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Le reazioni alla filosofia hegeliana

Nella prima metà dell'Ottocento, in Europa, si afferma la filosofia dell'idealismo tedesco, espressa
nel grandioso sistema elaborato da Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Tuttavia, dopo la morte del
filosofo di Stoccarda, avvenuta nel 1831, non manca un'energica reazione al suo pensiero e alla
concezione idealistica in generale. Gli esponenti principali di questo movimento di opposizione
all'idealismo sono il tedesco Arthur Schopenhauer (1788-1860) e il danese Søren Kierkegaard
(1813-1855).
Schopenhauer, da parte sua, contesta la perfetta coincidenza - affermata dall'hegelismo - tra reale e
razionale, che porta a una giustificazione teleologica e ottimistica delle vicende naturali e storiche.
A suo parere, il principio della realtà non è la Ragione, come sostiene Hegel, ma una forza
irrazionale e cieca.
Kierkegaard, invece, contrappone alla filosofia hegeliana, che si occupa solo dell'essenza, cioè del
generale e dell'universale astratto, la filosofia dell'esistenza, riguardante l'uomo singolo,
individuale e concreto. Inoltre, il filosofo danese rivendica la trascendenza del divino, su cui si
appuntano la speranza e la coscienza religiosa umana, in contrapposizione alla negazione di ogni
realtà trascendente operata dall'idealismo e da Hegel.

SCHOPENHAUER
1. La vita e le opere
Gli studi - Arthur Schopenhauer nasce nel 1788 a Danzica (all'epoca città tedesca indipendente,
oggi situata in Polonia) da una famiglia appartenente alla ricca aristocrazia mercantile.
È educato a Danzica e ad Amburgo. Alla morte del padre commerciante, Arthur abbandona
definitivamente le attività commerciali e segue la madre scrittrice, che si trasferisce a Weimar. A
Weimar, la madre di Arthur riceve nel suo salotto tutta l'élite intellettuale della città, a cominciare da
Goethe. Il giovane Schopenhauer studia medicina all'università di Gottinga e poi filosofia a
Berlino. Qui ascolta le lezioni di Fichte, che però non suscitano il suo interesse. Nel 1813, per
conseguire il dottorato in filosofia, scrive la dissertazione Sulla quadruplice radice del principio di
ragion sufficiente.

La fortuna della filosofia di Schopenhauer - Libero da preoccupazioni economiche grazie


all'eredità paterna, che amministra con oculatezza, Schopenhauer ambisce moltissimo alla fama.
Tuttavia, nessun successo immediato arride al suo capolavoro in quattro libri, Il mondo come
volontà e rappresentazione del 1819, per l'indirizzo pessimistico e anti-idealistico, poco apprezzato
in un'epoca in cui trionfa l’hegelismo. Nel 1820 insegna all'università di Berlino come libero
docente, ma con scarsa fortuna, sempre a causa dell'hegelismo dominante che egli combatte.
Schopenhauer tiene le lezioni nella stessa ora di Hegel, ma senza ascoltatori. Non avendo ottenuto
una cattedra universitaria, abbandona l'insegnamento e trascorre gli ultimi tre decenni della sua vita
nella solitudine e negli studi.
La fortuna della sua filosofia inizia solo dopo il 1848, quando un'ondata di pessimismo si diffonde
in Europa. Nel 1851 pubblica i Pàrerga e Paralipómena (i due termini greci significano "appendici
e temi tralasciati''), un volume di riflessioni e aforismi che sviluppano gli argomenti principali del
suo sistema. Quest'opera - scritta in uno stile letterario chiaro e brillante - gli garantisce il successo
e la fama tanto desiderati. La seconda edizione de Il mondo come volontà e rappresentazione va
esaurita e nel 1859 ne è ristampata una terza, mentre cresce il numero dei discepoli e degli
ammiratori in tutta Europa.
Schopenhauer muore nel 1860 a Francoforte, dove si è trasferito fin dal 1831, partendo da Berlino
per sfuggire al colera che ha ucciso Hegel.
2. Riferimenti culturali del sistema schopenhaueriano
La polemica con l'hegelismo - La filosofia di Schopenhauer si contrappone nettamente
all'idealismo hegeliano. Schopenhauer descrive Hegel come «un sicario della verità», o come «un
ciarlatano pesante e stucchevole». Per Hegel il principio della realtà è la Ragione, l'Idea, tant'è vero
che egli identifica realtà e razionalità. Per Schopenhaur, al contrario, il principio primo non è la
Ragione, ma la Volontà, cioè una forza irrazionale. Inoltre, Hegel è portato a un ottimismo
radicale, poiché vede nella storia il trionfo della ragione e della libertà. Schopenhauer si fa, invece,
sostenitore di un pessimismo1 universale. Per il filosofo di Danzica la storia è priva di significato: si
limita a ripetere assurdamente sempre le stesse vicende. Schopenhauer, pur essendo un acerrimo
nemico dell'idealismo hegeliano, subisce comunque l'influsso del Romanticismo per l'importanza
attribuita all'arte e alla musica e per il tema dell'infinito. Secondo Schopenhauer, infatti, alla base
della realtà esiste un principio infinito, impersonale e immanente, che pero non è la Ragione, ma
appunto una Volontà irrazionale.

