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1 «La filosofia propria dell’epoca della metafisica compiuta è l’antropologia. Che si parli
ancora di antropologia “filosofica” oppure no è del tutto indifferente. […] Divenuta an-
tropologia, la filosofia stessa perisce [geht zugrunde] a causa della metafisica» (M. Heidegger,
Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfüllingen, 1954, trad. it. di G. Vattimo, Saggi e discorsi, Mur-
sia, Torino, 1980, p. 56).
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it. di G. Bogliolo, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano, 1980, part. pp. 169 sgg. Cfr. an-
che Id., Le mots et le choses, trad. it. di E. Panaitenescu, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano,
1985.
3 Sono epiteti rispettivamente di C. Kluckhohn e di C. Levi-Strauss, cit. in F. Remotti,
Noi primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Bollati-Boringhieri, Torino, 1992, p. 21.
4 Cfr. K. Löwith, Heidegger Denker in dürftiger Zeit, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen,
1960, trad. it. di C. Cases e A. Mazzone, Saggi su Heidegger, Einaudi, Torino, 1974, in par-
ticolare pp. 49-82; O. Marquard, Schwierigkeiten mit der Geschichtsphilosophie, Suhrkamp,
Frankfurt a.M., in particolare pp. 134 sgg.
5 Sia appena accennato al problema del rapporto mito-filosofia-scienza, al «pensiero sel-
vaggio» (Levi-Strauss), a una genesi del pensiero, che sia quella del rapporto tra mano, cer-
vello, linguaggio (Leroi-Gourhan), o quello della Urstiftung husserliana. La filosofia è un
prodotto tardo, fa parte di un’elaborazione del reale «assoluto» che si perde in un «prima»
illocalizzabile e sempre residuo come corpo. Forse qui c’è il nodo, obliato da Heidegger,
che lega e fa confliggere all’interno della filosofia stessa, dianoia e noesis, scienza e medita-
zione, realtà e verità.
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della cultura degli anni tra le due guerre mondiali. Dal punto di vista dei contenuti le cose
che Heidegger dice, in quegli anni, non sono molto diverse (tant’è che spesso furono an-
tropologicamente fraintese). Ma il modo di affrontarle e le precise distinzioni tra ontico e
ontologico, categorie ed esistenziali, dovevano segnalare finalità non solo differenti, ma
incompatibili. Perciò molti tentativi di mettere in rapporto Heidegger con i saperi positivi,
appaiono, per quanto interessanti, troppo «concilianti». Cfr. p. es. A. Gualandi, «”Uomo”,
“linguaggio”, “modernità” in Heidegger e Gehlen. Idee per un confronto teorico-critico»,
in Discipline filosofiche, 9, 2, 1999, pp. 251-283; H. Kunz, Die Bedeutung der Daseinsanalytik
Martin Heideggers für die Psychologie und die philosophische Anthropologie, in Martin Heideggers
Einfluss auf die Wissenschaften, Francke, Bern, 1949, pp. 37-57. A. Ignatow, Heidegger und die
philosophische Anthropologie, Hain, Meisenheim a.G., 1979.
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poli «altri», o di noi visti con altri occhi, si legga qui da un relazione coloniale: «il capitano
Alonso Lopez de Avila aveva fatto prigioniera durante la guerra una giovane indiana, don-
na bella e graziosa. Costei aveva promesso al marito, il quale temeva di potere essere ucci-
so in guerra, di non appartenere ad altri che a lui: essa preferì perdere la vita piuttosto che
farsi macchiare di infamia da un altro uomo. Per questo fu data in pasto ai cani» (è la laco-
nica catena vittimaria messa ad intestazione di T. Todorov, La conquête de l’Amérique. La
question de l’autre, Seuil, Paris, 1982, trad. it. di A. Serafini, La conquista dell’America. Il pro-
blema dell’«altro», Einaudi, Torino, 1984).
8 Il richiamo provocatorio va ai celebri passi dello Humanismusbrief (1946), dove si ripete
che «la metafisica pensa l’uomo a partire dall’animalitas, e non pensa in direzione della sua
humanitas» (tr. it. di F. Volpi in M. Heidegger, Segnavia, Adelphi, Milano, 1994, p. 277).
Non è inutile ricordare che la decostruzione dell’homo animalis comincia negli anni che
precedono l’elaborazione di Essere e Tempo, cfr. Id., Ontologie (1923), trad. it. di G. Auletta,
Ontologia. Ermeneutica della effettività, Guida, Napoli, 1988, pp. 29 sgg.
9 Cfr. L. Ferry, Le nouvel ordre écologique. L’arbre, l’animal et l’homme, Grasset & Fasquelle,
Paris, 1992; N. Russo, Filosofia ed ecologia, Guida, Napoli, 2000. Su un versante più ampio,
«biopolitico», ma che conferma la necessità di ripensare nella sua insidiosa ambiguità il
«paradigma dell’animale», proprio per non soggiacere agli effetti delle opposizioni che in-
genera, cfr. da ultimo R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, To-
rino, 2002.
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siamo»10; per afferrare questo ente, per capire che essere sia, quale la sua
essenza, occorre preparare una via d’accesso ad esso, via impervia e mai
sicura giacché le determinazioni, i caratteri essenziali dell’ente che siamo
non sono dati, presenti o ricavabili come quelli di tutti gli altri enti. La
sua essenza si schiude nell’esistere, nei molteplici modi con cui ciascuno
è posto e si pone rispetto alla propria esistenza; sicché non si può predi-
care intorno o sopra ad essa, come se l’atto del predicare ci lasciasse in-
differenti e come se fossimo casi determinati di un essere più generale.
