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ARTUR SCHOPENHAUER

Schopenhauer è un feroce anti-hegeliano e vive nella prima metà dell’800. Il piacere per
Schopenhauer è una funzione derivata, perché non esiste di per sé ma esiste in relazione al dolore,
non può esistere se non c’è stato un dolore prima, il quale inizia a diminuire; il dolore invece esiste di
per sé. L’opera fondamentale di Schopenhauer è “Il mondo come volontà e rappresentazione”.
Studia “Il sorprendente Kant” e “Il divino Platone” di Schulze. Non accetta l’idealismo. Riprende il
principio di causalità di Leibniz. Ha lo stesso pensiero di Leopardi. Incontra Mayer che lo introduce al
pensiero indiano che è fondamentale. Accusa Hegel di esprimere delle sfrontatezze solo per fare un
po’ di soldi.

CONTRO HEGEL
Contro Hegel, Schopenhauer sostiene che la filosofia, dopo essere stata rimessa in onore da Kant,
è divenuta strumento di interessi estranei, o di Stato (Stato prussiano) o personali. La verità è
l’ultima cosa a cui si pensa: la verità non è che la meretrice che si getta al collo di chi non la vuole.
Oggi i governi fanno della filosofia un mezzo per i loro fini di stato, mentre i filosofi ne fanno solo un
mestiere per guadagnare denaro (come i sofisti). E il più gran sofista dei suoi giorni Schopenhauer
lo vede in Hegel, “l’accademico mercenario”, <<un ciarlatano di mente ottusa, insipido,
nauseabondo, illetterato, che raggiunse il colmo dell’audacia scarabocchiando e scodellando i più
pazzi e mistificanti non-sensi, prontamente accettati come sapienza immortale da tutti gli stolti>>.
Fichte e Schelling rappresentano per Schopenhauer la “tronfia vacuità”, Hegel la “mera
ciarlataneria”, che ha ordito la congiura del silenzio nei confronti della sua (di Schopenhauer )
filosofia. Il pensiero di Hegel è, per Schopenhauer, una “buffonata filosofica” che si riduce alla <<più
vuota, insignificante chiacchierata di cui si sia mai contentata una testa di legno>>. Hegel è un
<<ciarlatano pesante e stucchevole, che si esprime nel gergo più ripugnante e insieme insensato,
che ricorda il delirio dei pazzi>>. Hegel è un SICARIO DELLA VERITÀ che rende la filosofia serva
dello stato e colpisce al cuore la libertà del pensiero.

