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All’indomani della morte di Hegel la schiera dei suoi allievi si divise tra i «vecchi hegeliani»
(la generazione più anziana) ed i «giovani hegeliani» (composta da coloro che erano nati
dopo il 1800). La spaccatura della scuola fu dovuta al diverso atteggiamento assunto dai suoi
esponenti di fronte alla religione e alla politica
I più significativi esponenti della destra (K.F. Göschel, K. Conradi, G.A. Gabler) utilizzarono i
filosofemi di Hegel al fine di una giustificazione razionale dei dogmi centrali del
cristianesimo.
Gli esponenti della sinistra (D.F. Strauß, B. Bauer, M. Stirner, A. Ruge, L. Feuerbach)
sostenevano invece che la differenza di forma fra religione e filosofia implicasse
necessariamente la fine della religione. Conseguentemente essi svilupparono una critica
radicale della coscienza religiosa – in particolare di quella sua configurazione storica che è il
cristianesimo – il cui esisto finale è un rigoroso ateismo filosofico.
Feuerbach sostiene che l’inizio della filosofia non è Dio, non è l’Assoluto, non è l’essere
come predicato dell’assoluto o dell’idea: l’inizio della filosofia è il finito, il determinato, il
reale.
La posizione di Feuerbach
Una volta stabilito il baricentro del discorso filosofico nella finitezza dell’uomo e affinché
questa possa essere riconosciuta e valorizzata come l’unica «realtà assoluta», Feuerbach
sviluppa una critica radicale della religione – radicale perché essa intende andare alla radice
del fenomeno religioso e quindi anche alla radice di quella concezione «teologica» della
realtà che ha trovato nel pensiero hegeliano il suo “ultimo rifugio”. L’essenziale di questa
ricerca è contenuto in due scritti: L’essenza del cristianesimo (1841) e L’essenza della
religione (1845).
La tesi centrale di Feuerbach è che Dio, ogni idea del divino, è nient’altro che una proiezione
illusoria di quelle «perfezioni» caratteristiche della nostra specie (determinazioni essenziali)
che sono la ragione, la volontà e il sentimento. Dunque, non è Dio ad aver creato l’uomo
bensì esattamente il contrario: parafrasando la Bibbia, si può affermare che l’uomo ha fatto
Dio a sua immagine e somiglianza, nel senso che ogni cultura umana produce una
rappresentazione della divinità che riflette una certa comprensione che l’uomo ha di sé.
L’origine della coscienza religiosa
In secondo luogo, egli vede l’origine della coscienza religiosa nell’opposizione e nella
sproporzione che nell’uomo si riscontra tra volontà e potenza: dal momento che l’individuo
umano è contraddistinto dalla finitezza, la quale implica che la sfera del volere è molto più
ampia di quella del potere, l’uomo si costruisce una divinità in cui tutti i suoi desideri
appaiono realizzati.
Se è vero che l’antropologia costituisce il “nucleo segreto della teologia”, l’uomo deve
riconoscere che non c’è nessun dio (ateismo) e ciò implica l’impegno attivo per riconquistare
la posizione dalla quale egli è decaduto a causa di se stesso, recuperando tutte le qualità
essenziali cedute a quel fantasma di sé che è dio. Il tramonto del cristianesimo e di ogni
religione segna l’avvento di “una nuova era nella storia del mondo”: l’uomo che ha ripreso il
pieno possesso dei suoi poteri non concepisce più il problema della felicità nell’orizzonte
egoistico della «propria salvezza personale (beatitudine ultraterrena)», bensì in quello
comunitario dell’incivilimento (Bildung).
L’essenza dell’uomo è contenuta soltanto nella comunione, nell’unità dell’uomo con l’uomo
[…] La solitudine è finitezza e limitatezza; la comunione è libertà e infinitudine. L’uomo
considerato per sé stesso è uomo nel senso abituale della parola; l’uomo con l’uomo, ossia
l’unità dell’io e del tu, è dio”
“Lo scopo dei miei scritti, come pure delle mie lezioni, è questo: trasformare gli uomini da
teologi in antropologi, da teofili in filantropi, da candidati dell’al di là in studenti dell’aldiqua,
da camerieri religiosi e politici della monarchia e aristocrazia celeste e terrestre in
autocoscienti cittadini della terra”