Da qui deriva che per noi l’esistenza precede l’essenza, cioè che questa si
schiude tematicamente solo di volta in volta nelle singole situazioni e
dalle singole prospettive. L’analitica esistenziale, di conseguenza, non
definisce né determina quel che siamo, ma appronta le vie d’accesso al
particolarissimo campo fenomenico che siamo, dove stiamo. Per lo stes-
so motivo, le caratteristiche che lo riguardano emergono e si lasciano
tematizzare mediante «esistenziali», esse riguardano un Chi, il quale non
è mai semplicemente presente o dato; mentre gli altri campi fenomenici
riguardano un che cosa, semplicemente presente o dato, e vengono a
tema mediante «categorie». Fatte queste distinzioni, Heidegger aggiunge
che l’analitica esistenziale riguarda «lo scoprimento dell’a priori che ren-
de possibile la discussione filosofica del seguente problema: “cos’è
l’uomo?”»11. Si esige pertanto una delimitazione, o determinazione in
negativo, dell’analitica esistenziale, rispetto all’antropologia, alla psico-
logia e «soprattutto» alla biologia; il «soprattutto» si spiega perché «la
mancanza di fondamento ontologico non può essere surrogata dall’inse-
rimento dell’antropologia e della psicologia in una biologia generale. Per
quanto concerne le sue possibilità di comprensione e di interpretazione,
la biologia, in quanto scienza della vita, è fondata nell’ontologia
dell’Esserci, anche se non esclusivamente in essa. La vita è un modo di
essere particolare, ma accessibile essenzialmente solo nell’Esserci.
L’ontologia della vita è possibile solo in base a un’interpretazione priva-
tiva. Essa determina ciò che dev’essere tale da poter essere qualcosa che
solo più vive [Nur-noch-leben sein kann]. Il vivere non è né una semplice
presenza, né ancora un Esserci. Da parte sua, l’Esserci non può mai esse-
re definito ontologicamente come un vivere (ontologicamente indeter-
minato) a cui si aggiunga, oltre al vivere, qualcos’altro»12. Il passo è ai
nostri fini rimarchevole, specie per quell’essere fondata, la biologia,
nell’ontologia dell’Esserci, anche se non esclusivamente in essa. Forse qui c’è
la traccia che verrà sviluppata, e messa a tacere, nel ’29. Ma adesso ad
Heidegger importa sottolineare che psicologia, biologia, antropologia, o
le loro versioni filosofiche, non mettono in discussione l’essere di quel
10 M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), trad. it. di P. Chiodi, Essere e Tempo, Utet, Torino,
1978, p. 106.
11 Ivi, p. 110.
12 Ivi, pp. 116-117.
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17 Cfr. H. Köchler, Der innere Bezug von Anthropologie und Ontologie. Das Problem der Anth-
ropologie im Denken Martin Heideggers, Hain, Meisenheim a.G., 1974. L’autore mette bene in
rilievo il senso e l’importanza della distinzione tra ontico e ontologico, ma poi la riconcilia
in un ammorbidito hegelismo laddove essa era programmata per scardinare la dialettica.
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il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari, 1981, p. 181. Che Heidegger si sia sentito
provocato dall’antropologia coeva e vi abbia risposto con il corso del ’29 è la tesi di A.
Beelmann, Heideggers hermeneutischer Lebensbegriff. Eine Analyse seiner Vorleseung „Die Grund-
begriffe der Metaphysik. Welt-Endlichkeit-Einsamkeit”, Königshausen und Neumann, Würz-
burg, 1994.
19 Sulla scorta di una interpretazione di Ernst Tugendhat, si è ritenuto che il passaggio
dall’essere-al-mondo, al mondo come totalità (das Ganze) e come physis, non rappresenti un
allargamento della medesima prospettiva di Essere e Tempo, ma ne comporti una significati-
va trasformazione. Il mondo non è più dischiuso solo e prioritariamente dall’Esserci e da-
gli esistenziali, ma viene considerato come una dimensione più ampia in cui l’Esserci sta e
a cui si conforma (D. Thomä, Die Zeit des Selbst und die Zeit danach. Zur Kritik der Textge-
schichte Martin Heideggers 1910-1976, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1990, pp. 509 sgg.). Se
questo, secondo l’autore, favorisce una desoggettivazione delle strutture esistenziali, verrà
però imponendo una consegna al destino e alla totalità (su cui quelle strutture verranno
trasferite), che saranno fatalmente incarnate dal popolo e dalla nazione, prima, e dal do-
minio tecnico, poi.
20 M. Heidegger, Grundbegriffe der Metaphysik. Welt-Endlichkeit-Einsamkeit (1929), trad. it.
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21 Ivi, p. 103. Il riferimento esplicito è alla filosofia delle forme simboliche, ma è eviden-
te che qui Cassirer fa da rappresentante per un modo di filosofare che magari tocca punti
importanti, ma per banalizzarli e dunque finendo per occultarli ancora di più.
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zione e nella privazione; come mai noi possiamo avere un rapporto con
l’animale (una «trasposizione» in esso, ma non un essere-insieme) pur
senza condividerne nulla22.
