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Laboratorio dei classici della filosofia (Arthur Schopenhauer, «Il mondo come volontà e rappresentazione»),

Università degli Studi di Napoli, Federico II.


Prof.ssa Chiara Cappiello.
Alberto Di Somma, a. a. 2023/2024. Matr. D32000035

«Un unico pensiero»: filosofia e tragedia in Arthur


Schopenhauer.

§1. Metafisica immanente ed ermeneutica della contingenza in Schopenhauer………2

§2. Etica ed estetica nella concezione schopenhaueriana della tragedia: il sublime e


l’ascesi…………………………………………………………………………………9

Bibliografia…………………………………………………………………………..21
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.
(Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 141-143)1

§1. Metafisica immanente ed ermeneutica della contingenza in Schopenhauer.

[La mia filosofia] non ha la pretesa di spiegare l’esistenza del mondo a partire dai suoi fondamenti
ultimi: se ne sta piuttosto ai dati di fatto dell’esperienza esteriore e interiore, così come sono
accessibili a ciascuno, e ne dimostra la vera coerenza profonda, senza tuttavia trascenderla in senso
proprio spingendosi a cose ultramondane e alle loro relazioni con il mondo. Essa perciò non trae
alcuna conclusione a proposito di ciò che si trova al di là di ogni possibile esperienza, bensì fornisce
solo la spiegazione di ciò che è dato nel mondo esterno e nell’autocoscienza, contentandosi dunque
di comprendere l’essenza del mondo secondo la sua intima connessione con se stesso. Essa è di
conseguenza immanente, nel senso kantiano della parola2.

Con queste parole, riportate nell’ultimo capitolo dei Supplementi a Il mondo come volontà e
rappresentazione, Schopenhauer descrive chiaramente la sua idea di filosofia, tracciando al contempo i
lineamenti di un progetto di rifondazione del sapere e del discorso filosofici: se esprimente verità sul
mondo e sulla vita, la filosofia non può procedere da «fondamenti ultimi», o da un fondamento a priori
dell’esperienza, bensì deve muovere dall’esperienza per trascenderla, cioè per giungere a un fondamento
che questa esperienza medesima giustifichi conferendole senso. Il discorso filosofico, dunque, non può
e non deve riguardare «ciò che si trova al di là di ogni possibile esperienza»‚ giacché la verità che esso
esprime, configura il sapere filosofico come sapere, nello stesso tempo, immanente e trascendente
rispetto all’esperienza stessa.
In tal senso, la filosofia di Schopenhauer si differenza dal modello epistemico della metafisica, che si
propone come sapere necessario, ossia non ipotetico, poiché strutturantesi secondo una logica dialettica il
cui primo criterio di razionalità è il principio di non contraddizione3. La metafisica di Schopenhauer
rinuncia infatti all’apodissi per farsi interpretazione dell’esperienza, risultando perciò definibile, come è
stato proposto da Antonio Bellingreri, nei termini di una «metafisica ermeneutica»4.
Un luogo frequentemente richiamato della Welt può essere utile a chiarire ulteriormente il progetto
schopenhaueriano di rifondazione della filosofia, progetto che muove verso una determinazione nuova
del luogo specifico del discorso filosofico:

dall’esterno non si potrà mai giungere all’essenza delle cose: per quanto si ricerchi, per questa via non
si troveranno mai altro che immagini e nomi. Ci capita qui quello che accade a uno che giri intorno

1Giacomo Leopardi, Poesie e prose, Rolando Damiani, Mario Andrea Rigoni (a cura di) con un saggio di Cesare Galimberti,
vol. 1, Mondadori, Milano 1987, p. 88.
2Arthur Schopenhauer, Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione», Giorgio Brianese (a cura di), vol. 2, Einaudi,
Torino 2013, §736, p. 817. D’ora in poi: Supplementi con indicazione del numero dei paragrafi e delle pagine corrispondenti.
3 Al proposito, è interessante osservare il legame che istituisce Schopenhauer tra il «principio di contraddizione» e il
«principio di ragione», in un luogo dell’opera in cui l’autore definisce la filosofia come ricerca non del da dove o del verso dove
(riguardo al mondo e alla natura), (ciò che caratterizza, invece, la spiegazione causale, scientifica, della natura e della vita
fornita sulla base di quei due principi della ragione), bensì del «che cosa», dell’essenza (Wesen) del mondo e della vita: cfr. Id.,
Il mondo come volontà e rappresentazione, Giorgio Brianese (a cura di), vol. 1, Einaudi, Torino 2013, §98, pp. 126-127 (d’ora in
poi: Mondo con indicazione del numero dei paragrafi e delle pagine corrispondenti): «Il principio di contraddizione fissa
solamente l’accordo tra i concetti, ma non fornisce esso stesso dei concetti. Il principio di ragione spiega il collegamento tra
i fenomeni, non i fenomeni stessi: perciò la filosofia non può andare alla ricerca di una causa efficiens o di una causa finalis del
mondo nella sua interezza».
4 Antonio Bellingreri, La metafisica tragica di Schopenhauer, Franco Angeli, Milano 1992, p. 22.
2
a un castello cercando inutilmente l’entrata e che, nel frattempo, faccia qualche schizzo delle
facciate. Eppure è proprio questa la strada che è stata percorsa da tutti i filosofi che mi hanno
preceduto5.

Attestandosi all’esterno, dunque, la filosofia non può cogliere il Wesen, «l’essenza delle cose», troverà
soltanto «immagini» e «nomi» che non corrispondono all’essere delle cose ma che, al contrario, si
arrestano alle «facciate», alla mera forma di esse. Appare perciò necessario, suggeriscono le parole del
filosofo, muovere in direzione di un’altra «via», spostando l'accento dall’esternità all’internità e
oltrepassando, in questo modo, l’intera storia della filosofia, che per Schopenhauer si caratterizza come
oblio dell’essere, oblio dell’internità coincidente con il Wesen in quanto tale.
Pertanto, il progetto schopenhaueriano di ulteriore determinazione del luogo specifico della filosofia
pare giocato tra il rifiuto di una esternità e la ricerca di una internità, che connota tale progetto in
termini antidualistici come ricerca – così spiega Fabio Bazzani nella sua Interpretazione di Schopenhauer –
che «si accentra sul Wesen riconducendo ogni esternità all’essere con sé del Wesen, appunto alla sua
internità con sé»6. Si tratta, insomma, di riscrivere quel discorso movendo dall’interno dell’essere stesso,
ovvero movendo – dal momento che per Schopenhauer il Wesen è volontà, vita (Wille zum Leben) –
dall’interno della vita stessa.
Senso della filosofia e senso della vita dovranno dunque coincidere, non giustapporsi, e ricerca
filosofica sarà così ricerca del senso della vita, vale a dire, per riprendere ancora le parole di Bazzani, che
«filosofia appare per autointerpretazione della vita stessa» e «conoscenza vera sarà quella che saprà
cogliere la vita nel suo livello radicale e nel suo livello fenomenico, la vita nell’internità di sé e nel suo
farsi esteriorità»7.
Si può dire, allora, che Schopenhauer sia il primo, in epoca moderna, (insieme a Kierkegaard), che, al
di fuori della critica di matrice hegeliana a Hegel e al dualismo razionalistico moderno svolta da
Feuerbach, Marx e Stirner, denunci la determinazione della verità filosofica come di un qualcosa di
estraneo, trascendente e astratto rispetto alla vita in quanto tale. Se, quindi, nella tradizione filosofica
della modernità (compresa, per Schopenhauer, tra Descartes e Hegel, Fichte e Schelling, ma avente
radici ben profonde, che giungono sino a Parmenide) la domanda sull’essere veniva sollevata da un ente
che all’essere si rapportava come a qualcosa di estraneo alla propria esperienza, «con Schopenhauer
quella domanda viene formulata da un ente che esperisce l’essere quale vita dell’ente nell’esser-presente
dell’essere stesso»8.
La separazione, compiuta dalla filosofia della modernità, tra vita e ragione, tra essere (volontà alla
vita) ed ente (esser-presente, rappresentazione), ha fatto sì che essa scorgesse solamente le «facciate»
dell’essere, riducendo il problema filosofico della conoscenza dell’essere a un’indagine di superficie, di
presenza, ad una verniciatura dell’esterno. Schopenhauer, radicalizzando il dualismo della tradizione
filosofica, perviene invece a un monismo9, ovvero ad una «inestricabile congiunzione tra l’apparire e il
senso legittimante l’apparire», poiché riconosce «la consustanzialità di essere ed ente, la loro unica
qualitas accomunante», e vede affermarsi l’unità dell’essere «in unità con la vita e con gli enti viventi, con
enti differenti, sì da sancire l’identità dell’essere stesso quale unità di sé con sé e di sé con la
differenza»10.
La critica schopenhaueriana dell’intera tradizione filosofica, su cui si regge la prospettiva di una
filosofia che privilegi la vita e l’esperienza, è svolta esattamente nei riguardi di quella nozione di verità
che è di per sé dualismo tra l’unità e la differenza, tra l’essere e l’esser-presente, separazione tra qualitates

