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UNITA’ 11 à GIOVENALE, IL POETA DELL’INDIGNAZIONE

A) La vita e la produzione artistica: Decimo Giunio Giovenale espone così l'impegno


fondamentale della sua attività di poeta: denunciare tutti i comportamenti deviati della società del
suo tempo, da lui ritenuta ormai profondamente ed irrimediabilmente corrotta. Di Giunio
Giovenale abbiamo scarse notizie, ricavabili per lo più da alcuni passi della sua opera e da
biografie redatte in età tardoantica, in genere fantasiose e poco attendibili. Nacque probabilmente
ad Aquino, tra il 50 e il 60 d.C.; trasferitosi a Roma forse per esercitare l'attività di avvocato,
conobbe la dura vita del cliente, sempre all'affannosa ricerca di qualche potente e facoltoso
protettore. Fornito di una buona preparazione retorica, si accostò in età matura all'attività di poeta
satirico, componendo sedici satire. I “Sermones”, giuntici integri ad eccezione dell'ultimo che è
mutilo, sono stati composti in esametri, raggruppati in cinque libri, il cui ordine corrisponde, con
tutta probabilità, all'ordine di pubblicazione. Tra gli argomenti trattati:
- alle vuote declamationes, dedicate ad argomenti futili o inutili, egli contrappone la poesia
satirica, animata dall'indignatio verso una società corrotta e in pieno disfacimento;
- per motivi di sicurezza, egli, per colpire i vizi del presente, farà riferimento solo a personaggi
ormai morti; stigmatizza l'omosessualità, ma non mancano accuse alle nuove mode e ai
trattamenti cosmetici cui gli uomini di Roma si sottopongono;
- la capitale è ormai invivibile: affitti carissimi per abitazioni malsane, folla e traffico nelle
strade, violenze sui passanti nelle ore notturne;
- non tollera il lento processo di emancipazione che le donne del suo tempo stanno vivendo: la
donna che non corrisponda ai clichè dei tempi arcaici è, per Giovenale, lussuriosa, prepotente,
arrogante, autoritaria, mascolina, saccente;
- tutti gli intellettuali sono assillati da ristrettezze economiche e devono subire le angherie dei
ricchi, mentre i campioni dello sport ricevono enormi compensi;
- denuncia la degradazione della nobiltà romana, che ha dimenticato i grandi esempi degli
antenati;
- gli uomini chiedono agli dei la ricchezza, il potere, la bellezza o una lunga vita, doni effimeri
e caduchi: meglio sarebbe lasciar fare agli dei che, conoscendoci bene, sono in grado di
concederci non quello che ci piace, ma quello che ci conviene: una mente sana in un corpo
sano e un animo forte ed equilibrato;
- condanna l'eccessivo sfarzo delle riunioni conviviali, esaltando invece la sobrietà dei tempi
antichi;
- gli uomini sono ciechi: vivono per guadagnare invece che guadagnare per vivere;
- affronta il topos dei cacciatori di eredità; i cattivi esempi dei genitori rovinano i figli, verso i
quali, invece, bisognerebbe nutrire un profondo rispetto;
- affronta il tema dell'avaritia, vizio pericoloso perchè presentato spesso come virtù,
confondendolo con la parsimonia;
- attacca la religione degli Egizi, che si astengono dalle carni degli animali ma non esitano a
cibarsi di quella umana, sia per denunciare la ferocia che regola i rapporti fra gli uomini;
- ha un certo spirito polemico verso i privilegi della vita militare.
B) “Facit indignatio versum”, il Giovenale delle prime satire: A differenza dei poeti satirici suoi
predecessori, Giovenale conferisce alla satira una inusitata carica di violenta polemica verso tutto
ciò che lo circonda. La prima satira si apre con un rabbioso attacco contro la letteratura dei suoi
tempi, imbevuta di mitologia e dedita al puro intrattenimento. Tale requisitoria si inserisce nel
solco di una ben consolidata tradizione, che va da Lucilio a Persio e a Marziale, i quali tutti
rimproveravano ai racconti mitologici il fatto di essere inverosimili e troppo lontani dalla vita
reale. Giovenale sostiene che per trovare avvenimenti straordinari e inverosimili non occorre
rivolgersi ai miti, basta osservare la realtà del proprio tempo, che nulla ha da invidiare agli orrori
della mitologia. Nella società descritta da Giovenale, dove il vizio non ha alcun limite, ogni cosa

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appare profondamente stravolta, come in una sorta di mondo alla rovescia. Si tratta, infatti, di una
società dove chi commette crimini orrendi si arricchisce a dismisura e chi è onesto patisce la
povertà, gli uomini sono effeminati, le donne cacciano il cinghiale o si allenano da gladiatori, gli
eunuchi si sposano, gli schiavi umiliano i nati liberi, le imperatrici si prostituiscono e il Senato
discute a lungo su come cucinare un enorme pesce. Ed è proprio la scoperta di questo rovescia-
mento che provoca l'indignatio del poeta: non ci può più essere il sorriso che caratterizzava la
satira di Orazio e neppure il desiderio, proprio di Persio, di educare o di correggere i
comportamenti umani mettendone in luce i difetti, ma vi è posto solo per la denuncia e per il
rifiuto di ogni compromesso. C’è la condanna dell'eccessiva ricchezza e del denaro, definito
efficacemente “obscaena petunia”, fonte di ogni corruzione: qualsiasi ricchezza infatti è di per sè
disonesta in quanto frutto di azioni immorali, se non criminose e, soprattutto, causa di ingiustizia,
in quanto consente comportamenti arroganti a uomini privi di una benchè minima qualità. AI tema
della corruzione si riallaccia quello del disprezzo per gli stranieri, gli Orientali in particolare, un
disprezzo che ritorna insistentemente, tanto da sfociare nella xenofobia e nel razzismo. Gli
stranieri, infatti, attirati dalla grande ricchezza della capitale hanno introdotto in Roma “peregrini
mores”, che hanno avuto il sopravvento sulle antiche tradizioni romane. La loro totale mancanza
di scrupoli e il loro desiderio di affermarsi con ogni mezzo, le loro strane religioni dai riti
incomprensibili e, per questo, ritenuti ridicoli, la capacità di umiliarsi e di accettare qualsiasi man-
sione hanno portato al massimo degrado il tessuto sociale, trascinando alla rovina i Romani di
modeste condizioni. Strettamente legate a queste argomentazioni sono le considerazioni sulla
clientela. Il rapporto che lega cliente e patrono risale alle origini della società romana ed è
un'istituzione nata per tutelare i cittadini socialmente o economicamente più deboli. La corruzione
dei costumi, che ha fatto cadere quel sentimento di reciproca fiducia su cui si basava il rapporto di
clientela, e la spietata concorrenza degli stranieri hanno stravolto l'antica tradizione e hanno, di
fatto, portato all'emarginazione dei clienti romani, costretti a farsi da parte. Non può mancare la
requisitoria contro le donne, colpevoli in primo luogo di aver tradito gli antichi costumi. Esse non
vogliono più essere sottomesse ai padri e ai mariti, rimanere in casa a vegliare sui figli e sul
lavoro dei servi, come voleva la tradizione, ma ambiscono ad avere una vita pubblica, a fare
esercizio fisico, a coltivare le arti e la letteratura, a essere padrone del proprio corpo. E Giovenale,
con una rabbia spesso cieca che giunge a esagerazioni paranoiche, ne colpisce i comportamenti,
presentando, quasi in una galleria di ritratti deformati, una serie di figure femminili: la colta e
saccente, l'amante dell'esercizio fisico, la padrona autoritaria e sadica, la lussuriosa, l'adultera;
l'avvelenatrice. Giovenale non sembra essere in grado di proporre rimedi positivi al di là di un
generico e nostalgico richiamo ai valori di un passato fortemente idealizzato. Ai raffinati e de-
pravati vizi del presente egli contrappone la serena parsimoniosa rusticità della Roma antica, dove
l'uomo contava per le sue virtù e non per il suo denaro.
C) Dallo sdegno alla rassegnazione: le ultime satire: A partire dalla satira ottava si avverte un
graduate cambiamento nella poesia di Giovenale, un cambiamento che non sembra riguardare i
contenuti bensì il tono dell'espressione poetica: lo sdegno e la rabbia che spingevano alla poesia,
una volta raggiunta la loro acme o, peggio, rivelatisi praticamente inefficaci, sembrano lentamente
affievolirsi e placarsi. Il poeta sembra anche recuperare l’atteggiamento moraleggiante caro alla
filosofia stoica e caratteristico delle diatribe. All'indignatio subentrano l'ironia, lo scherno, la
beffa, pur rimanendo quella foga e quell'impeto che avevano caratterizzato i primi componimenti.
Così nella satira decima si mettono alla berlina le assurde richieste che gli uomini rivolgono agli
dei, mentre nella tredicesima il rimprovero a un amico che ingenuamente ha prestato del denaro a
un conoscente si tramuta in uno sferzante rimprovero, non privo di aperta derisione. Rimane
quindi una sostanziale coerenza con la produzione poetica della prima fase e ricompaiono molti
motivi che avevano contraddistinto le prime satire. È il caso, ad esempio, della condanna
dell'avaritia: il poeta è convinto che l'avidità regoli la vita degli uomini, i quali, nella loro
stoltezza, non si accorgono di vivere da poveri per essere poi sepolti nel lusso. Si ripropone una
questione molto dibattuta, che riguarda tutta la produzione di Giovenale, quella della

