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FILOSOFIA 8 MARZO

L’UMANESIMO

In conseguenza della crisi della Scolastica si sviluppa nel Quattrocento un movimento culturale
che presenta un rinnovato interesse per il mondo classico greco-romano, considerato come fonte
e modello di civiltà, in contrapposizione alla cultura medievale, sentita come un periodo di
decadenza. Tale epoca storica è il Rinascimento, evidente nelle città italiane le quali per un verso
si arricchiscono con le attività manifatturiere e dall’altro sviluppano un patrimonio culturale.

Negli ultimi decenni l’Umanesimo moderno è stato oggetto di numerose dispute e prese di
posizione. Generalmente i manuali tematizzano il concetto di umanesimo come una riscoperta
del valore dell’uomo e della sua centralità, anche rispetto alla relazione col divino che aveva
assunto un significato centrale nell’epoca medievale. C’è, dunque, una riconfigurazione dei
rapporti dell’umano rispetto al mondo e al cosmo. Tale riscoperta riguardante il valore dell’uomo
comporta una rivalutazione della sua natura mondana, cioè l’essere inserito in un contesto sia
naturale sia storico. L’Umanesimo, quindi, indica un riorientamento dell’interesse filosofico,
culturale, artistico e letterario; ma si caratterizza principalmente per il rifiuto della cultura
medievale. Altro carattere dell’Umanesimo è il recupero dei testi classici, giunti in Occidente e
conservati grazie alla cultura ecclesiastica. Tuttavia, se quest’ultima da un lato aveva contribuito a
selezionare e conservare le grandi opere filosofiche dell’antichità, dall’altro le avevano rinchiuse in
una gabbia interpretativa imposta dall’ortodossia cristiana. Il tentativo degli umanisti è quello di
recuperare un rapporto autentico con questi testi di tradizione greca e classica, che miri a
ristabilire la purezza e l’originalità dei testi smascherando le alterazioni che la tradizione ha
inserito nella catena della trasmissione. L’approccio alla cultura classica è dunque un approccio
filologico. La filologia come scienza storica nasce proprio da uno sforzo polemico di recupero
dell’antico che vuole smascherare delle alterazioni che la cultura medievale ha inserito nella
recezione di quest’ultimo. C’è dunque una nascita del senso storico, su cui insiste in particolar
modo lo studioso Eugenio Garin, che percepisce la differenza che intercorre tra il presente e il
passato. Lo studio dei classici diventa in tal modo lo strumento grazie al quale gli umanisti si
rendono conto che le civiltà e la cultura stessa sono sottoposti al tempo, secondo una concezione
in qui la storia rappresenta l’evoluzione delle cose umane. Proprio nell’ambito dell’umanismo
nasce quella cultura storica che poi andrà affermandosi in Occidente e che era estranea alla
sensibilità medievale, la quale vedeva la storia sotto il segno della teologia.
L’altro grande tema della filosofia moderna è caratterizzato dalla conoscenza e dal metodo per
conoscere. La conoscenza diventa problema di sé stessa, al contrario della cultura medievale in
cui la conoscenza era solo interpretazione di verità già date, contenute nella parola di Dio. In
epoca moderna sorge quindi il problema nello strumento per poter giungere alla verità,
rappresentato dall’intelletto. Si tratta di un problema radicato nel soggetto stesso, di cui aveva
già parlato Agostino seppur in ambito teologico. Il problema della verità è il motivo delle critiche
novecentesche, tra le quali spicca quella di Martin Heidegger che nella Lettera sull’Umanesimo
ritiene di non poter identificare la propria filosofia con un nuovo umanesimo, che è da
abbandonare. Per Heidegger, l’uomo non è il signore dell’ente ma deve essere pastore dell’essere,
in quanto l’antropocentrismo trionfalistico è solo volontà di dominio del soggetto sul mondo,
dell’esserci sull’ente. L’assunto dell’Umanesimo come antropocentrismo trionfalistico è in realtà
inadeguato, in quanto l’insistenza sulla centralità dell’umano va ricercata in una sorta di
inquietudine di fondo. Il venir meno dell’ordine tradizionale non causa un’affermazione positiva
del soggetto come dominante, ma investe l’uomo del compito e della responsabilità di edificare
un nuovo ordine. Di conseguenza, la sua centralità è il risultato dell’avvertimento di un’assenza di
fondamento, cioè il ritirarsi dell’ordine che era proprio della cultura medievale.

La centralità dell’umano che si scaglia contro un fondamento negativo è ben espressa dalle
posizioni filosofiche di Niccolò Cusano, Pico della Mirandola e Copernico.

