Questo altro consiste nell’atto di allontanare. In tedesco alienazione è tradotto con due
termini Entäusserung ed Entfremdung. Letteralmente il secondo è più estraniazione, ma il
concetto è quello di alienazione. Hegel li usa entrambi. Il primo è un tipo di alienazione che
potremmo definire positiva, Hegel usa questo termine ogni qual volta fa riferimento a una
sorta di alienazione dello spirito che poi conduce spirito a un superiore Aufhebung —> forma
di alienazione che poi conduce a riconciliazione superiore, non è una perdita. Il secondo
indica un’estraniazione, un rendersi estraneo che non porta a nulla. Un farsi altro da se che
non conduce ad alcuna sintesi. In questo senso è qualcosa di negativo, non porta a un
processo positivo.
Feurbach utilizza il termine Entfremdung parlando dell’alienazione dell’uomo in dio.
In Feurbach non c’è più elemento positivo presente in Hegel, e l’alienazione è solo un atto di
distruzione. Questo concetto sarà ripreso da Marx nei manoscritti economico-filosofici —>
parlerà di alienazione in modo negativo, la sinistra hegeliana si appropria del termine
negativo dei due usati da Hegel.
Uomo ha quindi bisogno degli altri, ha bisogno di affetti. Ecco che secondo Feurbach uomo
ha un’essenza fondamentalmente sociale. Deriva da qui comunismo di Feurbach, da idea
che tutti gli uomini siano essenzialmente uguali e che abbiano gli stessi bisogni universali
—> dobbiamo quindi avere la capacità di vivere in comune per soddisfare bisogni.
Feurbach elabora anche teoria degli alimenti, “uomo è ciò che mangia” —> non possiamo
separare corpo dallo spirito. Se vogliamo che uomini facciano filosofia, è necessario che
questi uomini prima mangino. I bisogni primari hanno a che fare con le condizioni materiali
dell’esistenza: inutile fare filosofia se un popolo è affamato. La prima cosa da garantire a un
popolo è la possibilità di essere in saluto. Se vogliamo un popolo che possa riflettere e usare
la ragione è necessario che queste persone siano in salute —> si devono migliorare le
condizioni di esistenza dell’uomo.
Feurbach è a volte considerato un vero filantropo, ama davvero l’intera umanità —> da qui la
sua attenzione per migliorare le codnizioni di vita dell’uomo, a partire dalle condizioni
materiali. L’importanza di Ferubach per la sinistra hegeliana è stata molto elevata, tanto che
Engels ha parlato di questo “torrente di fuoco” (Feurbach vuol dire torrente di fuoco) che
avrebbe portato avanti un’azione liberatoria degli uomini.
MARX.
VITA.
Nasce a Treviri nel 1818, muore a Londra nel 1883. Epoca che corrisponde alla Rivoluzione
Industriale, evento che colpirà molto Karl Marx, che si dedicherà a un’analisi delle sue
conseguenze. Treviri è una regione della Renania, in Germania, da una famiglia di origini
ebraica con un atteggiamento laico nei confronti della religione. Il padre è un famoso
avvocato, Karl si iscrive a giurisprudenza a Bonn per volere del padre, ma poi lascia gli studi
e a Berlino si iscrive alla facoltà di filosofia, in cui si laureerà a Jena con una tesi sulla
Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro. Non può portare
avanti carriera accademica perchè sue opinioni sono molto estreme —> vuole riforme
importanti, ambiente accademico più tradizionalista. Inizia quindi a fare il giornalista, scrive
per Gazzetta renana, ma a giornale viene impedita la pubblicazione. Costretto a trasferirsi a
Parigi, spera di trovare apertura mentale. Sposa donna di un casato molto nobile, diseredata
dal padre. Lei rinuncia alla ricchezza paterna, vivono senza un lavoro fisso.
Intanto inizia a scrivere le prime opere, “Critica della filosofia del diritto di Hegel”. Giovane
hegeliano, ma ha posizione molto critica. 1844 pubblicazione degli “Annali francotedeschi”.
Fra gli altri saggi emergono i “Manoscritti economico filosofici” del ‘44, che in realtà non
vedranno mai la luce.
