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SCHOPENAUER

Antihegeliano, suo contemporaneo. Ritiene che sia un cialtrone. Insegna all’università nello stesso periodo
di Hegel, ma tutti vanno dal secondo. Sch si laurea con una tesi sulla “quadruplice radice del principio di
ragion sufficiente” e il suo libro più importante è del 1818, Il mondo come volontà e rappresentazione. Sch
considera Kant il miglior filosofo di sempre e trova geniale la distinzione tra fenomeno e noumeno, che
riprende e di cui accentua il dualismo, la separazione. Il noumeno è un caso limite: la cosa in sé non è
neanche pensabile perché non è rappresentabile. In Sch la cosa in sé è qualcosa di indefinibile che sta sotto
il fenomeno e quindi quest’ultimo è solo illusione e parvenza, è una realtà falsa. Egli è anche influenzato
dall’oriente, in particolare dal buddismo e i veda, i testi sacri induisti, che lui studia approfonditamente. Il
fenomeno è infatti come il velo di Maya, immagine presa dai veda, cioè qualcosa che nasconde la realtà
vera sottostante: la vita è un sogno, un’illusione, una verità falsa.
Il mondo è una mia rappresentazione sono le prime parole della sua opera del 1818; Kant non avrebbe mai
detto questo: le categorie sono universali. Quindi Sch, che comunque supporta l’idea di principi universali
alla base del mondo, è convinto che ogni uomo abbia un’idea del mondo singolare, soggettiva e, in quanto
tale, falsa. Ci sono quindi un soggetto e un oggetto e la conoscenza che il primo ha con il secondo è la
relazione tra loro due. La rappresentazione è quindi il rapporto conoscitivo tra soggetto e oggetto. Ci sono
tre conseguenze: spazio, tempo e causalità, che sono realtà illusorie. Ne parla nella sua tesi di dottorato,
nella quale Sch sostiene che questi tre concetti convergono tutti a formare il principio di ragion sufficiente,
ovvero il principio sufficiente a spiegare perché le cose sono come sono. Esso è formato da quattro radici,
cioè quattro modalità con cui l’uomo spiega le cose nel mondo: fisica, logica, matematica e morale. La
rappresentazione si costruisce un mondo che è necessitato, dove ogni cosa al suo interno ha una ragione,
una necessità, che l’uomo dà alle cose, ingabbiandole, e la vita è un sogno che viene inserito in questa
rappresentazione. E come si arriva quindi al noumeno? In Kant non ci si arrivava proprio, mentre in Sch,
visto che non ci si arriva con la rappresentazione, occorre rinunciare proprio ad essa, quindi alla razionalità,
che procede sempre per necessità. Quindi rinunciamo alla necessità, arrivando così all’irrazionale, che è
quindi la cosa più primitiva, alla base, su cui poi si mette il velo di Maya. Il noumeno è la volontà, il
principio irrazionale del mondo e non individuato, indeterminato, perché sennò sarebbe legato alla
necessità logica del principio di ragion sufficiente. La volontà è unica ed è la sola forza primitiva che causa il
mondo. La volontà è un fatto assoluto, absolutus, non legato da leggi che agisce sul mondo. È irrazionale,
unica, non individuata, eterna (non è in spazio né in tempo), incausata (libera, senza cause), senza scopo
(agisce nel mondo, ma senza un fine). La volontà è un desiderio, un impulso che noi abbiamo; qual è il
nostro desiderio più importante? Riprodursi. Il fondamento del mondo non è la cosa più razionale, ma
irrazionale, ed è solo l’uomo che rappresenta la volontà. Il mondo individuato dal principio di ragion
sufficiente è armonico: tutto risponde a delle leggi. Quello della volontà è irrazionale, aggressivo, che
dipende dai desideri, che non potranno mai essere saziati, perché la volontà continuerà a spingere sempre
per avere altri desideri, per averne ancora. Se in Hegel c’era quindi un sottofondo di ottimismo perché
l’Assoluto si realizzava nel mondo, in Sch c’è un irrazionale che non si appaga mai: si parla di pessimismo. La
vita è come un pendolo che oscilla tra dolore e noia: placata la fame, per esempio, ci si annoia, perché non
abbiamo nessuna spinta, mentre quando siamo affamati proviamo dolore.
