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Filosofia

Dal lat. philosophia, gr. φιλοσοφια, comp. di φιλο- «filo-» e σοφια « sapienza».

a) Riflessione critico-razionale sugli aspetti più generali del reale e dell'attività intellettuale e pratica
dell'uomo: il culto della f., i problemi della filosofia. Con senso più ristretto, la riflessione stessa, in quanto
incentrata su determinati problemi : f. morale, f. teoretica; la f. della storia.

b) Disciplina che ha per oggetto lo studio dell'attività speculativa in sé e nelle sue manifestazioni concrete
attraverso i tempi : facoltà di f.; professore, studente di f.; anche come materia d'insegnamento nelle scuole
medie superiori. Nel passato, uno dei gradi delle scuole medie d'indirizzo umanistico; si conserva ancora nei
seminari dove corrisponde al corso liceale.

c) Il pensiero e l'opera di un determinato filosofo; sistema filosofico; la f. di Cartesio, la f. di Hegel, ecc.

d) Il sistema dei principi essenziali e dei fondamenti dottrinali e metodologici di una determinata disciplina o
di un determinato settore dell'attività umana: f. del diritto; f. della scienza; f. della religione; f. dell'arte (o
estetica); f. del linguaggio; f. della matematica, ecc.

e) Il complesso dei filosofi e delle loro dottrine, considerato unitariamente in relazione a un periodo storico,
a una nazione, o al modo comune di porre e risolvere determinati problemi : la f. scolastica; la f. del
Rinascimento; la f. tedesca dell'Ottocento.

2. estens.

a) Insieme di principi dottrinali e di presupposti teorici sui quali un pensatore, uno scienziato, uno scrittore,
un artista, o in genere una persona o gruppo di persone fonda la propria concezione della scienza, dell'arte,
della vita stessa, e in base ai quali risolve i problemi relativi al comportamento etico e pratico: la f. del
Leopardi, la f. di Darwin, o anche la f. dei dervisci indiani, la f. degli hippies.

b) Con sign. e uso più recenti, la somma dei principi e dei concetti generali a cui si informano i programmi e
le linee direttive generali di una politica, di un'attività, di un'impresa: la f. di una grande azienda; i ministri
delle Finanze e del Tesoro hanno esposto la f. della politica economica che intendono proporre al governo; la
f. di progettazione, la f. operativa di una società industriale.

3. fig.

a) Abuso di ragionamenti astratti e sottili, soprattutto per argomenti poco importanti : fare della filosofia.

b) Serenità d'animo nel sopportare traversie, ostacoli, contrattempi, raggiunta attraverso la riflessione e il
ragionamento e spesso anche per la convinzione dell'impossibilità di modificare il corso degli avvenimenti:
accettare le disgrazie con f.; prendersela con f., ecc.
F. spicciola, buon senso, soprattutto in quanto si esprime mediante proverbi, sentenze e simili.

La f. può definirsi come una forma di sapere che, pur nella grande varietà delle sue espressioni e dei suoi
contenuti, presenta come note pressoché costanti due vocazioni: una vocazione all'universalità e una
vocazione alla prescrizione di una saggezza. La vocazione all'universalità si manifesta in due modi: la f. si
pone come una forma di sapere perfetta, comunque come la forma di sapere migliore possibile all'uomo,
rispetto ad altre inferiori, o almeno come la forma di sapere più generale e comprensiva; oppure si pone
come un sapere che trae altre forme di sapere a suo oggetto, per studiarne le caratteristiche, gli ambiti di
validità, i significati impliciti. In entrambi i casi la f. finisce per riguardare tutte le forme dell'attività umana,
che essa indaga criticamente all'interno degli ambiti individuati dalle denominazioni correnti delle diverse
discipline filosofiche: logica, etica, metafisica, estetica, filosofia della storia, del diritto, della religione, della
natura, della scienza, e cosi via.
La vocazione alla prescrizione di una saggezza si configura come indicazione di una condotta conforme ai
risultati della ricerca filosofica.

Nelle sue più antiche manifestazioni (ci riferiamo soltanto alla tradizione occidentale) la f. si presenta
come una scienza, anzi come la scienza per eccellenza, e si occupa delle origini e della struttura delle cose.
Vi troviamo affrontati problemi di varia natura, cosmologici, astronomici, biologici, etici. Nota comune ai
diversi filosofi è la ricerca del principio della realtà, di un qualcosa che stia a fondamento della molteplicità
dei fenomeni e la renda intelligibile. E, secondo la testimonianza aristotelica, per la maggior parte dei primi
filosofi questo principio è di carattere materiale : « La maggior parte di quelli che per primi hanno filosofato
concepirono come principi delle cose soltanto le cause di natura materiale; infatti dicono elemento e
principio degli enti ciò da cui s'inizia la formazione di ogni cosa, e in cui, da ultimo, ogni cosa,
corrompendosi, si risolve, mentre permane tale sostanza elementare attraverso la mutazione degli accidenti;
e per questo pensano che nulla propriamente si generi o si distrugga, conservandosi sempre tale natura... ;
ché vi dev'essere una certa natura, o una o molteplice, da cui si generano le altre cose, restando essa
immutata (Metaf. 1, 3, 983 b 6-13; 17-s8). Questo testo caratterizza molto bene il senso della prima
riflessione filosofica.

Troviamo tipicamente in Talete la considerazione dell'acqua come principio comune delle cose
(probabilmente anche sotto l'influenza del mito dell'Oceano come limite e fondamento della terra e per la
suggestione dell'effetto vivificante dell'acqua). Ma Anassimandro va oltre questa considerazione di un
principio materiale e ravvisa il «principio» in una realtà non determinabile, che chiama appunto l'illimitato e
in cui vede la causa della nascita e della dissoluzione degli esseri, il che avviene secondo necessità. Si profila
il motivo della legalità cosmica, del significato unitario della varia molteplicità dei fenomeni. Questo motivo
torna in Eraclito con la nozione di logos come legge dell'accadere e come regola dei conflitti di opposti in
cui consiste lo scorrere della vita. In Eraclito troviamo anche la distinzione di un sapere volgare e di un
sapere autentico, il primo proprio dei più, il secondo proprio del filosofo, cioè del sapiente che, oltre le
apparenze, conosce la vera natura delle cose. E « la natura delle cose ama nascondersi» (Diels-Kranz 22 B
r23). Ora la saggezza è, per Eraclito, non solo dire le cose vere, ma anche farle, ossia agire secondo le
norme suggerite dall'ordine oggettivo. E analogo atteggiamento troviamo nei pitagorici, che individuano nel
numero la sostanza delle cose e, nel contempo, un principio di azione virtuosa. « Nessuna menzogna – si
legge in un frammento di Filolao – accolgono in sé la natura del numero e l'armonia: non è cosa loro la
menzogna. La menzogna e l'invidia partecipano della natura dell'illimitato e dell'inintelligibile e dell'irrazionale
» (Diels-Kranz 44 B i). Con Parmenide di Elea, si ha una netta distinzione, anzi contrapposizione, di verità
e opinione, correlativa di una valutazione della realtà, di cui la sostanza autentica e veramente reale è
l'essere, ciò che è – con gli attributi della stabilità, dell'eternità e dell'indivisibilità – contrapposto al mutevole
e instabile mondo del divenire. Con ciò era posto il concetto di una realtà superiore, transfenomenica,
attingibile dalla ragione, in antitesi al mondo dell'esperienza ordinaria, recepito dai sensi.