Kant e Schopenhauer - Schopenhauer, contrapponendosi a Hegel, si rifà a Kant, dal quale riprende
la distinzione tra fenomeno e noumeno, cioè tra il mondo apparente (quale si manifesta a noi,
attraverso le nostre forme a priori) e il mondo reale o cosa in sé (qual è in se stesso). Gli idealisti
negano la cosa in sé, mentre Schopenhauer ritorna al dualismo kantiano tra mondo fenomenico e
mondo noumenico. Sennonché, mentre per Kant il mondo noumenico, pur esistendo come
fondamento dei dati sensibili, è e sarà sempre del tutto sconosciuto per noi, Schopenhauer ritiene di
aver scoperto quale sia la natura essenziale della realtà noumenica. Secondo Schopenhauer, il
noumeno, a differenza di quello che sostiene Kant, può essere conosciuto dall'uomo. In Kant il
noumeno ha un valore soprattutto negativo (cioè limitativo), nel senso che limita le nostre pretese
conoscitive. Invece, in Schopenhauer la cosa in sé è trattata in modo essenzialmente positivo,
venendo a costituire il vero oggetto metafisico della sua indagine.

Platone e la filosofia indiana - Significativo è anche l'apporto di Platone, evidente soprattutto nel
II e nel III libro del Mondo, dove Schopenhauer riprende la teoria platonica delle idee. Infine,
importante è l'influenza della religione e della filosofia indiane. Schopenhauer conosce queste
dottrine attraverso gli studi dell'orientalista Friedrich Majer, che lo introduce alle Upanishad, un
gruppo di scritti filosofici della religione induista composti fra il IX e il IV secolo a.C. Bisogna,
però, ricordare che Schopenhauer entra in contatto con questi scritti solo dopo il 1813, quando
alcuni concetti fondamentali del suo sistema sono già fissati. Egli, inoltre, distorce
inconsapevolmente molte nozioni della cultura orientale, proiettando su di essa la propria visione
del mondo.

3. Il mondo come rappresentazione


La rappresentazione - Il capolavoro di Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione,
si apre con l'affermazione, secondo cui «il mondo è la mia rappresentazione». Per
rappresentazione2 (in tedesco Vorstellung), Schopenhauer intende il fenomeno, l'apparenza. Il
mondo che si offre alla nostra conoscenza è apparenza, illusione, sogno. Noi non conosciamo il
mondo così com'è realmente, ma come ci appare. Noi non conosciamo - dice Schopenhauer - né il
sole né la terra così come sono in sé. Ma conosciamo un occhio che vede il sole, una mano che
sente la terra. Cioè conosciamo la realtà tramite le nostre forme a priori di conoscenza.

1 È la concezione in base a cui l'essere non è altro che male e dolore. Tale visione del mondo, che è propria di
Schopenhauer, si contrappone all'ottimismo sostenuto, per esempio, da Hegel.
2 Con rappresentazione Schopenhauer intende il ''fenomeno'', ossia la realtà quale ci appare. Essa è costituita dal
materiale dei sensi sintetizzato mediante le nostre forme a priori dello spazio, del tempo e della causalità.
Soggetto e oggetto - All'interno della rappresentazione, possiamo distinguere due aspetti essenziali:
da un lato c'è il soggetto rappresentante, dall'altro c'è l'oggetto rappresentato. Soggetto e oggetto
esistono soltanto all'interno della rappresentazione: appartengono al mondo fenomenico e nessuno
dei due precede o può sussistere indipendentemente dall'altro. Non ci può essere soggetto senza
oggetto, perché se non ci fosse l'oggetto il soggetto non conoscerebbe nulla; ma in questo caso non
sarebbe neppure più soggetto, perché esso è tale solo in quanto conosce. E non ci può essere oggetto
senza soggetto, perché l'oggetto - costituito dalla molteplicità spazio-temporale delle cose - è
determinato dalle forme a priori del soggetto. Dato che l'uno non può stare senza l'altro, né il
soggetto né l'oggetto isolatamente presi possono essere il principio della realtà. Sono perciò falsi sia
il materialismo sia l'idealismo. Il materialismo è falso perché riduce il soggetto all'oggetto.
L'idealismo è falso perché riduce l'oggetto al soggetto.

La cosa in sé - Schopenhauer, pur ritenendo che soggetto e oggetto esistono solo all'interno della
rappresentazione, ammette che al di là della rappresentazione ci sia qualcos'altro, la cosa in sé, il
noumeno che sfugge alle forme a priori della nostra conoscenza. Il mondo non si riduce alla sola
rappresentazione ed esiste indipendentemente da noi. Intuitivamente avvertiamo che oltre alla
rappresentazione c'è qualcos'altro che la fonda: il noumeno, che non è né il soggetto né l'oggetto,
ma, come vedremo, la Volontà.

