Sei sulla pagina 1di 29

Animalitas.

Heidegger e l’antropologia filosofica


di Marco Russo

L’animale è un paradigma della vittima


J.-F. Lyotard, Il dissidio

Ci sono diverse e importanti ragioni per approfondire un confronto


dell’antropologia filosofica con Heidegger. Quella fondamentale è che
l’opera di quest’ultimo costringe a riflettere attentamente su che cosa è
antropologia e che cosa è filosofia e, così, in un passo successivo, che
cosa potrebbe essere un’antropologia filosofica. Heidegger, infatti, non si
è attestato su una tradizionale denuncia liquidatoria di «antropologi-
smo» in filosofia, ma ha attraversato il territorio antropologico, mo-
strando per un verso come andrebbe dissodato e per l’altro l’impos-
sibilità a farlo con i mezzi abituali dell’antropologia. L’accusa di «antro-
pologismo» è di lungo corso, e se si fa rientrare sotto quel termine la
trattazione del mutevole mondo umano considerato centro tematico
della filosofia o come centro dal quale affrontare o a cui ricondurre i
grandi temi teoretici, quella accusa risale fino ai tempi della Sofistica
greca, alla lotta tra episteme e doxa, tra verità e apparenza. Heidegger, in-
vece di ripetere l’accusa, ha fatto vedere quanto antropologia e metafisi-
ca siano intimamente collegate, al punto, anzi, che l’antropologia non
sarebbe che l’esito estremo della metafisica, il destino di tutto l’occi-
dente, oggi realizzatosi come scienza e tecnica, ponendo fine alla filoso-
fia1. In questo modo, «antropologia» diventa un termine ben più onero-
so e problematico di quanto anche le più aspre critiche potessero far so-
spettare. Quindi, mentre ci vengono dati argomenti utili contro troppo
facili bollature di «antropologismo» in filosofia, siamo spronati a valuta-
re l’identità e il senso della parola «uomo», in connessione con la metafi-
sica come fondazione e accertamento della realtà. L’antropologia volen-
do conoscere che cosa è l’uomo, accertarsi della sua realtà, ha impedito di
pensare l’uomo, ha impedito all’uomo di interrogare davvero se stesso, il
proprio essere.

1 «La filosofia propria dell’epoca della metafisica compiuta è l’antropologia. Che si parli

ancora di antropologia “filosofica” oppure no è del tutto indifferente. […] Divenuta an-
tropologia, la filosofia stessa perisce [geht zugrunde] a causa della metafisica» (M. Heidegger,
Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfüllingen, 1954, trad. it. di G. Vattimo, Saggi e discorsi, Mur-
sia, Torino, 1980, p. 56).

167
Marco Russo

Heidegger, avversario strenuo (anche per motivi cronologici) dell’an-


tropologia filosofica e matrice (spesso impropria) dell’antiumanismo ra-
dicale di buona parte del pensiero novecentesco, rappresenta dunque
una fruttuosa provocazione. Secondo Heidegger l’antropologia filosofica
è al tempo stesso il sintomo di una decadenza della metafisica, come
pensiero dell’essere, e la massima espressione di una certa metafisica,
quella del mondo come rap-presentazione. Su soggetto e rappresenta-
zione si basano e lavorano, in maniera apparentemente contrapposta ma
invece essenzialmente solidale, tanto le varie teorie «regionali» dell’uo-
mo quanto le teorie che occupano il campo della vecchia «metafisica ge-
nerale» (logica, ontologia, trascendentali). In entrambi i casi agisce infatti
lo stesso schema dimostrativo del giudizio apofantico, e lo stesso sche-
ma rappresentazionale di un soggetto che deve conoscere un oggetto, un
non-soggetto. All’interno di tale schema non si può fare altro che accre-
scere le proprie cognizioni e descrizioni, e rimetterle ogni volta a posto,
nel posto che si ritiene più adatto a confermare lo schema, più adatto
agli scopi della definizione predicativa e della identificazione oggettiva.
Accanto a questi affondi provocatori abbiamo il seguente stato di cose:
la perdurante vaghezza e difficoltà di definizione e collocazione dell’an-
tropologia; il fatto che le antropologie «sistematiche» novecentesche si
volevano alternative, sostitutive o risolutive riguardo ai temi e all’im-
postazione della filosofia tradizionale, rischiando però di esserne l’erede
spurio e inconsapevole; l’impulso innovativo che Heidegger ha dato per
cogliere l’importanza ed elaborare filosoficamente le «impurità» – teore-
ticamente scomode, marginali e, in vari sensi, emarginate – dell’esistenza
umana (esempi: l’angoscia, la noia, la solitudine, la chiacchiera, la curio-
sità, l’equivoco). Da ciò scaturiscono così alcune importanti sollecita-
zioni: rivisitare la storia del termine «antropologia», in rapporto a più
generiche «concezioni dell’uomo»; saper individuare come e dove si si-
tua l’antropologia in filosofia e rispetto alle scienze; esaminare se e in
che modo l’antropologia ruoti realmente attorno ad un soggetto preco-
stituito di cui si limita a proporre o riproporre «modelli» efficienti; verifi-
care se e in che modo essa abbia affrontato gli aspetti «difettivi e passeg-
geri» (Hegel) dell’esperienza. Fermo restando che occorrerebbe fare un
debito approfondimento per ciascuna di esse e che comunque sono co-
stanti sproni alla riflessione, queste sollecitazioni sono strettamente col-
legate. A fronte di un’idea di filosofia come accadere metafisico, una ri-
cognizione storica, tanto per dire, potrebbe far emergere un rapporto
non lineare né scontato tra «saperi» antropologici, filosofia e «istituzio-
ni» antropologiche (nozze, tribunali e are: i modi e le forme di organizza-
zione dei raggruppamenti umani), e questo sia prima sia dopo l’ap-
parizione della specifica parola «antropologia». Coinvolta in una dimen-

168
Animalitas. Heidegger e l’antropologia filosofica

sione più ampia – diremo: la storia effettiva e l’«archivio»2 dei discorsi


che la scandiscono – la filosofia vi intrattiene un rapporto del tutto pe-
culiare di incontro e scontro, di rispecchiamento e modificazione, di
codificazione e contestazione. Un ulteriore elemento sarebbe che in
questo rapporto un tratto ritornante è sempre connesso, in forme perlo-
più denegative, con la difettività del «regno animale dello spirito» (He-
gel), ovvero con tutto ciò che dal corpo alla psicopatologia della vita
quotidiana, dal tabù dell’incesto ai rituali sacri e profani, dal buon sel-
vaggio alle buone maniere, ha indotto a chiamare l’antropologia una
«scienza dei rimasugli» e l’antropologo uno «straccivendolo della sto-
ria»3. Affinché, tuttavia, sia possibile effettuare una simile ricognizione
storico-problematica, occorre già aver rifiutato la posizione heideggeria-
na, la quale è inscindibile dalla storia dell’essere metafisica, ovvero dalla
sua decostruzione e ri-appropriazione meditativa. Senza la storia
dell’essere diventa difficile intendere Heidegger e quel suo modo di fare
filosofia che pure ci è parso importante e soprattutto sollecitante. Ma,
appunto, in quella storia – anche perché è comunque impostata come
una filosofia della storia4 – c’è spazio solo per un’antropologia unilineare e
«soggettivista»: per lo schematismo metafisico e il suo compimento nelle
scienze. Sicché raccogliere proficuamente le sollecitazioni di Heidegger
richiede che gliele si ritorcano contro, che si riesca a mostrare la sua ceci-
tà verso quanto è contenuto sotto il titolo di antropologia. Potrebbe dar-
si, cioè, che Heidegger abbia irretito e semplificato quello che voleva li-
berare e restituire alla sua complessità non schematica, ripetendo il gesto
purificante e sublimante del theorein supremo, della filosofia prima. Ma a
suo modo: se ci insegna che questa filosofia ha organizzato e fissato epi-
stemicamente l’essere, egli decostruendola e «liberando» l’essere, ha o-
messo quell’aspetto di lavoro sulla «strapotenza» della realtà, o sull’essere
come anonima res corporea, che la filosofia anche è stata5. Il pensiero

2 Chiaro il riferimento a M. Foucault, L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris, 1969, trad.

it. di G. Bogliolo, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano, 1980, part. pp. 169 sgg. Cfr. an-
che Id., Le mots et le choses, trad. it. di E. Panaitenescu, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano,
1985.
3 Sono epiteti rispettivamente di C. Kluckhohn e di C. Levi-Strauss, cit. in F. Remotti,
Noi primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Bollati-Boringhieri, Torino, 1992, p. 21.
4 Cfr. K. Löwith, Heidegger Denker in dürftiger Zeit, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen,

1960, trad. it. di C. Cases e A. Mazzone, Saggi su Heidegger, Einaudi, Torino, 1974, in par-
ticolare pp. 49-82; O. Marquard, Schwierigkeiten mit der Geschichtsphilosophie, Suhrkamp,
Frankfurt a.M., in particolare pp. 134 sgg.
5 Sia appena accennato al problema del rapporto mito-filosofia-scienza, al «pensiero sel-

vaggio» (Levi-Strauss), a una genesi del pensiero, che sia quella del rapporto tra mano, cer-
vello, linguaggio (Leroi-Gourhan), o quello della Urstiftung husserliana. La filosofia è un
prodotto tardo, fa parte di un’elaborazione del reale «assoluto» che si perde in un «prima»
illocalizzabile e sempre residuo come corpo. Forse qui c’è il nodo, obliato da Heidegger,
che lega e fa confliggere all’interno della filosofia stessa, dianoia e noesis, scienza e medita-
zione, realtà e verità.

169
Marco Russo

meditante e assolutamente autonomo perseguito da Heidegger, dove il


corpo latita anche più che nella episteme metafisica, potrebbe fare da
conferma alla nostra supposizione. Ecco perché, come preliminare ne-
cessario per ridefinire, grazie e contro Heidegger, il senso di un’antro-
pologia filosofica, la nostra operazione di «ritorsione» deve affrontare
ancora di nuovo uno dei luoghi più attaccati del suo pensiero, la natura
e la corporeità, appunto. La mancanza di una adeguata considerazione
di questi due aspetti all’interno dell’analitica esistenziale e, più in genera-
le, dell’ontologia fondamentale, fu presto rilevata. Siccome essi erano
ritenuti centrali da tutti quegli autori che facevano dell’antropologia o vi
si sentivano attratti, natura e corpo divennero un po’ il discrimine tra
costoro e il fronte heideggeriano. Ed effettivamente, benché non si esau-
risca affatto lì, la discussione su quei punti costituisce un osservatorio
privilegiato per capire le ragioni dell’antropologia, ovvero per vedere
all’opera la contesa con Heidegger. È largamente plausibile, del resto,
che, nella sezione centrale del suo corso sui Concetti fondamentali della
metafisica, quest’ultimo abbia tentato una risposta più distesa alle criti-
che, si sia cioè sentito da esse toccato o perlomeno stimolato. A tale cor-
so e ai più tardi Seminari di Zollikon noi faremo riferimento in seguito,
chiudendo con un accenno alle obiezioni del fronte antropologico. Det-
to in maniera drastica e netta, il nostro intento sarà di capire perché, sui
temi menzionati, il discorso heideggeriano non funziona, risulta insuffi-
ciente. Ma non tanto nel senso che non aggiunge molto rispetto alle
trattazioni cui si oppone, quanto per il fatto di restare al di sotto delle
prospettive che vorrebbe aprire e che si è soliti aspettarsi dall’autore6.
Perché Heidegger, l’autore di magistrali e dirompenti analisi della vita
effettiva, cade proprio sulla corporeità e perché proprio, soprattutto,
l’antropologia ha riproposto questo tema in filosofia? La tesi da noi se-
guita è che sul cammino di un pensiero dell’essere non semplicemente
presente, Heidegger abbia smarrito o trasfigurato quanto di ambiguo, di
urtante e di urgente c’è nella semplice presenza, nelle cose più elementari
e indisponibili. Animalitas è il nome che le daremo, anche perché, senza
paradosso, rappresenta lo specchio di ogni antropologia intesa come

6 Le trattazioni cui alludiamo sono innanzitutto quelle dell’antropologia e della filosofia

della cultura degli anni tra le due guerre mondiali. Dal punto di vista dei contenuti le cose
che Heidegger dice, in quegli anni, non sono molto diverse (tant’è che spesso furono an-
tropologicamente fraintese). Ma il modo di affrontarle e le precise distinzioni tra ontico e
ontologico, categorie ed esistenziali, dovevano segnalare finalità non solo differenti, ma
incompatibili. Perciò molti tentativi di mettere in rapporto Heidegger con i saperi positivi,
appaiono, per quanto interessanti, troppo «concilianti». Cfr. p. es. A. Gualandi, «”Uomo”,
“linguaggio”, “modernità” in Heidegger e Gehlen. Idee per un confronto teorico-critico»,
in Discipline filosofiche, 9, 2, 1999, pp. 251-283; H. Kunz, Die Bedeutung der Daseinsanalytik
Martin Heideggers für die Psychologie und die philosophische Anthropologie, in Martin Heideggers
Einfluss auf die Wissenschaften, Francke, Bern, 1949, pp. 37-57. A. Ignatow, Heidegger und die
philosophische Anthropologie, Hain, Meisenheim a.G., 1979.

