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Leopardi: le tante facce del Poeta ottocentesco

Introduzione​: Giacomo Leopardi, nato nel 1798 a Recanati nello Stato Pontificio (oggi in
provincia di Macerata, nelle Marche) da una delle più nobili famiglie del paese, è uno dei
poeti più importanti del XIX e probabilmente tra quelli più controversi. Leopardi è un
bambino prodigio che cresce sotto lo sguardo orgoglioso ed implacabile del padre, il conte
Monaldo, in una casa che è in realtà una biblioteca, in cui la mente infinita di Giacomo cerca
spazio, impara tutto e tutto padroneggia, in una prigione da cui non esce mai, dove l’universo
è fuori, lontano e irraggiungibile. La prigione del poeta la si può intendere sia da un punto di
vista fisico che psicologico e mentale. Probabilmente a causa di questo suo studio nella
biblioteca del padre, l’autore, risulta avere una cultura arcaica e superata, ancora ispirata a
modelli arcadico-illuministici, e segue l’idea di una politica reazionaria del padre (“Agli
Italiani per la liberazione del Piceno” del 1815) esaltando l’ormai vecchio dispotismo
illuminato e paternalistico e cercando di distogliere l’attenzione degli italiani da aspirazioni
patriottiche. Tutta l’opera leopardiana si fonda su di un sistema di idee, attentamente
analizzate e sviluppate dall’autore, il cui processo viene portato alla luce nelle pagine dello
“Zibaldone”, una specie di diario che il poeta ha tenuto aggiornato fino a poco prima della
sua morte e che ci aiuta a comprendere con estrema facilità i cambiamenti del suo pensiero
durante la sua vita. Leopardi è un poeta che mette se stesso e i suoi sentimenti in ogni sua
opera lasciando piena interpretazione al lettore e permettendogli di identificarsi nella poesia.
Proprio a causa dei motivi appena elencati, abbiamo trovato in un primo momento difficoltà a
scegliere il tema di cui trattare e, alla fine, abbiamo scelto di analizzare non un solo aspetto
della sua personalità, ma vari, soffermandoci su elementi del suo pensiero e della sua vita che
più ci sono sembrati significativi: il rapporto di Leopardi con il contesto storico-culturale
dell’epoca, la relazione dell’autore con il nichilismo, la famosa connotazione del poeta come
pessimista ed il confronto tra il suo pensiero e quello del filosofo polacco Schopenhauer.

