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Arthur Schopenhauer nacque il 22 febbraio 1788 a Danzica, allora tedesca, oggi polacca. Suo padre
era un banchiere, mentre sua madre era una nota scrittrice di romanzi. Si trasferì ad Amburgo
dove venne educato per prendere le redini dell’attività di famiglia. Nel 1805 il padre morì
probabilmente suicida allora lui prese in mano le redini dell’attività del padre ma successivamente
decise di continuare la sua vocazione, quindi si iscrive prima al ginnasio, poi a medicina ma capisce
che non fa per lui e si iscrive alla facoltà di filosofia. Si laure a Jena con la tesi “Sulla quadruplice
radice del principio di ragion sufficiente”. Prese la cattedra e tenne le sue lezioni
contemporaneamente a Hegel, infatti erano deserte. All’inizio le sue opere furono un fallimento
ma dal ’48 in poi andarono a ruba. Fece alcuni viaggi in Italia e rientrato a Berlino fu costretto a
lasciarla a causa di un’epidemia di colera. Si stabilì a Francoforte sul Meno, dove rimase fino alla
morte, avvenuta il 21 settembre 1860.
LE OPERE:
- Sulla vista e i colori (in difesa delle dottrine scientifiche di Goethe)
- Il mondo come volontà e rappresentazione (1818)
- Sulla volontà della natura (1836)
- I due problemi fondamentali dell’etica (1841)
- Parerga e paralipomena (1851)
LE RADICI CULTURALI
Schopenhauer si pone come punto di incontro tra Platone, Kant, l’Illuminismo, il
romanticismo, l’idealismo e la spiritualità indiana. Di Platone lo attrae soprattutto la teoria
delle idee intese come forme eterne; Da Kant riprende la distinzione tra fenomeno e
noumeno ma gli dà significati diversi: il fenomeno è la realtà in cui viviamo che rappresenta
una sorta di illusione, mentre la vera realtà, il noumeno, è qualcosa che si nasconde dietro
al fenomeno e che possiamo conoscere. Da Kant riprende anche l’idea secondo la quale
l’impulso della conoscenza è il soggetto. dell’Illuminismo lo interessano il filone
materialistico e quello dell’ideologia; dal romanticismo trae l’irrazionalismo, la grande
importanza attribuita all’arte e alla musica e soprattutto il tema dell’infinito ovvero la tesi
della presenza nel mondo di un principio assoluto di cui le varie realtà sono manifestazioni.
Altro motivo romantico è quello del dolore, tuttavia mentre il romanticismo ha una
tendenza globalmente ottimistica Schopenhauer appare invece orientato alla visione
pessimistica della realtà. Un ruolo importante è quello del pensiero idealistico indicato dal
filosofo con la formula “filosofia delle università” presentandolo come una posizione non al
servizio della verità ma di interessi volgari, quali il successo e il potere. Rispetto a Fitche e
Shelling, Hegel viene descritto come un sicario della verità. Schopenhauer manifesta
l’esigenza della libertà della filosofia, in nome della quale egli si indigna di fronte alla
divinizzazione dello Stato da parte di Hegel e troviamo una serie di insulti contro la filosofia
idealistica e contro il suo impatto negativo sulla cultura dell’epoca e sulla formazione dei
giovani. Schopenhauer:
- è stato il primo filosofo occidentale a tentare il recupero di alcuni motivi del
pensiero dell’estremo oriente
- ha desunto da essa un prezioso repertorio di immagini e di espressioni suggestive
- è stato un ammiratore della sapienza orientale e un profeta
IL VELO DI MAYA
Nella sua opera più importante “Mondo come volontà e rappresentazione” Schopenhauer
afferma che ogni nostra conoscenza non è altro che una rappresentazione del mondo che
viene filtrato dalle forme pure apriori. Può essere vista come uno sviluppo della
gnoseologia kantiana, però vi è un tradimento che possiamo capire mediante la
dissertazione, ovvero una premessa utile per capire la sua visione del mondo. Come Kant
parte dal principio secondo il quale niente esiste senza una ragion del suo essere, mentre
però per Kant questo era un principio solo gnoseologico, per Schopenhauer è anche
ontologico. Questo infatti aveva spinto Kant a definire la cosa in sé inconoscibile.