Niccolò Cusano
Niccolò Cusano mostra un particolare interesse per i problemi di ordine religioso. Difatti, egli
elaborò uno dei sistemi di pensiero più complessi e articolati del 400, in cui si tende alla ricerca di
un punto di incontro tra le differenti fedi religiose. Durante la sua vita, percorse la carriera
ecclesiastica fino a diventare cardinale e fu partecipe di una delle vicende più significative che
caratterizzarono la Chiesa del suo tempo. Partecipò al Concilio di Basilea per fare chiarezza sui
rapporti tra pontefice e Concilio. Egli dapprima decide di schierarsi con la Chiesa, poi ribalta
completamente questa posizione affermando che il pontefice riassume nell’unità della propria
persona la molteplicità del corpo ecclesiale, mentre la Chiesa costituisce l’esplicazione di Dio nella
molteplicità dei fedeli.
La conoscenza
Cusano istituisce il lessico filosofico dell’Umanesimo, ma è ancora del tutto immerso in una
scolastica di tipo medievale. Il suo armamentario filosofico è costituito dalla tradizione
neoplatonica, la quale non si era mai interrotta grazie alla grande opera di mediazione di
Agostino.

Il punto di partenza della dottrina di Cusano è l’affermazione che la conoscenza umana procede
secondo un modello matematico, stabilendo una proporzione tra ciò che è noto e ciò che è
ignoto. Cusano propone un concetto già noto, elaborato dal neoplatonismo medievale: il
concetto di dotta ignoranza. Tale dottrina viene esposta nella sua opera De docta ignorantia, che
come il titolo suggerisce indica l’atteggiamento che l’uomo deve assumere di fronte a Dio, che è
oltre la possibilità del conoscere razionale in quanto i rapporti proporzionali possono instaurarsi
solamente dove si ha a che fare con un materiale finito. L’infinità di Dio porta Cusano a sostenere
che nulla si trova al di fuori di lui e che dunque anche gli opposti sono in Lui compresenti: Dio
viene concepito pertanto come coincidentia oppositorum, cioè unione dei contrari. In Lui luce e
tenebre, bianco e nero, sostanza e non sostanza sono identici. Il principio di identità e non
contraddizione quindi valgono solo per il mondo finito dei concetti. L’uomo, infatti, non è in grado
di avere una conoscenza assoluta neppure delle cose create soltanto da Dio, ma può conoscere
adeguatamente solo quegli enti di ragione che egli stesso crea -come avviene ad esempio nella
matematica- che imita l’opera creatrice di Dio. Tuttavia, l’uomo deve essere consapevole che
l’oggetto della sua conoscenza è una congettura, ovvero non può attingere perfettamente la
realtà ma esprime soltanto il modo umano di rappresentarsi le cose.

Dio e il mondo

Per spiegare i rapporti tra Dio e il mondo, Cusano ricorre ai concetti di complicazione ed
esplicazione in chiave metafisico-teologica: in quanto infinito, Dio è la complicatio di ogni realtà.
Egli è l’essere di tutte le cose, in quanto in Dio tutte le cose ritornano nella loro unità. D’altra
parte, Dio è anche l’explicatio dell’unità divina in una molteplicità di enti particolari. Il rapporto tra
Dio e il mondo può quindi essere espresso attraverso la nozione di contrazione, che indica Dio
come un macrocosmo che si individualizza nel microcosmo umano. Poiché Dio concentra in sé
tutte le realtà che nell’universo si esplicano individualmente, egli può essere concepito come
l’unità contratta nella molteplicità del mondo. Cusano, tuttavia, vuole evitare qualsiasi forma di
panteismo precisando che negando la conoscibilità razionale di Dio, si può sapere non ciò che Dio
è, ma solo ciò che non è.

Riconoscendo dunque i limiti della conoscenza umana non si ha una rinuncia a cogliere il
fondamento del cosmo o un rifugio mistico tipicamente medievale ma si instaura un nuovo
atteggiamento che diventa evidente proprio a partire da Cusano: si dischiude un nuovo orizzonte
di ricerca e di possibilità conoscitive che parte da una nuova valutazione della realtà concreta.
Quest’ultima diventa simbolo del divino, cioè il modo attraverso il quale il divino si è manifestato.
Cusano insiste proprio sull’aspetto della continuità dell’essere: se Dio è al di là della conoscenza
umana, esiste un altro modo per giungervi, dato dalla realtà fisica e sensibile, da ciò che i sensi ci
restituiscono e da ciò che la natura ci offre (natura come espressione di Dio).
Il neoplatonismo fiorentino: Marsilio Ficino

Mentre Cusano è esponente di una cultura filosofica legata all’ambiente ecclesiastico


internazionale, Marsilio Ficino rappresenta il passaggio dall’intellettuale impegnato nel contesto
civile e politico a uno studioso contemplativo finanziato dalla corte a cui si aggrega.