Leopardi tra Romanticismo e Classicismo

Nel 1818, con il ​Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica​, Leopardi interviene
nella polemica fra Classicisti e Romantici, polemica suscitata da un articolo pubblicato nel
1816 da Madame de Staël sul periodico letterario ​Biblioteca Italiana.​ I Classicisti prendevano
a modello la poesia classica greca e latina ritenendola un esempio di perfezione: erano a
favore di una lingua colta e raffinata basata sulla tradizione e si rivolgevano a un pubblico
ristretto, composto per lo più da letterati. I Romantici, invece, privilegiano l'originalità, sono
interessati agli autori moderni, propongono una lingua di uso comune e si rivolgono a un
pubblico più ampio, di estrazione borghese. Madame de Staël, nel suo articolo ​Sulla maniera
e l'utilità delle traduzioni,​ ​ h​ a criticato i Classicisti per le loro idee antiquate e li ha invitati a
prendere spunto dai moderni poeti inglesi e tedeschi, da letterature nuove e aperte al
cambiamento. A difesa dei Classicisti risponde Pietro Giordani, affermando che i letterati
italiani da secoli imitano i poeti dell'antichità, che per tale motivo hanno raggiunto la
perfezione della bellezza e dell'armonia e quindi non hanno bisogno di altri maestri. Nel
luglio del 1816 Leopardi scrive in proposito una lunga lettera, nella quale precisa che la
necessità di aggiornarsi presso gli stranieri è indispensabile agli scienziati perché le scienze
progrediscono ogni giorno, mentre non è affatto indispensabile per i letterati poiché la
letteratura non può fare progressi. Inoltre Leopardi sostiene, contro la tesi della de Staël, la
necessità per gli autori della penisola di studiare a lungo le opere greche, latine e italiane, e
conclude dicendo di essere contento di appartenere a questa cultura, solo per il modo di
essere della letteratura italiana, che ritiene sia tra tutte la più affine a quelle antiche. Sempre
nel ​Discorso​ Leopardi, che si è schierato a favore dei Classicisti, in quanto gli sembra che
nelle richieste dei Romantici ci siano molte esagerazioni e contraddizioni che vanno corrette,
cerca di rasserenare le sue ansie di contemporaneo e cerca di conciliare in sé il dissidio tra
l’aspirazione alla forma classica e quella passione romantica che ha nel proprio animo. Così
l’autore coglie la contraddizione dei Romantici, i quali pongono sia l’esigenza del vero, che
l’immaginazione dell'uomo. Dunque la poesia deve ‘ingannare’. Leopardi distingue però due
forme di inganno: quella intellettuale e quella fantastica. L’una è quella del filosofo, l’altra è
quella della poesia. Da qui deriva il concetto di legittimità della finzione poetica, purché il
poeta scelga dentro i confini del verosimile. Il poeta ha il compito di ​“illudere, e illudendo
imitar la natura, e imitando la natura dilettare”​ (​Discorso di un italiano intorno alla poesia
romantica)​. Per Leopardi, il poeta deve intrattenere e dare piacere stimolando la facoltà
immaginativa del proprio lettore. La vera poesia deve creare illusioni, perché quest’ultime
sono la forza che sostiene e fa grande la vita. Perciò la sua difesa del classicismo è la difesa di
forme composte e castigate, che egli considera essenziali nella vera poesia, della nostra
grande tradizione letteraria e la necessaria continuità della tradizione artistica, perché l’arte
deve rinnovarsi continuamente, ma non può rinnovarsi veramente rinnegando la tradizione. E
in fondo il Leopardi, rilevando la presenza di motivi o spunti romantici in tutta la poesia
classica, ha voluto suggerire la possibilità di un innesto tra l’antico e il nuovo agli altri ma
soprattutto a se stesso, giacché nella sua poesia mira a conciliare il pathos romantico con la
purezza della forma classica. Leopardi ripropone dunque i classici come modelli, ma in senso
opposto al classicismo accademico, con uno spirito decisamente romantico. Anzi in questa
esaltazione di ciò che è spontaneo, non contaminato dalla ragione, appare più romantico degli
stessi romantici italiani. Si può parlare perciò, per il suo gusto letterario e per la sua poetica,
di un classicismo romantico. L’uomo romantico si sente creatura limitata, riavverte il bisogno
di Dio e sente le sue forze sproporzionate ai propri ideali (da qui il pessimismo, che
caratterizza il pensiero e la poetica di Leopardi). Nonostante Leopardi abbia trascorso
un’infanzia felice, vivace e spensierata insieme ai suoi fratelli minori, le esperienze
dell'adolescenza e della prima giovinezza lo conducono a pensare che la vita sia spietata con
lui, ma che altri possono essere felici (pessimismo personale o soggettivo, detto anche
pessimismo psicologico). Questa contrapposizione emerge, ad esempio, nel canto​ La sera del
dì di festa.​ Le illusioni per il poeta sono favole che svaniscono quando subentra la ragione.
Nel congedo del ​Sabato del villaggio​ Leopardi invita il ​garzoncello scherzoso​ a godere della
sua infanzia e delle sue illusioni.

“Garzoncello scherzoso,

Cotesta età fiorita

E’ come un giorno d’allegrezza pieno,

Giorno chiaro, sereno,

Che precorre alla festa di tua vita.

Godi, fanciullo mio; stato soave,

Stagion lieta è cotesta.

Altro dirti non vò; ma la tua festa


Ch’anco tardi a venir non ti sia grave​.”

Il poeta con gli anni approfondisce la sua riflessione e deduce che la felicità degli altri è solo
apparente, che la vita umana non ha uno scopo per il quale valga la pena di lottare, e che tutti
gli uomini sono condannati all'infelicità terrena. Afferma che gli uomini erano in uno stato
idilliaco solo nell'età primitiva, quando vivevano nello stato di natura, non condizionati cioè
dalla civilizzazione. La ragione fece evolvere l'uomo e rivelò la vanità delle illusioni, scoprì il
male, il dolore e l'angoscia. Nell'ultima fase della sua meditazione il poeta la rivaluta,
considerandola come l'unico bene rimasto agli uomini e che consente loro di conservare la
propria dignità, aiutandoli, con la solidarietà, a vincere o almeno attenuare il dolore.

