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LICEO SCIENTIFICO “A.

ROMITA”
CAMPOBASSO

ESAMI DI MATURITA’ A. S. 2010 – 2011

Tesina:

CRISI DELLE CERTEZZE DI INIZIO NOVECENTO

Candidata: Giulia PASSARELLA

Classe: V E
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Argomenti trattati:

ITALIANO

Pirandello, crisi d’identità dell’uomo contemporaneo;

INGLESE

Beckett “Waiting for Godot”;

ARTE

Crisi delle certezze del linguaggio e del pensiero: Surrealismo;

ASTRONOMIA

Hubble e la scoperta dell’espansione dell’Universo;

STORIA

La crisi del ’29;

FILOSOFIA

Marx, crisi del capitalismo.

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Introduzione

«C’è un solo mondo ed è falso, crudele, contraddittorio, corruttore, senza senso […]. Un mondo così
fatto è il vero mondo […]. Noi abbiamo bisogno della menzogna per vincere questa realtà, questa
“verità”, cioè per vivere […]. La metafisica, la morale, la religione, la scienza […] vengono prese in
considerazione solo come diverse forme di menzogna: col loro sussidio si crede nella vita .» Nietzsche
(1869) Frammenti postumi.

Il Novecento è il secolo del crollo delle certezze, dell’esaurimento di ogni residuo


positivistico, del crollo della metafisica, della relatività di ogni cosa. Possiamo usare il
termine “crisi”, a proposito della società e delle culture europee che si affacciano al
Novecento, per segnalare un insieme di fenomeni, accomunati dalla messa in discussione di
alcuni fondamentali presupposti della civiltà ottocentesca. In primis l’economia capitalistica
che passa dal capitalismo libero, capace di autoregolarsi attraverso il mercato, al capitalismo
monopolistico, caratterizzato da una forte integrazione fra economia (industrie) e politica
(stato). Viene meno l’identificazione tra scienza, verità e progresso, che sorreggeva il
modello del positivismo ottocentesco. A una scienza considerata potenzialmente capace di
pervenire alla descrizione “vera” del mondo, subentra una concezione della scienza come
costruzione “operativa”, metodologicamente fondata e soggetta a obbligo di coerenza, ma
limitata, nelle sue pretese di verità, dal carattere necessariamente “convenzionale” dei suoi
principi e proposizioni. Inoltre lo sviluppo del movimento operaio fa emergere il conflitto di
classe come dato strutturale della società borghese. L’alienazione sul posto di lavoro (in
particolare nelle fabbriche) tende ad estraniare la persona, ad omologarla alle altre, a farle
perdere la propria identità.
Si arriva dunque alla perdita della propria individualità, alla crisi d’identità dell’uomo
contemporaneo di cui Pirandello si fece il maggior portavoce.

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ITALIANO

Pirandello e la crisi d’identità dell’uomo contemporaneo

L’umorismo

L’elaborazione della poetica dell’umorismo avviene fra il 1904, data delle due premesse
iniziali de “Il fu Mattia Pascal” che gettano già le basi della nuova poetica, e il 1908, anno in
cui esce il volume l’Umorismo. L’umorismo pirandelliano è l’espressione del pensiero e della
cultura del relativismo filosofico il quale presuppone sia la messa in discussione del
positivismo, sia delle ideologie romantiche. Del positivismo Pirandello rifiuta il criterio della
verità oggettiva, garantita dalla scienza; del Romanticismo l’idea della verità soggettiva e
della centralità del soggetto. Entrano in crisi tanto soggettività quanto la oggettività, ed è il
concetto stesso di verità che viene posto radicalmente in questione. Ne deriva un assoluto
relativismo che sul piano artistico trova elaborazione nella poetica pirandelliana
dell’umorismo. Anche se Pirandello tenta di darle un fondamento eterno e ontologico, in
realtà la poetica dell’umorismo nasce da una riflessione sulla modernità. La stessa
contrapposizione fra l’arte umoristica e quella epica e tragica, di cui si parla nell’Umorismo,
deriva dalla constatazione che nella modernità la poesia fondata sul tragico e sull’eroico non
è più possibile. Le categorie di bene e di male, su cui si basava la tragedia, sono infatti
venute a mancare. Non esistono più parametri certi di verità, perciò l’umorismo non
propone valori, ma un atteggiamento esclusivamente critico, e personaggi problematici,
inetti nell’azione pratica; mette in rilievo le contraddizioni e le miserie della vita, irridendo e
compatendo allo stesso tempo. L’uomo contemporaneo, non avendo più valori su cui
fondare il proprio agire, vive creandosi delle illusioni. L’illusione fa si che noi ci vediamo non
quali siamo, ma quali vorremmo essere. L’umorista scompone l’illusione e ne scopre il gioco.
L’ipocrisia è alla base del vivere sociale perché è più facile attraverso una comune menzogna
conciliare tendenze contrastanti. L’umorista toglie la maschera all’ipocrisia e mostra il suo
vero volto. Quanto più si è deboli tanto più si sente il bisogno di ingannare gli altri
simulando la forza, l’onesta e così via. L’umorista svela quest’ inganno. Come si mente nella
vita sociale, presentandoci diversi da quelli che siamo, allo stesso modo si mente a noi stessi,
sdoppiandoci e moltiplicandoci, sfuggendo da un’analisi profonda dei veri aspetti della
nostra personalità. E’ l’umorista allora che compie quest’analisi.