4. Il velo di Maya
Le forme a priori - Anche per Schopenhauer, come per Kant, il mondo fenomenico o mondo della
rappresentazione è determinato da una serie di forme a priori, cioè da regole che non sono ricavate
dall'esperienza (in tal caso, infatti, sarebbero a posteriori), ma che siamo noi a imporre a tutto ciò di
cui abbiamo una qualche cognizione. I dati dei sensi che vengono da noi conosciuti si adattano o si
conformano alle nostre regole mentali.
Tuttavia, a differenza di Kant, Schopenhauer ammette solo tre forme a priori: spazio, tempo e
causalità. Nella rappresentazione i fenomeni ci appaiono come collocati qua o là (nello spazio), in
una connessione di prima e poi (nel tempo) e gli uni dipendenti dagli altri (cioè collegati da
relazioni di causa ed effetto). Le dodici categorie kantiane si riducono, nel sistema di Schopenhauer,
alla sola categoria di causa (o principio di ragion sufficiente). La causalità, pur essendo l'unica
categoria, assume però quattro forme ben distinte, a seconda degli oggetti a cui viene applicata.
Queste quattro forme della causalità sono descritte nell'opera Sulla quadruplice radice del principio
di ragion sufficiente del 1813 e risultano le seguenti.
Il principio di ragion sufficiente - Innanzitutto, sussiste la causalità del divenire, che regola i
rapporti fra le cause e gli effetti fisici: infatti, ogni mutamento degli oggetti del mondo naturale è
sempre determinato da qualche causa.
Poi c'è la causalità del conoscere, che regola i rapporti fra le premesse e le conclusioni di un
ragionamento: nelle inferenze della logica, la verità delle premesse è la causa della verità delle
conclusioni.
Segue la causalità dell'essere, che regola i rapporti fra le parti del tempo e dello spazio e determina
la concatenazione degli enti aritmetici e geometrici, per cui da poche proprietà matematiche
primitive dipendono, come effetti, le proprietà più complesse.
Infine, vi è la causalità dell'agire, che regola i rapporti fra le azioni e i loro motivi: i motivi
influiscono sulla volontà umana e sono dunque la causa delle nostre scelte.

IL PRINCIPIO DI RAGION SUFFICIENTE

Ambito di applicazione Tipologia di causalità

Causalità del divenire Regola i rapporti fra le cause e gli effetti fisici

Causalità del conoscere Regola i rapporti fra le premesse e le conclusioni di un ragionamento

Causalità dell’essere Regola i rapporti fra le parti del tempo e dello spazio

Causalità dell’agire Regola i rapporti fra le azioni e i loro motivi

Il velo di Maya - Spazio, tempo e causalità costituiscono per Schopenhauer il cosiddetto velo di
Maya3 che impedisce all'uomo di conoscere la realtà com'è in se stessa. L'espressione "velo di
Maya" è ripresa da Schopenhauer dalla religione indiana: negli antichi libri sacri dell'India, Maya è
la potenza magica di cui si servono gli dei per assumere aspetti illusori. Spazio, tempo e causalità
sono paragonati da Schopenhauer anche a vetri colorati e sfaccettati attraverso i quali la nostra
visione si deforma e si altera. Noi vediamo le cose come per effetto di un'illusione ottica.

La vita è sogno - Secondo Schopenhauer, poiché il mondo è una nostra rappresentazione, la vita è
una sorta di sogno o incantesimo. A conferma di questa sua tesi, Schopenhauer cita i libri sacri
della religione indiana, che considerano illusorio il mondo sensibile; ricorda Platone, che
contrappone agli uomini che vivono sognando nella caverna il filosofo che cerca di uscirne;
William Shakespeare, che nella Tempesta descrive gli uomini come fatti della stessa stoffa dei
sogni; e, infine, il drammaturgo spagnolo Pedro Calderón de la Barca, autore di un dramma
filosofico-teologico dal titolo La vita è sogno (1635).

5. Il mondo come Volontà


Il passaggio segreto - Dunque, a giudizio di Schopenhauer, l'uomo conosce la realtà non
direttamente, ma attraverso il diaframma delle sue forme a priori. Anche se questa concezione è
decisamente kantiana, il filosofo di Danzica non si attiene alla cautela di Kant, che esclude la
possibilità di conoscere la cosa in sé, oltrepassando il fenomeno. Infatti, come si è già detto,
Schopenhauer pensa che l'uomo possa lacerare il velo di Maya e accedere alla realtà noumenica che
sta dietro alle rappresentazioni. Egli paragona la via d'accesso che conduce a scoprire il noumeno a
una sorta di passaggio segreto sotterraneo che, a tradimento, ci porta all'interno di quella fortezza

3 Nella filosofia indiana, Maya rappresenta il potere divino tramite il quale l'Essere supremo può far sorgere o ancora
scomparire ciò che vuole. Il velo di Maya è per Schopenhauer il velo ingannevole che si frappone fra noi e le cose.
Corrisponde alle forme a priori del mondo fenomenico che ci impediscono di conoscere il noumeno o cosa in sè.
che è impossibile espugnare dal di fuori. Questa via d'accesso è costituita dall'intuizione che
abbiamo del nostro corpo. Noi possiamo conoscere il nostro corpo in due modi completamente
diversi. Innanzitutto, lo possiamo conoscere dall'esterno, come un oggetto accanto agli altri oggetti
dell'esperienza, sottoposto, come tutti i fenomeni, alle leggi dell'esperienza, cioè alle forme a priori
(spazio, tempo e causalità). Ma possiamo conoscerlo anche dal di dentro, attraverso
l'introspezione, sentendoci vivere. E a questa introspezione di noi stessi - sempre secondo
Schopenhauer - il nostro corpo si rivela come Volontà (in tedesco Wille).
Supponiamo, per esempio, di muovere una mano per afferrare un oggetto. Questo gesto mostra due
facce diverse: una esteriore, che consiste nello spostamento della mano nello spazio e che risulta
visibile anche a un osservatore esterno diverso da noi, e una faccia interiore, per cui il moto
muscolare si rivela come sforzo, frutto della nostra Volontà. È dunque la Volontà la "cosa in sé"
dell'uomo, che si manifesta anche nella sua tendenza all'autoconservazione. Per analogia, la
Volontà è ritenuta da Schopenhauer l'essenza profonda di tutti gli altri corpi della natura, al di sotto
dell'aspetto esteriore che presentano nelle nostre rappresentazioni.
La Volontà di vivere - Questa proposta è basata su una serie di indizi: infatti, in tutti i fenomeni
vitali, nelle piante e negli animali, riscontriamo un istinto di conservazione e di riproduzione, cioè
una forma (inconscia) di Volontà di vivere4 (Wille zum Leben). Ma anche la materia inorganica è
caratterizzata dalla stessa forza cosmica inconscia. Per esempio, secondo Schopenhauer, è una
forma di Volontà (naturalmente inconsapevole) anche la forza di coesione per cui la roccia oppone
resistenza al piccone che vuole spaccarla. Una Volontà inconscia è presente nelle acque che
precipitano nelle cascate, nell'ago magnetico che si orienta verso il polo Nord, nel ferro che si
muove verso la calamita, nei corpi che vengono attratti verso il loro centro di gravità o nelle
sostanze che chimicamente si respingono o si congiungono.
La Volontà che Schopenhauer presenta come il fondo ultimo dell'uomo e di tutta la realtà è dunque
un principio primo, impersonale e immanente in tutte le cose. Il mondo ha dunque due volti: quello
dell’apparenza, costituito dalle rappresentazioni, disposte nello spazio e nel tempo, secondo
rapporti di causalità, che si presenta a chi cerca di conoscerlo dall'esterno; e quello della realtà in sé
che genera le rappresentazioni, e che non è null'altro che la Volontà di vivere. Il mondo si presenta,
dunque, come Volontà e come rappresentazione.