Leopardi e il pessimismo

Negli anni che vanno all'incirca dal 1817 al 1821 Leopardi affronta il problema per lui molto
angoscioso del perché della propria infelicità individuale e dei caratteri negativi dell'epoca in
cui vive. Accanto a tali questioni, gli si presentano interrogativi sui fondamenti stessi della
sua attività poetica. In queste indagini, egli si serve di strumenti concettuali settecenteschi e
illuministici e si sente estraneo ai miti romantici, allora in auge presso molti intellettuali,
come la razionalità della storia e del progresso, la perfettibilità dell'uomo e della società, la
fede in un'era di felicità per l'uomo. Egli sente piuttosto la contrapposizione radicale fra la
propria età, arida e spenta, e l'età antica, animata da sogni e bellissime immaginazioni, fra la
ragione che ha privato l'uomo moderno delle illusioni e della capacità di aprirsi a generose
passioni e la natura che inizialmente tanta ricchezza gli aveva elargito. Tra le illusioni che
l'umanità ha perduto per effetto del suo stesso progresso civile, fondamentali sono quelle
della felicità e del piacere. La ragione, con il suo freddo insegnamento, ha fatto capire
all'uomo che la felicità (cioè l'infinita tensione al piacere) che insiste in ognuno di noi, non
può essere soddisfatta a causa della limitatezza dell'uomo e della sua precarietà fisica;
pertanto la ragione ci ha chiarito questa terribile verità, che il piacere non ha una consistenza
oggettiva e che dunque non esiste. In questo senso esso assomiglia all'infinito, pura
dimensione mentale. L'infinito non può infatti essere descritto come cosa reale: esso coincide
con il nulla: “​Pare che solamente la negazione dell'essere, il niente, possa essere senza limiti
e che l'infinito venga in sostanza ad essere lo stesso che il nulla​” (​Zibaldone, p.4177​).
Fortunati gli antichi che a queste sconvolgenti verità ancora non erano pervenuti. Per loro,
piacere, entusiasmo, felicità erano concetti saldi. Il processo storico, l'uso della ragione,
l'impegno filosofico e scientifico hanno reso infelice la vita. È questa la fase del pessimismo
leopardiano che, appunto perché fondata sul contrasto tra natura e storia, è chiamata la fase
del pessimismo storico (il male proviene dal divenire storico, non è un fatto di natura). Se
l'ingenua capacità di abbandonarsi ai sogni è l'autentica matrice di ogni poesia, Leopardi
coglie nell'infanzia (sia quella del singolo individuo, sia quella dell'umanità tutta) l'età più
ricca di attitudine poetica. Da qui il valore che egli attribuisce alla rimembranza che consente
nel recupero, sul filo della memoria, di quella favolosa stagione, che è poetica di per sé, quali
che siano i contenuti dei ricordi che la riguardano, anche se tristi, e anche se dura ancora
l'affanno che allora provavamo. Mentre il presente non può essere mai poetico, il passato (o il
futuro) lo è, giacché le cose, filtrate dal ricordo (o dalla speranza), appaiono velate di un
senso di indefinito e di vago, nel quale è l'essenza stessa della poesia. L'età moderna, secondo
Leopardi, non è più capace di produrre una poesia ricca di miti favolosi, non può più creare
una poesia dell'immaginazione; può invece dar vita a una poesia del sentimento, che nasce
dalla riflessione intellettuale sui grandi temi del destino umano, una sorta di poesia filosofica
che, pur non essendo un'attività razionale, scaturisce da un antefatto riflessivo. Il pessimismo
del poeta subì un radicale inasprimento a partire dal suo ritorno a Recanati dopo la deludente
esperienza romana (1823), in concomitanza con l'aggravarsi delle sue malattie. Cadute le
ultime illusioni, ridotto il suo corpo allo stato di ​“troncone ... che sente appena”,​ il poeta
radicalizza il suo pessimismo col passaggio ad una fase caratterizzata da una visione
materialistica e meccanica del mondo. La natura stessa gli appare non più come forza
razionale e provvida verso il genere umano, ma come un apparato fisico-fisiologico
indifferente alle sofferenze delle creature che essa stessa genera, interessato esclusivamente a
perpetuare il proprio ordine attraverso un ciclo perenne di distruzione e di riproduzione.
L'infelicità degli uomini, pertanto, non appartiene ad un determinato periodo della storia, ma
è eterna e assoluta, connaturata al fatto stesso che essi esistono. Si parla, a proposito di queste
fasi del pensiero leopardiano, di un pessimismo universale o cosmico. A questo punto la
ragione, che nella fase precedente era stata considerata responsabile dell'infelicità umana,
viene rivalutata come strumento di chiarimento intellettuale, che consente di far luce sulle
ragioni vere del nostro soffrire e di conoscerne il vero colpevole (la Natura). Il Leopardi,
come ci dice Carmelo Cappuccio nella sua ​Storia della Letteratura italiana,​ non fu un
filosofo, in quanto non tutti i suoi pensieri possono configurarsi in una dottrina filosofica.
Leopardi e la filosofia di Schopenhauer