170
Animalitas. Heidegger e l’antropologia filosofica

trovarsi faccia a faccia, in permanenza e in modo drastico, con altro.


L’animale che è res extensa ma è animato, che è istintivo ma non è mec-
canico, che è senza parola ma emette suoni «espressivi» e comunica con
i suoi simili, che non ha io ma non è un non-io, che ha il suo impene-
trabile mondo ma è costitutivo di questo nostro mondo, ebbene
l’animale è il simbolo e la presenza materiale di altro. Animale è il senti-
re e l’insensato, è l’anonima orologeria del nostro sistema neurovegetati-
vo e il nostro «corpo proprio»; è il virus mortale, lo scarafaggio e
l’aquila, l’occhio del rettile e il vitello. E poi: il boia è disumano, la vit-
tima disumanizzata; l’uno agisce, l’altro patisce; l’uno è forte, l’altro im-
potente; l’uno esegue, l’altro subisce l’esecuzione. Chi diremo che è fuo-
ri di sé, privo o privato di umanità, abbrutito, vittima della bestialità?
L’abbrutimento li accomuna o li aliena7? Forse l’antropologia ha cono-
sciuto e riconosciuto questa dura ambiguità di fondo contenuta nelle
tradizionali definizioni dell’animal humanum8. Forse, grazie anche pro-
prio ad Heidegger, si potrà lavorare con la mobilità e l’autonomia critica
della filosofia per non oscurare e banalizzare una simile ambiguità, come
sta succedendo, tra i molti possibili esempi, nel recente e grave dibattito
sull’ecosistema9. Ma neanche per rimuoverla dietro le interpretazioni
meditanti di un puro esistere, già garantito come esclusivamente umano.

1. Torna utile cominciare dai paragrafi 9, 10 e 11 di Essere e Tempo.


Mettendo a fuoco il tema dell’analisi esistenziale, Heidegger dice che
«l’ente che ci siamo proposti di esaminare è quell’ente che noi stessi

7 Se è ormai canonica la definizione dell’antropologia «scientifica», come studio dei po-

poli «altri», o di noi visti con altri occhi, si legga qui da un relazione coloniale: «il capitano
Alonso Lopez de Avila aveva fatto prigioniera durante la guerra una giovane indiana, don-
na bella e graziosa. Costei aveva promesso al marito, il quale temeva di potere essere ucci-
so in guerra, di non appartenere ad altri che a lui: essa preferì perdere la vita piuttosto che
farsi macchiare di infamia da un altro uomo. Per questo fu data in pasto ai cani» (è la laco-
nica catena vittimaria messa ad intestazione di T. Todorov, La conquête de l’Amérique. La
question de l’autre, Seuil, Paris, 1982, trad. it. di A. Serafini, La conquista dell’America. Il pro-
blema dell’«altro», Einaudi, Torino, 1984).
8 Il richiamo provocatorio va ai celebri passi dello Humanismusbrief (1946), dove si ripete

che «la metafisica pensa l’uomo a partire dall’animalitas, e non pensa in direzione della sua
humanitas» (tr. it. di F. Volpi in M. Heidegger, Segnavia, Adelphi, Milano, 1994, p. 277).
Non è inutile ricordare che la decostruzione dell’homo animalis comincia negli anni che
precedono l’elaborazione di Essere e Tempo, cfr. Id., Ontologie (1923), trad. it. di G. Auletta,
Ontologia. Ermeneutica della effettività, Guida, Napoli, 1988, pp. 29 sgg.
9 Cfr. L. Ferry, Le nouvel ordre écologique. L’arbre, l’animal et l’homme, Grasset & Fasquelle,

Paris, 1992; N. Russo, Filosofia ed ecologia, Guida, Napoli, 2000. Su un versante più ampio,
«biopolitico», ma che conferma la necessità di ripensare nella sua insidiosa ambiguità il
«paradigma dell’animale», proprio per non soggiacere agli effetti delle opposizioni che in-
genera, cfr. da ultimo R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, To-
rino, 2002.

171
Marco Russo

siamo»10; per afferrare questo ente, per capire che essere sia, quale la sua
essenza, occorre preparare una via d’accesso ad esso, via impervia e mai
sicura giacché le determinazioni, i caratteri essenziali dell’ente che siamo
non sono dati, presenti o ricavabili come quelli di tutti gli altri enti. La
sua essenza si schiude nell’esistere, nei molteplici modi con cui ciascuno
è posto e si pone rispetto alla propria esistenza; sicché non si può predi-
care intorno o sopra ad essa, come se l’atto del predicare ci lasciasse in-
differenti e come se fossimo casi determinati di un essere più generale.
Da qui deriva che per noi l’esistenza precede l’essenza, cioè che questa si
schiude tematicamente solo di volta in volta nelle singole situazioni e
dalle singole prospettive. L’analitica esistenziale, di conseguenza, non
definisce né determina quel che siamo, ma appronta le vie d’accesso al
particolarissimo campo fenomenico che siamo, dove stiamo. Per lo stes-
so motivo, le caratteristiche che lo riguardano emergono e si lasciano
tematizzare mediante «esistenziali», esse riguardano un Chi, il quale non
è mai semplicemente presente o dato; mentre gli altri campi fenomenici
riguardano un che cosa, semplicemente presente o dato, e vengono a
tema mediante «categorie». Fatte queste distinzioni, Heidegger aggiunge
che l’analitica esistenziale riguarda «lo scoprimento dell’a priori che ren-
de possibile la discussione filosofica del seguente problema: “cos’è
l’uomo?”»11. Si esige pertanto una delimitazione, o determinazione in
negativo, dell’analitica esistenziale, rispetto all’antropologia, alla psico-
logia e «soprattutto» alla biologia; il «soprattutto» si spiega perché «la
mancanza di fondamento ontologico non può essere surrogata dall’inse-
rimento dell’antropologia e della psicologia in una biologia generale. Per
quanto concerne le sue possibilità di comprensione e di interpretazione,
la biologia, in quanto scienza della vita, è fondata nell’ontologia
dell’Esserci, anche se non esclusivamente in essa. La vita è un modo di
essere particolare, ma accessibile essenzialmente solo nell’Esserci.
L’ontologia della vita è possibile solo in base a un’interpretazione priva-
tiva. Essa determina ciò che dev’essere tale da poter essere qualcosa che
solo più vive [Nur-noch-leben sein kann]. Il vivere non è né una semplice
presenza, né ancora un Esserci. Da parte sua, l’Esserci non può mai esse-
re definito ontologicamente come un vivere (ontologicamente indeter-
minato) a cui si aggiunga, oltre al vivere, qualcos’altro»12. Il passo è ai
nostri fini rimarchevole, specie per quell’essere fondata, la biologia,
nell’ontologia dell’Esserci, anche se non esclusivamente in essa. Forse qui c’è
la traccia che verrà sviluppata, e messa a tacere, nel ’29. Ma adesso ad
Heidegger importa sottolineare che psicologia, biologia, antropologia, o
le loro versioni filosofiche, non mettono in discussione l’essere di quel
10 M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), trad. it. di P. Chiodi, Essere e Tempo, Utet, Torino,
1978, p. 106.
11 Ivi, p. 110.
12 Ivi, pp. 116-117.

172
Animalitas. Heidegger e l’antropologia filosofica

che studiano, riducendolo così a qualcosa di semplicemente presente, a


determinazioni, specificazioni o differenziazioni di un «essere» a tutti
comune. Su di esso si svolge una sorta di algebra conoscitiva: psicologia
= spirito o psiche –, + biologia; biologia = vivente –, + psicologia; an-
tropologia = uomo –, + psicologia e biologia. Per quanto avanzino nelle
loro conoscenze queste scienze, per quanto la filosofia della vita dilthe-
yana o bergsoniana, o l’antropologia scheleriana riescano ad andare al
fondo e a unificare quelle conoscenze, in tutti i casi il sostrato – vita,
spirito, corpo, anima, persona, soggetto – resta un presupposto dato e
non compreso, compreso solo come qualcosa di già dato e presupposto.
Se così non fosse dovrebbero avere operato quella distinzione tra cate-
gorie ed esistenziali, tra enti semplicemente presenti e quell’ente «nel cui
essere ne va del proprio essere stesso», il quale ha così un primato onto-
logico assoluto13. Per operare la distinzione, però, l’unica via è quella in-
dicata dall’ontologia fondamentale che passa a sua volta e di necessità
attraverso la distruzione dell’ontologia tradizionale o metafisica, intesa
precisamente come quella disposizione del pensare che impedisce la di-
stinzione, il coglimento della differenza tra essere ed ente a partire
dall’Esserci. Il rifiuto della terminologia tradizionale (uomo, soggetto,
natura, spirito ecc.), trova così spiegazione e legittimazione, laddove già
il permanere dell’altra segnala che non si è colto cosa è in gioco nella
ontologia fondamentale e che quindi si è volenti o nolenti irretiti nella
metafisica. Se dunque ontologia fondamentale e analitica dell’essere
dell’esserci si rinviano circolarmente, poiché solo nell’essere dell’esisten-
za umana si palesa il concetto di essere perseguito dall’ontologia heideg-
geriana, per contro «ciò che deforma o svia il problema fondamentale
dell’essere dell’Esserci è il costante predominio dell’antropologia paleo-
cristiana»14, basata sulla definizione di uomo come animale razionale,
cioè un ente semplicemente presente (zoon) più un’aggiunta nobilitante,
il logos, la cui essenza è non meno oscura dell’ente di cui fa parte, ovvero
è ricavata per differenze specifica dal genere animale. La teologia cristia-
na accoglie la definizione, sovrapponendo a logos il fattore della trascen-
denza, concepita come un sorpassarsi dell’uomo finito nell’infinito divi-
no, sorpasso che lo distingue e rende superiore rispetto agli animali. Che
cosa sia la finitezza, cosa il sorpassare o trascendere, anche qui risulta
inesplorato; è ottenuto, per sottrazione o addizione, da altro (Dio e a-
nimali). Occorre solo ancora aggiungere che, siccome all’Esserci appar-
tiene l’Essere al mondo e poiché l’accesso a questo Essere al mondo
l’analitica lo avvia a partire dalla vita quotidiana, dal mondo così come
naturalmente e comunemente viene vissuto, parrebbe poter tornare utile
lo studio della vita dei popoli primitivi. Ma questo studio passa per