Schopenhauer accetta questo principio e dice che quando ci rapportiamo alle cose le
collochiamo nel tempo e nello spazio ma il nostro intelletto va anche alla ricerca delle
cause. Nella dissertazione cerca di dimostrare che il principio di ragion sufficiente deve
essere ricondotto al principio di causalità, rielabora quindi la distinzione tra fenomeno e
noumeno. Per Schopenhauer l’impossibilità di conoscere la cosa in sé fa in modo di farci
vivere in un mondo illusorio, mentre per Kant era un mondo reale, per il filosofo il velo di
Maya (il fenomeno) è possibile squarciarlo e conoscere il noumeno attraverso l’esperienza
corporea. Soggetto e oggetto esistono come facce della stessa medaglia e nessuno dei due
può essere indipendente dall’altro. Così se il materialismo è falso perché nega il soggetto
riconducendolo all’oggetto, l’idealismo è errato in quanto fa il tentativo opposto. Sulle
orme del Criticismo anche Schopenhauer ritiene che la nostra mente risulti corredata di
una serie di forme a priori tuttavia a differenza di Kant, egli ammette solamente tre forme
a priori: spazio, tempo e casualità, quest’ultima è l’unica categoria in quanto tutte le altre
sono a essa riconducibili. Le forme pure a priori in Kant servivano per ordinare la realtà,
per Schopenhauer sono come dei vetri sfaccettati attraverso cui guardiamo il fenomeno
che diventa ancora più illusorio. La casualità assume forme diverse a seconda degli ambiti
in cui opera manifestandosi come principio di divenire (regola i rapporti tra gli oggetti
naturali), del conoscere (regola i rapporti tra premesse e conseguenze) dell’essere (regola i
rapporti spazio-temporali e connessioni aritmetico-geometriche) e dell’agire (regola le
connessioni tra un’azione e i suoi motivi). Poiché Schopenhauer paragona le forme a priori
a vetri sfaccettati attraverso cui la visione si deforma si considera la rappresentazione
come un inganno traendo la conclusione che la vita è un sogno ovvero un tessuto di
apparenze, una sorta di incantesimo. Aldilà del sogno, esiste la realtà, quella vera, riguardo
alla quale il filosofo che è nell’uomo non può fare a meno di interrogarsi. Schopenhauer
sostiene che l’uomo è un animale metafisico che a differenza degli altri esseri viventi è
portato a stupirsi della propria esistenza e a interrogarsi sull’essenza ultima della vita.
È possibile squarciare il velo di Maya attraverso il corpo che è qualcosa di esteriore, come
un oggetto che posso conoscere, ma attraverso l’autocoscienza posso diventare
consapevole della simultaneità che esiste tre i nostri movimenti e la volontà. Gli atti di
volontà sono però delle decisioni istantanee, volere e fare sono separati solo dal punto di
vista della riflessione, nella realtà sono simultanei. La volontà si manifesta come una forza
che tende all’autoconservazione: la volontà di vivere. Il nostro stesso corpo non è che la
manifestazione esteriore dell’insieme delle nostre brame interiori e il mondo fenomenico
non è altro che il modo in cui la volontà si manifesta e si rende visibile a sé stessa nella
rappresentazione spazio-temporale. Da qui ricaviamo il titolo del capolavoro: il mondo
come volontà e rappresentazione. Per esprimere il concetto Schopenhauer ricorre a una
serie di immagini descrivendo il rapporto tra volontà e intelletto, volontà e corpo, volontà
e fenomeno in generale, come il rapporto tra padrone e servo, cuore e intelletto. Tutti gli
esseri sono perversi dalla volontà di vivere, in forme distinte e secondo gradi di
consapevolezza diversi.