IL MONDO COME VOLONTÀ DI RAPPRESENTAZIONE


La volontà non si può capire se non si capisce la rappresentazione. Il problema della
rappresentazione è la contrapposizione cartesiana tra esse obiectivum ed esse formale. In Kant la
rappresentazione è il mondo fenomenico. Kant ha già spiegato tutto se ci fermiamo alla
rappresentazione. Il mondo non è una semplice immagine che abbiamo nella mente, ma una
costruzione della mente che ha formato attraverso le categorie. Noi non conosciamo le cose, ma
conosciamo il modo in cui noi le percepiamo e le pensiamo. Per Kant non possiamo uscire dalla
nostra mente, quindi per noi la realtà è una realtà sempre e solo rappresentata. Tutto ciò che
esiste, esiste in funzione del soggetto che lo coglie. Tutto ciò che esiste per la conoscenza, e cioè il
mondo intero, non è altro che l’OGGETTO in rapporto al SOGGETTO; in una parola è
RAPPRESENTAZIONE.
Dunque il mondo è rappresentazione, e la rappresentazione ha due metà essenziali, necessarie e
inseparabili: l’OGGETTO e il SOGGETTO. Il soggetto è ciò che tutto conosce, è la condizione,
sempre sottintesa, di ogni FENOMENO, di ogni oggetto: tutto ciò che esiste, non esiste che in
funzione del soggetto. L’OGGETTO, ciò che è conosciuto, è condizionato (come vedremo fra
poco) dalle forme a-priori dello spazio e del tempo: ogni cosa esiste NELLO spazio e NEL tempo.
Soggetto e oggetto sono dunque inseparabili: ciascuna delle due metà non ha senso né esistenza
se non in riferimento all’altra. Da ciò segue una radicale critica al MATERIALISMO ( il mondo è
come noi lo conosciamo, quindi non esiste il termine rappresentazione, le categorie del pensiero
rispettano le categorie dell’essere) e al REALISMO da un lato, e all’IDEALISMO (non si pone nessun
problema di rappresentazione) dall’altro, come dottrine gnoseologiche. Il materialismo è in errore
perché nega il soggetto riducendolo a materia; così come il realismo, secondo cui la realtà esterna
si rispecchierebbe per quello che è nella nostra mente. Ed è in errore anche l’idealismo (ad es.
Fichte), perché nega l’oggetto riducendolo al soggetto. Tuttavia l'idealismo depurato da tutte le
assurdità è inconfutabile nel momento che sostiene che il mondo è una mia rappresentazione. Non
può in alcun modo darsi un’esistenza assoluta e in sé stessa obiettiva (cioè oggettiva); essa è
impensabile. Tutto ciò che è obiettivo ha sempre ed essenzialmente, come tale, la sua esistenza
nella coscienza di un soggetto, ed è quindi la sua rappresentazione: è condizionato dal soggetto e
dalle sue forme rappresentative.

Mentre per Kant c’è e basta, per Schopenhauer esiste una via di accesso alla realtà in sé che non è
però la conoscenza, in ambito conoscitivo Schopenhauer ci dice che Kant ha già spiegato tutto.
Non si può CONOSCERE di più della rappresentazione. Il di più se c’è non è conoscitivo.
Schopenhauer cita solo la causalità come categoria, perché tutte le altre categorie si possono
ridurre alla casualità e anche le due categorie della sensibilità spazio e tempo. Nemmeno la ragione
è così fondamentale, l’unica cosa fondamentale è che ci siano le categorie per conoscere il mondo.
Tali forme a-priori della coscienza sono, per Schopenhauer, il TEMPO, lo SPAZIO e la CAUSALITÀ;
sono unite senza distinguere l’elemento sensibile e quello intellettivo. Spazio e tempo sono, così
come per Kant, forme a-priori della rappresentazione (Kant le chiamava intuizioni pure): ogni
nostra sensazione e percezione di oggetti è spazializzata e temporalizzata. L’intelletto interviene su
queste sensazioni e percezioni ordinandole in un “cosmo” conoscitivo attraverso la categoria della
CAUSALITÀ Il fatto che l’esistenza delle cose è testimoniata dal fatto che le cose agiscono le une
sulle altre in tedesco si traduce WIRKESKAN (sostanzializzare la realtà) ma WIERK vuol dire agire,
cioè che la realtà si riduce alla sua azione causale. La realtà in tedesco è una sostantivizzazione
della casualità. Il discorso di Cartesio viene confermato da Kant, cioè la conoscenza è una forma di
rappresentazione, Cartesio pensava di riuscire a cogliere la realtà in sé attraverso un processo
metafisico, Kant invece dice che abbiamo solo la rappresentazione. Tutto ciò che riguarda la realtà
in se è un mondo inattendibile. Schopenhauer dice che Kant ha ragione, cioè che non si può andare
oltre nell’ambito conoscitivo; però in Kant il termine fenomeno non va inteso come difettivo ossia
come un apparire illusorio ma è un’apparizione della realtà. Bisogna semplicemente ricordare che è
la realtà fenomenica.