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corrispondenza fra la realtà orrenda e depravata descritta dal poeta e la realtà vissuta degli abitanti
di Roma. Le descrizioni delle satire, infatti, riflettono un mondo che non trova un'effettiva
corrispondenza, anzi che è addirittura all'opposto, con quello che le varie fonti ci presentano.
Basti pensare alle iniziative in campo sociale attuate da imperatori come Nerva o Traiano, alla
riqualificazione urbanistica di Roma, portata a termine da quest'ultimo con una certa attenzione
alla cultura, o alla sensibilità verso i fenomeni culturali caratteristica di un principe come Adriano.
Stridente è anche il contrasto con l'immagine di una società colta, raffinata e mondana, quale
appare nelle epistole di Plinio il Giovane. La spiegazione di tale atteggiamento si può forse
trovare laddove il poeta dichiara esplicitamente di far riferimento a personaggi e fatti del passato;
forse la società descritta è quella risalente al regno dispotico di Domiziano, con le sue tendenze
assolutistiche, la sistematica persecuzione di senatori e intellettuali, l'uso metodico del terrore e
delle delazioni; una società in cui chiunque avesse avuto voglia di arricchirsi e fosse stato privo di
scrupoli, avrebbe trovato numerose possibilità di affermarsi a spese degli altri.
D) Stile, lingua, tecnica: La tecnica compositiva di Giovenale si discosta notevolmente dalla
tradizione satirica: egli rinuncia ad un impianto organico e ben strutturato, preferendo procedere
per giustapposizione o per accumulazione di idee e di immagini. Queste nel corso del
componimento aumentano sempre più d'intensità, quasi in una climax ascendente, con una
tendenza che di frequente sfocia in lunghe elencazioni e cataloghi. Notevole è poi l'uso delle
sententiae, molte delle quali, per la loro sintetica efficacia, si sono trasformate in espressioni
proverbiali, che hanno goduto di una fortuna ininterrotta fino ai nostri giorni: dalla celebre
“panem et circenses” all'altrettanto nota “mens sana in corpore sano”, fino alla modernissima
“maxima debetur puero reverentia”. Sotto l'aspetto linguistico è notevole l'associazione, in
violento contrasto, di termini volgari e raffinati. Se frequenti sono i grecismi, specie nei passi di
invettiva contro gli Orientali, molto più rari sono, a differenza di Marziale, i casi in cui il lin-
guaggio di Giovenale presenta termini realmente osceni; anche in satire che affrontano argomenti
scabrosi, il poeta preferisce ricorrere a vivaci perifrasi, a volte molto esplicite, che spesso
risultano assai più efficaci del singolo vocabolo.

UNITA’ 12 à MARZIALE

A) Una vita alla ricerca della stabilità: Marco Valerio Marziale era nato a Bilbilis, una piccola ma
attiva città della Spagna meridionale, intorno al 40 d.C.; da qui, attratto come altri letterati suoi
connazionali (Seneca, Lucano, Quintiliano) dal miraggio di Roma, si allontanò, per tentare la
fortuna nella capitale. A Roma ricevette aiuto e ospitalità nella casa di Seneca e di Lucano, ma
quando essi furono coinvolti nella congiura ordita dai Pisoni contro Nerone, Marziale perse ogni
punto d'appoggio e fu costretto, allora, a cercare affannosamente, in qualità di cliente, l’appoggio
e il sostegno economico di alcuni ricchi e influenti uomini politici. Con l'avvento al potere della
dinastia Flavia (69 d.C.), il poeta spagnolo trovò una relativa tranquillità e, grazie alla sua attività
letteraria, riuscì a conquistare il favore dei sovrani. Così, avendo ottenuto un largo successo con la
pubblicazione del “Liber de spectaculis”, composto per l'inaugurazione dell'Anfiteatro Flavio
(Colosseo), raggiunse la notorietà; inoltre, i ripetuti e smaccati elogi rivolti a Tito nel corso
dell'opera gli fecero ottenere la concessione del ius triurn liberorum, ovvero i privilegi legali e
fiscali riconosciuti ai padri di almeno tre figli. Anche con il successore di Tito, Domiziano, il
poeta spagnolo ricorse ripetutamente all'adulazione, riuscendo ad ottenere la nomina a tribuno
militare, che gli permise l'accesso all'ordine equestre. Il suo prestigio crebbe, ma la situazione
economica rimase ugualmente precaria tanto che, spinto dal desiderio quasi ossessivo di
assicurarsi una tranquilla agiatezza, Marziale non potè mai sottrarsi ad una angosciosa ricerca di
protettori e mecenati, che lo spingeva a non lesinare lodi nei loro confronti. A quegli anni
risalgono sia i rapporti di sincera amicizia con alcuni intellettuali di spicco, come Giovenale,
Plinio il Giovane e Quintiliano, sia gli scontri con altri poeti di livello inferiore, che criticavano
aspramente i suoi versi oppure li copiavano spacciandoli per propri. L'uccisione di Domiziano (96