Come si può negare tale processo, dove la volontà comanda? Rinunciando alla rappresentazione, al
fenomeno, alla nostra individualità, quindi al principio di ragion sufficiente. Questo si può fare con la morte.
Ma arrivare ad essa con il suicidio non è vera liberazione: il suicidio è la massima oggettivazione della
volontà nell’uomo perché è proprio la volontà che spinge l’uomo a cessare se stessa. Il suicidio è una
liberazione che dipende quindi dal desiderio dell’uomo di liberarsi. Bisogna negare i desideri senza che
questo diventi un desiderio: questa è la vera sfida. Non a caso parla di vita come un pendolo tra dolore e
noia. Vediamo quindi le tappe per uscire dall’oggettivazione della volontà, che sono tre, che ogni uomo può
percorrere o meno a seconda della sua inclinazione soggettiva. La prima è l’arte, che in Sch è quella
romantica, la forma più eccelsa di contemplazione dell’infinito; non a caso l’arte è per lui la contemplazione
degli archetipi della natura, che poi si oggettiva nelle cose particolari. L’arte è legata ai concetti di sublime
e bello, come in Kant. Se l’arte è tutto questo, perché permette all’uomo di lenire la sua sofferenza? Perché,
quando noi contempliamo la natura con l’arte, la contempliamo svincolata dalle leggi che la governano; gli
oggetti sono contemplati nella loro universalità e per questo l’arte rappresenta una catarsi
dall’oggettivazione della volontà, visto che quindi da un lato il soggetto dimentica le sue passioni mentre
dipinge, scrive, compone, ecc e si universalizza, dall’altro l’oggetto rappresentato è svincolato. L’arte è però
una soluzione temporanea: l’artista è libero solo mentre crea. La seconda tappa è la morale, che dura tutta
la vita, quindi più dell’arte (ha qui in mente l’imperativo categorico kantiano, che è per sempre, rimane
sempre la linea guida delle azioni morali dell’uomo); essa reprime i propri desideri in vista
dell’universalità. Ecco perché Sch la chiama un quietivo della volontà, che la mette in quiete. La morale è
distinta in due momenti: il primo è la morale che si sviluppa con il diritto statale, le leggi (si reprimono i
desideri individuali in vista di un bene superiore), mentre il secondo, che è la più alta concretizzazione della
morale, è la compassione, la pietà (riconoscere negli altri gli stessi desideri, dolori, noie che riconosciamo in
noi stessi), che è una vera conoscenza dell’altro, perché si comprendono i drammi degli altri. Il primo
riguarda i rapporti esterni tra gli uomini, mentre il secondo quelli interni. Il problema è che la morale è
contrastata dalla volontà. L’unica possibilità, quella più alta, di uscire da questa lotta è negare la volontà di
vivere in se stessa e quindi procedere verso il terzo momento, quello ascetico, che consiste in una continua
mortificazione del proprio corpo, dei propri desideri, del mondo sensibile. Ed è proprio questo l’elemento
più catartico: quando l’uomo nega il proprio corpo, e quindi l’oggettivazione della volontà, l’uomo è più
libero. Questo momento di nulla assoluto verso cui l’ascetismo dovrebbe dirigersi è detto noluntas, il non
volere. Sch è convinto che solo la morte possa rappresentare il punto più alto di liberazione dalle
sofferenze, ma solo se essa non è voluta (quindi non il suicidio). Quindi nella moralità la lotta è sempre
presente, mentre nell’ascetismo la prospettiva è quella della noluntas, dove la lotta ha fine.

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