13 Cfr. ivi, p. 67.


14 Ivi, p. 115.

173
Marco Russo

l’etnologia, la quale, come tutte le scienze, lavora con concetti precosti-


tuiti e predeterminati, ovvero ontologicamente inindagati, vaghi e igno-
rati nella loro provenienza. A parte il sincretismo e il confuso accumulo
di dati, anche per l’etnologia vale che essa presuppone ciò di cui va in
cerca l’analitica (nel frangente specifico: il «ci è» del mondo comune,
medio, naturalmente vissuto)15.
Quelli fin qui riassunti sono gli elementi costanti della strenua oppo-
sizione heideggeriana nei confronti delle scienze e di quelle filosofie
che, grigio su grigio, ne ripetono lo schema. L’antropologia, però, da
«ontologia regionale» inizialmente ammessa, si profilerà via via come la
quintessenza dello sviamento metafisico, del mondo ridotto a immagi-
ne16. Con essa, proprio l’uomo, quell’ente cui l’essere si manifesta nella
sua differenza da ogni entità, nella sua ni-entità o infondatezza, proprio
lui si trasforma nel soggetto in cui è fondato l’essere e che fonda attiva-
mente l’essere. Ogni e qualunque essere ne diventa suo oggetto, un ente
dato o rappresentato, se stesso compreso; è l’uomo che conosce le cose e
ogni conoscenza serve a conoscersi meglio, a conoscere meglio la pro-
pria posizione nel tutto e la posizione del tutto rispetto a lui. È chiaro
allora che, impedendo la tematizzazione dell’essere dell’Esserci con la
persuasività immediata e la sicurezza garantita del tema «uomo»,
l’antropologia è ciò che genera, anzi compie, un blocco filosofico epoca-
le: l’uomo – o il logos di cui è «portatore» – è il centro di convergenza e
di diramazione di tutto quel che c’è; tutto quello che sappiamo aiuta a
conoscere l’uomo. Le antropologie sono la sintesi o il vademecum del sa-
pere attuale; l’antropologia il nome per l’impossibilità di un pensare che
non sia specchio di sé, autorassicurazione, oppure distrazione frizzante o
appassionata sul noto e sul vario mondo, su una «attualità» poco impor-
ta se passata o futura, giacché è sempre in scala con il presente, calcolata
o calcolabile in base o in vista di quel che sicuramente sappiamo e ab-
biamo a portata di mano.
La forza e la radicalità con cui colpisce Heidegger lasciano il segno, se
è vera la denuncia di continuità tra metafisica, scienza e antropologia
per ciò che esse lasciano o costringono a lasciare impensato, per la coa-
zione all’evidenza, per la volontà di sapere sempre di più. Lasciano il
segno, dunque, toccando un nervo scoperto, toccandoci nel punto in
cui ciascuno avverte l’effettiva minaccia di una corsa a vuoto del sapere
e del costruire grandi quadri esplicativi, che nascondono e distraggono
dall’essenziale o anche solo da qualcosa che non sia ripetizione e accu-
mulo del medesimo e sempre sullo stesso piano. Verrebbe allora di se-
guire Heidegger nella ricerca di un pensiero altro, alternativo a quello in
cui siamo calati. Seguirlo magari proprio nel suo cammino verso l’uo-
15 Cfr. ivi, pp. 118-119.
16 Cfr. M. Heidegger, Holzwege, Klostermann, Frankfurt a.M., 1950, trad. it. di P. Chiodi,
Sentieri interrotti, Nuova Italia, Firenze, 1987, pp. 84 sgg.

174
Animalitas. Heidegger e l’antropologia filosofica

mo, riscoperto come Esserci. Eppure è su questo cammino che vediamo


sbiadire o sparire tutta la gamma di temi e di aspetti trattati, talora sot-
traendoli a un diverso oblio teoretico, dall’antropologia. Nonostante il
primato dell’esistenza sull’essenza, nonostante il primato fenomenologi-
co dell’ontico sull’ontologico, o il loro rapporto dialettico17, nonostante
l’analitica esistenziale e i rituali d’accesso all’ontologia mediante le in-
terpretazioni fenomenologiche della «vita effettiva», ciò nonostante tut-
to quello che riguarda la corporeità, ed per così dire «attaccato» sul cor-
po (la mimica, i gesti, le passioni, la sessualità, la fisiologia, il movimen-
to, la sofferenza, la vulnerabilità, la rappresentazione quotidiana e arti-
stica…) o manca completamente o è come se perdesse peso, urgenza,
colore, sfumature. L’attenzione per siffatti aspetti è, per motivi solo in
apparenza scontati o perspicui, fortemente legata al tema della vita, o
dell’animalitas presa nel senso più ampio ma anche più misterioso di na-
tura animata. Alla animalitas, inoltre, sono legati – anche qui per motivi
non spiegabili con il richiamo ad una certa tradizione o con il destino
dell’Occidente – molti temi decisivi con cui si è venuta costituendo la
teoria politica e sociale (con tutto il suo lessico fatto di corpi sociali, or-
ganismi politici, stato di natura, socievolezza, insocievolezza, irrazionali-
tà, istinti, paure, desideri, il Tiranno-Bestia, il popolo-gregge, volpi, leo-
ni, lupi, metamorfosi…), i quali sono direttamente connessi con l’antro-
pologia, tanto nel senso di una concezione della natura umana, quanto
nel senso di una fenomenologia dei comportamenti e delle forme di vita
umane. È veramente difficile ritenere che lo straordinario intreccio di
immagini, miti, dottrine, rituali, divieti, istituzioni, di cui consta, sullo
sfondo di una inaccessibile «notte dei tempi», lo stare al mondo effettivo
degli uomini, possa dipendere da una cattiva metafisica, da un destino di
oblio ontologico. E poi: coincide davvero la storia d’occidente con la
storia di quest’oblio, e l’oblio con l’antropologia? Quale antropologia?
Cosa videro i proto-antropologi oltre le colonne di Ercole, all’epoca del-
le grandi scoperte coloniali e sempre di nuovo? Non trovarono, lì tra
semiuomini e calibani, qualcosa di incommensurabile eppure di assai
simile ai nostri nozze, tribunale e are? Forse prima della Lichtung des Seins,
dove mondeggia il mondo, la radura è un varco aperto a colpi di lama di
selce, dove venne acceso un fuoco; un templum dove sgozzare la vittima
sacrificale a protezione di altre vittime. Preistoria dell’essere, storie ani-
mali, pensieri selvaggi. Ma abbiamo già visto che anche l’etnologia non
ha nulla da dire, neanche sulle origini umanoidi dell’Esserci. Ed allora
torniamo al cammino di Heidegger verso «ciò che solo più vive».

17 Cfr. H. Köchler, Der innere Bezug von Anthropologie und Ontologie. Das Problem der Anth-

ropologie im Denken Martin Heideggers, Hain, Meisenheim a.G., 1974. L’autore mette bene in
rilievo il senso e l’importanza della distinzione tra ontico e ontologico, ma poi la riconcilia
in un ammorbidito hegelismo laddove essa era programmata per scardinare la dialettica.

175
Marco Russo

2. Il corso sui concetti fondamentali della metafisica ha una sezione


centrale dedicata a un’analisi dettagliata della sfera della vita biologica
cioè della sfera che in Essere e Tempo rientrava in una ontologia privativa,
concernendo enti difformi dall’Esserci, enti privi della dimensione
dell’esistere e meramente viventi o essenti. È probabile che con essa
Heidegger abbia voluto rispondere implicitamente alla antropo-biologica
«tendenza fondamentale dell’epoca»18, mostrando come vada impostata
un’ontologia biologica, che, peraltro, in tutta coerenza, si arresta alle so-
glie della sfera umana, la limita – ed è così un ulteriore indice della fini-
tezza – ma non vi si spinge dentro. In tal modo, inoltre, egli poteva dare
maggior rilievo ad un aspetto, quello della totalità dell’essente, negletto
dall’analitica dell’essere-al-mondo, dove il mondo veniva considerato
solo dal lato della nostra quotidianità19.
Nelle osservazioni preliminari al corso Heidegger invita a cercare il
tono appropriato per entrare nella dimensione ambigua, sfuggente e pe-
ricolosa che chiamiamo filosofia. Il filosofare è qualcosa «di primigenio-
autonomo, ma proprio per questo non di isolato, bensì, alcunché di e-
stremo ed iniziale, che ha già inclusa concettualmente in sé la totalità,
cosicché ogni applicazione arriva troppo tardi ed è un fraintendimento.
Non si tratta di niente di meno che di riappropriarsi di questa dimen-
sione originaria dell’accadere nell’esistenza che filosofa, per tornare a
“vedere” tutte le cose in modo più semplice, più forte e più tenace»20. In
quanto separata da tutto il resto, esperienza assoluta, la filosofia mostra
la sua natura metafisica, ossia la natura metafisica dell’uomo che è aper-
to e in cui si apre la totalità delle cose, il mondo, il quale, in
quest’esperienza primigenia fa tutt’uno con physis (e con aletheia). È il
cielo, il mare, la terra, ciò che nutre, minaccia e protegge l’uomo; ed è
18 M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik (1929), trad. it. di M. Reina, Kant e

il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari, 1981, p. 181. Che Heidegger si sia sentito
provocato dall’antropologia coeva e vi abbia risposto con il corso del ’29 è la tesi di A.
Beelmann, Heideggers hermeneutischer Lebensbegriff. Eine Analyse seiner Vorleseung „Die Grund-
begriffe der Metaphysik. Welt-Endlichkeit-Einsamkeit”, Königshausen und Neumann, Würz-
burg, 1994.
19 Sulla scorta di una interpretazione di Ernst Tugendhat, si è ritenuto che il passaggio

dall’essere-al-mondo, al mondo come totalità (das Ganze) e come physis, non rappresenti un
allargamento della medesima prospettiva di Essere e Tempo, ma ne comporti una significati-
va trasformazione. Il mondo non è più dischiuso solo e prioritariamente dall’Esserci e da-
gli esistenziali, ma viene considerato come una dimensione più ampia in cui l’Esserci sta e
a cui si conforma (D. Thomä, Die Zeit des Selbst und die Zeit danach. Zur Kritik der Textge-
schichte Martin Heideggers 1910-1976, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1990, pp. 509 sgg.). Se
questo, secondo l’autore, favorisce una desoggettivazione delle strutture esistenziali, verrà
però imponendo una consegna al destino e alla totalità (su cui quelle strutture verranno
trasferite), che saranno fatalmente incarnate dal popolo e dalla nazione, prima, e dal do-
minio tecnico, poi.
20 M. Heidegger, Grundbegriffe der Metaphysik. Welt-Endlichkeit-Einsamkeit (1929), trad. it.

di P. Coriando, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo-finitezza-solitudine, Melangolo,


Genova, 1992, p. 35.

176
Animalitas. Heidegger e l’antropologia filosofica

l’essenza specifica di ciascuna cosa, la sua «legge interna». La duplicità


unitaria del significato di physis e della metafisica originaria, andrà
smembrandosi in una metafisica come scienza che ha per oggetto il so-
vrasensibile o essere in generale, e nelle scienze particolari dell’ente.
Giunti alla fase terminale dello smembramento, in piena calamità classi-
ficatoria, disciplinante, ecco farsi avanti e pullulare antropologie, filoso-
fie della vita e della cultura che, tra diagnosi critica e disegni pro-positivi,
cercano di ricompattare il tutto, illustrando chi è, come è fatto, dove si
trova e dove va l’uomo, preso quale primo, intermedio o ultimo anello
di riferimento e congiunzione della natura e della storia. Questa filosofia
ridotta a un ripetitivo «giornalismo di alto livello»21 consente ad Heideg-
ger di avviare l’analisi della noia, che metterà in grado di affrontare
l’analisi della zoé e del logos antepredicativo. Calatisi fino all’estremo del-
la noia profonda, si tocca l’estremo dello svuotamento mondano che ci
libera lo sguardo e ci dispone adeguatamente per articolare la domanda
su che cosa è il mondo.
Siamo così finalmente all’analisi comparata del mondo svolta sulla
scorta di tre tesi-guida: la pietra è senza mondo, l’animale è povero di
mondo, l’uomo è formatore di mondo. La comparazione avviene, di fat-
to, solo tra l’animale e l’uomo, perché solo essi hanno, in modo diverso,
un rapporto col mondo. Il senso della comparazione sta proprio nel ve-
dere se e come diverse modalità dell’essere si rendono accessibili l’una
all’altra, e non nello stabilire la natura peculiare di ciascuna sfera organi-
ca o inorganica. D’altra parte, proprio perché l’uomo vive e si rapporta
solo alla maniera dell’Esserci (cioè nella maniera indicata dagli esisten-
ziali), la comparazione assume i tratti dell’assenza e della privazione:
l’essenza della pietra o dell’animale è quello che a noi non è possibile
intendere, penetrare o determinare positivamente, così come la nostra
essenza non è ottenuta per negazione determinata di ciò che è «animale»
e «pietra», o per aggiunta di altro rispetto ad essi. Né l’uomo è l’essere
che nega, inibisce, supera, contiene, la propria animalità, né animali e
pietre si caratterizzano per ciò che non hanno rispetto all’uomo (in que-
sto caso, sì che la privazione equivarrebbe a mancanza, a un tratto difet-
tivo, attribuito per di più positivamente, come connotazione identifica-
tiva). La comparazione, dunque, non avviene all’interno di una «catena ambito
dell’essere», ma per «salti» ontologici, per accostamenti esplorativi verso della
quel che ci si presenta (o non ci è affatto presente, come la pietra nel suo antropologia
metafisica
modo d’essere). La prova è che, fuor di comparazione, nella dimensione
dell’Esserci, non si può neanche più parlare di vita; essa ci è, la si esiste,
non la si vive. Il compito attuale è precisamente capire meglio siffatto
impedimento, come mai il puro vivere per noi si manifesta come priva-

21 Ivi, p. 103. Il riferimento esplicito è alla filosofia delle forme simboliche, ma è eviden-

te che qui Cassirer fa da rappresentante per un modo di filosofare che magari tocca punti
importanti, ma per banalizzarli e dunque finendo per occultarli ancora di più.