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Vita e forma, maschere e maschere nude

È proprio per la sua attitudine alla scomposizione e alla conseguente analisi che l’arte
umoristica riesce così bene a evidenziare il contrasto tra forma e vita e tra personaggio e
persona. L’uomo crede che la vita abbia un senso e perciò organizza l’esistenza secondo
convenzioni. Sono questi autoinganni che costituiscono la forma dell’esistenza: essa è data
dagli ideali che noi ci poniamo, dalle leggi civili e dal meccanismo stesso della vita associata.
La forma blocca la spinta anarchica delle pulsioni vitali, essa cristallizza e paralizza la vita.
Quest’ultima è una forza profonda e oscura, un flusso continuo che fermenta sotto la forma
in cui noi ci fissiamo ma che riesce ad emergere solo nei momenti di malattia, di notte o
negli intervalli in cui non siamo coinvolti nel meccanismo dell’esistenza. L’umorismo
sottolinea ironicamente i modi in cui la forma reprime la vita e rivela gli autoinganni con cui
il soggetto si difende dalla forza sconvolgente dei bisogni vitali. Il soggetto è costretto a
vivere nella forma, non è più una persona integra, coerente e compatta, ma si riduce ad una
maschera (o a un personaggio) che recita la parte che la società esige da lui e che egli stesso
si impone secondo i suoi ideali morali. Proprio per questo nell’arte umoristica non sono più
possibili né persone né eroi, ma solo maschere o personaggi. Il personaggio ha davanti a sé
solo due strade: o sceglie l’ipocrisia, l’adeguamento passivo alle forme, oppure vive
consapevolmente, amaramente e autoironicamente, la scissione tra vita e forma. Nel primo
caso è solo una maschera, nel secondo diventa una maschera nuda dolorosamente
consapevole degli autoinganni propri e altrui, ma impotente a risolvere la contraddizione
che pure individua. In questo caso interviene la riflessione e il personaggio più che vivere, si
“guarda vivere”, diventando cosi il cosiddetto “forestiere della vita”.

Dal comico all’umoristico

Chi si guarda vivere non compatisce solo gli altri, ma anche se stesso. E’ proprio questo
distacco riflessivo che distingue l’umorismo dalla comicità. Nel comico infatti è assente la
riflessione perché nasce dal semplice e immediato “avvertimento del contrario”; la risata
nasce dall’avvertire che una situazione o un individuo sono il “contrario” di come
dovrebbero essere. L’umorismo invece è il “sentimento del contrario” e subentra quando si
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riflette sul perché quella situazione o quell’individuo sono il contrario di come dovrebbero
essere e così al riso si sostituisce il sentimento amaro della pietà. Il passaggio dal comico
all’umoristico è quindi il passaggio dall’avvertimento al sentimento. Fu lo stesso Pirandello a
darci la distinzione tra i due momenti del comico portandoci ad esempio la figura della
vecchia imbellettata che cito qui di seguito:

“Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti di non si sa di quale orribile manteca, e
poi tutta goffamente imbellettata e parata di abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che
quella signora è il contrario di ciò che una vecchia signora rispettabile dovrebbe essere. Posso
così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è
appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce
che forse quella signora non prova nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che
forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente si inganna che, parata così, nascondendo
così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a se l’amore del marito molto più giovane di lei,
ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me,
mi ha fatto andare oltre a quel mio primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel
primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è
tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico”.

Il Fu Mattia Pascal

Il romanzo più famoso di Pirandello è sicuramente "Il Fu Mattia Pascal". Mattia Pascal è un
piccolo borghese che si trova imprigionato nella "prigione" di una famiglia insopportabile e
di una misera condizione sociale: la sua aspirazione è fuggire dal piccolo paese in cui vive
per ottenere l’agognata libertà. Inaspettatamente una serie di coincidenze favorevoli lo
aiutano: vince un ingente somma di denaro al casinò di Montecarlo e contemporaneamente
i suoi familiari lo ritengono morto, avendolo riconosciuto in un cadavere ritrovato in città.
Mattia decide di approfittare della situazione, fugge dalla sua identità e per un certo periodo
viaggia. Sente poi la necessità di una vita stabile, così, attribuendosi una nuova identità sotto
il nome di Adriano Meis, si stabilisce in una casa a Roma. Ben presto si accorge che questa
libertà non è totale e avverte la mancanza di un'esistenza sicura e tranquilla, con fondamenti
stabili, di una casa tutta sua e di un passato pieno di ricordi. Nel rapporto tragicomico con
l’umanità varia della pensione del signor Anselmo Paleari, Mattia Pascal capisce che il suo
tentativo di crearsi una nuova identità, autentica e libera è fallimentare, perché la libertà è
più costrittiva di una prigione, il passato non può essere dimenticato e una vita senza affetti
e legami non può definirsi tale. Così, dopo la simulazione del suicidio di Adriano Meis, cioè
la sua seconda morte, Mattia Pascal decide di riacquistare la sua originaria identità e torna al
paese. Qui però la realtà è cambiata, gli abitanti non lo desiderano più, la moglie si è rifatta
una vita con il suo migliore amico: Mattia Pascal allora si trasforma per l’ultima volta e
decide di tornare a vivere isolandosi dalla collettività, nella biblioteca ricavata nell’abside di
una chiesa sconsacrata. Ritrovata la pace e perduta la felicità, Mattia Pascal comincia a
ricordare e a ricostruire la sua storia, nella condizione di forestiere della vita.