Schopenhauer dice che siamo comunque consapevoli che la realtà vera ci sfugge; la realtà vera è
coperta da un velo, che chiama il velo di MAJA, ossia una sorta di velo che ricopre la vera essenza
del mondo. L’induismo dice in fondo che la nostra vita è una specie di sogno, di mondo apparente
nel quale ci illudiamo di vivere, ma la realtà è un'altra. Schopenhauer dice che finché non
squarciamo quel velo continuiamo a sognare, non potremo mai conoscere la vera realtà. Se non ti
svegli continui a rimanere in quel sogno; solo quando ti svegli sai che è un sogno. Schopenhauer
dice che c’è un altro modo per squarciare quel velo, ossia attingere alla realtà in sé e comprendere
l’essenza del mondo. È un modo che passa attraverso il nostro corpo, che è qualcosa che
possiamo conoscere dall’esterno, ossia rappresentato, però è anche qualcos’altro, è un corpo
vissuto attraverso il quale sentiamo, viviamo, e godiamo. Attraverso il corpo vissuto comprendiamo
che l’essenza di tutto il mondo è volontà di vita, ed è talmente forte che permea tutto il mondo,
ossia ogni essere vivente che sono dominati dalla volontà di vita (mette vicine due piante e si
ruberanno la vita). Il mio desiderio è strumento di volontà di vita. La volontà di vita è conflitto tra
esseri viventi che si ruberanno la vita e non possono avere questa spinta a volere che è una
continua ricerca di quello che desideriamo e non abbiano. L’uomo è più consapevole del proprio
desiderio e soffre di più perché sa di desiderare e sa che l’essenza della sua vita è la mancanza. Il
desiderio è prodotto dalla mancanza, e quindi l’essenza del mondo è la sofferenza, perché è volontà
di vita e quindi desiderio. La sofferenza è ontologicamente positiva, esiste e basta, non esiste un
perché, non esiste nemmeno un fine, è una pura sofferenza. Riguarda ogni essere vivente ma
nell’uomo è peggio. C’è un dolore cosmico ma nell’uomo è più forte che negli altri animali perché ne
è consapevole. La volontà di vita è volontà come essenza che permea tutto il mondo e quindi che
ci domina e ci rende sofferenti. Noi vediamo il mondo e lo conosciamo ma è solo manifestazione
della volontà di vita che non conosciamo. Siamo dominati completamente nella nostra vita e quindi
la volontà non è individuata (individuare significa separare nello spazio e nel tempo). La volontà al di
là del velo non è sottoposta a spazio e tempo e quindi non è individuabile, siamo fuori dal mondo
spazio-tempo.
La volontà è:
•INCONSCIA
•UNICA (non è individuata; è unica in tutti e in tutto)
•ETERNA
•INCAUSATA (il principio di causalità è l’ordine del mondo della rappresentazione)
•È CIECA (non guarda dove va) e IRRESISTIBILE (tutti gli esseri viventi sono dominati)
•È LIBERA