6. Le caratteristiche della Volontà


Il principium individuationis - Come cosa in sé, la Volontà si sottrae alle forme proprie del
fenomeno, e cioè allo spazio, al tempo e alla causalità.
Spazio e tempo costituiscono per Schopenhauer il cosiddetto principium individuationis (''principio
di individuazione''), cioè quel principio che, secondo i filosofi scolastici del Medioevo, differenzia
un individuo da tutti gli altri individui della sua stessa specie (che distingue, per esempio, Socrate
da Platone e da tutti gli altri uomini). In effetti, affinché esistano più individui diversi, bisogna che
occupino punti differenti del tempo e dello spazio. Dunque la Volontà, che si sottrae allo spazio e al
tempo, si sottrae anche al principio di individuazione. È quindi unica in tutti gli esseri (ossia non è
molteplice) ed è indivisibile, cioè è presente tutta intera in ogni individuo, così come in ogni uomo
è presente tutta intera l'essenza dell'umanità. La Volontà si trova, nella stessa misura, in una quercia
come in un milione di querce. La Volontà non è più qui di quanto sia là, perché nella Volontà non c'è
spazio. E non è più oggi di quanto sia stata ieri, perché nella Volontà non c'è tempo. Se potessimo
intuire direttamente quello che si nasconde dietro tutti i corpi che vediamo nell'universo, così
come intuiamo direttamente il nostro volere al di sotto del nostro corpo, l'universo materiale
sparirebbe di colpo e con esso sparirebbero l'infinita estensione dei cieli (lo spazio), la successione
interminabile degli eventi (il tempo) e i loro nessi causali.

Il principium rationis - Poiché si sottrae anche alla causalità (al principium rationis), la Volontà
agisce in modo assolutamente cieco, cioè senza ragioni. Infatti, se ci fosse una ragione di ciò che la
Volontà vuole, ci sarebbe una causa della sua azione (in particolare, una causa finale), cioè un
obiettivo che essa intenderebbe raggiungere. La Volontà è dunque irrazionale: non ha nessun fine
ultimo in cui possa appagarsi. Non tende ad altro se non a realizzare se stessa.
In ciò consiste l'irrazionalismo della filosofia di Schopenhauer: miliardi di esseri (vegetali,
animali, uomini) non vivono per uno scopo, ma vivono semplicemente per continuare a vivere. Tutti
sono mossi da un insaziabile impulso vitale. L'universo schopenhaueriano che, come vedremo,
proprio perché è espressione della Volontà, è dolore e male, è anche assoluta irrazionalità: da alcuni
interpreti è paragonato a una specie di vascello fantasma che va alla deriva, senza alcuna meta,
come in un incubo inconsistente e spaventoso.

4È il principio metafisico supremo di cui l'universo è estrinsecazione; determina la perenne insoddisfazione dell'uomo e
provoca il dolore universale. È quindi alla base del pessimismo cosmico schopenhaueriano.
7. Le oggettivazioni della Volontà
Le fasi di oggettivazione della Volontà - Secondo Schopenhauer, la Volontà, per poter vivere, deve
pur realizzarsi negli individui. Per questo, si oggettiva (cioè si realizza) attraverso due fasi
logicamente distinte. Nella prima fase la Volontà, che di per sé è infinita e indeterminata, si
determina in una molteplicità di idee simili a quelle platoniche, che rappresentano i modelli
universali, immutabili ed eterni delle varie specie naturali, non collocati né nello spazio né nel
tempo. Nella seconda fase di oggettivazione della Volontà, queste idee si individualizzano nello
spazio e nel tempo, dando luogo ciascuna a un numero infinito di esseri concreti e particolari che
costituiscono il mondo della rappresentazione. Questo mondo delle realtà naturali si struttura a sua
volta attraverso una serie di gradi disposti in un ordine ascendente. Il grado più basso è costituito
dal mondo inorganico; i gradi superiori sono i regni vegetale, animale e umano, in cui la Volontà
prende coscienza di sé.