Egli fu sempre in stretto rapporto con la famiglia Medici, grazie alla quale poté dare vita a
un’Accademia platonica, punto di riferimento per intellettuali e poeti e centro di diffusione per la
tradizione platonica rivisitata in senso cristiano.

Ficino vede la riflessione filosofica come un processo unitario riconducibile a una rivelazione di
Dio. Egli interpreta tutta la filosofia platonica, neoplatonica e cristiana su una linea unitaria e
progressiva: tutto per Ficino è un modo di rivelarsi di Dio.

Quest’ultimo non si è rivelato solo nelle Sacre Scritture ma anche negli scritti di Platone. È ciò che
il filosofo definisce Prisca theologia, ovvero quella tradizione che include anche quelle
testimonianze non direttamente riconducibili alla tradizione cristiana.

Non è un tema del tutto originale perché già i Padri della Chiesa avevano tentato di conciliare la
sapienza greca e la rivelazione cristiana, ma Ficino raccoglie e radicalizza questo problema.

La natura come opera d’arte e il valore simbolico del bello

La sua riflessione filosofica si estende anche alla considerazione della natura e dell’arte: il mondo
appare a Ficino come una grande opera d’arte di cui Dio è l’autore.

Secondo Ficino, ogni cosa nell’universo ci rivela la divina sapienza che non solo organizza il
mondo ma lo rende orientato a un ideale di armonia e perfezione. Di conseguenza, l’universo è
un’opera d’arte capace di rivelarci la potenza di Dio ed è espressione della perfezione divina che
regna in tutto. L’intero universo è disposto secondo una gerarchia dove l’inferiore trova il proprio
valore in ciò che lo sovrasta: il mondo dei corpi terrestri è segno del mondo celeste e quest’ultimo
è segno del mondo angelico e cosi via. Il bello sensibile del mondo costituisce per Ficino uno
stimolo per l’anima umana che è indotta a risalire al regno celeste.
L’artista come alter deus

È attraverso la potenza di Dio che si rivela quella condizione dell’uomo che viene visto come un
alter deus. Secondo Ficino, l’artista è come un alter deus, che non solo pone i prodotti della natura
al suo servizio ma li sottomette al proprio disegno creativo.

Ma se l’artista sa leggere nell’universo la presenza del divino, egli tuttavia riesce a rappresentare
solo un’apparenza di vita e non la vita stessa che rimane imprigionata in una tela dipinta o in una
scultura. Questo limite è superato dalla musica che attraverso il numero rappresenta l’ordine
razionale dell’universo e attraverso il movimento esprime la vita dello stesso universo. Nella
musica, l’amore terrestre si trasforma in amore celeste che spinge l’uomo a Dio. La musica è
dunque animata da un divino furore.

Furor divino e poesia

Secondo Ficino, la poesia è quella che più esprime la prossimità di Dio all’uomo, il quale ha dato
vita alle cose semplicemente nominandole. Viene cosi ripresa l’idea celebrata nel Fedro platonico
che il genio poetico dipenda da un furor, grazie al quale Dio trasporta il poeta come un
sonnambulo in una contemplazione che trasforma le sue visioni in sogni. Ficino associa allo stato
di furor divino un temperamento malinconico che è il segno distintivo dei filosofi e dei poeti. Tale
associazione si realizza attraverso la dottrina secondo la quale la malinconia è sottoposta
all’influsso di Saturno che è il simbolo della contemplazione divina. Esso è nemico di ogni vita
terrestre e genera depressione, inerzia e desiderio di morire. È perciò fonte di infelicità ma al
tempo stesso di genio. La malinconia è pertanto sia un male che un dono: inducendo l’anima a
staccarsi dalle apparenze, la predispone ad essere invasa dal furor divino che la salva dai tormenti
interiori che genera lo stesso Saturno. Il suo influsso non deve essere ostacolato: solo
nell’abbandonarsi ad esso risiede la possibilità di innalzarsi a un’esistenza superiore.