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E' durante il soggiorno di Adriano Meis a Roma che veniamo esplicitamente a contatto con
la filosofia umoristica di Pirandello: qui infatti Anselmo Paleari espone al suo ospite due
originali teorie, che la critica usa chiamare come strappo nel cielo di carta e lanterninosofia.
Mettendo a confronto il teatro classico con il teatro moderno, il signor Paleari propone al
protagonista una riflessione sulla differenza tra uomo antico, di cui emblema è Oreste, e
l’uomo moderno, rappresentato da Amleto. Oreste, che vendica l'onore tradito del padre
uccidendo la madre, è convinto di conoscere una realtà assoluta ed eterna, di sapere
distinguere tra bene e male. Ma se nel momento in cui Oreste, uomo certo e risoluto, sta
compiendo la sua vendetta, si aprisse uno strappo nel cielo di carta della scenografia, che
rompesse l'uniformità del fondale, egli rivolgerebbe ad esso lo sguardo e diventerebbe
Amleto, uomo dubbioso e incerto. Infatti basta un nulla per mettere in crisi le costruzioni
che noi stessi creiamo per mascherare il nulla che sta dietro al nostro "cielo di carta". Oreste
è abituato a considerare vero ciò che non lo è, quello strappo lo costringe in una realtà
straniante e priva di certezze. Sempre Paleari mostra la non fondatezza delle nostre
costruzioni ideologiche e religiose, tramite la filosofia del lanternino. Il sentimento della vita
e del mistero spingono l’uomo a cercare basi stabili e durature, che crede di trovare nel
progresso, nella tecnica, nella scienza, ma soprattutto nella fede religiosa. Ogni uomo separa
bene e male attraverso il proprio lanternino interiore, che traccia intorno a lui un cerchio di
luce più o meno ampio al di là del quale sta l’ignoto, il buio, che prende luce dai lanternoni,
cioè dalle grandi ideologie che orientano l’umanità. Se uno o più di questi lanternoni si
spengono, l’uomo si sente sperduto, come formiche che non trovano più la bocca del
formicaio. Mattia Pascal raggiunge la consapevolezza che la forma fa soffrire, ma è
indispensabile alla vita di ogni uomo; non diventa un filosofo ma, divenuto consapevole di
non potersi più illudere, scopre l’impossibilità di un processo di formazione individuale, così
diventa un umorista. Da questo romanzo esce quindi un uomo che recita ogni volta ruoli
diversi nella vita, un uomo che ha perso la sua personalità unica e permanente: il concetto di
individuo viene distrutto, perde la sua identità, fino a diventare nella sua forma estrema
uno, nessuno e centomila, che è appunto il titolo del secondo romanzo di successo di
Pirandello.

Uno, Nessuno e Centomila

"Uno, Nessuno e Centomila" è un romanzo di scomposizione della vita, perché assistiamo


all’autodistruzione di un individuo, causata dall’acquisita consapevolezza della impossibilità
di darsi una forma coerente ed autentica e della falsità dei rapporti che ci legano agli altri. Il
protagonista Vitangelo Moscarda entra in crisi quando la moglie gli fa notare che il suo naso
pende verso destra, particolarità che lui non aveva mai osservato. Da qui nasce lo sgomento
per le centomila immagini diverse con cui gli altri ci vedono, immagini fallaci e mai
corrispondenti al vero ("Ciascuno se lo poteva prendere quel corpo lì, farsene quel Moscarda
che gli pareva e piaceva, oggi in un modo o nell’altro, secondo i casi e gli umori "). Moscarda
arriva però alla terribile conclusione di non essere centomila solo per gli altri, ma anche per
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sé; emozioni e desideri ci condizionano a tal punto da farci cambiare continuamente forma,
fino a farci diventare solo una metamorfosi continua di noi stessi: è la crisi della persona, del
principio di identità. Moscarda decide di distruggere le immagini di sé che sono negli altri e
in lui stesso, ma per raggiungere tale obiettivo si deve irrimediabilmente estraniare dalla
realtà e da quelle credenze su cui si basa il nostro io. Rinuncia al suo nome per lasciare che
la vita si viva in lui, senza più sentimenti e memoria. Distrutta l'identità egli può ritenersi
libero, ma rinchiuso nella forma della disidentità che equivale alla follia: rinchiudendosi in
un ospizio si sottrae definitivamente al meccanismo della rappresentazione.

Il saggio Arte e coscienza d’oggi

Nella produzione di Luigi Pirandello antecedente alla poetica dell’umorismo, notevole è la


coscienza della crisi delle ideologie e dei valori culturali della tradizione ottocentesca, da cui
il poeta prenderà spunto per le riflessioni “umoristiche”. Nasce da questa constatazione il
saggio Arte e coscienza d’oggi pubblicato nel 1893, di cui si evidenzia il seguente brano:

«Crollate le vecchie norme, non ancor sorte o bene stabilite le nuove; è naturale che il concetto
della relatività d'ogni cosa si sia talmente allargato in noi, da farci quasi del tutto perdere
l'estimativa. Il campo è libero ad ogni supposizione? L'intelletto ha acquistato una straordinaria
mobilità. Nessuno più riesce a stabilirsi un punto di vista fermo e incrollabile. I termini astratti
han perduto il loro valore, mancando la comune intesa, che li rendeva comprensibili.
Non mai, credo, la vita nostra eticamente ed esteticamente fu più disgregata. Slegata,
senz'alcun principio di dottrina e di fede, i nostri pensieri turbinano entro i fati attuosi, che stan
come nembi sopra una rovina. Da ciò, a parer mio, deriva per la massima parte il nostro
malessere intellettuale. Aspettiamo, e invano, pur troppo! che sorga finalmente qualcuno ad
annunziarci il verbo nuovo [...]».

Nel saggio Pirandello descrive la crisi intellettuale e morale della sua stessa generazione
affetta da “inanismo”, “egoismo”, “spossatezza morale”, e incapace di elaborare nuovi valori,
dopo aver scoperto (come Pirandello stesso) la relatività di ogni cosa. In un vero e proprio
esame di coscienza del ceto intellettuale, la modernità appare all’autore un intreccio
contraddittorio di spinte e controspinte, senza vie d’uscita, «un continuo cozzo di voci
discordi», ciascuna delle quali appare condannata alla relatività del proprio punto di vista e
perciò incapace di aspirare alla verità.

Questo è anche ciò che succede ai due protagonisti dell’opera teatrale “Waiting for Godot”
(1954 trad. inglese), Vladimiro e Estragone, immobilizzati in un eterno aspettare qualcuno
che non verrà mai, ma che allo stesso tempo rappresenta l’unica via di salvezza alla loro
misera condizione.

