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M.

Foucault – Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico (Einaudi 2008)

dalla presentazione di D. Defert, F. Ewald, F. Gros

[6] Non costituendo né una conclusione, né una parte dell’impresa critica di Kant,
l’Antropologia dal punto di vista pragmatico è un tentativo di armonizzare l’antropologia
empirica – così come si è costituita nel corso del XVIII secolo – e la filosofia critica. La
ricerca di Foucault riguarda infatti una questione essenziale per lui a partire dagli anni
Cinquanta, questione segnalata già da Husserl: la crescente antropologizzazione della
filosofia da cui il pensiero heideggeriano, mai citato ma ben presente, non è forse indenne.

[7] Il fatto è che nel novembre 1963, dopo aver contemplato a lungo al Prado Las Meninas,
Foucault aveva intravisto le grandi linee di una storia del passaggio dall’età moderna della
rappresentazione all’età antropologica. [...] È all’interno di una configurazione recente
del sapere – sapere della produzione, del vivente e delle lingue – e non nel destino della
filosofia moderna, che egli situava ormai l’apparizione e la probabile scomparsa della figura
dell’uomo emersa nel XVIII secolo come allotropo empirico-trascendentale.

Cfr. il senso dell’opposizione: il passaggio all’“età antropologica”

riconfigurazione destino
del sapere della filosofia moderna
<apparizione & scomparsa
della figura dell’uomo> radice antropologica
[XVIII sec.]

Probabilmente non è possibile conferire valore trascendentale ai contenuti empirici, o


spostarli verso una soggettività costituente, senza dar luogo, almeno silenziosamente, a
un’antropologia, cioè a un modo di pensiero in cui i limiti di diritto della conoscenza (e
quindi di ogni sapere empirico) sono al tempo stesso le forme concrete dell’esistenza, così
come vengono offerte proprio in questo sapere empirico.

● NB: i limiti di diritto della conoscenza sono le forme


concrete dell’esistenza! Una tesi, questa, che sarebbe
kantianamente inaccettabile.

Dall’Introduzione di M. Foucault

Ipotesi di lettura [11]: Esisteva forse già nel 1772, soggiacente anche al fondo della Critica,
una certa immagine concreta dell’uomo che nessuna elaborazione filosofica ha alterato per
l’essenziale e che infine trova una formulazione, senza grosse modifiche, nell’ultimo dei
testi pubblicati di Kant [i.e. l’Antropologia dal punto di vista pragmatico]? E se questa
immagine dell’uomo ha potuto raccogliere l’esperienza critica, senza per altro
sfigurarsi, non è forse perché essa l’ha fino a un certo punto se non organizzata e
diretta, per lo meno guidata, e quasi segretamente orientata? Dalla Critica
all’Antropologia, vi sarebbe come un rapporto di finalità oscura e ostinata.

● In altre parole: Foucault fa qui l’ipotesi della presenza, alla base di


tutta l’impresa del criticismo kantiano, di una “certa immagine
concreta dell’uomo” – dove l’aggettivo, “concreta”, va sottolineato
con forza. A dispetto della “purezza” a cui l’analisi kantiana della
ragione ambirebbe, l’impresa del criticismo avrebbe allora, in un
certo qual modo, veicolato un’“immagine”, ossia una “visione
dell’uomo” intrisa di empiria – una “visione” che, per di più, avrebbe
sotterraneamente orientato, fin dall’inizio, la stessa impresa critica.

psicologia razionale & empirica


[39] È nota la distinzione stabilita dall’Architettonica tra Psicologia razionale e Psicologia
empirica. La prima appartiene alla filosofia pura, dunque alla metafisica, e si oppone
pertanto alla fisica razionale come l’oggetto del senso interno all’oggetto dei sensi esterni.
Quanto alla psicologia empirica, una lunga tradizione le ha riservato il suo spazio
all’interno della metafisica; ancor più, i recenti insuccessi della metafisica hanno potuto far
credere che la soluzione dei suoi insolubili problemi si nascondesse nei fenomeni psicologici
che emergono da uno studio empirico dell’anima. Pertanto, la psicologia ha confiscato una
metafisica svilita entro cui essa aveva già occupato indebitamente un posto. Una conoscenza
empirica non può, in nessun caso, fornire i principi o chiarire i fondamenti di una
conoscenza che procede dalla ragion pura e di conseguenza interamente a priori. La
psicologia empirica dovrà dunque essere separata dalla metafisica, alla quale è estranea. E se
un simile spostamento non può essere compiuto nell’immediato, è perché è necessario
predisporre per la psicologia il suo posto all’interno di una scienza empirica dell’uomo, che
farà da contrappeso alla scienza empirica della natura, all’interno di un’Antropologia.
Tutto sembra chiaro in questa organizzazione astratta.
E tuttavia, l’Antropologia, così come possiamo leggerla, non fa posto ad alcuna
psicologia, qualunque essa sia. Si propone anzi esplicitamente come rifiuto della psicologia,
in un’esplorazione del Gemüt [animo, carattere sentimento] che non pretende di essere
conoscenza della Seele (anima).