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d.C.) segnò una drammatica svolta nella vita di Marziale: visto inutile ogni tentativo di ottenere i
favori di Nerva, il nuovo sovrano, decise di rientrare nella natia Bilbilis. Nonostante il successo
ottenuto, molto modesto era stato il ritorno economico, tanto che Plinio il Giovane dovette
donargli il denaro necessario per il viaggio. Qui lo aspettava una vita piatta, avara di stimoli
culturali, da trascorrere pigramente in una piccola e arretrata cittadina di provincia. Così la sua
produzione si inaridì; probabilmente intorno al 104, frustrato, insoddisfatto e, forse, tormentato
dalla nostalgia, si spense lontano dalla capitale che tanto aveva odiato e amato.
B) L’attività letteraria all’insegna dell’epigramma: Di Marziale ci sono giunti ben 1561
componimenti suddivisi in quindici libri. La raccolta si apre con un libro, che tradizionalmente
non viene numerato e che ha un titolo autonomo: “Liber de spectaculis”. Seguono poi i 12 libri di
“Epigrammata”. Chiudono la raccolta altri due libri dal titolo autonomo, “Xenia” e “Apophoreta”.
Giunto con ampie lacune, il “Liber de spectaculis” comprende attualmente trentatrè epigrammi in
distici elegiaci dedicati ai vari spettacoli organizzati da Tito per l'inaugurazione dell'Anfiteatro
Flavio; si tratta, perciò, di un tipico esempio di componimenti d'occasione. In occasione dei
Saturnali, Marziale pubblicò due libri che raccoglievano brevi componimenti destinati ad
accompagnare, come biglietti augurali, sia i doni che venivano inviati agli amici, sia i regali che
gli invitati, durante una vivace “lotteria conviviale”, estraevano a sorte e portavano poi a casa. In
“Xenia” tutti gli epigrammi, tranne i primi tre che hanno funzione di proemio, sono composti da
un solo distico e contraddistinti da un titolo scelto dal poeta: menzionano cibi prelibati, vini ce-
lebri, corone di rose e profumi. Anche in “Apophoreta”, anch'essi di carattere proemiale, tutti gli
epigrammi sono composti da un distico, che illustra doni svariati sia umili sia preziosi, ma spesso
bizzarri. Marziale pubblicò i primi undici libri di “Epigrammi”, cui si aggiungerà un dodicesimo
edito a “Bilbilis”. Introdotti per lo più da un proemio in poesia o in prosa, in cui l'autore affronta
temi connessi con la sua concezione poetica o con la sua vita privata, i dodici libri raccolgono
composizioni disposte in modo apparentemente casuale per evitare ripetitività e monotonia; pare
quasi che Marziale suggerisca una lettura "a salto", fatta scegliendo di volta in volta gli
epigrammi più confacenti al momento o alla propria disposizione d'animo. I temi affrontati sono
svariati, dall'amore alla morte, dall'amicizia al sesso, dall'adulazione allo sbeffeggiamento, dalla
vita privata alla vita pubblica, dalla ricchezza alla miseria, ma tutti legati fra loro da un unico filo
conduttore, l'osservazione dell'uomo e dei suoi comportamenti. Nel ritrarre l'uomo, Marziale
vuole trasmettere un'immagine della vita quotidiana che appaia giocosa e divertente, destinata a
intrattenere piacevolmente il lettore, ma che sia anche capace di spingere alla riflessione ed
all'autocritica. Seguendo le orme di Persio, il poeta sostiene di colpire i difetti, non le persone: per
questo motivo preferisce servirsi di nomi fittizi, benchè non si possa escludere che dietro di essi si
celassero comunque persone facilmente identificabili dai loro contemporanei. Nasce così una
galleria di maschere dai tratti spesso grotteschi, che si muovono sullo sfondo di una Roma
sovraffollata, volgare, sordida, rumorosa, corrotta dai vizi e dai piaceri. Il poeta, però, riserva per
sè non il ruolo di fustigatore dei costumi, ma quello di osservatore ambulante della vita, un
osservatore che si limita a descrivere con arguzia, ma talvolta anche con crudo realismo, ciò che
lo circonda e che sa porre in risalto, enfatizzandoli, gli aspetti comici del quotidiano, evitando
affrettati giudizi e sommarie condanne morali. Il successo di pubblico fu enorme. Tale successo,
in un'epoca in cui non esistevano i diritti d'autore, non garantì quel benessere economico cui
Marziale aspirava per potersi dedicare a opere più impegnative. Cosi il poeta lamenta più volte,
quasi con angoscia, la propria deplorevole condizione di letterato squattrinato, alla perenne ricerca
di quella solida tranquillità economica che solo un novello Mecenate avrebbe potuto assicurargli.
Ma i tempi erano irrimediabilmente mutati - la politica culturale dei sovrani della dinastia Flavia
era molto diversa da quella di Augusto - e così il sogno di Marziale era inevitabilmente destinato
ad infrangersi.
C) La poetica ed i modelli: Come altri autori del genere satirico, in particolare Lucilio e Persio, che
avevano criticato aspramente ogni forma letteraria incentrata sul mito, anche Marziale esprime il
suo netto rifiuto a comporre poesie ispirandosi alla mitologia, a cui rimprovera di presentare solo

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“fatti mostruosi” e “ridicole vanità” che, con la loro inverosimiglianza, sono del tutto lontani dalla
vita reale degli uomini del suo tempo. Egli invece vuole ritrarre tutti gli aspetti, miserabili o nobili
che siano, della vita che ogni giorno lo circonda in città e in campagna, nelle strade e nei luoghi di
spettacolo, nei salotti e nei lupanari. Ai componimenti del filone comico-realistico, che
rappresentano l'asse portante della produzione di Marziale, si affiancano epigrammi d'intonazione
meno scherzosa, che affrontano e sviluppano una pluralità di temi. Non mancano le composizioni
di carattere funerario, che si riallacciano ad una tradizione risalente alla letteratura arcaica e
classica, ma che trovano la loro massima espressione nell'età ellenistica, grazie a poeti come il
greco Meleagro. Nella letteratura latina, poi, Marziale aveva un illustre precedente in Catullo, uno
dei suoi modelli più amati, che scrisse un componimento toccante per la morte del fratello. Gli
epigrammi funerari di Marziale, dedicati soprattutto a bambini, mostrano un poeta diverso, capace
di un'inattesa sensibilità e di accenti di autentico dolore. Compaiono pure componimenti che
esaltano le grandi figure della storia antica di Roma (Muzio Scevola, …), presentate ai lettori
come modelli da imitare, secondo quella consuetudine di proporre exempla, che era molto diffusa
nelle scuole di retorica del tempo. Sempre alle esercitazioni tipiche delle scuole di retorica si
ispirano quegli epigrammi in cui il poeta descrive, spesso con un'eccessiva tendenza alla
compilazione, opere d'arte, monumenti pubblici, abitazioni lussuose. Nè mancano i riferimenti a
fatti storici o di attualità, con una certa attenzione a tutto ciò che è inconsueto e curioso, mentre
numerosi sono gli epigrammi dedicati ad esaltare la figura dell'imperatore, attraverso la
celebrazione delle sue iniziative in campo amministrativo o dei suoi successi militari. Marziale
esprime le sue riflessioni, i suoi sentimenti e le sue concezioni. Purtroppo il frequente ricorso a
topoi assai diffusi fanno dubitare della sua sincerità. Nelle composizioni di carattere
autobiografico poco spazio ha l'amore, specie quello eterosessuale, che è venato di misoginia,
privo di passionalità e ridotto al solo aspetto fisico di tensione sessuale.
D) La tecnica compositiva e lo stile: Marziale padroneggia con incredibile abilità gli strumenti tipici
dell'epigramma ellenistico, ovvero lo spirito di osservazione, la concisione, l'ironia pronta e
sottile; egli li distribuisce equilibratamente in uno schema prefissato, che rappresenta una delle
più originali innovazioni del poeta. L'epigramma è articolato in due fasi: una, di carattere
descrittivo, destinata a creare attesa nel lettore, e l'altra che risolve la situazione con un'arguta
battuta, spesso basata su un gioco di parole. Marziale introduce un elemento inatteso, utile a far
vedere in una prospettiva nuova, spesso paradossale, quanto si è narrato in precedenza. In tal
modo l'epigramma si chiude in maniera giocosa, spesso con un motto di spirito destinato a
rimanere ben impresso nella mente del lettore. Nei casi di epigrammi più elaborati si può avere
anche l'introduzione di un terzo elemento dopo la fase descrittiva: un interlocutore fittizio pone
delle domande che offrono al poeta l'occasione di concludere la composizione con l'usuale battuta.
Per questo motivo non si può escludere che tutto l'epigramma sia costruito proprio in funzione
della battuta finale, che deve suscitare, per la sua arguzia, ammirazione e applauso; questo sembra
dimostrare che l'epigramma di Marziale sia solo apparentemente un componimento d'occasione e
che miri invece alla sorpresa e al piacere intellettuale del lettore. Marziale rifiuta gli artifici
linguistici cari alla sua epoca, mentre ricerca la semplicità e la concretezza espressiva. Sovente
compaiono grecismi e termini tecnici, come frequenti sono pure i vocaboli di uso comune o tratti
dal lessico colloquiale o infantile; non mancano poi le espressioni gergali o l'uso di parole scurrili.
Nel complesso la sua scrittura è essenziale, spesso volutamente ruvida e, a tratti, oscena e volgare,
nella convinzione che “Scabrosa è la mia pagina, ma la vita pura”. Notevole è la capacità che
Marziale ha di adattare i registri stilistici al genere di componimento: è misurato, patetico e,
talora, commosso nelle composizioni di carattere funebre o autobiografico, raffinato ed elegante
negli scritti encomiastici e celebrativi, vivace e scoppiettante di pirotecnici giochi di parole negli
epigrammi di carattere realistico.