177
Marco Russo

zione e nella privazione; come mai noi possiamo avere un rapporto con
l’animale (una «trasposizione» in esso, ma non un essere-insieme) pur
senza condividerne nulla22.
L’essenza dell’animalità è il puro vivere23. Per questo Heidegger ritie-
ne utile o piuttosto necessario leggere «con occhio filosofico»24 le acqui-
sizioni della biologia, a cominciare dalla nozione di organismo, cardine
della distinzione tra materia e vita. Sebbene la biologia abbia già supera-
to la concezione meccanicistica dell’organismo (macchina autoregolan-
tesi, sistema di azione e reazione), occorre mettere a fuoco la differenza
essenziale tra organo e mezzo. Entrambi servono a o per (fare qualcosa);
tuttavia il «per» del mezzo ha carattere strumentale, è ricavato dal fare
umano che appronta un utensile per servirsene di volta in volta; il «per»
dell’organo non ha invece carattere strumentale perché non è appronta-
to dall’uomo né è lì pronto come un martello o una penna per essere
utilizzato, pronto anche rimanendo inutilizzato. L’organo ha una capa-
cità, anzi è un che di capace, perché la capacità non gli viene attribuita
prima o dopo, bensì gli è coestensiva; non c’è l’occhio latore della capa-
cita di vedere o suo mezzo, ma c’è la capacità di vedere che è occhio,
fattasi occhio. L’esser-capace si rende comprensibile e attivabile (nonché
estinguibile) solo nel circuito di un organismo, che è quella organizza-
zione o «totalità unitaria» grazie a cui gli organi sono capaci e quello per
cui la capacità è al servizio. L’organismo è capacità – avere e offrire delle
possibilità – che si «crea» organi e si «incorpora» in essi; di nuovo, non è
l’occhio che vede, o grazie all’occhio che vediamo, ma è l’essenza visiva,
l’essere disposti o aver relazione nella maniera del vedere a rendere pos-
sibile l’occhio25. Seguendo l’essenza della capacità, o organismo,
dell’esser-organo al servizio e in virtù della capacità, arriviamo a cogliere
l’essenza dell’animalità. Infatti questo essere al servizio della capacità,
incorporata in organi, è un essere al servizio di se stessa, una proprietà
(Eigentum) nel duplice senso di esser-appropriato e di esser-proprio, di
adeguato e di peculiare. L’essere appropriato dell’organo, il suo essere al
servizio per e dell’organismo, significa che esso opera in modo pecu-
liarmente adeguato su ciò per cui ha la capacità; la capacità lo sospinge a

22 Cfr. ivi, p. 270; pp. 326, 342-349. La pietra resta sullo sfondo, perché, non vivente,
senza mondo, non è accessibile neppure nel modo dell’esser-privo.
23 Cfr. ivi, p. 257. Che il modo d’essere dell’animale sia il puro vivere è da riconnettere

all’asserzione per cui esso «non può morire ma solo cessare di vivere, visto che attribuiamo
all’uomo il morire» (ivi, p. 341).
24 Ivi, p. 250. La necessità è dovuta al fatto che la scienza, pur non essendo necessaria di

per sé, fa parte della nostro destino storico attuale. Heidegger sottolinea anche che nella
biologia sono, di recente, stati fatti passi essenziali per una migliore autocomprensione
della vita (cfr. ivi, pp. 334-337). Che tuttavia per avere cognizioni sull’animale sia utile la
biologia, mentre per comprendere l’uomo è inutile sia la biologia sia l’antropologia, rende
perplessi, pur se ne intuiamo la ragione.
25 Cfr. ivi, p. 292.

178
Animalitas. Heidegger e l’antropologia filosofica

fare ciò che gli è proprio, l’azione dell’organo, dirigendosi verso qualco-
sa, resta in un ambito peculiare a lui, ovvero all’organismo di cui è al
servizio e per cui è capace. Il dirigersi, o esser-riferito verso…, non è al-
tro che la pratica della capacità (del «per»), l’organismo tutto coinvolto e
tutto coinvolgente nella pratica di sé. Sicché, senza dover ricorrere a nes-
suna supposizione esplicativa (per esempio un’anima, un germe di rifles-
sività o di intenzionalità), è dall’essere appropriato e peculiare (Eigentüm-
lichkeit) dell’organismo che comprendiamo il comportamento (Benehmen)
animale come stordimento (Benommenheit), cioè come «trattenersi-in» e
«coinvolgersi prendendosi» (Eingenommenheit) nella pratica della propria
capacità, dell’esser-riferiti-a e rivolti-verso... (Bezogenheit); «lo stordimento
è la condizione di possibilità grazie a cui l’animale, secondo la sua es-
senza si comporta in un ambiente, ma non in un mondo»26. Poiché tutto
coinvolto, assorbito da e in quello che fa, il riferirsi-a qualcosa
dell’animale è tale da non permettere di incontrare le cose in quanto ta-
li, da non permettere che queste gli si manifestino nel loro essere. La ri-
cerca di cibo, l’orientamento, l’accoppiamento, la fuga, l’appostamento,
ecc., cioè le diverse modalità del comportamento animale, che come di-
rigersi o esser-sospinti possiamo chiamare istinti, vanno prese nel loro
insieme, come un «ciclo istintuale», giacché l’animale non segue ciascun
istinto in singoli atti e come singoli percorsi verso…, bensì viene sospin-
to da istinto a istinto, da cui è appunto «circondato». Per questa specie
di rimbalzo continuo, esso non entra mai in relazione con…, ma al con-
trario, è come se allontanasse ciò con cui sta in relazione; la cosa con cui
sta in relazione è un’occasione che mette in moto il suo esser-capace, di
volta in volta in un certo modo. La cosa fa scattare, cioè disinibisce (en-
themmt) quella tensione implicita nell’istinto (il «per» della capacità so-
spesa dall’esecuzione, in stato di inibizione, Hemmung); una volta disi-
nibito l’istinto, fatto scattare il «per» della capacità, la cosa esce dalla re-
lazione con l’animale, resta lontana, quasi neanche più avvertita. La re-
lazione dell’animale con il mondo, è non una apertura a…, ma apertura
per…; nel «per» esso incontra la cosa, nel «per» la include, sottraendola
sistematicamente a ogni poter-essere. Perciò, mancando un orizzonte
che non sia quello del cerchio, gli enti non gli sono mai manifesti, e il
mondo, orizzonte e condizione della manifestabilità, manca. Le cose per
l’animale ci sono a misura che entrano nel suo «cerchio disinibente».

26 Ivi, p. 306. Nel leggere frasi simili resta la sensazione di un che di surrettizio, di un ma-

lizioso intreccio tra originario, ma poi stratificato, plurivoco, oscillante, senso racchiuso e
schiuso dalle e nelle parole, e loro uso essenzialistico (nel nome c’è l’essenza della cosa). Se
una lingua consente di fissare e far risuonare nel sostantivo Benommenheit un interessante
duplicità semantica del verbo benehmen, da cui deriva anche il sostantivo Benehmen, è per-
ciò autorizzato l’uso del primo sostantivo come essenza e condizione di possibilità del
secondo? Cosa è poi davvero essenziale, lo slittamento semantico, percepibile e risonante
nella lingua, nella madrelingua, o la cosa stessa? La cosa stessa in quale lingua si manifesta
o viene detta?

179
Marco Russo

Siccome il cerchio è determinato in base alle specifiche capacità, ogni


animale circonda se stesso con un diverso cerchio ambientale di possibi-
le disinibizione. Se rammentiamo poi che, lungi da considerazioni mor-
fologiche e fisiologiche, l’organismo è, nella sua essenza, la «totalità uni-
taria» delle capacità, l’organizzazione delle capacità, e che dalla capacità
scaturisce il comportamento come stordimento, o essere circondati e
vincolati ad un cerchio disinibente ambientale, si capisce che «l’esser-
vincolato dell’animale all’ambiente non è soltanto quasi profondo co-
me…, e neppure ugualmente profondo come l’unità del corpo, bensì è
proprio l’unità del corpo dell’animale che si fonda, come unità del cor-
po animale, nell’unità dello stordimento […]. Lo stordimento è l’essenza
fondamentale dell’organismo»27. L’insistenza sull’antecedenza ontologi-
ca dello stordimento sull’organismo serve per marcare la distanza
dall’evoluzionismo e per dare spessore filosofico alle nuove teorie biolo-
giche, dalle quali Heidegger ha attinto i materiali per le sue analisi. Se si
parte dall’organismo si rischia di prenderlo come un qualcosa di sussi-
stente che poi, sottoposto alla pressione ambientale e rispondendo
all’imperativo della sopravvivenza, si adatta, perfezionando via via la sua
dotazione organica, mentre «l’organismo si installa di volta in volta in
un ambiente determinato. Può installarsi in un ambiente determinato
soltanto perché l’apertura per… è propria della sua essenza, e perché in
virtù dell’apertura per…, che attraversa il comportamento nella sua glo-
balità, si crea un campo di azione all’interno del quale ciò che viene in-
contro può venire incontro in un modo oppure nell’altro, cioè è in gra-
do di agire sull’animale come disinibente»28. Alle teorie biologiche che,
con l’idea di totalità unitaria dell’organismo installata in ambienti con-
specifici al piano strutturale (o di costruzione, Bauplan) dei differenti or-
ganismi, avevano assunto posizioni critiche nei confronti del darwini-
smo, il filosofo fa invece l’ammonimento di non leggere la realtà umana
in termini di semplice prosecuzione del loro modello, giacché essa non
si differenzia quantitativamente o qualitativamente da quella animale,
ma ne è separata «da un abisso»29. La distinzione lessicale tra comporta-
mento animale (Benhemen, assieme al, matriciale, stordimento, Benom-
menheit) e condotta umana (Betragen, Verhalten) vale come indice di in-
commensurabilità tra quelle che non sono due sfere del vivente, non a-
vendo appunto alcuna misura comune. La comprensione adeguata di
questo abisso, però, la si riesce ad avere solo con l’analisi della terza tesi,
«l’uomo formatore di mondo», giacché, come detto, la tesi stessa della
povertà di mondo dell’animale non è una tesi definitoria dell’animale in
sé, ma una tesi esclusivamente comparativa, atta a mostrare come mai