IL DOLORE, IL PIACERE E LA NOIA


Schopenhauer dice che l’essenza dell’uomo corrisponde all’essenza del mondo ed è pura volontà di
vita, quindi l’essenza di ogni vita è il dolore. L’uomo ha un surplus di dolore perché ne è in parte
consapevole, e tanto più ne è consapevole tanto più soffre. È peggio essere intelligenti, perché più
conosci più soffri, bisogna sperare di essere idioti. L'uomo è l'oggettivazione più perfetta della
volontà di vita perché è consapevole, è anche il più bisognoso: è una "concrezione di bisogni".
Inoltre volere significa desiderare, e desiderare significa trovarsi in uno stato di tensione continua,
perché ogni tendere nasce da una privazione, da una scontentezza e un’insoddisfazione del proprio
stato, da un soffrire; e nessuna soddisfazione è durevole, anzi, non è che il punto di partenza di un
nuovo tendere, e di un nuovo soffrire, senza misura e senza tregua. Quello che noi chiamiamo
piacere è una fusione derivata del dolore, esiste come venir meno di qualcos’altro, non di per sé. Se
c’è sofferenza c’è una tensione e se c’è una tensione c’è dolore. Quando si ottiene quello si
desiderava si perde ogni interesse. Subentra una fase transitoria di noia. la vita è solo una “morte
rinviata”, e alla fine la morte deve vincere. La vita dell’uomo è un continuo pendolo tra noia e
dolore: una tensione continua che va avanti e che quando arriva all’apice e ottiene ciò che
desiderava non ha nessuna forma di appagamento e dunque ricade nel dolore. DESIDERAVI IL
DESIDERIO. Il piacere è un punto apicale che dura una frazione di secondo e che subito ricade. É
come la moneta che dai al mendicante che fa vivere un giorno in più e quindi lo condanni all’agonia
di vivere ancora. Lo condanni a vivere e a soffrire ulteriormente. Quello che pensiamo essere puro
sentimento come l’amore è una totale illusione. L’amore è uno strumento della specie al servizio
della vita. L’amore è pura sessualità perché devi mantenere la specie che è la vita che continua
perché deve continuare il dolore. La vivi come peccato perché sei consapevole che comandi
qualcuno a vivere, ossia a soffrire, ti vergogni perché hai condannato qualcuno a vivere. Le donne
sono attraenti finché devono procreare, poi diventano brutte. Finché deve essere strumento di
desiderio allora è attraente perché deve procreare. È la natura che si prende gioco di te e ti fa
amare perché serve alla vita; poi non serve più alla vita. Schopenhauer arriva ad una forma di
PESSIMISMO COSMICO perché tutto soffre.

CONTRO L'OTTIMISMO
Schopenhauer è contro l’ottimismo cosmico cioè quello che c’è nelle filosofie delle religioni
occidentali, ossia il pensiero che il mondo sia qualcosa di perfetto governato o da Dio o da una
ragione immanente. Non c’è nessuna ragione che guida il mondo, che è una cozzaglia di cose
irrazionali e illogiche.
Le religioni sono metafisiche per il popolo ossia delle invenzioni per tener a bada il popolo. La
società è il modo in cui l’uomo convive con gli altri uomini per natura. Secondo Schopenhauer è
un’illusione per adolescenti. L’uomo è l’unico animale che gode nel veder soffrire gli altri, è dunque
l’animale peggiore che esista. l'OTTIMISMO SOCIALE, cioè la tesi della bontà e socievolezza
dell'uomo è una menzogna. la regola di fatto dei rapporti umani è sostanzialmente il conflitto e il
tentativo di sopraffazione reciproco. L’uomo è una belva feroce.
Schopenhauer si sente il primo disertore dell’Europa contro i dogmi storici e dell'OTTIMISMO
STORICO. Non c’è mai progresso, la vita è dolore e la storia è cieco caso, ogni finalismo è
ingiustificato; la storia è destino tragico per tutti. La storia è “DESTINO”, è il tragico ripetersi della
stessa vicenda in forme diverse.

LE VIE DI LIBERAZIONE DAL DOLORE


Ci sono 3 modi per liberarsi dal dolore. I primi due sono solo parziali, sono un breve incantesimo,
ma dopo passano.
Schopenhauer sostiene che <<il delitto maggiore dell’uomo è l’esser nato>>. Di conseguenza, si
potrebbe pensare che il sistema di Schopenhauer metta capo ad una filosofia del “suicidio
universale”. Invece egli RIFIUTA E CONDANNA il SUICIDIO per due motivi di fondo:
•Lungi dall’essere negazione della volontà, è invece un ATTO DI FORTE AFFERMAZIONE DELLA
VOLONTÀ STESSA, in quanto il suicida vuole la vita ed è solo malcontento delle condizioni che gli
sono toccate; per cui anziché negare veramente la volontà, egli nega piuttosto la vita
•sopprime unicamente l’individuo, ossia UNA manifestazione fenomenica della volontà di vivere,
LASCIANDO INTATTA LA COSA IN SÉ, che pur morendo in un individuo rinasce in mille altri.
Di conseguenza, secondo Schopenhauer, la vera risposta al dolore del mondo non consiste
nell’eliminazione, tramite il suicidio, di una vita o più vite, ma nella LIBERAZIONE della stessa volontà
di vivere.
Dalla presa di coscienza del dolore e dal disinganno di fronte alle illusioni dell’esistere, nascono le
varie “tappe” della liberazione, che Schopenhauer articola in tre momenti essenziali.
Il mondo come fenomeno è rappresentazione, ma nella sua essenza è volontà cieca e irrefrenabile,
perennemente insoddisfatta. Ma quando l’uomo, inabissandosi nel proprio intimo, arriva a capire
questo (che la realtà è volontà e che egli stesso è volontà) allora egli è pronto per la sua
redenzione: e questa può darsi solo col CESSARE DI VOLERE. La guarigione è solo cessare di
volere.