Verso la metà del 5° secolo a. C, l'interesse della ricerca filosofica si sposta verso i problemi antropologici
(conoscenza, moralità). Protagonisti di questo nuovo indirizzo sono i cosiddetti sofisti (non riconducibili però
a una scuola unica), ai quali si deve anche la critica di una serie di nozioni tradizionali. Essi sono stati
paragonati agli illuministi del secolo 18° e illuministica è stata definita la loro età. La f. diventa dunque critica
della tradizione, nei suoi aspetti religiosi (agnosticismo nei confronti dell'esistenza degli dèi), etici, giuridici
(la nozione di giustizia è sottoposta a critica), politici. Alla tradizione con le sue certezze subentra la
discussione (onde la centralità della retorica, dell'arte del dire e del persuadere), con forte accento
relativistico. Anche la f. precedente si era talvolta configurata come critica della tradizione, e si pensi alla
critica della teologia antropomorfica e mitica da parte di Senofane, ma nei sofisti la critica della tradizione è
essenziale. La discussione dei sofisti però non ha, a rigore, un punto d'approdo, le manca un criterio perché
possa conchiudersi; ín certo senso è un interminabile obiettare senza affermazioni positive. Bisogna invece,
perché la discussione sia feconda, avere un criterio, dare un significato ai termini, definirli. Ed è questa
l'esigenza avanzata da Socrate, sofista anche lui in quanto fautore della discussione e della critica, ma
avversario dei sofisti e più radicale di questi in quanto sostenitore di un discorso corretto e coerente. E sta
qui la parte di verità del giudizio di Aristotele, secondo il quale Socrate è l'inventore del « concetto » o dell'«
universale ». In realtà Socrate non tematizza il concetto (in sostanza neppure Platone), ma ne esprime
l'esigenza e, semmai, tematizza la discussione: non solo discute, ma sa di discutere. In Platone coesistono
diverse caratterizzazioni, implicite o esplicite, della filosofia. Nel Simposio troviamo l'accezione etimologica
del termine (« amore della sapienza », e φιλοσοφειν nel senso di « investigare » e « ricercare »). Eros, figlio
di Penia e di Poros, è una creatura intermedia, non è povero né ricco, non è sapiente né ignorante, e, come
tale, filosofa, è « tutta la vita intento a filosofare » (Simp. 203 e). Il sapiente e l'ignorante infatti, per
opposte ragioni, non filosofano.
« Nessuno degli dèi filosofa, né aspira a diventare sapiente; lo è già, infatti; e se mai altri sia sapiente, non
filosofa. D'altra parte, nemmeno gl'ignoranti filosofano, né desiderano diventare sapienti ; ché proprio
questo, anzi, l'ignoranza ha di grave, che chi non è né onesto né saggio si crede invece perfetto. E chi non
avverte la propria deficienza non può desiderare ciò di cui non sente il bisogno» (Simp. 204 a). Filosofa
dunque chi sta in mezzo tra i sapienti e gli ignoranti, e tra questi Amore, « La sapienza infatti è tra le cose
più belle, e Amore è amore del bello; sicché è forza che Amore sia filosofo (Simp. 204 b). Nel Fedone la f.
diventa essenzialmente una riflessione sulla morte e, nel medesimo tempo, una sorta di esercitazione di
morte. L'influsso della religione orfica e della dottrina pitagorica è evidente (del resto Filolao è ricordato nel
dialogo): il filosofo desidera morire, e, nell'attesa, persegue soltanto i beni dell'anima, disprezzando quelli del
corpo nel quale l'anima è prigioniera. Ma nella settima Lettera, dopo aver parlato di alcune sue delusioni
politiche delle quali di gran lunga la più grave fu la condanna di Socrate, Platone afferma che le città sono
tutte mal governate e quindi bisognose di una riforma radicale e che « solo la retta filosofia rende possibile
di vedere la giustizia negli affari pubblici e in quelli privati ». E continua: « Vidi dunque che mai sarebbero
cessate le sciagure delle generazioni umane, se prima al potere non fossero pervenuti uomini veramente e
schiettamente filosofi, o i capi politici della città non fossero divenuti, per qualche sorte divina, veri filosofi «
(Epist. VII, 326 a-b). Questo motivo del filosofo governante è svolto nella Repubblica, dove il filosofo non si
limita a conoscere la verità, ma deve anche applicarla, in modo che lo stato sia retto « da uomini desti, e
non quasi in sogno, come sono governati i più degli stati da uomini che pugnano fra loro per ombre vane e
tumultuano per avere il potere, quasi sia un gran bene » (Rep. VII, 520 c-d). Tuttavia la vita del filosofo non
si esaurisce nel governare; lo stesso disinteresse col quale egli governa, il suo scarso amore per il potere è
dovuto al fatto che egli conosce « una vita migliore della vita politica » (Rep. VII, 521 b). Questa vita
migliore è evidentemente la vita dedicata al conoscere. Del filosofo proteso esclusivamente all'indagine
scientifica e incurante di quanto concerne la vita pratica Platone dà una tipica raffigurazione nel Teeteto. Il
filosofo del Teeteto è anche matematico e astronomo : egli « ora scende giù nel profondo della terra, ora ne
misura la superficie, ora sale su nel cielo a mirare le stelle, e tutta quanta investiga ín ogni punto la natura
degli esseri, ciascuno nella sua universalità » (Teet. 173 e, 174 a). Si accentua così non il momento della
ricerca, ma quello del possesso del sapere: il filosofo scopre la struttura stessa dell'essere. E nel Sofista è
identificato col dialettico, essendo la dialettica non soltanto un metodo di ricerca o un'esercitazione
spirituale, ma il nesso oggettivo che regge i rapporti tra le idee. Aristotele conferma la concezione platonica
della f. come scienza per eccellenza, superiore per profondità alle altre scienze. Le scienze studiano gli
oggetti nei loro caratteri necessari o più costanti (del contingente e dell'individuale non si dà scienza). Le
scienze particolari però ritagliano un aspetto determinato dell'oggetto : le matematiche, per esempio,
considerano gli oggetti sotto ii profilo del numero e della figura. La f. invece li studia nella loro essenza più
intima, in ciò che hanno di sostanziale e che li fa essere quel che veramente sono. E la scienza dell'« ente in
quanto ente » (Metaf. IV, , 1003 a 21). Alla f. spetta anche la ricerca dei principi di cui si servono le altre
scienze, dei quali il più generale è il principio di contraddizione. Dunque la f. stabilisce i fondamenti delle
altre scienze. In questo significato specifico Aristotele chiama la f. scienza prima o f. prima o anche teologia,
e la pone accanto alle altre scienze da lui chiamate teoretiche, la matematica e la fisica, ma in posizione di
privilegio rispetto ad esse. Le scienze teoretiche sono poi superiori a quelle concernenti il fare o i produrre,
come la politica o la poetica, per maggiori esattezza, per maggiore nobiltà del loro oggetto, pe
l'autosufficienza dell'attività contemplativa (amata pe sé stessa) rispetto alle altre attività. L'oggetto
dell'attività teoretica e della f., che ne è la manifestazione più tipica, è quanto di immutabile, di eterno, di
divino si trova nel cosmo, Onde la denominazione di teologia che Aristotele dà alla f. prima. Denominazione
che però suole anche rinviare a una fase anteriore del pensiero aristotelico, nella quale la ricerca filosofica è
intesa come ricerca di una super-realtà, che precede idealmente la realtà e ne spiega il movimento. Questa
accezione più ristretta è tuttavia ricompresa in quella più generale della f. come scienza dell'ente in quanto
ente. Comunque è evidente il ruolo della f., che è ruolo di scienza suprema, indagante sui fattori ultimi di cui
le cose sono costituite. E a ciò si aggiunga l'accennata superiorità della vita contemplativa: essa è – dice
Aristotele – « la più alta; infatti l'intelletto è tra le cose che sono in noi quella superiore, e tra le cose
conoscibili le più alte sono quelle a cui si riferisce il pensiero » (Etica Nicom. X, 7, 1177 a In-20.

Il motivo della f. come ricerca della saggezza e come pratica di saggezza si presenta nella sua forma più
specifica nelle scuole epicurea e stoica, e si ritrova anche  nei cinici, nei cirenaici e negli scettici. Il
nuovo accento che la f. acquista sta nell'assunto che la verità è in funzione dell'io e che il raggiungimento
della felicità (e autosufficienza) individuale è lo scopo più importante della vita. Le formulazioni di Epicuro
sono particolarmente nette: « Nell'amore di vera filosofia si dissolve ogni molesto e inquieto desiderio » (fr.
457, Usener). O anche: « Nessuno, mentre è giovane, indugi a filosofare, né vecchio di filosofare si stanchi :
poiché ad acquistarsi la salute dell'animo, non è immaturo o troppo maturo nessuno. E chi dice che ancor
non è venuta, o già passò l'età di filosofare, è come dicesse che d'esser felice non è ancor giunta l'età o già
trascorse » (Lettera a Meneceo 122). Queste f. sorgono in concomitanza con la crisi della città antica ed
esprimono la tendenza del singolo a ritrarsi nella propria pace personale. La f. non si riduce tuttavia con
questo alla sola etica; gli epicurei ne considerano premesse necessarie la fisica e la canonica (teoria della
conoscenza), e anche gli stoici pongono accanto all'etica una logica e una fisica. Ma il fine rimane quello
della felicità-serenità del singolo. Le due saggezze tuttavia differiscono tra loro perché la saggezza epicurea
implica un uso della ragione che liberi dalla tradizione e dalla paura (il motivo della liberazione dell'uomo
dalla paura degli dèi), la saggezza stoica implica una identificazione con la ragione che è ragione cosmica, e
quindi tale saggezza porta con sé una istanza di adesione a un universo pieno, in cui è rinvenibile un fondo
razionale al di là delle apparenze irragionevoli. Anche la scuola scettica persegue il fine del vivere
rettamente, ossia del raggiungimento dell'imperturbabilità, ma, a differenza delle scuole epicurea e stoica, il
suo sapere è soltanto negativo e critico. Ogni affermazione è criticabile, perché si avvolge in contraddizioni,
e criticabili sono – come essi ammettono – le stesse affermazioni degli scettici che hanno un significato non
assoluto, ma relativo. Il ragionamento serve così a mostrare che tutto è nonsenso, e quindi l'io non afferma,
ma sente. La saggezza è sospensione del giudizio e, infine, silenzio (epoché, afasia). Nell'enunciare le sue
negazioni lo scettico « esprime quello che a lui appare, e rivela la propria affermazione senza asseverazioni
dogmatiche, non affermando nulla categoricamente circa le cose che sono fuori di lui » (Sesto Empirico,
Pyrrh. Hyp. I, 15).