UNITA’ 13 à PLINIO IL VECCHIO

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A) Una vita intensa tra otium e negotium: Plinio il Giovane scrisse una lunga e commossa lettera
indirizzata in cui sintetizza efficacemente l'incredibile, instancabile attività dello zio paterno Caio
Plinio Secondo, il grande erudito che i moderni chiamano convenzionalmente Plinio il Vecchio
proprio per distinguerlo dal nipote. Nato a Como il 23 o il 24 d.C. da una ricca famiglia
appartenente all'ordine equestre, percorse una rapida carriera civile e militare, che possiamo
ricostruire solo in parte. Dopo l'ascesa al trono di Vespasiano tornò all'attività pubblica e ricoprì
alcuni incarichi amministrativi in Spagna, in Africa e in Gallia; una volta rientrato a Roma, entrò
a far parte del ristretto numero dei consiglieri dell'imperatore. Nominato comandante della flotta
militare di stanza a Miseno, in Campania, nel 79 d.C., durante l'eruzione del Vesuvio, come narra
il nipote, si recò immediatamente sul posto, sia per portare i primi soccorsi alle popolazioni delle
città colpite sia per indagare sul singolare fenomeno. Mentre la pioggia di ceneri si faceva sempre
più fitta, C. Plinio Secondo fu colto da improvviso malore e morì, forse per asfissia a causa delle
esalazioni tossiche dell'eruzione, o, più probabilmente, in seguito a un attacco di apoplessia o a un
collasso cardiaco dovuto al calore.
B) L’attività letteraria: Nella lettera Plinio il Giovane fornisce un elenco completo, disposto in
ordine cronologico, delle opere dello zio; da questo dettagliato catalogo ci sono giunti solo pochi
frammenti, ma appare chiara la vastità di interessi dell'erudito romano, che sapeva spaziare con
una certa competenza dalla storiografia ai problemi di carattere linguistico-grammaticale, dall'arte
militare alle questioni di retorica. Opera giovanile scaturita dall'esperienza vissuta in qualità di
ufficiale di cavalleria era il trattato dedicato alla tecnica per scagliare il giavellotto da cavallo
(“De iaculatione equestri”), mentre alla formazione dell'oratore erano dedicati i tre libri “Studiosi
libri tres”. Le ambiguità morfologiche e ortografiche del latino erano approfondite negli otto libri
“Dubii sermonis otto”. Se “De vita Pomponii Secondi” era un'agile biografia composta per
assolvere un debito di gratitudine verso un importante uomo politico, ben più approfonditi e
articolati dovevano essere i venti libri dedicati a “Bellorum Germaniae viginti libri”, nei quali si
prendevano in esame tutte le guerre combattute dai Romani contro le popolazioni germaniche.
Non pubblicati per espressa volontà dell'autore, che temeva di essere accusato di adulazione verso
Vespasiano e Tito, ed editi postumi, forse a cura di Plinio il Giovane, erano i trentuno libri
dedicati alla “A fine Aufidii Bassi”, nei quali, continuando l'opera dello storico Aufidio Basso, si
narravano le complesse vicende storiche che andavano dal principato di Claudio all'ascesa al
potere di Vespasiano. Le opere storiche furono favorevolmente accolte dai contemporanei e,
soprattutto, costituirono una fonte preziosa per gli storici del principato, in particolare per Tacito.
C) L’”inventario del mondo”: la “Naturalis historia”: Plinio il Giovane afferma che lo zio non
leggeva nulla senza ricavarne dei riassunti e che aveva raccolto centosessanta fascicoli di passi
scelti, scritti per lo più su entrambe le facciate con grafia minuscola. Frutto di tale immenso e
minuzioso lavoro di ricerca e di schedatura, tratta dalle letture condotte nell'arco di tutta la vita e
pubblicata in 37 libri, la “Naturalis historia”, pervenuta praticamente integra. Il termine “istoria”
va inteso, come il corrispondente vocabolo greco, nel senso di “ricerca” e di “indagine personale”:
si tratta quindi di un'opera di carattere scientifico, anche se di tipo compilatorio, e destinata ad
esporre le conoscenze riguardanti il mondo della natura tratte dalle opere di 470 autori greci e
latini. La “Naturalis historia” si apre con una lettera dedicata a Tito, il figlio di Vespasiano, nella
quale si forniscono numerose informazioni sul fine dell'opera, sul metodo di ricerca e sulle fonti
esaminate; segue poi un indice analitico particolarmente dettagliato, che elenca i contenuti dei
singoli libri, seguiti dalla citazione di tutti gli autori consultati. Alla cosmologia, alla geografia e
all'antropologia è dedicata la prima sezione, mentre la seconda riguarda la zoologia e la botanica.
I rimedi tratti dalle piante e quelli tratti dagli animali, con un ampio excursus sulla storia della
medicina, occupano la sezione più ampia dell'opera, mentre i libri dedicati alla metallurgia e ai
minerali offrono a Plinio l'occasione di approfondire, con numerosi excursus, le più diverse
problematiche della scultura, della pittura e dell'architettura antiche e di presentare moltissime
personalità artistiche. Si tratta, di fatto, per il numero e la qualità delle informazioni, del più
ampio e importante trattato sulla storia dell'arte antica che ci sia giunto. La “Naturalis historia”