•ARTE: nell’esperienza estetica l’individuo si stacca dalle catene della volontà, si allontana dai suoi
desideri, annulla i propri bisogni: non guarda gli oggetti per quel che possano essergli utili o nocivi.
Nell’arte gli oggetti non hanno più alcuna funzione servile. OGGETTI NON SONO PIÙ SCHIAVITÙ
DEL DOLORE IN QUANTO ORA SONO CONTEMPLATI COME PURA BELLEZZA. Qualsiasi
oggetto in quanto artistico viene contemplato nella sua purezza e bellezza estetica. Sospendi
dimensione dell’utilità e del bisogno. Arte ti redime dal dolore perchè TI FA PERCEPIRE IL MONDO
AL DI FUORI DELLA CATENA DEI BISOGNI MA TE LO FA PERCEPIRE COME PURA
CONTEMPLAZIONE DI BELLEZZA. Guardi oggetti nella loro pura idea. È quindi L’IDEA CHE
CONTEMPLI (anche divino Platone contemplava le idee). Noi non desideriamo quegli oggetti che
contempliamo. Sospendi quindi il desiderio e di conseguenza il dolore. È però un breve
incantesimo che subito dopo ci fa ripiombare nel dolore perchè quando smetti di guardare in
modo artistico le cose, torni a soffrire. È come vacanza dal dolore. Qui l’uomo si annienta come
volontà, e si trasforma in “PURO OCCHIO DEL MONDO” (puro soggetto contemplativo), si
immerge nell’oggetto e dimentica se stesso e il suo dolore. E questo puro occhio del mondo è
libero e disinteressato (lo diceva anche Kant. Arte è sguardo disinteressato. Il fatto che sei
disinteressato fa si che non desideri), non vede più oggetti che sono per me utili o nocivi, ma
scorge IDEE, essenze, modelli delle cose (come Platone), al di fuori dello spazio, del tempo e
della causalità. L’arte esprime, oggettiva, l’essenza delle cose, e proprio per questo ci aiuta a
distaccarci dalla volontà. Contempli le cose dall’esterno e subisci una rigenerazione, CATARSI.
Nell’arte noi non siamo più consapevoli di noi stessi, ma solo degli oggetti intuiti. L’intuizione
estetica è l’annullamento temporaneo della volontà, e quindi del dolore; in essa l’uomo più che
vivere, contempla la vita, elevandosi al di sopra della volontà, del dolore e del tempo. Fra le varie
arti (dall’architettura alla scultura, dalla pittura alla poesia) spicca la TRAGEDIA che è
l’autorappresentazione del dramma della vita. Mette in scena davanti a te il dolore. La tragedia
OGGETTIVA la volontà, e chi contempla (il soggetto) ne è, in certo modo, fuori. Essa <<esprime
ed oggettiva il dolore senza nome, l’affanno dell’umanità, il trionfo della perfidia, la signoria del
caso, il fatale precipizio dei giusti e degli innocenti>>, e in questo modo ci permette di contemplare
la natura del mondo. Posto a sé occupa invece la MUSICA, una metafisica in suoni.
È pura contemplazione perchè non ha bisogno dell’esperienza fisica del vedere. Infatti essa non
riproduce mimeticamente le idee, come le altre arti, ma si pone come immediata rivelazione della
volontà stessa.
La musica è l’arte più profonda ed universale: una vera e propria “metafisica in suoni” capace di
metterci a contatto, al di là dei limiti della ragione, con le radici stesse della vita e dell’essere. Essa,
a differenza delle altre arti, (che si esprimono sempre attraverso la rappresentazione di oggetti