Ma su queste forme di saggezza razionale finiranno presto per prevalere saggezze tipicamente religiose,
attinenti cioè non più soltanto alla felicità, ma alla salvezza individuale. E la f. acquista una coloritura
religiosa e soteriologica : anzi la f. viene identificandosi con la religione (ευσεβεια), e, in quanto la ricerca
della verità» non si sente esaurita dalla indagine logico-razionale, ma cerca di realizzarsi in una forma di
conoscenza superiore (γνωσις) che attinga realtà ineffabili e divine, tornano certe suggestioni platoniche,
ma con forti accentuazioni religiose e con l'assunzione di esperienze soteriologiche in cui è possibile vedere
influenze della cultura orientale, fattesi più vivaci nello sviluppo della civiltà ellenistica. L'incontro di ellenismo
e ebraismo è uno dei fenomeni più rilevanti di questo atteggiamento, che ebbe come suo centro Alessandria.
La traduzione greca della Bibbia, detta « dei Settanta », iniziata nel 3° secolo a. C., è una manifestazione
importante dell'incontro di queste due culture. Il rappresentante maggiore del pensiero giudaico-
alessandrino è l'ebreo Filone, al quale si deve un'esegesi allegorica della Bibbia, in modo particolare del
Pentateuco. Il metodo non era nuovo, ed era stato già applicato nell'interpretazione dei miti greci ; i risultati
vogliono mostrare un accordo di platonismo ed ebraismo. Le idee di Filone comprendono l'assoluta
trascendenza di Dio, la presenza d'intermediari tra Dio e mondo, la possibilità di attingere Dio da parte di
puri spiriti o da parte dell'uomo in condizioni speciali di estasi. Una forte ispirazione religiosa attraversa il
neoplatonismo, che vorrà presentarsi soprattutto come un ritorno a Platone: trascendenza del divino,
divisione di mondo sensibile e mondo intelligibile, ma rapporto dinamico tra i due nel quadro di una più
profonda unità. Nei più tardi neoplatonici si verrà anche, sempre più nettamente, accentuando l'assunzione
della mitologia pagana e di riti misterici, magici (in rapporto anche a un progressivo sviluppo della
demonologia) all'interno di un sistema speculativo che tende a risolvere in termini religiosi e iniziatici il
rapporto tra l'uno e il molteplice (una tipica testimonianza delle forme di saggezza filosofico-religiosa del
tardo mondo ellenistico è costituita dal complesso degli scritti ermetici). D'ispirazione neoplatonica sarà il
tentativo di restaurazione pagana promosso dall'imperatore Giuliano l'Apostata.

La f. cristiana è intessuta anch'essa di motivi religiosi e teologici: non può infatti prescindere dalle
cosiddette verità rivelate, e quindi dalla fede, e ha come suo vero oggetto Dio, nel quale soltanto il mondo e
l'io si comprendono, come la creatura si comprende nel creatore, il finito nell'infinito. Di qui diverse posizioni
sui compiti e i limiti della f. e diversi svolgimenti di essa, ma sempre all'interno del presupposto della sua
simbiosi con i contenuti della rivelazione. E stato detto che tra i pensatori medievali « non si troverebbero
che i soli averroisti pronti ad ammettere la legittimità di un esercizio della ragione, che fosse puramente
filosofico e sistematicamente sottratto all'influsso della fede » (Gilson). Pertanto « il filosofo cristiano si
domanda semplicemente se tra le proposizioni, ch'egli crede vere, ce ne sia un certo numero che la sua
ragione potrebbe saper vere ». Una posizione nettamente antifilosofica (e anticulturale) troviamo in un testo
di Paolo : « Sta scritto infatti : 'Distruggerò la sapienza dei savi, annienterò l'intelligenza dei dotti'. Dov'è il
sapiente? Dov'è lo scriba? Dov'è l'investigatore di questo secolo? Non ha forse Iddio resa stolta la sapienza
del mondo? Poiché, infatti, nella sapienza di Dio, il mondo colla sapienza propria non ha conosciuto Iddio,
piacque a Dio di salvare i credenti mediante la pazzia della predicazione. Sicché mentre i giudei chiedono
miracoli e i greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei e follia per i
gentili; ma per i chiamati, sia giudei che greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio, perché la follia di
Dio è più sapiente degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte degli uomini » (I Cor. I, 1q-25). Altrove
però lo stesso Paolo, nel parlare delle colpe dei pagani, giustamente abbandonati da Dio, allude a una
conoscibilità « naturale » di Dio attraverso le sue opere: « Si manifestò infatti dal cielo la collera di Dio
contro ogni empietà e contro ogni ingiustizia degli uomini, che tengono ingiustamente imprigionata la verità;
poiché quel che si può conoscere di Dio è cosa a loro nota, avendolo Dio manifestato ad essi. Infatti le sue
invisibili perfezioni, come la sua eterna potenza e la sua divinità, appariscono chiare dal mondo creato,
quando si considerino nelle sue opere ; quindi non sono scusabili, perché, dopo aver conosciuto Iddio, non
gli hanno dato gloria come Dio, né gli hanno reso grazie; ma si sono perduti nelle loro vane elucubrazioni e
la loro mente insensata si trovò immersa nelle tenebre » (Rom. I, 18-21). Non è lontano da queste posizioni
di principio l'apologista Giustino, estremamente conciliante verso la cultura pagana. Per Giustino quanto di
buono hanno proclamato e scoperto filosofi e legislatori pagani è stata una manifestazione imperfetta di
cristianesimo, perché coloro che hanno esercitato la ragione (λóyos) hanno partecipato per ciò stesso del
Logo che è Cristo (cfr. Apologia II, io). Atteggiamento polemico verso la f. ha invece Tertulliano, e, molto
più tardi, hanno i cosiddetti antidialettici, come Pier Damiani o Bernardo di Chiaravalle. Questi
preferiscono la limpida fede e l'amore alle sottigliezze dei ragionamenti. Pier Damiani assegna alle deduzioni
dei dialettici una limitata funzione ausiliaria rispetto alla rivelazione : « Se non di meno avviene che s'usi
della perizia dell'umana dialettica nell'esporre le Sacre Scritture, essa non deve usurpare con arroganza il
diritto di maestra, ma deve secondarle colla dovuta riverenza, come ancella va dietro alla sua padrona, per
non smarrirsi andando innanzi, e per non perdere l'intimo lume della virtù e il retto tramite del vero, con
l'attenersi all'esteriore concatenazione delle parole » (De divina onnipotentia VI). Agostino parla di un
accordo di fede e ragione e di una loro necessaria complementarità. La fede è il presupposto dell'indagine
razionale: bisogna prima credere per intendere, secondo il detto di Isaia (nella traduzione latina di cui
Agostino si serve): » nisi credideritis, non intelligetis ». Anche l'indagine razionale, il conoscere, risponde a
un comando di Dio, e perciò – continua Agostino – « cerchiamo senza posa; e ciò che, spinti da lui,
cerchiamo, con la sua guida troveremo, per quel tanto che queste cose in questa vita e da creature come noi
si possono trovare » (De libero arbitrio II, cap. II 6). Ma in questa prospettiva andrà ricordato che lo stesso
intelligere (come del resto nella prevalente cultura dell'età ellenistica) non è un semplice esercizio logico-
razionale, ma è ricerca della verità resa possibile da un'assidua assistenza divina che « illumina » la mente
dell'uomo. Di qui la mancanza di distinzione tra f. e riflessione sui dati della fede, ché anzi la prima
s'identifica con questa riflessione : l'intelletto prosegue e approfondisce la prima e fondamentale esperienza
religiosa e tende alla visione beatifica che sarà piena contemplazione della verità (cioè di Dio). Secondo
questa linea si svolge la speculazione medievale prima della riscoperta della f. aristotelica che verrà a
proporsi come frutto di una ragione « naturale s, estranea quindi (per le sue stesse origini storiche) alla
rivelazione : così Giovanni Scoto Eriugena tornerà a riprendere il tema agostiniano dell'identificazione
filosofia-religione (» la vera filosofia è vera religione e, reciprocamente, vera religione è vera filosofia » (De
divina praedestinatione I, l) e l'esercizio della ratio si trova collocato di pieno diritto nell'elaborazione di un
sistema, tutto impregnato di neoplatonismo e saldamente ancorato alla meditazione della sacra pagina cui si
applicano le tecniche ermeneutiche più proprie della scuola alessandrina. Non diversamente Anselmo
d'Aosta concepisce l'intendere come una prosecuzione della fede e quindi capace anche di ritrovare le
rationes necessariae inerenti ai misteri della fede (i quali non possono essere estranei alla ratio, perché la
rivelazione è fondata sulla ratio veritas, cioè sul verbo che, come si esprime nella rivelazione, così fonda la
ragione di ciascun uomo). E ancora questa prospettiva è valida in Abelardo e spiega l'estrema fiducia che
egli mostra nelle possibilità di una ricerca razionale nell'ambito della speculazione teologica: anche per lui la
ragione è capace di approfondire la fede perché identico, egli dice, è lo spirito di verità che ci ha resi cristiani
e filosofi (di qui anche la possibilità di ritrovare in autori pagani precorrimenti di dogmi cristiani). Ma in lui è
assai notevole non solo lo sforzo di sistemazione teologica, ma altresì il tentativo (rafforzato dalle sue
ricerche logiche) di svolgere la ricerca teologica come analisi della proprietà e dell'uso dei termini nella loro
applicazione a realtà divine. Le novità del suo metodo teologico e delle sue analisi relative al dogma trinitario
saranno i motivi della polemica svolta contro di lui dai « mistici » (e innanzitutto da Bernardo di Chiaravalle)
e della duplice condanna.