L’essenza dell’animalità è il puro vivere23. Per questo Heidegger ritie-
ne utile o piuttosto necessario leggere «con occhio filosofico»24 le acqui-
sizioni della biologia, a cominciare dalla nozione di organismo, cardine
della distinzione tra materia e vita. Sebbene la biologia abbia già supera-
to la concezione meccanicistica dell’organismo (macchina autoregolan-
tesi, sistema di azione e reazione), occorre mettere a fuoco la differenza
essenziale tra organo e mezzo. Entrambi servono a o per (fare qualcosa);
tuttavia il «per» del mezzo ha carattere strumentale, è ricavato dal fare
umano che appronta un utensile per servirsene di volta in volta; il «per»
dell’organo non ha invece carattere strumentale perché non è appronta-
to dall’uomo né è lì pronto come un martello o una penna per essere
utilizzato, pronto anche rimanendo inutilizzato. L’organo ha una capa-
cità, anzi è un che di capace, perché la capacità non gli viene attribuita
prima o dopo, bensì gli è coestensiva; non c’è l’occhio latore della capa-
cita di vedere o suo mezzo, ma c’è la capacità di vedere che è occhio,
fattasi occhio. L’esser-capace si rende comprensibile e attivabile (nonché
estinguibile) solo nel circuito di un organismo, che è quella organizza-
zione o «totalità unitaria» grazie a cui gli organi sono capaci e quello per
cui la capacità è al servizio. L’organismo è capacità – avere e offrire delle
possibilità – che si «crea» organi e si «incorpora» in essi; di nuovo, non è
l’occhio che vede, o grazie all’occhio che vediamo, ma è l’essenza visiva,
l’essere disposti o aver relazione nella maniera del vedere a rendere pos-
sibile l’occhio25. Seguendo l’essenza della capacità, o organismo,
dell’esser-organo al servizio e in virtù della capacità, arriviamo a cogliere
l’essenza dell’animalità. Infatti questo essere al servizio della capacità,
incorporata in organi, è un essere al servizio di se stessa, una proprietà
(Eigentum) nel duplice senso di esser-appropriato e di esser-proprio, di
adeguato e di peculiare. L’essere appropriato dell’organo, il suo essere al
servizio per e dell’organismo, significa che esso opera in modo pecu-
liarmente adeguato su ciò per cui ha la capacità; la capacità lo sospinge a
22 Cfr. ivi, p. 270; pp. 326, 342-349. La pietra resta sullo sfondo, perché, non vivente,
senza mondo, non è accessibile neppure nel modo dell’esser-privo.
23 Cfr. ivi, p. 257. Che il modo d’essere dell’animale sia il puro vivere è da riconnettere
all’asserzione per cui esso «non può morire ma solo cessare di vivere, visto che attribuiamo
all’uomo il morire» (ivi, p. 341).
24 Ivi, p. 250. La necessità è dovuta al fatto che la scienza, pur non essendo necessaria di
per sé, fa parte della nostro destino storico attuale. Heidegger sottolinea anche che nella
biologia sono, di recente, stati fatti passi essenziali per una migliore autocomprensione
della vita (cfr. ivi, pp. 334-337). Che tuttavia per avere cognizioni sull’animale sia utile la
biologia, mentre per comprendere l’uomo è inutile sia la biologia sia l’antropologia, rende
perplessi, pur se ne intuiamo la ragione.
25 Cfr. ivi, p. 292.
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fare ciò che gli è proprio, l’azione dell’organo, dirigendosi verso qualco-
sa, resta in un ambito peculiare a lui, ovvero all’organismo di cui è al
servizio e per cui è capace. Il dirigersi, o esser-riferito verso…, non è al-
tro che la pratica della capacità (del «per»), l’organismo tutto coinvolto e
tutto coinvolgente nella pratica di sé. Sicché, senza dover ricorrere a nes-
suna supposizione esplicativa (per esempio un’anima, un germe di rifles-
sività o di intenzionalità), è dall’essere appropriato e peculiare (Eigentüm-
lichkeit) dell’organismo che comprendiamo il comportamento (Benehmen)
animale come stordimento (Benommenheit), cioè come «trattenersi-in» e
«coinvolgersi prendendosi» (Eingenommenheit) nella pratica della propria
capacità, dell’esser-riferiti-a e rivolti-verso... (Bezogenheit); «lo stordimento
è la condizione di possibilità grazie a cui l’animale, secondo la sua es-
senza si comporta in un ambiente, ma non in un mondo»26. Poiché tutto
coinvolto, assorbito da e in quello che fa, il riferirsi-a qualcosa
dell’animale è tale da non permettere di incontrare le cose in quanto ta-
li, da non permettere che queste gli si manifestino nel loro essere. La ri-
cerca di cibo, l’orientamento, l’accoppiamento, la fuga, l’appostamento,
ecc., cioè le diverse modalità del comportamento animale, che come di-
rigersi o esser-sospinti possiamo chiamare istinti, vanno prese nel loro
insieme, come un «ciclo istintuale», giacché l’animale non segue ciascun
istinto in singoli atti e come singoli percorsi verso…, bensì viene sospin-
to da istinto a istinto, da cui è appunto «circondato». Per questa specie
di rimbalzo continuo, esso non entra mai in relazione con…, ma al con-
trario, è come se allontanasse ciò con cui sta in relazione; la cosa con cui
sta in relazione è un’occasione che mette in moto il suo esser-capace, di
volta in volta in un certo modo. La cosa fa scattare, cioè disinibisce (en-
themmt) quella tensione implicita nell’istinto (il «per» della capacità so-
spesa dall’esecuzione, in stato di inibizione, Hemmung); una volta disi-
nibito l’istinto, fatto scattare il «per» della capacità, la cosa esce dalla re-
lazione con l’animale, resta lontana, quasi neanche più avvertita. La re-
lazione dell’animale con il mondo, è non una apertura a…, ma apertura
per…; nel «per» esso incontra la cosa, nel «per» la include, sottraendola
sistematicamente a ogni poter-essere. Perciò, mancando un orizzonte
che non sia quello del cerchio, gli enti non gli sono mai manifesti, e il
mondo, orizzonte e condizione della manifestabilità, manca. Le cose per
l’animale ci sono a misura che entrano nel suo «cerchio disinibente».