Espulso dalla Francia per le sue posizioni radicali, si trasferisce in Belgio, poi inizia
collaborazione con Engels, che diventerà amico di una vita e anche suo sostenitore
economico, Engels era figlio di un industriale di origine tedesca con fabbriche in Inghilterra,
era ricco. Insieme scrivono molte opere, La Sacra Famiglia, L’ideologia tedesca (non
pubblicata). Nel 47 ricevono da Lega dei comunisti il compito di scrivere un manifesto di
questa lega: Manifesto del Partito Comunista 1848. Quando dopo 48 torna al potere vecchia
democrazia, Marx viene espulso dalla Germania e dove aveva fondato una nuova Gazzetta
Renana —> si rifugia di nuovo a Parigi per poi trasferirsi definitivamente in Inghilterra. A
Londra fa giornalista, viene pagato per ogni articolo, no stipendio, lavora anche come
bibliotecario del British Museum. Continua anche pubblicazione di una serie di opere: Le
lotte di classe in Francia fra il 48 e il 50 e Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte. Scrive
moltissimo, finchè nel 1864 partecipa alla prima internazionale, presente insieme a Bakunin.
Nel 1867 esce primo libro del Capitale, mentre il secondo e il terzo libro sono pubblicati
postumi da Engels.
Morte della moglie nel 1881 e poi lui stesso muore dopo due anni.
IL MARXISMO
L’influenza di Marx sulla cultura dell’epoca fu fondamentale, è stato anche un attivista
politico. La società contemporanea è caratterizzata dalla rivoluzione industriale, secondo
Marx è presente un’ingiustizia sociale che colpisce i lavoratori, cerca di mostrare come
sistema capitalistico sia fondato sullo sfruttamento dei lavorato —> tentativo di fare
osservazione scientifica no moralistica. Non basta sapere che uomo è stato creato da dio,
ma capire perché uomo ha bisogno di dio —> è perchè uomo sta vivendo una condizione
terribile. Si tratta di studiare le condizioni materiali di esistenza, per questo si deve
conoscere a fondo l’economia —> solo conoscendo a fondo l’economia si possono
comprendere le condizioni materiali dell’esistenza dell’uomo.
Da studi filosofici si sposterà sempre di più su studi di carattere economico, che faranno
però una critica dell’economia politica —> ec politica classica dell’epoca è di stampo
liberista, lui critica economia politica liberista.
Giungerà alla conclusione che soltanto con il comunismo sarà possibile sviluppare una
società in cui le facoltà dell’uomo potranno essere valorizzate al meglio. Proporrà anche la
fine delle classi sociali e dello stato come è stato concepito fino a questo momento. In Marx
è soprattutto fondamentale unione fra teoria e prassi, si deve agire concretamente
nell’ambito della società. Fra i suoi punti di riferimento fondamentali abbiamo Hegel e
Feurbach, ma anche studio di Smith e Ricardo, economisti inglesi di stampo liberista —> li
studia per criticarli. Sarà anche influenzato da Saint Simon e Owen, due socialisti utopistici
che proponevano società ideali. Forma di utopismo per quanto concreta sarà presente
anche nelle opere di Marx.
IL DISTACCO DA FEUERBACH.
Analogamente a Hegel, anche Feuerbach gioca un ruolo di primo piano nel pensiero
del giovane Marx. La principale rivoluzione teoretica di F. consiste, secondo Marx,
nella rivendicazione della naturalità e della concretezza degli “individui umani viventi”
e nel rifiuto dell’idealismo di Hegel, che aveva ridotto l’uomo ad autocoscienza. Il
merito di F. risiede quindi principalmente nel suo rovesciamento dei rapporti di
predicazione. Pur avendo sostenuto la naturalità dell’uomo, F. ha perso di vista la
sua storicità, non capendo che l’uomo, più che natura, è società, e quindi storia.
Marx ritiene infatti che l’individuo è reso tale dalla storicità in cui vive; non esiste
l’uomo astratto, ma l’uomo figlio di una specifica situazione. Marx corregge, in certa
misura, Hegel con F. e F. con Hegel, contro il primo difende la naturalità dell’uomo, e
contro il secondo la sua costitutiva socialità e storicità.
Non a caso, Marx ritiene che un altro limite di fondo del pensiero di Feuerbach sia il
suo tendenziale contemplativismo e teoreticismo, che lo porta a ignorare l’aspetto
pratico e la ricerca di una soluzione concreta per la condizione degli uomini.