Il quadro della f. medievale cambia radicalmente (lungo il sec. 13°») con l'introduzione delle opere di
Aristotele nella cultura e nell'insegnamento universitario europeo : è a questo punto che si vengono a
definire una filosofia e una ragione naturale per loro natura estranee alla tradizione e alla ragione cristiana, e
nasce il problema dei loro rapporti con la teologia, cioè con la speculazione cristiana. Tommaso d'Aquino
compirà lo sforzo più notevole e coerente di accogliere la f. di Aristotele anche all'interno della speculazione
teologica, dopo aver distinto l'una dall'altra. La ragione è autonoma e ha la capacità di ascendere dalla realtà
sensibile alle forme di realtà più elevata, fino all'esistenza di Dio, che può dimostrare, come può dimostrarne
alcuni attributi. Al di là della ragione stanno alcune verità indimostrabili come la trinità, la creazione nel
tempo, l'incarnazione, il peccato originale. Ma il fatto che stiano al di là della ragione non significa che siano
irrazionali: la ragione ha anzi una funzione preparante all'accettazione di queste verità, perché esse non
contrastano con la ragione, rispetto alla quale sono anzi probabili (cioè non-contraddittorie): « se Dio
c'infondesse delle massime fra loro contrarie, il nostro intelletto sarebbe impedito di conoscere la verità: ciò
che ripugna a Dio » (Summa contra gentiles I, 7, 45). Dunque nessun contrasto tra verità di ragione e verità
rivelate: « Sebbene le verità della fede cristiana superino la capacità della ragione umana, pure non vi può
essere opposizione tra le verità di ragione e quelle proposteci dalla fede. Infatti i principi radicati
naturalmente nella ragione sono talmente veri, che non è nemmeno possibile pensarli come falsi ; né d'altra
parte è lecito ritenere come falsa la fede, che ha avuto da Dio conferme sì evidenti. Perciò siccome il solo
errore è contrario alla verità, come apparisce chiaramente dalla loro definizione, è impossibile che la verità di
fede sia contraria a quei principi che la ragione conosce naturalmente » (ivi I, 7, 42-43). Tale concordanza di
ragione e rivelazione non è condivisa da Duns Scoto, che considera eterogenei i loro ambiti rispettivi. Per
Duns Scoto la filosofia (intendendo con questa sempre la f. aristotelica) ha uno svolgimento suo proprio,
inconfondibile con i contenuti della religione (in ciò la sua posizione non differisce da quella degli averroisti,
che erano decisamente avversi ai tentativi di concordia tra aristotelismo e fede cristiana), e tale svolgimento
si fonda su principi assolutamente certi e dimostrazioni rigorose. Unico criterio di verità è l'evidenza
razionale: la testimonianza sensibile, inevitabile punto di partenza dell'uomo, non ha valore di verità, ma
deve essere certificata dalla conclusione razionale. Questa f. rigorosa consente di dimostrare l'esistenza di
Dio e di determinarne alcuni attributi ; ma molte proposizioni teologiche sono soltanto « credibili » e non
dimostrabili. La provvidenza divina, l'immortalità dell'anima, per esempio, non sono oggetto di certezza
razionale. E la teologia, l'ambito della fede, non ha valore speculativo ma pratico, è una guida delle azioni in
conformità con i dati della rivelazione. Una proposizione teologica, come « Dio è trino », è una verità
appunto « pratica », ossia contiene in sé la nozione del retto amore che deve rivolgersi alle tre persone. Un
ulteriore passo avanti in questo senso verrà fatto da Occam : per Occam non esistono che gl'individui, le
essenze non sono che nomi. Onde il primato dell'esperienza che sola ci fa conoscere le cose e un rifiuto di
utilizzare la ragione (cioè la ragione e la f. aristotelica) nel discorso teologico, rinunciando anche alle «
dimostrazioni dell'esistenza di Dio e dell'immortalità dell'anima; è la fede che fonda anche queste verità. Al
pensiero e alla mentalità cristiani suole farsi risalire l'origine di quella forma di riflessione filosofica che si
esprime nella cosiddetta f. della storia. La dottrina della storia come avente un senso unitario, realizzante un
arricchimento spirituale e sorretto dalla provvidenza è dottrina cristiana. Si può ricordare Ireneo e
soprattutto Agostino, che considera la vita della specie umana come quella di un solo individuo, le cui
conoscenze si perfezionano col tempo, e afferma che la provvidenza divina estende il suo intervento alle
vicende dei regni degli uomini (cfr. De civitate Dei X, 14; V, i i).

Con l'Umanesimo e il Rinascimento la f. continua ad essere quel sapere totalizzante, o almeno quel
tentativo di sapere totalizzante, che era stato fino allora. Muta però il suo accento, perché essa comincia ad
assumere quelle caratteristiche di mondanità a cui generalmente si pensa quando si parla di pensiero
moderno. Si rivolge cioè essenzialmente al terreno, all'individuale, allo storico. Ovviamente questi interessi
non mancavano nella f. e nella cultura medievale, ma non erano considerati i più importanti ed erano
nettamente soverchiati dall'interesse per il trascendente. Né, d'altra parte, può dirsi che la f. dell'Umanesimo
e del Rinascimento sia una f. irreligiosa ; al contrario. Ma l'esigenza religiosa scaturisce dalla dignità stessa
dell'uomo, dalla sua eccellenza di fronte alle altre creature, dalla sua centralità nell'universo, dal suo esser
fatto a immagine di Dio. Deriva da tutto ciò un irresistibile richiamo di tipo platonico verso una realtà
superiore. Questo nuovo atteggiamento si manifesta nella riscoperta dei classici, nella polemica contro la
logica scolastica, nella polemica contro la disputa teologica. La riscoperta dei classici non è una semplice
riscoperta filologica, ma è soprattutto una loro imitazione e insieme una creazione di un nuovo ideale di vita,
ripreso da quei modelli. La polemica contro la logica scolastica (e aristotelica) si configura come polemica
contro una disciplina astratta, nel senso di artificiosa e inutile per la ricerca. La polemica contro la disputa
teologica è anche essa polemica contro problemi insussistenti e gratuite escogitazioni mentali. A queste
forme di « astrattezza vengono contrapposti da un lato tentativi di logiche diverse, più vicine ai concreti
processi della mente e alla conoscenza psicologica dell'uomo, dall'altro la concreta esperienza religiosa così
com'è vissuta dal credente, al di qua delle aporie puramente intellettuali. Si viene affermando per questa via
il principio della tolleranza, desunto dal rilievo dei caratteri comuni alle varie fedi e dall'inessenzialità degli
elementi differenziali e di contrasto. Rientrano agevolmente in questo schema la politica di Machiavelli,
libera da preoccupazioni religiose e chiesastiche, filosofie come quelle di Nicoletto Vernia o di Pietro
Pomponazzi, l'antiaristotelismo logico di Valla, di Vives, di Nizolio, di Ramo, le teorie dell'amore di
Ficino, di Francesco Pico d'ella Mirandola, di Leone Ebreo, il naturalismo di Telesio ricercante principi
intrinseci alla natura, il concordismo religioso di Cusano, la tolleranza erasmiana.
In Francesco Bacone troviamo, come in tutto il Rinascimento, l'ideale del regnum hominis, del razionale
dominio della natura. Tale è lo scopo del sapere e dell'organizzazione anche pratica del sapere. Delle diverse
forme di sapere, ossia delle diverse scienze, Bacone offre un'enciclopedia, una sistemazione organica.
Premesso che tutto il sapere si divide in storia, poesia e f., in corrispondenza con le facoltà della mente,
memoria, fantasia, ragione, la f., scienza delle nozioni astratte, ha un triplice oggetto: Dio, la natura, l'uomo.
« Bisogna dunque dividere la filosofia in tre discipline : scienza di Dio, della natura, dell'uomo. Ma poiché le
singole parti della scienza non assomigliano a linee che da diversa provenienza si congiungano poi in un
angolo, ma assomigliano piuttosto ai rami di un albero che si dipartono da uno stesso tronco, il quale era
liscio e continuo prima di dipartirsi nei vari rami; perciò è necessario, prima di entrare nella prima divisione,
costituire una scienza universale che sia la madre di tutte le altre, e che si possa considerare, nel cammino
del sapere, come parte della via che è comune, perché anteriore a ogni separazione e divisione. Questa
scienza noi la possiamo chiamare filosofia prima » (De dignitate et augmentis scientiarum III, l). Abbiamo
dunque una f. intesa come sapere razionale e comprendente varie discipline, e la f. nel senso più stretto o f.
prima, comprendente le nozioni più generali, cioè gli assiomi validi per diverse scienze e anche lo studio delle
condizioni più generali degli enti, per esempio la ricerca del perché della sovrabbondanza in natura di certe
sostanze e della scarsezza di altre o del significato di certi esseri che stanno tra l'inorganico e la sostanza
vivente, tra il vegetale e l'animale (cfr. De dignitate et augmentis scientiarum III, l).