5 Mondo, §118, p. 146.


6 Fabio Bazzani, Unità Identità Differenza. Interpretazione di Schopenhauer, Ponte alle Grazie, Firenze 1992, p. 11.
7 Ivi, p. 12.
8 Ivi, p. 13.
9 Cfr. Supplementi, §739, p. 820: «Lo èn kai pan, vale a dire che l’intima essenza di tutte le cose è assolutamente una e la
medesima […]. Ma che cosa sia questo Uno e come giunga a presentarsi come molteplice, questo è un problema la cui
soluzione si trova per la prima volta nella mia filosofia».
10 Fabio Bazzani, op. cit., p. 14.
3
diverse: per cui la verità che la metafisica ha disvelato sino a Schopenhauer è non-verità. Ciò si evince
soprattutto dal realismo e dal razionalismo della filosofia moderna che Schopenhauer critica. Per
Schopenhauer, infatti, la filosofia moderna non è mai idealistica, poiché si presenta inestricabilmente
legata all’apparire e alle sue forme, irretita nella dimensione estetica soggiacente al principio di ragione.
Il fenomeno, la differenza che scaturisce dall’unità dell'essere viene così ridotta, all’interno di questa
tradizione, ad una dimensione sostanzialmente superficiale: l’estetico come unità di superficie, parvenza,
presenza, rappresentazione, che definisce il discorso filosofico nel quadro della presenzialità dell’essere
e non nel quadro dell’essere in quanto essere.
La tradizione filosofica moderna, e la falsa conoscenza che l’accompagna, scorge dunque, per
Schopenhauer, il fondamento «nel fenomeno, nella parvenza come parvenza, nell’apparire, in ciò che mi
rappresento»11. L’essere è ridotto a presenza, la vita a ratio, determinando quindi un paradigma metafisico
aprioristico (deduttivo e non induttivo) a cui però inesorabilmente sfuggono sia la dimensione
dell’essere sia la dimensione dell’esser-presente: «l’unità dell’essere – scrive Bazzani – si afferma come
esser-presente e, in conseguenza di ciò, la differenza dell’esser-presente, come esperienza del fenomeno,
semplicemente scompare»12. Il fenomeno viene ridotto ad esclusiva illusione o parvenza e in questo
modo viene preclusa la strada alla comprensione dell’essere in quanto essere, giacché si oblia il dato
dell’esser-presente come luogo possibile per accedere alla verità.
Per Schopenhauer, invece, oltre che illusione e parvenza, «il fenomeno è, nello stesso tempo,
apparenza, ovvero, l’apparire di un qualcosa che ad esso risulta irriducibile [è «manifestazione del
Wesen»]»13. È su questo orizzonte, quindi, come spiega a chiare lettere Fabio Bazzani, che «si definisce
l’esigenza della conoscenza estetica, della differenza […] non più come mera contrapposizione al vero,
come parvenza in sé cristallizzata, opposta all’essere, bensì come chiave di apertura alla verità
dell’essere»14.
Il fenomeno come apparenza, come il ciò che appare, dunque, è il vero oggetto dell’esperienza
conoscitiva compiuta dal soggetto. E, come è noto, per Schopenhauer, in ambito estetico, il corpo
come fenomeno risulta la più diretta possibilità per accedere alla verità dell’essere, in quanto permette
una conoscenza intuitiva della volontà. È infatti proprio la rimozione, compiuta dalla tradizione
filosofica, in specie moderna, della dimensione intuitiva e corporea del conoscere, a presentarsi come la
causa prima della riduzione del fenomeno a semplice parvenza e della conseguente impossibilità di
cogliere il noumeno, obiettivo precipuo della filosofia secondo Schopenhauer.
Il razionalismo teoretico e pratico, che costruisce la configurazione della cultura e del sapere della
modernità, ha comportato, su entrambi i livelli, un annichilimento del corpo, che ha implicato, di fatto,
la scomparsa dell’essere dalla scena del mondo. Al fine di mettere nuovamente a tema l’essere
strappandolo all’oblio, è necessario allora operare una riconduzione di ogni struttura conoscitiva a ciò
che precede ogni formazione razionale, concettuale e logico-discorsiva, a quel che, con Bazzani,
possiamo definire «il precategoriale/prefilosofico»15.
Non è casuale, allora, che Schopenhauer ponga una precisa esigenza di rinnovamento filosofico in
relazione ad una riflessione sulla scienza nelle ultime pagine del § 15 della Welt, dove vengono delineati i
tratti di una sorta di filosofia dell’avvenire che, come in Feuerbach, «sgombri il campo da ogni logicismo
razionalistico e da ogni scientismo»16. In queste pagine, infatti, Schopenhauer rende conto della crisi
profonda costitutiva dei modelli filosofici e scientifici della modernità, riconoscendo in quella esigenza
di riconduzione della conoscenza al precategoriale, un procedimento imprescindibile per una filosofia
che colga la verità dell’essere.

11 Ivi, p. 30.
12 Ivi, p. 31.
13 Ibidem.
14 Ivi, p. 32.
15 Ivi, p. 62.
16 Ivi, p. 63.
4
Al contrario della scienza e della spiegazione fisica del mondo e della vita, che valuta i fenomeni
secondo il principio di ragione, la filosofia, per il filosofo tedesco, «comincia là dove finiscono le
scienze», ovvero comincia precisamente col porre a problema ragione e fenomeno:

La filosofia ha questo di proprio, di non presupporre nulla come noto; tutto è in egual misura
sconosciuto e tutto è per essa un problema, non solo i rapporti tra i fenomeni, ma anche i fenomeni
medesimi, e persino lo stesso principio di ragione, al quale le altre scienze si contentano di
ricondurre tutte le cose […]. Infatti, come ho detto, è proprio ciò che le scienze presuppongono e
assumono come fondamento e come limite delle loro spiegazioni, che costituisce il problema
caratteristico della filosofia la quale, di conseguenza, comincia là dove le scienze finiscono17.

La filosofia, dunque, non può partire da «dimostrazioni», poiché la dimostrazione, ricavando


«principi ignoti da principi noti», altro non fa che chiarificare ciò che è già implicito nelle premesse,
consentendo semplicemente di ampliare un sapere già esistente, senza essere in grado di oltrepassarlo18.
Ciò che è in grado di fare, invece, la filosofia, la quale, riguardando l’universale, la globalità, esprime
l’essere nel suo duplice portato di realtà; ovvero, esprime l’essere quale co-essenzialità di essere e esser-
presente.
La filosofia, quindi, rinvia alla consustanzialità di fenomeno e noumeno, al concreto dell’essere, e
ritraduce in concetti quel concreto. Essa, perciò, si diparte dall’intuire e si svolge come riflessione su
questo intuire, sollevandosi oltre la temporale instabilità di esso e definendo un orizzonte di
permanenza inerente all’essenza stessa del mondo:

La filosofia del nostro tempo, almeno, non ricerca in nessun modo da dove venga o verso dove sia
diretto il mondo, bensì si limita a ricercare che cosa il mondo sia. Il perché, tuttavia, è subordinato qui
al che cosa, poiché esso appartiene già al mondo, dato che sorge solo grazie alle forme del suo
apparire, ossia grazie al principio di ragione, e solo in quanto tale possiede significato e validità. In
verità si potrebbe dire che ciascuno conosce da sé, senza nessun altro aiuto, che cosa sia il mondo,
dato che è egli stesso il soggetto della conoscenza, di cui il mondo è rappresentazione […]. Solo che
quella è una conoscenza intuitiva, in concreto: riprodurla in abstracto, elevare a un sapere di questo
genere, a un sapere durevole l’intuizione della successione, della mutevolezza, […] questo è il
compito della filosofia. Essa deve perciò essere un’affermazione in abstracto dell’essenza di tutto il
mondo, nella sua interezza come nelle sue parti19.

E prosegue, poco oltre, asserendo che:

Per mezzo di quei concetti in cui essa [la filosofia] fissa l’essenza del mondo deve tuttavia essere
conosciuto tanto l’universale quanto ciò che è del tutto particolare, sì che la conoscenza dell’uno e
dell’altro devono essere strettamente collegate: perciò l’attitudine per la filosofia si trova appunto là
dove Platone la poneva, nel riconoscere l’uno nel molteplice e il molteplice nell’uno. La filosofia
sarà perciò […] una ripetizione completa, quasi un rispecchiarsi del mondo in concetti astratti20.

Il riferimento a Platone si rivela essenziale per cogliere i tratti di uno stile di pensiero che, come
quello di Schopenhauer, si attiene autenticamente alla concretezza dell’essere, in quanto assume come
proprio compito quello di riflettere il carattere immanente/trascendente dell’essere stesso attraverso
concetti fondati sull’intuizione. Solamente l’intuizione è in grado, infatti, di cogliere il chiaroscuro,
l’enigmaticità dell’essere, ovvero la co-appartenenza strutturale di unità e molteplicità, di identità e
differenza. E una tale intuizione, che per Schopenhauer si pone a fondamento del sapere filosofico e

17 Mondo, §97, p. 126.


18 Ibidem: «Le dimostrazioni non possono esserne [della filosofia] il fondamento: esse infatti ricavano principi ignoti da
principi noti, mentre per la filosofia tutto è allo stesso modo ignoto e sconosciuto. Non si dà alcun principio primo in
conseguenza del quale esista il mondo con tutti i suoi fenomeni. […]. La filosofia è anche il sapere più universale di tutti, sì
che i suoi principi fondamentali non possono essere conseguenza di un altro sapere che sia ancora più universale».
19 Ivi, §98, p. 127.
20 Ibidem.
5
scientifico come si evince dai passaggi sopra riportati, non può configurarsi che come «intuizione
eidetica»21, vale a dire come intuizione e afferramento (ma anche patimento se le affibbiamo i tratti del
noûs aristotelico22) dell’oggettivarsi dell’essere nell’idea quale forma universale della vita.
L’origine della filosofia è dunque sempre, per Schopenhauer, come ben esprime Bazzani, «una
determinazione che precede il concetto»; «la filosofia è sempre espressione del bisogno metafisico quale
esigenza di fornire un senso all’esistenza; ovvero, la filosofia è sempre metafisica, interrogazione sul
senso ultimo»23.
Per questo motivo l’atteggiamento filosofico si caratterizza come un costante essere meravigliati,
stupiti di fronte al mondo, al tempo e alla vita; uno stupore che è insieme inquietudine, in una parola:
thaûma, come indicano Platone e Aristotele. Il bisogno che spinge l’uomo alla filosofia, è infatti, da un
lato, radicato nel corpo che, in quanto genuina pulsionalità di vita, non si sente appagato e compreso
dagli schemi conoscitivi del concetto; dall’altro lato, quel bisogno sorge come radicale richiesta di senso
in rapporto alla realtà della morte, vale a dire alla consapevolezza dell’esistenza individuale (delle singole
cose e di noi stessi) come presenza dell’essere limitata da morte24.
Al riguardo, appare necessario richiamare alcuni luoghi delle Ergänzungen (in particolare il cap. 17,
direttamente collegato dal filosofo stesso al paragrafo 15 della Welt), da cui si evince chiaramente il
significato dello stupore filosofico e di quel nuovo sapere, di quel nuovo modello di metafisica che,
tramite l’intuizione eidetica, compie il superamento complessivo del paradigma realistico/razionalistico:

la cattiveria, il male e la morte sono ciò che definisce e suscita lo stupore filosofico: non
semplicemente che il mondo sia presente, ma ben di più che esso sia così miserevole, è il punctum
pruriens della metafisica, il problema che getta l’umanità in una inquietudine che non può essere
placata né dallo scetticismo né dal criticismo25.