Secondo Ficino, le correnti aristoteliche che si sono ispirate ad Averroè sanciscono la mortalità
dell’anima contemporanea a quella del corpo. Al contrario, Platone aveva già distinto le due
sostanze, concedendo all’anima una vita separata e indipendente dal destino del corpo. A questa
concezione aderisce Ficino, che in polemica con Aristotele, esalta la dottrina platonica
interpretandola come propedeutica alla fede cristiana. Il fatto che l’anima ascenda e discenda
attraverso una gerarchia che va dalla materia a Dio, prova la sua capacità di muoversi e di essere
immortale. La funzione unificatrice dell’anima è resa possibile dall’amore, inteso come
movimento circolare attraverso il quale Dio si disperde nel mondo a causa della sua bontà infinita
per poi produrre nuovamente negli uomini il desiderio di ricongiungersi a lui. L’amore di cui parla
Ficino è l’eros di Platone che per l’antico filosofo greco svolgeva la funzione di tramite fra il mondo
sensibile e quello intelligibile, ma Ficino lo intende anche in senso cristiano in quanto non è
attribuito solo all’uomo ma anche a Dio.

Il neoplatonismo fiorentino: Pico della Mirandola


La filosofia di Pico della Mirandola prende le mosse dal tentativo di realizzare una concordia
filosofica, all’interno della quale ciascuna tradizione può essere considerata come depositaria di
una parte di verità. Il progresso culturale è dunque reso possibile dalle diverse scuole di pensiero
che non si contraddicono ma si integrano le une con le altre. Il grande progetto culturale di Pico
avrebbe dovuto concretarsi in una sorta di «congresso» nel quale intellettuali di ogni formazione e
provenienza si sarebbero confrontati in un dibattito su novecento tesi che egli stesso aveva
catalogato desumendole dalle filosofie di cui era a conoscenza. Il progetto non ebbe realizzazione
poiché Pico fu condannato per eresia e poi fu assolto e richiamato a Firenze da Lorenzo De
Medici. Pico comunque sviluppò autonomamente gli argomenti proposti nelle novecento tesi, ma
i risultati di questo lavoro videro la luce soltanto nelle Conclusiones apparse dopo la morte del loro
autore. Durante la vita di Pico fu invece pubblicata l’Orazione sulla dignità dell’uomo, in cui
vengono celebrate le capacità di autodeterminazione dell’uomo, cioè quelle facoltà intellettuali
che lo conducono a scegliere liberamente tra più o meno nobili generi di vita. A differenza di
Ficino che aveva tracciato le linee di una storia del progresso intellettuale grazie alla rivelazione
cristiana e la filosofia, Pico intende porre rilievo come l’avanzamento culturale dell’umanità sia
reso possibile dal continuo succedersi di scuole di pensiero che, nelle loro differenze, non si
contraddicono, ma si integrano l’una con l’altra. Su questo fondamento si realizza la pace
filosofica alla quale l’umanità deve aspirare. Sempre nella prospettiva della capacità dell’uomo di
autodeterminarsi, Pico della Mirandola opera una netta distinzione tra l’astrologia e la magia, che
la cultura del tempo tendeva ad accomunare in un unico giudizio positivo. Nel pensiero
rinascimentale – come ad esempio in Ficino – le due pratiche sono considerate non già
manifestazioni di superstizione, ma tecniche pienamente legittime, rivolte o allo studio
dell’ordine naturale (nel caso dell’astrologia) o alla realizzazione del dominio dell’uomo sulla
natura (nel caso della magia). Pico invece considera l’astrologia una dottrina che limita
pericolosamente la libertà dell’uomo, ricercando le cause del suo agire in fattori indipendenti dalla
volontà umana. Al contrario la magia, intesa tradizionalmente come capacità di controllo della
natura da parte dell’uomo, non inficia minimamente l’autodeterminazione dell’essere umano e
può quindi essere pienamente giustificata. Allo stesso modo, come tecnica per indagare il
significato recondito della Sacra Scrittura, è legittima la «cabala», cioè l’antica dottrina esoterica
ebraica che, stabilendo una corrispondenza tra lettere e numeri, consentirebbe di passare da una
composizione in lettere di un testo scritturale a una composizione numerica, e poi da questa a una
nuova composizione in lettere nella quale risiederebbe il significato occulto.
Pico della Mirandola si differenzia da Marsilio Ficino anche perché rivela una grande attenzione
alla ricostruzione storico-filosofica, la quale più che a restituire la verità ai fatti badava a
dimostrare l’unione tra platonismo e filosofia. Secondo Pico, una più precisa consapevolezza
storica e una più fedele analisi della dottrina platonica rivelano l’impossibilità di essere un vero
platonico rimanendo nel contempo un buon cristiano. Questo atteggiamento di Pico si manifesta
chiaramente nel diverso modo in cui egli concepisce la dottrina platonica dell’amore. Se si vuole
essere fedeli a Platone occorre concepire l’amore come desiderio di bellezza, come desiderio di
ciò di cui si manca. Ma la divinità, se può essere oggetto d’amore, non può esserne soggetto,
poiché essa non è manchevole di nulla: viene così a cadere la reciprocità amorosa tra Creatore e
creatura ammessa da Ficino. Per di più non è neppure possibile riferire alla divinità l’attributo della
bellezza: essa è l’unione di parti differenti. Un cristiano non può né riconoscere una
manchevolezza nel suo Dio, né attribuirgli una natura composta di parti, non è dunque possibile
essere insieme cristiani e platonici. Se la conciliazione e l’integrazione tra filosofia (platonica) e
religione costituivano uno dei nuclei fondamentali del pensiero di Ficino, per Pico della Mirandola
è possibile realizzare la concordia tra le diverse filosofie, mentre è impossibile il divario tra
filosofia e religione.

