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SCHOPENHAUER

L'AUTORE E LA SUA OPERA


Arthur Schopenhauer nasce nel 1788 a Danzica. Studia Platone e Kant all'università.
Legge alcuni testi della tradizione filosofico-religiosa indiana, che influenzano il suo
pensiero. Nel 1919 esce la sua opera principale: Il mondo come volontà e
rappresentazione.
Schopenhauer diventa docente a Berlino, ma entra in competizione con Hegel e
subisce diversi insuccessi nell'attività accademica.

SCHOPENHAUER E KANT
Schopenhauer riprende da Kant la distinzione tra fenomeno e noumeno (ovvero la
cosa in sé): in quanto ogni nostra conoscenza non è mai una conoscenza del mondo
in sé stesso (il noumeno), ma piuttosto del mondo così come esso ci appare (il
fenomeno), filtrato attraverso le forme a priori della sensibilità e dell'intelletto. Ciò
che conosciamo, pertanto, è sempre una nostra «rappresentazione» del mondo.
Le forme a priori kantiane della conoscenza per Schopenhauer si riducono cosi a tre:
spazio, tempo ma soprattutto quella della causalità.
Allontanandosi da Kant, Schopenhauer afferma che il mondo fenomenico, cioè il
mondo «come rappresentazione», è pura apparenza. Egli ritiene che la dimensione
fenomenica sia come il «velo di Maya» citato nella filosofia indiana, cioè una realtà
ingannevole e illusoria dietro la quale si nasconde la realtà autentica, quella
noumenica.
Infatti se noi viviamo in un mondo che è solo una rappresentazione allora viviamo in
un mondo di illusioni, ovvero tutto è coperto dal velo di Maya (divinità orientale) e
per questo motivo non conosciamo la realtà.
Per Schopenhauer, il noumeno non è inconoscibile come pensava Kant, ma è
raggiungibile attraverso l'esperienza corporea. Infatti per Schopenhauer il corpo è
l’unico in grado di strappare il velo di Maya.
Questo è possibile perché il corpo, pur essendo un fenomeno tra i fenomeni (perché è
percepito dagli altri e rappresentato attraverso spazio tempo e causalità), gode di uno
statuto particolare; grazie all'autocoscienza, infatti, l'uomo riconosce di avere una
volontà, che si realizza nei movimenti corporei.
Gli atti della volontà non causano e non precedono i movimenti del corpo, sono
simultanei e contemporanei.
Il corpo, per Schopenhauer, è dunque la manifestazione visibile di una forza invisibile
che è la volontà, la quale si rivela come la nostra più profonda essenza e coincide con
il noumeno.

LA VOLONTÀ E IL PESSIMISMO
Per Schopenhauer, la volontà umana è la manifestazione di un'unica volontà di vivere
che anima tutto ciò che esiste e costituisce il principio metafisico dell'intera realtà.
es: gli uomini sono rappresentazioni della stessa volontà, per questo non possono
smettere di respirare.
Malgrado essa non sia conoscibile attraverso l'intelletto, è possibile tratteggiarne
alcune caratteristiche, sia a partire dall'esperienza della nostra volontà, sia osservando
i suoi effetti visibili nell'universo. Nel mondo animale, ad esempio, la volontà di
vivere si manifesta come istinto inconsapevole volto alla conservazione individuale o
della specie. ——> es: formica leone
La volontà di vivere è unica e universale e si esprime, nelle sue diverse
manifestazioni fenomeniche attraverso le idee, che sono le espressioni di tutte le
forme concrete che essa può assumere.
La volontà, secondo Schopenhauer, non è vincolata dalle leggi che valgono per i
fenomeni e sfugge anche alla categoria di causa; essa è una forza irrazionale e cieca
che tende esclusivamente a conservare e affermare sé stessa. Nel mondo questo si
traduce in un'eterna lotta per la sopravvivenza, che tutti gli esseri combattono gli uni
contro gli altri. La concezione del mondo di Schopenhauer è dunque una visione
profondamente pessimistica, secondo cui tutte le creature sono condannate a vivere
nel dolore.
Nell'uomo, che è cosciente di questa condizione, la lotta per conservare sé stesso
genera uno sforzo continuo per appagare i propri desideri. La gratificazione che si
prova quando si raggiunge un obiettivo, però, è soltanto momentanea. Presto il
piacere per aver soddisfatto il desiderio scompare e gradualmente si trasforma in
noia, fino a quando non compare un altro desiderio.
Per questo Schopenhauer afferma che la vita è un «pendolo tra dolore e noia».
Ogni volere proviene da un bisogno, cioè da una mancanza, da una sofferenza. La
soddisfazione vi mette un termine; ma per un desiderio che viene soddisfatto, ce ne
sono almeno altri dieci ancora da soddisfare; per di più, ogni forma di desiderio
sembra non aver mai fine e le esigenze tendono all’infinito: quindi la soddisfazione è
breve. Nessun desiderio realizzato può dare una soddisfazione duratura e inalterabile.
Ma supponiamo per un momento che alla volontà venisse soddisfatto un desiderio:
subito la volontà cadrebbe nel vuoto spaventoso della noia. Dunque la vita oscilla,
come un pendolo, fra il dolore (causato dai desiderio inappagati) e la noia (che si
genera quando i desideri sono soddisfatti).
Nella sua prospettiva, la storia non mostra un cammino di progresso, ma il ripetersi
sempre uguale delle stesse tragedie.