Nonostante Leopardi non sia un filosofo, la sua visione del mondo è molto vicina al pensiero
di Schopenhauer. Secondo il poeta, i piaceri della vita sono effimeri, e non possono mai
essere posseduti realmente. Come viene detto nello Zibaldone, qualsiasi gioia, una volta
passata, lascia dietro di sé un vuoto che non si colma mai, e che spinge l'individuo a ricercare
altri stimoli e ad inseguire altri desideri. Leopardi chiama quindi il piacere ​“illusione”,
proprio perché esso ci dà la sensazione di possedere una realtà che non raggiungiamo mai, e
alla fine il tutto si traduce in una pura illusione mentale che non porta a nulla. In questa
prospettiva Leopardi è molto vicino alla concezione di Schopenhauer, secondo cui la volontà
dell'uomo genera dolore e delusione, in quanto desidera sempre qualcosa di più di quello che
ottiene: secondo il filosofo tedesco la vita è infatti come un pendolo che oscilla in
continuazione tra la noia e il dolore. Per liberarsi di questo dolore, ci vuole una rottura della
volontà. Il concetto di noia esistenziale è molto presente in tutta la riflessione leopardiana e
può essere descritto come il senso di vuoto che la persona prova dopo aver apparentemente
soddisfatto i propri desideri, e che la porta a ricercare altri stimoli. La grande differenza che si
può trovare tra Leopardi e Schopenhauer consiste nel fatto che il secondo è considerato
pienamente un pessimista (anche a causa delle tre critiche che rivolge verso l’ottimismo
cosmico, sociale e storico), mentre il primo non lo è del tutto. Infatti, per il filosofo l’unica
soluzione possibile per liberarsi dalla sofferenza è l’ascesi, cioè la rinuncia alla volontà di
vivere per raggiungere il ​“Nirvana”​, sopprimendo nell’uomo il dolore e portando alla pace
interiore. Schopenhauer propone anche la ​“pietas” come mezzo di rottura della volontà, in
quanto essa consiste in un amore disinteressato per gli altri uomini. In questo modo, il dolore
del mondo viene condiviso in una sorta di compassione. Questo passaggio, però, non
determina una rottura della volontà, perché rimane sempre all’interno della vita e presuppone
un qualche attaccamento ad essa. Il poeta, invece, ha un pensiero totalmente opposto rispetto
a quello del filosofo. L’uomo infatti può riscattarsi grazie ad un atto di solidarietà nei
confronti degli altri uomini, creando così un legame, che nella ​Ginestra ​viene definito ​“social
catena”,​ che lo aiuti a sopportare meglio le fatiche e i dolori della vita. Per entrambi, però, il
suicidio non viene accettato come mezzo di risoluzione del dolore, in quando per
Schopenhauer non si tratta di una rottura della volontà, quanto di una forte affermazione di
essa, mentre per Leopardi è un atto di viltà che costringe coloro ancora in vita ad un dolore
maggiore rispetto a quello intrinseco nel mondo​.  