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INGLESE

S.Beckett:” Waiting for Godot”

The plot

Divided into two acts, the Beckett’s play starts with the presence of two strange figure:
Vladimir (Didi) and Estragon (Gogo) who are trapped on the stage, endlessly waiting for a
third figure, the mysterious Godot. We find them standing by the side of a solitary road, in a
featureless landscape where the only landmark is a solitary tree. There they discuss about
their appointment -even without certainty of time and place- with Godot, who appears to
represent their only hope of escape from their situation. In the first time, they pass the time
speculating on the reasons for their condition, also briefly thinking about killing themselves.
However their conversation often became disjointed and fragmented. The monotony of the
scene is concisely interrupted by the appearance of Pozzo and his servant Lucky, whom
Pozzo treats with terrible cruelty. After they have left, a boy appears with a message saying
that Godot will arrive the next day. Vladimir and Estragon are alone again. The second act
takes place the next day but is just identical to the first, except for Pozzo who is now blind
and helpless. Even so, neither Pozzo, nor Lucky remember anything about the meeting of
the previous day with the two protagonists. The boy also returns with the message that
Godot will arrive the next day, but he, too, claims never to have met Vladimir and Estragon.
At the end of the play Vladimir and Estragon, after once again considering the idea of killing
themselves, finally made the decision to leave but remain standing where they are.

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The nonsense of the play

Rather than following the linear path of a traditional narrative structure, the play is based on
a structure of repetition and variation (the characters’ actions in fact have no real effect on
their situation, which remains more or less unchanged from the beginning to the end of the
play): the structure of the second act is symmetrical to the first; thus the audience have the
sensation that the few events which occur in the play have perhaps already happened, and
will happen many times again so that Godot’s arrival will be postponed indefinitely. Also the
characters, as the story, have no real sense; in particular they have no real personality or
consistent memory of who they are, and so each depends on the other to give him a sense
that he exists. Beckett uses his characters to play an elaborate language game: the words in
fact often have a double sense. They refer simultaneously to their everyday meaning and to
complex philosophical and metaphysical issues. The effect is often comic though its
meaning may be tragic, as in the case of their failed attempt at suicide. Beckett called the
play a “tragicomedy”: the same ideas and events are in the same breath, tragic and comic.

Who is Godot?

Despite his total absence, Godot is the major figure of the play. Some critics have suggested
that Godot refers to the absence of God in the modern world, but Beckett himself rejected
this interpretation. He claims that Godot is just the central absence around which the
characters structure their activity. His arrival is at the same time desired and feared. In a
sense Godot can be paralleled with the idea of “ending”. If Godot arrived there would be an
end, the absurd tragicomedy of Vladimir and Estragon’ existence would not have to go on.
However without his arrival they can’t leave the stage. Moreover, Godot can also be seen as a
word game: Go + dot (full stop) or Go. In this case they would be waiting for the instruction
telling them to go and for the dot or full stop which would end everything. Not by change,
the play ends with the words “Let’s go”.

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VLADIMIR:
Well? Shall we go?

ESTRAGON:
Yes, let's go.

They do not move.

Theatre of the Absurd

“Theatre of the Absurd” refers to a particular type of play which first became popular during
the 1950s and 1960s and which defines the human condition as basically meaningless.
The most important characteristics of this kind of theatre are the deliberate abandonment of
a rational series of phrases and the refuse of the logical consequential language.
The traditional structure composed by the events and their development is rejected and
substituted with an analogical succession of events, the one linked to the other with a
fleeting sketch, like an emotion or a state of nature.
The theatre of the absurd is characterized by meaningless repeated dialogues, built up
without logical connections and full of pauses and silences to involve the audience and make
them think about the human condition.

Se Samuel Beckett, con Waiting for Godot, suscitò scalpore anche a causa del linguaggio
utilizzato (frammentato, disorganico e spesso mancante di un senso unitario) è un pittore
surrealista, Magritte, che rappresenta attraverso le sue opere d’arte la crisi del linguaggio, in
quanto questo si trova del tutto svuotato della propria funzione interpretativo-
denominativa, liberandosi in una nuova autonomia.

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ARTE

Surrealismo: crisi delle certezze del linguaggio e del pensiero

Surrealismo
«Surrealismo, Automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente,
sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato dal
pensiero, in assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di qualsiasi
preoccupazione estetica o morale. (…) Tende a disfarsi definitivamente di tutti gli altri
meccanismi psichici e a sostituirsi a essi nella soluzione dei principali problemi della vita» (1924,
Andrè Breton, Manifesto del Surrealismo) .

«L’automatismo psichico», che è la chiave di volta delle teorie surrealiste, coincide con il
pensiero inconscio, quello che, una volta “liberato”, rivela la vera sostanza della vita e
dell’essere, spogliati di ogni condizionamento, di ogni norma etica o estetica imposta dalla
razionalità. La domanda “surrealista” consisteva nel chiedersi «come escludere il controllo
della razionalità dal segno e dalla forma?». I surrealisti sperimentano a questo proposito
numerose tecniche, tutte volte alla creazione di immagini che vadano oltre la realtà (sur-
reale) cosi come comunemente si presenta e rappresenta. Essi cercano una tecnica
“automatica”, un metodo per eludere il controllo razionale della mente (quello che Freud
aveva chiamato “io”) e passare per così dire dal profondo della mente alla mano.
Elaborarono cosi una serie di modi espressivi automatici e casuali, per quanto possibile; «fra
essi sono famosi il frottage (consiste nel passare la matita sopra un foglio, sotto il quale è
nascosto un oggetto: lo scorrere della grafite sul rilievo rivela e disegna l’oggetto nascosto) e
il gioco dei Cadavres exquis ( un lavoro di gruppo in cui ciascuno disegna il pezzo di un
corpo senza sapere che cosa ha disegnato l’amico, in modo da ottenere una mostruosa figura
antropomorfa)» (Vedovello, Meneguzzo 2003, p. 259).