La f. moderna dunque si sviluppa in stretta connessione con le scienze, nei confronti delle quali il suo
rapporto è duplice : per un verso la f. vuole imitarne il rigore metodico e, sotto questo profilo, farsi scienza
essa stessa; per un altro verso pretende di avere (come si è visto in Bacone) un suo specifico campo
d'indagine che stabilisca i fondamenti delle scienze. Nella prima parte del Discorso sul metodo Cartesio
rileva il disaccordo tra i vari sistemi filosofici, segno evidente di una situazione di profonda incertezza. Onde
le altre scienze, che dovrebbero fondarsi sulla f., non potevano certo poggiare su un sostegno così
malfermo: « Quanto alle altre scienze che attingono dalla filosofia i loro principi, ritenevo che su fondamenti
così malfermi nulla poteva esser stato costruito di solido » (Discorso sul metodo I). Di tutte le scienze però
l'aritmetica e la geometria sono di gran lunga le più certe, perché, conformemente alla purezza del loro
oggetto, consistono interamente « nel dedurre logicamente delle conseguenze» (Regulae II). E evidente
perciò che « coloro i quali cercano il retto cammino della verità non debbono occuparsi di nessun oggetto,
intorno a cui non possano avere certezza pari a quella delle dimostrazioni aritmetiche » (ivi). Della sua f.,
delle Meditazioni, Cartesio dice che è una f. a prima », dedicata cioè alle nozioni più generali : « io non vi
tratto soltanto di Dio e dell'anima, ma in generale di tutte le prime cose che si possono conoscere
filosofando per ordine » (lettera a Mersenne dell' i i nov. 164o). E dice anche che le Meditazioni «
contengono tutti i fondamenti della mia fisica i (lettera a Mersenne del 11 genn. 1640. Da ciò l'immagine del
sapere come di un albero le cui radici sono la f. prima o metafisica: « Così tutta la filosofia è come un albero,
di cui le radici sono la metafisica, il tronco è la fisica, e i rami che sortono da questo tronco sono tutte le
scienze, che si riducono a tre principali, cioè la medicina, la meccanica e la morale, intendo la più alta e
perfetta morale, che, presupponendo un'intera conoscenza delle altre scienze, è l'ultimo grado della
saggezza » (Principia philosophiae, lettera all'abate Picot). Hobbes, Spinoza, Leibniz concepiscono la f.
secondo un analogo schema razionalistico (anche se intessuto di contenuti diversi), cioè come la scienza che
studia le ragioni ultime dei fenomeni, servendosi di un metodo rigoroso, mutuato dalle matematiche. Il
risultato è la determinazione di poche nozioni semplici, attraverso le quali è resa intelligibile l'esperienza. Ma
mentre in Leibniz si ha un recupero teologico, in Hobbes e Spinoza troviamo una netta separazione di f. e
teologia, perché la teologia concerne nozioni non soggette all'analisi razionale e perché ha come oggetto la
fede, il cui scopo è l'obbedienza e la pietà, e non la verità, che è l'unico scopo della filosofia. Per Hobbes la f.
non è fine a sé stessa, ma ha sempre uno scopo pratico : non ritengo – egli dice – o che uno debba
grandemente darsi cura di sapere qualche cosa per insegnarlo ad altri, se pensa di non poterne ricavare
nient'altro. Il fine della scienza è la potenza ; e il fine del teorema (che, per i geometri, è la ricerca della
proprietà) sono i problemi, cioè l'arte del costruire : insomma ogni speculazione è stata istituita per qualche
azione o per qualche risultato » (De corpore I, Computatio sive logica I, 6). In Spinoza è centrale il motivo
della f. come saggezza : la conoscenza ha un'essenziale funzione liberatrice, onde il sapiente « possiede
sempre la vera soddisfazione dell'animo » (Ethica V, propr. XLII, schol.). Una peculiare posizione è quella di
Vico, per l'asserito essenziale congiungimento di f. e filologia, del vero con il certo, in una prospettiva
secondo la quale, essendo l'uomo capace di conoscere ciò di cui coglie le « guise del nascimento », ambito
della riflessione filosofica è propriamente il mondo umano : intendendo gli eventi nel loro farsi, la f. cercherà
di cogliere in essi la « storia ideale eterna » come legge unitaria dello svolgimento del mondo umano. Con
Locke la f. assume come suo compito essenziale l'esame della validità e dei limiti del sapere, diventando
così f. critica. Prima di procedere alla costruzione di edifici metafisici occorre analizzare la nostra facoltà di
conoscere. « L'intelligenza, come l'occhio, ci fa vedere e comprendere tutte le altre cose, ma non si accorge
di sé stessa. E si richiedono molta arte e molte cure per metterla a una certa distanza, e farla suo proprio
oggetto » (Saggio sull'intelligenza umana, Introduzione, l). Il risultato dell'indagine è che l'esperienza è il
fondamento e l'origine di tutte le nostre conoscenze, e quindi la base metodica della filosofia: « mi appellerò
– Locke scrive – a ciò che ognuno può osservare e sperimentare per suo conto » (Saggio sulla intelligenza
umana II, I, l). L'esperienza ci assicura dell'esistenza di un qualcosa che chiamiamo sostanza estesa e
sostanza pensante, ma non ci consente di precisare che cosa esse sono : parlare di « forme sostanziali » è
dunque impossibile. E tuttavia possibile formulare idee generali, del tutto valide nelle matematiche e nella
morale, ed è possibile dimostrare l'esistenza di Dio. Ma la lezione di Locke (che del resto partecipava
dell'insoddisfazione di ambienti scientifici nei confronti del metodo matematico-deduttivo) fu una lezione di
cautela critica. Nella f. illuministica il suo insegnamento fu interpretato in questo senso. « Dopo tanto
sfortunato vagabondare, – scrive Voltaire – stanco, estenuato e vergognoso di aver cercato tante verità e
trovato tante chimere, ritornai, come il figliol prodigo al padre, a Locke; e mi gettai nelle braccia di un uomo
modesto, che non finge mai di sapere quel che non sa, che non possiede, a dir vero, immense ricchezze, ma
i cui fondi sono sicuri, e che gode senza ostentazione dei più solidi beni » (Il filosofo ignorante XXIX).
Analogo elogio si può leggere nel Discorso preliminare dell'Enciclopedia, scritto da d'Alembert : si può dire
che Locke – afferma d'Alembert – « creò la metafisica, pressappoco come Newton aveva creato la fisica ». E
questa metafisica è « ciò che effettivamente deve essere, la fisica sperimentale dell'anima ». Metafisica
dunque « ragionevole », ossia non più partecipe dello « spirito di sistema » del costruzionismo metafisico.
Anche in questa nuova forma però la metafisica continua ad avere l'antico ufficio di scienza delle proprietà
più generali dell'essere. « Poiché gli esseri, sia spirituali che materiali..., hanno proprietà generali, come
l'esistenza, la possibilità e la durata, l'esame di queste proprietà forma dapprima quella branca della filosofia
dalla quale tutte le altre prendono a prestito i loro principi: la si chiama ontologia o scienza dell'essere o
metafisica generale ». Il carattere sperimentale della nuova f. (« questo spirito filosofico, che oggi è di
moda, che tutto vuol vedere e nulla supporre... », dice ancora d'Alembert) è tenuto fermo (almeno in linea
di principio) anche da un Holbach, che è stato spesso accusato di dogmatismo. I « discepoli della natura »
così dicono nel Système de la nature, II: « Noi non siamo sicuri che di ciò che vediamo ; noi non ci
arrendiamo che all'evidenza; se abbiamo un sistema, esso non è fondato che su dei fatti. Noi non
percepiamo in noi stessi e dovunque che materia, e ne concludiamo che la materia può sentire e pensare.
Noi vediamo nell'universo accadere tutto per leggi meccaniche, per combinazioni, modificazioni della
materia, e non cerchiamo altra spiegazione dei fenomeni, che quella che ci presenta la natura*. Questo «
sperimentalismo » è anche alla base di una valutazione alquanto limitativa delle matematiche agli effetti
della conoscenza della natura. Diderot è polemico contro un uso da lui ritenuto illegittimo e « metafisico »
delle matematiche nelle scienze (cfr. De l'interprétation de la nature specialmente all'inizio), e lo stesso
d'Alembert dice che le astrazioni matematiche facilitano la nostra conoscenza della natura (degli enti naturali
oggetto delle nostre sensazioni), ma che « sono utili soltanto se non ci si limita ad esse » (Discorso
preliminare dell'Enciclopedia). E poco dopo: « Il solo e vero modo di filosofare in fisica consiste o
nell'applicazione dell'analisi matematica alle esperienze, o nella sola osservazione illuminata dallo spirito del
metodo, aiutata talvolta da congetture, quando possono fornire dei punti di vista utili, ma severamente
liberata da ogni ipotesi arbitraria ». Che è in sostanza una ripresa dell'esigenza baconiana dell'esperienza «
letteraria ». Il sapere illuministico è rivolto a fini pratici (anche questo motivo è baconiano), è un sapere
eminentemente utile. E la f. è considerata (e vissuta) come un fattore essenziale di demistificazione, di
liberazione e di progresso.