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costituisce una grande enciclopedia nella quale l'autore, spinto da un'entusiastica curiosità e dal
preciso intento di scrivere un'opera utile ai lettori, ha cercato di fissare tutte le conoscenze
reperibili riguardanti il mondo naturale. Il criterio dell'utilitas iuvandi, cioè del venire incontro
alle necessità e alle sofferenze degli uomini mediante la divulgazione della cultura, percorre e
unifica tutta l'opera. La “Naturalis historia”, destinata alla gente comune, ai ceti emergenti dell'età
flavia, rimarrà uno dei fondamenti del sapere scientifico fino alla fine del Medioevo. Anche per il
lettore di oggi Plinio ha certamente raggiunto il suo scopo: è solo grazie a lui che un'immensa
quantità di notizie relative alla religione, alla medicina, alla tecnologia, alle credenze popolari,
alla vita quotidiana, alle arti figurative non è andata perduta. La tendenza compilatoria e la ricerca
dell'esaustività possono in gran parte giustificare alcuni dei difetti dell'opera. In primo luogo il fat-
to che Plinio non abbia sottoposto a sufficiente analisi critica le notizie ricavate dalle sue
sterminate letture, preoccupandosi solo raramente di discutere l'attendibilità dalle fonti; poi la
mancanza di un filo conduttore non solo in tutta l'opera, ma anche nelle singole sezioni. Le notizie
vengono fornite in modo eterogeneo, con una certa tendenza all'affastellamento, quasi che l'autore
temesse di tralasciare qualche informazione, procedendo spesso per associazione di idee o per
affinità di argomenti, inserendo talora ampie digressioni e aneddoti più o meno pertinenti. Altro
rimprovero che viene spesso mosso a Plinio è quello di aver mostrato un'eccessiva tendenza al gu-
sto per i fenomeni paradossali, eccezionali, meravigliosi. L'estrema varietà degli argomenti
affrontati e l'enorme numero di fonti consultate, insieme a una notevole frettolosità nella stesura,
che appare nel complesso poco curata, rendono lo stile di Plinio poco omogeneo. A passi fluidi e
scorrevoli, nei quali l'autore cerca di esprimersi con un linguaggio semplice per rendere la lettura
accessibile a tutti, se ne alternano altri piuttosto complessi e a volte confusi o, com'è spesso il caso
degli excursus, molto elaborati e alquanto artificiosi per l'impiego di espedienti retorici. Talora,
poi, la lettura è resa difficoltosa dall'eccessivo impiego sia di termini tecnici e scientifici, sia di
vocabula extera.

UNITA’ 14 à QUINTILIANO

A) La vita: Marco Fabio Quintiliano nacque a Calahorra, città sul fiume Ebro, intorno al 35-40 d.C.
Trasferitosi in gioventù a Roma, forse con il padre, anch'egli maestro di retorica, fu probabilmente
condiscepolo di Persio, ed ebbe occasione di ascoltare anche Seneca. Compiuti gli studi, tornò in
Spagna, ove rimase fino a quando fu ricondotto a Roma da Sulpicio Galba, che era stato nominato
imperatore dal Senato. A Roma Quintiliano esercitò con successo la professione di avvocato ed
insieme quella di insegnante di retorica (tra i suoi allievi vi furono anche Plinio il Giovane e
Tacito): l'imperatore Vespasiano gli concesse per questo uno stipendio di centomila sesterzi
annui. Dopo vent'anni egli abbandonò l'insegnamento, dedicandosi a comporre prima un dialogo
sulla corruzione dell'eloquenza, perduto, e poi l'opera maggiore, “Institutio oratoria”. Gli fu
affidata l'educazione di due pronipoti e figli adottivi dell'imperatore Domiziano. Gli ultimi anni di
Quintiliano furono funestati da disgrazie familiari. La morte lo colse nel 96 o poco dopo. Onesto
professore, umano nei rapporti con i discepoli, Quintiliano fu un ottimo conoscitore della sua
materia, lontano da dispute astratte, perchè ricco di viva esperienza, e per molti versi innovativo
nella sua pedagogia. Con I'”Institutio oratoria” ha lasciato la summa più organica sulla retorica,
l'educazione e la scuola nell'antichità. Tipico esempio di letterato disposto alla collaborazione con
il potere, Quintiliano rappresenta la sua epoca negli aspetti più retrivi e conformistici, insensibile
com'era al fascino e alla novità dei massimi ingegni del suo secolo; dal canto suo era scarsamente
dotato di talento creativo e chiuso in un ciceronianismo privo di prospettiva storica, dominato da
una teoria dell'imitazione tradizionale e talvolta miope.
B) L’”Institutio oratoria”: L'”Institutio oratoria”, in 12 libri, fu composta tra il 93 ed il 95. La sua
struttura è la seguente:
- Libro I à primi precetti per l'educazione dei fanciulli, dalla famiglia alla scuola del
grammaticus;

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- Libro II à la scuola del rhetor;
- Libro III à introduzione alla retorica e suo breve profilo storico;
- Libri IV-XI à trattazione sistematica della retorica attraverso le sue cinque parti;
- Libro XII à i precetti dei libri precedenti sono ripresi e ripresentati per offrire il quadro
d'insieme dell'oratore ideale.
L'”Institutio” è un trattato completo di retorica, con un taglio non letterario come i dialoghi di
Cicerone, ma sistematico e didattico, sull'esempio dei manuali scolastici (Artes). Non più arte che
permetta di far prevalere le proprie tesi nell'arena politica, ma docile strumento a servizio del bene
comune, l'oratoria è tuttavia ancora, ciceronianamente, il fine supremo dell'educazione dei
giovani. Quintiliano non pare neppure accorgersi del fatto che, con l'affermazione del principato,
essa ha perso per sempre la sua centralità, riducendosi o alla pratica vuota ed estetizzante delle
recitazioni (genere dimostrativo) o, al massimo, alla quotidianità delle aule di tribunale (genere
giudiziale). La dedizione allo Stato, più volte presentata come ideale supremo dell'oratore, non
può che tradursi implicitamente in dedizione all'imperatore, in cui lo Stato stesso s'incarna: ne è
prova anche la citazione nel trattato di oratori che furono stretti collaboratori dei principi. Non
sarebbe corretto parlare di una vera e propria "pedagogia" di Quintiliano, sia perchè egli non
presenta una trattazione organica, ma offre degli spunti isolati, sia soprattutto perchè questi spunti
non sono volti allo studio dell'educazione e della formazione della personalità dei giovani, bensì
sono funzionali esclusivamente all'educazione del futuro oratore.
C) Opere sperdute e spurie: Perduto è il trattato “De causis corruptae eloquentiae”, le cui idee gui-
de sono però ricostruibili dall'opera maggiore: Quintiliano giudicava l'oratoria contemporanea
come l'esito di un processo di degenerazione, alla cui base, però, egli non vedeva la perdita della
libertà politica conseguente alla costituzione del potere imperiale, come avrebbe poi sostenuto con
maggior profondità Tacito. Fedele alla sua convinzione che nulla fosse cambiato e dovesse
cambiare per l'oratore dei tempi di Catone il Censore e di Cicerone, Quintiliano sosteneva la tesi
che la colpa della decadenza dell'eloquenza fosse da individuare in una generale degenerazione
dei costumi, riflessa nell'eccessivo ruolo delle declamazioni e nella ricerca di risultati affettati ed
eccessivi. Perdute risultano anche le sue orazioni giudiziarie.
D) Lo stile: A proposito dello stile non è difficile notare profonde differenze rispetto ai trattati
retorici di Cicerone, nonostante il sincero ciceronianismo di Quintiliano. A livello di lessico si
notano caratteristiche che accomunano la prosa di Quintiliano a quella di altri scrittori del I secolo
d.C. (compreso il tanto criticato Seneca). Nonostante l'abbondanza di traslati e la ricerca di
incisività, la pagina quintilianea trasmette un'impressione di piattezza e ripetitività. Le
proposizioni subordinate, che nella prosa dei grandi autori del I secolo a.C. erano incorporate nel
periodo, si trovano ora solitamente aggiunte a quella che ne costituiva il fondamento e il suggello
insieme. Ne risulta un andamento dal tono costante ed uniforme, ravvivato artificialmente da
iperbati, da collocazione particolare di termini, dalla ellissi del verbo esse anche in proposizioni
relative e interrogative e da brevi incisi.