27 Ivi, p. 330.
28 Ivi, p. 338.
29 Ivi, p. 337.

180
Animalitas. Heidegger e l’antropologia filosofica

l’animalità – pur nella pienezza del suo proprio essere e pur consideran-
dola qualcosa in cui siamo installati noi stessi – ci è presente sottraendo-
si, «ci è» nel modo della privazione, del poter fare a meno del mondo. A
parte il fatto che solo per e con noi il mondo «ci è», si rende manifesto e
può dunque anche non-essere, sottrarsi, è chiaro comunque che è dallo
svolgimento della terza tesi che la comparazione va ad effetto. La circo-
stanza che solo nell’esserci c’è mondo, introduce al problema della tota-
lità degli enti. Ma se ci attestasse su questo «potere» peculiare dell’uomo,
faremmo dell’uomo l’ente con la specifica facoltà di avere mondo (o es-
sere aperto al mondo, la famosa Weltoffenheit predicata dagli antropolo-
gi)30, posto al vertice o al centro della «bella famiglia d’erbe e d’animali»
(Foscolo). Ed allora la privazione, anche prima dello svolgimento della
terza tesi, serve a indirizzare il concetto di totalità in tutt’altra direzione,
indicando un rapporto assolutamente particolare dell’uomo con la natu-
ra, ossia una incomparabilità di fondo tra entrambi, una cesura. Certo
schiudente: un’apertura nell’essere (che anche perciò non va preso come
catena continua, né come coesistenza multipla). «L’uomo esiste in una
maniera peculiare nel mezzo dell’ente. Nel mezzo dell’ente significa: la
natura vivente tiene prigionieri noi stessi in quanto uomini in una ma-
niera ben specifica, non in virtù di un particolare influsso e impressione
che la natura vivente esercita su di noi bensì per nostra stessa essenza»31.
Sebbene posti nel mezzo della concatenazione dei cerchi ambientali,
cioè attorniati e immersi nella natura, noi vi stiamo come un continuo
esser-trasposti (Versetzt-sein), cioè sempre spostati, senza posto, di passag-
gio, fuori. In essa non abbiamo posto, siamo privi di «naturalezza»; la
nostra natura non ha appoggio, né collocazione, è abissale, impropria
(abgründig, uneigentlich), perciò nella sua immensa ricchezza di colloca-
zioni (proprietà), di cerchi ambientali, la natura ci si stringe attorno,
chiudendosi, sottraendosi; chiudendocisi, sottraendocisi. La chiarifica-
zione dell’essenza dell’animalità è giunta fin dove era possibile ricavare
la chiusura ambientale dell’animale dall’essenza stessa dell’organismo
come capacità e stordimento. La svolgimento della terza tesi dovrà chia-
rire a parte hominis tale chiusura: in cosa si radica il fatto che c’è un ente
a cui l’essere si manifesta, ma a cui l’essere naturale gli si sottrae, gli è
presente privativamente, nell’inaccessibilità o chiusura dell’animalità?
Da quanto si è detto, risulta evidente che è falsificante ogni risposta che
parta da o miri a individuare la collocazione dell’uomo nel tutto; non
c’è collocazione possibile perché non c’è il tutto. Invero, perlomeno
quello che chiamiamo natura non ci è dato positivamente, difetta: salvo
intenderla nel senso originario di physis, cioè come essere ed essenza

30 Cfr. M. Heidegger, Zollikoner Seminare (1959-1969), trad. it. di A. Giugliano, Seminari

di Zollikon, Guida, Napoli, 1991, dove, riferendosi a Gehlen, si dice che la sua Weltoffenheit
«non ha nulla a che fare con l’esser-aperto nel senso del nostro slargo» (p. 310).
31 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 356.

181
Marco Russo

dell’ente, come totalità ma nel senso della differenza ontologica, del mo-
vimento dello svelarsi che si vela, laddove «l’installarsi in un aspetto fa
sempre venire alla presenza in modo tale che nel presentarsi viene con-
temporaneamente alla presenza un assentarsi [steresis]»32. Potremmo par-
lare del tutto e assegnare posti a ciascuno, se conoscessimo (cioè identi-
ficassimo essere e conoscenza, ontologia e scienza) davvero i physei onta,
accanto ai techne onta; ma allora tutto starebbe su uno stesso piano, solo
con differente collocazione, e sia l’uomo, sia le cose prodotte da lui, sia
quelle naturali, sarebbero determinazioni di un non meglio qualificato
ens generalissimus, o di un onnipotente soggetto determinante e «collo-
cante». Differenza ontologica e analitica dell’esistenza, trovano, anzi de-
vono trovare riscontro nella tesi della privazione (steresis). E infatti, la
terza tesi comparativa viene svolta non facendo più alcuna comparazio-
ne effettiva con l’animale; viene svolta saltando al problema della mani-
festatività dell’ente, radicata nella struttura proposizionale e, più adden-
tro, nella dimensione prelogica dell’aver rapporto, dello in-quanto che
caratterizza l’esistere umano, la finitezza. L’animalitas finisce con l’uo-
mo, l’uomo è finito, cioè chiuso, accerchiato, delimitato, dall’animalitas.

3. Non insisteremo ora nel fare rilievi critici, magari utilizzando le au-
to-obiezioni che Heidegger si è mosso. Passiamo invece direttamente a
dare uno sguardo al tema della corporeità trattato nei seminari tenutisi a
Zollikon, insieme ad un gruppo di medici e psicoterapeuti. Nell’ordine
della nostra esposizione, esso rappresenta uno scorcio complementare al
tema dell’animalità, poiché affronta da presso la natura vivente umana,
che nei Concetti era stata proiettata all’orizzonte, o sottaciuta, onde ri-
marcare lo scarto «abissale» tra le due «nature». Lo scarto era lì al centro
dell’attenzione, quale figura, al tempo stesso, della differenza ontologica
tra uomo e animale e della differenza ontologica come espressione ade-
guata (con-rispondente) della metafisica originaria, ossia della physis, il
movimento del venire alla presenza dell’assente (incarnata appunto
dall’assentarsi dell’animale nel mondo umano). Intanto, comunque, sia
annotato preliminarmente, che il tema della corporeità emerge e torna
di continuo proprio discutendo con dei medici è per noi meno ovvio di
quanto sembri. L’antropologia, infatti, fa la sua comparsa storica come
disciplina «terza» votata a integrare in un discorso più ampio e unitario
fisiologia e psicologia33. Se anche prima di tale comparsa disciplinare,

32 M. Heidegger, Vom Wesen und Begriff der ϕÚσιj. Aristoteles, Physik B 1 (1939), trad. it. in

Id., Segnavia, cit., p. 251. Devo all’interessante saggio di F. Dastur la lettura dell’animale
come farsi presente di un non, quindi come quintessenza della physis (cfr. Id., «Pour une
zoologie privative ou comme ne pas parler de l’animal», in Alter, 3, 1995, pp. 281-317).
33 Sia concesso rinviare, per una messa a fuoco storico-concettuale, a M. Russo, La pro-

vincia dell’uomo. Studio su Helmuth Plessner e sul problema di un’antropologia filosofica, Città del
Sole (Istituto italiano per gli studi filosofici), Napoli, 2000.

182
Animalitas. Heidegger e l’antropologia filosofica

essa è variamente collegata con le pratiche e i saperi relativi alla costitu-


zione fisica e psichica dell’uomo, dopo, tra Settecento e Ottocento, rice-
ve impulso soprattutto da medici, e filosofi della «gemina» natura uma-
na. Perché – e perché sarebbe così ovvio, visto che una «concezione
dell’uomo» può muovere da una concezione cosmico/religioso/onto-
logica – e che cosa significa tale costante prossimità di corpo, antropolo-
gia, natura e pratiche di vita quotidiana? Lasciando aperta la domanda,
per non improvvisare risposte avvilenti, è sintomatico vedere quanto sia
difficile la comunicazione tra i medici di Zollikon e il maestro friburghe-
se. A parte l’ostacolo dello scientismo, l’inclinazione a vedere tutto in
base a dati e fattori misurabili, e la novità dell’approccio heideggeriano,
l’imbarazzo dei medici sembra discendere dal non avere più niente sotto
gli occhi, non avere più un terreno su cui poter esercitare – eventual-
mente meglio o in modo completamente diverso – la propria attività34.
Ma il niente e il pericolare sull’abisso non discende dal fatto che, demo-
liti lo scientismo, l’entificazione e l’idolatria numerica, ai medici venga-
no tolte le loro uniche certezze. Discende, in linea generale, dall’autono-
mia assoluta richiesta dalla rimeditazione metafisica, e, più in particolare,
dal dissolvimento del corpo fisico nell’esistere, nel «non essere l’ente»,
nel nulla della differenza ontologica, per cui gli esistenti tutti non an-
drebbero scambiati per enti, cose, corpi. È un simile dissolvimento, o
«dis-id-entificazione» del corpo fisico, certo strettamente connesso
all’autonomia del pensiero dell’accadere metafisico, che vogliamo ora
brevemente verificare.
«Il corporeo è la cosa più difficile»35 questa la risposta heideggeriana a
un rimprovero di Sartre, stupito che in Essere e Tempo appena sei righi
siano dedicati al corpo. La difficoltà, probabilmente, consiste nel fatto
che il corpo «tollera che lo si veda, già in vita, come un oggetto materia-
le, inanimato, come una specie di macchina complicata», ma proprio
perciò l’essenziale di esso scompare dallo sguardo, perché «tutto ciò che
chiamiamo la nostra corporeità, fino all’ultima fibra muscolare e alla più
recondita molecola ormonale, appartiene essenzialmente ed intimamen-
te all’esistere»36. Dell’esistere è proprio che l’uomo non vive e poi si rela-
ziona mediante la coscienza a quello che vive e a quello che di volta in
volta incontra, bensì che egli muove incontro a ciò che gli si rivolge;

34 Nonostante le ripetute annotazioni di imbarazzo e smarrimento, va debitamente ri-

cordato che Medard Boss, il medico che ha propiziato i seminari di Zollikon, parla, asso-
ciandosi a Binswanger, di un «inestimabile significato della ontologia fondamentale di
Martin Heidegger per la medicina in generale e per la psichiatria e la psicoterapia in parti-
colare» (appendici riportate in M. Heidegger, Seminari di Zollikon, cit., p. 426). Per noi, qui,
non è in discussione la potenza liberatoria del pensiero heideggeriano, ma l’urto di quel
che non si libera mai in alcun pensiero, quel che non è mai libero, e di cui il pensiero non
può liberare. Salvo ometterlo, cioè sfuggirgli, con la propria potenza.
35 Ivi, p. 337.
36 Ivi, p. 338.

183
Marco Russo

qualcosa gli si rivolge, gli si apre innanzi perché egli vi è rivolto, vi è a-


perto. Una siffatta circolarità dice almeno tre cose: che la vita accade
all’interno di questo circolo, il quale è perciò un ek-sistere, un movimen-
to; che è tale esistere senza fondo a dover essere compreso, senza stabili-
re né un primato dell’uomo, né delle cose, né una dialettica soggetto-
oggetto, giacché niente è «dato» e a niente si deve arrivare (magari me-
diante negazioni determinate e determinanti) in termini di fondazione o
di essenze ultime; che c’è una totalità, ma al modo, nei molti modi, del
verbo essere37. Per una coazione ormai millenaria insita nella finitezza
dell’esistere l’essere, dello stare nel circolo, invece di lasciare avvenire
l’essere e rapportarsi all’enigma del suo manifestarsi nascondendosi, la
manifestazione viene fissata in pura presenza, in dati evidenti (laddove il
nascondimento è ciò che aspetta di essere solo ancora conosciuto, dato),
e il rapporto diventa un calcolare, un dare fondo al dato in base ad una
misura ora soggettiva ora oggettiva. Il caso del corpo umano è a riguardo
esemplare. La sua massiccia «corposità» (Körperhaftigkeit) lo destina ad
esser preso alla stregua di un che di materiale e di semplicemente presen-
te, inabitato da un che di immateriale; sicché esso ora è l’incarnazione di
uno spirito, ora ne è il ricettacolo o la veste visibile. Come l’essenza i-
dentificativa o causativa o fondativa di una qualunque cosa semplice-
mente-presente, lo spirito viene ricavato dalla corposità, e tipicamente
per negazione, onde poi stabilire i loro rapporti (subordinanti, sintetici,
oppositivi, dialettici ecc.). L’essere del corpo, per quanto «psichicizzato»
o «spiritualizzato», viene di conseguenza sempre mancato. «Non po-
tremmo neanche essere corporei, come noi siamo, se il nostro essere-nel-
mondo non consistesse fondamentalmente, di un sempre già percettivo
esser-rapportato a ciò che, a partire dall’aperto del nostro mondo, in
quanto quale aperto noi esistiamo, ci-si-rivolge-assegnandocisi»38. L’es-
senza del corpo è il poter-percepire; ma non è grazie alla percezione che
le cose ci si fanno presenti, bensì lo stare nell’apertura dell’essere. Par-
tendo dalla percezione, ci si è già messi sulla strada del causalismo, del
predominio ontico, della stabilizzazione della presenza, tutti atteggia-
menti che rendono semplicemente impossibile interrogarsi sull’è di una
qualunque delle cose che spiegano, sulla consistenza stessa della «pre-
senza», del poter essere percepito di qualcosa in quanto essente qualcosa.
Del resto, qualcosa che non sia misurabile, che non si tratta soltanto di
descrivere in base ad un metodo (il quale già prepara e predetermina co-
sa c’è, cosa ci può e ci deve essere), e che per definizione non è mai pre-

37 Un attento «smontaggio» dell’attacco heideggeriano all’antropologia basato sul pro-

blema dell’essere, è stato fatto segnalando sia l’incomparabilità con la trattazione aristoteli-
ca dell’essere sia con le odierne teorie linguistiche. Cfr. K. Haucke, «Anthropologie bei
Heidegger. Über das Verhältnis seines Denkens zur philosophischen Tradition», in Philoso-
phisches Jahrbuch, 105, II, 1998, pp. 321-345.
38 M. Heidegger, Seminari di Zollikon, cit., p. 339.