LE VIE DELLA LIBERAZIONE DAL DOLORE


Schopenhauer rifiuta la possibilità del suicidio, perché ritiene che questo sia il gesto
estremo di chi vuole la vita ma non ne tollera il dolore e si lascia sovrastare
completamente dalla volontà. L'unico modo per liberarsi dalla sofferenza è smettere
di volere, intraprendendo un percorso che passa attraverso l'arte e l'etica per
raggiungere poi l'ascesi.
L'arte, per Schopenhauer, è una forma di conoscenza superiore rispetto alla scienza,
poiché si dirige verso la realtà autentica, la cosa in sé, senza altro scopo che la
contemplazione. La percezione estetica svincola l'oggetto contemplato dalla
dimensione spazio-temporale e lo sottrae al principio di causalità, consentendoci di
entrare in contatto con il mondo delle idee. L'arte può annullare la volontà,
cancellando il dolore e la tensione del desiderio, ma il suo effetto è soltanto
temporaneo: appena l'esperienza contemplativa finisce torniamo alla quotidianità.
L'etica può offrire un rimedio contro la volontà più duraturo rispetto all'arte.
Discostandosi dalla teoria morale di Kant, Schopenhauer afferma che l'uomo non è
libero, poiché soltanto la volontà lo è. L'atteggiamento etico non ha dunque origine
dall'uso razionale della propria libertà, ma si genera a partire dalla compassione.
Vedendo negli altri la stessa sofferenza che caratterizza tutti i viventi, noi
riconosciamo che le altre persone non sono soltanto fenomeni, ma sono anch'esse
volontà, cioè sono del tutto simili a noi. Questo ci spinge a esercitare la giustizia, che
pone un freno all'affermazione della propria volontà, e la carità, cioè l'amore
disinteressato verso l'altro.
Per giungere alla liberazione completa dal dolore dell'esistenza, è necessario che la
negazione della volontà di vivere sia totale. Occorre dunque superare anche il livello
dell'etica e trasformare la voluntas in noluntas, ossia nell'assenza completa di volontà,
Ciò è possibile soltanto nell'ascesi, uno stato di estasi in cui la propria personalità
viene del tutto annullata.

Kierkegaard

Seren Kierkegaard nasce nel 1813 a Copenaghen. Vive un'infanzia e una giovinezza
malinconiche, a causa di una severa educazione religiosa e di numerosi lutti familiari.
Kierkegaard era convinto che un castigo divino si fosse abbattuto sulla sua famiglia.
Era persuaso che il padre avesse commesso una colpa e che tutta la famiglia fosse
destinata a vivere per espiare questa colpa: potrebbe trattarsi di un peccato di
blasfemia oppure la colpa potrebbe consistere nel rapporto del padre con la
domestica.
Dopo essersi formato come pastore protestante ed essersi fidanzato con Regine
Olsen, rinuncia improvvisamente sia al matrimonio sia alla carriera ecclesiale. Da
allora conduce una vita ritirata, dedicandosi alla riflessione filosofica e alla scrittura.
Le numerose opere di Kierkegaard possono essere suddivise in tre gruppi:
- le annotazioni personali e il suo Diario;
- gli scritti di carattere religioso;
- le opere filosofiche.
Per Kierkegaard l'attività di scrittura coincide con la vita stessa. Per questo motivo,
egli ricorre spesso a generi appartenenti all'ambito narrativo (come il diario, la lettera
o la confessione), che gli permettono di parlare in prima persona. Kierkegaard firma
le sue opere filosofiche con diversi eteronomi, ma non per nascondersi dietro
un'identità fasulla, bensì per assumere ogni volta una personalità precisa, coerente
con i contenuti trattati.
Per Kierkegaard la categoria fondamentale è quella della scelta, in quanto definisce la
singolarità degli uomini. Per Kierkegaard più scelte abbiamo e più ne sentiamo il
peso, per questo motivo le scelte sono una condanna che schiacciano l’uomo.
L’unico modo per uscire da questo circolo è la fede——> es Gesù sulla croce:” Dio
mio perché mi hai abbandonato”, Gesù è diventato talmente uomo che non capisce il
motivo della sua sofferenza. Per questo il Dio del cristianesimo è uno scandalo,
poiché il dio cristiano porta il nonsenso. Gesù stesso perde la fede sulla croce e in
quel momento ci salva poiché dimostra come Dio stesso (ovvero Gesù) non
comprende il mondo con la sua sofferenza, capendo in questo modo il nonsenso della
fede.
La fede di Kierkegaard è la fede che comprende l’uomo e la sua angoscia dell’ignoto
(dovuta dalle troppe scelte e possibilità).