UNITA’ 15 à UN’ETA’ DI TRANSIZIONE

A) Gli eventi storici: Dopo la morte violenta di Domiziano (96 d.C.) il Senato riuscì a far salire al
trono, senza massacri e tumulti, l'anziano senatore Marco Cocceio Nerva, che cerco di riportare la
situazione politica alla normalità; quanti per motivi politici erano stati condannati all'esilio furono
fatti rientrare, i beni confiscati vennero restituiti, delatori e spie processati. Il nuovo imperatore,
inoltre, cercò abilmente di procurarsi il consenso di tutte le parti sociali: distribuì gratuitamente
grano al popolo, concesse elargizioni in denaro ai soldati, restituì ai senatori parte delle loro
antiche prerogative. Altre sue efficaci iniziative furono l'alleggerimento della pressione fiscale e
alcuni provvedimenti di carattere sociale ed assistenziale rivolti agli strati più poveri della
popolazione. Privo di figli decise allora, per garantire un passaggio di potere privo di scosse, di
adottare come suo successore Marco Ulpio Traiano, nobile di origine spagnola e comandante
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delle truppe in Germania, che godeva di eccezionale favore presso i militari. Si instaurò cosi il
principio della successione in base alla scelta del "migliore" per qualità politiche, civili e militari,
un principio fortemente caldeggiato dal Senato nell'intento di scongiurare i rischi legati alla
successione dinastica. Dotato di grande equilibrio, di notevoli capacità politiche e militari, e di
profondo rispetto verso le istituzioni, Traiano riscosse un ampio consenso, come dimostrano le
testimonianze dei letterati contemporanei, quali Plinio il Giovane e Tacito. Raggiunta l'armonia
tra i vari gruppi sociali, cioè quell'agognata concordia ordinum che era considerata
imprescindibile per la realizzazione di un governo stabile, Traiano si trovò ad affrontare la grave
crisi economica che travagliava l'Italia. Diede perciò impulso, in tutta la penisola, a un
programma assistenziale (institutiones alimentariae), in base al quale si concedevano prestiti a
basso interesse agli agricoltori; gli utili maturati venivano impiegati per aiutare le famiglie meno
abbienti residenti nelle regioni dove il prestito era stato concesso. Preoccupato inoltre per
l'eccessiva disinvoltura con cui spesso gli amministratori locali, in nome dell'autonomia, curavano
la gestione finanziaria delle città, l'imperatore istituì dei funzionari preposti al controllo delle
istituzioni locali. A Traiano si deve anche l'attuazione di un notevole numero di opere pubbliche:
a Roma furono edificati un nuovo grandioso foro, abbellito da un'alta colonna istoriata, nonchè
imponenti mercati, terme e acquedotti, mentre a Ostia venne ampliato il porto già fatto realizzare
da Claudio. La politica estera di Traiano fu segnata da una forte tendenza espansionistica, dovuta
soprattutto all'impellente necessità di reperire i fondi per l'amministrazione dello Stato e
l'attuazione dei programmi sociali. Dapprima la sua attenzione si rivolse alla Dacia. Traiano mise
in campo un poderoso esercito e con due spedizioni occupò tutta la regione. Tutta la Dacia venne
trasformata in provincia, gran parte degli abitanti vennero massacrati o deportati e a Roma venne
portato un gigantesco bottino, che assicurò a lungo un regolare sostegno alle finanze pubbliche.
Proprio per celebrare la vittoria e le imprese dell'imperatore, venne eretta una colonna nel foro di
Traiano. Nei medesimi anni, l'Arabia Petrea venne trasformata in provincia romana ed affidata ad
un legato imperiale. Traiano decise di marciare contro i Parti: dopo aver annesso l’Armenia e la
Mesopotamia, l'imperatore si spinse fino al Golfo Persico, facendo cosi raggiungere all'impero la
sua massima estensione. Una rivolta tuttavia, scoppiata in Giudea e fomentata dai Parti, dilagò
rapidamente per tutti i territori conquistati, ostacolando l'avanzata dell'esercito romano; Traiano
decise allora di ritirarsi e nel 117 cadde ammalato e morì dopo aver adottato come suo successore
Publio Elio Adriano, anch'egli di origine spagnola.
B) La vita culturale: L'uccisione di Domiziano (96 d.C.) segnò una svolta decisiva nella vita
intellettuale: si diffuse la convinzione di vivere in un'età nuova, priva di angosce e paure.
Cambiarono anche sensibilmente i rapporti fra il principato e gli intellettuali: infatti i più avveduti
fra questi ultimi e capaci di guardare al presente con occhio critico, pur accorgendosi che la libertà
concessa dal nuovo regime non aveva nulla in comune con gli antichi modelli repubblicani, si
rendevano conto che il sistema monarchico non aveva alternative praticabili. Si andò cosi
diffondendo la convinzione che era possibile una soluzione di compromesso: principe e Senato
potevano collaborare nell'interesse dello Stato, attuando l'ideale, caro allo stoicismo, dell'optimus
princeps, scelto per le sue capacità e dedito indefessamente al servizio dello Stato e dei sudditi.
Anche se Nerva e Traiano avevano in qualche momento della loro vita mostrato un certo interesse
per la letteratura, nessuno dei due impostò una precisa politica culturale; sì limitarono a interventi
episodici, anche se dì grande impatto sull'opinione pubblica, come la costruzione a Roma,
promossa da Traiano, di due grandi biblioteche pubbliche. E però da ascrivere a merito di
entrambi il fatto di aver consentito grande libertà di espressione agli intellettuali; venne quindi
meno ogni velleità di opposizione e si diffuse fra i letterati un totale consenso verso il principe e
la sua azione di governo, mentre andò sempre più affermandosi un atteggiamento di condanna sia
di Domiziano sia di gran parte degli esponenti della dinastia giulio-claudia, dipinti dalla
storiografia del tempo come incapaci o, addirittura, come folli tiranni assetati di sangue.
L'esercizio della letteratura si trasformò in una piacevole occupazione, sorgente di prestigio
sociale per chi vi si dedicava: priva di tensione politica e ideologica divenne un'attività spesso

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vacua e superficiale, da praticare all'interno di una più o meno ristretta cerchia di amici per fare
sfoggio della propria cultura e delle proprie capacità tecniche e creative. Cominciò a svilupparsi
una particolare passione per lo studio dei grandi autori, oratori soprattutto, della letteratura greca
di età classica, una passione che si trasformò rapidamente in moda e che darà vita in seguito,
durante il regno di Adriano, al movimento chiamato "neosofistica".