È pertanto la miseria del mondo (il non-essere cui è destinata la totalità delle cose che appaiono,
racchiusa nell’insieme “mondo”) a stimolare, nell’uomo, una richiesta di aiuto e di salvezza, a cui egli
stesso può rispondere «da sé», ovvero guardando nel profondo delle cose e dentro se medesimo,
aprendosi quindi alla comprensione filosofica del “che cosa”, dell’essenza permanente del mondo e
inerente al mondo stesso. Ma, appunto, l’apertura a questa comprensione presenta i tratti di
un’inquietudine, legata alla visione del negativo come ciò che appartiene essenzialmente all’insieme delle
cose che sono. Poco più sopra nel testo, infatti, Schopenhauer scrive:

Nei fatti, l’inquietudine che tiene in movimento l’orologio mai scarico della metafisica è la coscienza
che il non-essere di questo mondo è tanto possibile quanto il suo esserci. [Da ciò segue che l’essere
del mondo, contrariamente a quanto ritiene Spinoza, non è necessario bensì accidentale, onde] ben
presto noi comprendiamo il mondo come qualcosa il cui non-essere non solo è pensabile, ma
addirittura preferibile al suo esserci26.

Sulla base di queste affermazioni è possibile affermare che l’astrazione metafisica, operata sulla base
di un’intuizione eidetica, visualizza di ogni aspetto dell’esperienza ciò che per se stesso risulta
problematico, e dunque bisognoso di un “perché”. E, d’altra parte, ciò che si presenta come il

21Fabio Bazzani, op. cit., p. 69. Su questo cfr. anche Antonio Bellingreri, op. cit., p. 43: «per Schopenhauer l’intuizione
metafisica implica una sorta di “visualizzazione eidetica”, un tipo superiore di intuitività e una “profondità dello sguardo”
che “intende” ciò che nel fenomeno non fa parte del fenomeno».
22Come del resto fa Bellingreri: cfr. Op. cit., p. 42: «Ciò che ho definito la novità e la genialità di Schopenhaeuer è dunque
una filosofia dell’intuizione che ritiene essenziale il noûs per il sapere. Ad essa corrisponde una sfiducia nella ragione […].
Ogni vero sapere, ogni scienza, ha alla sua base l’intuizione che, essendo in ultima istanza “incomunicabile”, costituisce
anche l’“indimostrabile alla base di ogni dimostrazione”».
23 Fabio Bazzani, op. cit., p. 71.
24 Ibidem.
25 Supplementi, §190, p. 231.
26 Ivi, §189, pp. 229-230.
6
problematico in quanto tale «è la possibilità – per esprimerci con le parole di Bellingreri – per ciò che è
finito di non essere, la contingenza»27.
Contingenza è la non necessità del legame tra essere e ente, il fatto, cioè, che l’essere sia
essenzialmente accidentale, inessenziale, all’ente, per dirla con Heidegger, oppure, per riprendere gli
studi di Severino sulla radice del nichilismo europeo-occidentale, contingenza è l’epamphoterìzein,
letteralmente, l’oscillare dell’ente tra l’essere e il non-essere28. Tutto ciò che esiste, tutto ciò che
appartiene al mondo, è diveniente, vale a dire che rovina verso la propria morte. Come infatti sottolinea
Bellingreri: «Non c’è per Schopenhauer una ratio veramente determinante che sia spiegazione adeguata
dell’essere e/o del non essere di un ente: tutto è o accade al di fuori di un “principio” determinante e
della “finalità causativa” di un agente. Ogni ente è allora propriamente assurdo, nella misura in cui esso è
assenza di una ragione necessaria»29. L’intelligenza del contingente si dimostra perciò «la condizione
prima di un’autentica visione ed esperienza metafisica del mondo»30.
Pertanto, il sapere metafisico non nasce solo come riflessione critica sui limiti della scienza, poiché,
anzi, la stessa critica si costituisce innanzitutto come approfondimento problematico di una esperienza
fondamentale, radicale (esperienza originaria, archetipica, mitica) della verità del mondo, che è di genere
totalmente altro rispetto a quella della conoscenza scientifica, proprio in quanto è verità conoscibile
attraverso una «intuizione sovrabbondante di senso», «un’illuminazione ricevuta all’improvviso e quasi fosse un
dono», la «rivelazione della totalità del reale», che corrisponde, come appunto si esprime Bellingreri, alla
«visione della corruptibilitas universale, il volgere inesorabile di ogni cosa verso il nulla»31.
Quest’esperienza del male metafisico, dell’«infinita vanità del tutto»32 in quanto assenza di
fondamento (Grund-los) – un’esperienza intuitiva, corporea, antepredicativa di cui la ragione non può
rendere conto – definisce la «coscienza filosofica allo stato nascente» come «un mesto sentimento
musicale, una “cognizione” dolorosa» e, con ciò stesso, il sapere metafisico si rivela essere «l’intelligenza
rigorosa, la problematizzazione e l’interpretazione, di quell’esperienza originaria»33.
Alla luce di queste considerazioni, diventa possibile comprendere la definizione schopenhaueriana di
una metafisica immanente, mai separata dall’esperienza, quale emerge verso la fine di questo capitolo 17
dei Supplementi:

l’esperienza nella sua totalità è come una scrittura misteriosa, e la filosofia ne è una sorta di
decifrazione, la cui correttezza è provata dalla coerenza che si manifesta ovunque. Ora, quando
questa totalità viene compresa in modo adeguatamente profondo e l’esperienza esterna e quella
interna vengono connesse l’una all’altra, allora essa deve poter venire interpretata, spiegata da sé.34

Per Schopenhauer l’esperire si situa, allora, su due piani diversi ma collegati: l’uno costituisce
l’esperire singolo (esperienza esterna), l’altro, l’esperire di una universalità che sta alla radice di ogni
esperire singolo (esperienza interna). È in questo modo che, come spiega Bazzani, «l’esperienza

27 Antonio Bellingreri, op. cit., p. 21.


28 Ivi, p. 22. Platone utilizza il termine epamphoterìzein nel V libro della Resp. (479c), per definire l’esser-cosa della cosa, l’ente
intramondano. In questo modo, Platone, secondo Severino, apre l’orizzonte di senso dell’esser-cosa delle cose all’interno del
quale cresce la civiltà occidentale. La cosa appare, cioè, come ciò che esce dal niente e vi ritorna; ciò che oscilla tra l’essere e
il niente: «un ep-amphot-erìzein, dove “i due” (amphòtera) “rispetto” (epì) ai quali la cosa “è in lotta con se stessa” (erìzei) sono
l’essere (tò òn) e il niente (tò mè òn). In quanto partecipa di entrambi, la cosa (ti) ha entrambi come predicati: essa è qualcosa
che “insieme” (àma) è e non è […]. L’epamphoterìzein è un dibattersi (erìzein) tra l’essere e il niente […]. Il dibattersi è il divenire
della cosa» (Emanuele Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 416).
29 Antonio Bellingreri, op. cit., p. 23.
30 Ibidem.
31 Ivi, p. 57.
32 Giacomo Leopardi, A se stesso, v. 16, in Id., Poesie e prose, vol. 1, cit., p. 102.
33 Antonio Bellingreri, op. cit., p. 58.
34 Supplementi, §203, p. 243
7
trascende se stessa e si determina come metafisica dell’identità del singolare con l’universale, della presenza
con l’essere»35.
La metafisica non si separa mai dall’esperienza, ma, come afferma Schopenhauer poco oltre, «[ne]
resta la mera interpretazione [Deutung] e spiegazione [Auslegung]»36. Ecco che un sistema metafisico, per
Schopenhauer, esprime verità solo se, rimanendo legato all’esperienza, al contempo la trascende e se,
poi, astraendo dall’esperienza, traduce l’esperienza medesima in concetti di ragione. Si chiarisce così il
ruolo della filosofia quale «decifrazione» dell'esperienza nella sua totalità: «La filosofia altro non è che la
corretta comprensione universale dell’esperienza stessa, la spiegazione vera del suo senso e del suo
contenuto»37.
Pertanto, come suggerisce Bellingreri, in Schopenhauer bisogna scorgere una Verwindung, un
approfondimento e nello stesso tempo una correzione della tradizione filosofica (antica e sopratutto
moderna) e della metafisica intesa come episteme, sapere incontrovertibile. Quella di Schopenhauer si
configura infatti come una «ermeneutica metafisica della contingenza», giacché «tutta la filosofia
schopenhaueriana è un aiuto a pensare metafisicamente la contingenza: una lunga, finissima e indefinita,
argomentazione tesa a dimostrare la contingenza come carenza di fondamento»38. In questo senso è
possibile definire la filosofia di Schopenhauer: «filosofia tragica», e l’intuizione eidetica che struttura il
sapere metafisico: «contemplazione tragica», consistente esattamente «in una rivelazione del niente a se
stesso», dal momento che il fondamento dell’essere è un’ir-razionale volontà che fa del mondo un
universo senza senso39.
Schopenhauer, così, rientrerebbe a pieno titolo in quella «controstoria del nulla» di cui Sergio Givone
tesse le fila: una storia delle diverse insorgenze di quel «rimosso del pensiero», il “nulla” appunto, nelle
quali esso si presenta di volta in volta come alternativa all’essere, se non addirittura come il suo abissale
fondamento: il nulla, cioè, come appare «non in forma di negatività che l’essere evoca per opposizione
ed esclude, bensì di principio che converte l’essere nella libertà, a misura che lo disancora dal principio
di ragione e lo espone non solo al poter essere altrimenti ma al poter non essere […] nella direzione di
una filosofia e anzi di una ontologia della libertà [ontologia del nulla, meontologia]. Ontologia della
libertà che inevitabilmente si contrappone all’ontologia della necessità e dell’essere necessario [onto-
teologia]»40.
Ecco che allora, per Schopenhauer, il filosofo, l’artista o il mistico, in quanto colgono il fondamento
in-fondato del Tutto, conquistano, proprio per questo, una nuova forma di esistere e una nuova visione
della vita e del mondo; e il «bisogno metafisico», che differenzia l’uomo dagli altri viventi, si presenta di
conseguenza come «l’esigenza di una conversione ontologica dello spirito»41. Pertanto, è nella «contemplazione
tragica» che possiamo rinvenire il nucleo fondante della filosofia di Schopenhauer, di quell’«unico
pensiero» che si mostra come metafisica, etica, estetica.
Da questa prospettiva, si potrebbe rivelare decisiva una lettura analitica di quei luoghi del capolavoro
schopenhaueriano, in cui il filosofo offre la sua interpretazione intorno al massimo genere della poesia,