26 Ivi, p. 306. Nel leggere frasi simili resta la sensazione di un che di surrettizio, di un ma-
lizioso intreccio tra originario, ma poi stratificato, plurivoco, oscillante, senso racchiuso e
schiuso dalle e nelle parole, e loro uso essenzialistico (nel nome c’è l’essenza della cosa). Se
una lingua consente di fissare e far risuonare nel sostantivo Benommenheit un interessante
duplicità semantica del verbo benehmen, da cui deriva anche il sostantivo Benehmen, è per-
ciò autorizzato l’uso del primo sostantivo come essenza e condizione di possibilità del
secondo? Cosa è poi davvero essenziale, lo slittamento semantico, percepibile e risonante
nella lingua, nella madrelingua, o la cosa stessa? La cosa stessa in quale lingua si manifesta
o viene detta?
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27 Ivi, p. 330.
28 Ivi, p. 338.
29 Ivi, p. 337.
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l’animalità – pur nella pienezza del suo proprio essere e pur consideran-
dola qualcosa in cui siamo installati noi stessi – ci è presente sottraendo-
si, «ci è» nel modo della privazione, del poter fare a meno del mondo. A
parte il fatto che solo per e con noi il mondo «ci è», si rende manifesto e
può dunque anche non-essere, sottrarsi, è chiaro comunque che è dallo
svolgimento della terza tesi che la comparazione va ad effetto. La circo-
stanza che solo nell’esserci c’è mondo, introduce al problema della tota-
lità degli enti. Ma se ci attestasse su questo «potere» peculiare dell’uomo,
faremmo dell’uomo l’ente con la specifica facoltà di avere mondo (o es-
sere aperto al mondo, la famosa Weltoffenheit predicata dagli antropolo-
gi)30, posto al vertice o al centro della «bella famiglia d’erbe e d’animali»
(Foscolo). Ed allora la privazione, anche prima dello svolgimento della
terza tesi, serve a indirizzare il concetto di totalità in tutt’altra direzione,
indicando un rapporto assolutamente particolare dell’uomo con la natu-
ra, ossia una incomparabilità di fondo tra entrambi, una cesura. Certo
schiudente: un’apertura nell’essere (che anche perciò non va preso come
catena continua, né come coesistenza multipla). «L’uomo esiste in una
maniera peculiare nel mezzo dell’ente. Nel mezzo dell’ente significa: la
natura vivente tiene prigionieri noi stessi in quanto uomini in una ma-
niera ben specifica, non in virtù di un particolare influsso e impressione
che la natura vivente esercita su di noi bensì per nostra stessa essenza»31.
Sebbene posti nel mezzo della concatenazione dei cerchi ambientali,
cioè attorniati e immersi nella natura, noi vi stiamo come un continuo
esser-trasposti (Versetzt-sein), cioè sempre spostati, senza posto, di passag-
gio, fuori. In essa non abbiamo posto, siamo privi di «naturalezza»; la
nostra natura non ha appoggio, né collocazione, è abissale, impropria
(abgründig, uneigentlich), perciò nella sua immensa ricchezza di colloca-
zioni (proprietà), di cerchi ambientali, la natura ci si stringe attorno,
chiudendosi, sottraendosi; chiudendocisi, sottraendocisi. La chiarifica-
zione dell’essenza dell’animalità è giunta fin dove era possibile ricavare
la chiusura ambientale dell’animale dall’essenza stessa dell’organismo
come capacità e stordimento. La svolgimento della terza tesi dovrà chia-
rire a parte hominis tale chiusura: in cosa si radica il fatto che c’è un ente
a cui l’essere si manifesta, ma a cui l’essere naturale gli si sottrae, gli è
presente privativamente, nell’inaccessibilità o chiusura dell’animalità?
Da quanto si è detto, risulta evidente che è falsificante ogni risposta che
parta da o miri a individuare la collocazione dell’uomo nel tutto; non
c’è collocazione possibile perché non c’è il tutto. Invero, perlomeno
quello che chiamiamo natura non ci è dato positivamente, difetta: salvo
intenderla nel senso originario di physis, cioè come essere ed essenza
di Zollikon, Guida, Napoli, 1991, dove, riferendosi a Gehlen, si dice che la sua Weltoffenheit
«non ha nulla a che fare con l’esser-aperto nel senso del nostro slargo» (p. 310).
31 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 356.