René Magritte

René Magritte fu uno dei più grandi esponenti della corrente artistica del Surrealismo in
Belgio e uno dei più originali interpreti del movimento in Europa. Interessatosi inizialmente
al Futurismo e al Dadaismo, si avvicina poi alla Metafisica di De Chirico per darne una
personale interpretazione in chiave onirica per risalire al Mistero dell’universo. È questo
accostamento all’inconscio umano che gli permetterà di essere definito “l’artista dei sogni”.
Nell’arte di Magritte infatti, il pensiero onirico e irrazionale diventa tangibile sulla tela e,
attraverso un’accurata tecnica raffigurativa basata sul trompe l’oeil, egli gioca sullo
spostamento di senso tra segno e significato per rappresentare realtà di per sé assurde,
irreali, di sogno, che insinuano dubbi nello spettatore circa il reale stesso, ma che
comunicano il vero senso dell’universo.
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“I titoli dei quadri non sono spiegazioni dei titoli e i quadri non sono illustrazioni dei titoli (1946)”

Figura 1R. Magritte, La trahison des images, 1929, olio su tela, 60 x 81 cm, Los Angeles Country Museum of Art, acquisto Mr
& Mrs Preston Harrison

Perché a parlare nei quadri non sono le scritte delle opere, ma ciò che viene rappresentato e
le opere magrittiane rappresentano un linguaggio nuovo, un linguaggio che incarna la
propria crisi in quanto autonomo rispetto alla funzione denominativa e libero dal segno
pittorico stesso. L’opera d’arte è una lucida rappresentazione della crisi del linguaggio in
quanto tra segno ed oggetto non esiste più alcuna corrispondenza diretta. Per Magritte tra
l’oggetto rappresentato sulla tela e l’oggetto reale non vi è alcuna corrispondenza perché la
rappresentazione-di-un-cappello o la rappresentazione-di-una-pipa non possiede nessuna
caratteristica dell’oggetto-cappello o dell’oggetto-pipa: l’essere di stoffa, l’essere
tridimensionale, l’essere indossato o l’essere di legno, l’essere usata per fumare. Le immagini
in arte ingannano, tradiscono e l’artista per Magritte deve usare questo inganno a proprio
vantaggio per produrre uno “choc emotivo” nello spettatore e successivamente per guidarlo
ad una più profonda comprensione del reale stesso; è la realtà ad essere enigmatica,
misteriosa e l’arte di Magritte indaga con uno stile realistico il reale per comprenderne il
Mistero. La visione di oggetti svincolati dal rapporto ordinario segno-significato e collocati
in contesti metafisici e irreali conduce quindi lo spettatore ad un nuovo vedere e a un nuovo
pensare perché, “essere surrealista, significa bandire dalla mente il ’già visto’ e ricercare il
non visto (1947)” e il denominare in modo errato gli oggetti rappresentati testimonia una
capacità percettiva e cognitiva in grado di andare oltre l’apparenza stessa per cogliere il
Mistero dell’universo. L’arte di Magritte “è una completa rottura con le abitudini mentali
degli artisti prigionieri del talento, del virtuosismo e di tutte le specialità estetiche. È una
nuova visione, nella quale lo spettatore ritrova il suo isolamento e intende il silenzio del
mondo”; l’arte di Magritte stimola “l’intelligenza degli occhi” e, mantenendo il legame con la
dimensione onirica, diventa il fondale di teatro su cui il sipario si apre mostrando un nuovo

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modo di vedere e di pensare. “Negare le immagini è un modo di negare finalmente
l’oggettività del mondo” (Il Dialogo- Periodico di Monteforte Irpino). Ciò a cui mira Magritte
non è la ricerca di una spiegazione della realtà, ma il mostrarla nei suoi tratti enigmatici, nel
suo essere il Mistero; l’opera d’arte è il “dialogo silenzioso” tra l’artista, il Mistero e lo
spettatore, perché non è più immagine mimetica del mondo, ma immagine espressiva che
“porta fuori” il Mistero del mondo. L’artista, Magritte, è quindi colui che si sforza di
guardare oltre il visibile per cogliere il Mistero dell’universo e comunicarlo a colui che
osserva; un esempio eclatante che mostra lo stimolo magrittiano di estendere lo sguardo
dello spettatore oltre il “già visto” è l’opera La page blanche:

“anche a me piace vedere le foglie che nascondono la luna, ma se dietro di esse si riuscisse a vedere la
luna, sarebbe inaudito, la vita avrebbe finalmente un senso (1967)

Figura 2 R. Magritte, La page blanche, 1967, olio su tela, 64 x 56 cm, Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles

L’opera sollecita lo spettatore a vedere le foglie dietro alla luna e per guidare questo nuovo
modo di vedere rappresentativo dipinge sulla tela stessa una luna che “sta davanti” a delle
foglie; ovviamente nella realtà questa visione sarebbe impossibile, non c’è nulla che possa
stare dietro alla luna, se non un cielo stellato. La luna è, e sarà sempre, lo sfondo di qualsiasi
visione, ma Magritte si spinge oltre e, come vero promotore del motto surrealista
“L’immaginazione al potere”, dimostra che non ci sono limiti al pensiero perché la vera arte
pittorica “ha lo scopo di rendere perfetto il funzionamento dello sguardo, grazie a una
percezione visiva pura del mondo esterno attraverso il solo senso della vista. Magritte spezza
quindi il funzionamento meccanico del vedere e del pensare per risvegliare “l’intelligenza
degli occhi”, egli va alla ricerca di qualcosa che provochi “uno choc emotivo” nello spettatore
per insegnargli a vedere il pensiero. Per Magritte ciò che conta è la corrispondenza cognitiva
a livello emotivo tra l’artista e lo spettatore, se, infatti, pensare un’immagine vuol dire vedere
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un’immagine, vedere un’immagine significa vedere il pensiero stesso di chi l’ha creata.
L’artista belga fa dei trompe l’oeil la prerogativa della propria arte perché, solo attraverso
un’arte che illude, che spinge all’illusione ottica, è possibile mostrare come sia sottile il
legame tra il pensiero e la percezione. Le opere di Magritte stimolano quindi “l’intelligenza
dell’occhio” per cogliere ciò che nella natura si cela: tutto è Mistero, tutto evoca; ma è lo
spettatore a voler cercare questo senso enigmatico del reale, a lasciarsi guidare dall’artista ad
una visione oltre l’ordinario. Nelle sue opere l’ombra e la luce compaiono in contemporanea
per testimoniare la compresenza dell’atto cosciente e dell’atto incosciente del pensiero. Lo
spettatore si trova quindi sospeso a metà tra la dimensione della veglia e la dimensione del
sogno, a metà tra l’osservazione della realtà ordinaria e il “disvelamento” del Mistero.
L’artista belga testimonia il potere della cognizione che, resa manifesta, rappresentata in
un’opera d’arte, guida l’occhio dello spettatore alla giusta visione del reale; egli non cerca un
senso metafisico dietro il reale, solleva semplicemente le “maschere” della realtà come se
non fosse che un “sipario davanti agli occhi” per condurre il pensiero oltre le abitudini
mentali del vedere. Magritte è l’artista che pensa vedendo: “E solo così la vita ha un senso”.