sensibili), non ha bisogno di alcun supporto sensibile, oggettiva la volontà com’è in se stessa.
La musica ci fa puri soggetti contemplanti che, mentre contemplano, non vogliono, e quindi non
soffrono. Ogni arte è quindi liberatrice: poiché il piacere che essa procura è la cessazione del
bisogno, raggiunta attraverso lo svincolarsi della conoscenza dalla volontà, e il suo porsi come
disinteressata contemplazione. Ma la funzione liberatrice dell’arte è pur sempre temporanea e
parziale ed ha i caratteri di un gioco effimero o di un breve incantesimo. Essa non è una via per
uscire dalla vita, ma solo un conforto alla vita stessa. La via della redenzione presuppone quindi
altri sentieri.
•L’ETICA DELLA PIETÀ: Pietà nel senso di condivisione e partecipazione al dolore altrui (caritas
non pietas). È la compassione nel senso di PATIRE ASSIEME, SENTENDOCI IN SINTONIA CON
LA NATURA E IL TUTTO PERCHÈ TUTTI SOFFRONO (deriva da induismo). È un’etica che
infrange i codici della volontà che ci vorrebbe conflittuali e prevaricatori e quindi capaci di
realizzare i nostri obiettivi calpestando gli altri. L’etica in quanto condivisione infrange quei codici e
ci permette di estraniarci dai dolori generati dal conflitto. IL COMPATIRE RESTA COMUNQUE UN
PATIRE MA È UNA FORMA DIVERSA DI DOLORE PERCHÈ È PARTECIPAZIONE CONDIVISA.
Non è superamento vero di dolore. A differenza della contemplazione estetica, che è un
estraniarsi trasfigurato dalla realtà, la morale IMPLICA UN IMPEGNO NEL MONDO A FAVORE
DEL PROSSIMO.
Infatti, l’etica è un tentativo di superare l’egoismo, uno dei codici fondamentali della volontà di vita
e di vincere quella lotta incessante degli uomini fra loro che costituisce l’ingiustizia e che
rappresenta una delle maggiori fonti di dolore. Pur riconoscendo, con Kant, che il “disinteresse”
forma il cuore della moralità, Schopenhauer contro Kant, sostiene che l’etica non sgorga da un
imperativo categorico (qualcosa di razionale dove la ragione guida la mia volontà) dettato dalla
ragione, ma da un SENTIMENTO di “PIETÀ” attraverso il quale sentiamo come nostre le
sofferenze degli altri. Di conseguenza, la pietà non nasce da un ragionamento astratto, ma da
un’esperienza vissuta, mediante la quale, squarciando i veli del nostro egoismo, giungiamo a
identificarci col tormento del prossimo. La pietà è l’amore disinteressato verso esseri che portano
la nostra stessa croce e vivono il nostro medesimo tragico destino; essa è dunque, propriamente
COMPASSIONE (PATIRE-CON, SENTIRE-INSIEME), un sentire l’altrui dolore attraverso la
comprensione del nostro. La compassione è dunque la vera pietà (CHARITAS). Tramite la pietà,
sperimentiamo quell’UNITÀ METAFISICA di tutti gli esseri, che la filosofia teorizza, e che i testi
delle “Upanishad” esprimono con la sacra formula “Tat twan asi” (“questo vivente sei tu”, la
totalità del vivente), facendoci capire come il tormentatore e il tormentato, distinti
fenomenicamente, siano noumenicamente, una stessa realtà. Solo per un sogno illusorio il
malvagio si crede separato dagli altri e dal loro dolore. In realtà l’ingiusto, il violento, che opprime
l’altro uomo, è lo strumento passivo della volontà che lo domina. L’egoismo punta sull’individuale