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dell’ente, come totalità ma nel senso della differenza ontologica, del mo-
vimento dello svelarsi che si vela, laddove «l’installarsi in un aspetto fa
sempre venire alla presenza in modo tale che nel presentarsi viene con-
temporaneamente alla presenza un assentarsi [steresis]»32. Potremmo par-
lare del tutto e assegnare posti a ciascuno, se conoscessimo (cioè identi-
ficassimo essere e conoscenza, ontologia e scienza) davvero i physei onta,
accanto ai techne onta; ma allora tutto starebbe su uno stesso piano, solo
con differente collocazione, e sia l’uomo, sia le cose prodotte da lui, sia
quelle naturali, sarebbero determinazioni di un non meglio qualificato
ens generalissimus, o di un onnipotente soggetto determinante e «collo-
cante». Differenza ontologica e analitica dell’esistenza, trovano, anzi de-
vono trovare riscontro nella tesi della privazione (steresis). E infatti, la
terza tesi comparativa viene svolta non facendo più alcuna comparazio-
ne effettiva con l’animale; viene svolta saltando al problema della mani-
festatività dell’ente, radicata nella struttura proposizionale e, più adden-
tro, nella dimensione prelogica dell’aver rapporto, dello in-quanto che
caratterizza l’esistere umano, la finitezza. L’animalitas finisce con l’uo-
mo, l’uomo è finito, cioè chiuso, accerchiato, delimitato, dall’animalitas.
3. Non insisteremo ora nel fare rilievi critici, magari utilizzando le au-
to-obiezioni che Heidegger si è mosso. Passiamo invece direttamente a
dare uno sguardo al tema della corporeità trattato nei seminari tenutisi a
Zollikon, insieme ad un gruppo di medici e psicoterapeuti. Nell’ordine
della nostra esposizione, esso rappresenta uno scorcio complementare al
tema dell’animalità, poiché affronta da presso la natura vivente umana,
che nei Concetti era stata proiettata all’orizzonte, o sottaciuta, onde ri-
marcare lo scarto «abissale» tra le due «nature». Lo scarto era lì al centro
dell’attenzione, quale figura, al tempo stesso, della differenza ontologica
tra uomo e animale e della differenza ontologica come espressione ade-
guata (con-rispondente) della metafisica originaria, ossia della physis, il
movimento del venire alla presenza dell’assente (incarnata appunto
dall’assentarsi dell’animale nel mondo umano). Intanto, comunque, sia
annotato preliminarmente, che il tema della corporeità emerge e torna
di continuo proprio discutendo con dei medici è per noi meno ovvio di
quanto sembri. L’antropologia, infatti, fa la sua comparsa storica come
disciplina «terza» votata a integrare in un discorso più ampio e unitario
fisiologia e psicologia33. Se anche prima di tale comparsa disciplinare,
32 M. Heidegger, Vom Wesen und Begriff der ϕÚσιj. Aristoteles, Physik B 1 (1939), trad. it. in
Id., Segnavia, cit., p. 251. Devo all’interessante saggio di F. Dastur la lettura dell’animale
come farsi presente di un non, quindi come quintessenza della physis (cfr. Id., «Pour une
zoologie privative ou comme ne pas parler de l’animal», in Alter, 3, 1995, pp. 281-317).
33 Sia concesso rinviare, per una messa a fuoco storico-concettuale, a M. Russo, La pro-
vincia dell’uomo. Studio su Helmuth Plessner e sul problema di un’antropologia filosofica, Città del
Sole (Istituto italiano per gli studi filosofici), Napoli, 2000.
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Animalitas. Heidegger e l’antropologia filosofica
cordato che Medard Boss, il medico che ha propiziato i seminari di Zollikon, parla, asso-
ciandosi a Binswanger, di un «inestimabile significato della ontologia fondamentale di
Martin Heidegger per la medicina in generale e per la psichiatria e la psicoterapia in parti-
colare» (appendici riportate in M. Heidegger, Seminari di Zollikon, cit., p. 426). Per noi, qui,
non è in discussione la potenza liberatoria del pensiero heideggeriano, ma l’urto di quel
che non si libera mai in alcun pensiero, quel che non è mai libero, e di cui il pensiero non
può liberare. Salvo ometterlo, cioè sfuggirgli, con la propria potenza.
35 Ivi, p. 337.
36 Ivi, p. 338.
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blema dell’essere, è stato fatto segnalando sia l’incomparabilità con la trattazione aristoteli-
ca dell’essere sia con le odierne teorie linguistiche. Cfr. K. Haucke, «Anthropologie bei
Heidegger. Über das Verhältnis seines Denkens zur philosophischen Tradition», in Philoso-
phisches Jahrbuch, 105, II, 1998, pp. 321-345.