35 Fabio Bazzani, op. cit., p. 74.


36 Supplementi, §§203-204, pp. 244-245.
37 Ivi, §204, p. 245.
38 Antonio Bellingreri, op. cit., p. 22.
39 Ivi, p. 25.
40Sergio Givone, Introduzione (in forma di dialogo fra l’autore e un ipotetico lettore), pp. ix-xxiv, in Id., Storia del nulla, Laterza, Bari-
Roma 1995, pp. xiii-xiv.
41 Antonio Bellingreri, op. cit., p. 25.
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la tragedia42. Quest’interpretazione, infatti, come osserva Bellingreri, «ci autorizza a dire che egli, al
fondo, intende l’arte simpliciter come arte tragica», e ciò si riflette in generale sul senso complessivo del
suo sistema di pensiero, poiché «tragica è la determinazione della filosofia stessa [in quanto essa è] la via
dolorosa, che porta la liberazione attraverso la “conoscenza del più grande dolore”, assunto però e in
qualche modo purificato»43.

§2. Etica ed estetica nella concezione schopenhaueriana della tragedia: il sublime e l’ascesi.

L’ir-razionalismo della filosofia di Schopenhauer, lungi dall’indicare un rifiuto della ragione tout court
(giacché la filosofia può svilupparsi e risultare comunicabile nel suo portato di verità, come è stato
indicato nel paragrafo precedente, solo come discorso razionale che riporta in concetti l’intuizione
originaria, pre-concettuale e pre-categoriale), consiste invece nel definire il mondo dominio di una
necessità che non è però connessa a nessuna causa o ragione ed è perciò, in sé e per sé, libera. E una
tale theoria, una tale visione del fondamento in-fondato, della ‘mancanza di fondamento’ (Grundlosigkeit)
del Tutto, appartiene tanto al filosofo quanto all’artista, i quali non sono, perciò, altro che lo specchio
della tragedia stessa dell’universo, ossia del conflitto interno all’essere nella sua totalità.
Per questo Schopenhauer, all’inizio del capitolo 34 dei Supplementi intitolato L’essenza profonda dell’arte,
scrive che: «Non soltanto la filosofia, ma anche le belle arti hanno di mira lo scioglimento del problema
dell’esistenza»44. L’artista, infatti ha l’intento precipuo di rendere manifeste le idee, i gradi di
oggettivazione della volontà che egli ha colto nel proprio spirito, sì che «il risultato di ogni
comprensione puramente oggettiva delle cose, e dunque anche di ogni loro comprensione artistica, è
un’espressione in più dell’essenza della vita, una risposta alla domanda: “Cosa è la vita?”»45.
Ma se la filosofia si esprime in concetti e parla il linguaggio «serio e astratto della riflessione»,
riuscendo, in questo modo, a veicolare una conoscenza universale della vita avente il carattere della
permanenza, l’arte, ogni forma di arte, parla invece solo «il linguaggio ingenuo e infantile della
intuizione», offrendo così, a quella domanda, una risposta che si mostra solamente come «un’immagine
fugace»46; ciò perché le arti «danno sempre solo un frammento, un esempio invece della regola, non
l’intero che può essere dato solo nell’universalità del concetto»47. Eppure, le attitudini nei confronti
della filosofia e delle belle arti si rivelano alla radice, secondo Schopenhauer, come la medesima cosa,
provenendo entrambe da uno stesso “abbandonarsi” alla «considerazione puramente oggettiva del
mondo»48.
In questo modo, possiamo sin d’ora riconoscere nella interpretazione schopenhaueriana dell’arte una
coincidenza evidente tra teoria estetica e dottrina del bello, dal momento che una cosa, secondo
Schopenhauer, è in tanto bella in quanto facilita una conoscenza puramente oggettiva delle cose, la
conoscenza dell’idea (platonica). Perciò l’uomo, com’è detto in un luogo del Mondo che può fungere da
introduzione alla trattazione schopenhaueriana della tragedia, in quanto egli rappresenta il grado più
elevato dell’oggettità della volontà, «è bello più di ogni altra cosa, e la manifestazione della sua essenza è

42 Ciò è espresso in termini espliciti in Mondo, §298, p. 330: «Come vetta dell’arte poetica, per ciò che concerne tanto la
grandezza dell’effetto quanto la difficoltà della realizzazione, deve essere considerata, e come tale è riconosciuta, la tragedia».
Da questa pura e semplice affermazione diventa possibile, sin d’ora, individuare un certo legame con la Poetica di Aristotele,
che nel seguito di questo scritto si tenterà di esplicitare. Cfr. Aristotele, Poetica, Daniele Guastini (a cura di), testo greco a
fronte, Carocci, Roma 2017, 1462a - 12-15, p. 113: «Se, dunque, la tragedia differisce sia per tale quantità di cose sia per
l’effetto della sua tecnica […], è chiaro che sarà superiore, cogliendo il fine meglio dell’epica».
43 Antonio Bellingreri, op. cit., p. 86.
44 Supplementi, §463, p. 524.
45 Ibidem.
46 Ibidem.
47 Ivi, §464, p. 525.
48 Ivi, §463, p. 524.
9
il più alto scopo dell’arte. La figura umana e l’espressione umana sono l’oggetto più significativo
dell’arte figurativa, così come le azioni umane sono l’oggetto più significativo della poesia»49.
Le «belle» arti, ossia l’«arte figurativa» e la «poesia», rivelano allora il proprio tèlos nel manifestare e
nel ‘porre davanti agli occhi’ l’essenza dell’uomo, l’«’idea dell’umanità» (Idee der Menschheit), mediante la
rappresentazione della «figura» e dell’«espressione umana», per quanto riguarda le arti figurative, oppure
delle «azioni umane», per quanto riguarda la poesia, in special modo al suo grado più alto: la poesia nella
forma della tragedia.
All’arte poetica e alla tragedia Schopenhauer dedica l’intero §51 del Mondo, nel quale attenzione
particolare è posta, specie nelle righe iniziali, alla fantasia, il cui apporto è considerato decisivo affinché
la poesia imbocchi la retta via per raggiungere il suo «scopo»:

Le idee sono essenzialmente intuitive: se perciò nella poesia attraverso le parole vengono
comunicati immediatamente solo concetti astratti, tuttavia è manifesto, nei segni che rappresentano
questi concetti, l’intento di far intuire all’ascoltatore le idee della vita, il che può accadere solo con
l’aiuto della sua fantasia50.

Anche nel capitolo succitato dei Supplementi l’autore scrive che la poesia «si rivolge solamente alla
fantasia, che mette in attività per mezzo di semplici parole»51, per cui il piacere e l’appagamento che
l’opera d’arte offre a chi si abbandona alla sua contemplazione, sta nel fatto che questa visione non si
riesce a ricondurre alla chiarezza di un concetto e ci costringe, quindi, a ricorrere alla fantasia che il
linguaggio stesso della poesia stimola in quanto caratterizzato dal ritmo e dalla rima.
Questi due elementi fondamentali del linguaggio poetico permettono, infatti, di «far intuire
all’ascoltatore le idee della vita», ovvero persuadono l’ascoltatore e lo vincolano all’ordine oggettivo
della verità rivelata nel linguaggio. Scrive al proposito Schopenhauer, di nuovo al §51, che:

Un ausilio tutto particolare della poesia è costituito dal ritmo e dalla rima. [Essi] in parte tengono
viva la nostra attenzione, perché ci consentono di seguire più volentieri la declamazione, in parte
fanno sorgere in noi una consonanza cieca, anteriore a qualsiasi giudizio, con ciò che viene
declamato, il che gli conferisce una certa enfatica forza persuasiva, indipendente da ogni
fondamento razionale52.

Al linguaggio musicale della poesia corrisponde così, per Schopenhauer, un sentimento di stupore e
di piacere legato sia al suono in quanto tale della parola ritmata e rimata, sia al ‘dono inatteso’ di un
significato che viene trasmesso insieme al suono, e questo insieme costituisce la «forza persuasiva» della
poesia, che ci vincola, per «una consonanza cieca», a ciò che il suo linguaggio indica. Tutto questo è
chiaramente espresso nel capitolo 37 dei Supplementi, dedicato a L’estetica della poesia e direttamente
collegato dall’autore al § 51:

Metro e rima sono un vincolo, ma anche un mantello che il poeta si getta addosso e sotto il quale gli
è concesso di parlare come altrimenti non potrebbe: ed è questo a darci gioia53;

e precisa ulteriormente poco più avanti nel testo:

Ciò che è dato immediatamente all’udito, ossia il mero suono delle parole, acquista grazie al ritmo e
alla rima una certa compiutezza e diventa significativo di per se stesso, divenendo in tal modo una
specie di musica; perciò sembra adesso esistere di per se stesso e non più come mero strumento,
come mero segno di qualcosa che è segnato, vale a dire del senso delle parole. Quella di allietare
l’orecchio con il suo suono sembra essere la sua intera funzione, con il che pare si sia ottenuto tutto

49 Mondo, §248, pp. 277-278.


50 Ivi, §286, pp. 317-318.
51 Supplementi, §466, p. 527.
52 Mondo, §287, p. 319.
53 Supplementi, §488, p. 551.
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quello che si doveva ottenere e che ogni esigenza sia stata soddisfatta. Ora però, che allo stesso
tempo esso racchiuda ancora un senso, che esprima ancora un pensiero, è qualcosa che adesso si
presenta come un’aggiunta inattesa, allo stesso modo di quel che accade alle parole nella musica;
come un dono inatteso che ci sorprende piacevolmente e che perciò, dato che noi non avevamo
alcuna pretesa del genere, ci soddisfa con grande facilità54.