La lotta universale - Va detto che Schopenhauer concepisce questi livelli di realtà non
reciprocamente armonizzati come sostengono gli idealisti, ma in lotta perenne fra di loro. La natura
è dominata dalla contesa e da una cieca violenza: ogni grado di oggettivazione della Volontà
contende all'altro la materia, lo spazio e il tempo. Questa lotta universale raggiunge l'apice nel
mondo animale che ha per proprio nutrimento il mondo vegetale e in cui ogni animale diventa preda
di un altro animale. In tal modo la Volontà di vivere divora perennemente se stessa.
Per caratterizzare questa autolacerazione della Volontà, Schopenhauer riporta al § 27 del Mondo
l'esempio della formica gigante d'Australia (myrmecia australiana): «Quando la si taglia comincia
una lotta fra la parte del corpo e quella della coda; quella ghermisce questa con il morso, questa si
difende validamente col pungere quella. La battaglia dura di solito una mezz'ora, finché le due parti
muoiono o sono trascinate via da altre formiche. Il fatto si ripete ogni volta».
La tendenza di ogni essere naturale ad affermare se stesso su tutti gli altri esseri dipende dal fatto
che la Volontà è presente, tutta intera, in ciascun elemento della natura. Ogni parte della natura,
proprio perché è espressione di un principio unico e totale, tende a imporre se stessa e a subordinare
a sé tutto il resto. Così il mondo della natura diviene teatro di una guerra spaventosa. Nel singolo
uomo la Volontà s'individua in forma cosciente, ma di regola - cioè salvo eccezioni - non cessa per
questo dall'entrare in conflitto con le altre individuazioni, cioè con gli altri uomini. Ciascun
individuo, prima ancora di chiedersi perché lo faccia, si afferma contro gli altri, a qualunque costo,
senza alcuna limitazione. Infatti anche lui, essendo espressione dell'intera e unica Volontà, è
posseduto da un'oscura esigenza di essere il tutto ed è incapace di conciliare (salvo che per le vie
eccezionali che vedremo) tale esigenza con l'esigenza identica che si trova negli altri.

8. La vita come dolore e il pessimismo


Il desiderio - L’essenza del mondo è una Volontà insaziabile. Proprio per questo la vita è dolore.
Volere, infatti, significa desiderare. E ogni desiderio, finché non è appagato, implica uno stato di
bisogno, di tensione e di dolore, cioè di infelicità. Bisogna tener presente che un bisogno non
sempre può essere soddisfatto e di rado può esserlo subito dopo il suo manifestarsi; così la
percezione del bisogno e quindi la sofferenza durano a lungo. D'altra parte, appena un desiderio è
soddisfatto, sorge subito un altro desiderio, perché la Volontà di vivere che è nell'uomo non ha
nessun fine ultimo in cui possa appagarsi definitivamente. L'ideale sarebbe un susseguirsi regolare
di bisogni e di soddisfazioni di tali bisogni, ma anche una vita di questo genere, che è privilegio di
pochissimi, è esposta a quella radicale insoddisfazione della Volontà di vivere che è la morte.

Il dolore - In primo luogo, il dolore è dunque senza termine, per il motivo che la Volontà vuole
senza termine. In secondo luogo, è un dolore universale, che coinvolge non soltanto l'uomo, ma
anche tutti gli altri esseri della natura. Infatti la Volontà è il fondo ultimo di tutta la realtà, sia
naturale sia umana. Esiste dunque un dolore universale come conseguenza della Volontà universale.
A causa di questo dolore universale e radicale che coinvolge tutti gli esseri del mondo,
Schopenhauer sostiene che il nostro non è il migliore dei mondi possibili, come aveva sostenuto
Leibniz, bensì è il peggiore dei mondi possibili.

La noia - Fra tutti gli esseri della realtà, quello che soffre di più degli altri è l'uomo. L'uomo,
infatti, grazie alla sua intelligenza, si prefigge continuamente dei fini, delle mete in cui si illude di
trovare la felicità. Sennonché, raggiunta una meta, non si sente soddisfatto e se ne prefigge un'altra
e così via all'infinito. Per questo fatto, il nostro tendere di meta in meta è un passare di dolore in
dolore. Se, poi, alla soddisfazione di un desiderio non segue un altro desiderio, la nostra coscienza è
occupata da un vuoto terribile: la noia, cioè da un senso di sazietà. La noia ci fa capire che quando
vengono meno la tensione e il desiderio, la vita è vacua, è insignificante nullità. Il dolore e la noia
sono dunque i poli estremi tra i quali oscilla il pendolo della vita. Afferma Schopenhauer: «Se il
bisogno è il flagello del popolo la noia è il supplizio delle classi superiori». Si può anche dire che la
noia è rappresentata dalla domenica, mentre il bisogno è rappresentato dagli altri sei giorni della
settimana.
Il peggiore dei mondi possibili
Nei Saggi di teodicea (1710), il filosofo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz sostiene che Dio, prima della
creazione del nostro universo, ha concepito nella sua mente infiniti mondi possibili. Essendo buono e
onnisciente, tra tutte le combinazioni possibili ha scelto il mondo migliore, cioè quello che contiene la
massima quantità possibile di bene. Il nostro è quindi, secondo Leibniz, il migliore dei mondi possibili.
Schopenhauer, al contrario, ritiene che, a causa della Volontà di vivere che costituisce l'essenza del mondo e
che ci fa soffrire, il nostro sia il peggiore dei mondi possibili. Le due tesi - quella di Leibniz e quella di
Schopenhauer - anche se opposte fra loro sono altrettanto radicali.
Se finalmente a ciascuno si volessero porre sott'occhio gli orrendi dolori e strazi, a cui è la Sua Vita
perennemente esposta, lo coglierebbe raccapriccio: e se si conducesse il più ostinato ottimista attraverso gli
ospedali, le camere di martirio chirurgiche, attraverso le prigioni, le stanze di tortura, i recinti degli schiavi,
pei campi di battaglia e i tribunali, aprendogli poi tutti i sinistri covi della miseria, ove ci si appiatta per
nascondersi agli sguardi della fredda curiosità, e da ultimo facendogli ficcar l'occhio nella torre della fame di
Ugolino, finalmente finirebbe anch'egli con l'intendere di qual sorte sia questo meilleur des mondes
possibiles5 . Donde ha preso Dante la materia del suo Inferno, se non da questo nostro mondo reale? E
nondimeno n'è venuto un inferno bell'e buono. Quando invece gli toccò di descrivere il cielo e le sue gioie, si
trovò davanti a una difficoltà insuperabile: appunto perché il nostro mondo non offre materiale per una
impresa siffatta. Perciò non gli rimase se non trasmetterci, in luogo delle gioie paradisiache, gli
ammaestramenti, che a lui furono colà impartiti dal suo antenato, dalla sua Beatrice, e da differenti santi. Da
ciò apparisce abbastanza chiaro, di qual natura sia questo mondo.
(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)