38 M. Heidegger, Seminari di Zollikon, cit., p. 339.
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Animalitas. Heidegger e l’antropologia filosofica
sente né alla mente né ai sensi, risulta inaccessibile alla scienza, è per es-
sa un monstruum. Perciò Heidegger invita i suoi interlocutori al «difficile
compito» di riportare il corpo nella dimensione dell’esistere, giacché
l’esistere è il luogo, il movimento del venire alla presenza del-
l’impercettibile «essere». Nell’esistere scorgiamo che il corpo, altrettanto
che gli organi (abbiamo occhi, orecchie… perché siamo di essenza visi-
va, uditiva) è essenzialmente un essere disposti verso…, ma nel modo
dell’avere rapporto con ciò verso cui siamo disposti, ovvero con ciò che
ci si mostra. Siccome, peraltro, il mostrarsi è l’essenza del linguaggio, è
chiara sia la differenza con la corporeità animale, sia il ruolo fondamen-
tale del linguaggio per la comprensione della nostra corporeità. Con la re-
stituzione del corpo all’esistere, ritroviamo innanzitutto proprio l’ele-
mento decisivo della comprensione, che è il modo in cui ci muoviamo,
cioè ci rapportiamo, nel circolo dell’esistere. Quando qualcuno fa un
gesto, o arrossisce, noi lo comprendiamo muovendo dalla pre-com-
prensione che ne abbiamo e dal sentirci appellati da esso (anche se non
ci riguarda immediatamente). D’altra parte, chi fa il gesto o arrossisce, lo
fa perché il suo è sempre un essere-con-altri, uno stare nell’orizzonte di
comprensione di accadimenti che lo appellano. Non sono i meccanismi
fisiologici, né una qualche espressività da essi veicolata, che possono
spiegare il significato del rossore o del gesto, e non è da essi che chi guar-
da il gesto e il rossore si sente appellato. Qui, insomma, «non accade al-
cun esser-corpo [Leiben]»39, perché il Leiben discende dalla dimensione
più ampia dell’essere nel mondo, cui appartiene intrinsecamente il com-
prendere. Proviamo a guardare tutto ciò direttamente dal lato del corpo,
cercando di illustrare come e perché esso va situato nell’esistere. Suppo-
niamo che io indichi la crociera di una finestra. Concentrandoci su quel
che vediamo, sul fenomeno, dovremo dire che mi estendo sino alla fine-
stra o che termino sul confine fisico delle mie dita? Evidentemente no.
Dunque, io non termino nei confini del corpo, né il corpo è il mio con-
fine identificante o localizzante. Ma allora «io» non va inteso come sog-
getto di un possesso materiale, il «mio» corpo fisico. Così, invece di par-
tire dal corpo fisico e dalla conseguente sostantivazione di un «io» agen-
te in e per suo mezzo, dovremo sciogliere entrambi nell’Esserci, dove il
dito che indica (il corpo) e la finestra diventano il manifestarsi di una
totalità dischiusa dai modi in cui ogni volta ci sono. Il corpo e i suoi li-
miti non si estendono né mi racchiudono, bensì si aprono e si determi-
nano in rapporto a siffatta totalità, che non è neutrale o permanente, ma
dipende da dove e come sono rivolto alle cose. C’è corpo, ma nel modo
dell’esser-via, anche se immagino (mi presentifico) di essere in Africa
stando a Zollikon: «lo esser-corpo [Leiben] del corpo è quindi un modo
dell’esser-ci […] è condeterminato dal mio esser uomo nel senso del
39 Ivi, p. 279.
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40 Ivi, p. 153.
41 Ivi, p. 235.
42 Ivi, p. 240.
43 È la pregnante espressione ricorrente (e non casualmente esemplificata dalla rituale
domanda medica «come si sente?») in R. Damasio, Descarte’s Error. Emotion, Reason, and the
Human Brain, trad. it. di F. Macaluso, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano,
Adelphi, Milano, 1999.
44 Si tenga conto che «in definitiva l’animale non ha percezione» (M. Heidegger, Concetti
fondamentali, cit., p. 331).
45 L’arco Aristotele-Hegel, oltre che per precisi motivi teoretici, viene preso come bino-
mio-simbolo della storia della filosofia ovvero della metafisica.
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G. Chiurazzi in Id., La mano di Heidegger, Laterza, Roma-Bari, 1991, p. 49. Cfr. anche Id.,
De l’Esprit. Heidegger et la question, Galiée, Paris, 1987, trad. it. di G. Zaccaria, Dello spirito.
Heidegger e la questione, Feltrinelli, Milano, 1989, p. 59.
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che non sia l’essere-al-mondo dischiuso dall’uomo; per l’altro, non vo-
lendo né potendo limitarsi all’esegesi della tradizione filosofica e sen-
tendosi perciò obbligata a interpellare i dettami delle scienze, risulta im-
produttiva, fenomenologicamente bloccata52, incapace di sollevare pro-
pri interrogativi sui fenomeni vitali, sulla loro pur riconosciuta pre-
potenza materiale, e su quella simbolica, del tutto ignorata (il leone è il
coraggio, e il nido di api potrebbe essere un abitare). Sospendendo per
un attimo la propria assoluta autonomia, la filosofia si volge alla biolo-
gia per riconfermare che il vivente pertiene solo alla biologia e alla filo-
sofia solo l’essere. Viene così definitivamente escluso che la «vitalità», gli
impulsi, la «stordita» e «stordente» meccanica dei corpi, possano mettere
in discussione e possano scuotere («afferrare» insieme alle tonalità affet-
tive e diversamente da esse) la meditazione sull’essere. L’emozione filo-
sofica, o metafisica, non prevede attriti esteriori; la sua concentrazione
non tollera la dispersione dei corpi, non prevede altre collisioni da quel-
le con la lingua e con la «cosa» del pensiero53. Dovremo tornare su que-
sto nesso stretto che riscontriamo tra meditazione, autonomia dell’ana-
lisi ontologica, autonomia del destinale o metafisico accadere, e rimo-
zione dell’animalitas (anche sul piano di una mobile indagine filosofica,
di uno scontro interrogativo – Auseinandersetzung – con suoi significati).