Un sovrappiù di senso e di pensiero, che si costituisce a partire dal legame tra parole e musica,
ovvero tra il suono ritmato, ordinato, delle parole e il senso che attraverso questo “canto” viene ancora
determinato, appare allora come ciò che fornisce all’arte poetica la facoltà di veicolare la conoscenza
dell’Idee der Menschheit e, al contempo, di ‘sorprenderci piacevolmente’ e di ‘soddisfarci con grande
facilità’. Questo piacere conoscitivo, connaturato alla poesia e alla lingua che l’è propria, attraversa il
fruitore dell’opera grazie all’attivazione, in lui, dei sensi e della fantasia, con il che egli è portato
all’altezza teoretica del genio artistico (il poeta), «limpido specchio dell’essenza del mondo», il quale,
appunto, «ha avuto in sorte» un «sovrappiù di conoscenza», consistente nella libera attività della fantasia,
della quale il genio ha bisogno «per vedere nelle cose non ciò che la natura ha effettivamente prodotto,
bensì ciò che essa cercava di produrre ma che, a causa della lotta reciproca delle sue forme […] non è
riuscita a portare a compimento»55.
Alla luce di queste considerazioni, diventa allora possibile spiegare due affermazioni tratte dai
Supplementi circa la natura delle belle arti, del genio e della poesia:

La madre delle arti utili è il bisogno, quella delle belle arti la sovrabbondanza. Il padre delle prime è
l’intelletto, quello delle seconde il genio, che è esso stesso una sorta di sovrabbondanza, e
precisamente la sovrabbondanza della forza conoscitiva rispetto alla misura che sarebbe necessaria
per servire la volontà56;

La definizione più semplice e più corretta della poesia che potrei indicare è quella secondo la quale
essa è l’arte di utilizzare le parole per mettere in gioco la capacità di immaginazione57.

Il theorein proprio del genio artistico (e altresì del genio filosofico) si struttura, dunque, in base alla
fantasia e all’immaginazione, le quali definiscono l’intuizione eidetica quale intuizione sovrabbondante di
senso che nell’arte poetica, caratterizzata, rispetto alle altre «belle arti», per l’uso del linguaggio ordinato
ritmicamente, è trasmessa e insegnata allo spettatore/lettore/auditore tramite esempi (ciò è a dire
destini, avvenimenti) particolari, tramite quindi una modalità che possiamo definire retorica e per
questo contrapposta a, se non addirittura totalmente espunta dal discorso filosofico, quale discorso
categorico e dimostrativo posto in essere dalla filosofia realistica/razionalistica della modernità e dalla
metafisica intesa come episteme. Una modalità retorica, ovvero linguistica e conoscitiva, che per converso
si rivela strettamente legata, secondo un rapporto di analogia, alla «ermeneutica metafisica della contingenza»58
di Schopenhauer, come ancora emerge dai Supplementi:

La poesia sta alla filosofia come l’esperienza sta alla scienza empirica. L’esperienza infatti ci fa
conoscere il fenomeno nella sua singolarità e per via di esempi; la scienza abbraccia la totalità del
fenomeno per mezzo di concetti generali. Così la poesia ci vuole rendere note le idee (platoniche)
degli esseri per mezzo del particolare e per via di esempi; la filosofia ci vuole far conoscere nella sua
interezza e in generale l’intima essenza delle cose che in esse si esprime. Si vede già da questo che la
poesia ha più il carattere della giovinezza, la filosofia quello dell’età matura59.

54 Ivi, §490, p. 553.


55 Mondo, §§219-220, p. 249.
56 Supplementi, §468, p. 529.
57 Ivi, §484, p. 547.
58 Antonio Bellingreri, op. cit., p. 22.
59 Supplementi, §§487-488, p. 551.
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Schopenhauer ci invita quindi a riconoscere una legame necessario tra poesia e filosofia, che si
presenta simile a quello che passa tra l’essere nella sua singolarità e determinatezza e l’essere nella sua
totalità e identità con sé. Come fra questi due piani di realtà vi è identità e non contrapposizione, così
tra la conoscenza poetica (che si struttura sulla base del particolare e dell’esempio) e quella filosofica
(che si costituisce invece attraverso l’utilizzo di concetti generali) si palesa un’identità definita
dall’istanza comune di svelare ciò che rimane nascosto: la totalità, il Ding an sich. Insomma, fra filosofia e
poesia è possibile costruire una proporzione e un legame analogico (speculare rispetto a quello fra la
giovinezza e l’età matura) proprio in quanto alla base di entrambe si dà quel «sovrappiù di conoscenza»,
quell’intuizione di ciò che va oltre il fenomeno e l’esperienza pur appartenendo ad essi intimamente,
che non è altro che la visione di quel che non è, che lo spirito infantile e ingenuo del genio coglie per
mezzo della fantasia e dell’immaginazione.
La necessità del legame tra filosofia e poesia si deve individuare, quindi, in quella comune esperienza
originaria dell’essere, in cui ciò che appare si rivela nella sua infondatezza e come enigma abissale60. Tale
è la «contemplazione tragica», la «rivelazione del niente a se stesso»61, ossia, rivelazione (o agnizione) della
volontà a se stessa, che si rivela essere «lo scopo» precipuo della poesia e, in particolare, della
rappresentazione tragica. Riguardo ad essa, Schopenhauer scrive infatti, nel §51 del Mondo:

Lo scopo di questa altissima realizzazione poetica [è] la raffigurazione del lato spaventoso della vita,
[…] in essa ci veng[o]no condotti dinanzi agli occhi il dolore senza nome, le angosce dell’umanità, il
trionfo della malvagità, il beffardo predominio del caso e la rovina senza scampo dei giusti e degli
innocenti: in tutto questo si trova una significativa allusione alla condizione del mondo e
dell’esistenza. È il contrasto della volontà con se stessa che qui, nel grado più alto della sua
oggettità, ove si dispiega in tutta la sua pienezza, si presenta sotto spoglie spaventose. Esso si rende
visibile nelle sofferenze dell’umanità prodotte in parte dal caso e dall’errore, che si presentano come
le dominatrici del mondo e che, per la loro perfidia, che si spinge sino al punto di avere l’apparenza
dell’intenzionalità, vengono personificate nella figura del Destino; in parte provengono dall’umanità
stessa […]62.

A partire da queste considerazioni, diventa possibile approfondire ulteriormente l’interpretazione


filosofica che Schopenhauer svolge della tragedia, prendendo in esame la distinzione che un filosofo
italiano del secolo scorso, Ernesto Grassi, pone tra il «teatro del mondo» e il «teatro fantastico»,
«originario», «esistenziale»; una distinzione, questa, concepita in base ad uno stile di pensiero (che Grassi
stesso definisce umanistico e retorico) che rivela dei tratti quasi per niente dissimili da quelli che
caratterizzano la metafisica immanente e tragica di Schopenhauer.
In uno degli ultimi testi del filosofo di Milano, La metafora inaudita, in cui l’autore propone una sorta
di compendio dei temi centrali della sua “filosofia retorica”63, si ricerca nel teatro e nella sua struttura
una via nuova per il pensiero. Si chiede infatti Grassi: «La struttura del teatro, come luogo di visione
(theoria) drammatica e tragica in funzione del progetto di una favola, di un racconto fantastico, ci offre
degli spunti per approfondire e realizzare un nuovo filosofare che non parta dal problema degli enti?»64.

60Proprio per questo Schopenhauer può rilevare (con un richiamo evidente ad Aristotele, Poetica, 51b - 1-11) che la poesia si
distingue, ancora secondo analogia, dalla storia, in quanto questa sta alla poesia «come il ritratto sta al dipinto storico: quello
dà il vero nel particolare, questo nell’universale; quello ha la verità del fenomeno, il quale ne attesta la veridicità, questo ha la
verità nell’idea, che non si ritrova in nessun fenomeno specifico, ma parla di tutti i fenomeni» (Mondo, §288, p. 320).
61 Antonio Bellingreri, op. cit., p. 25.
62 Mondo, §298, p. 330.
63 Il riferimento è naturalmente diretto ad uno dei testi fondamentali del filosofo: cfr. Ernesto Grassi, Retorica come filosofia. La
tradizione umanistica, Massimo Marassi (a cura di), La città del sole, Napoli 2006.
64Id. Il teatro come modello della tragedia esistenziale, pp. 49-59, in Id., La metafora inaudita, Massimo Marassi (a cura di),
Aesthetica, Palermo 1990, p. 49.
12
Considerando il mondo umano come oggetto di una theoria, di una visione, la metafisica, in quanto
«filosofare che parte dal problema degli enti», è «ricorsa al teatro come a una metafora per illustrare il
proprio pensiero»65.
La metafora del “teatro del mondo” è esemplificata perfettamente, secondo Grassi, dal Timeo
platonico, in cui sono affermate una serie di tesi che fondano il pensiero metafisico o epistemico: «che il
filosofare deve partire dagli enti; […], che la soluzione [riguardo al problema del sorgere del mondo]
può essere raggiunta solo dal processo razionale causale; […] che fondamentalmente va distinta la
conoscenza sensibile opinabile da quella razionale»; da ciò Platone deduce, pertanto, la necessità di
«riconoscere un artefice, demiurgo, che ha una duplice funzione: poietica, fa passare gli enti dal non
essere all’essere, e una funzione ordinatrice degli enti nel loro apparire realizzato secondo un modello, un
paradigma sussistente in modo eterno»66.
Tuttavia, osserva Grassi: «basandosi sul pensiero causale non si può raggiungere alcun modello per
interpretare i fenomeni: il succedersi dei fenomeni conduce sempre solo al perché del susseguirsi di
ogni ente e mai allo svelarsi del loro significato […]. Ne consegue che l’affermazione di un demiurgo,
della distinzione di un mondo storico e di un mondo astorico, sono radicalmente inficiate dalla
insufficienza del pensiero causale»67. Non ci è concesso, dunque, pervenire al significato oggettivo degli
enti attraverso l’indicazione causale del loro susseguirsi, poiché «il significato degli enti con cui
realizziamo il nostro, sempre diverso, mondo storico»68 si coglie nell’ambito della passione e non della
ragione. Scrive infatti Grassi:

Nell’esistenza siamo situati in un ambito in cui si patisce un appello abissale, poiché non spiegabile
razionalmente. Questo patire si manifesta originariamente attraverso organi, strumenti, i nostri
cinque sensi: attraverso essi ci giochiamo la nostra esistenza. Tale apparire non sorge mai
astrattamente, ma sempre in situazioni concrete, in un qui e in un ora, nel piacere e nel dolore,
nell’ambito dei fenomeni indicativi, significanti. […] noi viviamo nella continua urgenza di
corrispondere a indicazioni abissali, a una semantica che ci incalza, ad appelli che vengono vissuti
nella passione: questo è il nostro gioco, il nostro teatro esistenziale69.

Il problema del dramma e della tragedia, allora, può dare un aiuto a definire l’ambito in cui all’uomo
si dà a comprendere il significato del proprio mondo e della propria esistenza. Dal “teatro del mondo”
inteso metafisicamente Grassi distingue, così, il “teatro fantastico”, «che su un palcoscenico
immaginario progetta un ambito particolare per vedere, per svelare l’esistente e il suo dramma, il suo
agire, attraverso un’azione e un linguaggio teatrale, metaforico e retorico». Il teatro fantastico, letterario,
è da intendersi, dunque, «come un mostrare il dramma umano mediante favole, racconti arbitrari,
inventati, per palesare storie possibili, mondi caduchi, irreali, per un palcoscenico fantastico»70.
Possiamo in questo modo rispondere alla domanda: «in quale ambito sperimentiamo l’oggettività
dell’appello abissale?»; oppure, detto altrimenti: «dove, come patiamo originariamente l’oggettività
dell’essere negli enti, nella nostra esperienza teatrale vissuta?»71. La risposta di Grassi è tanto semplice
quanto profonda: «tutto ciò che appare nel teatro originario – il cui sipario viene sollevato dai suoni,
dalle luci, dagli odori, dai sapori – coincide con l’apparire dell’ineluttabilità della prassi, che si palesa
nella vita con suoni indicativi, la cui eco originaria giunge agli elementi vocali del linguaggio»72.

65 Ibidem.
66 Ivi, p. 50.
67 Ivi, p. 51.
68 Ibidem.
69 Ibidem.
70 Ivi, p. 49.
71 Ivi, p. 52.
72 Ibidem.
13
Per risolvere il problema del significato oggettivo degli enti mediante cui realizziamo il nostro
mondo, non è più sufficiente ricondurre questo problema «a quello della aletheia come verità razionale
degli enti, ma occorre situarlo nel manifestarsi e svelarsi del significato degli enti nella praxis, nelle
azioni, nel dramma dell’essere umano», e questo perché «noi stessi siamo trascinati sul palcoscenico del
teatro del mondo dalla praxis della vita, e non dalla poiesis di un demiurgo. Nel divenire del nostro
accadere, attraverso il nostro agire storico, si rivela l’oggettivo»73.
Il nostro mondo sorge, quindi, in corrispondenza di un appello abissale, ed è per l’appunto nel
dramma, nella messa in scena della prassi dell’uomo, che l’apparire del nostro mondo «si presenta con
l’urgenza di un teatro, come ambito della visione di un ordine»74.
A questo punto, diventa forse possibile, ancora seguendo lo scritto di Grassi, mettere in risalto delle
affinità profonde tra la concezione schopenhaueriana e quella aristotelica della tragedia.
La prima definizione dell’essenza della tragedia fornita da Aristotele è la seguente: «Tragedia è
imitazione di un’azione [mimesis praxeos]», e specifica subito dopo: «[La mimesi riguarda] persone che
agiscono direttamente»75. Grassi, ragionando intorno al termine mimesis, rileva come questo fosse
inizialmente impiegato nel campo della danza. Il primo significato da attribuirgli deve perciò essere:
«“rappresentare attraverso la danza”», quindi: «mimeisthai deve attenersi al suo significato fondamentale
di rappresentare»76.
Inoltre, prendendo in considerazione la lunghezza e la brevità di pronuncia delle vocali nella lingua
greca antica, le quali ne determinano il ritmo e quindi la musicalità e la poeticità, Grassi osserva che «la
lingua [greca antica] non solo è inserita fin dall’inizio e di per sé in un ordine, e perciò in un proprio
ritmo, ma è anche espressione e rappresentazione del patire quell’ordine»77, (del patire quel «vincolo»,
per usare le parole di Schopenhauer), sì che, afferma Grassi, se «il poeta greco vuole parlare di un ritmo
è costretto a esprimerlo non soggettivamente nella passionalità della propria situazione individuale, ma deve
riconoscere l’oggettività del ritmo, delle vocali, delle parole: nella scelta delle parole deve assoggettare la
propria soggettività all’oggettività del linguaggio; solo allora il suo linguaggio ritmico sarà quello del
ritmo del linguaggio stesso, e quindi dell’oggettivo che vi si palesa»78.
In questo modo, mimesis come rappresentazione indica lo svelarsi e l’imporsi dell’oggettivo; e il
linguaggio teatrale, il linguaggio del dramma, per la potenza che esso esprime nel costruire e
nell’imporre un vincolo e un ordine attraverso il ritmo, si presenta originariamente come «espressione
dell’oggettivo, dell’essere», ovvero come «espressione di un theorein vissuto ed espresso nel linguaggio
come prassi originaria»79.
Aristotele non si limita, però, a definire la tragedia come mimesi di un’azione, cioè come far apparire
e porre davanti agli occhi (prò ommaton poiein) la morphé, l’essenza dell’azione umana, ma afferma anche
che: «la trama [mythos] è il principio [arché] e come l’anima della tragedia»80. Il mito, nel suo significato
originario, quale si trova, rileva Grassi, ad esempio in Omero, indica «il parlare e il pensare, ma in un
modo non disgiunto dal fare», acquisendo così anche il significato di «avvenimento e perciò
essenzialmente [di] realtà»81. Sarà poi successivamente con Platone e con l’avvio di una filosofia che
parte dal problema degli enti, che mythos si troverà contrapposto a logos, perdendo così il suo carattere e
la sua dignità di discorso vero.

73 Ibidem.
74 Ivi, p. 53.
75 Aristotele, Poetica, 1449b - 24 e 31; tr. it. cit. p. 59.
76 Ernesto Grassi, La metafora inaudita, cit., p. 53.
77 Ivi, p. 54.
78 Ibidem.
79 Ibidem.
80 Aristotele, Poetica, 1450a - 38; tr. it. cit. p. 61.
81 Ernesto Grassi, La metafora inaudita, cit., p. 56.
14
Seguendo le parole del filologo tedesco Walter F. Otto, a cui Grassi era legato da un sentimento di
forte amicizia (insieme avevano partecipato alle lezioni e ai seminari di Martin Heidegger) oltre che di
stima professionale (ovvero filosofico-speculativa), possiamo cogliere chiaramente questa mutazione
semantica del termine “mito”:

Legein e legere non hanno il significato fondamentale di ‘raccogliere’, come invece tanto spesso viene
irragionevolmente affermato. Questo è un significato secondario. Il concetto originario è quello
della ‘scelta’ (e quindi poi del raccogliere), del prestare attenzione quindi, del ponderare, dell'aver
riguardo […] tutt’altra cosa con mythos! Con esso non si intende qualcosa di ponderato, calcolato,
sensato. Il significato di questo termine è assolutamente oggettivo: il reale, l’effettivo (in parola,
naturalmente!). Mythos è la ‘storia’ nel senso dell’accaduto o di ciò che sta accadendo,
conformemente all’essere. La ‘parola’ che dà notizia del reale, oppure che stabilisce qualcosa, che
deve appunto divenire vero attraverso tale espressione: dunque, la parola che dà notizie oggettive,
autoritativa […]. Mythos è dunque la parola vera, non nel senso di ciò che si è correttamente
pensato, forte di una prova, ma di ciò che è dato come un fatto, si è rivelato, è consacrato […] esso
non è altro che esperienza originaria rivelatasi, grazie alla quale è possibile anche il pensare
razionale82.