9. Il piacere e l’amore
Il piacere - Ma se tutto è dolore e noia, perché continuare a vivere? Il fatto è che la Volontà di
vivere ci illude, facendoci credere che per esempio il piacere e l'amore (o eros) possano darci la
felicità. Ma in realtà quello che chiamiamo piacere non è che la soddisfazione temporanea di un
bisogno, cioè la cessazione del dolore. Perché ci sia piacere, bisogna che ci sia uno stato
precedente di tensione e di dolore. Il godimento del bere presuppone la sofferenza della sete. Non è
vero, però, l'inverso ossia che il dolore presupponga il piacere. Infatti, un individuo può
sperimentare una catena di dolori senza che questi siano preceduti da altrettanti piaceri. Dice
Schopenhauer: «Non v'è rosa senza spine, ma ci sono molte spine senza rose».

L’amore - Anche l'amore è un inganno. Noi crediamo, mediante l'amore, di procurarci la felicità.
Invece, la Volontà di vivere che è in noi si serve dell'amore per dare origine a nuove vite e per
moltiplicare il dolore, per continuare a vivere essa stessa. Dietro a Cupido, il dio bendato e alato,
sta il Genio della specie, che inesorabilmente vuole perpetuare la vita. Che l'unico scopo dell'amore
consista nell'accoppiamento sessuale rivolto alla propagazione della specie lo prova, secondo
Schopenhauer, il caso della mantide femmina, che divora il maschio con il quale si è appena
congiunta. Inoltre, ciò è dimostrato, per quanto riguarda la condizione umana, dal fatto che la
donna, dopo aver generato e allevato i propri figli, perde qualsiasi fascino agli occhi degli uomini.
Il fascino esercitato dalle fanciulle dipende dalla loro fecondità, finalizzata a generare una nuova
vita, un nuovo essere, che è destinato a sua volta, come tutti gli esseri, a soffrire e a morire (dato che
la vita di ogni uomo tende alla morte come una freccia tende al bersaglio).
Gli innamorati, in fondo, dice Schopenhauer, sono due infelici che si incontrano e si uniscono
solamente per generare una terza infelicità: «L'amore è nient'altro che due infelicità che si
incontrano, due infelicità che si scambiano e una terza infelicità che si prepara». Si capisce così
perché l'amore fondato sull'istinto sessuale venga avvertito inconsciamente, al di là del piacere
momentaneo che esso provoca, come "peccato" e come "vergogna". Infatti, chi compie un atto
sessuale consente la perpetuazione della specie e quindi della Volontà di vivere che genera il dolore.

5 Migliore dei mondi possibili. L'espressione è di Leibniz ed è contenuta nei suoi Saggi di teodicea, scritti in francese.
10. Il pessimismo e la storia
Nulla di nuovo sotto il sole - Secondo Schopenhauer, non c'è modo di sottrarsi a questo destino a
livello collettivo, nella storia. Il filosofo di Danzica si contrappone, infatti, a ogni forma di
storicismo: non è vero che, attraverso gli sforzi e i conflitti individuali, si venga realizzando un fine
superiore nelle vicende umane, quale può essere per esempio - come pensa Hegel - il trionfo della
libertà. Noi crediamo di progredire, mentre la vita non fa che ripetere, cieca e caotica, gli stessi
avvenimenti. La storia è stata, è e sarà sempre il regno degli egoismi. Ogni popolo, ogni età, ogni
individuo non fanno che ripetere la storia passata. Ripetono, battuta per battuta, la monotona sonata
che si è già sentita infinite volte e che si sentirà ancora nel mondo.
In realtà, secondo Schopenhauer, se noi siamo in grado di procedere oltre le apparenze, non
possiamo fare a meno di scoprire, in accordo con la saggezza orientale e con quella biblica,
contenuta nel libro dell'Ecclesiaste, che «non vi è nulla di nuovo sotto il sole» e dunque «tutto è
vanità». È vero che gli avvenimenti ci si presentano in forme sempre diverse, ma questa diversità
riguarda solo la superficie delle cose (il fenomeno), mentre l'essenza della realtà (e cioè il noumeno,
la Volontà) resta sempre la stessa. L'esistenza non è altro che nascita, sofferenza e morte.
Questa visione pessimistica di Schopenhauer conoscerà ampia fortuna nel periodo di ripiegamento
successivo al 1848, quando entreranno in crisi l'ottimismo e la fiducia nel progresso di stampo
illuminista.