Per ora è sufficiente costatare che, in fondo, il fine dell’analisi essenziale
heideggeriana era mostrare proprio l’impenetrabilità di quello che solo
più vive, ossia dell’animale inteso come il modo d’essere dell’assentarsi.
In quanto tale, «specie fondamentalmente diversa dell’essere stesso» che in noi
viene a manifestazione, parlare in qualunque modo di animalità a pro-
posito dell’uomo è un controsenso. Se, invero, è per l’esserci che l’ani-
male si fa presente nel modo dell’assenza, parlare di animale umano si-
gnifica contemporaneamente ignorare le condizioni di possibilità
dell’esser-presente e presumere di sapere troppo su cos’è l’animale.
Quest’ultima sarebbe potuta essere una sollecitazione a guardare più at-
tentamene e liberamente l’animale. Esso: la cosa che non pensa; la x che
può soltanto vivere e cessare di vivere. Invece diventa di fatto un peren-
torio hic sunt leones. In modo ancor più acuto che nei rilievi di sostanzia-
le contiguità con il dualismo o antropocentrismo che legherebbero Hei-
degger alla tradizione metafisica da lui combattuta54, qui si spalanca
52 Cfr. D. Franck, «L’être et le vivant», in Philosophie, 16, 1978, pp. 87 sgg. Cfr. anche M.
Haar, Le Chant de la terre, L’Herne, Paris, 1978. La povertà è del pensiero heideggeriano o
dell’animale? c’invita a chiederci l’autore, che peraltro ritiene incompatibile l’Aperto ril-
kiano con l’esperienza ontologica dell’aletheia (ivi, pp. 69 sgg.).
53 Sulla semantica negativa della dispersione in Heidegger, cfr. J. Derrida, La mano di
Paris, 1972, trad. it. di M. Iofrida, Margini della filosofia, Einaudi, Torino, 1997, pp. 155-
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185. Una illuminante, quanto sorprendente, comparazione tra la «filosofia della natura»
heideggeriana del ’29 e la sezione dedicata all’Oggettività nel terzo libro della Scienza della
logica hegeliana (lì pietra, animale, uomo, qui meccanismo, chimica, teleologia) la fornisce
V. Vitiello, Topologia del moderno, Marietti, Genova, 1992, pp. 108-123. La perfetta conti-
guità di Heidegger con l’episteme «nichilistica» occidentale, che l’autore evidenzia, noi
però la leggiamo qui come affrancamento da una persistente prosa del mondo e come e-
stenuazione del lavoro del concetto. Cfr. anche Id., Non dividere il sì dal no. Tra filosofia e
letteratura, Laterza, Roma-Bari, 1996, pp. 35-48.
55 M. Heidegger, Vom Wesen und Begriff, trad. it. cit., p. 253. Della Quadratura si parla in
vari passaggi dei Saggi e Discorsi; qui richiamiamo quello dove si effettua il gioco lessicale
su Ring, che sta in evidente rapporto con gli Umringe del corso del ’29. Tuttavia mentre lì
essi incatenavano dall’esterno l’uomo, ora si tratta di un «giro» «docile e flessibile» in cui i
quattro sono inanellati (cfr. ivi, trad. it. cit., p. 120).
56 All’osservazione che la terra è più antica dell’uomo, Heidegger replica che ciò lo si
può dire «solo in quanto noi stiamo nello slargo dell’essere e all’essere appartiene l’essere-
esser-stato, lo “esser-prima”» (Id., Seminari di Zollikon, cit., p. 254). Che ci possa essere una
preistoria umana, dunque un problema di temporalizzazione prima della temporalità esta-
tica, altra da essa, non viene neanche sfiorato.
57 Cfr. M. Heidegger, Segnavia, cit., pp. 295 sgg.
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5. Molte delle obiezioni che abbiamo fatto sinora furono mosse ben
presto soprattutto da chi, anche tra gli allievi di Heidegger, riteneva in-
sufficiente l’ontologia fondamentale e l’analitica esistenziale sia per la
comprensione della vita sia per la comprensione di «tutto l’uomo»,
dell’uomo preso nell’interezza delle sue manifestazioni e dei suoi condi-
zionamenti effettivi. I due piani vanno insieme perché, come rilevò
Helmuth Plessner, se «vita» era diventata la parola «redentrice»
dell’epoca58, lo era diventata in quanto attraverso di essa la filosofia ri-
scopriva il terreno per una rivisitazione della propria storia e, di qui, per
rivisitare la parola «uomo» resa via via sempre più astratta (soggetto logi-
co, trascendentale, fenomenologico, sociologico, economico, fisiologi-
co…). Più Heidegger ne voleva esorbitare, più quel terreno diventava il
campo polemico contro di lui. Non è così un caso se Georg Misch giu-
dica «statica», «teocratica» e «gerarchica» la filosofia heideggeriana poiché
basata e operante con concettualizzazioni (le categorie ermeneutico-
esistenziali)59 che subordinano la vita all’essere, lasciando inesplorata la
genesi stessa del concetto o dell’esperienza di ciò che nominiamo essere,
e lasciando smezzata la circolarità tra essere ed ente, poiché quest’ultimo
è preso appunto sempre come indice ontico e mai come questa o quella
determinata concrezione storico-empirica in grado di far presente il suo
essere qualcosa, l’effettività del suo differenziarsi, la sua tesa differenza
ontica. Tutta sbilanciata dal lato ontologico, la circolarità spegne la «ten-
sione vitale» (formarsi, trasformarsi e dileguarsi di qualcosa, individua-
zione e perdita di individualità), la tensione di qualcosa che precede fa
da condizione della stessa verbalizzazione filosofica, sempre già neutra-
lizzante, generalizzante (= essere). Mancando sia un’analisi delle diverse
formazioni o forme di manifestazione, dei diversi enti, sia una fenome-
nologia genetica della costituzione della «cosa», Heidegger formalizza il
circolo e può rinunciare a esplorare la rete stratificata di rapporti in cui
anche il logos filosofico si muove. La discorsività filosofica diventa essa
l’originario, perciò non ha bisogno d’altro che penetrare se stessa. Più
che un problema di ancoraggio o di fondazione, il «terreno» reclamato
da una simile critica mira dunque a vedere dove e come opera la filoso-
fia, cioè quell’atteggiamento per cui possiamo e siamo spinti a porre
domande su noi e sul mondo, e sul domandare medesimo. La filosofia
non è né autonoma, né originaria; dietro e sotto di essa c’è dell’altro, e
c’è non grazie e attraverso l’essere, la parola-evento essere, ma urtandoci,
condizionandoci, obbligandoci e al tempo stesso sostenendoci. Dovreb-
be a questo punto risultare chiara l’insistenza su natura e corpo, su storia
e sovrastoria, su mondo e animalità da parte degli antropologi, e chiaro
58 H. Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch (1928), De Gruyter, Berlin, 1975,
p. 3.