<d’altra parte>

[41] Questi testi dell’Antropologia si situano in una linea di continuità con la Dialettica
trascendentale. Ciò che denunciano è appunto l’illusione inevitabile di cui rendevano conto i
paralogismi: noi ci serviamo della rappresentazione semplice dell’io, priva di qualunque
contenuto, per definire quell’oggetto particolare che è l’anima. Tuttavia, bisogna sottolineare
che i paralogismi riguardano solamente la psicologia razionale, non l’empirica, e che lasciano
aperta la possibilità di una “sorta di fisiologia del senso interno”, i cui contenuti dipendono
dalle condizioni di ogni esperienza possibile.

Quanto alle due possibilità lasciate aperte – una psicologia empirica e una disciplina rivolta
verso l’uso pratico – quali sono i loro rapporti con l’Antropologia? [...] nessun elemento,
nessuna sezione, nessun capitolo dell’Antropologia si propone come disciplina prevista dalla
Dialettica, o come quella psicologia empirica che si può scorgere all’apice della
Metodologia. Si deve forse concludere che l’Antropologia, per uno slittamento di
prospettive, sia diventata a sua volta al tempo stesso tale disciplina trascendentale e tale
conoscenza empirica? O che al contrario abbia reso l’una e l’altra impraticabili
neutralizzandole per sempre?
Critica e Antropologia
[53] Quale rapporto si stabilisce fra Critica e Antropologia.
Due testi rivestono un’importanza particolare: un passo della Dottrina trascendentale
del metodo a cui abbiamo già fatto riferimento a proposito della psicologia; e un’indicazione
piuttosto enigmatica che compare nella Logica.
(I) L’Architettonica della ragion pura. Dal lato della filosofia pura nessuno spazio è
riservato all’Antropologia. La “Fisiologia razionale” che considera la Natura come
“Inbegriff aller Gegenstände der Sinne” [insieme di tutti gli oggetti dei sensi] conosce
solamente la Fisica e la Psicologia razionale. Nel vasto campo della filosofia empirica,
invece, due ambiti stanno in un rapporto di equilibrio: quello di una fisica, e quello di
un’antropologia che dovrà raccogliere l’edificio più ristretto di una psicologia empirica.
[...] A un primo sguardo, non esiste una simmetria rigorosa tra la filosofia pura e la
filosofia empirica. [...] L’Antropologia, a differenza della Psicologia, compare solo dal
lato empirico; non può dunque essere retta o controllata dalla Critica, in quanto questa
concerne la conoscenza pura.
(II) La Logica. Conosciamo i tre interrogativi fondamentali elencati dalla
Metodologia trascendentale: cosa posso sapere? – domanda a cui la Critica ha dato una
risposta “di cui la ragione deve accontentarsi”; cosa devo fare? – questione di natura pratica;
cosa mi è permesso sperare? – quesito al contempo teoretico e pratico. Ora questa triplice
domanda che sovrasta e, fino a un certo punto, governa l’organizzazione del pensiero critico
si ritrova all’inizio della Logica, ma con una modificazione decisiva. Compare infatti un
quarto interrogativo: che cos’è l’uomo?, domanda che viene dopo le prime tre solo per
riprenderle all’interno di una relazione che le abbraccia tutte: tutte infatti devono rapportarsi a
questa, poiché devono essere riportate all’Antropologia, alla Metafisica, alla Morale e alla
Religione.
Questo brusco movimento che fa oscillare i tre interrogativi verso il tema
antropologico non tradisce forse una rottura del pensiero? [...]
[55] O bisogna pensare, invece, che queste tre domande debbano essere a loro volta
interrogate, delimitate nel loro potere di messa in questione e ricollocate, da una nuova
rivoluzione copernicana, nella loro gravitazione originaria attorno all’uomo, che crede
naturalmente di interrogarsi in esse, mentre è lui che le interroga e, per dissipare ogni
filodossia, dobbiamo riconoscere che si tratta di interrogarle in rapporto a lui?

[61] ripetizione antropologico-critica: l’Antropologia non dice nient’altro


rispetto a quel che dice la Critica.