L'inutilità del suicidio - Nemmeno il suicidio può essere una via di liberazione dal dolore, perché
con esso l'uomo non rinuncia alla vita, ma afferma di voler vivere in modo diverso: anche il suicida
vuole la vita, è solo scontento delle particolari condizioni che gli sono toccate. La sua è dunque
un'affermazione e non una negazione della Volontà. Con il suo gesto egli intende ribellarsi non tanto
contro la Volontà di vivere, quanto contro quella vita che ama, ma che lo ha deluso. Inoltre, il
suicidio sopprime l'individuo, una manifestazione della Volontà, ma non la cosa in sé, che, pur
morendo in un uomo, rinasce in mille altri.

11. Le vie di liberazione dal dolore: l'arte


Secondo Schopenhauer, esiste comunque per l'uomo la possibilità di liberarsi dal dolore universale.
E il processo di liberazione dal dolore implica vari gradi: l'arte, la morale e l'ascesi.

La concezione dell'arte - L’arte è per Schopenhauer un'intuizione disinteressata delle idee


presenti nelle cose, al di fuori dello spazio, del tempo e della causalità. Nell'esperienza artistica il
soggetto riesce a svincolare l'oggetto dalle condizioni spaziali, temporali e causali che lo
individualizzano e a contemplarlo come una specie universale, come un'essenza o idea, cioè come
l'immediata oggettivazione della Volontà. Per esempio, un pittore che contempla un tramonto dal
punto di vista artistico si dimentica del luogo in cui si trova (dello spazio), del tempo in cui vive e
degli effetti sfruttabili di ciò che vede (del rapporto di causa ed effetto). Il genio artistico contempla
la pura idea del tramonto e l'apprezza solo per quei rapporti formali di armonia che essa presenta.
Invece, un contadino (o un meteorologo) che guarda un tramonto resta incatenato ai rapporti di
causa ed effetto. Infatti, cerca di stabilire quali effetti deriveranno dal presente, cioè come sarà la
giornata di domani e come egli potrà utilizzarla in base al tempo che farà.
Secondo Schopenhauer, l'arte così intesa consente all'uomo di liberarsi temporaneamente del dolore,
perché nel momento estetico l'uomo sente il proprio spirito calmarsi e rasserenarsi. Nella
contemplazione artistica la tensione continua provocata in noi dalla Volontà di vivere ha una pausa e
così il nostro spirito gode attimi di serenità. Questo avviene proprio perché tale contemplazione è
disinteressata, cioè non tende a nulla, non ha alcun fine fuorché se stessa, e non suscita il desiderio.
Nell'esperienza estetica, inoltre, l'uomo perde il senso della propria individualità: si identifica
con il Tutto e con ciò smarrisce anche la consapevolezza dei propri dolori.
La classificazione delle arti - Schopenhauer propone una classificazione delle arti, nella quale
ognuna di esse esprime un certo tipo di idee. In particolare, l'architettura è espressione delle idee
dei livelli inferiori della realtà minerale (cioè delle idee di coesione, gravità e resistenza). La
pittura esprime le idee del regno vegetale e animale, mentre la scultura ha per oggetto le idee del
corpo umano. La poesia può esprimere le idee dell'intera natura, ma il suo tema principale è l'uomo,
con le sue aspirazioni e le sue azioni. Infine, la musica è l'arte suprema che va anche al di là delle
idee eterne: essa, infatti, riproduce direttamente il fluire inconscio della Volontà, senza dover
ricorrere né a concetti né a figure. È metafisica in suoni, perché rivela l'essenza intima delle cose. Il
susseguirsi nella musica delle sequenze dominante/tonica riproduce la forma in cui si esplica la
Volontà di vivere ovvero il susseguirsi dei bisogni e delle soddisfazioni. E proprio perché esprime la
Volontà, cioè la oggettiva, la musica ci aiuta a distaccarci dalla Volontà stessa.

12. La morale della giustizia e della carità


La liberazione dall'irrequietezza della vita mediante l'arte è però momentanea e l'uomo è presto
ripreso dalle passioni e dal dolore. Subito dopo l'esperienza estetica, la Volontà ci trascina di nuovo
di desiderio in desiderio e quindi di dolore in dolore. Un mezzo per raggiungere una più duratura
eliminazione del dolore è porre un freno all'egoismo, cioè alla Volontà di vivere che è in noi. Per
vincere l'egoismo bisogna praticare la moralità.

La compassione - Secondo Schopenhauer ciò che ci muove all'azione morale non è la ragione,
come pensa Kant, ma un sentimento di pietà. L'etica non scaturisce dall'imperativo categorico
dettato dalla ragion pratica, ma dalla compassione6, per cui sentiamo come nostre le sofferenze
altrui. "Compatire" significa, infatti, "soffrire con gli altri”, condividere i dolori dei nostri simili. Per
vincere il proprio egoismo non bastano le motivazioni intellettuali. Non è sufficiente la convinzione
che tutto nel mondo è dolore e che tutti soffrono, ma è indispensabile "con-sentire''
simpateticamente la sofferenza altrui.