Nello stesso modo, Grassi spiega che «Logos indica la parola dal punto di vista soggettivo, di chi
pensa e parla e quindi si riferisce al pensato, al designato. Invece in un senso completamente diverso,
cioè oggettivo, mito significa sì la parola, ma designa “il reale, l’effettivo”»83. Grassi – come si apprende
da un altro suo testo fondamentale, Arte e mito – riconosce nel mito «la premessa di ogni svelar-si della
realtà», la quale si presenta di fatto come un teatro, la visione del perenne nascere, esistere e trapassare
dell’essere: «la realtà come l’immane meraviglia, come il teatro, come originario theorein»84.
La caratteristica del mito è quindi quella di essere l’arché della tragedia, proprio in quanto nella
tragedia il mito «svela l’evento di un’apparizione, di una parousia nella quale avviene un divenire di cause
ed effetti, sostenuto dalla tensione propria della narrazione del mito quale istanza originaria»85. Nel
medesimo senso, per Schopenhauer, la poesia e specialmente il genere poetico «più oggettivo» di tutti, il
dramma, la tragedia86, hanno lo scopo di rappresentare la Idee der Menschheit attraverso la “messa in
scena” delle azioni umane, in cui avviene la «parousia», la rivelazione di ciò che si impone negli individui
che 'agiscono direttamente’, di ciò che non può venir designato in altro modo che dalla «parola magica»,
la parola dell’enigma «[che] suona volontà»87.
Il linguaggio poetico è per questo motivo inteso da Schopenhauer quale linguaggio dell’essere, o meglio,
quale «linguaggio del volere»88, come scrive Bellingreri, oppure quale «linguaggio ideale»89, come

82 Walter Friedrich Otto, Il mito e la parola, pp. 21-48, in Id., Il mito, Il melangolo, Genova 1993, pp. 31-33.
83 Ernesto Grassi, La metafora inaudita, cit., p. 57.
84 Id., Arte e mito, Carlo Gentili (a cura di), La città del sole, Napoli 1996, p. 218.
85 Id., La metafora inaudita, cit., p. 57.
86 Cfr. Mondo, §293, pp. 324-325: «La raffigurazione dell’idea dell’umanità, alla quale attende il poeta, può essere condotta a
termine o facendo sì che chi descrive e ciò che viene descritto siano tutt’uno [come «nella poesia lirica, nella canzone
autentica»] […]; oppure colui che descrive è del tutto separato da ciò che viene descritto, come accade in tutti gli altri generi
di poesia, nei quali, dove più e dove meno, chi descrive si nasconde dietro a ciò che descrive, e infine scompare del tutto»; e
ciò si osserva, ancor più che nell’epica, «nel dramma, che è il più oggettivo e sotto molti punti di vista il più compiuto, ma
anche il più difficile, tra i generi della poesia».
87Ivi, §119, p. 147. Cfr. anche Fabio Bazzani, op. cit., p. 100: « […] l’essere come volontà, o meglio, la determinazione della
parola volontà come segno linguistico dell’essere, non è nostra semplice deduzione, non deriva da un processo logico […]
bensì è “qualcosa di immediatamente conosciuto […]”. La volontà assume in tal modo una valenza e un significato di decisa
rottura degli schemi propri del linguaggio raziocinante, vale a dire degli schemi costruiti sull’idea di un essere di pensiero, è
una “parola magica” che deve schiudere l’essenza più intima di ogni cosa».
88 Antonio Bellingreri, op. cit., p. 56.
89 Fabio Bazzani, op. cit., p. 112.
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propone invece Bazzani, in ogni caso legato alla intuizione eidetica, pre-concettuale. «Ciò che consente
di attingere all’essere, scrive al proposito Bazzani, è un’intuizione che sta prima del linguaggio, che si dà
con il corpo e che si fa linguaggio, o meglio, parola, la parola di questa originaria intuizione»90; parola
che, così fondata, possiede una valenza ed un significato che è stato totalmente disconosciuto dalla
tradizione filosofica, e che richiama «il mythos più del logos, la narrazione metaforica più della esposizione
razionale»91. Il linguaggio proprio dell’arte in quanto poesia (e tragedia) è, in questo modo, il linguaggio
che esprime l’essere, l’oggettivo, che si palesa nella rappresentazione tragica, appunto, come «un essere
che si dà quale coincidenza dell’essentia con l’existentia»92:

Lo scopo del dramma è in genere quello di mostrarci con un esempio che cosa siano l’essenza e
l’esistenza dell’uomo. […] Già però l’espressione “essenza ed esistenza dell’uomo” racchiude il
germe della controversia, se la cosa fondamentale sia l’essenza, vale a dire il carattere, oppure
l’esistenza, vale a dire il destino, l’avvenimento, l’azione. Le due cose sono del resto così
strettamente congiunte l’una all’altra che se ne può al più separare il concetto, ma non la
rappresentazione. Giacché sono solo le circostanze, i destini, gli avvenimenti a condurre i caratteri a
esprimere la loro essenza, ed è solo dai caratteri che scaturisce l’azione dalla quale derivano gli
avvenimenti93.

In cosa consistano l’essenza e l’esistenza dell’uomo rivelate dalla tragedia, è espresso perfettamente
da Schopenhauer nel capitolo 46 dei Supplementi, La vanità e il male di vivere, in cui è scritto, con termini
che richiamano da vicino il noto detto di Anassimandro («Principio degli esseri è l’indefinito [l’infinito,
l’àpeiron]… da dove infatti gli esseri hanno origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità:
poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo»94):

[…] l’esistenza umana, ben lungi dal possedere il carattere di un dono, ha in tutto e per tutto quello
di un debito che è stato contratto. La riscossione di questo debito si mostra nella forma dei bisogni
impellenti, dei desideri assillanti e della miseria senza fine che derivano dall’esistenza stessa. […] E
quando è stato contratto questo debito? Al momento della generazione.
Se, conseguentemente, si considera l’uomo come un essere la cui esistenza è una punizione e
un’espiazione lo si scorge già in una luce più giusta95.

Illuminati da questa consapevolezza, non possiamo che giungere alle conclusioni esposte da
Schopenhauer nel capitolo 48 dello stesso volume:

Poiché però noi siamo ciò che non dovremmo essere, facciamo anche necessariamente quello che
non dovremmo fare. È dunque per questo che abbiamo bisogno di una trasformazione completa
della nostra mente e del nostro essere, vale a dire di una rinascita, come conseguenza della quale
subentra la redenzione. Se anche la colpa si trova nell’agire, nell’operari, tuttavia la radice della colpa
si trova nella nostra essentia et existentia. […] Ne consegue che, propriamente, il nostro unico peccato
è il peccato originale96.

Da queste righe cogliamo il significato profondo della tragedia, compendiato in queste parole tratte
dal §51 del Mondo:

90 Ivi, p. 101.
91 Ibidem.
92 Ivi, p. 103.
93 Supplementi, §494, p. 557.

Alessandro Lami (a cura di), I Presocratici. Testimonianze e frammenti da Talete a Empedocle con un saggio di Walter Kranz, 12.
94

Anasssimandro, B 1, Rizzoli, Milano 1991, p. 139.


95 Supplementi, §§665-666, p. 740.
96 Ivi, §693, p. 770.
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Una sola e la stessa è la volontà che dappertutto vive e si manifesta, ma le sue manifestazioni
fenomeniche si combattono l’una con l’altra e si dilaniano a vicenda. In questo individuo essa si
mostra potente, in quell’altro più debole, qui più, là meno in accordo con la riflessione e attenuata
dalla luce della conoscenza, sino a che in qualcuno questa conoscenza, purificata ed elevata dal
dolore stesso, giunge sino al punto in cui il fenomeno, il velo di Maya, non la inganna più, e vede
con chiarezza attraverso la forma del fenomeno, attraverso il principium individuationis, ed è proprio a
questo punto che si estingue l’egoismo che su di esso si fondava, così che i motivi, sinora così
potenti, perdono la loro forza, e al loro posto la compiuta conoscenza dell’essenza del mondo,
agendo come quietivo della volontà, produce la rassegnazione, la rinuncia non semplicemente alla
vita, quanto piuttosto alla volontà di vivere nella sua interezza97.

La tragedia, dunque, mettendo in scena le azioni degli uomini e, attraverso di esse, il conflitto della
volontà con se stessa, produce nello spettatore quella conoscenza propria della intuizione eidetica
(conoscenza «purificata ed elevata dal dolore stesso») la quale, come scrive Bellingreri, si rivela essere
«una luce speciale, che è l’intelligenza geniale, [la quale] rende possibile una nuova figura del fenomeno,
che perciò non è soppresso nei suoi tratti ma per così dire purificato o liberato, trasmutato infine in
forma»98. Il finito, il contingente, il fenomeno che viene “liberato” dalla luce della conoscenza non viene
dunque cancellato, bensì conservato: viene cioè, come scrive ancora Bellingreri, «smaterializzato e
disindividualizzato», e in ciò consiste «la trasfigurazione del mondo in idea»99 che consegue la tragedia (e
l’opera d’arte tout court).
La liberazione che è qui in gioco, inoltre, «non è tanto la liberazione dall’assoluto, quanto piuttosto la
liberazione da quel punto di vista inadeguato dell’assoluto, che produce solo un’immagine illusoria del
mondo»100. È dunque una liberazione dell’intelligenza dall’illusione della volontà di vivere ciò che fa sì
che la conoscenza dell’essenza dell’uomo e del cosmo agisca in noi come Quietiv des Lebens e produca, di
conseguenza, la rinunzia al mondo e a noi stessi.
La tragedia raggiunge così il suo scopo nella catarsi, nella purificazione dal dolore e dalla volontà
(che è al tempo stesso conversione della volontà stessa, ovvero redenzione) che porta con sé un
sentimento di piacere, corrispondente, per Schopenhauer, al «sentimento del sublime»:

Il piacere che ci dà la rappresentazione tragica non appartiene al sentimento del bello, bensì a quello del
sublime; anzi, è il grado più elevato di quel sentimento. Giacché, come noi alla vista del sublime
nella natura ci distogliamo dall’interesse della volontà per assumere un atteggiamento puramente
contemplativo, così di fronte alla catastrofe tragica ci distogliamo dalla volontà di vivere come tale.
Nella rappresentazione tragica ci vengono infatti presentati il lato terribile della vita, la miseria
dell’umanità, il dominio del caso e dell’errore, la caduta del giusto, il trionfo del malvagio: ci
vengono dunque messi davanti agli occhi quegli aspetti del mondo che sono in diretto contrasto
con la nostra volontà. A questa vista ci sentiamo spinti a distogliere la nostra volontà dalla vita, a
non volerla più, a non amarla più. Proprio per questo, però, ci rendiamo conto che rimane tuttavia
in noi ancora qualcos’altro, qualcosa che non possiamo in alcun modo conoscere positivamente,
bensì solo negativamente, come ciò che non vuole la vita101.