Quando parla della volontà dice che essa è unica e allora com’è possibile che si sfiocchi
nella molteplicità degli esseri viventi e delle manifestazioni fenomeniche? Questa divisione
avviene attraverso le idee che sono dele possibili oggettivazioni della volontà, come le idee
platoniche sono indipendenti dallo spazio e dal tempo, ma a differenza di Platone non
ritiene che siano indipendenti le une dalle altre.
IL PESSIMISMO
Affermare che l’essere è la manifestazione di una volontà infinita equivale a dire che la vita
è dolore. volere significa desiderare e desiderare significa trovarsi in uno stato di tensione
per la mancanza di qualcosa, dunque il desiderio è assenza, ovvero dolore. poiché
nell’uomo la volontà è più cosciente proprio l’uomo risulta più bisognoso e mancante,
destinato a non trovare mai un appagamento. ciò che gli uomini chiamano godimento o
gioia non è altro che una cessazione di dolore, ovvero lo scaricarsi di una tensione
persistente: perché ci sia piacere è necessario che ci sia uno stato precedente di dolore. La
stessa cosa non vale per il dolore che non può essere cessazione di piacere: un individuo
può sperimentare una serie di dolori senza che questi siano preceduti da altrettanti piaceri.
Pertanto mentre il dolore identificandosi con il desiderio, la struttura stessa della vita, è un
dato primario e permanente, il piacere è solo una funzione derivata del dolore che vive
unicamente a spese di esso. il piacere riesce a vincere il dolore solo a patto di annullare sé
stesso poiché non appena viene meno lo stato di tensione del desiderio cessa anche la
possibilità del godimento. Accanto al dolore che è realtà durevole, e al piacere che è
qualcosa di momentaneo Schopenhauer pone come terza situazione di base dell’esistenza
umana, la noia, la quale subentra quando viene meno l’aculeo del desiderio. La vita umana
è come un pendolo che oscilla incessantemente tra il dolore e la noia, passando attraverso
l’intervallo fugace illusorio del piacere e della gioia. Ma se il dolore costituisce la legge
profonda della vita ciò che distingue le situazioni casi umani sono solo il diverso modo le
diverse forme in cui tale dolore si manifesta.
Poiché la volontà di vivere si manifesta in tutte le cose, il dolore non riguarda soltanto
l’uomo ma investe ogni creatura. E se l’uomo soffre di più rispetto alle altre creature è
semplicemente perché egli avendo maggior consapevolezza è destinato a sentire in modo
più accentuato la spinta della volontà e a patire maggiormente l’insoddisfazione dei propri
desideri. Per questa ragione il genio avendo maggiore sensibilità rispetto agli uomini
comuni è votato a una sofferenza più intensa. Il filosofo perviene a una delle più radicali
forme di pessimismo cosmico o metafisico di tutta la storia del pensiero e afferma che il
male non è solo nel mondo ma nel principio stesso da cui il mondo dipende. Espressione di
questo dolore è la lotta crudele di tutte le cose. Il fatto che alla natura interessi solo la
sopravvivenza della specie trova una sua manifestazione nell’amore; infatti, l’amore è uno
dei più forti stimoli dell’esistenza. Il fine dell’amore o lo scopo per cui esso è voluto dalla
natura è solo l’accoppiamento. l’individuo proprio nel momento in cui crede di star
realizzando maggiormente il proprio godimento e la propria personalità è in realtà lo
zimbello della natura. Manifestazioni di tale essenza biologica dell’amore sono il caso
limite della mantide femmina, che divora il maschio dopo l’atto sessuale e la triste
constatazione del fatto che la donna dopo aver adempiuto alla procreazione e
all’allevamento dei figli perde ben presto la propria bellezza. Se l’amore è un semplice
strumento per perpetuare la vita della specie allora non c’è amore senza sessualità. È per
questo insieme di ragioni che l’amore procreativo è inconsapevolmente avvertito come
peccato e vergogna. per non citare il fatto che esso è responsabile del maggiore dei delitti
cioè della procreazione di altre creature destinate a soffrire; l’amore non è nient’altro che
l’unione di due infelicità che formano una terza infelicità, per questo l’unico amore di cui si
può tessere l’elogio, non è quello generativo ma quello disinteressato della pietà.