Leopardi e il Nichilismo
Leopardi fin dalla giovane età ha sempre sofferto di gravi problemi di salute, che spesso ne
hanno condizionato la vita e le scelte, anche se il poeta nega il fatto che il suo pensiero di
stampo pessimista possa essere pienamente influenzato dalla sua salute. L’autore, se
analizzato da un punto di vista puramente psicologico, risulta essere una persona con una
grandissima abilità nella scrittura e sopratutto nel pensiero, abilità coltivata negli anni e
alimentata dai continui studi, che lo porteranno verso una vasta e polivalente cultura, che
spazia dall'astronomia alla filosofia. Questa sua condizione di esistenza indubbiamente ha
posto i giusti presupposti per la formazione della sua persona e dei suoi ideali, accresciuti dai
vari fattori che abbiamo sopra citato. Il poeta, nei suoi scritti, evidenzia spesso la sua grande
sofferenza verso un mondo labile, superficiale, fatto di uomini meschini e insensibili,
incapaci di una vera e propria presa di coscienza sulla vita e sui veri problemi che essa
comporta. Secondo il poeta recanatese, la felicità stessa dell'uomo è una condizione
irraggiungibile, se non a piccole pillole, dove il piacere consiste in una mera assenza di
dolore, che molto spesso è temporanea e assai breve. Nelle sue affermazioni si nota molto
bene il fatto che il poeta stesso ha vissuto in prima linea queste sensazioni, questi momenti,
che hanno generato in lui una serie di forti considerazioni sul genere umano. Affronta il
problema del nulla con il pensiero che è proprio della sua filosofia, analizzandolo non
soltanto dal punto di vista del sentire umano ma anche ripercorrendone gli sviluppi linguistici
e metaforici. Certamente, il sentimento della nullità della condizione umana in generale e la
vita dolorosa particolare del poeta, sono stati un ​“formidabile strumento conoscitivo”,​ ma
non può passare in secondo piano la costante ricerca e formazione culturale che impegna tutta
la sua vita. Indagando sui limiti della conoscenza, Leopardi insegna che non si può conoscere
perfettamente ed interamente una verità, pur piccola che sia, e che non solo ciò non sia
possibile, ma se anche per assurdo lo fosse, non si potrebbe comunicare ad un altro soggetto
la verità in questione se non al prezzo di alterarne il significato e i rapporti, avendo solo
l’illusione di essersi compresi. Basti pensare ad esempio che le diverse viste vedono uno
stesso oggetto in diversissime misure. Ma questo suo sistema, benché non possa affermare
che tutto è bene, non potendo essere il migliore dei mondi possibili, non vuol certo sostituire
il pessimismo all’ottimismo.

“​Pare infatti che solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, possa
essere senza limiti, e che l’infinito venga in sostanza a esserlo stesso che il nulla”​.
(​Zibaldone, p. 4177)​

Secondo Leopardi esistono vari modi di interpretare la realtà, ma soltanto uno la contempla e
la soddisfa pienamente: quella percepita dai filosofi e dagli uomini di sentimento, i quali
riescono a sentire l'importanza e la maestà del tutto. Questo modo di vedere il mondo
porterebbe però l'uomo alla disperazione, se non intervenissero la distrazione e la
dimenticanza della condizione umana, e sarebbe assolutamente pazzo chi si obbligasse a far
uso costante della ragione. Vediamo così che il rapporto natura-ragione viene ribaltato: la
natura diviene l’unica salvezza, mentre la ragione una pazzia. In questo pensiero notiamo
l'influenza notevole del filosofo francese Pascal, il quale afferma proprio il fatto che nella vita
umana il​ “divertissement”​ e la distrazione siano parti integranti e fondamentali dell'esistenza.
Leopardi è stato un grande teorizzatore del nulla, ma dobbiamo ora capire se oltre ad aver
portato la teoria del nulla fino alla sua estrema concettualizzazione, si possa anche fare del
“nihil”​ la sua filosofia, se si possa definire il suo come un pensiero nichilista. Tale percorso
risulta particolarmente intricato e complesso, e questo è sicuramente dato dal particolarissimo
sistema leopardiano, di cui possiamo dire che i pensieri si trovano racchiusi nelle opere che
noi tutti conosciamo, dagli ​Idilli​ ai ​Canti,​ dalle ​Operette morali a​ i ​Saggi e discorsi​ (anche se
qui dobbiamo sempre distinguere il pensiero giovanile da quello maturo del poeta), mentre
tutto il percorso che egli ha compiuto a gran fatica lo possiamo leggere nella intricatissima
vicenda letteraria che è lo Zibaldone.​