UNITA’ 16 à PLINIO IL GIOVANE

A) La brillante carriera di un ricco provinciale: Gaio Plinio Cecilio Secondo nacque a Como da
famiglia agiata nel 61 o 62 d.C. Dopo la morte del padre venne adottato dallo zio materno, il
naturalista e letterato G. Plinio Secondo, detto Plinio il Vecchio. Compì gli studi a Roma, dove
ebbe come maestro Quintiliano. Divenuto maggiorenne e stabilitosi definitivamente a Roma,
Plinio esercitò con successo l'avvocatura, strinse amicizie con uomini e donne appartenenti alle
famiglie più nobili del tempo e incominciò il consueto cursus honorum. Ebbe due o tre mogli,
dell'ultima delle quali, la giovane Calpurnia, a cui egli era molto affezionato, possediamo vivaci
descrizioni nell'”Epistolario”; da nessuna di esse, tuttavia, ebbe figli. Sotto il principato dispotico
di Domiziano, Plinio si comportò con realismo e coraggio insieme, evitando di assumere, come
altri, atteggiamenti scoperti (e spesso velleitari) d'opposizione, ma non esitando a difendere
personaggi caduti in disgrazia, anche a costo di rischiare in prima persona. Sotto i principati di
Nerva e soprattutto di Traiano, la carriera politica di Plinio procedette speditamente, sino ad
arrivare al consolato, nel 100. Venne nominato da Traiano legato imperiale (cioè governatore)
della Bitinia, in Asia Minore, che egli amministrò con probità sino al 113, anno di morte. Sono
stati espressi dagli storici della letteratura latina giudizi antitetici su Plinio come uomo. Plinio è
l'esemplare classico del buon uomo, del buon cittadino e del buon magistrato, a cui quasi tutti
vogliono bene e che finisce anche lui, purtroppo, per voler bene quasi a tutti. Vi è poi chi emana
una condanna severa e senza appello: collaboratore entusiasta del potere imperiale, privo di
interessi filosofici profondi, conformista e superficiale in ogni campo, dilettante in letteratura,
ricco solo di una sconfinata vanità. Almeno un carattere dell'”Epistolario” disturbò senz'altro
qualche lettore moderno: ci riferiamo alla mancanza di reticenza e di modestia di Plinio nel
rappresentarsi come individuo dotato di molti pregi e cosciente della propria elevatezza, d'uomo e
d'artista: il legittimo desiderio di immortalità letteraria non si distingue spesso dalla pura vanità,
che sembra in molte lettere la ragione prima, se non l'unica, della loro composizione.
B) Il “Panegirico a Traiano”: II “Panegirico” è il ringraziamento all'imperatore, che Plinio
pronunciò al momento della nomina a console. Ampiamente rielaborata per la pubblicazione,
l’opera è pur sempre l'unico esemplare rimastoci del genere oratorio nel I secolo d.C. II testo è la
fonte principale per capire la concezione politica di Plinio e per gettar luce sulle modalità di
collaborazione degli intellettuali con l'imperatore. La posizione di Plinio è chiara e realistica,
anche se per certi versi deludente nella sua impotenza: l'impero è necessario e ineluttabile (utopi-
stico un ritorno al sistema repubblicano) e l'imperatore ha un dominio assoluto, di cui può fare
cattivo uso, come il recente esempio di Domiziano insegnava. Il buon principe, quale Traiano
vuole e può essere, ha invece il dovere morale di moderarsi e di sottoporre anche se stesso, si-
gnore assoluto, alle leggi, avendo come fine il bene comune. Plinio non si nasconde, però, che
questo dovere non può essere nè imposto al principe nè fatto rispettare da altri se non dal principe
stesso. Il “Panegyricus”, quindi, non presenta intenzioni solo encomiastiche, ma anche didattiche
e protrettiche, delineando la figura ideale dell'optimus princeps, incarnata in Traiano, cui fa da
costante contraltare il triste e vicino precedente di Domiziano: il testo s'inserisce cosi nella
tradizione dello speculum principis, già rappresentato a Roma dalle orazioni "cesariane" di
Cicerone e dai due libri “De clementia” di Seneca, ovvero di quel tipo di composizione con cui
s'intende indirizzare al bene il comportamento di un monarca, fornendo un ritratto ideale in cui
egli possa "rispecchiarsi". Il “Panegirico” è il testo che specifica le condizioni dell'alleanza tra il
principe ed il Senato e, al contempo, il tentativo coraggioso che il fedele interprete della curia

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opera per vincolare l'illustre partner al rispetto dei patti. C’è un perfetto ritratto encomiastico del
principe, di cui si passano in rassegna le qualità morali, militari e civili secondo schemi ripresi a
sazietà dai “Panegyrici Latini”. Altrettanto imitato fu il registro "sublime" del genere epidittico
scelto da Plinio, sempre alla ricerca della formulazione più pregnante, concettosa e toccante:
nonostante l'impostazione ciceroniana, infatti, spesso lo scrittore mostra un forte debito verso lo
stile più "moderno" fondato sulla sententia.
C) L’epistolario: L'epistolario comprende 247 missive in nove libri, indirizzate a un centinaio circa
di corrispondenti diversi; non si tratta quasi mai di autentiche lettere private, scritte da chi non
pensava ad altri se non al destinatario, come gran pane delle lettere di Cicerone (assunto tuttavia
come esplicito modello da Plinio), nè di epistulae morales alla maniera di Seneca: Plinio inaugura
un nuovo genere, l'epistolario d'arte. Le lettere, infatti, pur partendo da fatti reali, sono scritte per
interessare e dilettare il pubblico dei lettori: loro prima caratteristica è la varietà dei temi
affrontati, alla quale, con duttile maestria, si adatta anche lo stile. In moltissime, però, è Plinio
stesso a fare da protagonista, con la sua eleganza, la sua umanità, i suoi giudizi netti, ma anche
con le sue frivole preoccupazioni e la sua inguaribile vanità. L'ordinamento all'interno di ciascun
libro, non cronologico e solo apparentemente casuale, intende offrire un'impressione di varietas e
dilettare così il lettore. L'epistolario è caratterizzato da una signorile vivacità moderata da un
eletto senso della misura; il brio è il grande correttivo di questi frammenti di vita che di per sè
inclinerebbero allo stinto. Vi domina la predilezione per la lepidezza e per la punta forbitamente
scherzosa, le quali sanno però preservarsi dallo sguaiato in grazia del garbo. Lo spirito riscatta i
molti complimenti e le convenzioni imposte dalle relazioni sociali. Dovunque si diffonde un'urba-
nità che assume gli aspetti più vari. Quella di Plinio è un'anima raffinata nella più sana accezione
del termine, ama indugiare sulle cose belle e gustarle, ma soprattutto sa esprimersi secondo le
intime esigenze di un'eleganza che si direbbe nativa. Il suo stile ha saputo raggiungere una perfet-
ta limpidezza: le cose ed i paesaggi descritti hanno una precisione di contorni che li staglia
nettissimi. La retorica è diventata la voce della sua anima spogliandosi di tutta l'uggia di scuola e
del sentore di artefatto che spesso trascina con sè. In Plinio avvenimenti e sentimenti si presentano
con spontanea naturalezza ed i trapassi dagli uni agli altri sono agevoli. Ai nove libri fu aggiunto
un decimo, contenente il carteggio con Traiano durante il governo della Bitinia.