184
Animalitas. Heidegger e l’antropologia filosofica

sente né alla mente né ai sensi, risulta inaccessibile alla scienza, è per es-
sa un monstruum. Perciò Heidegger invita i suoi interlocutori al «difficile
compito» di riportare il corpo nella dimensione dell’esistere, giacché
l’esistere è il luogo, il movimento del venire alla presenza del-
l’impercettibile «essere». Nell’esistere scorgiamo che il corpo, altrettanto
che gli organi (abbiamo occhi, orecchie… perché siamo di essenza visi-
va, uditiva) è essenzialmente un essere disposti verso…, ma nel modo
dell’avere rapporto con ciò verso cui siamo disposti, ovvero con ciò che
ci si mostra. Siccome, peraltro, il mostrarsi è l’essenza del linguaggio, è
chiara sia la differenza con la corporeità animale, sia il ruolo fondamen-
tale del linguaggio per la comprensione della nostra corporeità. Con la re-
stituzione del corpo all’esistere, ritroviamo innanzitutto proprio l’ele-
mento decisivo della comprensione, che è il modo in cui ci muoviamo,
cioè ci rapportiamo, nel circolo dell’esistere. Quando qualcuno fa un
gesto, o arrossisce, noi lo comprendiamo muovendo dalla pre-com-
prensione che ne abbiamo e dal sentirci appellati da esso (anche se non
ci riguarda immediatamente). D’altra parte, chi fa il gesto o arrossisce, lo
fa perché il suo è sempre un essere-con-altri, uno stare nell’orizzonte di
comprensione di accadimenti che lo appellano. Non sono i meccanismi
fisiologici, né una qualche espressività da essi veicolata, che possono
spiegare il significato del rossore o del gesto, e non è da essi che chi guar-
da il gesto e il rossore si sente appellato. Qui, insomma, «non accade al-
cun esser-corpo [Leiben]»39, perché il Leiben discende dalla dimensione
più ampia dell’essere nel mondo, cui appartiene intrinsecamente il com-
prendere. Proviamo a guardare tutto ciò direttamente dal lato del corpo,
cercando di illustrare come e perché esso va situato nell’esistere. Suppo-
niamo che io indichi la crociera di una finestra. Concentrandoci su quel
che vediamo, sul fenomeno, dovremo dire che mi estendo sino alla fine-
stra o che termino sul confine fisico delle mie dita? Evidentemente no.
Dunque, io non termino nei confini del corpo, né il corpo è il mio con-
fine identificante o localizzante. Ma allora «io» non va inteso come sog-
getto di un possesso materiale, il «mio» corpo fisico. Così, invece di par-
tire dal corpo fisico e dalla conseguente sostantivazione di un «io» agen-
te in e per suo mezzo, dovremo sciogliere entrambi nell’Esserci, dove il
dito che indica (il corpo) e la finestra diventano il manifestarsi di una
totalità dischiusa dai modi in cui ogni volta ci sono. Il corpo e i suoi li-
miti non si estendono né mi racchiudono, bensì si aprono e si determi-
nano in rapporto a siffatta totalità, che non è neutrale o permanente, ma
dipende da dove e come sono rivolto alle cose. C’è corpo, ma nel modo
dell’esser-via, anche se immagino (mi presentifico) di essere in Africa
stando a Zollikon: «lo esser-corpo [Leiben] del corpo è quindi un modo
dell’esser-ci […] è condeterminato dal mio esser uomo nel senso del

39 Ivi, p. 279.

185
Marco Russo

soggiornare estatico nel mezzo dell’essente levato-nello slargo. Il confine


dello esser-corpo (il corpo, solo in quanto esso è-corpo [leibt], è: corpo) è
l’orizzonte d’essere, in cui soggiorno. Perciò il confine dello esser-corpo
muta costantemente con il mutamento di gittata del mio soggiornare»40.
Ne viene che tutti i fenomeni del corpo non risultano mai colti neppure
in una «fenomenologia del corpo»41, la quale è comunque sviata dalla
corposità, dal mero essere presente percettivo o psicologico, mentre è
dall’impercepibile essere al mondo che si deve partire, anche per ciò che
viene definito impulso, istinto, inconscio, emozione. Sbarazzatisi di o-
gni punto di tangenza con l’animalitas, resta l’unicità dell’uomo,«che
non può venire derivata da null’altro»42. Il corpo si dissolve. Viene meno
anche come fitta trama sensoriale, come quel «paesaggio corporeo»43 di
sfondo con cui ci sentiamo e il mondo ci è presente. Qua avvertiamo con
forza non la novità rispetto alla tradizione, ma il tardo affrancamento da
quel che in essa si imponeva ancora come da affrontare, foss’anche per
negarlo. Un fenomeno con cui misurarsi e non da eludere, sotto la ban-
diera di un travisamento metafisico della sua essenza. Ci si dovrà, in-
somma, almeno chiedere: cosa manifesta e chi lede una cruenta ferita? Se
essa pure andasse compresa alla luce della cura esistenziale, soffrirà mai
una bestia?44 O non soffriremmo tutti come bestie, abbrutiti nell’ignoto
dolore? Tutti senza orizzonte, senza angoscia, senza scelta né estasi, mu-
ti, gemendo? Tutti vittime?

4. A dispetto di una prima impressione, la parola «animale» è carica di


significati. Animal significa essere vivente, animalis essendo ciò che ha il
soffio, che respira, animans; animal e animans traducono così il greco em-
psychon e psychè. D’un sol colpo, qui si scorge nientedimeno che la linea
unente il De Anima (Peri Psyches) di Aristotele alla sezione soggettiva del-
la filosofia dello spirito hegeliana45. In essa, in mezzo e oltre, si sono ve-
nuti profilando i temi caratterizzanti dell’antropologia in filosofia, l’ani-
malitas fungendo da piattaforma o da snodo per studiare le radici viventi
dell’essere uomo. A lato e anteriormente a questo aspetto di «regno ani-
male dello spirito», l’animalitas è l’incarnazione di una natura remota e

40 Ivi, p. 153.
41 Ivi, p. 235.
42 Ivi, p. 240.
43 È la pregnante espressione ricorrente (e non casualmente esemplificata dalla rituale

domanda medica «come si sente?») in R. Damasio, Descarte’s Error. Emotion, Reason, and the
Human Brain, trad. it. di F. Macaluso, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano,
Adelphi, Milano, 1999.
44 Si tenga conto che «in definitiva l’animale non ha percezione» (M. Heidegger, Concetti
fondamentali, cit., p. 331).
45 L’arco Aristotele-Hegel, oltre che per precisi motivi teoretici, viene preso come bino-
mio-simbolo della storia della filosofia ovvero della metafisica.

186
Animalitas. Heidegger e l’antropologia filosofica

primigenia, una natura essenzialmente e in vari sensi altra da quella


culminante o eccedentesi nello spirito, quella più onirica e perturbante,
sovra- e sub-umana, che emerge nel mito, tra storia e preistoria del
mondo, nei mostruosi intrecci tra umano e ferino, nella rete simbolico-
metamorfica di dei, semi-uomini, elementi naturali e bestie (si rammen-
tino, tanto per dire, l’aquila di Zeus, i Titani, il Leviatano, la colomba
dello Spirito Santo, la dea Bastet egizia, le tauromachie…). Inutile sotto-
lineare che questi aspetti sono al centro di molti studi antropologici, al
centro di confluenza di essi e la paleontologia, la storia delle religioni, la
psicologia del profondo. Ma, trasversalmente alla storia naturale dell’a-
nima e all’animale mitico-totemico, l’animal è poi ancora il riferimento
più diretto, tramite analogie e comparazione, per comprendere l’uomo
nei suoi rapporti immanenti con la natura, intesa come processo in cui è
occorsa anche l’ominizzazione. Oltre alla problematica evolutiva, qui
acquistano specifico rilievo le modalità di convivenza (caccia, domesti-
cazione, difesa, terrore, imitazione, divinazione, osservazione) con gli
animali, le cui tracce perdurano nelle odierne problematiche ecologiche,
negli studi bio-etologici, nelle sperimentazioni medico-farmacologiche, e
in modo del tutto peculiare nella curiosità «da zoo», dove tra fascino e
repulsione l’animale fa riecheggiare le sterminate antichità da cui origina
la vita. In questa eco c’è anche l’animale come vittima, nel significato
enunciato all’inizio: il capro espiatorio, il circolo della violenza,
l’ambiguità dell’essere-dominati, l’urto dell’altro da cui siamo incalzati.
Innocente, bruto, puro, bestiale, divino, inferiore, superiore, reale, im-
maginario, l’animale, con la sua prossimità e distanza, con il suo essere
dentro e fuori di noi, ha dunque da sempre un ruolo fondamentale – il
che non significa lineare, uguale, schematico – nell’esperienza umana e
per la sua comprensione46. Simile ruolo dipende forse da un qualche ir-
rigidimento metafisico? Ammettiamo che sia così e vediamo cosa ci re-
sta nella rivisitazione heideggeriana. La sua analisi del «mondo» animale
non sembra andare molto più in là dei testi biologici utilizzati. Lo stor-
dimento come condizione di possibilità di tutto il comportamento ani-
male e come essenza dell’organismo racchiuso nella sua «proprietà»,
l’essere aperto dal «per» organismico ma poi circondato dal relativo cer-
chio disinibente, talché l’ape «conosce i fiori a cui fa visita» ma non li
conosce «in quanto tali», ebbene questi risultati davvero non aggiungo-
no, ma se mai semplificano riconducendo ad «essenze» i risultati della
ricerca biologica dei primi decenni del ’900. Per esempio, deducendo
dall’essenza dell’organo che cos’è l’organismo e dunque che cos’è la vita,
si elude lo spinoso problema di una definizione minima di «vivente», di
cosa, come e perché esso si distingua dai meccanismi ricorsivi e di retro-
azione di una entità su se stessa (validi per un cristallo, per un circuito
46 Cfr. il bel volume di E. de Fontenay, Le silence des bêtes. La philosophie à l’éprouve de
l’animalité, Fayard, Paris, 1998.