59 Cfr. G. Misch, Lebensphilosophie und Phänomenologie (1929-1930), Wissenschaftliche
Buchgesellschaft, Darmstadt, 1967, pp. 33, 62, 178.
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il perché Heidegger doveva sembrare loro troppo, per così dire, filo-
logico. Se del resto proviamo a fare un rapido sondaggio, troviamo, da
angolature che qui non possono essere approfondite, immediato riscon-
tro. «La semplice domanda sul perché l’esserci si getti in tutte le sue occupazioni
dominate dalla ‘cura’, perché si affanni giorno e notte, questa domanda che ri-
guarda non già la “condizione di possibilità”, ma la “condizione di ne-
cessità” (della cura), è semplicemenete tralasciata», sicché Heidegger «non
perviene mai alla natura […] In pratica il suo esserci non conosce nes-
suna concupiscentia, nessun istinto, non sa che cosa sia il mal di denti»60.
Oskar Becker ritiene di dovere affiancare alla analisi del Dasein,
un’analisi del Dawesen, all’ontologia una «para-ontologia»: uomo e
mondo sono presenti in una modalità parallela e concorrente a quella
dischiusa dall’essere esistenziale, un lato indeducibile da essa, sotto- e
sovrastante, eternamente contemporanea. Come è vero che nel mero
darsi di qualcosa, si va incontro e ci viene contro alcunché che nel suo
stesso inafferrabile provenire-da è invisibile, spirituale, non concreta-
mente presente, altrettanto è vero che siffatto invisibile ha un certo pro-
filo, si fa avvertire, ha alcunché di corposo (leibhaft), una propria – neces-
saria, in tutte le valenze della parola – presenza (an- e da-wesend)61. La pa-
ra-ontologia si occupa di questo necessario constare, dove essere ed ente,
essenza e esistenza, provenienza e presenza, movimento e permanenza,
coincidono essenzialmente, senza possibile differenza come l’aplun a-
nankaion aristotelico62. I decorsi biologici e quelli astronomici, il battito
cardiaco e i cicli stagionali, la chiusa ripetizione e il numerare in serie
infinite, le più primitive, inarticolate, pulsioni e le perfette forme geome-
triche o artistiche, sono esempi di una coincidenza o indifferenza co-
smica, essenziale, naturalmente necessaria, che è sempre essente, sempre
attuale anche nell’Esserci, c’è indifferentemente in- e a ognuno di noi. «Il
rapporto dell’Essenteci [Dawesend] al cosmo è del tutto diverso dal rap-
portarsi dell’Esserci [Dasein] al mondo. Il primo è un’adeguata commes-
sura (simmetria, armonia, proportionalitas, convenientia), il secondo un
protendersi-verso (tonos, intentio). Il primo non è affatto una diminuzio-
ne del secondo né il secondo è una intensificazione del primo; sono en-
trambi di genere completamente diverso». Perciò: «inseparabilmente e
contemporaneamente intrecciate con la trama dell’Esserci esistente do-
minano altre potenze, la cui comprensione è impossibile [all’analisi esi-
stenziale, NdT], sottraendosi innanzitutto proprio alla considerazione
ermeneutico-fenomenologica che interpreta l’essere»63. Anche Karl Lö-
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egli ha affrontato più degli altri la questione di che cosa sia un’an-
tropologia filosofica e di che cosa la renda tale. E perché le sue risposte e
le obiezioni ad Heidegger si basano su una nodosa e articolata filosofia
della natura, con al centro il corpo e il concetto di limite-confine da esso
ricavato e da esso incarnato. Dunque si basano su quello che non c’è o è
messo a tacere nella radura linguistica dell’essere, e che una volta di più
l’antropologo, trovandoselo immancabilmente davanti, urtandoci sopra,
non può che rimarcare. L’animalitas resterà sempre una parola e non lo
sarà mai soltanto.
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