La visione del teatro esistenziale in cui consiste la rappresentazione della tragedia, in quanto è
«visione assoluta del mondo, esperienza del tutto nel frammento»102, come scrive Bellingreri, essa è visione
del male, giacché male e non bene è la realtà stessa nella sua totalità. La coscienza del male e della
sofferenza, ottenuta mediante la sua riproduzione nell’opera d’arte, diventa quindi uno spettacolo ma non
semplicemente questo (altrimenti dovremmo costatare un’opposizione radicale tra i due termini,

97 Mondo, §§298-299, p. 330.


98 Antonio Bellingreri, op. cit., p. 79.
99 Ibidem.
100 Ivi, p. 80.
101 Supplementi, §495, p. 558.
102 Antonio Bellingreri, op. cit., p. 84.
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consapevolezza e male, poiché quest’ultimo si lascerebbe intendere come semplicemente «esterno» alla
stessa vita). Osserva infatti Bellingreri che la contemplazione in cui consiste l’arte «partecipa di quello
che Schopenhauer ritiene l’atteggiamento etico per eccellenza, il Mitleid; per questo lo sguardo che attraversa la
miseria cosmica si distacca sì da essa, ma insieme la porta: implicando la compassione schopenhaueriana un
mesto consentire al mondo accolto nel suo esser niente»103.
Dall’insieme di conoscere disinteressato e di partecipazione sofferta in cui consiste l’arte in quanto
arte tragica, scaturisce allora il piacere che l’uomo prova di fronte alla visione della catastrofe cui è
destinato, il piacere come «sentimento del sublime», che porta con sé una richiesta vitale, esistenziale:
«distogliamo[ci] dalla volontà di vivere come tale».
Nel piacere (legato alla conoscenza) che la tragedia produce, l’arte in quanto tale, quindi, rivela per
Schopenhauer il suo legame essenziale con la metafisica e con l’etica (o la mistica):

[…] ogni rappresentazione tragica richiede un’esistenza di natura del tutto diversa, un altro modo, la
cui conoscenza può essere data sempre e solo indirettamente […]. Nell’istante della catastrofe
tragica si produce in noi, più chiara che mai, la convinzione che la vita è un brutto sogno dal quale
ci dobbiamo svegliare. Pertanto l’effetto prodotto dalla rappresentazione tragica è analogo a quello
prodotto dal sublime dinamico, in quanto essa, come quest’ultimo, ci eleva al di sopra della volontà
e del suo interesse e ci dispone in modo tale da far sì che proviamo piacere alla vista di ciò che si
pone in diretto contrasto con essa. Quel che a tutto ciò che è tragico, in qualunque forma si
presenti, dà il suo particolare slancio verso il sublime è il cominciare a riconoscere che il mondo, la
vita, non sono in grado di dare alcun appagamento autentico, e che quindi non meritano il nostro
attaccamento: lo spirito tragico consiste in questo, ed è per questo che esso conduce alla
rassegnazione104.

L’invito a rinunciare alla volontà di vivere resta dunque ciò a cui la rappresentazione tragica tende in
verità, il fine ultimo della messa in scena dei dolori dell’umanità quale rappresentazione del peccato primo,
quello de haber nacido: «Il vero senso della tragedia è la comprensione […] che l’eroe non espia i propri
peccati personali, bensì il peccato originale, ossia la colpa in cui consiste l’esistenza stessa»105. È da
questa comprensione che si produce, dunque, la catarsi o l’esperienza del sublime, attraverso cui
diveniamo capaci di assumere questa colpa volontariamente e di portarla
La contemplazione eidetica in base a cui si struttura l’arte, non è perciò soltanto contemplazione
dell’essere, ovvero apertura all’essere movendo dall’estetico, dal fenomenico, dalla differenza, bensì,
come scrive Fabio Bazzani, è «possibilità di trascendimento dell’essere, possibilità di liberarsi dall’essere
[…]. Il valore teoretico dell’arte trova così conferma in una tensione etica ed è a sua volta motivato da
un’esigenza etica»106. In Schopenhauer vi è, pertanto, il riconoscimento della teoria dell’arte a
presupposto della teoria etica in quanto tale. Ciò significa che «preliminare alla determinazione di un
modello etico e che preliminare all’agire morale è la conoscenza delle strutture della realtà, una
conoscenza il cui impulso (ovvero la volontà di conoscere) è dato dalla motivazione etica di per se
stessa. […] Con l’arte, con la contemplazione/riproduzione eidetica, infatti, tramite quel procedimento
di riduzione al pre-categoriale […], ci si apre alla dimensione unitaria ed universale dell’essere, a
muovere direttamente dall’esperienza che si compie»107.
Tale motivazione etica che si situa alla base della conoscenza si dà, in Schopenhauer, come negazione
dell’essere, da intendere, secondo quanto il filosofo stesso scrive nell’ultimo capitolo della Welt (§71),
come negazione relativa: nihil privativum. In tal senso, liberazione dall’essere, seguendo ancora le
indicazioni di Bazzani, è da intendere come «negazione del negativo dell’essere», e quindi come
«Überwindung dell’essere stesso», nel senso di «oltrepassamento e correzione delle distorsioni (über-
winden) dell’essere», onde l’etica si presenta «quale modalità generale di un ben-agire che significa

103 Ibidem.
104 Supplementi, §495, pp. 558-559.
105 Mondo, §300, p. 331.
106 Fabio Bazzani, op. cit., pp. 114-115.
107 Ivi, p. 191.
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correzione delle distorsioni dell’essere (rappresentate da lacerazioni, dissidio, conflitto, dolore ecc.),
proprie dell’essere in quanto essere e dell’essere nel suo esser-presente»108.
Pertanto l’ascesi non è solo la culminazione dell’etica, ma anche culminazione del sapere filosofico,
giacché l’etica, l’agire pratico-morale, presuppone una fondazione filosofica, la comprensione dell’essere
in quanto essere che si offre all’intuizione eidetica109.
Dalla definizione di ascesi che Schopenhauer propone nella Welt si evince chiaramente il legame di
essa con il sublime e l’effetto catartico della tragedia: «Con l’espressione ascesi […] io intendo appunto,
in senso stretto, questa deliberata cessazione della volontà per mezzo della rinuncia a ciò che è piacevole
e della ricerca di ciò che è sgradito, la pratica volontaria dell’espiazione e dell’automortificazione della
carne, in vista di una durevole repressione della volontà»110.
L’ascesi è dunque traduzione nella existentia della verità espressa dalla filosofia, ossia di quella
contemplazione tragica che coglie «l’infinita vanità del tutto»; ascesi è, di conseguenza, adeguamento
dell’existentia ad un tale sapere. Essa, come infatti osserva Bazzani, «non è soppressione di ogni agire in
quanto tale, bensì è di per sé agire morale nel suo più alto grado, ed in questo agire sta la culminazione
della conoscenza filosofica, poiché questo agire scaturisce dalla verità, dal coglimento dell’essere nella
sua unità ed universalità profonde e nella sua identità con la presenza»111.
Pertanto, la soppressione della volontà e la liberazione dalla vita per mezzo dell’ascesi, non significa
negazione della volontà, della vita (essere) in quanto volontà e vita (essere), bensì significa, appunto,
«negazione della negatività della volontà, della vita, ovvero negazione dell’essere in dissidio con se
stesso, dissidio che si dà nella misura in cui l’essere si differenzia nell’ente e si rappresenta tramite l’ente,
nella misura in cui, cioè, apparendo si nasconde a se medesimo scomparendo nell’ente, nel momento
del proprio divenire-presente»112.
In quanto l’ascesi giunge ad indicare «esercizio di conoscenza» ed «orientamento della conoscenza»,
essa deve essere colta nel significato che emerge dal suo etimo originario, quello di fare, esercitare (askèo,
áskēsis)113. La conoscenza della verità, che accomuna filosofia e poesia, è, in ultima istanza, «un agire per
la vita etica, e la vita etica, di cui l’áskēsis risulta appunto culminazione, è l’atto della verità»114. L’ascesi,
insomma, è «acquisizione dell’unità, e della differenza quale ripresa-ripetizione dell’unità, è liberazione
dalla differenza in quanto differenza»115.
È in tal senso che va letta, infine, una delle proposizioni finali della Welt, in cui si ritrova il senso di
ciò che per Schopenhauer stesso si presenta come il punto di culminazione del suo «unico pensiero»: la
nozione di nihil privativum in cui si esprime la libertà come fondamento dell’essere e come presupposto

108 Ivi, p. 183.


109Come si legge nel cap. 48 dei Supplementi, la filosofia, per Schopenhauer, deve rivelarsi vicina a tutte quelle religioni che
«nel punto più alto della loro maturazione, sfociano nella mistica e nei misteri, vale a dire nell’oscurità e nell’occulto» (§701,
p. 779), ma deve allo stesso tempo allontanarsi e differenziarsi da esse, per limitarsi semplicemente a mettere a tema il
mondo («la filosofia deve rimanere una cosmologia e non può diventare teologia»). Questo avviene, secondo Schopenhauer,
nella sua dottrina, la quale «una volta giunta al suo punto culminante, assume un carattere negativo, ossia si conclude con una
negazione. Essa qui può infatti parlare solo di ciò che viene negato, di ciò che viene tolto; ciò che però in compenso se ne
guadagna, ciò che si comprende, essa è costretta ad indicarlo (alla fine del quarto libro) come nulla […]. Di qui tuttavia non
segue ancora che questo qualcosa sia nulla in assoluto, ossia che debba essere nulla anche da ogni possibile punto di vista e
in ogni possibile senso; significa invece solo che noi siamo limitati a una conoscenza completamente negativa di esso, il che
può benissimo dipendere dalla limitatezza del nostro punto di vista. Ebbene, è proprio qui che il mistico procede in modo
positivo, sì che da qui in avanti non rimane nient’altro che il misticismo» (§§702-703, p. 780).
110 Mondo, §463, p. 501.
111 Fabio Bazzani, op. cit., p. 250.
112 Ibidem.
113 Ibidem.
114 Ivi, p. 251.
115 Ibidem.
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imprescindibile di ogni agire eticamente connotato: «Solo la conoscenza è rimasta, la volontà è
scomparsa»116.

116 Mondo, §486, p. 525.


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