187
Marco Russo

elettrico o per un gene), dalle leggi d’invarianza morfologiche o biochi-


miche; ieri come oggi, si tratta di domande cruciali della biologia, rese
possibili proprio per l’accavallarsi di aspetti «meccanici», di proprietà
«organizzanti» della materia e specificità degli organismi viventi. Sono le
domande sollevate dai passaggi (le soglie differenziali o di ibridazione)
dal minerale al vegetale e dal vegetale all’animale, insieme alla loro inte-
grazione nella «biosfera». Che poi manchi anche un accenno perlomeno
al senso della distinzione tra insetti e mammiferi, o tra primati e proto-
zoi, è una lacuna forse implicitamente avvertita dallo stesso Heidegger,
quando riconosce di non aver trattato la «processualità» del vivente47. In
essa, assieme a quello delle fasi della vita, si aprono temi come il rappor-
to tra tempo del mondo e tempo della vita, la sussistenza o meno di una
temporalità «animale», l’evoluzione e l’adattamento, il sistema di scam-
bio e di chiusura ambientale di ogni organismo, le metamorfosi… Si
può, certamente ma non ovviamente (sennò, a ché tanto scrupolo per
interpretare il comportamento delle api?), obiettare che il livello e i fini
del discorso heideggeriani sono altri, e innanzitutto quelli richiesti per
comprendere la vita «a partire da se stessa nel suo contenuto essenziale»48. Il
fine è la comprensione della vita, l’essenza è il livello di discorso. Quin-
di è perché si è di essenza visiva che si vede; è iscritto nell’essenza dello
stordimento (Benommenheit) cos’è il comportamento animale (Benehe-
men), è dal conseguente lottare dei cerchi ambientali (Ringen der Umrin-
gen), che risiede l’essenza dell’autoconservazione, la quale, siccome esibi-
sce un «intimo carattere dominate del vivente all’interno dell’ente in ge-
nerale» cioè «un’intima superiorità della natura su se stessa, la quale vie-
ne vissuta nella vita stessa»49, risulta accerchiare (umringen) noi stessi,
menando al rilievo finale che «ci sono specie fondamentali della manife-
statività dell’ente e dunque specie dell’ente in quanto tale. La conoscen-
za che ci sono specie fondamentalmente diverse dell’essere stesso e di conse-
guenza dall’ente, si è rafforzata in noi proprio grazie all’interpretazione
dell’animalità»50. Per quanto calzante possa essere sul piano della con-
ferma di cose intuite o scientificamente ipotizzate, non sembra che par-
lare o tradurre in termini di essenze illumini o faccia scoprire granché
del cosmo animale. Risorge così il sospetto che l’«analisi molto impac-
ciata»51 di esso, dipenda da un atteggiamento teoretico che per un verso
ha già escluso la diretta rilevanza e la differente accessibilità di un tema

47 Cfr. M. Heidegger, Concetti fondamentali, cit., pp. 338-341.


48 Ivi, p. 249.
49 Ivi, p. 355.
50 Ivi, p. 353.
51 Così J. Derrida, Geschlecht I et Geschlecht II, Galilée, Paris, 1987, trad. it. di G. Scibilia e

G. Chiurazzi in Id., La mano di Heidegger, Laterza, Roma-Bari, 1991, p. 49. Cfr. anche Id.,
De l’Esprit. Heidegger et la question, Galiée, Paris, 1987, trad. it. di G. Zaccaria, Dello spirito.
Heidegger e la questione, Feltrinelli, Milano, 1989, p. 59.

188
Animalitas. Heidegger e l’antropologia filosofica

che non sia l’essere-al-mondo dischiuso dall’uomo; per l’altro, non vo-
lendo né potendo limitarsi all’esegesi della tradizione filosofica e sen-
tendosi perciò obbligata a interpellare i dettami delle scienze, risulta im-
produttiva, fenomenologicamente bloccata52, incapace di sollevare pro-
pri interrogativi sui fenomeni vitali, sulla loro pur riconosciuta pre-
potenza materiale, e su quella simbolica, del tutto ignorata (il leone è il
coraggio, e il nido di api potrebbe essere un abitare). Sospendendo per
un attimo la propria assoluta autonomia, la filosofia si volge alla biolo-
gia per riconfermare che il vivente pertiene solo alla biologia e alla filo-
sofia solo l’essere. Viene così definitivamente escluso che la «vitalità», gli
impulsi, la «stordita» e «stordente» meccanica dei corpi, possano mettere
in discussione e possano scuotere («afferrare» insieme alle tonalità affet-
tive e diversamente da esse) la meditazione sull’essere. L’emozione filo-
sofica, o metafisica, non prevede attriti esteriori; la sua concentrazione
non tollera la dispersione dei corpi, non prevede altre collisioni da quel-
le con la lingua e con la «cosa» del pensiero53. Dovremo tornare su que-
sto nesso stretto che riscontriamo tra meditazione, autonomia dell’ana-
lisi ontologica, autonomia del destinale o metafisico accadere, e rimo-
zione dell’animalitas (anche sul piano di una mobile indagine filosofica,
di uno scontro interrogativo – Auseinandersetzung – con suoi significati).
Per ora è sufficiente costatare che, in fondo, il fine dell’analisi essenziale
heideggeriana era mostrare proprio l’impenetrabilità di quello che solo
più vive, ossia dell’animale inteso come il modo d’essere dell’assentarsi.
In quanto tale, «specie fondamentalmente diversa dell’essere stesso» che in noi
viene a manifestazione, parlare in qualunque modo di animalità a pro-
posito dell’uomo è un controsenso. Se, invero, è per l’esserci che l’ani-
male si fa presente nel modo dell’assenza, parlare di animale umano si-
gnifica contemporaneamente ignorare le condizioni di possibilità
dell’esser-presente e presumere di sapere troppo su cos’è l’animale.
Quest’ultima sarebbe potuta essere una sollecitazione a guardare più at-
tentamene e liberamente l’animale. Esso: la cosa che non pensa; la x che
può soltanto vivere e cessare di vivere. Invece diventa di fatto un peren-
torio hic sunt leones. In modo ancor più acuto che nei rilievi di sostanzia-
le contiguità con il dualismo o antropocentrismo che legherebbero Hei-
degger alla tradizione metafisica da lui combattuta54, qui si spalanca

52 Cfr. D. Franck, «L’être et le vivant», in Philosophie, 16, 1978, pp. 87 sgg. Cfr. anche M.

Haar, Le Chant de la terre, L’Herne, Paris, 1978. La povertà è del pensiero heideggeriano o
dell’animale? c’invita a chiederci l’autore, che peraltro ritiene incompatibile l’Aperto ril-
kiano con l’esperienza ontologica dell’aletheia (ivi, pp. 69 sgg.).
53 Sulla semantica negativa della dispersione in Heidegger, cfr. J. Derrida, La mano di

Heidegger, cit., p. 18 sgg. Sull’impossiblità di pensare il corpo vivente e l’incarnazione


dell’essere a partire dall’impianto temporale della filosofia heideggeriana, cfr. la severa ana-
lisi fenomenologica di D. Franck, Heidegger et le problème de l’espace, Minuit, Paris, 1986.
54 Oltre ai già citati testi derridiani, si veda ancora di Id., Marges de la philosophie, Minuit,

Paris, 1972, trad. it. di M. Iofrida, Margini della filosofia, Einaudi, Torino, 1997, pp. 155-

189
Marco Russo

davvero un abisso «ontologico» tra vita ed essere, uomo e mondo, la cui


controparte positiva è data da un loro stare insieme nella Quadratura di
terra e cielo, umani e divini, lasciando accadere la physis nel suo cammi-
no dis-velante «da se stessa a se stessa»55. L’abisso ontologico impedisce
l’omologazione della differenza sulla mera presenza e fa segno alla giusta
maniera di abitare il mondo (la Quadratura). Da questo punto di vista, il
cammino heideggeriano non costa solo la perdita di una riflessione at-
tenta e penetrante dell’animalitas e di come l’Occidente l’ha pensata,
quando il pensiero ancora si misurava con l’essere che c’è. Ma cancella le
tracce stesse di un altro più grande cammino, cioè quello che chiamia-
mo ominizzazione56: l’intreccio e lo scontro dei corpi animati con la (lo-
ro) natura, per potere comunemente abitare la terra. Anche proprio la
valutazione dei costi del cammino heideggeriano verso un diverso «u-
manesimo»57, consentono tuttavia, come si diceva, una migliore presa di
coscienza critica da parte del discorso antropologico. Detto in breve, il
confronto con Heidegger dà per contraccolpo una spinta decisiva a rein-
vestire di significato l’ominizzazione, che qui abbiamo preferito chiama-
re con la parola animalitas, in virtù della sua stratificata e ambigua valen-
za, in grado di fare da ostacolo contro ogni fittizia semplificazione pro-
veniente dalle scienze o da visioni del mondo più o meno filosofiche,
più o meno religiose. Il recupero dell’animalitas dall’abisso ontologico in
cui la proietta Heidegger può così anche mantenere desti i motivi che lo
hanno indotto a identificare e a denunciare l’appiattimento di uomo e
mondo in immagini senza spessore, di pronto uso, acriticamente irrifles-
se o decisamente ideologiche.

185. Una illuminante, quanto sorprendente, comparazione tra la «filosofia della natura»
heideggeriana del ’29 e la sezione dedicata all’Oggettività nel terzo libro della Scienza della
logica hegeliana (lì pietra, animale, uomo, qui meccanismo, chimica, teleologia) la fornisce
V. Vitiello, Topologia del moderno, Marietti, Genova, 1992, pp. 108-123. La perfetta conti-
guità di Heidegger con l’episteme «nichilistica» occidentale, che l’autore evidenzia, noi
però la leggiamo qui come affrancamento da una persistente prosa del mondo e come e-
stenuazione del lavoro del concetto. Cfr. anche Id., Non dividere il sì dal no. Tra filosofia e
letteratura, Laterza, Roma-Bari, 1996, pp. 35-48.
55 M. Heidegger, Vom Wesen und Begriff, trad. it. cit., p. 253. Della Quadratura si parla in

vari passaggi dei Saggi e Discorsi; qui richiamiamo quello dove si effettua il gioco lessicale
su Ring, che sta in evidente rapporto con gli Umringe del corso del ’29. Tuttavia mentre lì
essi incatenavano dall’esterno l’uomo, ora si tratta di un «giro» «docile e flessibile» in cui i
quattro sono inanellati (cfr. ivi, trad. it. cit., p. 120).
56 All’osservazione che la terra è più antica dell’uomo, Heidegger replica che ciò lo si

può dire «solo in quanto noi stiamo nello slargo dell’essere e all’essere appartiene l’essere-
esser-stato, lo “esser-prima”» (Id., Seminari di Zollikon, cit., p. 254). Che ci possa essere una
preistoria umana, dunque un problema di temporalizzazione prima della temporalità esta-
tica, altra da essa, non viene neanche sfiorato.
57 Cfr. M. Heidegger, Segnavia, cit., pp. 295 sgg.

190
Animalitas. Heidegger e l’antropologia filosofica

5. Molte delle obiezioni che abbiamo fatto sinora furono mosse ben
presto soprattutto da chi, anche tra gli allievi di Heidegger, riteneva in-
sufficiente l’ontologia fondamentale e l’analitica esistenziale sia per la
comprensione della vita sia per la comprensione di «tutto l’uomo»,
dell’uomo preso nell’interezza delle sue manifestazioni e dei suoi condi-
zionamenti effettivi. I due piani vanno insieme perché, come rilevò
Helmuth Plessner, se «vita» era diventata la parola «redentrice»
dell’epoca58, lo era diventata in quanto attraverso di essa la filosofia ri-
scopriva il terreno per una rivisitazione della propria storia e, di qui, per
rivisitare la parola «uomo» resa via via sempre più astratta (soggetto logi-
co, trascendentale, fenomenologico, sociologico, economico, fisiologi-
co…). Più Heidegger ne voleva esorbitare, più quel terreno diventava il
campo polemico contro di lui. Non è così un caso se Georg Misch giu-
dica «statica», «teocratica» e «gerarchica» la filosofia heideggeriana poiché
basata e operante con concettualizzazioni (le categorie ermeneutico-
esistenziali)59 che subordinano la vita all’essere, lasciando inesplorata la
genesi stessa del concetto o dell’esperienza di ciò che nominiamo essere,
e lasciando smezzata la circolarità tra essere ed ente, poiché quest’ultimo
è preso appunto sempre come indice ontico e mai come questa o quella
determinata concrezione storico-empirica in grado di far presente il suo
essere qualcosa, l’effettività del suo differenziarsi, la sua tesa differenza
ontica. Tutta sbilanciata dal lato ontologico, la circolarità spegne la «ten-
sione vitale» (formarsi, trasformarsi e dileguarsi di qualcosa, individua-
zione e perdita di individualità), la tensione di qualcosa che precede fa
da condizione della stessa verbalizzazione filosofica, sempre già neutra-
lizzante, generalizzante (= essere). Mancando sia un’analisi delle diverse
formazioni o forme di manifestazione, dei diversi enti, sia una fenome-
nologia genetica della costituzione della «cosa», Heidegger formalizza il
circolo e può rinunciare a esplorare la rete stratificata di rapporti in cui
anche il logos filosofico si muove. La discorsività filosofica diventa essa
l’originario, perciò non ha bisogno d’altro che penetrare se stessa. Più
che un problema di ancoraggio o di fondazione, il «terreno» reclamato
da una simile critica mira dunque a vedere dove e come opera la filoso-
fia, cioè quell’atteggiamento per cui possiamo e siamo spinti a porre
domande su noi e sul mondo, e sul domandare medesimo. La filosofia
non è né autonoma, né originaria; dietro e sotto di essa c’è dell’altro, e
c’è non grazie e attraverso l’essere, la parola-evento essere, ma urtandoci,
condizionandoci, obbligandoci e al tempo stesso sostenendoci. Dovreb-
be a questo punto risultare chiara l’insistenza su natura e corpo, su storia
e sovrastoria, su mondo e animalità da parte degli antropologi, e chiaro

58 H. Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch (1928), De Gruyter, Berlin, 1975,
p. 3.
59 Cfr. G. Misch, Lebensphilosophie und Phänomenologie (1929-1930), Wissenschaftliche
Buchgesellschaft, Darmstadt, 1967, pp. 33, 62, 178.