La polemica contro le costruzioni metafisiche continua in Kant, e in lui raggiunge la sua forma definitiva.
Kant definisce dogmatiche tutte le metafisiche che non presuppongano una critica della facoltà di conoscere,
e cioè in sostanza tutte le metafisiche della storia del pensiero fino a lui. Il torto di queste metafisiche è stato
quello di essersi avventurate nel campo del soprasensibile, senza tener conto del fatto che nessuna
conoscenza è possibile senza l'intervento della sensibilità, che sola può attestare la presenza dell'oggetto
conosciuto. Di fronte a tali costruzioni è inevitabile l'insorgere dello scetticismo, il quale peraltro si limita a
rilevare gl'insuccessi della ragione, ma anch'esso senza una critica precedente di essa. Kant fornisce questa
critica, nella quale stabilisce i limiti di validità delle operazioni della mente, oltre a descrivere la struttura
della mente stessa. E considera i risultati ottenuti come definitivi e completi (cfr. Critica della ragion pura,
Prefazione alla prima edizione), e tali da consentire l'attuazione di una nuova metafisica, ossia di una
metafisica critica e non più dogmatica. Il termine metafisica acquista così un significato positivo. E si riferisce
al sistema della ragion pura, ma può anche riferirsi a tutta la f. della ragion pura compresa la critica. Di fatto,
al di là della terminologia, la nuova metafisica è la filosofia critica nei suoi risultati positivi, e da essa
derivano la metafisica della natura e la metafisica dei costumi (e Kant scrive l'una e l'altra), con riferimento
all'uso speculativo e all'uso pratico della ragione. In queste si enucleano i principi razionali puri (cioè non
empirici, non dipendenti dall'esperienza, e anzi fondanti l'esperienza), che presiedono alla conoscenza delle
cose e determinano la volontà. Carattere essenziale di queste metafisiche, e della f. in genere, è che la f.
procede per analisi e non per costruzione. A questo proposito la f. viene da Kant nettamente distinta dalla
matematica come una conoscenza per concetti si distingue da una conoscenza per costruzione di concetti
(ossia per operazioni dell'intelletto che siano nello stesso tempo intuitive), onde l'evidenza immediata delle
verità matematiche di fronte alle verità filosofiche, che sono bisognose di una solida deduzione. Evidenza
immediata delle verità matematiche dovute al fatto che esse non concernono cose esistenti (oggetto di
possibili percezioni), ma essenze, quasi-oggetti intuibili dalla mente. In altri termini, le proposizioni
matematiche sono fornite di una evidenza immediata che manca alle proposizioni filosofiche, le quali
procedono per soli concetti, discorsivamente. Il geometra, per esempio, mostrerà subito il rapporto che c'è
in un triangolo fra la somma degli angoli e l'angolo retto, operando direttamente sulla figura e, per questa
via, giungendo a conclusioni chiare e universalmente valide. Ma il filosofo che dovesse dimostrare, poniamo,
che ogni mutamento ha la sua causa, dovrebbe fare riferimento all'esperienza e solo dopo concludere che
quella proposizione non deriva dall'esperienza, ma rende possibile l'esperienza e la fonda, ossia è una
proposizione a priori. Ora il risultato della critica è che essa limita l'ambito della conoscenza scientifica e della
conoscenza in generale al mondo dei fenomeni, ma lascia aperto il tradizionale (e ineliminabile perché
connaturato all'uomo) campo della metafisica a un diverso uso della ragione, quello pratico. In questo
campo l'uomo s'incontra coi problemi della libertà del volere, dell'immortalità dell'anima, dell'esistenza di Dio,
la cui soluzione è essenziale alla vita morale: e per Kant l'uomo è essenzialmente uomo agente: « lo scopo
ultimo della natura saggia e provvedente nella costituzione della nostra ragione consiste soltanto nel morale
s (Critica della ragion pura, Dottr. trasc. del metodo, cap. IL sez. I, capoverso VI). Ora la vita morale risolve
positivamente quei problemi e fonda il leibniziano regno della grazia. Li risolve positivamente in base alla
razionalità dei principi morali che regolano (devono regolare) le azioni. Ora è impossibile pensare che azioni
razionali non abbiano una qualche efficacia sul piano dell'imprescindibile e supremo fine della nostra natura,
ossia la felicità. L'azione morale non avrebbe senso se l'agente non potesse sperare che essa non finisca per
dargli la felicità. La felicità non è, beninteso, il movente dell'azione morale (per essenza disinteressata), ma
la sua conseguenza, il suo complemento necessario. I problemi metafisici sono così risolti sul piano della
fede, ma della « fede razionale ». Non è una soluzione teoretica (una conoscenza), che sarebbe impossibile
dati i risultati della critica (e del resto toglierebbe forza e originalità alla vita morale), ma una soluzione
pratica, una certezza pratica, un presupposto (che è altra cosa da una prova) necessario ai fini della ragione
pratica. L'uomo dunque, in quanto uomo teoretico, è in grado di pensare l'incondizionato fondamento della
totalità reale, ossia le tradizionali nozioni della metafisica (pensare, beninteso, che è altra cosa dal
conoscere, perché individua solo una possibilità logica attraverso l'uso analogico delle categorie) e, in quanto
uomo pratico, di assumere come certezze queste nozioni. Le quali dunque non sono il fondamento della vita
morale, ma anzi sono fondate dall'immediata evidenza razionale implicita nella vita morale. Abbiamo così due
mondi, il mondo della natura con le sue leggi scientifiche e il mondo della libertà con la sua fede razionale e
il suo accesso al soprasensibile. Ora Kant si pone il problema della conciliazione di questi due mondi, di una
unità di entrambi : « Sebbene vi sia un immensurabile abisso tra il dominio del concetto della natura, o il
sensibile, e il dominio del concetto della libertà, o il soprasensibile, in modo che non è possibile nessun
passaggio dal primo al secondo (mediante l'uso teoretico della ragione), quasi fossero due mondi tanto
diversi, che il primo non potesse avere alcun influsso sul secondo ; tuttavia il secondo deve (soli) avere un
influsso sul primo, cioè il concetto della libertà deve realizzare nel mondo sensibile lo scopo posto mediante
le sue leggi, e la natura, per conseguenza, deve (muss) poter essere pensata in modo che la conformità alle
leggi, che costituiscono la sua forma, possa almeno accordarsi con la possibilità degli scopi, che in essa
debbono essere realizzati secondo le leggi della libertà» (Critica del giudizio, Introduzione, II). Questa
conciliazione è possibile attraverso l'uso della facoltà del giudizio, che riflette sui fini che incontra nella
natura e li pensa secondo il principio di una causalità intenzionale che agirebbe nella natura stessa. La
teologia morale avrebbe così una conferma nella teleologia fisica. Il finalismo è però un principio di
esposizione e di comprensione, non di spiegazione, è un principio regolativo, non costitutivo. In altri termini
la conciliazione dei due mondi, sensibile e soprasensibile, pur essendo legittima e in certo modo necessaria
all'uomo, resta pur sempre ipotetica e problematica. Si stabilisce con ciò che quanto veniva postulato in sede
di filosofia morale, ossia un mondo, in ultima istanza, in armonia con l'azione morale, un mondo perciò
sensato e non neutro e puramente fattuale come quello delle scienze propriamente dette, è ora concepibile
mediante una forma di giudizio diversa da quella dei giudizi scientifici. Tale giudizio, non coglie l'essenza
delle cose, ma ipotizza che sia sensata. Questa insistenza sul i come se » da parte di Kant è dovuta al suo
rigoroso attenersi ai risultati della critica e, nel medesimo tempo, alla preoccupazione di non conferire al
valore uno statuto simile a quello del fatto e con ciò cadere in una forma di determinismo e quindi di
compromettere l'autonomia della ragione e la libertà dell'uomo. A questa preoccupazione si riallaccia la
filosofia di Fichte che decisamente pone il primato del valore sul fatto, del dover essere sull'essere: il
fondamento pratico è posto alla base del filosofare. Il filosofema è il risultato di una vera e propria scelta
consapevole. La libertà umana, e quindi l'io come principio della f., è una fede : « Io voglio essere autonomo
e per questo motivo mi ritengo tale. Questa convinzione è però una fede. Quindi la nostra filosofia parte da
una fede; e lo sa. Anche il dogmatismo, il quale, se è conseguente, fa la medesima affermazione, parte
ugualmente da una fede (nella cosa in se'); solo che comunemente non lo sa. Nel nostro sistema si pone sé
stessi a fondamento della propria filosofia, per questo essa sembra senza fondamento a colui che non è in
grado di farlo ; ma lo si può rassicurare in anticipo, che egli neppure altrove troverà alcun fondamento se
non è capace di procurarselo o non se ne contenta i (Il sistema della dottrina morale l). Hegel polemizza
innanzitutto con la concezione del conoscere come strumento per impadronirsi dell'assoluto, concezione che
implica una separazione, una linea di divisione tra conoscere e assoluto. Con ciò il conoscere, ponendosi
fuori dell'assoluto e quindi fuori della verità, pretende poi di essere veridico. In realtà « l'Assoluto solo è
vero, o il Vero solo è assoluto » (Fenomenologia dello spirito, Introduzione). Tuttavia il punto di vista
dell'assoluto, ossia della scienza, non si conquista immediatamente, ma presuppone una sua giustificazione
(in ultima istanza una giustificazione storica), rappresentata dalla descrizione del percorso che la coscienza
umana fa dalle forme più elementari alle più complesse fino a raggiungere un grado di consapevolezza che
le consente di far scienza. Questa descrizione è oggetto della Fenomenologia. La Fenomenologia percorre
una serie di esperienze, attraverso le quali l'uomo – che per Hegel è l'uomo greco, romano, cristiano,
razionalistico-francese, tedesco nel senso di espresso dalla filosofia classica tedesca – conquista la
consapevolezza della sua libertà, ossia si libera dell'oggetto come di qualcosa di estraneo e misterioso e si
sente uomo di questo mondo e sente questo mondo come suo. Giunto a questa consapevolezza egli ripensa
il cammino ed
enuclea da esso i concetti maturati attraverso quelle esperienze. La logica e le filosofie della natura e dello
spirito sono appunto il risultato di queste elaborazioni, il cui contenuto è però quello stesso delle esperienze
descritte nella Fenomenologia: muta il grado di astrazione. Ed è questo, ed è questa situazione – che
corrisponde alla situazione dell'Europa post-rivoluzionaria e napoleonica – che dà luogo al sapere assoluto,
un sapere cioè che ha in sé soltanto la sua misura, e che è un sapere storico, bene ancorato al tempo di
Hegel. Esso scopre che il cammino percorso dall'umanità – che è poi una parte ben selezionata dell'umanità
– è un cammino sensato, che ha realizzato la progressiva presa di coscienza della libertà umana ed è perciò
razionale. I concetti della filosofia sono l'espressione di questa razionalità. La quale razionalità non è dunque
il risultato di un atto della mente, ma è razionalità oggettiva, realizzata, che il pensiero rispecchia senza
aggiungervi, da parte sua, ingredienti. Naturalmente questo non significa che tutto ciò che esiste è
razionale : il razionale è ciò che nella realtà è più significativo, è portatore di senso. E il senso è appunto
dato da quel processo onde l'uomo ha acquistato coscienza della sua libertà. Da questo punto di vista la
filosofia hegeliana è una interpretazione del corso storico, è una totalizzazione che lascia fuori dei contenuti
accidentali (accidentali rispetto a ciò che Hegel interpreta come sensato). Fare filosofia è dunque
comprendere, comprendere ciò che è stato. « La filosofia è il proprio tempo appreso col pensiero » (Filosofia
del diritto, Prefazione); non prescrive alcunché, e tanto meno predetermina. Essa arriva sempre tardi,
quando il processo reale è compiuto, ed anzi quando comincia ad entrare in crisi. Di fronte alle altre forme di
sapere, al sapere artistico, religioso, scientifico, la filosofia, come rivelatrice del razionale, potrebbe sembrare
una forma di sapere più perfetto: in realtà essa ripensa e comprende quelle altre forme di sapere,
enucleandone il senso in esse implicito, in una sorta di riflessione seconda (il filosofo della storia, per
esempio, non vede cose che allo storico sfuggono, ma riflette sui risultati del lavoro dello storico
mostrandovi nessi concettuali in esso presenti ma non esplicitati).