UNITA’ 17 à SVETONIO

A) La vita di un cavaliere e “topo d’archivio”: Tra la fine del I secolo d.C. e i primi decenni del II
alcuni solerti, colti e leali appartenenti ai sommi gradi della burocrazia imperiale riescono ad
affiancare ai pesanti compiti connessi con la loro carica I'attività di letterati. Anzi, spesso, proprio
dalla loro esperienza amministrativa essi sanno trarre spunti e materiali per la composizione delle
loro opere. Significativo è il caso di Caio Svetonio Tranquillo, che con la sua attività di
responsabile degli archivi, delle biblioteche e della corrispondenza imperiale potè esaminare e
studiare i documenti di cui si servi per la redazione de “Le vite dei Cesari”, spesso inaccessibili.
Poche sono le notizie riguardanti la vita di Svetonio: nato, forse ad Ostia o nell'africana Ippona, da
una famiglia appartenente all'ordine equestre, poco dopo il 70 d.C., dopo aver esercitato per breve
tempo la professione di avvocato, entrò nella burocrazia imperiale. Qui, grazie agli influenti
appoggi di uomini di potere come Plinio il Giovane, percorse una rapida carriera, come c'informa
anche l'iscrizione incisa sulla base di una statua eretta in suo onore nella città d'Ippona. Fu infatti
nominato responsabile dell'ufficio studi e ricerche archivistiche, delle biblioteche pubbliche e
sovrintendente della corrispondenza ufficiale dell'imperatore, carica quest'ultima che gli
consentiva di far parte del consiglio dell'imperatore. Infaticabile, colto e appassionato, Svetonio
affiancò sempre all'attività burocratica le ricerche di studioso negli archivi e nelle biblioteche,
dove per gli incarichi che ricopriva poteva prendere visione di documenti per altri inaccessibili.
Improvvisamente, all'acme della sua carriera, nel 122, durante il regno di Adriano, Svetonio
rimase coinvolto in uno scandalo di corte: fu allontanato con l'accusa (forse pretestuosa) di aver

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intrattenuto rapporti troppo confidenziali con l'imperatrice Sabina. Da questo momento si perde
ogni traccia di Svetonio, che, ritiratosi a vita privata, morì presumibilmente non molti anni dopo.
B) Le opere: Si attribuiscono a Svetonio quattordici opere, sopravvissute solo in pochi frammenti o
in qualche rielaborazione di età bizantina e dedicate agli argomenti più vari, dai giochi al
calendario, dall'abbigliamento alle festività, dalle scienze naturali alle questioni linguistiche.
Svetonio redasse anche un'opera di carattere enciclopedico, chiamata “Pratum”. Anche di questa
nulla ci è giunto. Grande fama e diffusione godette il “De viris illustribus”. L'opera, articolata in
cinque libri, dedicati rispettivamente ai poeti, agli oratori, agli storici, ai filosofi, ai grammatici e
retori, ne raccoglieva le biografie ridotte ed essenziali, quasi delle schede, secondo una tradizione
che a Roma risaliva a Varrone e a Cornelio Nepote. Dell'opera restano alcune biografie isolate e
spesso incomplete. L'articolazione di ogni libro e semplice, ma efficace: indice degli autori,
presentazione storica del genere letterario, sintetiche biografie di estensione proporzionata
all'importanza dell'autore, esposte con quella singolare attenzione ai particolari meno noti, che in
Svetonio rappresenta quasi un motivo guida. Alle vite dei primi dodici imperatori, è dedicato il
“De vita Caesarum”, l'opera più importante di Svetonio, articolata in otto libri e arrivata pressochè
intatta. L'opera si inserisce nel solco di una tradizione che a Roma vantava origini antichissime,
come gli elogia e le laudationes funerarie, e che non solo aveva avuto esponenti di tutto rilievo,
ma che, proprio in quegli anni, stava attraversando una fase di nuovo splendore con le “Vite
parallele” del greco Plutarco. Svetonio, però, si distingue per alcuni aspetti originali, come il
metodo di narrazione adottato e il tipo di documentazione che raccoglie ed esamina. Svetonio
ritiene che per conoscere meglio e più a fondo il personaggio sia importante non limitarsi alla
pura e consequenziale narrazione dei fatti, ma esporre anche, raggruppandoli in sezioni o catego-
rie avulse dalla cronologia, il ritratto fisico e morale, l'elenco dei vizi e delle virtù, le iniziative
militari e civili, le vicende personali, insomma le varie componenti della vicenda pubblica e
privata dell'imperatore, che al tempo di Svetonio regolava e scandiva non solo la vita di corte ma
anche quella di tutto l'impero. Altro aspetto originale è il metodo di raccolta dei dati: da vero topo
d'archivio e di biblioteca egli setacciò infaticabilmente un'enorme mole di documenti, pubblici e
soprattutto privati, cui aveva accesso grazie alla sua carica. E come si serve delle opere degli
storici precedenti, cosi non manca di utilizzare anche le testimonianze orali, fossero esse voci
degne di fede oppure pettegolezzi di corte e dicerie prive di fondamento. A una lettura
superficiale potrebbe sembrare che Svetonio, concentrandosi sugli aneddoti più che sui fatti,
privilegiando i dettagli irrilevanti e i particolari curiosi, indugiando, quasi compiaciuto, sulle
perversioni sessuali e sui comportamenti maniacali, abbia fornito una narrazione frammentaria,
che porta ad isolare i fatti dal loro contesto storico. In realtà questa tecnica narrativa risponde ad
una scelta consapevole di Svetonio, al quale non interessava delineare un quadro storico che il
lettore poteva facilmente trovare in altri autori, anche prestigiosi, come Tacito, bensì presentare in
modo intrigante, vivace, spregiudicato il vero volto del potere. Il suo è anche un tentativo di
umanizzare la figura degli imperatori, presentando aspetti che contribuivano a renderli, con i loro
complessi, le loro manie, le loro nevrosi, più umani e meno lontani dalla vita comune. Con ciò si
spiega l'attenzione a fatti apparentemente insignificanti, come la smodata libidine di Cesare. Fatti
insignificanti, sì, ma che contribuiscono a conoscere più a fondo le figure dei singoli imperatori, a
valutarne meglio i comportamenti, a ricreare un ambiente come quello della corte imperiale, che
altrimenti ci sarebbe rimasto sicuramente ignoto. Nei ritratti essenzialmente negativi degli
imperatori giulio-claudi (eccetto Augusto) e di Domiziano, Svetonio non si allontana dalla
tradizione della storiografia senatoria, ma con maggiori sfumature e senza condividerne gli
interessi storici e politici. Egli trasmette ai lettori una sistemazione non problematica delle
informazioni, ne soddisfa le curiosità e li lascia più liberi nel giudizio di quanto non faccia Tacito.
Anche se la sua opera non ha lo spessore, la profondità, il grado di riflessione di quella tacitiana, o
di altri storiografi, la sua importanza ai fini della ricostruzione storica rimane fondamentale,
soprattutto per la grande raccolta di documenti e di informazioni che egli offre al lettore, materiale

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dal valore disomogeneo e non sempre degno di fede, ma in ogni caso utile, se non prezioso, per
ricostruire in modo dettagliato la prima età imperiale e le vicende dei suoi protagonisti.
C) Lingua e stile: La scrittura di Svetonio è essenziale, concreta, priva di ricercatezze e composta da
periodi brevi e poco articolati, con una particolare predilezione per l'uso del participio e con
frequenti ripetizioni delle stesse perifrasi. Lo stile risulta freddo, impersonale ed uniforme, anche
perchè il racconto e condotto in terza persona, sottintendendo sempre come soggetto l'imperatore.
Lo stile di Svetonio forse risente della sua attività di burocrate, abituato a stendere rapporti e
memoriali. Infatti, proprio come in una relazione di tipo amministrativo, le notizie sono riportate
in maniera ordinata, con scrupolo, senza badare a gerarchie di valori e senza tentare rielaborazioni
letterarie.

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