Ma se Magritte è l’artista che meglio rappresenta la crisi delle certezze del pensiero in
ambito artistico, sono tuttavia gli scienziati e gli accademici quelli che esprimono e
“demistificano” in maniera più sconcertante le verità dell’Universo che ci circonda. I primi
anni del Novecento sono caratterizzati da innumerevoli scoperte in ambito scientifico; nel
1929 un astronomo statunitense, Edwin Powell Hubble, in seguito allo studio del moto di
allontanamento delle galassie, arrivò a dimostrare che l’Universo è in espansione.

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ASTRONOMIA

Hubble e la scoperta dell’espansione dell’Universo

«Equipaggiato dei suoi cinque sensi, l'uomo esplora l'universo attorno a lui e chiama l'avventura
Scienza.»

E’ probabilmente questa la frase che più di tutte ricalca la personalità di uno dei più
importanti e fondamentali scienziati del secolo scorso: Edwin Powell Hubble.
Il suo più grande successo fu la pubblicazione di una legge, nota col suo nome, che
dimostrava l’esistenza dell’espansione dell’universo, un concetto per l’epoca molto
innovativo (si riteneva infatti che l’Universo si arrestasse al Sistema Solare), divulgata nel
1929 e ancora oggi considerata valida. Ma facciamo un passo indietro: nel 1917 Einstein, a
seguito dei suoi lavori sulla teoria della relatività, era contestualmente arrivato agli stessi
risultati del collega statunitense, ossia alla dimostrazione di un universo in espansione.
Tuttavia, pensando che ciò non fosse possibile, introdusse una nuova e artificiosa forza,
detta “repulsione cosmologica”, che gli permise di salvare l’ipotesi di un universo
stazionario, ossia isotropo nello spazio e nel tempo (“Il più grande errore della mia vita” avrà
in seguito a dire lo scienziato tedesco). Tuttavia prima di iniziare a parlare della teoria
dell’espansione dell’Universo è necessario introdurre il discorso con un'altra grande scoperta
scientifica, antecedente alla Legge di Hubble: il cosiddetto redshift (o “spostamento verso il
rosso”). La spiegazione fisica di questo si basa sull’“effetto Doppler”, un particolare
comportamento dei fenomeni acustici. Quando un suono è in avvicinamento, la sua
lunghezza d’onda diminuisce, quasi si comprime, per poi aumentare, distendendosi, quando
il suono è in allontanamento. L’esempio più classico che in genere si riporta per spiegare
questo particolare fenomeno è quello dell’ambulanza: se questa si avvicina, avvertiremo il
rumore della sua sirena più acuto (lunghezza d’onda minore), quando si allontana più grave
(lunghezza d’onda maggiore).

Analogamente è possibile applicare l’effetto Doppler agli spettri stellari. Sappiamo che da
ogni stella proviene, ed è misurabile dalla Terra, uno spettro di assorbimento, come quello
mostrato in figura.

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Le linee nere sono caratteristiche: atomi uguali interposti tra la sorgente della luce e
l’osservatore generano sempre linee uguali. Gli spettri di assorbimento sono perciò anche
molto utili al fine di capire quali elementi costituiscono le stelle. Studiando i suddetti spettri
provenienti da galassie lontane si è però scoperto una particolarità: le linee nere
corrispondevano perfettamente a quelle campione, trovate in laboratorio, se non per il fatto
che erano sempre leggermente spostate verso il colore rosso. Poiché nel campo del visibile il
rosso corrisponde alla radiazione con lunghezza d’onda maggiore, si doveva dedurre che
queste galassie si stessero allontanando da noi, così come l’ambulanza dell’esempio di
prima.

Nel 1929 Hubble dimostrò che lo spostamento è tanto più evidente quanto più le galassie
sono lontane dal Sistema Solare. Questo movimento è chiamato moto di recessione e la
velocità con cui le galassie si allontanano, è espressa dalla Legge di Hubble: v=Hd, dove d è
la distanza dalla Terra e H è la costante di Hubble che esprime la rapidità con cui l’universo
si espande; attraverso la legge di Hubble si è notato che l’allontanamento rilevato è uniforme
qualunque direzione intorno a noi venga presa in esame: le galassie si allontanano non solo
dalla nostra Galassia, ma in generale l’una dall’altra. La scoperta di Hubble ha quindi un
importante implicazione: l’Universo si sta espandendo.

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Contemporaneamente alla scoperta di Hubble databile 1929, nel mondo “terreno” stava
accadendo un altro fenomeno di importanza mondiale: la crisi del sistema economico
capitalistico statunitense.