Per Comte la f. è in primo luogo riflessione sul sapere e quindi analisi delle tendenze e delle tecniche delle
varie scienze. Queste infatti vengono classificate secondo un ordine di decrescente generalità; non solo, ma
di esse sono qualche volta prescritti criteri da seguire, come quelli che meglio rispondono alla loro logica
interna, cioè all'attuazione della loro positività. Positività significa superamento delle due fasi antecedenti
dello sviluppo dell'intelletto (teologia, metafisica); una scienza è positiva quando rinuncia radicalmente alla
ricerca di cause, e stabilisce leggi, cioè relazioni costanti tra fenomeni, fa delle previsioni, è socialmente utile.
L'applicazione della legge dei tre stadi alla storia e alla società induce naturalmente Comte alla trattazione
anche degli altri problemi tradizionali della f., onde si enucleano dalla sua opera un'etica, una f. della
religione, una f. della storia, ecc. In Spencer la f. è intesa invece come la forma più generale del sapere,
unificatrice delle scienze e attinente alle nozioni dal più esteso contenuto. « Le verità della f. hanno dunque
con le più alte verità scientifiche la stessa relazione che ciascuna di queste ha con le verità scientifiche
inferiori. Come ogni più ampia generalizzazione della scienza comprende e consolida le più ristrette
generalizzazioni del suo dominio, così le generalizzazioni della f. comprendono e consolidano le più ampie
generalizzazioni della scienza » (Primi principi, Il § 37). Da ciò la trattazione di problemi quali l'indistruttibilità
della materia, la continuità del moto, la persistenza della forza, l'evoluzione.
Per Bergson la f. non è una scienza generalizzatrice, né una riflessione sulle scienze, ma è un'operazione
mentale che ci pone in un rapporto con le cose diverso rispetto a quello in cui ci pongono le scienze. F. e
scienza non rivaleggiano nel cogliere la realtà, ma, semmai, collaborano perché si riferiscono a due aspetti
fondamentali della realtà stessa. Alla scienza e alla metafisica – dice Bergson – spettano oggetti differenti :
calla scienza la materia e alla metafisica lo spirito » (La pensée et le mouvant, 1934, p. 44). La materia,
ossia gli elementi esteriori, spaziali, « distesi » delle cose; lo spirito, cioè l'interiorità delle cose, il movimento,
la tensione, la durata. La materia è oggetto dell'intelligenza, lo spirito dell'intuizione. Tuttavia l'intuizione,
coincidendo con la vita stessa delle cose, coglie la realtà nella sua pienezza. E nell'intuizione, metafisica e
scienza si congiungono : infatti in ciò che hanno di essenziale, cioè nelle loro autentiche scoperte, esse
hanno proceduto per intuizione (gli stessi sistemi filosofici, anche quelli apparentemente macchinosi, come il
sistema spinoziano, di fatto intuiscono aspetti essenziali della realtà). Si avrebbe per questa via una
metafisica diventata scienza positiva e una scienza cosciente della sua vera portata conoscitiva. Si prospetta
così un atto della mente capace di cogliere la realtà nel suo farsi e nel suo movimento, e quindi nella sua
verità, di contro a un modo di procedere analitico – che è delle filosofie ed è delle scienze come finora si
sono prevalentemente configurate – che deforma la realtà, rendendo fisso ciò che è fluido e in movimento. E
in sostanza questa l'atmosfera della reazione al positivismo, reazione, che rivendica alla filosofia una sua
autonomia e ricerca un modo di approssimarsi alla realtà che non sia quellogeneralizzante della legge e del
tipo. Lo stesso « Atto » di Gentile è nel medesimo tempo conoscitivo e creativo, anteriore alle distinzioni e
alle classificazioni. Per Croce la f. è il momento metodologico della storiografia, ossia lumeggia i concetti
direttivi dell'interpretazione storica. Ma, a rigore, f. e storiografia sono uno stesso atto spirituale (che dà
luogo al giudizio), e la distinzione è perciò soltanto didascalica. Per un altro verso poi la f., traendo a oggetto
della sua riflessione le categorie spirituali, le pone tra loro in un nesso organico necessario. E in questo
senso dunque viene ad avere un ufficio non puramente storico, ma in qualche maniera sistematico o
trascendentale. Rispetto alle scienze occorre distinguere il risultato della ricerca scientifica, in quanto viene
classificato, dallo studio del caso individuale (poniamo di un infermo o di un particolare problema scientifico):
tale ultimo studio produce anch'esso un giudizio a suo modo storico e quindi vero. Il classificare, lo
schematizzare sono successive operazioni semplicemente utili, a cui ricorre lo spirito astraente, ma senza
luce di verità. Anche per Windelband la f. ha un suo ambito di autonomia in quanto scienza critica dei
valori universalmente validi. In Husserl si riaffaccia l'idea della filosofia come scienza rigorosa : le essenze,
che secondo il suo metodo vengono intuite, non sono fatti né astrazioni tratte dai fatti, ma hanno la
caratteristica della purezza, paragonabile alle nozioni matematiche. Dunque forte accento antirelativistico (lo
storicismo è una forma di scetticismo), e tuttavia forte accento antioggettivista : l'oggettivismo delle scienze
ha qualcosa di dogmatico se pretende di esaurire l'oggetto compreso. Prima dell'oggettivazione c'è un
processo fluido, c'è il mondo della vita, che è il presupposto dell'oggettivazione. Si nota in ciò una certa
oscillazione della prospettiva teorica, nella quale oscillazione taluno (Ricoeur) ha creduto di vedere la
grandezza tragica dell'opera di Husserl. Non meno e anzi più vigorosamente di Husserl, Heidegger
polemizza con il pensiero oggettivante e calcolatore, e ciò in tutta la sua carriera filosofica, generalmente
considerata come comprendente due fasi fondamentali. In Essere e tempo egli mostra come le astrazioni
concettuali presuppongono le esperienze vissute, di cui quelle astrazioni sono i derivati non più vivi. Lo
spazio, per esempio, presuppone più intime esperienze spaziali, in base a cui, poniamo, il « sopra » è presso
il soffitto e gli occhiali o il ricevitore del telefono, apparentemente vicinissimi, sono in realtà irreperibili
perché immediatamente utilizzati per vedere e udire. E la seconda fase della sua filosofia è tutta una
polemica contro il pensiero oggettivante (la metafisica e lo spirito scientifico), che confonde l'Essere con
l'ente o con gli enti. Ed è l'Essere, e non più quel particolare ente che è l'uomo, al centro della sua
riflessione. Ora tale Essere è ben lungi dall'identificarsi con l'essere realissimo, perché è fluidità e
temporalizzazione, manifestazione e nascondimento. In sostanza è l'Essere possibile, le sue infinite
possibilità, che si sono manifestate, che non si sono manifestate, o che potranno manifestarsi, ed è dunque
per eminenza non mai totalmente presente, non mai circoscrivibile. Il possibile è perciò più alto del reale e lo
ricomprende. In entrambe le fasi del suo pensiero abbiamo dunque una posizione rigorosamente finiti-sta,
onde l'uomo tende verso l'Essere, o, inautenticamente, si allontana da lui, e un rigoroso antirazionalismo : il
pensiero discorsivo non ci avvicina ma ci allontana dall'Essere, verso il quale semmai tendono i poeti, o
meglio alcuni poeti, e la sapienza riposta in certe parole » originarie ». L'impostazione finitista è anche alla
base della filosofia ermeneutica (Gadamer), di evidente e confessata ispirazione heideggeriana. Essa prima
di comprendere riflette sulla comprensione, sulle condizioni del comprendere. E trova che comprendere è
interpretare, è quindi condizionato dalla situazione di chi interpreta. Ma se tutto è interpretazione nulla è
indiscutibile, tutto soggetto a revisione. Naturalmente questo potrebbe sembrare ovvio e non mai messo in
dubbio da alcuno, ma l'intento della filosofia ermeneutica è, ancora una volta, antioggettivista : essa nega le
assolute trasparenze. L'umile ascolto e non il superbo vedere è l'appropriata metafora del pensare. Di qui il
cadere di alcune illusioni filosofiche (vi ha insistito in particolare Ricoeur): la trasparenza del soggetto a sé
stesso (di Cartesio, di Fichte, di un certo Husserl), il sapere assoluto di Hegel (interpretate però queste
nozioni come qualcosa di statico e di inerrante).