La giustizia e la carità - Dalla compassione, che per Schopenhauer è un fatto degno di meraviglia,
misterioso ed eccezionale, perché comporta una vittoria sull'egoismo che è connaturato all'uomo,
derivano due virtù: la giustizia e la carità, o agápe. La giustizia consiste nell'astenersi dal fare il
male, nel limitarsi a non nuocere agli altri, secondo la prima parte della massima neminem laede
("non danneggiare nessuno"). Al posto dell'egoismo nasce l'imparzialità. La carità consiste, invece,
nel fare del bene agli altri, nel togliere o mitigare il dolore altrui, come impone la seconda parte
della massima immo omnes, quantum potest, juva ("al contrario, aiuta tutti, per quanto possibile"). A
differenza dell'eros, che è un falso amore egoistico, l'agápe è il vero amore disinteressato. Ma la
vittoria sulla Volontà operata dalla morale non è definitiva, perché non estirpa il male alla radice. È
solo l'ascesi a garantire la negazione radicale, assoluta della Volontà, del desiderio e quindi del
dolore.

13. L'ascesi
Il distacco dal corpo - L’ascesi7 consiste nel totale distacco dai cosiddetti "beni" e dalle cosiddette
soddisfazioni della vita. Il distacco e la rinuncia tolgono l'occasione del bisogno, e con ciò tolgono
anche l'occasione del dolore.

6 Nel suo significato etimologico, indica un sentimento di pietà verso il male e la disgrazia altrui. Per Schopenhauer essa
rappresenta uno dei mezzi per liberarsi dalla Volontà di vivere.
7 Il termine indica l'atteggiamento di chi si esercita a dominare e a sopprimere l'attaccamento alle cose. Per
Schopenhauer, l'ascesi è uno strumento di liberazione che può portare l'uomo alla negazione della Volontà e
all'esperienza del nulla.
In primo luogo, con l'ascesi bisogna rinunciare al corpo, che è espressione della Volontà. È quindi
necessaria la castità perfetta, che libera dalla prima e fondamentale manifestazione della Volontà di
vivere, cioè dall'impulso alla generazione e alla propagazione della specie. Seguono, poi, la rinuncia
ai piaceri, l'umiltà, il digiuno, la povertà, il sacrificio, l'automacerazione. In particolare, la povertà
volontaria va perseguita perché essa allontana gli uomini dagli oggetti che potrebbero suscitare il
desiderio.

La Nolontà - L'ascesi si perfeziona infine nello stadio che Schopenhauer chiama Nolontà8, che
consiste nella rinuncia totale e definitiva al volere. Nolontà (Noluntas) è un vocabolo che deriva
dal latino nolle = "non volere", sullo stampo del vocabolo Volontà (Voluntas), che deriva sempre dal
latino velle. La Nolontà è lo stadio della piena liberazione. Annullata ogni Volontà di vivere, ne
deriva automaticamente l'annullamento di ogni dolore.
La Nolontà di Schopenhauer corrisponde al nirvana della religione buddista. Nirvana è un
vocabolo sanscrito che significa "estinzione", cioè "estinzione di ogni desiderio". La Nolontà è
infatti il non voler resistere, il non voler agire, la rinuncia totale e definitiva. È l'annullamento
radicale della propria personalità (il dissolversi della nozione di "io" e di "soggetto") e quindi delle
proprie miserie. Il culmine della Nolontà è l'esperienza del nulla. Il pensiero di Schopenhauer, per
il tema dell'ascesi, oltre che riferirsi all'antica religione indiana, si ricollega alla mistica cristiana.
Sennonché, mentre nei mistici del cristianesimo l'ascesi si conclude con l'estasi, cioè con l'ineffabile
unione con Dio, il misticismo ateo di Schopenhauer mette capo all'esperienza del nulla9 .

Il nulla - Il nulla di cui parla Schopenhauer non sembra, però, il nulla assoluto, cioè il nihil
negativum, ma il nulla relativo, cioè il nihil privativum. Lo stato finale dell'ascesi, cioè l'esperienza
del nulla, è l'annientamento di tutto ciò che conosciamo, ma non è detto che sia un nulla in senso
assoluto. È un nulla per le nostre attuali facoltà mentali. Forse è l'esperienza di qualcosa di
indicibile. È un oceano di pace e di riposo per l'anima.
Va detto che durante la sua vita Schopenhauer non si è preoccupato di intraprendere personalmente
la via dell'ascesi da lui stesso teorizzata. È rimasto attaccatissimo alla Volontà di vivere e ai piaceri
della vita. Si è però giustificato per questa sua incoerenza sostenendo che non è necessario che il
filosofo sia anche santo. Così come non è necessario che il santo sia anche filosofo. Analogamente,
non è necessario che un grande scultore, autore di opere bellissime, sia anche un bell'uomo. Sarebbe
singolare, secondo Schopenhauer, pretendere da un moralista che egli raccomandi agli altri solo le
virtù da lui possedute. Fatto sta che Schopenhauer, a differenza di Socrate, non ha dato
testimonianza con la sua vita della sua filosofia.

8 Il termine deriva dal latino nolo ("non voglio"). Consiste nella negazione dalla Volontà di vivere: annullandola nella
nostra individualità, noi ci liberiamo dalla noia e quindi dal dolore.
9 Nella storia della filosofia ci si può riferire a due concezioni del nulla: nulla come negazione dell'essere (nihil
negativum) o nulla come alterità o negazione di qualcosa (nihil privativum). Il nulla di cui parla Schopenhauer, meta
dell'ascesi, non è il nulla assoluto, bensì quello relativo, inteso come negazione del mondo.

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