Commento sul brano di Pico della Mirandola

Il Discorso sulla dignità dell’uomo è un’opera del 1486 scritta da Pico della Mirandola come
un’introduzione alla disputa romana organizzata dall’autore stesso per discutere le sue Novecento
tesi. Si trattava si un’ambiziosa iniziativa culturale poiché queste tesi spaziavano attraverso
l’intero scibile umano dell’epoca, dai tempi antichi fino alla sua epoca rinascimentale. Questa
disputa, a cui avrebbero dovuto partecipare eruditi provenienti da tutto il mondo non avvenne
mai e Pico rischiò di essere condannato per eresia finché non fu assolto e richiamato a Firenze da
Lorenzo de’ Medici. L’autore parte dalla dignità dell’uomo ciceroniana, ovvero come ragion
d’essere per tutto il creato, attingendo poi al neoplatonismo e al Corpus hermeticum. L’oratio
riassume bene le somiglianze e le differenze dell’autore dalla cultura umanistica a lui
contemporanea: l’interlocutore è Marsilio Ficino, anch’egli esponente dell’umanesimo. Pico,
tuttavia, si distacca dal pensiero di Ficino sulla definizione di prisca theologia, dottrina nata a
Firenze nel tardo XV secolo che ritiene che esiste un’unica vera teologia che attraversi tutte le
religioni e che fu donata da Dio all’uomo nei tempi antichi. Al centro del suo ideale di concordia
universale risalta fortemente il tema della dignità e della libertà umana. La centralità e peculiarità
dell’uomo, messa subito in evidenza all’inizio dell’opera, la rende un vero e proprio manifesto
dell’Umanesimo. L’autore parte dalla creazione dell’universo affermando che Dio dopo aver
creato il mondo ha stabilito l’ordine delle cose, poi ha sentito il bisogno di una creatura che fosse
in grado di comprendere la ragione delle cose, di godere della loro bellezza, di ammirare la
grandiosità di un’opera meravigliosa. Per questo ha creato l’uomo che a differenza del mondo
creato è già dotato di una struttura definita, mentre l’uomo viene è un’opera di natura non
definita. La peculiarità dell’uomo sembra quindi quella di possedere il libero arbitrio: senza una
natura ben definita e quindi senza leggi fissate, l’uomo è padrone del proprio destino e diventa
scultore e modellatore di se stesso. Di conseguenza, l’uomo può decidere cosa essere secondo il
principio di auto-determinazione. Può quindi degenerare negli esseri inferiori come gli animali
bruti oppure potrà essere rigenerato negli esseri superiori come le creature divine. A differenza
degli animali, il cui destino è scritto dalla nascita, l’uomo è messo al pari delle creature supreme e
può decidere da solo la propria sorte per l’eternità. Tuttavia, tale capacità dà origine a un
fondamento negativo, in quanto la dignità dell’uomo si basa solo sull’assenza di determinazione.
Se ogni creatura ha una sua collocazione, l’uomo è spaesato nel mondo. L’esigenza dell’uomo di
creare, di dominare e di dare forma deriva dal fatto che questa forma non gli appartiene, essendo
privo di natura determinante. L’assunto dell’Umanesimo come antropocentrismo trionfalistico è
in realtà inadeguato, in quanto l’insistenza sulla centralità dell’umano va ricercata in una sorta di
inquietudine di fondo. Il venir meno dell’ordine tradizionale non causa un’affermazione positiva
del soggetto come dominante, ma investe l’uomo del compito e della responsabilità di edificare
un nuovo ordine. Di conseguenza, la sua centralità è il risultato dell’avvertimento di un’assenza di
fondamento, cioè il ritirarsi dell’ordine che era proprio della cultura medievale.

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