“Da che le cose sono, la possibilità è primordialmente necessaria, e indipendente da checchè


si voglia. Da che nessuna verità o falsità, negazione o affermazione è assoluta, com'io
dimostro, tutte le cose son dunque possibili, ed è quindi necessaria e preesistente al tutto
l'infinita possibilità.” (​Zibaldone, p. 1645)​

Questa frase indica l'inizio della sua nuova era filosofica, attraverso la quale si giunge al
mondo, alla vita, passando per il nulla, ed è proprio questa idea che segna tutto il percorso del
pensiero contemporaneo.
Il non essere, infatti, diviene essere poiché il nulla è fondamento infinito di ogni possibilità,
mentre l’essere non è, in quanto possibilità che si rende necessaria, non solo in quanto
esistenza ma ad esistere in un determinato modo, il che consisterebbe nell’errore di credere in
un qualche assoluto. Il principio delle cose è il nulla, tutte le cose sono possibili, e non c’è
differenza tra tutte le possibilità né tra tutte le perfezioni possibili, la conoscenza è sempre “a
posteriori”. Muoiono così le Idee platoniche e noi possiamo giudicare vero, bello, giusto,
soltanto dalla nostra incompleta esperienza, solo attraverso la limitatezza dei nostri sensi e
della nostra ragione. In un altro passo Leopardi dirà che:

“​Niente presiste alle cose. Né forme, o idee, né necessità o ragione di essere, e di essere così
o così. Tutto è posteriore all’esistenza.” (Zibaldone, p.1616).

Le nostre idee di assoluto, di perfezione, vengono a crollare; l’unico assoluto è l’infinita


possibilità:

“​l'infinita possibilità è l'unica cosa assoluta. Ell'è necessaria, e preesiste alle cose”
(​Zibaldone, p. 1623)​ .

In conclusione possiamo affermare quindi che il ​“nihil” l​ eopardiano ammette una soluzione,
la possibilità di un qualsiasi numero di realtà e visioni, che rendono il mondo percepibile
come un entità assoluta, innata. Tutto è possibile, nei limiti della superficiale e ristretta
visione dell'essere umano.

Conclusione​:

Tramite lo studio così approfondito di Leopardi, abbiamo potuto conoscere al meglio l’autore
e confrontarlo con la vita quotidiana e con l’attualità. Infatti è proprio questa la cosa che ci ha
colpiti di più: come dei temi affrontati quasi 200 anni fa, risultino contemporanei ai nostri
giorni. La voglia di vivere che, a differenza di ciò che viene pensato dalle persone che non
l’hanno mai studiato, lo caratterizza, è una qualità che dovrebbe essere presente in tutti i
giovani (e non solo) di oggi. Leopardi non si arrende mai, cerca sempre di trovare un motivo
che lo spinga ad andare avanti, a superare tutte le difficoltà e i dolori che la vita gli pone
davanti. Questo è, inoltre, uno dei tanti motivi per il quale non può essere definito
completamente pessimista. Infatti, egli è alla continua ricerca di un “piacere” che lo spinga a
trovare delle motivazioni per continuare a vivere e non abbandonarsi al dolore, e che non
portino alla completa mortificazione e rinuncia di sé (come invece propone Schopenhauer).
Nel suo tardo pessimismo cosmico egli individua come soluzione e risposta alla negatività il
tema dell'unione fraterna tra gli uomini, la cosiddetta “social catena” citata nella ​Ginestra
dove, secondo il poeta, la fratellanza e l'unione sociale contro un nemico comune, in questo
caso la Natura maligna, possono portare nell'uomo la definitiva sconfitta dei mali. Secondo
noi questa affermazione, seppur inizialmente in conflitto con le precedenti affermazioni del
poeta recanatese, individua veramente una soluzione tangibile e forse adatta anche al contesto
moderno; infatti si potrebbe anche pensare di sfruttare tecnologia e social network per cercare
di unire e far conciliare le persone tra loro, rendendo finalmente la società moderna basata
non più sull'apparenza del singolo ma su un forte senso di collaborazione e di appartenenza
ad un’unica grande specie, quella umana.

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