L'antica idea della f. come analisi e come liberatrice da fattori di confusione concettuale si ritrova nella f.
analitica. Tale idea viene per es. espressa da Russell quando afferma che solo attraverso rigorosi metodi di
analisi è possibile purificare e trasformare, e con ciò rendere corrette e feconde, nozioni altrimenti vaghe e
approssimative e fonti di errori come intelletto, materia, coscienza, conoscenza, esperienza, causalità,
volontà, tempo. Da parte sua Wittgenstein afferma : « fine della f. è la chiarificazione logica del pensiero.
La f. non è dottrina, ma attività. Un'opera filosofica consiste essenzialmente in elucidazioni. Frutto della f.
non sono delle proposizioni filosofiche, bensì il chiarificarsi delle proposizioni » (Tractatus, 4.112). Nella
seconda fase del suo pensiero Wittgenstein parla di una pluralità di linguaggi, correlativi di altrettante «
forme di vita », ossia contesti culturali entro i quali quei linguaggi sono intelligibili (e con ciò sembra affiorare
una movenza hegeliana, oltre che ermeneutica). E Carnap osserva che i problemi metafisici – « ad esempio
la cosa in sé, l'assoluto, il trascendentale, l'idea oggettiva, la causa ultima del mondo, il non essere, ed entità
come i valori, le norme assolute, l'imperativo categorico, e così via (Sintassi logica del linguaggio) – sono
pseudoproblemi e le proposizioni correlative pseudoproposizioni. Bisogna dunque operare una purificazione
che elimini dalla filosofia gli elementi non scientifici, e con ciò la logica della scienza prenderà il posto « di
quell'inestricabile groviglio di problemi che è noto sotto il nome di filosofia* (ivi). Ayer dice egualmente che
il filosofo non deve ricercare principi primi, né enunciare giudizi a priori intorno alla validità delle nostre
credenze empiriche, ma limitarsi a lavori di chiarificazione e di analisi. Ed Hare concepisce l'etica soltanto
come studio del linguaggio della morale. Come si vede, siamo di fronte a un atteggiamento e a un concetto
sostanzialmente unici: c'è in primo luogo una valutazione delle f. quali si sono manifestate storicamente, che
ricorda quelle di un Cartesio o di un Kant (anarchia dei sistemi filosofici, crisi della metafisica); si asserisce
poi che la f. non ha un oggetto di discorso proprio, ma deve limitarsi ad analizzare il discorso delle scienze, a
demistificare il discorso metafisico, a rendere chiaro il linguaggio comune; l'analista chiarifica gli oggetti, ma
si astiene rigorosamente da ogni giudizio sugli oggetti chiarificati.

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