Kierkegaard intende l'attività filosofica in una maniera nuova rispetto ai filosofi della
sua epoca, cioè come un impegno di ricerca personale. Per Kierkegaard non c’è
differenza inoltre tra la filosofia e la realtà.
Kierkegaard critica Hegel dicendo:”non bisogna costruire grandi castelli e poi andare
a vivere nelle capanne”. Con questa frase Kierkegaard intendeva dire che gli uomini
devono “abitare” nei loro pensieri e sottolinea come il singolo non si può mai
spiegare e unire nell’universale, come diceva Hegel.
es: Edipo ——> Edipo sa chi è l’uomo (perché ha risolto l’indovinello) ma non sa chi
è lui come persona, per questo motivo il singolo non si capirà mai e sarà sempre
irriducibile all’universale.
Kierkegaard si occupa del singolo, del particolare, dell’esistenza e per questo motivo
sulla sua tomba c’era scritto “quel singolo”.

La verità per Kierkegaard non è mai assoluta, ma è sempre una verità-per-qualcuno,


ovvero è l'espressione della ricerca compiuta da un singolo individuo. La
comunicazione filosofica diventa allora una «comunicazione d'esistenza», uno
scambio personale tra il parlante e il suo interlocutore.

Secondo Kierkegaard esistono tre possibilità esistenziali, cioè tre forme di esistenza
che l'essere umano può adottare: la vita estetica, la vita etica e la vita religiosa.
La vita estetica è l'esistenza di chi è continuamente teso alla ricerca della bellezza e
del piacere. E personificata nella figura del seduttore, come il Don Giovanni
protagonista dell'opera di Mozart (per parlarci della categoria lui parla del singolo).
L'esteta vive inseguendo il godimento immediato, senza chiedersi se le proprie azioni
siano buone. Rincorrendo sempre nuove passioni, la vita estetica si riduce al ripetersi
dell'identico nel diverso, e pertanto può generare noia. L'esteta, inoltre, non decide
mai chi essere, lasciando che siano gli eventi esterni a determinare la sua storia
personale. A causa di questa perdita di identità, la noia può trasformarsi in
disperazione. Inoltre il Don Giovanni non è libero come crede di essere perché non
sceglie mai ma è lui scelto e dominato dalla passione.
Un altro paradigma della vita estetica è il diario del seduttore: ovvero un uomo che
seduce per tutta la vita la stessa donna, ma anche questo tipo di vita porta alla noia. Il
seduttore singolo preferisce l’attesa e il desiderio.

Nella disperazione, il singolo ha la possibilità di fare una scelta e compiere il «salto»


verso una possibilità esistenziale completamente diversa: la vita etica. Questa è
rappresentata da Kierkegaard nel personaggio del giudice Wilhelm, marito fedele e
funzionario dello Stato, capace di farsi carico della responsabilità nei confronti del
matrimonio e del proprio lavoro. Secondo Kierkegaard, l'uomo etico è libero, perché
si autodetermina e decide di restare fedele alle scelte fatte.
Inoltre il giudice amando la moglie come azione e non come passione è libero.
Nello stadio etico, tuttavia, l'individuo corre il rischio dell'omologazione e
dell'annientamento di sé. Spesso, inoltre, il tentativo di rispettare tutte le leggi della
morale e quelle dello Stato fa sentire l’individuo inadeguato poiché vuole raggiungere
la perfezione. Per questo motivo cade nella disperazione perché vede tutte le possibili
scelte ma per raggiungere la perfezione non può cadere in tentazione.
La via d'uscita è, ancora una volta, la scelta di un diverso tipo di esistenza: quella
religiosa.
La vita religiosa consiste nell'affidarsi totalmente a Dio ed è esemplificata dalla
figura di Abramo. Secondo la Bibbia, Abramo riceve da Dio la richiesta di sacrificare
il suo unico figlio, Isacco. Egli decide di fare la volontà di Dio, anche se questa è in
conflitto con le leggi umane e i valori etici, compiendo un atto di fede. Come quella
di Abramo, anche la scelta di una vita religiosa è una scelta di solitudine, che si
realizza nel rapporto personale del singolo con Dio.
Quando si confronta con le molteplici possibilità e scelte offerte dal mondo e con
l'incertezza della scelta di affidarsi a Dio, l'uomo religioso prova angoscia. Per
Kierkegaard, questo sentimento testimonia il fatto che siamo liberi, poiché è il
risultato della possibilità dell'uomo di peccare, quando non c'è alcuna certezza che la
sua scelta possa salvarlo o dannarlo.

DISPERAZIONE: riguarda il rapporto dell’uomo con se stesso —> stadio estetico e


etico.
ANGOSCIA: riguarda il rapporto dell’uomo con il mondo è con le possibilità che
questo gli offre —> stadio religioso
L’angoscia è la prova della nostra libertà

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