Conclusioni
[88] L’Antropologia [...] trova il suo punto di equilibrio attorno a qualcosa che non è né
l’animale umano, né la coscienza di sé, ma il Menschenwesen, vale a dire al contempo
l’essere naturale dell’uomo, la legge delle sue possibilità, e il limite a priori della sua
conoscenza. Non sarà dunque solamente scienza dell’uomo e scienza e orizzonte di tutte le
scienze dell’uomo, ma scienza di ciò che fonda e limita per l’uomo la sua conoscenza. È lì
che si cela l’ambiguità di quella Menschen-Kenntniss che è la caratteristica
dell’Antropologia: essa è conoscenza dell’uomo, in un movimento che oggettiva l’uomo, al
livello del suo essere naturale e nel contenuto delle sue determinazioni animali; ma è al
contempo conoscenza della conoscenza dell’uomo, in un movimento che interroga il soggetto
su di sé, sui suoi limiti, e su ciò che egli autorizza nel sapere che su di esso si costituisce.
L’Antropologia credeva di mettere in questione un settore della natura; in realtà
poneva un interrogativo destinato a riversare sulla filosofia della nostra epoca tutta l’ombra di
una filosofia classica ormai privata di Dio: può esistere una conoscenza empirica della
finitudine? Il pensiero cartesiano, pur avendo incontrato molto presto, e muovendo
dall’esperienza dell’errore, questa finitudine, vi era stato rinviato definitivamente solo a
partire da un’ontologia dell’infinito. Quanto all’empirismo, esso praticava questa finitudine,
rinviava a essa incessantemente, ma come limite di se stesso oltre che come frontiera della
conoscenza. L’interrogativo antropologico ha un senso diverso; il suo intento è sapere se,
al livello dell’uomo, possa esistere una conoscenza della finitudine, sufficientemente
liberata e fondata, per pensare questa finitudine in se stessa, vale a dire nella forma
della positività. [89]

N.B.: questa è, sostanzialmente, la premessa concettuale da cui Foucault prenderà


l’abbrivo nelle Parole e le cose.

<riformulazione del nostro problema>: [...] il fatto che la Critica sia accompagnata da un
insegnamento antropologico, quel monotono contrappunto per mezzo del quale Kant ha
raddoppiato lo sforzo di una riflessione trascendentale con una costante accumulazione di
conoscenze empiriche sull’uomo; il fatto che, per venticinque anni, Kant abbia insegnato
l’Antropologia dipende senza dubbio da qualcosa d’altro dalle esigenze della sua vita
universitaria; questa ostinazione è legata alla struttura stessa del problema kantiano: in
che modo pensare, analizzare, giustificare e fondare la finitudine, in una riflessione che
non passa per un’ontologia dell’infinito, e non si giustifica come una filosofia
dell’assoluto? Questione che è effettivamente all’opera nell’Antropologia, ma che non può,
restando nel suo ambito, assumere le sue vere dimensioni, poiché non può essere riflessa in
quanto tale in un pensiero empirico. In questo consiste il carattere marginale
dell’Antropologia rispetto all’impresa kantiana: essa è al contempo l’essenziale e
l’inessenziale, quel margine costante rispetto al quale il centro è sempre spostato, ma che
sempre di nuovo a esso rinvia per interrogarlo.

[94] L’Antropologia è questo cammino segreto che, rivolto ai fondamenti del nostro sapere,
collega tramite una mediazione non riflessa l’esperienza dell’uomo e la filosofia. I valori
insidiosi della questione: Was ist der Mensch? sono responsabili di questo campo omogeneo,
destrutturato, infinitamente reversibile in cui l’uomo propone la sua verità come anima della
verità.

<l’impresa nietzschiana>: Poiché l’uomo, nella sua finitudine, non è


separabile dall’infinito di cui è al contempo la negazione e l’erede; è
nella morte dell’uomo che si compie la morte di Dio. Non è forse
possibile concepire una critica della finitudine che sia liberatoria tanto
in relazione all’uomo quanto in relazione all’infinito e che mostri che
la finitudine non è termine, ma è quella curva e quel nodo del tempo in
cui la fine è inizio?
Sensi dell’antropologia

antropologia fisiologica antropologia “psicologica” antropologia pragmatica

L’animale umano conoscenza di sé possibilità e limiti dell’uomo


nel mondo

“uomo” “coscienza di sé” l’essere umano


[Mensch] [Selbst-Bewusstsein] [Menschenwesen]

Lettura di Foucault:

“ripetizione”:
in chiave antropologica
ritroviamo la traduzione della
critica kantiana in quanto
indagine sui limiti e le
condizioni di possibilità della
conoscenza

e in prospettiva:

la finitudine umana in se stessa,


positivamente pensata
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{l’“era antropologica”}

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