191
Marco Russo

il perché Heidegger doveva sembrare loro troppo, per così dire, filo-
logico. Se del resto proviamo a fare un rapido sondaggio, troviamo, da
angolature che qui non possono essere approfondite, immediato riscon-
tro. «La semplice domanda sul perché l’esserci si getti in tutte le sue occupazioni
dominate dalla ‘cura’, perché si affanni giorno e notte, questa domanda che ri-
guarda non già la “condizione di possibilità”, ma la “condizione di ne-
cessità” (della cura), è semplicemenete tralasciata», sicché Heidegger «non
perviene mai alla natura […] In pratica il suo esserci non conosce nes-
suna concupiscentia, nessun istinto, non sa che cosa sia il mal di denti»60.
Oskar Becker ritiene di dovere affiancare alla analisi del Dasein,
un’analisi del Dawesen, all’ontologia una «para-ontologia»: uomo e
mondo sono presenti in una modalità parallela e concorrente a quella
dischiusa dall’essere esistenziale, un lato indeducibile da essa, sotto- e
sovrastante, eternamente contemporanea. Come è vero che nel mero
darsi di qualcosa, si va incontro e ci viene contro alcunché che nel suo
stesso inafferrabile provenire-da è invisibile, spirituale, non concreta-
mente presente, altrettanto è vero che siffatto invisibile ha un certo pro-
filo, si fa avvertire, ha alcunché di corposo (leibhaft), una propria – neces-
saria, in tutte le valenze della parola – presenza (an- e da-wesend)61. La pa-
ra-ontologia si occupa di questo necessario constare, dove essere ed ente,
essenza e esistenza, provenienza e presenza, movimento e permanenza,
coincidono essenzialmente, senza possibile differenza come l’aplun a-
nankaion aristotelico62. I decorsi biologici e quelli astronomici, il battito
cardiaco e i cicli stagionali, la chiusa ripetizione e il numerare in serie
infinite, le più primitive, inarticolate, pulsioni e le perfette forme geome-
triche o artistiche, sono esempi di una coincidenza o indifferenza co-
smica, essenziale, naturalmente necessaria, che è sempre essente, sempre
attuale anche nell’Esserci, c’è indifferentemente in- e a ognuno di noi. «Il
rapporto dell’Essenteci [Dawesend] al cosmo è del tutto diverso dal rap-
portarsi dell’Esserci [Dasein] al mondo. Il primo è un’adeguata commes-
sura (simmetria, armonia, proportionalitas, convenientia), il secondo un
protendersi-verso (tonos, intentio). Il primo non è affatto una diminuzio-
ne del secondo né il secondo è una intensificazione del primo; sono en-
trambi di genere completamente diverso». Perciò: «inseparabilmente e
contemporaneamente intrecciate con la trama dell’Esserci esistente do-
minano altre potenze, la cui comprensione è impossibile [all’analisi esi-
stenziale, NdT], sottraendosi innanzitutto proprio alla considerazione
ermeneutico-fenomenologica che interpreta l’essere»63. Anche Karl Lö-

60 G. Anders, «Heidegger esteta dell’inazione», trad. it. di N. Curcio in Micromega, 2,


1996, pp. 197, 200.
61 Cfr. O. Becker, Para-Existenz (1943) in Id., Dasein und Dawesen. Gesammelte philosophi-
sche Aufsätze, Neske, Pfüllingen, 1963, pp. 69, 102.
62 Cfr. ivi, p. 81. Il riferimento aristotelico è a Met. V, 5, 1015b, 11-12.
63 Ivi, pp. 98, 92.

192
Animalitas. Heidegger e l’antropologia filosofica

with preferisce parlare di «natura dell’uomo» e non di «essenza della real-


tà umana», per evitare che s’intenda la natura a partire dall’uomo, dalla
sua storicità, dalla differenza tra essere ed ente o tra divino e umano,
mentre natura indica un cosmo «sovrumano e assolutamente autono-
mo», perché «non è un mondo per noi»64. Possono cambiare i modi di
stare al mondo, di interpretarlo; si può modificarlo con la tecnica, alte-
rarne dei tratti, ma esso ha una sua sussistenza, suoi rapporti, un suo de-
stino, «lo spazio cosmico non si può ridurre ai posti, luoghi e contrade
ordinati nello spazio da noi uomini, come se andasse compreso solo in
senso privativo, dalla mancanza di carattere ambientale […] Gli elemen-
ti stessi, per esempio la potenza del fuoco e dell’acqua, non si possono
comprendere in modo adeguato rifacendosi alla regolazione di un fiume
o a un impianto di riscaldamento»65. Se il mondo trova o rispecchia il
suo nullo fondamento nella libertà umana, se esso si schiude solo nel no-
stro «in vista di», nella connessione di rimandi con cui l’incontriamo,
ovvero nello «in quanto» antepredicativo che prepara il linguaggio, cessa
di essere mondo naturale. «Nell’uomo l’Esserci, privo di corpo e asessua-
to, non può rappresentare nulla di originario, se esso sorge soltanto nella
situazione limite dell’angoscia dell’essere-nel-mondo, da una sua “tra-
sformazione” dell’uomo concreto in puro Esserci»66. Originario è l’essere
generati, non l’esser-gettati; è il bisogno di mangiare, non la cura; il so-
stenersi in piedi e l’essere sostenuti dal suolo, non il progettare; la paura,
non l’angoscia; il desiderio, non l’essere-per-la morte. Queste ed analo-
ghe inversioni di «originarietà» rispetto alla disposizione dell’ontologia
heideggeriana, non rappresentano una futile competizione su quel che è
più fondamentale o trascendentalmente inderivabile, né tantomeno un
ritorno allo stupore primigenio, se non addirittura al buon senso e
all’evidenza. Sono, piuttosto, l’indice problematico per il fatto che la tesi
della privatività del mondo naturale è una posizione logico-ermeneutica,
una tesi filosofica, che è a sua volta riflesso del fatto che i termini origi-
nari «nascita», «nutrizione», «star in piedi»…, per noi ci sono, sono espe-
riti ed esperibili, tematizzati e tematizzabili, solo indirettamente, dopo,
per hiatum, attraverso mediazioni discorsive, significanti, simboliche, isti-
tuzionali: le forme con cui l’uomo si rapporta alla natura, le forme
dell’ominizzazione effettuatasi lungo i millenni. Quando si ontologizza
questa «indirettezza», facendone una proprietà dell’essere che si manife-
sta e si nasconde, la natura e le forme umane diventano appendici empi-
riche dell’apertura esistenziale e della metafisica che custodisce l’accade-
re di quest’apertura. Che non siamo fame, sesso, desiderio, sofferenza,
ma li abbiamo, vi ci rapportiamo, non autorizza a fare del rapporto la
64 K. Löwith, Mensch und Menschenwelt (1960), trad. it. di A.L.K. Giavotto, in Id., Critica
dell’esistenza storica, Morano, Napoli, 1967, pp. 359, 342.
65 Ivi, p. 341.
66 Ivi, p. 266.

193
Marco Russo

condizione ontologica assoluta, perché questa inverte e dimentica la


«cosa» che ci spinge a rapportarci, e con cui (in senso anche strumentale,
di mezzo) dobbiamo fare i conti, andare in-contro. Tanto sull’asse dia-
cronico tanto su quello sincronico, la «cosa», la «condizione trascenden-
tale», l’aplun anankaion, è il corpo animale, in quanto solo con esso e in
esso, sulla «forbice» paleontologica e fenotipica che divarica il nostro
esserlo e il nostro averlo, scopriamo che cosa è l’essere presente e il man-
care, che cosa è il semplicemente (aplos) così, la necessità, l’ostacolo, e
che cosa la differenza, il possibile, l’aggirabile. Ecco allora, di nuovo,
doversi rilevare che «ciò che manca al concetto di esistenza, ciò di cui
esso non tiene conto, è l’immensa concatenazione tra il modo umano di
essere e l’organismo dell’uomo. La corporeità, come momento struttura-
le dell’esistenza concreta, con la quale si deve confrontare e che la per-
vade con tutti i suoi diversi modi di disponibilità e di resistenza, non
assume rilevanza in quanto corpo. L’analisi dell’esistenza elimina il fe-
nomeno umano come problema della corporeità nella sua fattualità. Gli
rende impossibile trovare aggancio al mondo fisico […] Al posto delle
leggi della coscienza, abbiamo adesso le leggi dell’esistenza nel cui oriz-
zonte compaiono le immagini concettuali già elaborate dal trascendenta-
lismo, trasformate in differenziazioni ontico-ontologiche»67. Mentre con
queste obiezioni Helmuth Plessner si pone in linea oltre che con le altre
voci sentite, anche con critiche più interne che abbiamo qui e lì richia-
mato in nota, vale menzionare un sua ulteriore argomentazione trascen-
dentale: «esistere può solo ciò che vive, a qualunque livello. Chiudersi a
questo e fondare la vita in una delle sue possibilità, cioè nell’esistere, si-
gnifica far valere come unica legittima direttiva per un’antropologia con
intento filosofico, il potere autoreferenziale dell’uomo di domandare su
sé stesso. Si può però cominciare dai criteri essenziali della vitalità e non
dipanare, come fa Heidegger, la domanda a partire da chi pone la do-
manda, ma in certo modo dal basso, nella prospettiva complessiva della
vita […]. Cosa fonda l’esistenza? Se non si può dare risposta, allora i ca-
ratteri esistenziali non devono coincidere semplicemente con quelli del-
la vita, ma neanche possono contraddirli»68. Qui sono impliciti, come
già in Misch, due motivi: le condizioni di possibilità del manifestarsi
dell’essere non possono dir nulla sulle condizioni di possibilità
dell’essere vivente, mentre l’inverso sembra plausibile; il vuoto trascen-
dentale in cui viene lasciato il fatto della vita, diventa lo spazio della
manifestazione dell’essere e la legittimazione del vuoto medesimo, da
cui discende anche una metafisica che ha solo in se stessa le proprie ra-
dici, o condizioni di sussistenza. Chiudiamo con Plessner il nostro son-
daggio tra gli antropologi perché, proprio misurandosi con Heidegger,
67 H. Plessner, Diesseits der Utopie, Diederichs, Köln, 1966, trad. it. di F. Salvatori, Al di
qua dell’utopia, Marietti, Genova, 1974, pp. 196-197.
68 Id., Mit anderen Augen, Reclam, Stuttgart, 1982, pp. 133-134.

194
Animalitas. Heidegger e l’antropologia filosofica

egli ha affrontato più degli altri la questione di che cosa sia un’an-
tropologia filosofica e di che cosa la renda tale. E perché le sue risposte e
le obiezioni ad Heidegger si basano su una nodosa e articolata filosofia
della natura, con al centro il corpo e il concetto di limite-confine da esso
ricavato e da esso incarnato. Dunque si basano su quello che non c’è o è
messo a tacere nella radura linguistica dell’essere, e che una volta di più
l’antropologo, trovandoselo immancabilmente davanti, urtandoci sopra,
non può che rimarcare. L’animalitas resterà sempre una parola e non lo
sarà mai soltanto.

195

Potrebbero piacerti anche