STORIA

La crisi del ‘29

Alla fine della prima guerra mondiale gli Stati Uniti vantavano nei confronti dei paesi alleati
un credito complessivo di circa 10.000 milioni di dollari, una cifra tale che consentiva alla
borsa di New York di scavalcare quella londinese. Tra il 1921 e il 1929 la produzione interna
era cresciuta del 43%. La crescita dei salari, fermata al 20%, era bilanciata dalla stabilità dei
prezzi; inoltre, mantenendosi tendenzialmente bassa, consentiva (come aveva già
dimostrato qualche anno prima Marx ne “Il capitale) la formazione di alti profitti per le
aziende. Nel corso degli anni Venti lo stato di benessere consentiva a molti americani di
permettersi uno stile di vita -the american way of life- invidiabile dagli europei. Lo stile di
vita americano era caratterizzato dai larghi consumi, dalla ricerca di divertimenti (il cinema
si era affermato proprio in quegli anni), dalla liberalizzazione dei costumi e
dall’emancipazione della donna. Tuttavia non mancavano in questa società di massa anche
gli aspetti meno positivi: il red scare - la “paura dei rossi”, il razzismo e il proibizionismo. La
larga disponibilità di risorse finanziare era indispensabile per la realizzazione del progetto
Dawes, che prevedeva prestiti economici a favore della Germania che aveva nei confronti
delle potenze europee, grossi debiti da risanare. Si realizzava in questo modo una
triangolazione che permetteva alla Germania di versare -grazie all’afflusso di capitali
americani- le quote delle riparazioni ai vincitori europei, i quali a loro volta potevano
onorare i debiti contratti con gli Stati Uniti durante la guerra. Già nel 1924-25, l’America
aveva conosciuto la frenesia della speculazione, quando in Florida erano stati lottizzati e
venduti a un vasto pubblico appezzamenti di terra destinati all’edilizia privata. Queste aree
fabbricabili erano passate di mano in mano a prezzi crescenti senza che nessuno edificasse
alcunché. Se infatti in principio questi terreni erano stati comprati perché era sicuramente
più piacevole trascorrere le vacanze in Florida rispetto che a New York, successivamente la
prospettiva delle vacanze era passata in secondo piano rispetto al desiderio di guadagno. A
partire dal 1927, in coincidenza con il ribasso del tasso di sconto, si era resa disponibile una
grande quantità di denaro a basso costo: gli speculatori iniziarono a contrarre prestiti con le
banche per investirli in borsa, sicuri di poterli ridare nel giro di poco tempo a causa del
rialzo dei titoli che ormai sembravano crescere per intrinseca virtù, senza che si attenessero
al reale andamento della borsa. «Caratteristica dell’azione speculativa è che, con il passare
del tempo, diminuisce enormemente la tendenza a cercare oltre il semplice fatto
dell’incremento di valore la ragione su cui esso è basato» (Galbraith). Fu in questi anni che
nacquero gli Investment Trusts, società di investimento basate su un meccanismo che
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spingeva ad investire anche persone dal reddito più modesto. Il risultato fu che il mercato
borsistico si impennò in maniera impressionante nell’arco di soli cinque anni. I guadagni
erano cosi facili che molti investitori che avevano finanziato la ripresa economica in
Germania, preferirono trasferire i propri capitali nella Borsa, ritirandoli dall’Europa.
L’impennata della borsa continuò fino al 24 ottobre 1929, il cosiddetto “giovedì nero”,
quando vennero scambiati al ribasso 13 milioni di azioni, in un clima di panico generale.
Attesa, disperazione, incredulità, erano le emozioni più frequenti sulle facce cadaveriche
degli ex speculatori, che arrivarono addirittura al suicidio il 29 ottobre (“martedì nero”) con
il crollo definitivo.

I motivi del crollo:

Friedman e Galbraith, due economisti americani, avevano due visioni contrastanti riguardo
il crack di Wall Street. Il primo supponeva che il crollo della borsa del 24 ottobre non fosse
che un effetto della crisi che da tempo stava investendo l’economia statunitense (già a
partire dall’estate del ’29 infatti, era evidente che l’offerta di beni aveva superato la
domanda: i consumi calavano e la produzione iniziò a scendere, ma la crescita delle
quotazioni non accennava a seguirli). L’altro riteneva, invece, che il crollo borsistico non era
stato lo specchio di una crisi in atto, bensì un potente additivo destinato a far precipitare
una situazione di per sé critica ma recuperabile e a conferire alla crisi stessa una durata e
una dimensione senza precedenti.
Di fatto:
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 La crescita dei salari operai fu notevolmente inferiore a quella dei profitti;
 La domanda di prodotti agricoli, aumentata durante la guerra, registrò una forte
contrazione che provocò una brusca caduta dei prezzi;
 La domanda interna non riusciva ad assorbire l’aumento della produzione industriale,
mentre il commercio internazionale era ostacolato dalla politica protezionista degli altri
paesi;
 Le quotazioni in borsa videro un aumento sbalorditivo tra il 1924 e il 1929.

Per favorire una ripresa della domanda, il governo decise una riduzione delle tasse che
tuttavia non riscosse il successo sperato. Intanto nel clima di malessere generale, l’indice di
disoccupazione raggiunse la cifra di 12,8 milioni di disoccupati.

Le dimensioni e la complessità della crisi non avevano precedenti; per giunta, il ruolo
dominante degli Stati Uniti nel mondo industrializzato avrebbe prodotto inesorabilmente
gravi ripercussioni sull’economia europea, che aveva negli Stati Uniti il suo punto di
appoggio principale.

Il New Deal

Nel 1936 con la pubblicazione della “Teoria generale dell’interesse e della moneta”
dell’economista inglese J. M. Keynes, l’economia statunitense vide finalmente il primo
barlume di salvezza. In questo saggio, infatti, Keynes esprime una teoria secondo la quale
l’eccessiva propensione al risparmio, tanto caro alla mentalità capitalistica europea, era
estremamente dannosa perché sottraeva capitali agli investimenti produttivi e,
all’occorrenza, alla ripresa economica, al rilancio della domanda e quindi al riassorbimento
della disoccupazione. Questa teoria fu presa in considerazione dal nuovo presidente
americano, il democratico Roosevelt, vincitore delle elezioni del 1933, che elaborò un vasto
programma di interventi (New Deal, “nuovo corso”) adeguandolo via via alle esigenze che si
presentavano. Riuscì a realizzarlo soprattutto grazie alla sua straordinaria capacità di
coinvolgere le grandi masse, facendole sentire parti vive dello Stato. Sotto stretto consiglio
di Keynes, lo Stato iniziò ad impegnarsi direttamente nell’economia, invertendo la direzione
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seguita fino ad allora dai governi repubblicani ossequiosi nei confronti del sacro principio
del laissez faire. Nell’immediato furono presi subito provvedimenti:

 Istituzione di una garanzia dei depositi dei singoli risparmiatori;


 Rafforzamento della Federal Reserve per consentirle di venire in aiuto alle banche in
difficoltà;
 Istituzione di controlli sul mercato azionario.