proprio perché esegue un comando anonimo: quello della volontà. Viceversa, ai suoi massimi
livelli, la pietà consiste nell’assumere su di sé il dolore cosmico. In ogni caso, però, anche la pietà,
cioè il compatire, è pur sempre un PATIRE, un rimanere invischiati all’interno della vita.
•L’ASCESI: porta ad una PROGETTAZIONE DI NON VITA; totale indifferenza rispetto a tutto
(nirvana buddhista, esperienza del niente). Unico modo di superare il dolore è ELIMINARE OGNI
DESIDERIO e quindi fondamentalmente significa non vivere. Progettare una non vita significa
chiudere il mondo dietro di se e arrivare ad un ascetismo, estraniazione totale dal mondo, sui
bisogni e richieste. L’ascesi che nasce dall’orrore dell’uomo per la volontà di vivere (devi detestare
la tua volontà di vita) è l’esperienza per la quale l’individuo, cessando di volere la vita ed il volere
stesso, si propone di estirpare il proprio desiderio di esistere, di godere, di volere. Essa è il
deliberato infrangimento della volontà, mediante l’astensione dal piacevole e la ricerca dello
spiacevole che è contro i codici della volontà, l’espiazione e la macerazione spontaneamente
scelta, per la continuata mortificazione della volontà. Il primo passo dell’ascesi è la CASTITÀ
PERFETTA, che libera dalla prima e fondamentale manifestazione della volontà di vivere:
l’impulso alla generazione e alla propagazione della specie.
La rinuncia ai piaceri, l’umiltà, la povertà, la solitudine, il sacrificio, l’insuccesso, l’automacerazione
sono le altre manifestazioni dell’ascetismo. L’asceta è il protagonista di questa trasgressione di
valore metafisico contro essenza del mondo e dell’essenza del mondo.Egli procede ad un
ANNICHILIMENTO DI TUTTE SUGGESTIONI DELLE SCENE DEL MONDO attraverso le quali la
volontà esercita il suo dominio. Nel suo cuore tace ogni rumore del mondo. Nell’ascesi la
VOLONTÀ diventa “NOLONTÀ”, che più che un atto è uno STATO perchè ti porta a non fare più
nulla: lo stato di chi ha annullato in sé ogni pulsione vitale, di chi si è distaccato dall’ordine degli
eventi mondani. In altre parole, la coscienza del dolore non è un MOTIVO, ma un QUIETIVO del
volere, capace di vincere le tendenze naturali dell’individuo. Quando ciò succede, l’uomo diviene
libero, si rigenera ed entra in questo stato che i cristiani chiamano di GRAZIA. Tuttavia, mentre
nei mistici del Cristianesimo l’ascesi si conclude con l’ESTASI (ineffabile stato di unione con Dio),
nel misticismo ateo di Schopenhauer il cammino nella salvezza mette capo al “NIRVANA”
buddista: l’esperienza del NULLA à un nulla che però non è il NIENTE, bensì un NULLA
RELATIVO AL MONDO, CIOÈ UNA NEGAZIONE DEL MONDO STESSO. In altre parole, se il
mondo, con tutte le sue illusioni, le sue sofferenze e i suoi rumori, è un nulla, il nirvana per
l’asceta è un “TUTTO”, cioè un oceano di pace, in cui si dissolvono le nozioni stesse di “IO” e di
“SOGGETTO”. Quando non c’è più il desiderio non c’è più soggetto e oggetto, soprattutto il
soggetto in quanto identità che si deve costruire contro il mondo e contro gli altri. .

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