In una prospettiva più ampia furono varate iniziative a sostegno dell’agricoltura e


dell’industria (National Recovery Act). Gli interventi miravano da una parte a finanziare
grandi opere pubbliche, e dall’altra a controllare la produzione per ridurre la concorrenza e
stabilizzare i prezzi (fu varato anche un piano per assorbire la disoccupazione: Public Works
Administration). Vero simbolo del New Deal tuttavia, fu la Tennessee Valley Authority, un
ente federale che realizzò opere gigantesche per regolare il regime del fiume Tennessee,
sfruttandone le acque per la produzione di energia elettrica a basso costo.

Tuttavia, nonostante quasi nessuno avesse potuto prevedere questa enorme crisi,
esattamente sessantadue anni prima, Karl Marx dichiarò inevitabile in un futuro più o meno
prossimo, la fine del contemporaneo sistema capitalistico. Anche se non si può parlare
propriamente di “fine”, è possibile tuttavia definire il crollo di Wall Street come una “crisi
del sistema capitalistico”.

FILOSOFIA

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Marx: tendenze e contraddizioni del capitalismo

Marx interpreta la formazione sociale capitalistica attraverso l’analisi scientifica del modo di
produzione capitalistico. In questo modo, egli distingue il capitalismo dagli altri tipi di
società, soprattutto in relazione a due caratteristiche specifiche: la produzione di merci e il
plusvalore. Scrive Marx nel capitale:

«Il capitalismo produce i suoi prodotti come merci. Il produrre merci non lo distingue dagli altri
modi di produzione, lo distingue invece il fatto che il carattere prevalente e determinante del suo
prodotto è quello di essere merce […]. Il secondo tratto caratteristico che contraddistingue
specificamente il modo di produzione capitalistico è la produzione di plusvalore come scopo
diretto e motivo determinante della produzione. Il capitale produce capitale e fa ciò solamente
nella misura in cui produce plusvalore.»

Secondo Marx dunque, la caratteristica peculiare del capitalismo è costituita dal fatto che in
esso la produzione non è finalizzata al consumo, ma all’accumulazione di denaro.
Differentemente dalle società pre-borghesi, il cui ciclo economico si basava sulla formula
M.D.M. (merce- denaro- merce), il ciclo capitalistico è piuttosto descrivibile attraverso la
formula D.M.D’. (denaro- merce- più denaro), dove D’ sta per plusvalore. L’origine del
plusvalore, questa virtù che aumenta misteriosamente il denaro investito inizialmente, è da
ricercare nella produzione capitalistica delle merci; in altre parole, il plusvalore è il prodotto
del pluslavoro dell’operaio («merce umana»): è l’insieme del valore da lui gratuitamente
offerto al capitalista.
plusvalore
Saggio del plusvalore =
capitale variabile

Dove il capitale variabile (v) è il capitale investito nei salari degli operai.
Dal plusvalore deriva il profitto. Plusvalore e profitto per Marx, non sono la medesima cosa
in quanto il profitto, pur presupponendo il plusvalore, non coincide totalmente con esso:

plusvalore
Saggio del profitto =
capitale costante+ capitale variabile

Dove il capitale costante (c) è il capitale impiegato per i macchinari e per eventuali acquisti
di merci necessarie alla produzione. Poiché il capitalismo si regge sul ciclo D.M.D’., il suo
fine strutturale è la maggior quantità possibile di plusvalore. Ciò fa si che il capitalismo sia
un tipo di società retto dalla logica del profitto privato, anziché dell’interesse collettivo. Per
accrescere il plusvalore il capitalista in un primo momento prova ad allungare la giornata
lavorativa (plusvalore assoluto) ma poiché il rendimento degli uomini è inversamente
proporzionale alle ore di lavoro (ad un alta percentuale di ore lavorative il rendimento cala),
il capitalista ricorre ad un’altra soluzione, ovvero la riduzione di quella parte di giornata
lavorativa necessaria per reintegrare il salario (plusvalore relativo). Ovviamente a questo
deve corrispondere una maggiore produttività, perseguita attraverso l’introduzione nel ciclo
lavorativo della macchina, ovvero del «mezzo più potente per l’accorciamento del lavoro».
Tuttavia, proprio l’aumento della produttività dovuto alla miracolosa presenza della
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macchina, genera alla lunga il fenomeno ciclico della crisi di sovrapproduzione, che ha come
primo effetto la disoccupazione. La crisi di sovrapproduzione secondo Marx è la prima
contraddizione del capitalismo (che avrà la sua più celebre manifestazione con la Grande
crisi del 1929). Un’altra contraddizione –probabilmente la più importante- della società
capitalistica è la cosiddetta caduta tendenziale del saggio di profitto. Secondo questa legge la
diminuzione del saggio di profitto sarebbe dovuta allo squilibrio tra la crescita enorme del
capitale costante e quella molto tenue se non nulla, del capitale variabile. Il profitto risulterà
via via più scarso rispetto al capitale impiegato. Questi aspetti dipendono tutti da quella che
è la contraddizione di fondo del capitalismo, cioè dal contrasto tra le forze produttive, che
sono sempre più sociali, e il carattere privatistico dei rapporti di produzione e di proprietà.
Sarà a causa di queste contraddizioni che la borghesia entrerà in crisi e si scinderà: da un
lato ci sarà una minoranza industriale dalla gigantesca ricchezza e dall’immenso potere,
dall’altro una maggioranza proletaria sfruttata.

«La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un


punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato.
Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati.»
(K. Marx, Capitale, libro I)

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Riferimenti bibliografici

Salinari C. (1960). Miti e coscienza del decadentismo italiano.

Pirandello L. (1993) Il fu Mattia Pascal. Mondadori. Prima ed. 1904.

Thomson, Maglioni (2004). New Literary Links. Black Cat.

Vedovello, Meneguzzo (2006). Il tempo dell’arte. Ghisetti e Corvi.

Feyles, Neviani (2009). Geografia Generale. SEI.

Marchese (2009). Piani e percorsi della storia 3. Minerva Italica.

Abbagnano, Fornero (2007). Il nuovo protagonisti e testi della filosofia 3a. Paravia.

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